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1 Caro signor Antonio, lei si è sempre firmato «Dalfiol», mentre suo padre, suo nonno, il suo bisnonno e, su su per generazioni, tutti i suoi antenati si son sempre chiamati «Del Fiol». Evidentemente la forma da lei usata per il suo cognome è una variante, diciamo cosi, veneziana, dovuta alla penna di qualche scritturale del luogo poco in orecchio con la nostra parlata che allarga parecchio le vocali; quel medesimo scritturale, per esempio, avrebbe sentito, e scritto, «Pas» il mio cognome. È una variante, quella da lei scelta, che, per rispetto dei suoi vecchi, non mi sento di accogliere e pertanto la chiamerò sempre e solo «Del Fiol». La prego di comprendermi e di accettare, nella sua forma originaria, questo nostro bel cognome vecchio di secoli (e di accettare anche i ritocchi grammaticali che qua e là ho dato al suo testo). Grazie. Colgo l’occasione per ringraziare Roberta Giol in Rossetti, pronipote di sua figlia Luigia sposata con Marchetto Cimolai, che mi ha segnalato il suo scritto; per ringraziare Antonietta Cimolai «Marchetto», della predetta sua Luigia nipote, che tante informazioni mi ha dato; per ringraziare Adele Napolioni Cico, nipote dell’altra sua figlia (Adele sposata con Gio Batta Lauro Peruch), prima di tutto perché ha continuato a conservare con cura affettuosa lo scritto e la foto del bisnonno (rendendo cosi possibile questa pubblicazione), e poi per la cordiale collaborazione prestatami. Infine, caro signor Antonio, ringrazio ancora lei, questa volta a nome di tutti gli appassionati di storie nostre, per le MEMORIE che ci ha lasciato. Cordialmente, Nilo Pes

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Page 1: Caro signor Antonio, - digilander.libero.it · tutti gli appassionati di storie nostre, per le MEMORIE che ci ha lasciato. ... Purtroppo il primo bambino che ebbero morì subito dopo

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Caro signor Antonio,lei si è sempre firmato «Dalfiol», mentre suo padre, suo nonno, il suo

bisnonno e, su su per generazioni, tutti i suoi antenati si son sempre chiamati«Del Fiol». Evidentemente la forma da lei usata per il suo cognome è unavariante, diciamo cosi, veneziana, dovuta alla penna di qualche scritturaledel luogo poco in orecchio con la nostra parlata che allarga parecchio levocali; quel medesimo scritturale, per esempio, avrebbe sentito, e scritto,«Pas» il mio cognome.

È una variante, quella da lei scelta, che, per rispetto dei suoi vecchi, nonmi sento di accogliere e pertanto la chiamerò sempre e solo «Del Fiol». Laprego di comprendermi e di accettare, nella sua forma originaria, questonostro bel cognome vecchio di secoli (e di accettare anche i ritocchigrammaticali che qua e là ho dato al suo testo). Grazie.

Colgo l’occasione per ringraziare Roberta Giol in Rossetti, pronipote disua figlia Luigia sposata con Marchetto Cimolai, che mi ha segnalato il suoscritto; per ringraziare Antonietta Cimolai «Marchetto», della predetta suaLuigia nipote, che tante informazioni mi ha dato; per ringraziare AdeleNapolioni Cico, nipote dell’altra sua figlia (Adele sposata con Gio BattaLauro Peruch), prima di tutto perché ha continuato a conservare con curaaffettuosa lo scritto e la foto del bisnonno (rendendo cosi possibile questapubblicazione), e poi per la cordiale collaborazione prestatami.

Infine, caro signor Antonio, ringrazio ancora lei, questa volta a nome ditutti gli appassionati di storie nostre, per le MEMORIE che ci ha lasciato.

Cordialmente, Nilo Pes

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Mie carissime figlie.Miei carissimi generi e nipoti.Sotto il peso di tante sciagure, volli togliermi alquanto dall’ozio e

impiegare alcune ore dei miei passati dì per scrivere, come seppi e potei, ilcompendio della mia vita.

A voi, o miei cari, io dedico questa opera acciò, se vi darete la pena dileggerla, possiate conoscere quanto la mia esistenza fu travagliata.

Ben di meglio il mio cuore vorrebbe offrirvi e che valesse a porvi incondizioni di non essere, come siete purtroppo, non felici: ma dilaniatocom’è può far voti ferventi si, ma non produrre gli effetti desiderati.

L’immenso Signor Iddio, che ha rischiarato la tenebra con fulgida luce,può con la sua benedizione distruggere ogni male. Ordunque coraggio,preghiamolo tutti insieme ed Egli non permetterà che a lungo abbiamo apatire gli affanni dai quali voi ed io siamo combattuti.

Tutto vostroAntonio Del Fiol

Fontanafredda, 12 marzo 1883

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Nacqui a Venezia il 30 giugno 1817 da Maria Coan fu Giuseppe e daAntonio Del Fiol fu Pietro, in parrocchia S. Zaccaria e precisamente nellacasa ora di proprietà del signor Busetto Cav. Giovanni detto Fisola, la cuiporta d’ingresso esiste presso il cantone a destra sopra la terrazzetta dallaquale si discende mediante una scala di pietra che mette al vicolo chiuso dalrestello di ferro, e da questo si passa all’altro vicolo che conduce da un latoalla calle delle Rasse e dall’altro a quello degli Albanesi.

I miei genitori erano di famiglie agricole di Vigonovo, allora Comunedel distretto di Sacile, provincia di Treviso. Mia madre fin dall’adolescenzaimparò a disprezzare gli Austriaci perché da essi, durante i trambusti delleguerre contro i Francesi, ebbe a soffrire sevizie: fu battuta, spaventata, presaper i capelli, levata da terra, gettata come uno straccio.

Mio padre aveva abbandonato giovanissimo il paese natio, lasciandomadre e sorella scarse di mezzi per vivere: un tetto e qualche magropezzetto di terra. Nella città che un tempo veniva chiamata la Regina deimari entrò senza appoggi e senza relazioni. Caso volle che al suo giungereincontrasse un compaesano il quale lo accolse a dividere con lui fatiche estenti: sgobbare all’Erberia in qualità di facchini portando in giro perVenezia, alle varie botteghe di minuta vendita, canestri di pesce e corbe difrutta e di erbaggi (e fortunati se venivano scelti al posto dei tanti altri cheaspettavano!): mangiare, spesso e volentieri, cotti più o meno bene al fornoo bolliti, torsoli di cavolo (che all’Erberia era costume scartare): dormirepresso qualche prestinaio onde sottrarsi ai rigori del freddo e dell’umido,privi com’erano dei pochi quattrini necessari a pagare il fitto di un qualsiasimisero giaciglio.

Il compaesano, sia detto per inciso, in seguito fece fortuna ed ora la suafamiglia, sempre a Venezia, è diventata potente per denaro e dovizie e sivuole che possegga milioni di lire.

Mio padre, dotato di sensibilità squisita, dovuta forse a natura e forseall’istruzione ricevuta (povero contadino com'era sapeva leggere, scrivere efar di conto, cosa rarissima in quei tempi), pativa non solo sofferenzemateriali, ma anche morali: era crucciato sì, dai disagi e dagli stenti, ma piùancora dal pensiero che madre e sorella avessero a patire senza che luipotesse aiutarle. Così girava con le sue corbe per le vie della città sempreattento a cogliere ogni occasione di lavoro migliore. Un giorno in Rialtosentì che il governo austriaco, allora dominante, aveva ordinato alcunefortificazioni al Lido e cercava operai.

Con l’emozione di chi ha bisogno di prestar l’opera propria in modoqualunque pur di riuscire all’onesto conseguimento della mercede percampare e sovvenire alla propria famiglia bisognosa, si presentò e, accolta lasua domanda, accorse giulivo al lavoro quale badilante, con alacrità quasisuperiore alle sue forze indebolite.

La costruzione di quelle fortificazioni andò avanti a lungo e mio padre,grazie ad una perfetta economia, fu in grado di aiutare madre e sorella; spedìanzi loro qualche decina di lire in più, incaricandole d’impiegarlenell’acquisto di una piccola armenta, cosa che fecero.

Ed ebbero fortuna perché la giovenca ben presto diede una vitella che,per la copiosa quantità di latte della madre, divenne bella e commerciabilein pochissimo tempo. I sentimenti di mio padre erano generosi e nobili: per

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lui quella fortuna non era effetto di merito suo ma della Provvidenza,cosicché, tenuto conto che la giovenca avrebbe per alcuni mesi fornito unaquantità di latte sufficientissima ai bisogni della madre e della sorella,dispose che il ricavato della vendita della vitella fosse impiegato inbeneficenza.

* * *

Intanto il lavoro alle fortificazioni continuava e mio padre, riconosciutodai direttori operaio pieno di buona volontà e d’intelligenza, venne presceltoper un lavoro particolare, forse di sondaggio ai terreni, e mandato spesso alavorar da solo in località discoste. E qui un giorno, conficcando la vanga interra, urtò contro qualcosa che, liberata dalla terra che la ricopriva, si rivelòper una pentola di terracotta.

Una pentola di terracotta sepolta in un luogo deserto! Qualcosa dovevacontenere!

Mio padre, con diligenza ed ansia, fece forza con la vanga contro lapentola fino a romperla: oro! era piena d’oro! di manini e di altri oggettid’oro ad uso di femminile ornamento!

Senza frammetter indugio si diresse verso il soldato che ad una certadistanza se ne stava di sentinella e si sforzò, con i gesti, di fargli intenderequello che era capitato. Ma, dal soldato non capito o forse da questi nonpotendo essere abbandonata la consegna, raddoppiava i gesti avanzandosempre più, sino al punto di oltrepassare la linea di consegna della sentinellache, spianato il fucile, intimò con un «zurück» di ritirarsi. E mio padre siritirò, ma anche ritirandosi continuava a gestire, sicché la sentinella, colpitada quell’insistenza, con un grido chiamò il capoposto, che avvisò ilcomandante, che raccolse un drappello e venne a vedere.

Visto il tesoro, l’ufficiale fece immediatamente circondare il luogo, emio padre, di rigorosa sorveglianza e mandò un dispaccio al ComandanteGenerale della città. Il Comandante senza indugio si trasferì al Lido, scrisseprocesso verbale, raccolse il tesoro (consistente oltre che di oggetti d’oroanche di gemme in quantità) e, rivolto verso mio padre masticò qualcheparola che suonava:- Mio caro, tu molto galantuomo ma anche granminchione... E gli diede qualche moneta d’argento del valore di un fiorinocirca.

La scoperta del tesoro, e il modo come fu fatta, fece scalpore a Venezia,specialmente quando si costatò essere quell’oro e quelle gioie proprietà dialcuni orefici con bottega a Rialto, derubati tempo prima in seguito adapertura delle loro botteghe e scrigni con chiavi false.

La cosa mise in luce l’onestà di mio padre e gli meritò la simpatia dialcuni negozianti di Venezia che gli fecero varie offerte per averlo alleproprie dipendenze, per cui egli, ben sapendo che il lavoro alle fortificazioninon poteva durare sempre e che soprattutto non corrispondeva alle sueaspirazioni, accettò un’offerta di lavoro in calle delle Tasse, presso unafabbrica di aceto, ove un altro suo compaesano era già occupato.

Migliorata in tal modo la sua sorte e soddisfatto di quel lavoro metodicoe della fiducia che il principale gli andava sempre dimostrando, dopoqualche anno di continuato servizio si determinò a chiedere, ed ottenne, il

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permesso di recarsi a Vigonovo per visitare madre, sorella e giovenca.Fu in quell’occasione che s’invaghì di mia madre. Ottenuto dai genitori

di lei il consenso al matrimonio, si restituì lieto al servizio sospeso e dopoalcuni mesi ritornò a Vigonovo a sposarla, ritornando poi a Venezia.

Era atteso da compaesani in festa e l’allegria venne resa più viva da luimedesimo inquantoché, fornito di buona voce, la modulava cantandospiritose canzoni e villotte, che accompagnava da sé sulle corde di unavecchia chitarra.

Non è mio pensiero esagerare le doti di mia madre, trovo però doverosoricordare come ognuno che la conobbe riscontrò in essa tutte quelle doti chesi addicono ad un’ottima ed onesta donna, non disgiunte da altri doni dinatura e, posso asserire, di bellezza.

Era tra il medio e l’alto della persona, ben complessa e di forme benfatte; i suoi lineamenti erano delicati, i suoi capelli castano dorationdeggianti che cominciarono a divenire canuti solo dopo i sessant’anni; gliocchi cerulei, la carnagione lattea rosea.

Purtroppo il primo bambino che ebbero morì subito dopo la nascita.Intanto il signor Antonio Moro, proprietario della fabbrica di aceto,

venne assalito da grave malattia. Il funesto presagio fatto dai medicichiamati a curarlo costernò quanti lo conoscevano; costernò specialmente imiei genitori che per lui sentivano gratitudine e affetto, tanto più cheavevano motivo di pensare che la dipartita di quell’uomo dabbene potevariservar loro un brutto avvenire.

Mio padre, richiesto di assisterlo, non lo abbandonò se non quando, colmassimo dolore, gli chiuse gli occhi per sempre.

Fra lo strazio di tanta perdita e l’umore bisbetico dei presunti eredi, fra ilpianto dei dipendenti e degli amici, compiuto il funerale, i dipendenti ebberol’ordine di ritornare al loro posto.

Ed ecco uno scritturale avvicinarsi a mio padre ed al suo compaesano e,dopo qualche parola d’occasione, invitarli presso il notaio Erizzo a far attodi presenza all’apertura del testamento del defunto: avendo questi in piùincontri segnalato le loro premure, era da ritenere che non li avessedimenticati nel disporre le sue ultime volontà.

Commossi e maggiormente riconoscenti nei confronti del padrone mortoche non s’era dimenticato di loro, si presentarono al luogo fissato.

Colà c’erano già parecchie persone ed il notaio ad un certo puntodissuggellò una pergamena e, data lettura delle commoventi formalità deltestamento Moro ivi contenute, lesse anche queste testuali parole: «Inquanto al mio negozio con fabbrica di aceto in calle delle Rasse, lo lascio adAntonio Del Fiol e a Gio Batta Carnelutto, miei agenti, ai quali raccomandodi continuare fra essi con quell’armonia e accordo che ho sempreriscontrato.» Figurarsi lo stato d’animo dei due eredi che da dipendenti sitrovarono ad essere diventati padroni, e padroni di un avviatissimo negozio,lucroso di capitali e di attrezzi.

Per dire quanto redditizia fosse quell’industria, si pensi che a Venezia dasole tre ditte era conosciuto il segreto della lavorazione dell’aceto: dalladitta Moro, che era la principale, dalla ditta Gana, alle Fondamentadell’Osmarin, passata poi a Giovanni Del Fiol detto Moro, e dalla dittaTomas a Rialto. E queste tre ditte mantenevano d’aceto non solo l’interno

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della città. ma anche le isole vicine e vari luoghi della terraferma. Nonesagero se dico che il capitale veniva raddoppiato per lo meno quante volteveniva girato in un anno.

Non posso inoltre far a meno di ricordare che, nel presentire che la cittàdi Venezia sarebbe stata bloccata, mio padre e Carnelutto, oltre all’averriempito di generi il negozio ed i soliti depositi, ne riempirono altri presi inaffitto; e quei generi andarono venduti quasi del tutto prima che alla cittàfosse tolto l’assedio, e alcune partite ad un prezzo sette volte superiore aquello d’acquisto.

L’atto benefico del magnanimo Moro diede modo ai nostri eredi disoddisfare il proprio istinto, vale a dire beneficare molti bisognosispecialmente fra i compaesani.

Si è accennato prima al blocco di Venezia. Alla vigilia di esso un avvisodelle autorità invitava tutti coloro che non avevano domicilio legale in città,o che fossero mancanti di mezzi, ad uscire dalla città medesima, a meno chenon potessero offrire guarentigie sufficienti d’essere in grado di mantenersi.

Il timore del blocco fece previdenti molti abitanti agiati, cheacquistarono, a prezzi ancora discreti, generi di vittuaria in grande quantitàper le loro famiglie e per quelle a favore delle quali avevano prestato larichiesta garanzia. Anche i nostri eredi fecero così e si provvidero di generiper un necessario di molti mesi, estendendo il beneficio a favore di alcunialtri.

Ma, a misura che il tempo scorreva, i viveri a Venezia mancavanosempre di più, al punto che le strade, specialmente le Mercerie di SanMarco, erano coperte, di giorno e ancor più di sera, da indigenti affamati.

Era straziante vedere tanti disgraziati, tanti poveri vergognosi di ognietà, donne e uomini, chiedere l’elemosina, di qua e di là lungo la strada dalleMercerie dell’Orologio fino a Rialto; ed era commovente vedere quantierano i benefattori che li aiutavano. Gli abitanti di Venezia come sempreanche in quell’occasione si distinsero.

Finalmente Venezia fu aperta e, non dimentica delle umiliazioni patiteper opera dello straniero, a poco a poco riprese se non l’antico splendorealmeno il movimento ordinario e necessario per fornire i mezzi per vivere alsuo popolo oppresso e affamato.

Intanto mia madre nel principio dell’anno 1814 diede alla luce miasorella Teresa, che vive ancora a Venezia, al presente vedova del fu PietroValentini.

Soddisfatto mio padre di questo avvenimento, e soddisfatto pur ancodegli affari che andavano di bene in meglio, era tuttavia non esente da penequando pensava agli orrori cagionati e cagionabili dalla guerra.

Per esempio, nel periodo delle lotte fra Napoleone e l’Austria c’era undecreto che chiamava molti giovani a presentarsi sotto le armi, giovanidestinati a diventare carne da cannone.

Fra i colpiti da quel decreto ci fu un compaesano e parente di mio padre.Egli, mio padre, a cui non era ignoto il dolore dell’amico e parente, ungiorno gli disse:- Senti, Nane, non voglio più vederti tanto accorato. LaProvidensa me ga aiutà e mi vojo aiutarte ti. Vedi de rangiarte, trovaqualchedun, magari un colo storto, basta ch’el sia acetà militar in cambio de

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ti, e mi lo pagarò e depositerà quanti soldi che ocorarà.Nane, sorpreso e commosso, non sapeva che rispondere ma, capito che

mio padre non scherzava, rispose:- Mio caro Toni, te ringrassio ma bisognache te diga che no posso acetar la to oferta per la semplice razon che nopodaria mai tornarte indrio i to schei e gnanca pagarte i interessi.

-Eh via, ripigliò mio padre, no sestu a pien impiego con una discretazornada al Fontego de l’Aquaviva? No ti ga nessun impegno de famegia e isoldi ti me li tornarà sensa usura e sensa interessi a un tallero alla volta,quando che ti podarà.

E cosi Nane trovò il supplente da matricolare in sua vece, mio padreanticipò il denaro occorrente e Nane restò a casa.

Anche questo fatto fu festeggiato tra gli amici con i soliti canti dellevillotte accompagnate dal frin frin della chitarra.

L’anno 1817, l’anno della carestia, pareva promettere a mio padre ilcolmo dei desideri: mia madre l’aveva avvertito ch’era di nuovo incinta. Maun giorno egli si sentì svogliatezza, inappetenza, malessere, insonnia, senzasapere a che cosa attribuire la causa. Si buttò a letto e mia madre gli prodigòle prime cure, poi chiamò i medici; il male ingigantiva, si temeva e speravauna crisi benefica, ma purtroppo in brevissimi giorni quell’uomo di naturarobusta, che non aveva mai sofferto un’oncia di male, morì.

Si disse essersi trattato di tifo e che la cura adottata dai medici era statacompletamente sbagliata.

Qui termina la storia del mio povero genitore e vengo ad esporre la mia.

Chiunque sarà tanto volenteroso da proseguire la lettura di queste poverememorie si persuaderà che la mia esistenza ha avuto origine ed è continuatasotto una stella funesta. Inoltre non pretenda il lettore una esposizioneforbita dei fatti da uno che scrive avendo avuto scarsa istruzione, da uno chescrive con animo straziato e sotto agitazione intensa per il pensiero dellecattive condizioni in cui sta per lasciare la propria adorata ma tropposventurata famiglia.

Rimasta vedova, mia madre sbrigava le faccende domestiche, passava alnegozio e prestava anche l’opera con il socio Carnelutto, avendo trovato unadonna cui affidare noi figlioletti.

A cinque anni fui aggregato alla scuola privata di certo don Antonio DeMartini, direttore e maestro, e sotto certo Gallina superai il corso elementareinferiore. Dappoi feci quello delle superiori sotto il De Martini il qualebenché sacerdote, sapeva coltivare ed ispirare sentimenti di libertà e dipatria, che fruttarono ad alcuni miei condiscepoli posizioni cospicue, comesarebbe quella di Gio Batta Varrè.

La scuola De Martini era annoverata fra le primarie private di Veneziaed egli, oltre il buon metodo d’insegnamento, faceva spiccare con grandezzae solennità gli esami annuali e la distribuzione dei premi. Sistema esolennità che generavano nei discepoli molta emulazione, alla quale io noncredo di essere stato indifferente avendo conseguito nella seconda classeelementare il secondo premio nello studio e nella calligrafia, premi che vinsiper altri due anni di seguito, anzi in calligrafica ebbi il primo premio sotto il

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professore distinto Bartolomeo Panzilacqua.Compito il corso elementare e non avendo dimostrato ancora serie

inclinazioni per qualche professione o mestiere, fu interpellato da mia madreil De Martini, che la consigliò di farmi studiare le Ginnasiali presso ilSeminano della Salute.

Non di buona voglia frequentai il primo anno. Riuscivo abbastanza benein italiano, ma del latino non mi occupai e cosi non fu sorprendente chedovessi ripetere la classe.

Sotto il nuovo insegnante, il professor Bonajuti, ben diverso dal primo,pieno d’interesse e di amore verso i discepoli, mi diedi con passione allostudio tanto da riportare la miglior classificazione fra la scolaresca.

Purtroppo qualcosa venne a rovinare il mio ripreso progresso: sicominciò a farmi sentire che non c’era bisogno di un’educazione avanzata,che in famiglia non c’era bisogno di avvocati, di medici o simili, perché lerendite del negozio e di qualche capitale lasciato da mio padre erano di granlunga superiori ai nostri bisogni.

E da notare che chi costituiva la mia famiglia eravamo io e mia sorellagiacché mia madre, stante il fatale matrimonio con Carnelutto, faceva partedella famiglia del marito, con la quale noi eravamo conviventi.

Ed io, convinto da tali argomenti, sui quali all’età di undici anni nonpotevo abbastanza riflettere, dichiarai che volevo abbandonare lo studio.Troppo tardi m’accorsi che colui che s’era mostrato maggiormente contentoche non proseguissi lo studio era Antonio, figlio di primo letto diCarnelutto, non certo una perla di figliolo.

A nulla valsero le esortazioni del professor Bonajuti: con l’ostinazionepropria dei fanciulli mi tenni fermo nel mio proposito, tanto più che siaccennava alla possibilità che io prendessi parte al servizio del negozio conun compenso settimanale.

Mi convinsi ben presto di essere caduto in errore quando, essendo scarsoil consumo di aceto nella stagione invernale, mi trovai con un mucchio ditempo a disposizione senza poter far niente; per occuparlo mi offrii discrivere per conto dei vicini negozianti e possidenti.

In quell’età giovanissima passai qualche ora anche frequentando qualcheservizio nella chiesa parrocchiale di San Zaccaria e nella succursale di SanGio Novo, tanto che quei preti, e ve n’erano ancora di buoni allora,mostrarono di volermi bene. E mi invitarono più volte ad indossare la vestedi chierico per far scorta al Viatico da portare a qualche infermo.

Cosi un giorno entrai col sacerdote in una casa avente il suo ingressodalla prima porta a sinistra del Borgoloco a San Lorenzo, cui si accede dalleFondamenta di San Severo; in una stanza giaceva a letto una fanciulla chedopo la recita delle preci fu comunicata. Provai per la malatinaun’immediata simpatia; ancora non potevo naturalmente saperlo, ma quellafanciulla era destinata a diventare mia moglie.

Si chiamava Giuseppina, era figlia di Antonio Genova cheordinariamente viaggiava col proprio trabaccolo carico di mercanzie daTrieste a Venezia e viceversa.

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L’esito della malattia per Giuseppina fu benigno e perché si potesseriprendere del tutto fu dal padre affidata alla propria cognata che viveva aPesaro col figlio monsignor canonico Antonio Genova, Priore di una diquelle chiese, e a Pesaro rimase per nove anni, vale a dire fino al 1837.

Questi nove anni io li passai attendendo al negozio, leggendo, scrivendo,per togliermi dall’ozio che mi riesciva, come mi riesce, pesante; comepesante mi era l’occupazione nel negozio perché scorgevo un andamentonon soddisfacente.

La fabbrica non veniva più alimentata con grosse partite di vinoacquistato nella vicina terraferma o nelle basse del Piave o in quelle delPadovano:

Gli scarsi acquisti venivano fatti in città perché, si diceva, c’era maggiortornaconto; i grossi depositi d’uso erano scomparsi e le pigioni deimagazzini venivano pagate solo per tenervi il bottame vuoto; la merce nonera più della qualità propria dell’aceto bene invecchiato.

Ma la causa reale degli scarsi depositi era dovuta alla penuria di denaroprovocata in massima parte dallo stravizio del già nominato Antonio il qualefrequentava pratiche non decorose e triviali (contrabbandieri, scortegadori esimili), ridotto con esse ubriaco e molesto, tanto che il padre suo più volte,per non vederlo sottoposto a processo, dovette accomodare le cose a suon didenaro.

Un altro fatto poi aggravò la situazione della Società. Carnelutto padrefu convinto dal genero (ch’era dedito al gioco venale) ad assumere lapieggeria, cioè a prestar garanzia, per una fittanza a conto di un certoSpalmach. Questi non rispose agli impegni assunti per cui il Carnelutto sitrovò obbligato al pagamento di alcuni anni di quel fitto; commise inoltrel’errore di seguire il consiglio del figlio e del genero e praticò dei restaurinei locali affittati aprendoli ad uso trattoria sotto la direzione del figlio e delgenero.

Carnelutto padre era completamente analfabeta però possedeva unamente chiarissima. Accortosi, invero troppo tardi, che le entrate dellatrattoria apparivano sempre troppo basse, richiamò il figlio più volte ad allafine questi, invece di correggersi e di correggere l’andamento dell’esercizio.lo lasciò nelle mani di gentaglia, abbandonando ogni freno di sé stesso.

Da ciò l’avvilimento del povero vecchio padre e le inquietudini infamiglia perché quel figlio usciva in atti violenti, come quella mattina che,ritornato a casa dopo una notte di orgia e di vizio, cominciò a inveire contromia madre incinta, occupata a fare il pane per la famiglia: o in atti peggiori,come le tentate seduzioni contro il pudore di mia sorella che, spaventata, neebbe a soffrire malesseri.

Le cose in fabbrica andavano sempre peggio; si cominciò a lavorare acredito e alle scadenze molto spesso mancavano i fondi, tanto che le dittecreditrici Tomas e Matteo e Vincenzo Del Fiol, per prorogare le scadenze,chiedevano firme di accettazione a me appena ventenne e quindi ancorapupillo.

Parlai chiaramente della situazione con mia madre tutrice, conCarnelutto contutore, con certo Filippo Trois curatore, e dimostrai la

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necessità di essere dispensato dall’età minore.

Proprio in quel periodo così serio per me, una mattina, affacciandomi adun balcone di casa, vidi ad una finestra di casa Righetti, attigua alla nostra,Giuseppina. Non la vedevo da nove anni, ma conservava le sembianze diallora, era sempre lei, un bel tipo greco, solo più formata; mi parve l’effigiedi Maria Vergine che tenevo appesa sopra il letto.

S’immagini la mia impressione, la mia lieta sorpresa, all’inattesaapparizione di colei che non avevo mai dimenticato.

Convinto che il mio amore per quella creatura aveva messo in me damolti anni arcane ma profonde radici, mi avvicinai ad essa e le manifestai imiei sentimenti i quali, con mio sommo giubilo, furono accolti confavorevole risposta, a condizioni delle pratiche d’uso.

Cosi avvicinai il padre di lei e gli esposi le mie aspirazioni, in seguito diche, stabiliti i patti nuziali, ottenni il permesso di entrare nella sua casa unavolta la settimana. Se l’ingresso in quell’ottima famiglia era assai limitato,non mancavano occasioni per scambiare parole fra noi, la sera, lei allafinestra di pepiano di casa sua, finestra difesa da una grata di ferro, ed iofuori, in Fondamenta di San Severo.

Dovevamo adattarci cosi ed eravamo contenti lo stesso anche sel’espansione del nostro amore era soggetta al rigore di genitori austeri egelosissimi della propria figlia; e credo che avessero ragione, non perché ilcarattere di essa non fosse eminentemente onesto, ma per i principi sotto iquali quei vecchi erano stati allevati, senza parlare dei pericoli cui lamancanza di freno, mai troppo!, può dare origine, con conseguenzedisgustose e talvolta fatali.

Se in tutto fossi stato fortunato come nella scelta della donna che mi fucompagna, ahi, per troppo poco tempo!, io certo sarei stato il più felice deimortali.

Ripigliando il discorso interrotto, dalla tutela e dalla curatela fu inoltrataal Tribunale istanza intesa ad ottenermi la dispensa dell’età minore. Nonc’era da dubitare sull’esito perché erano giustificati i motivi di legge, ma iltempo passava e la risposta non veniva.

Dato che ogni ritardo produceva conseguenze più serie, fu riprodottanovella istanza e il Tribunale, quando poté o volle, rispose, con spiegabilesorpresa di tutti: Non potersi far luogo alla chiesta dispensa dell’età.

Replicammo chiedendo i motivi. Fu risposto: Non potersi in quanto,dalle informazioni attinte, il Del Fiol risulta essere dedito all’ubriachezza ealle molestie. Produca invece, la tutela, entro termine perentorio, il contodell’amministrazione da molti anni non reso.

Scosso, offeso e immensamente disgustato, avvicinai certo signorBernardo Valle, addetto al Tribunale, il quale, presa visione degli atti che miriguardavano, mi disse che le informazioni sul mio conto erano partitedall’Ufficio di Polizia.

Con nuova istanza venne chiesto al Tribunale che venissero ripetute leindagini, dato che i risultati primi venivano ritenuti errati o ricevuti dainformatori malevoli.

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Qualche giorno dopo, senza ch’io avessi mai visto faccia di commissariodi Polizia, mi giunse un invito a presentarmi al Commissariato di Castello.Introdotto nell’ufficio del caro vicecapo signor Petronio, questi, dopo alcunesecche formalità, sorti con una litania di ricerche, venendo alla conclusioneseguente: «So ch’ella non é cattivo soggetto, ma siccome non può negarmidi avvicinare amici coi quali si trova a bere qualche bicchier di vino, èpossibile che in qualche incontro sia venuto ad alterchi, ancheindipendentemente dalla sua volontà, e in qualche occasione abbia bevutoqualche bicchiere di vino più del necessario, come anche a me, cui nondispiace il vino, può essere capitato».

Risposi come dovevo e, provocato da replicata insistenza del signorPetronio, francamente e con forza dissi che i miei amici, vecchi e giovani (efeci qualche nome), erano conosciuti come onestissime persone, tali da faronore a chiunque li avvicinasse; in quanto al vino poi, s’egli qualche volta,come disse, era trasceso, io non ero trasceso mai.

Tale risposta produsse nel signor Petronio visibile irritazione tanto chemi regalò una patente di arditezza, con protesta di unirla alle altre qualificheda lui raccolte sul mio conto. Quello era il sistema dei poliziotti sotto gliAustriaci: piuttosto che ammettere un errore, preferivano sacrificare uninnocente.

Impensierito mi allontanai dalla stanza di quell’orsetto e pensai diavvicinare il signor Valle al quale raccontai per intero il colloquio avuto colsignor Petronio. Il signor Valle stese subito una carta per il commissariosuperiore, il conte Gradenigo, e vi unì un’attestazione firmata da negozianti,possidenti e impiegati miei conoscenti, pressandomi di portare il tutto dipersona al Gradenigo.

Aveva ben ragione di pressarmi il signor Valle perché, soggetto com’eroalla leva militare, il caro Petronio poteva giuocarmi un secondo brutto tiro.

Anche il mio vecchio maestro De Martini in quell’occasione mi aiutò:Mi munì di una lettera per il conte Gradenigo, lettera che presentai

unitamente all’istanza della tutela ed alla menzionata attestazione.Il conte Gradenigo mi accolse con dignità unita a cordialità; scorse ogni

carta, mi ascoltò con visibile attenzione, mi disse di essere sinceramentespiacentissimo dell’errore e ritenere suo doveroso impegno correggerlo,esortandomi con parole paterne a darmi animo ed a continuare nella miacondotta, esuberantemente da lui conosciuta.

Benché quel signore fosse aggregato a quella Polizia, è mio debitoconfessargli attributi di riconoscenza.

Frattanto il rendiconto relativo agli anni passati richiesto dal Tribunaleera stato dal Trois presentato; da esso risultava che tanto il negozio quanto idepositi dello stesso erano ben provveduti e che esisteva un fondo di denarodi parecchie migliaia di lire.

lì Tribunale saggiamente decretava che metà di quella somma, cioè laparte spettante ai minori, doveva essere tosto versata nella sua cassa di ferro,giudicando sufficiente per l’attività del negozio un migliaio di lire, dato chedetto negozio figurava ben fornito di generi e di crediti.

Ma, come si é già visto, i generi non esistevano, i denari erano spariti e icrediti erano inesigibili. Tutto questo a causa della trattoria in Campiello del

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Vin e dei disordini di Antonio: la cassa particolare del padre Carnelutto nonaveva potuto far fronte ai disavanzi della trattoria e al resto.

11 povero vecchio Carnelutto, chiamato a rispondere degli errori altrui ea depositare in Tribunale la somma spettante a noi minori, onestissimo masprovveduto com’era, s’abbandonò a tale tristezza da far temere checoltivasse qualche decisione fatale; tanto che senza parere lo tenevod’occhio, specialmente nelle ore della sera.

Per quanto riguarda suo figlio, ormai privo di mezzi per soddisfareancora le proprie stranezze, aveva cambiato vita: se ne stava rinchiuso nellasua stanza tutto il giorno uscendone solo la sera, quando tutta la famiglia eracoricata ad eccezione della vecchia zoppa sua zia paterna, la quale gliapparecchiava qualcosa da mangiare; dopodiché girava tutta la nottenell’interno della casa, finché spuntato il nuovo giorno, si rinchiudeva nellastanza; e cosi di seguito per dei mesi.

La condizione di Carnelutto padre acuiva le mie pene: come dovevocomportarmi? Agire contro il mio interesse e quello di mia sorella, o esigereil versamento come giustizia voleva? Era chiaro che nel secondo caso cosedeplorevoli sarebbero successe a danno di mia madre e della famiglia allaquale s’era congiunta.

Interpellai mia sorella, tre anni più anziana di me, e, com’è facileimmaginare, convenne con me di rinunciare a tutto ciò che ormai eraperduto e ciò per riguardo a nostra madre, al di lei marito ed ai figliMarianna e Vincenzo; ma anche tenuto conto del caratterino di Antonio,della sua irascibilità, che si sarebbe rovesciata addosso a nostra madre.

Cosi ricorsi all’esame di alcuni chirografi, vale a dire obbligazioni dipagamento, di debitori di Vigonovo sussidiati da mia madre con denari nondella società commerciale ma lasciati da mio padre e in parte accumulati conrisparmi, e li presentai al Tribunale come se i relativi importi fosseroderivati dalla cassa del negozio. Il Tribunale, salvo l’accenno ad alcuneirregolarità che causarono spese e perdite di tempo, li accettò per buoni e lapartita fu cosi regolarmente chiusa.

Subito dopo fu finalmente emesso dal Tribunale il decreto che midispensava dall’età minore, decreto che sospiravo da due anni, e fui libero dipensare al mio avvenire.

Interpellai mia sorella sulle sue intenzioni: era promessa sposa echiedeva che la sostanza di nostra ragione venisse divisa; mi offriva aprezzo di stima un quarto dei vasi vinari ed attrezzi della fabbrica di aceto,già stimati. Accettai con riserva: se la società con Carnelutto padre (conassoluta esclusione di Antonio, e questa esclusione distrusse ogni trattativa)non si fosse fatta, la porzione di bottame a me spettante sarebbe statasufficientissima per il modico impianto che avrei messo su per conto mio,realizzando qualche somma non bene impiegata a Vigonovo.

Dato che la proposta di società con Carnelutto era naufragata, eraindispensabile passare ad un’altra: che il Carnelutto cedesse a me il negozioovvero che io lo cedessi a lui. Convenimmo con la cessione a me per unprezzo da stabilire da oneste ed amiche persone.

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A questo punto, quando si stava per tradurre in atto formale la cessione ame del negozio, entrò in scena il signor Trois, già mio curatore. In qualità diamministratore e cassiere del Fondaco con fabbrica di acquavite alleFondamenta dell’Osmarin condotta dalla ditta Bertola in società con il conteLuca Ivanovich, che era il capitalista, mi propose di entrare in società, per lafabbrica dell’aceto in calle delle Rasse, col suddetto signore, che avrebbefornito i capitali occorrenti e la sua grande partita di vini prodotti nei suoistessi possedimenti, alle seguenti condizioni principali:

-Direzione della fabbrica a me dietro un compenso giornaliero fisso piùil dieci per cento degli utili; libero io di entrare in società con la sommastabilita sia in liquido sia in attrezzi e bottame.

Naturalmente accettai e, forte della parola del signor Trois, procedettiall’acquisto di tutto ciò che costituiva lo scheletro del negozio, vale a direquello che era di proprietà del Carnelutto e di mia sorella, e pur di avere tuttii diritti non badai alle cento lire in più o in meno in quanto tutto sarebbestato preso a calcolo e rifuso in conto sociale dal conte Ivanovich.

Ricordo che i vasi per l’aceto erano nel complesso della capacità nonminore di 250 botti, parte in fabbrica, parte nei depositi di Santa Scolastica,in quelli della Corte del Rosario, della Somma d’Oro e di San Canciano.

Frattanto con la fidanzata mi costruivo illusioni di felicità, di agiatoavvenire: la posizione eccezionale del negozio e la poderosa ditta sotto ilnome della quale il commercio doveva prendere vita senza tema diconcorrenza autorizzavano i sogni più rosei.

E così, pieno il cuore di speranze, mi presentai dopo un po’ di tempo alsignor Trois e gli esibii l’atto costituente i miei diritti acquisiti. Quelloneanche lo guardò: occhi bassi, voce piagnucolosa, cominciò a dire che ilBertola e Nane, quel Nane che mio padre aveva aiutato ad evitare il serviziomilitare, avevano avuto dei dissensi, che il conte Ivanovich era stato tirato inmezzo e che perciò aveva deciso di sciogliere quella società e di noncostituirne assolutamente altre, con nessuno.

Rimasi pietrificato.Poi scoppiai: «S’ella, signor Trois, avesse fatto il suo dovere quando era

mio curatore, non avrei bisogno ora di formare nessuna società, come nonmi troverei ora in questi passi se lei non fosse venuto ad illudermi conlusinghiere promesse. Mi ha rovinato due volte! Meglio avrebbe fatto adesplodermi nel seno un’arma da fuoco.»

Lasciai quel signore senza sapere dove dirigermi, senza sapere a qualepartito appigliarmi; tra l’altro mi balenò l’idea di arruolarmi volontario alservizio militare.

Martoriato fra l’immenso amore per la fidanzata, con la quale nonsapevo più come mantenere la promessa di matrimonio, e il dolore per ildissesto, visitai un momento Giuseppina allegando pretesti e poi, cedendoagli effetti della tristezza e dell’avvilimento, non trovai di meglio cherompere i freni e trascorsi quasi una settimana tra i piaceri, di notte e digiorno...

Rientrato in me, mi accorsi di aver errato, di aver fatto onta alla mia vitapassata; mi accorsi che gli amici avevano tutto il diritto di censurarmi e che

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la mia fidanzata doveva molto soffrire.

Sbolliti i vapori della mia suscettibilità bersagliata, giunsi alladeterminazione di disfarmi di tutto ciò che avevo pochi giorni primaacquistato.

Vendei al mercato di Mestre i vasi vinari dei depositi, per fortunaricercati più dell’ordinario dato il copioso raccolto dei vini, e mi liberai dalvincolo della fittanza dei magazzini; vendei il rimanente del negozio aisignori Matteo e Vincenzo Del Fiol, ai quali feci cessione anchedell’affittanza del negozio medesimo, ben persuaso che in quella città nonc’era più avvenire per me.

I Del Fiol di cui sopra ebbero sempre dei riguardi d’amicizia per me:molto comprensivi, consci dei miei mali e delle loro cause, ancora dopo lacessione fatta volevano persuadersi a stornarla con offerte d’appoggio.

Ma io ero troppo deluso del triste passato e rimasi fermo nel mioproponimento che era quello di trasferirmi a Vigonovo, ove una piccolafabbrica di aceto poteva ancora permettermi di guadagnarmi la vita.

Acquistai a Venezia le cose necessarie ad un impianto per la produzionedell’aceto e mi rifugiai a Vigonovo.

Era l’anno 1840 ed avevo 23 anni.

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A VIGONOVO

Qui dovetti risolvermi alla vendita della porzione di terra toccatami nelledivisioni di famiglia e con le 3000 lire austriache ricavate pagai tutto quelloche mi occorreva: vino, utensili, generi ad uso negozio di casolino, unvestito decente per il matrimonio, viaggio di andata a Venezia e ritorno conla sposa, i mobili della stanza nuziale (che mi erano stati promessi dal padredella sposa e che per la sua morte la famiglia non era stata in grado diconsegnare), altre spese necessarie al matrimonio e alle nozze.

Nelle mie ristrettezze non mi perdevo d’animo, anzi ero ilare per lasicurezza di andare a possedere la creatura da me prescelta, certo ch’ellastava per unirsi gioconda alla mia sorte, buona o cattiva che sarebbe stata.

Con questa idea giunsi a Venezia e la domenica del 9 luglio impalmail’angelo mio; l’unione ebbe luogo in San Zaccaria, nella cappella dellaVergine Addolorata e fu celebrata dal parroco don Andrea De Martini, mioex maestro.

Un incidente venne a turbare l’atmosfera gioiosa del nostro matrimonio.Uscendo di casa per andare alla chiesa, mio cognato Vincenzo Genova nelchiudere la porta ebbe a riportare una ferita alla mano, una ferita leggera, mane usci sangue il che produsse in tutti i presenti una certa impressione, quasidi presentimento funesto. In un giorno di sponsali una cosa simile nondoveva succedere.

Non pertanto le nozze furono gioconde ed io, con disinvoltura ed ilarità,ispiravo buon umore nei commensali, come se una perenne felicità miattendesse.

Una settimana dopo ero a Vigonovo, e messici all’opera, cominciammoa vedere i primi guadagni: sebbene non lauti erano sufficientissimi ai nostribisogni.

Passarono cosi in pace e serenità i primi mesi e il 31 marzo 1842 lanostra felicità fu completa per la nascita di Costantino. Un anno e mezzodopo nacque Francesco.

Eravamo contenti sia per la prole avuta sia per la fiorente nostra salutesia perché, vivendo con economia, tiravamo avanti benino: se nelle stagioniinvernali ci trovavamo in leggero sbilancio, nelle estive ritornaval’equilibrio in forza di un maggiore consumo d’aceto. E si sa com’è bella lavita quando nessuno ti tira la giacca per farsi pagare.

Il 13 marzo 1844, con la stagione nuovamente propizia, mi preparavo adar seguito ad una commissione avuta da un mio avventore di Sacile, certosignor Valentino Grillo. Per i trasporti fuori paese non avevo carrettella ecavallo o somaro: non disponevo di stalla né di foraggio e trovavo piùconveniente prendere a nolo nelle occorrenze e carrettella e quadrupede, chea dire il vero, trovavo a prezzi modicissimi. Cosi avevo fatto anche quellavolta.

Ognuno sa che qui, anche adesso, è costume costruire le carrettelle persomari con due anziché con quattro ruote e quella da me noleggiata eraappunto a due ruote; era stata lasciata in cortile presso l’ingresso dellabottega, con le stanghe appoggiate ad un ceppo, un po’ inclinata e col pesoin avanti; sopra c’era il recipiente, della capacità di un ettolitro o poco più,

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che subito dopo mezzogiorno avrei riempito di aceto.Appena mangiato pensai di andare un momentino da Luigi Diana che

abitava cinquanta o sessanta metri distante; avevo qualcosa da dirgli e poieravamo fin dall’infanzia in ottime relazioni di amicizia. Appena giunto colàe fatti i saluti d’uso, si udirono poco lontano urla strazianti.

Ebbi un immediato tragico presentimento e mi precipitai verso casacome un forsennato: il mio Costantino, il bello, il vivace Costantino era li, aterra, sotto la carrettella, col capo schiacciato!

Era successo, me lo dissero dopo, che trastullandosi con dei sassolini incortile, s’era spinto fino al tergo della carrettella e Carlo Pezzutti, figlio delpadrone di casa e fanciullo di sei anni, era montato sulla carrettella daldavanti e spingendosi dietro, forse per fare una sorpresa al mio Costantino,gliel’aveva fatta cadere addosso.

Solo un padre che ha avuto simili disgrazie può capire il dolore mio, lostrazio che provai alla vista del mio figlioletto morto. Mia moglie era sottoconvulsi mortali che nulla valse a calmare, non le cure, non i conforti, non leparole dei buoni vicini e di tutti quelli che erano accorsi a vedere ildesolante spettacolo.

La mia disperata compagna ed io fummo accompagnati presso la carafamiglia Diana e la signora Annetta fece l’impossibile per mitigare il nostrogrande dolore.

È indescrivibile lo stato in cui venne a trovarsi l’animo nostro quandodovemmo ritornare alla nostra dimora, qualche giorno dopo: alla nostradimora che si trovava proprio davanti alla chiesa che allora aveva il cimiterointorno, ove era stata depositata la salma martoriata del nostro fanciulletto,proprio a destra dell’entrata della porta maggiore ove furono gettate lefondamenta per prolungare la chiesa: dalla nostra stanza da letto si scorgevail tumulo.

Tanta sciagura aveva fermato la salute fisica e le facoltà mentali dellamia sciagurata compagna. Io, occupato nei miei piccoli affari e costretto purancor ad accudire ad alcune faccende domestiche, avevo modo di distrarmi;ma il dolore a lei non lasciava tregua. Una sera fui raccapricciato da unmoto subitaneo di mia moglie, decisa a volersi seppellire nello stessotumulo del nostro bambino. Forse fu una crisi benefica perché, pregatala ioin ginocchio a mani giunte di darsi pace, di rassegnarsi, di rinvigorire la suamente, di rivolgere le sue cure alla creatura innocente che ci era rimasta,ebbi la consolazione di vederla calmarsi e in seguito migliorare.

A Vigonovo comunque per noi non era più possibile stare: dovevamoabbandonare quel luogo tanto caro ma tanto funesto.

Avevo già avviato trattative per vendere la piccola fabbrica di acetoquando un altro caso venne a turbare il paese: fu proditoriamente ucciso,con un bastone appuntito piantato in un occhio, certo Gio Maria Bonas,detto Tabarin, buon uomo invero, per opera di certo Michelin.

L’indole fiera del feritore, che già altre volte nel passato s’era fattotristemente conoscere, intimoriva i compaesani, e cosi Sante Giol, alloraagente comunale, sotto la intimidazione, mancò al dovere di rimettereimmediatamente la relazione medica e la denuncia del fatto alle autorità

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competenti che, troppo tardi avvisate, tardi giunsero sul luogo e non feceroin tempo a raccogliere la deposizione del ferito, ormai agonizzante.

A causa di tale negligenza l’agente comunale Giol fu consigliato didimettersi e si dimise.

La disgrazia accadutami aveva commosso tante persone fra cui anche ilsignor Nicolò Zilli, allora deputato primo di questo Comune; in seguito alledimissioni rassegnate dal Giol, avvertito il signor Zilli dal suo collegadeputato Giovanni Cimolai (che aveva tenuto al sacro fonte il mio bambinoperduto) che io avrei volentieri abbracciato l’impiego di agente comunale,mi invitò a presentarmi da lui; in seguito di che mi ammise immediatamentenell’ufficio, mi consegnò le chiavi del medesimo, estendendo la suagenerosità fino ad ammettermi quel giorno alla sua mensa ove eraconvenuto anche il parroco attuale e qualche altra persona.

Confuso da tanta squisitezza di modi, non riuscii nella mia timidezza aprofferir parola per esprimere quello che in me sentivo.

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A FONTANAFREDDA

L’entrata nel posto, se mi soddisfaceva da un lato, mi impensierivadall’altro e ciò per la responsabilità assunta, per la fiducia riposta in me allaquale era mio dovere corrispondere con ogni mezzo possibile; all’epocacomunque il servizio era leggero, le esigenze delle Autorità limitatissime ele Autorità stesse sempre disposte ad aiutare con consigli edammaestramenti quelli che erano diligenti e di buona volontà.

Forse io avrò posseduto questi due requisiti, forse era effetto dellaprotezione del mio superiore signor Zilli, certo è che fra gl’impiegaticomunali della zona m’accorsi di essere uno dei più ben visti, tanto cheessendo rimasto vacante il posto di Segretario di Pordenone all’epoca in cuiio non ero più impiegato a Fontanafredda fui consigliato di farmi aspirantedall’allora Podestà sig. Gio Batta Poletti, dall’allora Commissario dott.Forabosco, dal Pretore dott. Malfatti, amicissimi del signor Zilli, personetutte distinte e influentissime.

Io però non seguii quel consiglio non reputandomi abbastanza capace aldisimpegno di quell’ufficio.

L’egregia famiglia Zilli non si era limitata a favorirmi per ottenere ilposto; conoscendo esser grande disagio per noi il rimanere a Vigonovo dopola disgrazia, fu tanto cortese da metterci a disposizione, dietro modicoaffitto, la casetta situata presso il suo palazzo e i locali attigui, sufficientiquesti per la lavorazione dell’aceto, deposito e bottega, con portaprospiciente la strada maestra.

Pertanto, abbandonata ogni idea di trasferimento a Venezia, e rinunciatoanche alle trattative di cessione dell’industria dell’aceto, feci eseguire iltrasporto di ciò che possedevo da Vigonovo all’accennato stabile Zilli e quigiunto con la mia famigliola m’accorsi del subitaneo miglioramento fisico emorale della mia compagna e di me stesso.

Qui maggior traffico, qui passaggio di forestieri, qui posizione più viva eallegra, qui facilità di andare all’edificio comunale (quindi maggioreprontezza nel disbrigo delle cose del comune e mie), qui stima, protezione esostegno della famiglia più poderosa del Comune.

Con tanti vantaggi, con la saggia amministrazione e continuata economiache andavo attuando, dopo qualche tempo avrei dovuto trovarmi soddisfattodella mia attività, certamente più redditizia che non a Vigonovo; avreidovuto trovare qualche utile a fine mese. Invece non era cosi e non riuscivoa capirne la ragione, per quanto affaticassi la mente.

Mia madre, che dopo la morte del secondo marito s’era indotta a viverecon me ed era sempre la prima ad alzarsi la mattina per accudire alledomestiche pulizie, un giorno mi avverti che da qualche tempo trovavasparsi a terra articoli del negozietto, tanto da far supporre che non fosserostati mossi da gatti o da altri animali.

La rivelazione mi allarmò e mi spinse a prender nota la sera stessa delpoco denaro che come il solito lasciavo nella cassella del negozietto per ibisogni del mattino seguente, e nota degli articoli più alla mano.

La mattina dopo fui il primo a scendere e controllai accuratamente tutto:

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durante la notte erano stati levati, in piccola quantità se vogliamo, alcunigeneri come pane, formaggio, salami, pasta, lardo, per l’approssimativovalore di quattro lire, e tre lire in moneta spicciola.

Ripetei più e più volte quei controlli e risultò che due notti si e una no misi rubava per un importo di sette od otto lire. A lungo andare il dannodiventava rilevantissimo: quella era una lima sordina da eliminare.

Confidai il caso al Commissario Distrettuale; avrebbe disposto dellaforza pubblica se non si fosse persuaso che forse si riusciva meglio nellascoperta senza apparati di forza e con la sola assistenza del vecchio cursoreGiuseppe Ceolin, uomo fedele.

La sera del giorno stesso chiesi al citato cursore di mettersi a miadisposizione e stabilimmo di stare in agguato nella bottega, sicuri che inquella o nella notte successiva avremmo preso il gatto bipede in trappola.

Al primo sorgere dell’alba sentimmo un leggero rumore presso la portadella bottega che dava in cortile: qualcuno stava trafficando nella toppadella serratura!

Un imprudente movimento del cursore, cagionato forse dall’ansia che siprova quando si vorrebbe ottenuto ciò che ancora non si può avere, feceaccorto il ladro, che doveva essere famoso, il quale fuggi senza chepotessimo riconoscere la sua figura attraverso il finestrino opaco e nonnetto. Aveva lasciato una chiave nella serratura.

Qualche tempo dopo una vecchia, di cui per prudenza ometto il nome,mi fece una rivelazione tale da indurmi a credere che il ladro fosse quellostesso (e non altro individuo contro il quale erano stati concepiti sospetti)che anni dopo fu arrestato e condannato quale autore di furti in più riprese didenaro in monete d’oro in casa Zilli con uso di chiave introdotta nelforziere.

Come costui potesse essere in possesso di una chiave capace di aprire laporta della mia bottega ce lo spiegammo col fatto che prima del mio arrivoin quella casa erano state fatte delle riparazioni e che al mio riceverla inconsegna non fu possibile rinvenire una chiave, che si disse finita tra irovinami già finiti altrove.

Del pari è facile conoscere la maniera con cui il ladro poté fare le moltesottrazioni d’oro dal forziere del signor Zilli: la chiave era stata credutapersa; dopo qualche giorno era stata ritrovata e restituita al padrone: il ladroaveva avuto il tempo per farsene una copia perfettamente uguale, quella chefu trovata nella serratura quando fu sorpreso.

Riuscito inutile l’appostamento per riconoscere e colpire il ladro, risolsidi assicurare meglio la porta rassegnandomi al danno subito e ben prestom’accorsi che senza la «lima sordina» le mie cose andavano molto meglio.

Un fatto nuovo venne ad accrescere il numero dei componenti la miafamiglia. Mio fratello uterino Vincenzo Carnelutto, che era stato alladirezione di un negozio di casolino a Venezia alle dipendenze di certoMarin, ebbe l’idea di venire a respirare l’aria della campagna presso di me.Pensavo che la sua permanenza fosse di breve durata dato che nessuninteresse, salvo la parentela, lo legava a me.

Benché la mia posizione economica e i miei limitati affari non

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richiedessero aumento di persone, gli feci buon viso non solo per il tempolimitato che era lecito attendersi che si fermasse, ma continuai a farglieloanche quando fu chiaro che s’era prefisso di rimanere a lungo; mi era caro elui sapeva uniformarsi alle mie ristrettezze agendo con premura e fedeltà amio sollievo.

Giunse il quarto trimestre dell’anno 1847; il passaggio delle truppeaustriache divenne frequentissimo e il lavoro del mio negozietto crebbe inproporzione, anche perché non era stata ancora costruita la strada di ferro.Quel passaggio era prodotto da ragioni politiche di alta importanza a causadella gelosia dell’Austria per qualche scintilla di libertà che il Pontefice Pioche aveva fatto risplendere.

Io non sono competente a discutere i principi secondo i quali il Ponteficeaveva fatto brillare quella scintilla, però mi permetto di esprimere la miaopinione che, se contraria a quella di chi legge, sia come non detta.

Secondo me dunque le concessioni liberali di Pio IX erano suggeritedall’idea di estendere il dominio papale su tutta l’Italia.

Si venne al 1848 e qualche mio coetaneo può ricordare che una sera dimarzo a Pordenone l’affluenza di persone era grande e l’entusiasmomassimo per la ottenuta, o promessa, costituzione; e, fenomenosorprendente, anche la luna, ricordo, sembrava esultante perché eracircondata da un alone verde, bianco e rosso. Mai veduti prima e dopo diallora quei tre colori intorno alla luna.

In seguito agli avvenimenti di Venezia del 22 marzo, seguiti dallascarcerazione per opera del popolo degli illustri patrioti Daniele Manin eNicolò Tommaseo, anche la nostra provincia si mosse e fu istituita laGuardia Civica. Al sentore dell’avanzarsi dall’Isonzo di un corpo d’armataaustriaco ci fu paura, stimolo a resistere per non veder oltraggiato ilnazionale riscatto, corsa ad apparecchiare armi, munizioni ed armati.

Per far che? Per gettarsi senza capi veramente istruiti, come branchi dipecore, a farsi uccidere da un esercito agguerrito, arrabbiato perché pavidopur esso di una popolare rivolta?

Io non avevo potuto non secondare i miei sentimenti liberali e, in più diun’occasione, mi ero espresso con parole energiche a favore dell’Italia,parole che erano state riferite altrove; nel mio impiego rappresentavo purqualcosa e di quelle parole era stato certamente tenuto conto. Cosìall’avvicinarsi degli Austriaci non mi sentivo tranquillo, tanto più che nonero disposto a servirli e a soddisfarli nelle loro non giuste esigenze. Altracircostanza saliente era che da alcuni giorni la mia famiglia era a Venezia ela sua lontananza in quei momenti, con la minaccia del blocco della città ecol cordone ormai formato dalle armi italiane al di là del Piave, non milasciava pace.

Sotto l’influenza di tutte queste circostanze decisi di lasciare l’impiego,nel quale mi sostituì Gio Maria Del Tedesco, affidai i miei interessi alfratello e partii per Venezia.

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Qui in ogni punto si scorgeva libertà ed esultanza; tutti erano persuasiche la seguita proclamazione della repubblica era una salvaguardia dellacittà e lo sarebbe diventata per tutte le provincie con la collaborazione delletruppe regolari, dei volontari sardi, delle truppe del Papa, del Borbone diNapoli, degli altri regnanti di allora in Italia e, si diceva, persino dellaFrancia, della Svizzera, dell’America, ecc. ecc.

Non è mio intendimento, né mia capacità, tessere la storia di quei giorni.Non posso però rinunciare al ricordo che Venezia generosa fu forte oltreogni esempio, abbandonata come fu a sé stessa, alla fame, al morbo asiatico,ai bombardamenti sotto l’assedio che durò poco meno di due anni.

La mia famiglia era alloggiata presso mia suocera, che riscontrai diumore diverso dal solito forse perché temeva che il suo legno marittimodovesse restar ancorato, a causa dell’assedio, chissà quanto tempo e chequindi, mancando i guadagni, avrebbe visto sparire i risparmi.

Per quanto riguardava noi la tranquillizzai immediatamente chiedendolein affitto la stanza che già occupavamo; in affitto a pagamento, si capisce.Lei accettò, non dimentica del fatto che in altre circostanze l’avevo ospitata,e a lungo, a casa mia a Fontanafredda con altre sue figlie.

Impiegai la maggior parte del poco denaro che avevo nella provvista digeneri di vittuaria di prima necessità, che furono consumati in un tempoassai breve. Tutti gli altri mesi, se abbiamo mangiato, fu per graziadell’amico Capo e di qualche altro, che ci passarono quanto necessario e chepagammo più tardi. Sarò loro sempre riconoscente.

Libero da ogni pensiero di famiglia, privo di occupazione enell’impossibilità di uscire da Venezia, mi diedi a gustare quello che la cittàoffriva di dilettevole, senza bisogno di spendere un centesimo.

La gioia dei Veneziani non scemò punto durante i tre mesi che colàrimasi. Ovunque si vedevano crocchi di persone con facce ilari; ovunque siudivano canti popolari patriottici, canzoni di libertà all’Italia, a Pio IX, e datante bocche la strofa: «Benedetta la santa bandiera che il vicario di Cristoinnalzò»: dappertutto canti e voci di generale entusiasmo; io stesso hosentito in più incontri parecchi israeliti inneggiare al capo della Chiesaromana quale fonte di verità a cui si dicevano risoluti a dedicarsi.

Passavo il mio tempo gustando episodi che di sovente si presentavano aimiei occhi: qui si leggevano manifesti del Governo provvisorio appenaaffissi; là bollettini di guerra, molte volte contraddicentisi gli uni con glialtri, il che produceva malumore e disgusto, cessanti ben presto all’appariredi nuovi bollettini di vittoriose scaramucce; altrove comparivano iprogrammi incendiari del celebre ed illustre Giuseppe Mazzini; entravo inqualche chiesa parata fin sopra le porte con festoni forati per solennitàreligiose e ascoltavo cantori e filarmonici distinti che eseguivano musicadistintissima.

Le strade, i «campi», le piazze erano frequentatissimi da cittadinid’ambo i sessi, di ogni ceto ed età, da milizie di ogni specie, ancheprovenienti dalla Provincie, via terra o via mare, benché la città fosseassediata.

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In piazza San Marco il va e vieni era immenso. Frotte di gente siaggruppavano, si arrampicavano sulle colonne della chiesa, della Procuratia,per scorgere qualche cosa di eccitante la comune curiosità; frotte di gente siaffollavano dirimpetto al Palazzo del Governo Provvisorio e, a furia dievviva gridati a squarciagola, volevano vedere e salutare il presidenteDaniele Manin, che talvolta si presentava ad uno di quei grandi veroni e,con ardore e frasi tutti suoi, incoraggiava il popolo, esortandolo allaresistenza, alla calma, ecc. ecc.

Da li a li si voleva il Tommaseo ed era esaltante vedere e sentire leparole di quegli uomini, specchio di scienza, di benemerenza, diabnegazione, di carità patria.

Ma ecco un’altra frotta di gente che corre, che inciampa e, per forzaquasi magnetica, s’ingrossa.

Che c’è? Che c’è? - Una spia, dice una voce. - Chi? Dove? Un poverogramo chi sa quanto onesto e buon patriota si volta e si vede segnato a dito.Sbalordito e tremante, diventa bianco come la cera, scappa ed ha la fortunadi mettersi sotto la protezione del Comandante il corpo di Guardia Civicapassante sotto i portici del Palazzo Ducale. Il popolo si disperde in unattimo.

Un altro giorno nella Piazza San Marco, dirimpetto al Palazzo delGoverno, si vede preparato un palco alto circa tre metri, guarnito didamaschi, avente da un lato uno stendardo con la bandiera nazionale el’effigie di Daniele Manin, e dall’altro lato un altro stendardo con similebandiere e l’effigie di Pio IX.

Si guarda, si aspetta, si guarda ancora; ognuno si domanda chi sta persalire su quel palco. La curiosità cresce, la gente si accalca, si spinge, siserra. Ed ecco salire i gradini del palco una maestosa figura, giovane, bella,di tipo moro, con lunghi capelli nerissimi, ricciuti, svolazzanti sino allespalle, con barba bellissima, lunga, nera, vestito alla foggia dei preti.

Un mormorio corre in giro, si fa un nome, la voce si sparge e tutto ilpopolo prorompe in salve ed evviva: è padre Ugo Bassi, cappellano deiCorpi franchi.1

Non so certo ripetere, dopo tanti anni, quello che disse di santo, diedificante sulla Patria nostra e sul dovere di volerla libera tutta o di morire.Ricordo però benissimo come si commuoveva nell’accennare che sull’Italiaavevano dominato stranieri che pretendevano che i preti fossero obbligati afare la spia. E ricordo i segni d’indignazione e di fierezza che il popolodiede unanime: se in quell’istante un esercito straniero gli fosse stato difronte, lo avrebbe con le mani sbranato.

1 Padre Ugo Bassi (1801÷1849), barnabita e patriota, seppe accomunare il fervore dellareligione con l’amor patrio. Nel 1848 parti a capo di una schiera di volontari: ferito pressoTreviso, andò a Venezia dove prese parte alle varie sortite fatte dai Veneziani assediati.Proclamata la Repubblica Romana, accorse a prestare la sua opera di soldato e dicappellano: caduta la repubblica, segui Garibaldi. Arrestato dagli Austriaci, venne fucilato aBologna.

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Un altro giorno una calca enorme se ne stava in piazza in attesa:qualcuno doveva comparire al balcone, forse Jacomo Monico, Cardinale ePatriarca di Venezia, ch’era stato veduto entrare nella sede del Governo.Diversi erano i commenti, pro e contro quell’Eminenza.

Ecco affacciarsi il presidente Daniele Manin suscitando il solitoentusiasmo, accompagnato dalle solite salve ed evviva. Una mano diquell’uomo si alza e in piazza cala un silenzio profondo. Nello stessomomento gli si affianca il Patriarca Cardinale ed egli lo presenta con questeparole: «Cittadini! La presenza in questo luogo di questo illustre prelato è ilsimbolo indissolubile della Religione con la Libertà».

Non mi occuperà in dettaglio dell’impressione prodotta nella folla daquella frase: riporterà solo quello che disse uno che mi stava vicino che, agiudicar dall’esteriore, doveva appartenere alla classe più bassa e piùsemplice: «Ostrega, el ga razon Manin, perché se i preti savarà rispetar lanostra libertà, anca nualtri savaremo rispetar lori, e cussi libertà e religion leandarà sempre avanti; ma se no, i andarà indrio lori».

Venne la fine del mese di giugno e l’uscita dei privati da Venezia liesponeva a serie difficoltà e a seri pericoli, per cui impensierito com’ero nonpotevo gustare come nel passato le deliziose occasioni che mi s’offrivano. Ipochi generi necessari al vitto concessimi a fido erano quasi consumati e ilmio borsellino suonava ben poco, per cui la prospettiva del prolungarsi delblocco mi spaventava. E’ vero che i carissimi amici di Veneziam’incoraggiavano con la promessa che fintanto ch’essi avessero avutogeneri disponibili ne avrebbero avuto anche per me, ma nessuno potevaconoscere la durata del blocco, né mi sarei permesso di abusare oltre uncerto limite delle loro cortesi offerte: il mio debito sarebbe andato semprecrescendo senza la sicura possibilità per me di estinguerlo: ero totalmenteprivo di notizie da Fontanafredda e c’erano in giro le voci che i Croatiandavano saccheggiando e incendiando villaggi.

Fra i rifugiati a Venezia c’erano miei conoscenti di Sacile, di Caneva, diPolcenigo, di Pordenone e anche di Fontanafredda. Ne vedevo di sovente eda vicenda ci si interrogava circa i mezzi per continuare in quelle strettezzech’erano divenute comuni ai terrafermieri; e ci si domandava se era il casodi lasciare la città al presentarsi d’un occasione, o sulla possibilità didedicarsi a qualche cosa.

A questo proposito si progettò coi fratelli Antonio e Giuseppe Contin diSacile e con Luigi Ciotti del medesimo luogo, di attivare un prestinoessendo i due esperti panettieri, valendoci delle farine che Valentino Rizzo,amico mio carissimo e compare, mi aveva esibito; ma non si combinò nienteperché l’idea del rimpatrio era in tutti dominante e tutti oramai ci sichiedeva come e quando fosse possibile attuarla.

Venimmo a sapere che un certo Cimetto s’incaricava del trasporto dipersone e di cose da Venezia alle vicinanze di Portogruaro e viceversa. IlContin e il Ciotti non erano persuasi ad avventurarsi subito, col rischio diesser fatti prigionieri di guerra; pensavano che era meglio stare a vederecome andava il viaggio dei primi.

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Il signor Francesco Zilli invece e il di lui cognato conte Federico Pujattifurono di diverso avviso per cui, avvicinatici al Cimetto, fu stabilito prezzo,giorno e luogo d’imbarco. Per parte mia dovevo pagare al Cimetto trenapoleoni d’oro, vale a dire un napoleone per ciascuna persona adulta eduno per i tre bambini, prendendo posto a prora del bragozzo.

A me mancava quasi per intero l’importo per il viaggio e mi funecessario ricorrere a qualcuno. Mi rivolsi ai fratelli Matteo e Vincenzo DelFiol ed essi non solo mi prestarono cinquanta lire austriache, ma volevanoche ne accettassi di più: «Mai troppe, dicevano, nell’avventura che stai peraffrontare con moglie e figli». Li ringraziai del denaro, che restituii appenala città fu aperta, e della maggior offerta, che non accettai, e alle 10pomeridiane del 29 giugno, preso congedo dagli amici e dai presenti, mitrovai sulla Riva degli Schiavoni, proprio dirimpetto all’albergo Danieli, oveconvennero fra gli altri anche il signor Francesco Zilli, la di lui moglie, unloro bambino di nome Nicolino nato da poco a Venezia, la cameriera MariaFachin e il conte Federico Pujatti.

A un cenno del Cimetto salimmo tutti sul bragozzo e intorno amezzanotte ci si mosse verso il Lido. Usciti da quel porto si offerse allanostra vista tutto il bello non immaginabile, fra il mare ch’era in calmadiscreta, il cielo splendidamente sereno e il sorgere incantevole dell’aurora.

Il viaggio prosegui e verso le quattro pomeridiane del 30 giugno, vale adire sedici ore dopo l’imbarco, la marea si fece un po’ burrascosa, quantobastava per destare apprensioni in chi non si era mai trovato in mare,specialmente nelle donne, apprensioni però presto fugate dalle parolescherzose dei marinai e di padron Cimetto.

Ad un tratto si vide questi dirigersi al timone e confabulare con iltimoniere, che gli additava qualcosa a distanza, come un punto quasi fisso inmare; dopo un attimo lo sentimmo urlare: «Tutti fermi a bordo! Chi è inpiedi si tenga a qualcosa!»

Diede poi un comando al timoniere ed il bragozzo girò diagonalmente inmodo che la prua si trovò girata là dove prima era il fianco; manovraveramente ardita, con la marea agitata e le vele del bragozzo aperte. Lascossa che ricevemmo fu tanto forte da crederci rovesciati in mare.

Il motivo di quel repentino cambiamento di rotta era che il punto fissoindicato dal timoniere era un legno da guerra austriaco in osservazione e lanostra fragile barca era a portata dei suoi cannoni. Fosse che il comandantedel legno austriaco non ci avesse visto o non abbia voluto darsene perinteso, fosse che il brusco movimento del bragozzo ed il suo proseguirebordeggiando a sinistra lo avesse tolto dalla portata dei cannoni, certo è cheil bragozzo poté ben presto rimettersi nella sua regolare direzione senza averpiù motivo di temer molestie.

Giungemmo finalmente poco lungi dal porto Baseleghe e, fatto certo ilCimetto che i segnali convenuti e di sicurezza esistevano, fece costeggiare ilbragozzo alla terra e poi scendemmo fra quelle maremme, in attesa deibattelli ordinati.

Ognuno degl’imbarcati s’era provveduto a Venezia del necessarioalimento per il viaggio e ciascuno, seduto o sdraiato, si occupò ad estrarre

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dai bagagli pane, carne, formaggio, dolci e fiaschi di vino, e il tuttodistribuito, fu mangiato e bevuto con un appetito che molte ore di digiuno el’aria del mare avevano stuzzicato.

Dopo la grandissima refezione, per ingannare il tempo che di tropporiusciva noioso, ciascheduno si diede a quegli svaghi che potevano essereconsentiti in quel luogo deserto, sinché finalmente si videro arrivare duebattelli. Il sole era tramontato da un’ora. Prendemmo posto sulle barchette equeste si mossero, spinta ognuna da due bravi rematori, prendendo il canaleche si congiunge con altri canali lagunari verso Concordia.

Il tragitto era lungo e nella monotonia notturna di quelle lagune,quantunque il cielo fosse sereno e le acque venissero brillantate dalle gocced’acqua cadenti dai remi, si sentiva il bisogno di rompere il silenzio conqualche canzone ispirata dal cielo, dall’acqua, dal sito. Ma il timore diessere sentiti da qualche pattuglia austriaca, sempre poco cortese, ci fecerimanere in silenzio, rannicchiati nelle barchette, coi nostri pensieri.

Dopo cinque ore giungemmo a Concordia. Appena messi i piedi a terrail buon Cimetto ci fece aprire l’unica osteria esistente allora colà ed avemmoimmediato e soddisfacente ricetto. Chiesto alla padrona di casa se neidintorni ci fossero Austriaci, rispose di no, che da tanto tempo non se nevedevano; se aveva camere con letti da affittare, rispose che aveva una solacamera con un letto e un sofà (e li si accomodarono i signori Zilli) e chepoteva metterci a disposizione ancora un materasso (e su questo più tardi sicoricò mia moglie coi figli); chiestole se aveva qualcosa da darci damangiare, rispose che ci avrebbe servito dei sievoli appena pigliati (e furonotosto arrostiti), del formaggio e del buon vino.

Niente di meglio si poteva desiderare in quel luogo e a quell’ora.Mangiammo di gusto, con appetito come si suol dire, da commedianti, etrovammo ogni cosa squisita, specialmente i sievoli che mai cosi buoniavevo mangiati; anche il vino fu buono e il conto mite.

Ci accomodammo alla meglio, per riposare se non per dormire: soprauna tavola, una panca, una seggiola. Destati che fummo, a giorno fatto,trovammo il caffè preparato e le carrozze in cortile. L’amico Cimetto avevapensato a tutto.

Fatti i convenevoli d’uso alla padrona di casa, ciascuno sali sulla vetturaassegnata e i vetturali, incitando i cavalli con la voce, colle redini e con lafrusta, ci fecero godere di essere trasportati, dopo tre mesi per me, in quelmodo e con tanta velocità.

Il buon Cimetto non lo vedemmo più. Dopo qualche mese fu scoperto edenunciato per i suoi trasporti clandestini. Arrestato e tradotto in San Donàdi Piave, venne sottoposto a processo sommario e condannato a mortemediante fucilazione.

Povero amico! Fu vittima di cose più grandi di lui.

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DI NUOVO A FONTANAFREDDA

Lasciata Concordia giungemmo a Portogruaro, a Pordenone, aFontanafredda senza vedere una sola uniforme austriaca. I compaesani,lietamente sorpresi del nostro arrivo, ci diedero i più cordiali saluti e tutti cichiedevano nuove; chiedevano nuove a noi che avevamo più voglia di lorodi sentirne. Cosi venimmo a sapere che nel Trevigiano e nel Padovano gliAustriaci avevano fatto danni gravissimi, commesso soprusi, incendiato,fucilato.

Da noi c’erano state per fortuna solo paure e qualche requisizionefatta da truppe scorrazzanti; il peggio era passato e gli abitanti che eranofuggiti a cercar rifugi alla bassa o sui monti seco portando tutto quello chedi meglio avevano, stavano ritornando alle loro dimore.

Appena entrato nella mia abitazione il primo pensiero fu diesaminare lo stato delle cose mie; trovai che mi mancava metà dellabiancheria e di altro che prima della partenza avevo nascosto. Lo stessocapitò alla famiglia Zilli e la sparizione non si sbaglia ad attribuirla a quelmedesimo cui era stato affidato il compito di porla in salvo.

Nei generi di negozio trovai un notevole ammanco e inoltre mitrovai gravato di un debito contratto per mio conto verso un certo FioravanteFiorello di Colle per l’importo di alcune botti di vino guasto acquistate perconvertirlo in aceto.

Tanto scorrazzare di Austriaci non aveva portato vantaggi alla miabottega.

Alla partenza da Fontanafredda avevo lasciato nella casa mio fratelloe al ritorno trovai due persone in più, due persone che avevano vissuto a miopeso durante tutto quel tempo; la cosa in fondo non era strana perché miofratello non avrebbe potuto certo pensare da solo alla bottega e al lavorodella fabbrica.

Mi diedi a porre in assetto le cose mie e siccome la stagione eraancora propizia per i consumi dell’aceto, all’entrare dell’inverno mi trovaiun po’ rimesso, e cosi continuai meno male nei successivi due anni, benchél’onorario e i piccoli incerti di agente comunale non mi entrassero più incasa.

Capitò purtroppo la malattia delle vite, a causa appunto dellacrittogama, vennero a mancare quasi del tutto le qualità inferiori di vino,quello destinato alla fabbricazione dell’aceto, sicché rimase la mia fabbricasenza alimento e la vidi perire.

Mi venne in tal modo a mancare il cespite più essenziale per il sostegnodella famiglia.

Fortunatamente un po’ per le frequenti evoluzioni militari, un po’ perchéero riuscito ad ottenere la licenza di rivendita dei generi di privativa, vidiaccrescere il reddito della bottega in modo da poter tirare avanti senzaangustie.

Nell’anno 1851 era mancato ai vivi il signor Luigi Anselmi. Avevalasciato una buona sostanza che venne divisa tra i figli; alla figlia Angela

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maritata Filermo toccarono alcuni terreni, la casa ora canonica, con le sueadiacenze prato demaniale o prà della fiera. Il di lei marito, residente epresidente a Gorgo, desiderava concentrare colà tutti i suoi interessi,compresi quelli della moglie, per cui aveva incaricato una persona divendere quello stabile e le sue adiacenze.

Le condizioni erano favorevoli perché il prezzo richiesto era inferiore alvalore reale, perché non era richiesto l’esborso immediato di tutto l’importo,perché era probabilissima una vantaggiosa rivendita di qualche adiacenza ame non necessaria, perché la casa si prestava bene a negozio, a fabbrica edeposito di aceto, perché il prato, concimato annualmente dagli animali iviportati in occasione del mercato di San Luca2, produceva una grandequantità di foraggio, oltre al fitto dei diversi spazi concessi ai baraccanti,ecc. ecc.

Non avevo un soldo, ma l’acquisto mi faceva gola. Avvicinai l’egregiosignor Sartorello di Sacile ed ottenni da lui incoraggiamento ed appoggio;pose anzi a mia disposizione la somma di lire 1000 austriache che dovevanoservire a principio di pagamento dell’agognato stabile (che nessuno si erapresentato a trattare, per cui il momento di agire era opportuno).

Non mi conveniva farmi conoscere quale aspirante ed incaricai il buonamico Luigi Ciotti di Sacile di trattare e concludere sulla base già conosciutadi lire settemila austriache, salvo qualche leggera variante in più o in meno;e, importante, di trattare per conto di una persona da invitare all’atto dellachiusa del contratto.

Cosi difatti venne concluso, Per la redazione dell’atto il Filermo s’eraportato da Gorgo a Sacile dal sig. Ciotti ma, per quella sorte fatale chesempre si è opposta ad ogni mia idea, ad ogni mio slancio, il signor Ciottiproprio quel giorno si era assentato da Sacile per sottrarsi alla pena deifunerali di una sua figlia morta quella notte stessa.

Il signor Filermo se ne ritornò a Gorgo ove cambiò idea, cogliendol’opportunità a lui presentatasi di vendere i beni di Gorgo tenendo ad usoproprio quelli di Fontanafredda.

Un fatto d’impossibile previsione aveva distrutto la mia speranza diestendere la principale mia industria. Vi avrei lavorato non vini nostri soliti,ormai troppo scarsi sul mercato, ma le uve secche del Levante,trasformandole in vino e questo in aceto; il che si dimostrava allora tantoredditizio da far dire che era un «mestier d’oro e orbo»; con esso, peresempio, fecero la propria fortuna il signor Bornia di Treviso e il signorBidoli.

2 Il mercato di San Luca in Fontanafredda era molto antico. Già nel 1567 il conteGirolamo di Porcia ne parla come di una delle fiere annuali del Friuli, dove si facevanomolti mercati «principali e franchi»: ad Aquileia, a Cividale, a Udine, a Codroipo, aPortogruaro: «a San Giovanni di Sacile per Otto giorni; a Roveredo il 14 settembre dove c’èfiera di cavalli per tre giorni e poi per tutto il mese di merci diverse; a Villafredda(Fontanafredda) presso Porcia il 18 ottobre per Otto giorni fiera di buoi e di cavalli». (PioPaschini, Storia del Friuli).

Ultimamente, al principio di questo secolo, la fiera di San Luca era diventata unostracco mercato di asini. L’entrata al vasto «prà della fiera» (tre campi) era esattamente làdove ora c’è la tabaccheria Da Pieve.

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Mi sentii l’animo oppresso ed anche mio fratello rimase mortificato.Considerato che rimanendo presso di me non poteva attendersi posizionemigliore, fermò la sua mente sopra un’avvenente fanciulla del luogo,Teresina, una delle figlie del defunto signor Anselmi, che dopo la morte delpadre era stata a collo della sorella Giulia, moglie del signor Angelo Toffolidi Porcia. Della quale Teresina fece domanda a mezzo dell’ora decessosignor Antonio Verardo, domanda che fu bene accetta ed il matrimonio sicelebrò a Porcia nel novembre del 1851.

Gli sposi si trasferirono a Fontanafredda, a casa mia, ed io gli assegnai lamia stanza da letto. Qualche giorno dopo, insalutati ospiti, si portarono adabitare la casa sgombrata dai fratelli Angelini, divenuta proprietà una partedella sposa Teresina e l’altra parte di Giulia sua sorella.

Quel locale serviva ab antiquo oltre che ad uso di abitazione anche aquello di locanda, con stalli, ed era sempre stato frequentatissimospecialmente da carradori tedeschi, da vetturali, da signori mercatanti edilettanti di cavalli dei luoghi vicini che avevano scelto quel luogo di ritrovoper i loro incontri e ricreazioni.

Mio fratello, sul piede di quel locale, aveva acquistato ottima fama, percui non ebbe difficoltà a trovare persone, qualcuna ottima, qualcuna venale,che lo sussidiarono per la riapertura dell’esercizio sotto nuovo nome.

Il principio la novità e la distinta qualità dei vini attirarono moltiavventori, ma pochi mesi più tardi mio fratello venne a trovarsi in unasituazione pesante, con scadenze passive che non poteva affrontare.

Si rivolse al signor Verardo, il signor Verardo si rivolse a meinvitandomi a studiare una soluzione soddisfacente per ambedue noi fratelli:per esempio una società fra me e Vincenzo comprendente anche i beni delladi lui moglie Teresina.

La cosa non era facile; per me c’era il pensiero, tra l’altro che una voltalasciato lo stabile Zilli, non facilmente lo avrei riavuto se qualchedisaccordo fosse sopraggiunto fra noi. Alla fine però si raggiunse unaccordo e il 27 luglio 1852 si stipulò il contratto sociale nel quale figuraronoanche le firme delle nostre mogli allo scopo che si sentissero ancorateall’armonia e al buon accordo dell’intera famiglia.

Subito dopo si passò alla stesura del preliminare d’acquisto dellaporzione di stabile posseduta dalla signora Giulia Anselmi maritata Toffoli.

Contavamo, mio fratello ed io, di usare per il nostro primo impianto isoldi ricavati dalla vendita di una proprietà in Vigonovo, diventata deiCarnelutto, sopra della quale avevamo dei diritti; ma per sventural’acquirente signor Vettore Orzalis ebbe dei forti dissesti finanziari e caddelasciando esposto l’avere Carnelutto e il mio, per cui avemmo forti spese adifesa del nostro capitale.

Per fortuna il signor Enrico Sartorello ci venne incontro con un prestitodi mille lire venete che ci permise di acquistare vino, liquori, foraggio,avena e qualche animale bovino; il tutto si rivelò molto utile quanto venneroi soldati di cavalleria ad acquartierarsi per un mese in occasione dellemanovre militari nelle vicine praterie.

La bottega di pizzicagnolo con rivendita di generi di privativa eradirettamente rifornita con generi di mia ragione, trasportati dall’altra

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bottega.Mi pare impossibile adesso credere come con mezzi tanto ristretti

riuscimmo ad affrontare un movimento tanto grandioso.E i guadagni ci furono.Ma dopo neanche un mese venne da me il Verardo a chiedere il

pagamento, per conto proprio e altrui, di centinaia di lire che stavano a pesodi mio fratello; era quanto calcolavo d’impiegare nell’acquisto di vini nuovi,di foraggio e di altro, che potevamo trovare a prezzi vantaggiosi. Mi adattaial sacrificio e pagai, e continuammo a pagare anche i debiti che stavano acarico delle sostanze Anselmi e Carnelutto.

Terminate le evoluzioni militari e partiti i soldati, trascorsi anche i giornidelle fiere annuali locali, che allora erano brillanti, il lavoro naturalmentescemò, ma fummo in grado di restituire al Sartorello metà della somma checi aveva prestata.

Le cose insomma procedevano abbastanza bene e in famiglia c’eraarmonia.

In quel tempo avevo cinque figli; Francesco, nato a Vigonovo nel 1843;Luigia, nata a Fontanafredda nel 1845; Amalia, nata a Fontanafredda nel1847; Costantino, nato a Fontanafredda nel 1851 (morto nel 1852). Miofratello aveva un solo figlio, Luigi, nato nel 1852.

Nostra madre viveva in seno alla famiglia, che si era costituita unica. Eraconfortante vedere quella povera vecchia di circa sessant’anni, sanissima,senza un capello grigio, affaccendata nelle cose domestiche, tutta vigilantecol suo occhio fatto maestro dall’esperienza.

Il nostro era un vivere beato, ma in questa terra di lacrime non potevadurare a lungo.

Mia moglie e mia cognata erano in stato interessante e mia moglieall’avanzarsi della gravidanza aveva disturbi e sofferenze. Venne il 7 luglio1853 ed essa, per il sentimento di rispetto e di devota amicizia che aveva neiconfronti della nobile contessa Amalia Pujatti Zilli, si recò con fatica pressodi lei e, fatti i consueti convenevoli, la pregò di raccomandarla al Signoresiccome sentiva il triste presentimento di non vederla mai più.

A tali parole la nobile ed eccellente signora, con quel fare tutto suo fra loscherzoso e il serio, le rivolse frasi soavi che un po’ calmarono l’infelice.Tornata a casa, sentendosi qualche doglia, si ritirò nella sua stanza. Ledoglie crescevano; mia cognata e la mamma le erano dappresso.

Intanto era venuta notte avanzata. In cucina mio fratello, stanco dellefatiche del giorno, s’era addormentato vicino al focolare, con una gallinavicino, pronto a cucinarla per ottenere un bel brodo sostanzioso. Miacognata e la mammana erano tanto serie; mia moglie si sforzava di proferirequalche facezia per distogliermi dall’abbattimento che non riuscivo anasconderle.

Giunse l’istante più serio della gestazione e la poveretta urlò:- Oh Dio!... Toni mio, moro!Era morta.Mio fratello a grande carriera spinse la nostra brava cavalla fino a Sacile

e ritornò col dottor Gobbi, il quale, entrato nella stanza ove giaceva miamoglie, riscontrò che tutto era perduto.

Fui creduto impazzito, e dovevo esserlo perché giravo su e giù, avanti e

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indietro, camminando lento o correndo, gridando, piangendo, ridendo. Ilservo di stalla m’inseguiva con un secchio d’acqua e una spugna astrizzarmela sulla testa, singhiozzando; credo proprio che siano stati queibagni a impedire il guasto del mio cervello.

Il giorno era appena fatto e le grida e gli urli della famiglia avevanoscosso i vicini, che accorsero in tanti ad aiutare per quel che potevano. Nonvalse la forza quasi erculea del povero Pietro fu Vincenzo Pezzutti, nonquella del vivente parroco Della Toffola a trattenermi; avevo le bracciastrette come da quattro tenaglie ma la mia irritazione nervosa, il mio cuorespezzato la vinsero e li trascinai con me. Dove? Accanto al letto ovegiaceva, caldo cadavere, la mia fedele compagna.

Dopo qualche tempo mi trovai, non so come, presso la famiglia Zilli.Chi conobbe la contessa Amalia e ricorda quanto grande era l’affetto suoverso la mia cara estinta, e come generoso il suo cuore verso tutti, puòimmaginare le attenzioni e le confortanti parole che ebbe verso di me everso i miei figli. Anche esteriormente dimostrò quanto partecipasse alnostro dolore: era a mezzo lutto per la morte della di Lei genitrice e siricoperse di lutto intero per alquanti giorni.

Da allora per quella nobile signora ho sempre avuto sentimenti didevozione e di affetto (anche fra le insidie dei pettegoli e dei maligni, che inquesto disgraziato comune non mancano).

Passai qualche settimana senza ordine: lavoravo troppo, non dormivo,ero agitato, bevevo. Poi un principio di rassegnazione mi fece ricordare che ifiglioli avevano bisogno di guida e mi dedicai a loro rinunciando ad ognipiacere, ad ogni affetto estraneo alla famiglia, mantenendomi nell’austeritàpiù severa a quell’età di 36 anni, con una salute robustissima e resistendocosi per moltissimi anni.

Non si creda comunque che accennando a tali verità intenda arrogarmi lavirtù del casto Giuseppe, poiché fui uomo anch’io e perciò peccatore comeogni altro...

Circa un mese dopo l’infausto avvenimento, il 15 agosto 1853, miacognata diede alla luce un maschietto e lo chiamarono Giacomo.

Lo stabile Anselmi era un mucchio di sassi: un giorno da una parte, ungiorno dall’altra succedevano crolli di muro, di tettoie, ecc. ecc. con dannivari che dovevano esser tosto riparati per evitarne di maggiori; se comeposizione procurava buoni guadagni, come solidità era una gatta dapettinare.

Una notte, di ritorno da Venezia dov’ero andato per regolare una vecchiapendenza che stava a carico dei fratelli Vincenzo e Marianna Carnelutto, mimeravigliai alla vista di un insolito chiarore che dal muro della cucina siproiettava sulla strada che mette a Sant’Egidio. Immaginai che il foro delmuro da cui usciva la luce fosse stato originato da accidentale crollo e che ilchiarore fosse prodotto dal lume acceso per la notturna sorveglianza. Maquella rottura non era accidentale; subito mi dissero che ignoti malfattoriavevano praticato quel foro la notte precedente (quella in cui io ero partito)e, penetrati in cucina e da questa nell’attigua bottega ed aperta la porta dellastessa che dà sulla strada ora provinciale, avevano asportato lo scrittoio dellabottega, che fu trovato la mattina a breve distanza scassinato e vuotato dei

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soldi che conteneva, i nostri e quelli depositati dai coscritti di quell’annosoggetti alla leva militare; scassinato e con tutti i documenti, anched’importanza sparsi intorno.

Il danno patito fu rilevante e più amaro per la responsabilità morale chepesava sopra di me per il rapito deposito.

La maliziosa e audace rottura di quel muro, ch’era screpolato ancheprima, mi costrinse ad applicare un radicale restauro per ovviare ad ulteriorimalanni e anche per la sicurezza della famiglia. Perciò la Società fece ilsacrificio di far costruire un nuovo e solidissimo muro a tre lati, due deiquali imbrigliati ai due paralleli maestri della cucina, occupando un nuovospazio di fondo e rendendo cosi la cucina stessa più ampia, come si puòvedere, e costruendo al primo piano le due camerette sovrastanti e uncomodo granaio sopra le camere superiori della grande cucina. In totale laspesa fu rilevante.

Come se non bastassero tali spese sostenute, in seguito alla caduta erottura del fanale di stalla (causata dalla negligenza di un nostro bovaro,certo Vecchies), perdemmo un grosso animale bovino, la cui carne nonpotemmo vendere e perché di qualità scadente, e perché c’erano le vigilie, eperché la stagione era caldissima: perdita totale quindi.

Tornato a casa scontento per la mancata vendita della carne, un altrodissesto mi aspettava. Le riparazioni allo stabile erano state eseguite in partesoltanto perché alcuni punti avrebbero richiesto la totale demolizione, conspese superiori alle nostre possibilità; ma quei punti decrepiti non potevamonon adoperarli. Cosi capitò che, non potendo collocarla altrove, collocammouna botte piena d’olio ricevuta in quei giorni sotto una tettoia, presso l’orto;i muri erano screpolati, il tetto fessurato e dalle aperture i raggi del sole,cocentissimi, e l’aria elasticissima produssero l’asciugamento dei cerchi dilegno che fasciavano la botte per cui le doghe si sfasciarono e l’olio corseper le terre perdendosi in molta parte o guastandosi sul pavimento ch’era diterra battuta.

E questi due fatti furono solo forieri di altri più gravi ancora.Mia cognata Teresina, dopo Giacomo, nel 1857 aveva avuto Federico.

Subito dopo la sua salute cominciò a deperire e non valsero le cure el’assistenza prestate dalla famiglia, non quelle prestate dai dottori LodovicoGraziani e Brunetta: la tisi la costrinse a letto per tre mesi e poi l’uccise il 22luglio 1858.

La perdita di quell’eccellente creatura mi commosse tanto come se mifosse appartenuta per vincolo di sangue; l’amavo come una sorella e neavevo il dovere perché alla mia figliolanza ella aveva fatto da madre, dasorella, da amica; era stato merito suo la santa pace che era regnata infamiglia.

Arrivò il 1859 e si ridestarono le gelosie dell’Austria contro il Piemonte.Un via vai di milizie cominciò a correre la strada vicina, e di sovente quellemilizie qui pernottavano.

Una notte il nostro locale fu occupato da cavalli e soldati, e alcuni diquesti si sdraiarono su della paglia sotto il portico che dava accesso allacucina e alla cantina. Il giorno seguente le trombe chiamarono a raccolta perla partenza e un ufficiale che era stato alloggiato da noi ordinò la colazione:

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fu servita subito e mancando il vino presi la chiave della cantina,l’introdussi nella toppa e con sorpresa m’accorsi che la serratura era statascassinata.

Entrai in cantina e vidi subito che era sparita una partita di formaggio,quasi tutto stravecchio, che erano spariti molti salami ed altro, che le spinedelle botti non erano a segno, che per terra c’erano tracce di vino.

Resi edotto l’ufficiale del furto avvenuto: solo i soldati che avevanoriposato sotto il portico vicino alla porta della cantina potevano esserne statigli autori. Egli si dimostrò spiacentissimo e fece rapporto al suo comandanteil quale ordinò una rigorosa perquisizione ai soldati e ai carri, ormai partiti;la perquisizione, eseguita a Conegliano, non portò ad alcuna scoperta direfurtiva.

Qualche mese dopo potei accertare che i salami e il formaggio posti invendita in un negozio non lontano erano roba mia: certo quei generipotevano essere stati rubati dai soldati, ma istruiti da un manutengolo.

Ognuno ricorderà come nel 1859 avvennero le sanguinose battaglie diMagenta e di Solferino tra l’Italia e la Francia contro l’Austria, che fucacciata dalla Lombardia; ognuno ricorderà il successivo ingiusto trattato dipace segnato a Villafranca che lasciò sotto l’austriaco dominio le veneteprovincie.

In conseguenza della guerra sostenuta in stagione assai calda, fra isoldati si svilupparono gravi malattie e fra queste la più dominante era iltifo.

Sventura volle che anche in quell’occasione qualche reggimento dipassaggio, specialmente di Ulani, pernottasse a Fontanafredda e cosi ilmalefico morbo si diffuse, anche se i soldati venivano portati all’ospedale aiprimi sintomi.

Era circa la metà di ottobre quando Francesco, l’unico figlio maschiorimastomi, cominciò ad accusar malesseri, dai quali apparve miglioratodopo alquanti giorni di cura, ma nei quali ricadde con sintomi tantoallarmanti da farmi concepire il doloroso sospetto ch’egli avesse incontratola malattia tifo; cosi infatti confermarono i dottori Graziani e Brunetta. Essiperò si congedarono con parole tranquillizzanti sulle condizioni del malato,sicché io rimasi calmo al suo capezzale.

Ma ben presto il suo stato m’impressionò: certo la malattia non era qualei signori medici volevano farmi ritenere. I sintomi del tifo si svilupparono:la sua testa ardeva, la sua mente vacillava, la sua fisionomia mi inquietavasempre più.

Trascorse il resto della giornata, trascorse la notte e giunse il mattino deldì seguente; il mio funesto presentimento prendeva maggior consistenza edifatti alle ore due pomeridiane del giorno 26 egli rese l’ultimo respiro.

Povero Checchi!... mio amato figlio!.., a sedici anni e due mesi, cosibuono, cosi bello, robusto, caritatevole come la madre, simpatico e caro atutti, morto! Dio mio, quante sventure! Non era troppo per un uomo solo?

Non proseguirei queste memorie se non avessi deciso di lasciare allefiglie ed ai nipoti un insegnamento e una spiegazione del mio stato attuale:contro le avversità del destino sagacità e buon volere non valgono; bisognarassegnarsi e subire, bisogna resistere per i doveri, impostici da Dio e dalla

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natura, verso di lui, verso la società, verso noi medesimi.

A questo punto mi si permetta di parlare di un altro Francesco, cugino ecoetaneo di mio figlio: di Francesco Petrapoli, figlio di Maria sorella di miamoglie, ragazzo a me particolarmente caro, specialmente dopo la scomparsadel mio.

Serio e studiosissimo era entrato quale alunno di concetto nell’Ufficio diContabilità di Stato di Venezia, cattivandosi presto la stima e l’affetto delcapufficio conte Contarini. Conseguita la laurea in legge, non sapendodecidersi se dedicarsi alla carriera d’avvocato o continuar l’altrad’impiegato governativo, chiese in proposito la mia opinione ed io loconsigliai di tenersi il certo, cioè l’impiego governativo, nel quale avevaasceso già qualche gradino e maturato anni di anzianità. Si attenne al mioconsiglio, si diede a nuovi studi superando lodevolmente gli esami discienza contabile. Dopo gli avvenimenti del 1866 ebbe un avanzamento e fuammesso quale applicato di prima classe al Ministero delle Finanze aTorino, poi a Firenze, poi, in occasione del trasporto della capitale, a Roma.Fu ammesso quale ragioniere al Ministero delle Finanze con uno stipendiodi lire 3000.

Una sera, alla vigilia di Natale, dopo una serata passata presso lo ziocommendator Adriano Lioncurti, rientrò a casa accusando forti dolori allatesta. Due giorni dopo era morto. Aveva 28 anni.

Proseguendo nelle memorie ricorderò che la costruzione della strada diferro portò un danno enorme ai paesi che la costeggiavano e produsse uncambiamento assoluto nel nostro andamento.

Non più carrettieri con mercanzie provenienti dalla Germania eviceversa; non più cavalli, non vetturali, forestieri, poste, truppe, ecc. Laferrovia riversava tutti i suoi vantaggi ai soci e alle città centrali, lasciandogli altri luoghi senza risorse, impossibilitati a procurarsene, assediati damendicanti che aumentavano ogni dì in proporzione alla miseria crescente.

Sotto questa non confortante impressione pensai che sarebbe stato beneriattivare la fabbrica di aceto; ma il vino mancava e sostituirlo con uvesecche esigeva denari non pochi. Feci esami, indagini, studi, superaidifficoltà e titubanze, ma alla fine ottenni risultati superiori alle speranze; inpoco tempo la vecchia industria, riattivata sotto formula nuova, ebbe famadi buona, anzi di migliore fra le poche esistenti in provincia e le richiestefurono superiori alla produzione.

Bisognava non lasciarsele sfuggire, ma per ottenere questo occorrevaestendere la fabbrica, moltiplicare i vasi e procurare i locali adatti e benriparati. Questi soprattutto mancavano nella nostra dimora, mancavano nelpaese che nulla offriva da poter avere a pigione.

Si doveva demolire il vecchio e rifabbricare: un bell’atto di coraggio.I locali necessari furono costruiti in due riprese (attualmente formano

l’ala destra del caseggiato dove abito) e vi furono sistemati i tini vecchi, tininuovi e quant’altro abbisognava. La grande stalla da cavalli, proprietà diTeresina mia cognata, fu convertita in cantina e riempita con un centinaio dibotti; sopra la fabbrica di aceto ricavammo un granaio che servì, tra l’altro,

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anche da locale d’acquartieramento per i soldati qui saltuariamentestazionanti tra il 1859 e il 1866.

Dopo la morte di mia cognata Teresina, assunse le funzioni dipadroncina di casa mia figlia Luigia, di dodici anni circa; era stata beneiniziata dalla zia nelle faccende domestiche e, benché giovanissima, prese adagire con premura mirabile e con vera soddisfazione della famiglia.

Anche l’altra mia figlia, Amalia, faceva di tutto per aiutare la sorellamaggiore ed assistere la minore, Adele, di soli nove anni, e la cuginettaAngelina di cinque, con la cooperazione della vecchia madre mia.

Ricordo che nel 1859 Luigia, Amalia e il povero Francesco finché visseci furono di moltissimo aiuto nel servizio degli Austriaci che a frotte sipresentavano nell’esercizio; e ciò benché non fossero abituate a quel generedi lavoro e tanto meno a quella gente.

Mio fratello, rimasto vedovo con una figliola, pensò di risposarsi,diversamente da me, ed essendogli stata proposta in matrimonio una ragazzadi Sacile, certa Lucia Fabbroni, la impalmò il 3 ottobre 1860.

Fu mia cura allestire quanto era necessario al decoro della cerimonia (ecerto qualcuno ancora può ricordare se fu poco bella), specialmente perchéonorata dalla presenza del signor Lorenzo Zilli e della contessa sua moglie,del reverendo don Lorenzo Bianconi di Venezia, prete si ma galantuomo,del carissimo amico Vincenzo Capo, di sua moglie e di altri buoni amici.

Il Capo era compare d’anello e, seguendo i sistemi usati a Venezia egl’impulsi del suo cuore sempre generoso, fece presente alla sposa unmagnifico bocchè di fiori con vaso bellissimo ed altro ancora e pose adisposizione per il pranzo nuziale una grande scatola di dolci finissimi edeccellenti e bella e buona copia di ostriche e di altri crostacei, di sogliole edi altri stupendi pesci di mare.

Dopo tanti anni trascorsi fra malori, fu quella una giornata gioconda pertutti, e dirò anche per me, poiché pensavo che quella sposa sarebbe stata unabuona guida per le mie figliole e per quella di mio fratello che siavvicinavano all’età pericolosa.

La mattina seguente, al primo presentarsi della sposa, mia figlia Luigia,con le sorelle e la cugina accanto, le offri le chiavi e le cose che ad essaerano state affidate, come biancheria, ecc., protestando la propriasottomissione e quella delle sorelle e della cugina. L’atto fu ben graditodalla sposa, che dimostrò soddisfazione per l’ordine, il buon governo e lapulizia di ogni cosa.

Quel matrimonio fu apportatore di una piccola somma dotale, che fupassata alla società ad interesse. Contando che la sposa doveva essereprovetta nella filatura dei bozzoli, la società venne nella determinazione diallestire una filandina da seta, che fu posta in azione valendosi del piccolocapitale dotale e di altro concesso a modico interesse dal già conosciutosignor Enrico Sartorello. Quella filanda aveva anche lo scopo di farimparare il mestiere alla nostra figlia, mestiere sempre utile alle ragazze inquei tempi, senza bisogno che andassero fuori di casa.

A suo tempo la sposa ebbe un bambino, nato morto, e più tardi unabambina cui fu posto nome Caterina.

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Nel 1863, il 23 luglio, dopo breve malattia, morì mia madre. Prima dimorire mi trattenne presso il suo letto e si espresse ringraziandomi deisacrifici da me fatti per lei nella mia giovinezza; mi disse che le dispiacevamorire lasciando la famiglia sotto il dominio austriaco, ma che riteneva nonlontano il tempo del riscatto, che avrebbe salutato e benedetto dal cielo ovesperava che l’anima sua sarebbe salita.

Intanto Cattinetta era venuta su bene sotto le cure e la custodia della miaLuigia (che per la verità fece da madre e da brazzola a tutti i figli delsecondo matrimonio di mio fratello); ma una notte mostrò sofferenze perdolori alla gola e al ventre. Fu chiamato il medico, che ordinò qualcosa, chefu tosto somministrata ma non produsse sensibile sollievo. Quella nottemedesima la madre fu assalita dalle doglie foriere del parto e, assistita dallabrava mammana Augusta Balliana, o dalla Zocro non ricordo bene, le fulevato un bambino soffocato.

Fu la madre di mia cognata, qui giunta da Sacile insieme con lamammana, a comunicarmi il funesto esito del parto. Ne fui colpito eparticolarmente spiacente perché il neonato era un maschio.

Appena possibile entrai nella stanza della puerpera e, per confortarla, leindirizzai tutte le parole che la circostanza e la disgrazia suggerivano.Staccatomi dal bambino morto, ch’era bello e forse troppo nutrito, miavvicinai alla culla di Cattinetta.

Con mia grande sorpresa, appoggiato alla culla, immobile ed aggrumato,vidi mio fratello che soffocava i suoi singhiozzi: Cattinetta era morta! Eramorta proprio in quel momento!

Che fare? Come fare con mia cognata, che ancora non sapeva niente,certo troppo prostrata per sopportare un altro colpo?

Dissi a sua madre e alla mammana di non permettere a nessuno diavvicinarla e corsi dal dottore per aiuto e consiglio. Egli, presentatosi nellastanza, indirizzò a mia cognata parole di conforto per il bambino morto edisse che Cattinetta doveva essere portata fuori per evitare inconvenienti allamadre per via dell’odore degli escrementi e della corona d’aglio messa alcollo della bambina contro la verminazione (causa della morte però non erastato soffocamento da vermi, ma un’angina fulminante).

A questo punto mi feci forza, mi accostai alla culla e, per non destarsospetti nella madre, parlai alla bambina come se fosse vivente, le indirizzaiparole e promesse quasi che mi avesse chiesto un giocattolo. Me la presisulle braccia e la portai fuori di li, nella stanza più lontana. Mi sentivosvenire.

L’adagiai sopra un letto e, accanto, la mammana depose il bambino. Idue piccoli furono deposti in una stessa bara e sepolti fra la costernazione ditutta la gente che non ricordava un fatto uguale.

Qualche tempo dopo morì un’altra figlia di mio fratello, sempre perangina.

Intorno a questi anni venne a mio fratello l’idea di acquistare dei terreni,idea che io accettai di mala voglia e giusto per mantenere il buon accordo infamiglia: i terreni infatti non avrebbero reso, mentre gli stessi soldiimpiegati nella nostra azienda avrebbero fruttato molto di più: a parte il fattoche avevamo la necessità di renderci solidi, in previsione di non improbabili

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future difficoltà o dissesti o rovesci. Una discreta scorta di capitale nelcommercio è indispensabile.

In sostanza, secondo me, sottrarre denaro al commercio per impiegarloin terreni è come, per un fornaio, consumare il lievito all’infuori dellalavorazione del pane.

Tale impiego di denaro produsse sprechi significantissimi in livellazioni,in regolarizzazioni di fossi confinanti, in pagamenti di operai, operai addettiai lavori ordinari e straordinari (dei quali eravamo diventati servi: tuttiesigenti buon vitto e miglior compenso in denaro e in generi alimentarianticipati, molti dei quali non sarebbero più stati pagati. A questo proposito,tanto per citare un esempio, un operaio, cui era stato assegnato il vitto e unquarto di forino al giorno, risulta ancora debitore di oltre 750 lire italiane; equesto credito lo cederei volentieri per sette.); operai che d’altronde nonpotevamo sorvegliare perché le nostre operazioni commerciali non lopermettevano.

Tentavo di far capire tutto ciò a mio fratello, cioè che anche se ilcommercio procedeva bene era illogica ed ingiusta ogni distrazione didenaro per impiegarlo in ciò che non poteva produrre risultati utili esoddisfacenti; che quand’anche si fosse dominati dalla «passione agricola»il momento e la situazione non permettevano di soddisfarla; che solo se lafortuna avesse progredito in modo da garantirci ogni provvista necessariaall’andamento del commercio senza ricorrere a prestiti sarebbe statopossibile e conveniente l’acquisto di qualche podere e, caso mai, di qualchepodere non spezzettato, non molto lontano, di facile sorveglianza, daaffidare a provetti coloni; tentavo di fargli capire che a carico della sostanzaAnselmi esistevano livelli, enfiteusi e capitali da estinguere e che i creditorivolevano essere soddisfatti e si rivolgevano a noi: che finalmente eraimpossibile, con gli utili del commercio, far fronte a spese straordinarie.

Tali mie considerazioni, se sul momento da mio fratello venivanoapprezzate, erano poi dimenticate perché c’era sempre chi sapeva alimentarela sua «passione agricola» (che posponeva i matematici e palmari vantaggicommerciali all’idea della possidenza) con idee nuove, con promesse divantaggi suggerite da particolari tornaconti.

Il signor Prister aveva manifestato il divisamento di vendere una suatenuta condotta dalla famiglia Della Toffola detta Baruz e mio fratello s’eramesso in testa di comperarla. Opponendomi io in tutte le maniere, mi feceparlare perfino dal pievano di Vigonovo che per convincermi mi poseinnanzi considerazioni veramente barocche; io gli ribattei francamente chela cassa sociale non era in grado di offrire nemmeno una tenue caparra perl’agognato acquisto e che se mio fratello si trovava nella possibilità di farlo,facesse tale acquisto per suo conto, nome ed interesse.

Ben d’altro che dell’acquisto di terreni avremmo dovuto occuparci se cifossero stati denari disponibili! Per esempio dell’acquisto a contanti deigeneri necessari alla fabbricazione dell’aceto, come alcool, di cui ogni annoconsumavamo una dozzina di botti pagando ciascuna cento lire in piùperché prese a credito.

Quando seppi che il signor Prister aveva venduto il suo possedimento fui

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contento: era stata tolta una causa che poteva dar luogo a famigliari rotture,come l’accennato pievano mi aveva pronosticato, o ad una più sollecitanostra rovina.

Ecco un altro episodio che dimostra il modo leggero con cui mio fratellotrattava i suoi affari.

Nel 1872 avevamo filato un buon ammasso di gallette ricavandone circa350 chilogrammi di seta. Ogni bravo produttore, specialmente se lavora concapitali altrui (come noi in quel tempo), non si lascia scappar nessunaoccasione di collocare vantaggiosamente la merce che ha in magazzino.

Bene, io mi tenevo informato sull’andamento del mercato e avevoricevuto una vantaggiosa offerta telegrafica di vendita: mandassi immediataconferma. Ne parlai al fratello che, incerto come sempre, aspettòl’imbeccata della moglie, ma comunque accettò.

Siccome doveva recarsi a Sacile per altre cose, gli scrissi il testo deltelegramma di accettazione incaricandolo di spedirlo. Egli se ne dimenticò eal suo ritorno era troppo tardi per rimediare.

Conseguenza: in seguito ad un improvviso e sensibile ribasso dei prezzifummo costretti a vendere la seta, tre mesi più tardi, incassando duemila lirein meno di quello che avremmo realizzato con la prima offerta.

D’altra parte io avevo il difetto di essere troppo arrendevole dì fronte acerte idee di mio fratello che sapevo sbagliate; nel 1879 per esempio nonseppi abbastanza resistere alla sua idea di acquistare gallette che erano su diprezzo, mentre ero dell’opinione di aspettare un calo; il calo infatti ci fu. madopo che avevamo comperato.

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IL 1866 A FONTANAFREDDA

Dal 1859 era sempre stanziato in questo paese qualche squadrone dicavalleria (offrendo utili di consumo); nella primavera del 1866 ebbe ordinedi congiungersi all’esercito verso i confini lombardi e piemontesi.Successero le battaglie che la storia sa narrare ma che io non sapreidescrivere. Quello che posso dire è che l’armata austriaca era in ritirataverso l’Isonzo nel mese di luglio.

Mi sembra che fosse il giorno sedici che per questa strada provincialetransitarono tanti non so quanti, ma dico tanti, reggimenti di ogni arma, conimmensa quantità di carriaggi e tante bande musicali da farci figurare diessere spettatori di una continua accademia; come se quell’esercito fuggenteavesse ottenuto, o stesse per ottenere, grandi vittorie.

Il caldo era atroce e molti poveri soldati d’infanteria, stanchi, assetati ecoperti di polvere da parere mugnai, stentavano a proseguire la marcia, forsedoppia o tripla quella giornata. Ne vidi parecchi cadere e restar li incapaci dirialzarsi; alcuni venivano dai compagni raccolti e trascinati sui carri conmodi veramente non umani; altri venivano dimenticati o trascurati; a questinoi procuravamo conforti con quello che di meglio avevamo.

Ne vidi alcuni, barbaramente colpiti sulla schiena col dorso della spadada qualche ufficiale, tentare di rialzarsi, fare qualche passo reggendosi piùsulle braccia che sulle gambe e ricadere a terra, per cui busse di nuovo edopo essere raccolti, non so se vivi o morti, venivano buttati sui carri comeporci morti.

Infelici! Tanti stenti, tanti disagi, tante privazioni, tanti rischi sui campidi battaglia, tutto magari sopportato contro i propri convincimenti e principi,ed ora ricevere busse. Oh viltà, infamia e tirannia brutali!

Sul tramonto del sole transitò un altro reggimento. C’era un generale conle decorazioni che gli coprivano tutto il petto, con un cappello guernito dipiume lunghe, folte, scortato da molti ufficiali di stato maggiore.

Chi è? Chi non è? Tutti eravamo curiosi di saperlo. Un caporale in buonitaliano rispose: - E’ Sua Altezza Imperiale l’Arciduca Alberto d’Austria.

Ad un tratto, in seguito ad ordini gridati con voci dure, un drappello dicinquanta uomini si raccoglie, si gira e si dirige a passo di carica versoSacile. Un tale, proveniente appunto da Sacile, informa che il ponte di pietrasul Piave è stato distrutto, che il reggimento in transito è l’ultimo in ritirata,che il drappello di soldati rimandati verso Sacile è la retroguardia che sispinge alle vedette e che ben presto sarebbe ritornato.

Difatti pochi minuti dopo il drappello era di ritorno, ma non era ancoragiunto davanti al mio negozio che, con grande sorpresa di tutti, si videgiungere dalla parte di Pordenone, ed a gran carriera, un plotone di Ussari alcomando del luogotenente conte Gyulay, che noi ben conoscevamo perchéspesse volte negli anni passati s’era fermato in paese per le manovre. Soldatifurono disposti di sentinella in vari punti del paese con l’ordine di nonlasciar passare nessuno verso Sacile; altri furono mandati di pattuglia.

L’ufficiale conte Gyulay ordinò ai Deputati comunali che durante lanotte tutti gli esercizi del paese dovevano rimanere aperti ed avere sempre in

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pronto abbondanti quantità di caffè. Il mio esercizio non entrava fra quelli.L’agente comunale Gio Maria Del Tedesco mi fece la confidenza che ilGyulay aveva dichiarato che avrebbe proceduto a rigorose perquisizioni erequisizioni e che la mattina seguente il Comune avrebbe dovutosomministrare all’esercito tante razioni di pane, di carne, di minestre edaltro che neanche tutti gli esercizi di Pordenone sarebbero stati in grado difornire, e ancora molte migliaia di razioni di formaggio.

Per fortuna il conte Gyulay fu molto discreto, a lode del vero,limitandosi a requisire generi per un valore di una cinquantina di fiorini, deiquali una ventina, in salami, lardo, ecc. a carico mio.

Ciò che più era stato ricercato per la requisizione era stato il tabacco dafumo e i sigari e più tardi capimmo perché: gli Austriaci intendevano privarela popolazione del Veneto dei generi di privativa, sale compreso, peringenerare malcontento e quindi rivolta contro le autorità italiane. Nullanaturalmente successe, ma per parecchio tempo dopo l’arrivo dell’armataitaliana queste provincie furono totalmente prive di tali generi.

Il conte Gyulay fu bloccato nella mia bottega da un improvviso uragano;il bisogno che dimostrava di non poter stare senza soddisfare la suaabitudine di fumare e l’idea che un atto urbano poteva farlo dissuadere daqualche molestia a mio danno, mi fecero sovvenire che mia figlia Amaliaforse poteva ancora avere qualche «Levante», di cui talvolta si serviva permitigare il dolore di denti cui andava soggetta.

Le dissi allora di presentare al conte i pochi sigari che s’era riservati,tenendone uno solo per sé. Egli accettò, ma a stento, dicendo non essergiuste che una signorina si privasse di quello che teneva come medicina persoddisfare un vizio di lui.

Diminuito il forte uragano, il conte Gyulay se ne andò nel cortile Baruzove era acquartierato il suo plotone ed io chiusi il negozio.

La ritirata delle imponenti forze austriache (in pieno ordine, per quantomi era sembrato), il ponte sul Piave distrutto, l’improvvisa presenza delconte Gyulay e le sue ordinazioni all’Ufficio Comunale, le pronosticateperquisizioni e requisizioni, facevano presagire che una grande battagliacampale avrebbe avuto luogo nelle vicine praterie, e prestissimo, tral’esercito austriaco ritiratosi presso il Tagliamento e il Nazionale che sivoleva trovarsi presso il Piave. Anche ai tempi di Napoleone questo luogo èstato teatro di una grossa battaglia.

Fatte alcune considerazioni alle mie figlie ed a mia nipote, suggeritedalla preoccupazione paterna e dal dovere, le condussi tutte insieme in unastanza e, augurata loro la buona notte, ve le lasciai deciso a vegliare incucina in attesa degli eventi.

Alla mia mente tutta tesa si presentò la parola «perquisizione» e miricordai che avevo i ritratti del re Vittorio Emanuele e di GiuseppeGaribaldi, per me sacri. Non dovevano cadere in mano dei nemici, che liavrebbero distrutti, né volevo esser compromesso.

Risolsi allora di salvarli riponendoli entro una botte vuota da moltotempo e perfettamente asciutta, una delle tante esistenti in cantina. Cosi fecie mi venne l’idea di porre in salvo qualche altra cosa, per esempio cose da

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mangiare per la mia famiglia: forse avrebbero potuto tornare di grandenecessità se, in seguito a qualche atto di guerra, fossimo rimasti senza ciboperché distrutto o razziato, magari portato via dalla tavola imbandita comeera già accaduto a nostri vicini di casa in altra epoca.

In cantina c’era una gran vasca di pietra ripiena a metà di olio d’oliva edio vi immersi alquante pezze di formaggio.

Ritornai in cucina e rimasi a vegliare, solo e nel buio più perfetto. Ad untratto ebbi un forte colpo al cuore: alcuni cavalli, giunti scalpitando a grancarriera, s’erano fermati giusto davanti alla porta del negozio. Rimasi zittozitto, col cuore in gola e quei cavalli ripresero la loro corsa nella notte. Dopomezz’ora altro calpestio di cavalli, in un punto diverso ma sempre pressocasa mia, e così di seguito durante tutta la notte, per fortuna senza verunincidente per me.

Allo spuntar dell’alba nella quiete improvvisamente ritornata, spossatoed esausto mi sdraiai sopra una tavola e forse m’addormentai.

All’ora solita mio fratello si alzò e apri il negozio. Quasi subito giunse ilconte Gyulay a chiedere pane per i suoi uomini.

Non ne avevamo un pezzo ed il conte continuava a non credere e a direche i suoi uomini dovevano ricevere pane. Pane. Come se fosse niente.

In certi momenti con certa gente conviene fare di necessità virtù ed io,ormai completamente sveglio e di nuovo preoccupatissimo, dissi che se ilsignor conte mi rendeva libero il passaggio sarei andato a Vigonovo aprovvedere il pane per i soldati e forse qualche sigaro per lui. Egli accettò.

Allestito un cavallo, presto presto salii in carrozzina e fui accompagnatodal Gyulay fino al capitello ove era appostata la sentinella, che ad una paroladi lui mi lasciò passare. Svoltai verso Vigonovo e in poco tempo vi giunsi.Andai dal parroco per i sigari, ma dormiva; da Diana per il pane, ma non eraancora cotto; tornai dal parroco che, destato ed alzato. mi favori una dozzinadi «Virginia» e, dopo scambiate con lui quattro parole sugli avvenimentidella giornata e della notte passate, ritornai da Diana e potei ritirare un belpo’ dì pane.

Stavo per risalire sul carrozzino quando un contadino di Talmasson,proveniente da Fontanafredda, mi disse:

— Sior Antonio, no stei aver premura. I Todeschi i è coreti via. I à ciapatun ordine da Pordenon, i à tuot su le so robe e via de corsa co i so ciavai!

Se prima avevo voglia di giungere presto a Fontanafredda, quelle parolemi fecero correre ancor di più. Trovai a casa mia riunite diverse persone, frale quali il dottor Graziani, il carissimo deputato Giuseppe De Rovere eDomenico Anselmi, che tutte giulive mi confermarono quanto avevo udito aVigonovo, aggiungendo informazioni appena giunte da Sacile (dove lostesso giorno giunsero i soldati nazionali).

Fra immensa allegria, benché fosse mattina e dì buon’ora, si mangiò,bevette, si brindò e si fumarono i sigari destinati al Gyulay.

L’entusiasmo si mantenne immenso fra noi tutto quel giorno e piùancora aumentò quando, giunti a Sacile, vedemmo un gran drappello dilancieri nazionali, se non m’inganno del reggimento Savoia, fra una grancalca di gente che li stringeva per vederli, per toccarli: pareva che ognuno livolesse per sé.

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La nostra compagnia finì all’albergo di Agostin Florianello, ovemangiammo bene e bevemmo meglio (in quella giornata tutto era piùsaporito del solito, ma quel vino Raboso era proprio buono!), brindammoall'Italia, al Re, a Garibaldi, all’Esercito.

V’era colà un cappellano di cui non ricordo il nome, italianissimo edentusiasta al punto da esser venuto, nel passato, a piedi da tre miglia lontanotutti i giorni a Sacile, e qualche giorno perfino due volte, per attingerenotizie intorno alle cose d’Italia. Quella sera, un po’ brillo e rosso come ungambero cotto, brindava con noi e come noi, aggiungendo: Viva Pio IX inCampidoglio!

L’italianissimo voleva Pio IX re d’Italia! Carino...Trascorso qualche giorno cominciò a correre voce che al di là del

Tagliamento e verso l’Isonzo ci sarebbe stata una gran battaglia fra Italiani eAustriaci, voce che andò prendendo consistenza maggiore in seguito adalcune manovre dell’esercito nazionale.

Non tutti si saran dimenticati che in quell’epoca qui in Fontanafreddapernottarono non meno di dieci generali, e due nella nostra abitazione: ilDella Rocca e l’Angelini, e che l’esercito era attendato nei prati circostanti.

Qualche giorno dopo si ebbe la notizia ufficiale che la pace era statafirmata, e cosi la tranquillità ritornò fra la popolazione.

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VITA PUBBLICA

Qualche mese più tardi fui chiamato a Venezia da alcuni interessi e colàmi trattenni per qualche giorno, qualche giorno più di quel cheeffettivamente il bisogno richiedeva; e ciò per quello che vedevo dipinto inogni viso e anche per rifarmi dei cattivi momenti trascorsi.

Mi fossi trattenuto ancora di più, forse, anzi di sicuro, non mi sarebberocapitate tante brighe e tanti dispiaceri, non avrei sofferto tanti danni esacrifici. Ma l’interesse della famiglia mi richiedeva a casa e rientrai.

Disceso a Sacile dal vagone del treno, trovai ad aspettarmi mio fratelloed altre persone, amici di Fontanafredda e di Sacile.

Strano.Tutti mi fecero un’insolita accoglienza, un’accoglienza che non sapevo

spiegarmi, che non sapevo se attribuire a buona o a cattiva causa.Indagai la fisionomia di mio fratello: niente di allarmante o di spiacevole

indicava, anzi venni espressamente assicurato da lui e dagli amici che lafamiglia godeva salute perfetta. Cosi m’incamminai con loro tranquillotranquillo a piedi verso la città.

Durante il cammino mi si pose a fianco Gio Maria Del Todesco, agentecomunale, e cominciò a parlarmi; a dirmi che durante la mia assenza erastata nominata la giunta municipale; a dirmi che era giunto il decreto realedi nomina del Sindaco; a dirmi che il nuovo Sindaco era una persona che ioben conoscevo. Tacque un attimo, mi guardò e... pronunciò il mio nome!

La notizia mi produsse una sensazione tutt’altro che entusiasmante e nonfeci alcun commento. Giunti alla locanda «Al leon d’oro» ove si trovavano inostri cavalli, invitai gli amici a prendere un bicchiere, li ringraziai del loroincontro e della notizia, aggiungendo comunque che, ora che mi eroassicurato della buona salute della famiglia, sarei ritornato a Venezia colprimo treno onde evitare di essere a Pordenone il giorno dopo a prestargiuramento: la mia situazione di lavoro non mi permetteva di assumerealcuna carica.

Gli amici giù a insistere e a dirmi che in fondo ben potevo passare laprossima notte in famiglia: non l’avessi fatto, essa ne sarebbe stata moltodispiacente. Mi lasciai convincere e, fatti attaccare i cavalli e salutata lacompagnia di Sacile, partii con gli altri verso Fontanafredda.

A casa dissi che sarei ripartito immediatamente il giorno dopo perVenezia, come richiedevano i miei interessi; a Venezia addirittura pertrasferirvi la residenza.

Ma gli amici mi circondarono, e ben da vicino, e tra il serio e il faceto midiressero qualche insolenza e mi fecero ancora presente che rifiutando lacarica conferitami sarei stato giustamente qualificato austriacante, codino,retrogrado, ingrato verso le autorità e verso tutti quelli che mi avevanogiudicato degno della loro fiducia, ecc. ecc.

Udito quel salmo, dovetti sottomettermi ed il giorno dopo, anzichétornare a Venezia, mi recai a Pordenone. La città era imbandierata, lefinestre dei palazzi e delle case erano damascate e imbandierate, la bandacittadina faceva udire, eseguiti con abile maestria, inni patriottici, la marcia

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reale, ecc., ed ogni ceto di persone inneggiava al Re, alla Patria, all’Esercito.Con altri Sindaci del Circondano prestai anch’io giuramento nelle mani

del pretore. La cerimonia fu splendida, nella sala pretoriale tutta guarnita diaddobbi fantastici. L’onorevole pretore tessé un forbito discorso. Rimasicolpito ed esaltato da tutto ciò che udii riguardo al nazionale ingrandimentoe tuttavia un cruccio interno mi invadeva: più di Cristo mi sentivo caricatodi una croce superiore alle mie forze, alle mie scarse cognizioni, alla mialimitata istruzione, e rimpiansi di aver ceduto alle insistenze degli amici.

Trascorso qualche tempo però mi parve di non aver principiato propriomale nella carica, assistito com’ero dal pratico agente comunale Gio MariaDel Todesco, con una giunta affiatata e disposta alla collaborazione, almenoin apparenza, e con la popolazione tutta che mi dava caparra di fiducia e dibenevolenza.

Ma tutta la nostra buona volontà, tutto il poco di bene che potevamofare, venivano inceppati da una moltitudine di leggi, tutte nuove per noi;leggi che dovevano esser poste in esecuzione senza il tempo di leggerle emeno ancora di studiarle.

Io mi davo da fare; per quanto mi era consentito dal tempo, correvo quae là per essere illuminato, consigliato, istruito, e quasi sempre ritornavosapendo quanto sapevo prima di partire. Lo stesso CommissarioDistrettuale, al quale tanto spesso ritenevo necessario ed utile dirigermi, nonsapeva, o non arrischiava, o titubava a fornirmi un positivo, un esattoconsiglio, per cui bisognava che mi lasciassi guidare dal buon senso più chedalle leggi.

Tuttavia, diciamolo pure, anche a questo modo, con le cose fatte a naso,l’amministrazione procedeva non male (cosi almeno dicevano gli altri) e ilmolto tempo che rubavo ai miei interessi veniva premiato dallasoddisfazione di fare il bene del Comune, la cui armonia interna era da tuttiinvidiata.

Nel 1867, dopo che furono ordinate le nuove elezioni generaliamministrative e rimessa ai comuni la loro autonomia, fu necessario chequesti si provvedessero del Segretario voluto dalla legge.

Dove trovarne tanti quanti occorrevano alla moltitudine dei comuni delVeneto? Ve n’erano di provetti, ma i Comuni autonomi ch’esistevano primadella proclamazione delle nuove leggi se li tenevano più cari che mai.

Se ne offri anche in questo Comune, a dir la verità un bravo e ottimogiovane, ma quantunque munito di patente mancava della conoscenzapratica dell’amministrazione e della contabilità comunale.

Si noti che le due frazioni di questo Comune, quella di Vigonovo equella di Fontanafredda, hanno amministrazioni separate per cui oltre lecontabilità parziali bisogna tenere anche la generale di Comune, il che èpiuttosto complicato e richiede buon senso e tanta pratica.

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QUESTIONI SOCIALI

Giunse la primavera, stagione durante la quale i contadini diFontanafredda usano per antico costume condurre gli armenti nei vastiCamolli a pascolare l’erba appena o forse non ancora nata; quel pascolo èuna necessità per gli animali, alimentati durante l’inverno con scarso e poconutriente foraggio: a primavera devono proprio mangiare un po’ più delnecessario e rinfrescarsi.

Ma quell’anno molti proprietari della ricordata campagna avevanoreclamato contro quell’inveterata abitudine ritenendola abusiva nonostantevenisse esercitata da secoli e solamente fino al giorno di san Marco, 25aprile, o al massimo fino a san Gottardo, qualche giorno dopo; avevanoreclamato e trovato forte appoggio nella autorità regie, tanto che erano stateordinate delle perlustrazioni in tutti i Camolli, territorio appartenente aicomuni di Sacile, di Fontanafredda, di Brugnera e di Porcia.

Dette perlustrazioni, affidate alle Guardie Nazionali appartenenti ai citaticomuni assistite dai Reali Carabinieri, venivano eseguite con la prudenzache la delicata situazione richiedeva.

Ma non sempre e da tutti.

Una domenica, per esempio, dopo che un drappello di Guardie Nazionalinostre sotto la guida del luogotenente Pietro Diana, seguendo le mie povereistruzioni, aveva «prudentemente» e con diligenza fatto il suo dovere senzadar luogo a incidenti, venni informato che le Guardie Nazionali di Sacile, diBrugnera e di Porcia penetrate nel nostro territorio senza la prescritta miaautorizzazione, non si erano accontentate di individuare i pastori chetenevano animali pascolanti sul territorio (ripeto, di nostra giurisdizione) perpoi denunciarli all’Autorità Giudiziaria, ma segnatamente le Guardie diPorcia avevano sequestrato animali e fermato qualche persona.

Era l’ora del vespero e molti abitanti erano raccolti in chiesa; un amico,sergente delle Guardie Nazionali di Sacile, era venuto a salutarmi e a dirmiche quelle sue e quelle di Brugnera si erano allontanate; anche quel giornoera passato senza che accadesse alcunché di sinistro.

Ma il cursore Alfredo mi avvisò che ero atteso all’Ufficio Comunale. Mici recai senza indugio e vi trovai Antonio Polesel fra Guardie di Porcia eCarabinieri: era stato colto nei Camolli con alcuni animali bovini pascolanti.

Accordai la parola al Polesel che rispose essere vero che i suoi animalipascolavano nei Camolli in un prato non suo, ma essere quel prato da luipreso in affitto. Era vero, come risultò subito, e lo feci osservare alle guardiee ai Carabinieri.

E quelli accusarono il Polesel di aver inveito contro di loro con parolesconce. Chiesi se il Polesel era ritenuto in stato d’arresto e i Carabinieririsposero che la cosa dipendeva da me.

Non pratico di simili cose rimasi perplesso: m’interessava tener alto ilprestigio della Forza Pubblica, ma non trovavo giusto che quell’uomo fossetradotto in carcere.

Mentre il segretario era occupato a stendere un accurato processoverbale del fatto, mi si presentò un’insperata risorsa che non mi lasciai

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sfuggire. Era entrata in ufficio la moglie del Polesel e piangendo intercedevaper la libertà del marito. Fatto intendere al Polesel che, se non altro, leparole oltraggiose dirette alla Forza Pubblica costituivano un reato dameritargli l’arresto, ma che era mia intenzione essere indulgente perriguardo alla lui moglie malaticcia ed in stato interessante, gli dissi chel’avrei lasciato andare a casa se prometteva di andarvi subito e di restarvisenza più uscire quel giorno e s’impegnava a presentarsi il giorno dopo alDelegato di Pubblica Sicurezza di Pordenone.

La risposta del Polesel mi soddisfece molto perché, dopo avermiringraziato, disse che avrebbe obbedito a qualunque mio ordine, si fosseanche trattato di andare all’inferno. Cosi, data lettura del processo verbale,glielo feci sottoscrivere e lo mandai con Dio, contento io di aver trovato ilmodo di salvare, come suol dirsi, capra e cavoli.

Durante quella pratica il popolo era uscito di chiesa e ad un certo puntoavvertii nella strada un movimento insolito, con rumori e grida tali damettermi addosso una certa inquietudine; inquietudine che crebbe quando ilcursore venne a dirmi che dalla finestra aveva osservato un grossotafferuglio tra Guardie e popolo: dovevo intervenire, mi disse, per bloccareun conflitto che aveva principiato ad insorgere.

Mi affacciai alla finestra e vidi confermate le apprensioni del cursore:due carabinieri stavano agitando la carabina contro il popolo nella stradabassa delle Viatte e la Guardia Nazionale di Porcia, al comando del capitanoonorevole conte Nicolò di Porcia, era appostata sulla strada provincialepresso la piazzetta della chiesa coi fucili spianati e montati contro il popolocostituito da donne coi grembiuli pieni di sassi e da uomini, dietro di esse,gridanti e fischianti, tutti appostati a semicerchio dalla cappella della chiesasporgente sulla via fino alla casa canonica, dimodoché il Municipio veniva atrovarsi nel bel mezzo fra Guardia Nazionale a destra e popolo a sinistra.

Se mi fossi affacciato a gridare, con la confusione che c’era difficilmentele mie parole sarebbero state udite e su quegli animi esacerbati piùdifficilmente ancora avrebbero prodotto benéfici effetti.

Allora decisi: sarei uscito e mi sarei presentato li, in mezzo aicontendenti.

Uscii dalla porta credo col viso bianco come il bucato, certamente conun freddo sudore sulla pelle e mi presentai fra Guardie e popolo.

Ci fu una certa sorpresa, una certa curiosità in tutti e ci fu un’improvvisacalma e silenzio. Non parlai: mi tolsi il cappello, tesi le braccia in attosupplichevole verso l’una e verso l’altra parte e rimasi là come in croce ainvitare alla calma.

La cosa produsse l’effetto da me desiderato: gli animi si calmarono e apoco a poco l’assembramento si sciolse e le Guardie partirono.

Tanta prova di fiducia e di rispetto della popolazione nei miei confrontimi commosse: la nostra gente non è cattiva. D’altra parte sagacemente sicomportò il capitano conte di Porcia.

Il fatto comunque ebbe dei seguiti giudiziari: ci fu un’inchiesta inseguito alla quale furono compiuti alcuni arresti che mi fecero piangere il

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cuore; alla fine chi pagò le spese fu un povero gramo, il solito caproespiatorio, che ben poco aveva avuto a che fare col tafferuglio.

Nei giorni seguenti l’autorità politica ed amministrativa, che volevacontinuare con mano forte contro coloro che ritenevano intangibile il lorodiritto di pascolo vagante nei Camolli, spedì da Pordenone mezzacompagnia di granatieri, mettendola a mia disposizione.

Di fronte al qual provvedimento, e ad altre disposizioni prese dallesuddette autorità per la mia sicurezza, per quanto mi sentissi animato daprudente abnegazione, non volli più assoggettarmi a tante responsabilità erassegnai le dimissioni.

Non furono accettate, anche perché la maggioranza del Comune avevainstato presso l’Autorità, costringendomi cosi a continuar a portare quellacroce; non solo ma anche ad assumerne un’altra successivamenteimpostami: la presidenza della commissione consorziale Fontanafredda,Porcia e Prata per la revisione dei redditi di Ricchezza Mobile.

Tornando al diritto di pascolo sui Camolli3, non sta a me entrare nelmerito della questione. Dirò soltanto che quel diritto, od abuso, è inveteratoda secoli, che i bisogni della popolazione erano e sono grandi. Prima ditoglierlo, politica, buon senso e umanità vorrebbero che venissero studiatitutti i mezzi idonei a far scemare quei bisogni; sarebbe pure di grande utilitàche i maggiori proprietari del latifondo Camolli lo migliorassero concoltivazioni, arando là dove è possibile, per esempio nelle zone marginali,facendo piantagioni, lasciando a prato solo le parti centrali, circondate dafossi con piante e siepi.

Nel corso dei sette lunghi anni in cui dovetti sostenere la carica diSindaco avvennero diversi cambiamenti di segretari; quasi tutti giovanissimie di non comuni capacità, erano però totalmente privi di esperienza diamministrazione comunale; di conseguenza, volessi o no, dovevo daremolto del mio tempo e del mio scarso ingegno per far andare le cose comedovevano. In compenso, soprattutto durante i primi anni, anche se qualchevolta molestato, ebbi la soddisfazione di veder sorgere in Comune l’armoniareciproca, solo in seguito turbata da un incidente imprevedibile eindipendente dalla mia volontà, dal mio operato e conoscenza, incidente alquale si appigliò il partito nero, sempre intransigente perché cattivo, performarsi dei seguaci e meglio combattere me e qualche altro.

Era la fine del 1871 quando il parroco di Vigonovo m’invitò ad unincontro presso l’albergo Florianello di Sacile. Non mancai e quel reverendosedicente mio amicissimo mi consigliò di sottomettermi ad unumiliantissimo ed ingiustificatissimo atto: dimettermi ipso facto dalla caricasenza addurre alcun motivo.

Benché con l’esperienza dei trascorsi anni di Sindaco avessi imparato adominare il mio temperamento piuttosto vivace, in quel momento mi sentii

3 Il pascolo è un tema che ricorre spesso nelle nostre cronache. Vedi in proposito inostri due volumetti ViGONOVO 1659: UN PROCESSO (per pascolo abusivo su terrenicomunali) e FONTANAFREDDA DOCUMENTI DAL 1785 AL 1805 (questioni contro iRoverediani per escluderli, vedi caso, dai pascoli nei Camolli).

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assalito da un fremito incontenibile, sia per l’offesa non meritata, sia per lapersona che s’era assunta l’indelicato incarico di indirizzarmela, e risposicome si conveniva, con tale e tanta energia e con parole tanto stringenti che,come io tremavo, quel reverendo impallidiva e alla fine ebbi lasoddisfazione di udirlo chiedermi perdono dell’insulto che diceva nonprovenuto da lui.

Ma il sasso era stato da lui gettato ed io gl’insegnai quali avrebberodovuti essere i doveri di un prete e specialmente di un parroco.

Da quel giorno mi mantenni nel riserbo dovuto, continuandonell’esercizio impostomi dal dovere, impavido di fronte all’ingiusta ira diquel sacerdote. Il quale continuò a minare contro di me senza accorgersi cheminava anche contro sé stesso. Invero corsero dei dispiaceri e delle minaccecontro di lui, e gravi tanto che non si teneva per sicura la sua vita. Eranonaturalmente timori esagerati perché l’indole della nostra gente é semprestata buona, nel suo complesso.

Scalmanato e rosso come lo scarlatto, egli correva a Pordenone dalCommissario distrettuale, dal Procuratore del Re, a raccontare, a reclamare asuo modo (forse perché riteneva che per i parroci esistesse una leggespeciale) e poi si presentava nel mio ufficio ad invitarmi a nome dellepredette autorità a fare questo, a non fare quello; una volta, per esempio, apregare di occuparmi per comporre una conciliazione di animi mediante unincontro, nella sua canonica, fra le persone più autorevoli ed influenti delpaese.

Io, che non volevo né potevo prender parte ufficialmente all’incontro persecondare le sue idee arcane, gli risposi che era nel suo pieno diritto invitarea casa sua chi meglio voleva, come fatto aveva altre volte, per trattareargomenti estranei al suo ministero; che se temeva qualche colluttazione miavvertisse indicando possibilmente fatti e persone; che alla progettatariunione potevo far assistere al massimo l’assessore anziano, mio delegato,che abitava presso di lui.

Combinazione volle che la sera in cui ebbe luogo la riunione io mitrovassi a Vigonovo; il reverendo colse l’occasione per presentarmi unoscritto, firmato da lui e da molti altri partecipanti, col quale mi si invitava adassumere la presidenza. Non trattandosi di riunione rivestente carattereamministrativo o politico riguardante la mia carica, rifiutai, accettando solodi far atto di presenza a titolo personale, con la condizione che l’argomentodoveva essere solo di pace, evitando ogni parola atta ad accendere o urtarela suscettibilità e i diritti di ciascuna delle due fazioni.

Non mi sarei deciso a scrivere questa pagina se quella sera non fosseaccaduto un fatterello che ha dimostrato come fra quella gente sì trovava unsoggetto onesto e religioso, ma altrettanto franco e spregiudicato.

Dopo che il parroco ebbe parlato, dopo che io pure ebbi messi inevidenza i vantaggi di una pace sincera e duratura, il signor Felice Nadin,ch’era stato o copriva ancora la carica di assessore, chiesta ed ottenuta laparola, disse: - Signori! Ho ben poco da dire, solamente che questa sera illupo (e puntò l’indice verso il parroco) si è fatto pecora, ma che domani lapecora tornerà lupo.

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A quelle parole, tanto brevi quanto significative, il parroco, che mi stavaaccanto, mi diede un altrettanto significativa stretta alla gamba, tantoenergica da lasciarmi il segno delle dita: pretendeva una mia replica oquanto meno una mia presa di posizione.

Mi alzai e cercai di far assumere alle parole del Nadin un significatomeno politico e più spirituale.

-Vi sono dei casi, mi ricordo di aver fra l’altro detto, dei casi in cuiqualunque capo di anime o capo di Comune deve dimostrarsi pecora e deicasi in cui deve dimostrarsi lupo.

Il parroco sembrò soddisfatto del mio intervento, mi ringraziò, miabbracciò e si diresse poi a dispensare un mondo di baci a tutti, a riceverneda tutti e la cosa finì li.

Non trovo conveniente tediare ancora il lettore col racconto di fatti efatterelli più o meno interessanti avvenuti durante il tempo della mia carica;dirò soltanto che, stanco e preoccupato del mio interesse (al quale andavosottraendo sempre troppo tempo), continuai a rassegnare le mie dimissioni,che mai furono accettate.

Finalmente però il primo agosto 1873 le rassegnai di nuovo, e di personacon orale dichiarazione, al Commissario Distrettuale, che le accettò: da quelmomento fui sollevato per sempre da ogni ingerenza negli affari comunali inquanto mi dimisi anche da consigliere.

Come succo di tanti anni sacrificati per il miglior andamento della cosapubblica ho tratto la convinzione, certo condivisa da altri, che quando sidesidera il male di uno non occorre augurargli chi sa quali disgrazie; bastadirgli: - Che ti facciano Sindaco!

E quello è a posto.

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ANNI DIFFICILI

Torniamo un po’ indietro nel tempo per accennare a fatti riguardanti lamia famiglia.

Nel 1870 Luigia aveva sposato Marco Cimolai di Vigonovo. Il distaccodi quella mia figlia, la maggiore, che aveva dato prove di capacità, di buonvolere e di attività con grandi vantaggi per la famiglia (doti che di soventeda qualcuno erano state contrastate per l’insana e ingiustificata gelosia dipadronismo), mi aveva rattristato assai.

Da quel matrimonio nacque nel 1871 Antonio, rimasto figlio unico.Erano rimaste presso di me Amalia e Adele. Senza far torto a nessuna

perché tutte due ebbero verso di me rispetto sommo e affetto immenso, forseAmalia m’interessava di più perché le sue attenzioni erano superiori aquanto potessi pretendere e desiderare; poi le sofferenze sopportate sin dafanciulletta per il martirio e l’estrazione di alcuni denti, estrazione non beneeseguita, l’avevano resa eminentemente sensibile.

Reputavo giusto per essa e di conforto per me non lasciarmela staccarein seguito al matrimonio con l’onesto giovane che si era presentato e tuttofaceva credere che mio fratello e mia cognata fossero in questo d’accordocon me in quanto più di me lusingavano i due fidanzati con promesse e beneconoscevano le mie intenzioni e, diciamo, i miei diritti di padre: dopol’immatura perdita della compagna, dopo la perdita dei figli maschi, dopo larinuncia ad ogni affetto estraneo alla famiglia e la fermezza a vivere in statovedovile, il mio isolamento meritava conforti da uno del mio sangue. Tantopiù che il giovane che parlava con Amalia aveva qualità personali, buonvolere, onestà. mente e cuore.

Ma mio fratello, ma più mia cognata!, pur non opponendosi almatrimonio, non furono d’accordo col fatto che Amalia rimanesse infamiglia; s’intromisero anche persone amiche ma senza ottenere risultati.Eppure, data la nostra età, sarebbe risultato utile a me e a mio fratello cheuna pianta giovane venisse pian piano a rimpiazzarci.

Non furono d’accordo sicché mi trovai a dover scegliere tra abbandonarela figlia o separarmi dal fratello; dilemma grave, ma sulla mia scelta non cipotevano essere dubbi e scelsi la divisione dal fratello.

Convenimmo di darne l’incarico al perito Giacomo De Luca diRoveredo e la sera del 13 dicembre 1873 fu firmato l’atto divisionaledopodiché ciascuna delle rispettive famiglie si ritirò nella propria parte dicasa.

Il 24 febbraio 1874 ebbe luogo il matrimonio tra Amalia e DomenicoPeruch detto Florianello, di Polcenigo, che da quel giorno si stabili presso dime e tenni come un figlio: se la fortuna ci avesse arriso, avremmo gioitoinsieme; insieme avremmo terso le nostre lacrime se ci fosse stata avversa,come purtroppo avvenne.

Alle modeste nozze mio fratello non assistette: aveva rifiutato l’invitoadducendo una scusa che ora lo farebbe arrossire. Non lo censuro perché giàaltrove ho detto di chi si era fatto schiavo.

Avvenuto il materiale possesso delle parti toccateci, non fu possibile

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passare alla stesura dell’atto legale e ciò per mal concepite ed infondatepretese del fratello.

Nel 1852, al costituirsi della Società, era stato stipulato il relativocontratto con un preciso inventario delle proprietà dell’uno e dell’altro, unoriginale del quale doveva essere conservato dai soci. Lo cercai fra le miecarte inutilmente e mio fratello asserì di aver fatto altrettanto anche lui,senza esito. Stimandosi creditore di somma non lieve ebbe l’impudenza difare una lite, basandosi sopra apprezzamenti erronei, contrari alla giustizia eal buon senso. La lite era molto avanzata quando quel documento saltòfuori.

L’avevo affidato in custodia a mia moglie. Quando morì non ebbi ilcoraggio di guardare nel suo armadio, le cui chiavi furono tenute da miacognata Teresina finché visse, poi da mia sorella uterina MariannaCarnelutto e, dopo il matrimonio di questa con Giuseppe Facchin diPordenone, le chiavi passarono a mia madre; morta questa, a mia figliaLuigia e da questa, dopo il suo matrimonio, alle altre mie figlie Adele edAmalia. E mai in tutto quel tempo avevo avuto bisogno di quel documento.

Fu alla vigilia della lite che, cercando fra vecchie carte un libretto cheavevo cominciato a leggere qualche giorno prima, mi capitò fra le mani unfascicolo dall’aspetto molto vecchio. Apertolo vi trovai una bolla pontificiad’autenticazione di una reliquia con busta d’argento a forma di crocecontenente un pezzetto di legno della Croce ed altri dodici reliquie; insiemec’era l’atto originale 27 luglio 1852 e l’inventano.

Ragguagliai mio fratello e il suo procuratore della scoperta e la lite sichiuse li.

Il negozietto aperto di nuovo mi avrebbe fruttato discretamente se miofratello non lo avesse pregiudicato tenendo aperto un altro negozio attiguo esimile al mio, e se un altro non fosse stato attivato ex novo in Villadolt daLuigi Sfreddo.

A mio fratello era toccata la filanda, con sedici bacinelle; a me lafabbrica di aceto, in verità ridotta a ben scarsa cosa. Riscontrato che iconsumi non compensavano la spesa, la chiusi.

Questa industria, che fino al 1867 aveva dato ottimi risultati, fuammazzata da due cose: dall’essenza di aceto, che io non potevo sostituire, edalle tariffe daziarie del 1868.

I soli utili derivanti dalla bottega non erano sufficienti per vivere edallora pensai di mettermi nell’industria serica. Feci apprestare sei bacinellecon tutto l’occorrente, occupando parte del locale già destinato all’aceto,comprai gallette con il denaro ricevuto in sovvenzione e le filai; ma inquella speculazione patii una perdita di 600 lire.

Tentai insieme con Vincenzo e Matteo Del Fiol di Venezia il commerciodei vini importandone dalla Sicilia. Per varie circostanze, su un capitale dilire diecimila patimmo una perdita di lire 1500.

L’anno seguente ritentai con la filanda. Mi andò bene e coprii ildisavanzo dei vini.

Una domenica d’aprile, di mattina, all’ora consueta, la vecchia serva

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Mariolina scese per accudire alle faccende d’uso e tosto risalì perrimproverarmi di essermi la sera prima coricato lasciando la porta aperta.Con un brutto presentimento in cuore, perché ogni sera ero solito chiudereaccuratamente porte e finestre, mi alzai, chiamai mio genero Domenico e dabasso riscontrammo che avevano scassinato una delle finestre del focolareallargandone le inferriate con un palo. Ci avevano rubato un sacco di caffè,uno di zucchero, uno di riso, una partita di formaggio, un migliaio di sigari,tre paletò e qualche oggetto di rame; il tutto per un valore approssimativo dilire 900.

Le disgrazie non mi mancavano.

Toccavamo il secondo trimestre del 1875 quando il presidente dellaCamera di Commercio diramò una circolare ch’esortava i filandieri aconvincersi che la vera causa dei pochi utili o dei gravi scapiti dell’industriaserica erano i vecchi sistemi e i vecchi apparecchi, e che perciò tornavameglio abbandonare la speculazione se non si faceva ricorso alperfezionamento delle filande.

Non ero certo nelle condizioni di sopportare una nuova spesa edistruggere tutto quello che avevo fatto di nuovo nel 1873; d’altronde ...audaces fortuna juvat! I meccanici De Rovere di Vigonovo avevanoimparato tutto sulla costruzione di filande a fuoco, (che si dicevano asistema comasco perché a Como erano state costruite le prime, con risultatiottimi in quanto producevano sete non inferiori di quelle a vapore), erichiedevano condizioni di pagamento abbastanza comode.

Ci pensai su molto e alla fine i risultati ottenuti da altri provetti filandierie il fatto che mi trovavo spesso a contatto con i De Rovere mi fecerodecidere: commissionai ad essi un gruppo di sei bacinelle con tre battenze,macchine ed attrezzi relativi.

Convenute le condizioni, a prezzo abbastanza caro perché i metalli sisostenevano a valori elevati, i De Rovere si misero al lavoro, maconsegnarono l’opera più tardi del tempo fissato. Comunque mi fu possibileaumentare la produzione, che riuscì soddisfacentissima: il prodotto ottenutodalle bacinelle di nuovo sistema con materia scarta era più brillante di quelloche ottenevo prima con gallette «reali»; e poi, di fronte ad una resa inferioredel due per cento, c’era un’economia del trenta per cento sul combustibileed un buon risparmio sulla manodopera.

Però nel complesso neanche quella campagna serica fu fortunata e,quantunque avessi migliorato la produzione, ebbi a soffrire una perdita.

Anche mio fratello ebbe a soffrire grosse perdite in quei tre anni. Certocapi che aveva fatto male a dar retta alla moglie che volle la nostradivisione; certo capì che aveva sbagliato a non seguire i consiglidell’egregio signor De Luca di restare uniti almeno nella filanda, ch’erastata costruita in modo da poter essere trattata col vapore: ampliandola unpoco e portandola alla capacità di una quarantina di bacinelle, avremmopotuto trattare i nostri acquisti coll’impiego di poche giornate di lavoro eaffittare poi locali e attrezzature ad altri filandieri.

Se per il passato non c’era più niente da fare, per l’avvenire si poteva

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rimediare. Mio fratello, da quando mi aveva intentato la lite, non miguardava più e così il primo passo lo feci io: gli scrissi proponendogli dirifare società nell’industria serica; avremmo potuto cominciar a lavorare condodici bacinelle.

Egli accettò e c’incontrammo. Gli spiegai chiaramente la mia situazionefinanziaria; gli parlai dei rovesci subiti, del furto, delle spese sostenute,dell’entità del mio debito, egli mi parlò di quello che lo riguardava, ma nonchiaramente come doveva.

Finimmo per metterci d’accordo su questa base: egli avrebbe assunto ilpagamento della spesa per il completamento della filanda e insiemeavremmo fornito il capitale occorrente per l’industria serica; gli utilisarebbero stati divisi a metà.

Trattammo coi De Rovere per altre sei bacinelle e concludemmo perdieci, portando cosi a sedici il totale; il locale si prestava benissimo adaccoglierle ed il prezzo per ciascuna era più basso.

Ma il deficit di mio fratello era più rilevante di quanto aveva detto e cosi,al momento dell’acquisto delle gallette, non fu in grado di disporre didenaro proprio e dovetti ricorrere, come in anni addietro, a prestiti (ce liconcessero i signori Carlo Camera di Milano e i fratelli Vincenzo e MatteoDel Fiol di Venezia); inoltre i De Rovere anche questa volta consegnaronole bacinelle in ritardo e pretesero il pagamento immediato.

Con tutto ciò acquistammo un buon numero di gallette, anche se nongrande quanto il preventivato dovendo tenere in serbo un bel po’ di denaroper far fronte agli impegni bancari di mio fratello di cui ero avallante, ecominciammo a lavorarle: la seta riusciva veramente buona.

Man mano che il lavoro procedeva, i prezzi dei prodotti sericiaumentavano e potemmo vendere la seta a lire 105 il chilogrammo;aspettando a vendere avrei spuntato un prezzo maggiore, ma fui contento lostesso perché l’utile netto fu di lire 15.000. E più contento ancora fui tremesi dopo quando i prezzi della seta crollarono tanto da far mordere le dita acoloro che si erano ostinati a non vendere.

Se quell’utile fu buono per me, fu assai maggiore per mio fratello,considerato che non aveva messo un soldo, non un locale, ma solo un po’ dimanodopera per alcuni giorni.

Ampliando la filanda avevo occupato locali prima adibiti a magazzino ea cantina e cosi ideai l’adattamento a cantina di un locale posto quasi altermine del cortile, seminterrato, con sopra una stanza che per la suaposizione romantica e tranquilla avrebbe attirato clienti di ogni specie.

Ma ancora una volta mi dovetti convincere della verità di quel che sidice a proposito dei nati senza fortuna: Se si mettono a fabbricar cappelli,nascono uomini senza testa.

Non era ancor finita la cantina, né la stanza sopra era stata intonacata,che la produzione del vino si fece scarsissima e cosi continuò per molti annidi seguito, tanto che mai potei di quella cantina usufruire, né mai clienteentrò nella stanza romantica.

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Nonostante tutto non mi perdei d’animo. Lusingato dalla speranza e dalconvincimento che il male non poteva durare sempre, nella primavera del1877 feci costruire una nuova stufa per l’essiccazione dei bozzoli (quellache ora si trova nel tinello), stufa risultata economa nel consumo dicombustibile e nella manodopera, di rapido ed ottimo effetto; ma che micostò non meno di 400 lire.

All’avvicinarsi della nuova raccolta gallette, seguendo anche il consigliodi amici (che mi avevano giustamente fatto osservare che la quota socialeassegnata al fratello, stante la quasi inconsistente sua partecipazione ailavori, era troppo elevata), gli feci intendere che bisognava rivedere ilcontratto; egli accettò e la divisione degli utili venne fissata in un terzo perlui e in due terzi per me, al posto di metà e metà.

Nel 1878 la campagna bacologica si apri sotto apparenti buoni auspici,con la galletta a prezzi molto bassi, e cosi ci si spinse a comperarne molta;ma i prezzi della seta in proporzione calarono ancor di più per cui, quandomi rassegnai a vendere (a marzo, per non rimetterci ancora di più alcomparire sul mercato della produzione nuova), ebbi a patire una perditaveramente rovinosa; anche perché in base alle nuove convenzioni socialidovevo accollarmi i due terzi dei danni.

E pensare che se avessi resistito ancora un mesetto avrei realizzato unguadagno di almeno 6000 lire! Quell’anno infatti, allo spuntar delle fogliedel gelso la stagione fu tanto procellosa da far ritenere quasi perduto ilraccolto dei bozzoli il che invogliò la speculazione a mettersi in motofacendo salire i prezzi della seta. Facendo salire anche i prezzi delle gallette,che precipitarono di un buon quaranta per cento quando già io le avevocomperate! Doppio danno per me, quindi.

E nel 1879, l’esito fu ancora peggiore. Ero a terra.

Proprio quando dovevo provvedere al matrimonio di Adele, la miafigliola più giovane, promessa sposa a Lauro Perch detto Florianello, diPolcenigo, fratello dell’altro mio genero.

In tanta critica situazione economica nulla d’interessante potevoprepararle. Seguendo gl’impulsi del cuore e del dovere feci qualche cosa,ma assai poco purtroppo; e anche quel poco era superiore alle mie forze.

Riporto qui sotto l’atto dotale.

REGNO D’ITALIA

Provincia di Udine Mandamento di Pordenone

Fontanafredda, 10 (dieci) novembre 1879 settantanove

COSTITUZIONE DI DOTE

Il signor Antonio Del Fiol fu Antonio costituisce alla propria figliaAdelaide, senza pregiudizio degli eventuali diritti ereditari, li seguenti effettiin abiti e valsente

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DESCRIZIONE

1 Un materasso di lana con capezzale e due cuscini 101,602 Una coperta imbottita 20,003 Un copertone 14,004 Dieci lenzuola di filo misto con cotone, grandi 94,505 Due lenzuola di lino di braccia dodici 18,006 Dodici intimelle in sorte 18,007 Otto camicie di tela fina con maniche corte 32,008 Dieci altre camicie 40,259 Una sottana di tela 3,5010 Una sottana con camuffo 5,0011 Una di Cambrich con merlo 5,0012 Due di bombasini candida 6,3013 Una di fustagno 4,5014 Una tovaglia di filo 6,0016 Una tovaglia 4,5017 Dodici tovaglioli 16,8018 Due flanelle di lana fina 14,0019 Mutande di bombasina candida paia tre 5,2520 Mutande di Cambrich paia uno 1,7521 Mutande Pichet leggiero paia uno 4,0022 Comessi di fustagno 4 (quattro) 14,0023 Comessi di Cambrich due 4,2024 Sei asciugamani 6,6025 Due paia di scarpe in sorte 10,0026 Due corpette 2,5027 Altre due paia di calze di lino 3,0028 Calze di cotone paia sei 6,0029 Quattro fazzoletti da naso di filo 1,2030 Otto fazzoletti di cotone 3,6031 Uno scialle di flanella 16,0032 Uno scialle usato 3,0033 Un velo di seta nero 9,2534 Un abito di seta, completo 69,0035 Un abito di lana e seta con tunica 42,4026 Un abito di lana con tunica di color oliva 37,0037 Un abito Tibet nero con tunica 28,0038 Un abito di lana con tunica, usato 4,0039 Un abito lana fioretto e cotone 8,0040 Una coperta di panno nero guernita in velluto 24,0041 Una vestaglia usata 4,0042 Un grembiale marino 2,0043 Due grembiali di cotone 3,2044 Due paia di guanti 5,0045 Un setal da donna, da lavoro, in argento 15,0046 Due paia di stivali e sei pianelle 23,0047 Una catena d’oro con pietre fiamminghe 55,00

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49 Denaro contante in biglietti della Banca Nazionale 300,00TOTALE SOMMA ITALIANE LIRE 1133,90

E la Sig. Adelaide Del Fiol, figlia di Antonio fu Antonio unitamente alproprio sposo Sig. Gio Batta Peruch di Francesco, di Polcenigo,, dettoFlorianello, dichiarano di aver accettati e ricevuti gli enti ed effettisopraddescritti, rispondendo in solidum per la eventuale restituzione.

Li Sigg. Antonio Del Fiol e la di lui figlia Adelaide, nonché lo sposo sig.Gio Battista Peruch detto Florianello, dichiarano per di più che il presentevale come stima e consegna degli effetti e del denaro più sopra indicato a'sensi e per gli effetti del Titolo VI del vigente Codice Civile.

Mia figlia, poverina, ed il suo sposo, si accontentarono e si unirono inmatrimonio il giorno 8 novembre 1879, aprendo così un nuovo vuoto nelmio cuore.

L’annata 1880 relativamente alla filanda sarebbe stata rimuneratrice se,in conseguenza di seri impegni contratti per spese e perdite, il denaro non sene fosse andato; se le sovvenzioni non fossero state diminuite di quasi dueterzi rispetto all’ordinario; se altre speculazioni andate male non avesseroprodotti nuovi scapiti.

Nel 1881 mancò ogni sovvenzione, anche per il dissesto che provocò ilritiro dal commercio del signor Camera e di altri, di Milano. Inoltre la crisidell’industria della seta frenò sensibilmente anche il lavoro del negozio.

NeI 1880, avvenuta la morte del signor Domenico Candiani di Sacile, mivenne suggerito di farmi aspirante al posto di commesso postale diquell’Ufficio, già dal Candiani coperto. Con tale nomina avrei risolto i mieiproblemi: avrei avuto un utile netto di cinque lire il giorno e il temponecessario a badare agli affari del negozio.

La nomina era di competenza della direzione generale delle Poste diRoma. Feci la mia brava domanda, la corredai dei cinque decreti di nominaa Sindaco e di altri documenti per altre cariche di carattere governativoricoperte, mi raccomandai al commendatore Adriano Lioncurti, miocognato, e attesi. Gli amici già si congratulavano con me ritenendo indubbiala mia nomina; invece tra gli aspiranti fu preferito un tale perché era statocaporale dell'esercito!

Nel settembre del 1881, angosciato da tanti rovesci, e colpito da altri chequi stimo prudente non precisare, carico di miei impegni particolari e di altriassunti in buona fede per conto altrui, non sapevo a quale partitoappigliarmi. Dopo una vita di spine e di triboli, dopo un buon nomeacquistato ed una posizione decorosa, dopo aver più volte riparato i malialtrui, senza conforti, senza consigli, ero precisamente nella condizioneaccennata da quell’autore che disse: - Vi sono delle disgrazie tanto forti chespengono anche negli animi di miglior tempera ogni energia. Quando lasventura ti raggiunge davvero, par quasi che ti pietrifichi. Tu resti li acontemplarla incerto, stupido, impotente ad allontanarla da te.

Fra i molti amici ben pochi furono penetrati dalle mie sofferenze, ben

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pochi mi porsero la mano e mi persuasero a resistere da forte.E pur vero che a partire dall’anno 1878 ben pochi commercianti della

zona, anche tra i più agiati, seppero far fronte all’esorbitante gravezza delleimposte, causa principale di tante rovine: l’industria, il commercio,l’agricoltura, ogni sorta di traffico, venivano colpiti in maniera tanto forte dalasciare ben poco compenso alle fatiche e ai rischi, neanche da vivere;onorevolissime e rispettabilissime famiglie precipitarono sul lastrico.Nessuna però tanto in basso né, come la mia, lasciata nell’abiezione e neldisprezzo da una maggioranza stupida e superstiziosa e maligna e ingiusta.

Però la coscienza nulla ha da rimproverarmi e questo mi dà tranquillità eforza di sopportazione.

In seguito alle gravi perdite subite negli anni ‘78 e ‘79, per conservare ilbuon nome avevo dovuto ricorrere a nuovi prestiti e li avevo ottenuti dietrogaranzia fondiaria. I rovesci della filanda avevano colpito mio fratello nellamisura di un terzo, contro i miei due terzi, ma il suo debito risultavasuperiore al mio per somme da lui separatamente riscosse.

Con la garanzia di cui sopra io credevo di coprire solo i miei debiti edinvece, non essendo mai stato perfezionato formalmente l’atto divisionaletra noi fratelli a suo tempo interrotto a causa della lite, il mio mutuo risultòeretto in solidum con Vincenzo; ne segui che, per evitare la risoluzione delcontratto chiesta dal mutuante che da due anni non riscuoteva interessi, fuicostretto a vendere con tutta urgenza un bel poderetto vicino a casa,ricavandone solo lire 1500 al posto delle 2000 che mi era costato tre anniprima. E questi soldi, tutti, se ne andarono immediatamente: 1190 in contointeressi e 310 trattenuti dall’avvocato Saggiotti di Venezia (che della salataparcella mi rilasciò quietanza ma non specifica).

A Venezia poi, dove mi ero recato per accomodar le cose e per faraccettare al mutuante la somma di cui sopra, fui da questi ricevuto soloperché riuscii casualmente bloccarlo nel suo studio; giunsi a strappargli lapromessa che avrebbe sospeso il corso degli atti. ma quella promessa comedovevo aspettarmi, non fu mantenuta.

Il signor mutuante era figlio di quel Nane che mio padre, con suoi soldi,aveva salvato dal servizio militare.

In famiglia riducemmo vitto e vestito, limitandoci a vivere in base aiproventi del negozio, proventi scarsi ed ulteriormente calati dopo l’aperturadi un nuovo esercizio condotto dal Filermo. Successo il patatrac della dittaLuigi Sfreddo proprietaria del negozio aperto in Villadolt nel 1873, conimmenso danno suo ed altrui, gli successe certo Spagnol di Maniago che,senza pratica di arte e con l’idea di formarsi una clientela, abbassò i prezzi,pregiudicando maggiormente il mio commercio e quello di altri esercenti delpaese, e anche sé stesso a non lungo andare.

Fra tanti malori tuttavia la mia mente si era conservata serena ed il miofisico sano; per togliermi dall’ozio, e per essere preferito in caso di lavoristraordinari con diritto a compenso, offersi la mia opera gratuita al Comuneche l’accettò il 12 marzo 1882 con questa delibera del consiglio comunale:

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«Avuta lettura della domanda del signor Antonio Del Fiol fu Antonio,osservato che egli ha coperto la carica di Sindaco di questo Comune, e per ilsuo zelo, onestà, capacità di reggere la cosa pubblica, si meritò la stima e lagratitudine dell’intera popolazione, considerato che egli presterebbe l’operasua senza compenso alcuno, ad unanimità di voti autorizza la GiuntaMunicipale e la incarica di rendergli le più vive grazie per l’offerta diprestar l’opera sua.»

E cosi quell’anno lavorai gratuitamente per il Municipio tutte le volteche ne fui richiesto.

Resosi vacante il posto di scrivano di quell’ufficio, mi feci aspirante.L’onorario di lire 700 annue era stato ridotto a sole 366 poiché il Consiglio,composto com'è in maggioranza da contadini più o meno analfabeti, avevareputato che il lavoro della mente e al tavolo meritava un compensoinferiore a quello che in quei critici tempi era costume corrispondere ad unoperaio di campagna nei giorni più corti dell’anno.

Sebbene l’onorario fosse umiliante, specialmente per uno che aveva rettole sorti del Comune per molti anni, sarebbe stato per me un pane certo, lasicurezza di poter sanare gli interessi di capitali pendenti e di poter pagareparte della gravosa ed ingiusta tassa Ricchezza Mobile, che a ragione ilpopolo chiamava Miseria Stabile. In una parola quel salario mi avrebbesollevato alquanto dalle angustie che opprimevano la mia esistenza.

Il giorno 4 marzo 1883 il Consiglio si riunì per deliberare sul concorso. Icandidati a quel lauto impiego erano sei: Francesco Bombardella diBernardo, Tiziano Zampol fu Celeste, Giovanni Diana di Pietro, GiuseppeFilermo di Celeste, Pietro Sonzogno di Luigi ed io. Giovanni Diana si ritiròdal concorso all’ultimo momento.

Erano presenti i consiglieri: Luciano Graziani, assessore anziano, BasihoNadin, Gioacchino Bressan, Angelo Bressan, Gregorio Bressan, AngeloMarzocco, Pietro Della Schiava, Angelo Giol, Marco Cimolai, Angelo DeRovere Mion, Paolo Ceolin, Angelo Diana, Zilli dott. Nicolò, CelesteFilermo, Angelo Verardo. Andrea Da Pieve, Pietro Rossetti.

Io ritenevo sicura la mia nomina non tanto per i miei titoli, dei quali inquesto progressista e giusto Comune non è costume tener conto, quanto perle assicurazioni manifestatemi dai signori consiglieri Zilli ing. Nicolò,Angelo Verardo, Basilio Sfreddo, Andrea Da Pieve, mio ex servo di stalla,Eugenio Cimolai, mio figlioccio e fratello di quel Felice che in altri tempiavevo liberato dal carcere rendendomi mallevadore di alcuni suoi debiti,Angelo De Rovere detto Mion e qualche altro.

Aperta la seduta, mancava il sig. Sfreddo. Dallo spoglio delle schederisultò, in seconda votazione, che due soli voti erano stati deposti col mionome, senza dubbio quelli del sig. Zilli e del sig. Verardo, essendoseneconcentrati sette (la maggioranza quindi in quanto alcuni consiglieriavevano dovuto allontanarsi dalla sala a norma dell’articolo 222 della leggecomunale: parentela con i candidati) a favore di Zampol.

È notoria l’importanza dì questo comune: per mantenere l’ordinario eregolare andamento, per rendere meno faticosi i pesi del Segretario,abbastanza tardo, non ci voleva di meglio che un contadino, senza unamano, senza un attestato di studio dopo le elementari. Riconosco che è

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dotato di buon volere, di rispetto e di condotta esemplare; potrà riuscire aqualche cosa.

Altri fatti vennero a contristarmi nel 1882. Il dottor Lodovico Graziani,medico condotto di questo Comune, verso il quale ebbi sempre un amoreche posso dire fraterno, cadde malato il 16 aprile. Dolcissimo di cuorecom’era, impressionabilissimo e di temperamento nervoso, aveva moltosofferto per certe offese ricevute e per le manifestazioni di sedicenti suoiamici i quali, dopo una trentina d’anni di suo lodevolissimo servizio,avevano esposto sui muri il loro volere avere un altro medico condotto.Anche lui aveva sofferto molto per il vuoto venutosi a creare intorno allamia famiglia; più che un avventore era un amico che quotidianamente civeniva a trovare; era uno dei pochissimi che mi avvicinava in questo luogoprivo o scarsissimo di società ed io sentivo proprio desiderio e bisogno diaverlo vicino, non dando nessuna importanza a certe sue debolezze, cui delresto tutti andiamo soggetti. Anche questo amico perdei: morì domenica 23alle ore 2.

Imponenti furono i funerali per partecipazione di popolo. Chiamata dallaGiunta Municipale, intervenne anche la banda di Sacile.

A questo proposito debbo dire che il Consiglio Comunale, invitato unaventina di giorni dopo a pronunciarsi in merito al pagamento della spesa pertale oggetto sostenuta, dopo vivacissime discussioni, approvava il seguenteordine del giorno:

«Si trasporta ad altra seduta la trattazione di tale oggetto e la GiuntaMunicipale interpelli in proposito la famiglia del decesso Graziani dott.Lodovico se, in vista delle condizioni finanziarie del Comune, credesse disottostare in parte alla spesa sostenuta per l’intervento della musica aifunerali del loro estinto.»

(Prima della trattazione di tale oggetto era uscito dalla sala il signorGraziani Nobile Luciano, fratello del defunto.)

In quei giorni un’altra egregia persona giaceva a letto malata, l’ottimasignora contessa Amalia Pujatti Zilli, aggravata da morbo ribelle. Non sodire quante e quali cure le furono prodigate dalla figlia, dai figli, dal marito,dalla nuora, dalla cognata contessa Emilia Foranini Pujatti, dal nipote sig.Luigi Facchettini, ecc. Ma giunse l’infausta mattina di sabato 29 aprile e ladegnissima persona esalò l’ultimo respiro. Era chiamata la mamma deipoveri, la confortatrice degli afflitti. In moltissimi la piansero.

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Qui terminano le mie memorie.

Ho scritto queste pagine perché la mia famiglia e i suoi discendentisappiano che ho fatto di tutto per acquistare il loro bene; perché sappiano enon abbiano a recriminare sulla mia memoria.

Da queste pagine essi impareranno che, senza peccare di egoismo, ènecessario nella vita concentrare le proprie forze unicamente a vantaggiodella famiglia propria; impareranno a non illudersi se il popolo li chiama adassumere cariche, perché con facilità il popolo innalza, magari a coprireposti nel Comune, nella Provincia, nel Regno, e con altrettanta facilità faprecipitare e moralmente uccide. Valga, fra gli altri, l’esempiodell’onorevole Valentino Galvani.

Prego il Signore perché conservi chiaro il mio povero intelletto; prego ilSignore che voglia migliorare la triste sorte di tutti i miei cari, sui quali hosempre concentrato i miei affetti e che ora benedico nel nome del Padre, delFiglio e dello Spirito Santo.

Vincenzo CARNELUTTO di Giobatta e Maria Coan, nato a Venezia nel1824, sposa Teresina Anselmi. Figli:

1 Luigi, 1852+18592 Angela, 1855, SP. 1875 Luigi Coiazzi3 Federico, 1857

Rimasto vedovo, Vincenzo sposa nel 1866 Lucia FABBRONI, Sacile 1834,di Lorenzo e Marianna. Figli:

4 Francesco, 1866, sp. 1892 Caterina Trezz. A Longarine. Figli:4.1 Vincenzo Luigi, 18924.2 Teresa5 Luigi, 1867, sp. 1893 Erminia Forner, Longarone 1873, di Gabriele.

Figli:5.1 Lucia, sp. 1835 Domenico Dal Min, Vittorio Veneto 1883.5.2 Irma5.3 Rita5.4 Dante, 1900+19296 Marianna, 1874, sp. 1894 Giuseppe Alberto Frare, Villorba di Treviso18636 Piero, 1876, pizzicagnolo, sp. 1906 a Udine Amalia corè, 18817 Giovanni Battista, 1880, caffettiere, sp. A Rovigno d’Istria nel 1910

Maria Costantini, Maniago 1891. Ecco quanto scrisse al fratelloLuigi il 31 dicembre 1913 su carta intestata Birreria - Bottiglieria -Salumeria Filiberto Pinozzi, Piazzale stazione, Padova: “Se vuoi unagrappa finissima stravecchia, vera cervarese di Santa Croce, leva daun litro di grappa bianca comune un decimo ed aggiungilo di rumoriginale. Avrai la famosa Cervarese.”Caro Piero, abbiamo provato: splendida alla vista ed al gusto. Grazie.