cascina cuccagna · come se un fulmine, entrato dalla testa, lo percorresse tutto per ......

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1 CASCINA CUCCAGNA di Enrico Jessoula “Viviamo come se ogni giorno dovesse rinascere uguale al precedente…rinnovando mattina dopo mattina l’evidenza della perennità.” Muriel Barbery: “L’eleganza del riccio” L’ebanista e il fantasma Un brivido freddo, lungo, inarrestabile si era impadronito di lui, come se un fulmine, entrato dalla testa, lo percorresse tutto per scaricarsi a terra. Appena ripreso il controllo, un istante dopo, Jonas disse, pensando ad alta voce: - Cazz…ma essere fantasmi qvi? Il giovane ebanista lituano che a ventotto anni aveva lasciato il suo paese per farsi trasportare dall’avventura attraverso tutta Europa fino a finire in Italia, a Milano, sorrise per aver pensato e parlato in italiano, una lingua per lui non ancora familiare; concluse che l’ambiente di Cascina Cuccagna doveva averlo particolarmente suggestionato. Di sicuro, non aveva mai creduto ai fantasmi, neppure quando da piccolo nella natia Siauliai, una cittadina a nord di Kaunas, gli anziani del paese sembravano fare a gara nel terrorizzare i bambini con agghiaccianti racconti di spettri ed altre presenze inspiegabili e maligne. D’altra parte le suggestioni erano tante in un paese in cui d’inverno la prevalenza del buio disponeva gli animi alla paura, e i boschi limitrofi, ma soprattutto la “collina delle croci” vicino a casa si prestavano a costruire storie agghiaccianti, degne di un film horror. Ma lui, pur ancora bambino, non si era mai lasciato impressionare. Questa volta però c’era qualcosa che non lo convinceva, e quel brivido freddo stava a testimoniarlo. Ora non abitava più vicino alla collina delle croci grondante fantasmi e vampiri, bensì aveva trovato rifugio in una antica cascina disabitata e semi diroccata che la gente del posto

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CASCINA CUCCAGNA di Enrico Jessoula

“Viviamo come se ogni giorno dovesse rinascere uguale al precedente…rinnovando mattina dopo mattina l’evidenza della

perennità.” Muriel Barbery: “L’eleganza del riccio”

L’ebanista e il fantasma

Un brivido freddo, lungo, inarrestabile si era impadronito di lui, come se un fulmine, entrato dalla testa, lo percorresse tutto per scaricarsi a terra. Appena ripreso il controllo, un istante dopo, Jonas disse, pensando ad alta voce: - Cazz…ma essere fantasmi qvi? Il giovane ebanista lituano che a ventotto anni aveva lasciato il suo paese per farsi trasportare dall’avventura attraverso tutta Europa fino a finire in Italia, a Milano, sorrise per aver pensato e parlato in italiano, una lingua per lui non ancora familiare; concluse che l’ambiente di Cascina Cuccagna doveva averlo particolarmente suggestionato. Di sicuro, non aveva mai creduto ai fantasmi, neppure quando da piccolo nella natia Siauliai, una cittadina a nord di Kaunas, gli anziani del paese sembravano fare a gara nel terrorizzare i bambini con agghiaccianti racconti di spettri ed altre presenze inspiegabili e maligne. D’altra parte le suggestioni erano tante in un paese in cui d’inverno la prevalenza del buio disponeva gli animi alla paura, e i boschi limitrofi, ma soprattutto la “collina delle croci” vicino a casa si prestavano a costruire storie agghiaccianti, degne di un film horror. Ma lui, pur ancora bambino, non si era mai lasciato impressionare. Questa volta però c’era qualcosa che non lo convinceva, e quel brivido freddo stava a testimoniarlo. Ora non abitava più vicino alla collina delle croci grondante fantasmi e vampiri, bensì aveva trovato rifugio in una antica cascina disabitata e semi diroccata che la gente del posto

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chiamava Cascina Cuccagna; un nome benaugurante, gli dicevano strizzandogli l’occhio, anche se lui non capiva perché. Benaugurante o no, lui, che non aveva mai creduto ai fenomeni soprannaturali, questa volta vacillava. Ripercorse mentalmente la storia della cascina, così come gli era stata raccontata dagli attuali gestori, per cercare un qualche spunto che spiegasse il fenomeno che aveva davanti agli occhi. Cascina Cuccagna era stata costruita nel ‘700 ed ora, all’inizio del 2008, era rimasta intrappolata nella turbolenta città dei nostri giorni, dove appariva come un immenso cetaceo insabbiato, fuori dall’ambiente rurale d’origine, lambita dal traffico incessante, circondata da bar, panetterie, negozi di tutti i generi, derisa e a volte sfregiata dagli spray di ragazzi in vena di bravate. Jonas a Cascina Cuccagna era capitato per caso. Giunto a Milano aveva cominciato a girare per la città alla ricerca di un piccolo appartamento, o anche di una sola stanza dove poter vivere ed impiantare la sua piccola attività di ebanista. Scoraggiato dai prezzi e dalla diffidenza con cui veniva trattato stava per fuggire da Milano quando una coppia non più giovane, ma ancora piena di entusiasmo, gli aveva proposto la cascina e consegnato gratuitamente la chiave dicendo: - Prova, non ci sono tutti i comfort, ma se sei un tipo che si

adatta…scegliti una delle tante stanze a pian terreno, perché sopra è pericolante. -

Jonas era più che adattabile, ma certo la cascina pur lasciando trapelare antichi splendori era oggi in condizioni pessime. La ispezionò con grande attenzione. Scartata la stanza a destra appena entrati, spaziosa e col camino ma rumorosa in quanto confinante con la strada molto trafficata, attraversò un porticato e una piccola corte sulla quale si affacciavano due stanze; quelle erano decenti ma un po’ troppo piccole per l’uso promiscuo di abitazione e laboratorio che ne voleva fare. Proseguì, ritrovandosi in un grande prato incolto, pieno di erbacce; costeggiò ancora l’edificio fino ad arrivare ad una seconda corte su cui si aprivano altre stanze. Scartata la prima, quasi un ripostiglio ingombro di macerie, optò per la seconda, che come dimensioni, luce, umidità e distanza dal bagno gli sembrava la più adatta alle sue esigenze. La camera conteneva inoltre un vecchio armadio a tre ante che poteva venirgli comodo per sistemare i pochi indumenti che

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possedeva, nonché il vecchio flauto traverso da cui non si separava mai. Completò dunque l’arredamento acquistando di seconda mano un letto, due sedie e un tavolo spartani; quest’ultimo doveva servirgli sia per mangiare che per il lavoro, e fu subito attrezzato con gli innumerevoli utensili per lavorare il legno. Rimaneva il problema dell’elettricità, ma fu di breve durata; bastò infatti parlarne con un elettricista della zona, che gli suggerì sorridendo come poteva derivarla, in maniera provvisoriamente illegale, da una centralina situata vicino alla cascina. Jonas aveva così trovato casa e bottega da poco più di un mese, il passaparola avviato dalla coppia non più giovane gli aveva già procurato i primi clienti, qualche piccolo restauro che gli consentiva di vivere. Poteva insomma dirsi soddisfatto della sistemazione. La sera, quando non pioveva, trasportava una sedia sul prato e suonava il suo flauto traverso, inondando l’aria di canzoni malinconiche e struggenti che gli ricordavano la sua terra. Ma c’era ancora quella cosa che non lo convinceva, che si ripeteva ormai da troppi giorni. Si trattava del vecchio armadio a tre ante. Jonas aveva usato per ora le prime due, mentre la terza era rimasta chiusa; o meglio così credeva, perché in realtà ogni volta che rientrava in camera la trovava puntualmente aperta. Non proprio spalancata, ma un venti, forse trenta gradi di apertura. Da esperto di mobili aveva subito pensato che l’armadio non fosse in piano e aveva lavorato con livella e spessori fino a renderlo perfettamente pianeggiante; infine aveva richiuso con la chiave. Niente da fare: dopo qualche ora l’anta era di nuovo aperta di quei venti-trenta gradi. Decise di cambiare la serratura vecchia e rugginosa con una nuova; richiuse a chiave e saggiò l’anta con forza: la chiusura era perfetta. Ciononostante rientrando dopo un altro paio d’ore la trovò aperta come sempre. “Ma…allora qui ci sono davvero i fantasmi?” pensò questa volta nella sua lingua, stizzito. Jonas non era tipo da arrendersi facilmente di fronte alle cose che non capiva. Deciso a chiarire la faccenda una volta per tutte,

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richiuse con cura l’anta, verificò lo scatto della serratura e si sedette di fronte, fermamente deciso a tenerla sotto controllo anche per ore: doveva pur accadere, almeno una volta, che l’anta si aprisse rivelando l’arcano. Ma non successe niente: come in un gesto di sfida l’anta restò chiusa per ore, finché Jonas sopraffatto dal sonno non decise di andare a dormire. Ancora una volta, aveva vinto lei. La ragazza

Non era proprio di buon umore Jonas quando, il mattino successivo, aprì gli occhi su un armadio con l’anta nuovamente aperta di venti-trenta gradi. Fu tentato di distruggerlo e sostituirlo, magari con uno dell’Ikea; ma alla fine decise diversamente: “Al diavolo anta della malora, se vuoi stare aperta stacci, io non ti chiudo più” e si apprestò ad uscire. Si stava appena dissipando la bruma del mattino quando Jonas la vide. Aveva girato l’angolo che dalla seconda corte immette sul prato incolto e lei era là, vestita di bianco con una lunga gonna, che volteggiava leggiadra e scalza sul prato. Chi l’aveva fatta entrare in cascina? Oddio, non che il portone d’ingresso fosse difficile da forzare, ma una ragazza… Che avesse avuto la chiave dalla coppia non più giovane? Non ebbe il coraggio di dire niente restando immobile a guardarla, affascinato; era forse una danza antica quella che la ragazza praticava, accompagnandosi con una melodia appena sussurrata, oppure movimenti di quell’arte marziale cinese, come si chiamava…ah sì, tai-chi-chuan1, che irradiavano onde di armonia ed energia tutto intorno? La ragazza non sembrava averlo visto, impegnata in quella specie di danza. Aveva una statura superiore alla media, il volto dalle linee gentili, i movimenti flessuosi di un giunco che il vento spostava lentamente sul prato.

1 Antica arte marziale cinese basata sul concetto taoista di Ying-Yang, l'eterna alleanza degli opposti. Nato come sistema di autodifesa, il tai chi chuan si è trasformato nel corso dei secoli in una raffinata forma di esercizio per la salute ed il benessere. Consiste principalmente nell'esecuzione di una serie di movimenti lenti e circolari che ricordano una danza silenziosa, ma che in realtà mimano la lotta con un opponente immaginario.

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Jonas fu colpito dall’acconciatura di foggia antica; i capelli, biondi come spighe di grano, erano infatti arrangiati in morbidi riccioli che scendevano a incorniciarle la fronte e le tempie, per poi ricadere in lunghi boccoli verso le spalle. Dopo qualche minuto la ragazza riunì i piedi, si ricompose ed espirò profondamente fissando un punto lontano davanti a sé. Senza guardarlo disse: - Sei tu che abiti qua? Che fai, ci vivi e ci lavori? - Jonas trasalì, colto di sorpresa. Pensò che il suo italiano era ancora inadeguato e poco preciso per parlare con la ragazza che sembrava invece dominarlo perfettamente, pur con quella “erre” alla francese che aggiungeva ulteriore grazia alla voce cristallina. Si fece coraggio avanzando di un passo. - Sì, abito e lavoro qva. Mi chiamo Jonas, vengo da Lituania,

molto molto lontano…ma tu come entrata qvi?” - Una risata, fresca e fragorosa come una cascata, lo spiazzò nuovamente. - La porta era aperta. E’ bello qui, questo grande prato per fare

tai-chi. Io mi chiamo Florence. - La erre arrotata lo stordiva un po’, era come la ciliegina sulla torta, l’ultima pennellata dell’autore a un quadro già bellissimo. - Florence…vuoi dire Firenze, ti chiami Firenze? I tuoi genitori

dovevano essere un po’ pazzi! - - Ma no, Florence è un nome francese, in italiano sarebbe

Fiorenza. Però hai ragione, i miei genitori erano un po’ pazzi, sai il mio papà è stato un rivoluzionario… -

- Capisco, il sessantotto… - convenne Jonas. - Ma no, ancora prima! Lui e i suoi amici hanno fatto una

grande rivoluzione, una che ha davvero cambiato il mondo, almeno un poco. –

- Cambiare il mondo – commentò Jonas, perplesso – sono pessimista. Ma sai perché? Perché è l’uomo che non vuole cambiare, non vuole uscire dalle sue abitudini, anche le più sbagliate! -

- Ma io ci devo riuscire. - concluse Florence con tono misterioso.

Dio che bello, avrebbe voluto stare lì per ore a sentirla parlare, la voce cristallina e la erre arrotata, meglio ancora le parole con due erre come “rivoluzionario” oppure “riuscire”; avrebbe

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voluto che le ripetesse all’infinito, ma si stava facendo tardi e lui doveva fare un giro dei clienti, attuali o futuri che fossero. - Senti, io devo andare, ma tu rimani pure quanto vuoi. - - A dopo. Però mi è venuta un’idea, uno spazio così…perché

non viene aperto anche ad altra gente? Sarebbe bellissimo vivere qui in gruppo, una specie di comunità, e far venire la gente del quartiere a divertirsi, a godere di questo luogo unico. -

Jonas era stupefatto. Che intraprendenza, era appena entrata e già voleva rivoluzionare la sonnacchiosa esistenza del cetaceo insabbiato. Pensò comunque di cogliere l’occasione per fare amicizia. - Certo. Per cominciare, se vuoi puoi usare la camera vicino

alla mia, la terza di quella corte là. E’ bella grande, uguale alla mia, ti troverai bene. – propose Jonas cercando di trasmettere il suo entusiasmo.

- Grazie – rispose Florence, i cui occhi di colore indecifrabile si riempirono di pagliuzze dorate mentre il sorriso si venava di una sfumatura tra l’ironico e l’enigmatico.

Emozionato da questo incontro, Jonas si avviò verso l’uscita. La porta della cascina era chiusa come l’aveva lasciata la sera prima ma non ci fece caso, abituato ormai alle sorprese di quel luogo insolito.

I gitani

La serata profumava dei primi fiori di una primavera precoce quando Jonas rientrò a Cascina Cuccagna. Florence lo aspettava seduta sul prato in posizione yoga. Non disse nulla; Jonas andò a prendersi una sedia in camera e cominciò come tutte le sere a suonare il flauto inseguendo le sue nostalgie lituane. Florence sembrò subito stimolata da quella melodia e, pur non conoscendo una parola di lituano, cominciò ad accompagnarlo col canto. La cosa lo stupì non poco, ma la sua intonazione perfetta, la voce calda e suadente si fondevano perfettamente con la musica di Jonas in un romantico concerto per flauto e voce solista, una specie di richiamo magico per chiunque volesse ascoltare.

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Poi Jonas accennò a ritirarsi, sperando che Florence lo seguisse; invece la ragazza disse che si fermava ancora un po’ vista la bella serata: doveva contare le stelle ad una ad una. Solo all’ultimo, quando lui già si stava avviando, buttò là con noncuranza: - Sai, oggi ho incontrato un gruppo di gitani, tu vedessi come

sono simpatici, allegri, quello che ci vorrebbe per ravvivare l’ambiente. Sono molto interessati alla cascina, verranno domani a vederla. Anche loro fanno musica, se decidessero di stare qua organizziamo una banda, un’intera orchestra! -

Concluse con la sua risata spontanea ed entusiasta, che trovò Jonas sorpreso e perplesso. Per carità, non aveva nessun preconcetto contro i gitani, ma si domandava se non avrebbe dovuto chiedere il permesso a quella coppia che gli aveva dato la chiave. Dopo tutto le avevano affidate a lui; se c’era anche una ragazza poco male, poteva sempre dire che era la sua ragazza, ma tutta una banda di gitani era troppo. All’indomani avrebbe pensato lui a raffreddare gli entusiasmi di Florence. Il risveglio non fu come gli altri giorni, in cui il rumore della città arrivava alle orecchie di Jonas ovattato dalla pace e dagli spessi muri della cascina. Giungevano invece grida di uomini arrabbiati, piagnistei di bambini, suppliche di donne. Per Jonas fu come entrare in un incubo proprio al momento del risveglio: i gitani erano già lì con tutta la loro rumorosa presenza. Non solo: avevano già preso possesso del territorio, sciamavano a frotte sul prato come fossero loro i padroni incontrastati. Come se non bastasse, quello che sembrava il capo stava sbraitando contro altri due, gli sembrava di capire per una questione di soldi. Il capo venne interrotto da Florence: - Vieni Goran che ti presento Jonas, è il nostro padrone di casa,

per così dire. - Goran si avvicinò. Una volta placato appariva molto più umano, quasi cordiale nello stringere la mano a Jonas, nel fargli i complimenti per quel posto bellissimo, nel ringraziarlo per l’ospitalità. - Ospitalità? Veramente… - iniziò Jonas ma si fermò subito.

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Si rendeva conto che gli avvenimenti gli avevano preso la mano, e che quella benedetta ragazza l’aveva messo davanti al fatto compiuto. Sì, ormai gli conveniva stare al gioco e valutare la situazione giorno per giorno, o meglio, minuto per minuto. La grossolana risata del capo dei gitani lo fece sobbalzare mentre era ancora immerso in quei pensieri. - Non ci sono problemi, vero? Noi non dare fastidio, non

occupare tue belle stanze, noi accampare qua in giardino, da quella parte, non disturbiamo nessuno, vero? – domandò, grattandosi lo stomaco prominente da assiduo bevitore di birra.

La domanda non ammetteva risposte diverse da quella che Goran si aspettava. Jonas cercò con gli occhi Florence nella speranza di ricevere da lei un suggerimento, ma la ragazza sembrava impegnatissima a fare le trecce a una delle bimbe senza sollevare mai lo sguardo. Si rassegnò dunque a dire che sì, se piantavano le tende da quella parte del giardino non avrebbero dato fastidio. Purché però smettessero di litigare e fare casino, aggiunse Jonas in un rigurgito di orgoglio, puntando verso Goran un dito minaccioso. - Solo per oggi – promise Goran - oggi forse domani, poi basta.

Ma quei bastardi non sanno come dividere soldi, io devo insegnare loro… - concluse imprecando verso i litiganti.

Goran tornò verso il suo gruppo e ricominciò a sbraitare più di prima. Su un tavolino improvvisato con cassette di verdura giaceva quella che, anche ad un occhio ingenuo e profano, appariva inequivocabilmente come la refurtiva della giornata, non solo soldi ma anche orologi e catenine d’oro. E Goran discuteva, si fa per dire, con due ragazzi più giovani che gesticolando ne reclamavano una fetta maggiore. - Florence, non mi piace quel gruppo. Lo vedi, vivono di

piccoli furti, è la loro cultura, ce l’hanno nel DNA. - - Ma dai, Goran ha detto che è solo per un giorno o due,

diamogli fiducia. Sono simpatici, allegri, vedrai che staremo bene insieme. Senti, suonano, sono fantastici! -

Gli effetti sonori che quella banda dall’aspetto poco rassicurante riusciva a tirar fuori dai loro strumenti era realmente incredibile: violini, trombe, fisarmoniche, armoniche a bocca si mescolavano

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in maniera non convenzionale producendo melodie struggenti e ritmi demenziali che stregavano gli animi. - Suoniamo anche noi? – propose eccitata Florence. - Sì, ma qui nella nostra corte, non assieme a loro. – rispose

Jonas, rigido. - Va bene. – assentì lei, che non lo voleva contraddire più di

tanto. Così il flauto traverso di Jonas e la voce cristallina di Florence diedero vita a un piccolo concerto da camera nella corte numero due, mentre sul prato grande i ritmi e le melodie di Bregovic impazzavano. Il doppio concerto proseguì finché un tuono fortissimo fece sobbalzare tutti, annunciando la più strana tempesta di vento e pioggia che si fosse mai vista a Milano in quella stagione. Le porte e le finestre sbattevano. Dovettero correre a chiudere tutto per limitare i danni a un vetro rotto e un paio di assi cadute dalle persiane, poi non rimase altro che rifugiarsi nei propri alloggi. Solo Florence ci rideva sopra: - Sembra che qualcuno non sia troppo contento di noi… -

La puttana

La convivenza con i gitani si trascinava alla bell’e meglio quando una sera si presentò un nuovo problema; era quasi mezzanotte quando dalla strada arrivarono urla e schiamazzi come non mai. Per un po’ gli abitanti della cascina risero pensando ai soliti ubriachi che litigavano per questioni futili, e Jonas si preoccupò solamente di verificare che il portone d’ingresso fosse ben chiuso. Ma poco dopo si cominciarono a udire dei rumori sordi, schiaffoni e pugni, seguiti da urla inconfondibili di donna che imploravano aiuto. - Ti ho dato tutto, te lo giuro, ti ho dato tutto, smettila, che

cazzo vuoi ancora bastardo, sei uno stronzo, un selvaggio… - la voce acuta e stridula rivelava disperazione.

Un nuovo tonfo provocò singhiozzi e grida di aiuto, poi altri colpi ancora, infine l’agghiacciante rumore di vetri rotti, di una bottiglia trasformata in terribile arma, un urlo di dolore, il ticchettio rapido dei tacchi di una donna in fuga.

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In quel momento il portone della cascina si spalancò come per magia e la donna entrò velocemente guardandosi alle spalle; Florence era lì, materializzatasi all’improvviso da non si sa dove, pronta a richiudere subito tirando bene tutti i chiavistelli. Precauzione saggia, perché il “selvaggio” si accanì sul portone prendendolo a pugni e calci, ma infine si rassegnò ad allontanarsi profferendo oscure minacce. Florence cercò di calmare la donna in preda ad una crisi isterica; la portò nella sua stanza dicendo a Jonas che per quella notte la ospitava lei, poi bisognava pensare a che stanza darle. “Perché, ora si ferma anche lei?” – pensò Jonas quando, tornata la calma, aveva potuto sdraiarsi sul letto. Tuttavia non riusciva a prender sonno e continuava a inseguire i suoi pensieri contando le ragnatele del soffitto: “Questa sta diventando una corte dei miracoli, dopo i gitani la puttana, perché sicuramente questo è, una puttana picchiata dal suo magnaccia, come tante.” Gli venne da sorridere: già era un casino con i gitani, figuriamoci ora! No, domani avrebbe affrontato Florence e… Florence. Ma chi era veramente quella ragazza? Perché attirava tutta quella gente strana, e perché si trovava sempre al posto giusto al momento giusto? Su queste domande che da qualche tempo gli frullavano per la testa chiuse gli occhi e si addormentò. La puttana si chiamava Elsa e, una volta ripulita e medicata poteva dirsi una donna vistosa ma piacente. Quarantenne, il viso largo da popolana, una permanente a mille riccioli di un improbabile color prugna, gli occhi grandi color di foglia a evocare la canzone di De André, un corpo arrotondato ma non del tutto sfibrato dal mestiere infame. All’indomani della serata in cui avrebbe potuto essere uccisa conservava uno sguardo impaurito e diffidente; non osava uscire dalla camera di Florence e dalla piccola corte antistante. Ogni tanto usciva dalla stanza per fumare una sigaretta o parlare al telefonino: intorno alle dieci del mattino Jonas, che non riusciva a concentrarsi sul delicato restauro di una preziosa cornice perché innervosito da questo via vai, aveva già contato otto sigarette e dodici telefonate. E verso mezzogiorno arrivò il primo cliente.

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Jonas non poteva crederci: Cascina Cuccagna trasformata in bordello? Eppure era proprio così, dopo poche chiacchiere, qualche risatina e un fruscio di abiti il letto attiguo alla sua stanza, il letto di Florence, cominciò ad animarsi e a cigolare vistosamente, ritmico, sempre più forte, scuotendo anche la parete divisoria, finché un ansimare arrochito annunciò che la funzione era finita. Era la prima assoluta di uno spettacolo destinato a ripetersi. Allibito, Jonas si ritrovò ad assistere ai rituali del mercato del sesso: i clienti si presentavano a intervalli di mezz’ora o poco più, tutti diversi, dal manager cinquantenne al ragazzino timido al trentenne borchiato, un’intera galleria di personaggi da poterci fare un film. L’ultimo della giornata fu un ometto un po’ male in arnese. Elsa lo accolse con grandi feste e per mezz’ora si sentirono chiacchiere e risate ma niente cigolii e sussulti del letto, tanto che Jonas pensò che era troppo anziano per fare sesso. “Sarà di quelli che si accontentano di guardare” mormorò fra sé e sé mentre l’ometto se ne andava. - Florence, così non si può andare avanti – sbottò Jonas appena

ebbe trovato la ragazza - dopo i gitani che rubano mi porti anche la puttana che riceve i clienti in camera, e quale camera, quella che avevo dato a te ed è di fianco alla mia, così non riesco più a concentrarmi sul lavoro. -

- Hai ragione, povero Jonas – disse la ragazza in mezzo alla sua solita risata - domani le trovo un'altra stanza. -

- Ma non è questo, capisci. Io sono responsabile della cascina verso chi mi ha dato la chiave, non posso trasformarla in un bordello e in un covo di ladri e ricettatori! Capisci? – ripeté con la voce che gli tremava per la tensione.

- Uuh ora esageri, te l’ho detto, è solo per pochi giorni. Anche Elsa è d’accordo, l’ha promesso anche a suo padre. -

- Vuoi dire che il vecchietto che è venuto prima era il padre? - - Certamente. Vedrai, solo pochi giorni, il tempo di organizzare

qui… - “Organizzare cosa?” Si domandò Jonas ma Florence era già sparita, aveva farfugliato una scusa poco chiara e si era allontanata. “Ma proprio a me doveva capitare?” pensò sbalordito.

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I ladri e il drogato La voce che Cascina Cuccagna si stava trasformando in una specie di centro di accoglienza si era sparsa rapidamente. Alcuni anziani abitanti di Porta Romana sostenevano anzi che la cascina fosse sede di orge sataniche, di sabba di streghe e demoni organizzati da quella ragazza dalla erre francese che si vedeva sempre più spesso in giro a fare domande strane. Era vero. Florence usciva sempre più spesso, l’aveva notato anche Jonas a cui la ragazza aveva dovuto chiedere la chiave per farne un duplicato, anche perché da quando era arrivata Elsa stavano molto attenti a tenere sempre il portone ben chiuso e a far entrare solo persone conosciute o attese, caso mai il protettore si fosse rifatto vivo con cattive intenzioni. Il rituale giro di Florence prevedeva di buon mattino la visita al mendicante cieco che da qualche tempo si era piazzato davanti alla cascina. La ragazza gli portava in genere qualcosa da mangiare e gli teneva compagnia per qualche minuto, ottenendo in cambio utili informazioni, perché il cieco, sfruttando la sua ipersensibilità uditiva, veniva a conoscenza di tantissime cose della vita del quartiere. Lasciato il cieco, Florence prendeva ogni mattina una direzione diversa, cercando di incontrare persone nuove, di parlare con loro, di capire i loro bisogni, le loro lamentele. Il suo tono dolce e allegro affascinava molti che si lasciavano facilmente andare a confidenze, producendo così in breve tempo una profonda spaccatura tra gli abitanti, tra chi la vedeva come una santa benefattrice e chi come un diavolo in carne e ossa. Quest’ultimi, resi ancora più invidiosi, rincaravano la dose della maldicenza in una escalation senza limiti verso accuse da codice penale. Florence si aggirava sempre con un misterioso quaderno, rilegato in tela blu con fregi dorati in copertina, di cui era gelosissima; lo teneva stretto a sé e non lo faceva leggere a nessuno. Spesso, approfittando del clima ormai primaverile, si sedeva su una panchina a scrivervi pagine e pagine di appunti sulle richieste più significative che aveva raccolto nelle interviste volanti con gli abitanti della zona. I più facili da contattare e da interessare erano i negozianti, sopra tutto quelli di generi alimentari, perché gli altri spesso venivano

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da fuori zona; inoltre la migliore fonte di informazione erano i bar. Florence era solita sedersi a un tavolino a leggere un libro, o meglio a far finta di leggere perché in realtà era impegnata ad ascoltare e ad osservare. Chiacchiere da bar, spesso banali, che a volte rivelavano gli umori e i desideri della gente; dopodiché si ritirava sulla panchina a scrivere. Fu così che arruolò altri adepti della cascina. Per primi due scassinatori. Si avvicinarono sfrontati come due bulletti in cerca di avventura: una bella ragazza su una panchina veniva avvicinata più volte nel corso di una mattinata. Ma dopo qualche chiacchiera si rivelarono per due malviventi in crisi, che volevano cambiare vita ma non sapevano da dove ricominciare. Florence li portò in cascina e assegnò loro una stanza, quella grande ma rumorosa, vicino alla strada; fu anche molto esplicita nell’indicare in tre giorni il tempo che avevano a disposizione per finire eventuali lavoretti in sospeso, per poi rendersi totalmente disponibili per aiutare fattivamente in cascina. Con Mario, un giovane drogato, il “reclutamento” fu più simile, sia pure senza i traumi e la scena di terrore, a quello di Elsa. Mario infatti si avvicinò timidamente e si sedette sulla sua stessa panchina a un metro di distanza, sbirciandola un po’ impacciato e depositando tra sé e la ragazza una voluminosa custodia nera. Solo dopo un tempo lunghissimo e un paio di colpetti di tosse si decise a parlare, a voce bassissima: - Sono nei pasticci. Credo di essermi messo in un guaio, so che

mi cercano, li sento che si avvicinano. – bisbigliò spaventato. - Si avvicina chi? – chiese Florence richiudendo velocemente il

quaderno, notando solo in quel momento il tremito delle mani del ragazzo.

- Loro, gli spacciatori. - - Ma tu ti fai? E di cosa? - - Coca. Una brutta storia. Cominci a sniffare un po’ per gioco e

un po’ per sentirti grande, forte, poi finisci nel giro…prima gli spacciatori si incazzano se non compri quanto vogliono loro, poi ti offrono di rimediare spacciando a tua volta. – Mario si fermò un attimo come per riprendere fiato. – Così ti ritrovi per le strade di notte a vendere palline di coca cercando di sfuggire alla polizia, e se vuoi smettere devi fuggire lontano, sparire perché se quelli ti prendono…non la polizia, gli spacciatori intendo. –

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- Ed è per questo che vai in giro armato? – domandò Florence indicando con lo sguardo la custodia nera.

- Ma no – Mario abbozzò un sorriso – questo è il mio sax baritono. Ho imparato a suonarlo da ragazzino e ormai siamo inseparabili, almeno spero di non dovermene separare; mi sostiene nei momenti di tristezza. -

- Tu che cosa sai fare di utile, oltre a suonare il sax, naturalmente? -

- Niente, credo… -

Così il caravan serraglio si era arricchito di altri tre elementi. A Mario fu assegnata una delle stanze piccole vicino all’ingresso, a fianco di quella occupata da Elsa dopo le lamentele di Jonas. Certo non era un bell’abbinamento, il drogato vicino alla puttana, a mescolare le sue crisi di astinenza dalla droga con quelle di altro genere dei maschi che venivano a sfogarsi con Elsa, ma era l’ultima stanza disponibile al piano terra, e il piano superiore era inutilizzabile perché pericolante. E comunque era solo per pochi giorni, aveva detto Florence. Jonas era troppo stordito dagli avvenimenti. Guardava il vecchio armadio con l’anta aperta da quel dì e gli veniva la tentazione di richiuderla, di inchiodarla. Chissà, forse era tutto un sortilegio, forse chiudendola sarebbero scomparsi tutti, Elsa e Goran e tutta la sua banda e Mario e i due scassinatori…e Florence. Il pensiero lo turbò. Aveva un po’ paura di perdere Florence, anche se quella ragazza rimaneva un mistero. “E’ umana o no? E se no che cos’è? Un fantasma, un vampiro, una strega, un ectoplasma?” La sentì passare proprio in quel momento e la chiamò d’istinto. - Florence, tu hai paura dei fantasmi? – pentendosi subito della

frase appena pronunciata. La ragazza scoppiò nella sua solita risata cristallina. - Perché dovrei? Vedi, tutti pensano che i fantasmi, ammesso

che esistano, vengano a dare fastidio, a fare del male ai vivi. Io penso invece che se uno si prende la briga di tornare sulla terra è per fare qualcosa di buono, non credi? -

- Sai, quand’ero piccolo vivevo in un paese della Lituania, si chiama Siauliai, dove si raccontavano delle storie di fantasmi terrorizzanti. Credo che gli anziani facessero apposta a raccontare queste storie per spaventare noi bambini, ma io in

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genere non mi lasciavo impressionare. Però vicino al paese c’era una collina dove i miei connazionali avevano piantato nei secoli tante croci, di legno e di ferro e di altri materiali. Ma tantissime, che ormai erano una appiccicata all’altra. Sembra che le prime croci siano state piantate intorno al 1400, e da allora la tradizione è continuata fino a farne una foresta. -

- E’ bella questa collina? - - No, fa paura, e molte storie di fantasmi erano ambientate là.

A quelle storie credevo un po’ di più, anche perché un mio amico, uno di cui mi fidavo, mi ha detto di essere salito di notte alla collina e di aver udito uno stridore da brividi. Erano le croci che, piantate così vicine l’una all’altra, strusciavano e facevano rumore. -

- E poi? - - E poi…questa è la parte più brutta, perché il mio amico ha

visto le croci uscire dal terreno e cominciare a danzare, danzare tutte assieme nell’aria, e lo stridore aumentava e lui si sentiva attirato a finire là dentro dove sarebbe stato stritolato. Per sua fortuna poco dopo cominciò ad albeggiare e le croci si ricomposero, solo il sibilo del vento rendeva ancora un po’ sinistra la scena. Capisci, era un mio amico, uno di cui mi fidavo! -

- Ma dai, il tuo amico avrà esagerato con la vodka – commentò Florence - qui comunque non c’è nessuna croce, un tempo c’era solo un albero della cuccagna, quello su cui i contadini fanno a gara a salire per vincere i premi. -

- E tu come lo sai? - - Sennò perché si chiamerebbe Cascina Cuccagna? – rispose

Florence enigmatica, eludendo la domanda – Dai, andiamo anche noi a suonare con i gitani.

Quella sera suonarono tutti assieme, i violini i fiati le fisarmoniche il flauto traverso, Bregovic e le nenie lituane, accompagnati dalla voce cristallina di Florence. Anche Mario il drogato rivelò la sua vecchia passione suonando magistralmente il sax baritono e perfino i due scassinatori si unirono alle percussioni agitando chiavi false e grimaldelli. Per la prima volta, Jonas appariva felice: non gli sembrava più un “caravan serraglio” quello che vedeva davanti a sé, ma piuttosto un’arca di Noè, o meglio ancora una grande orchestra

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polifonica costruita pezzo per pezzo a partire dal suo flauto e dal canto vellutato di Florence, un’orchestra che improvvisava musiche bellissime mescolando le varie culture come in un caleidoscopio. Ma un attimo dopo tutto gli parve cambiato: i chiavistelli dei due ladri sembravano evocare il rumore delle croci sulla collina di Siauliai, i balli sfrenati dei gitani gli ricordavano la macabra danza delle stesse, così che un brivido gli percorse la schiena. Era tormentato da questo sentimento ambiguo e doppio quando dai balconi dei palazzi circostanti scrosciarono gli applausi a riportarlo alla realtà. Una felice realtà. Il “tredesin de marz” Quelli che seguirono l’estemporaneo concerto della “banda della Cuccagna” furono giorni sereni e costruttivi. Jonas aveva acquisito un lavoro piuttosto importante di restauro di tutti i mobili antichi lasciati agli eredi da una vecchia contessa recentemente passata a miglior vita. Era un lavoro grosso che lo impegnava molto e lo distoglieva dalla cura della cascina. Meglio così, perché sull’onda dell’insperato successo Florence si era messa, come aveva detto, a “organizzare qui”, e se Jonas era impegnato lei si sarebbe risparmiata i suoi dubbi, le sue ansie, le sue paure. I gitani erano i più attivi collaboratori di Florence, portando in cascina tutta una serie di materiali di recupero (rubati, avrebbe detto Jonas) che la ragazza aveva richiesto. In particolare una notevole quantità di assi di legno che vennero installate sul prato a formare un’ampia piattaforma destinata ad usi diversi: palcoscenico, campo giochi, terrazzo per prendere il sole. Poi fu la volta di sedie sgangherate ma sempre utilizzabili, qualche tavolino, striscioni di stoffa, tinte e pennelli. - Mettete tutto là per ora – diceva Florence visibilmente

soddisfatta - ora bisogna attrezzare la cucina. - Goran era come il genio di Aladino, bastava esprimere un desiderio e lui lo esaudiva: arrivarono perciò in rapida sequenza un frigorifero di quelli a due porte tipo americano, una cucina da

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sfamarci un reggimento, e poi piatti, posate, barattoli e suppellettili di ogni misura e tipo. Elsa, avendo letto sul giornale che il suo ex protettore era finito a San Vittore, si sentiva ora più tranquilla e sicura a circolare per la cascina, rivelandosi particolarmente utile nel sistemare e organizzare la cucina. Alla fine mancava solamente il gas, ma per i due scassinatori fu un gioco da ragazzi installare una derivazione illegalmente provvisoria dal contatore del ristorante adiacente. Per quest’ultimi fu una deviazione giustificata dal loro percorso di redenzione, che li aveva portati a trasformare la loro stanza in officina per piccole riparazioni e negozio di ferramenta di recupero; la notizia si era sparsa velocemente e la gente, affamata di piccoli aiuti artigianali ormai in via d’estinzione, aveva cominciato ad affluire con una certa regolarità. Da cinque minuti buoni Jonas stava sventolando un foglio nel tentativo di richiamare l’attenzione di Florence che faceva tai-chi-chuan sul prato; riuscì infine a farle interrompere l’esercizio e avvicinare quel tanto da riconoscere il foglio: era il volantino che lei stessa aveva ideato, prodotto e affisso in tutte le vetrine e i muri del quartiere. - Che cos’è? – chiese Jonas entrando subito in tema. Florence arrossì leggermente: era la prima volta che Jonas la vedeva arrossire. Rispose che doveva giusto parlargli dell’organizzazione che voleva dare a Cascina Cuccagna: un grande spettacolo per attirare la gente della zona, e poi giochi pomeridiani per i bambini, un circolo per gli anziani, si potrebbe anche fare un campo di bocce là nell’angolo, aveva spiegato. - Tutte belle cose, ma i soldi? - Non ce ne vogliono molti, qui è tutta gente abituata a vivere

con poco. E poi con Elsa creiamo il punto di ristoro, panini, qualche piatto sfizioso, torte dolci e salate. -

Jonas si soffermò ad analizzare meglio il volantino; giudicò molto furba l’idea dello “spettacolo e ghiottonerie” con biglietto unico tutto compreso, arrivando a riconoscere che era molto attraente anche la grafica. – Opera tua, vero? – disse, ma in quel dire fu interrotto un po’ bruscamente dall’arrivo di Elsa.

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- L’è arrivàa el tredesin de marz 2 – Elsa li apostrofò sorridendo - Scusate se disturbo, ma ha detto che vuole parlare con voi due. -

- Chi è arrivato? - - El tredesin de marz. – ripeté Elsa sottolineando la frase con

una risata un po’ sguaiata – Ma certo, voi non potete conoscere questa storia! -

- Quale storia? – chiese Jonas esterrefatto. - Quella di san Barnaba, il primo cristiano entrato a Milano.

Pensate, solo una ventina d’anni dopo la morte di Cristo venne a Milano per portare la nuova religione.

- Ma che c’entra col signore che vuole parlare con noi? - Elsa scoppiò in un’altra risata. - C’entra, eccome; perché voi non sapete come entrò a Milano

il futuro San Barnaba. Si dice che fosse vestito come un barbone per non farsi scoprire, ma che al suo passaggio tutte le statue degli dei pagani andassero in frantumi, giusto per non dare troppo nell’occhio! – altra risata - Insomma, questo avveniva il tredici di marzo, e da allora in quella data a Milano si celebra una festa, la festa del tredesin de marz. -

- E allora? Elsa, ci vuoi fare impazzire? – sbottò Jonas spazientito.

- Ah già, el sciur de là…è arrivato proprio vestid comm on barbun come San Barnaba, e appena entrato nell’androne…mi su no…credo sia inciampato su un tavolino con su le pile di piatti, fatto sta che è andato tutto in pezzi come le statue pagane! -

- Non è un buon biglietto da visita, ma sentiamo chi è. – sibilò Florence.

Tredesìn, perché così era stato rapidamente battezzato, si presentava in effetti molto male per via del cappotto logoro e delle scarpe da tennis bucate, mentre una sciarpa di colore indefinibile nascondeva parte del volto e della barba sfatta. I suoi occhi guizzavano in qua e in là impauriti e non sapeva come scusarsi per i danni che aveva provocato.

2 - E’ arrivato quello del tredici di marzo -

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O meglio, che si erano prodotti al suo passaggio. Perché lui sosteneva di non aver urtato nulla, che le cose gli si erano frantumate accanto come se fosse stata opera del demonio. Jonas cercò di tranquillizzarlo e lo fece accomodare; Tredesin togliendosi il cappotto rivelò un abito e una camicia di discreta fattura oltre a un portamento sorprendentemente elegante. - Piacere, Antonio – disse con un certo sussiego nello stringere la mano ai due ragazzi. Era un ingegnere, disse, che aveva perso il posto di lavoro a soli 45 anni: la crisi economica, le grandi aziende che per sistemare i loro conti avevano una sola ricetta, si sa, quella di licenziare il personale. - Grandi manager, pfui –ribadì con una smorfia di disgusto -

sono capace anch’io di fare il manager così. Duemila, tremila, diecimila esuberi e via, tu ti ritrovi col culo per terra mentre loro si dividono i premi e le stock options per aver risanato l’azienda. -

Jonas sorrise comprensivo, ma Florence gli comunicò con tono tagliente che non avevano più stanze utilizzabili al piano terra, e che il piano superiore era inagibile. Si aspettavano una reazione di delusione, e invece con loro sorpresa colsero negli occhi dell’ingegnere un lampo di interesse. - Inagibile? Volete dire che non ci può metter piede nessuno,

nessuno è autorizzato a salire? Ma scusate, lasciatelo dire a me se è davvero inagibile, io sono un ingegnere e sono in grado di fare tutte le verifiche del caso. -

Il ragionamento sembrava ineccepibile, per cui anche Florence dovette accondiscendere, sia pure visibilmente a malincuore. Il sopralluogo venne eseguito con molta cura e circospezione dall’ingegnere Antonio con l’aiuto del drogato Mario. La parte della prima corte, bellissima dall’esterno per via delle finestre enormi e finemente sagomate, venne scartata quasi subito dopo che Antonio aveva udito scricchiolii sospetti e una piccola voragine si era aperta sotto i piedi di Mario, che per fortuna era riuscito a saltar via senza farsi male. La seconda corte appariva più promettente; nessuno scricchiolio ma solo nugoli di polvere che si alzavano al loro cauto procedere, qualche topo che fuggiva, ragnatele da tagliare col machete, ma nessuna voragine. Anche la balconata sembrava

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tenere bene, il che era sintomo, a detta dell’ingegnere, di una struttura sostanzialmente sana. In cima alle scale e dopo un androne si apriva una stanza che Antonio esplorò con cura particolare, valutando che cosa serviva per renderla illegalmente abitabile, infine scese e, mentre si spolverava gli abiti, annunciò a Jonas e Florence che aveva scelto la sua abitazione e che si prendeva lui tutta la responsabilità relativa alla stabilità della struttura. Lui e Mario avrebbero dato una sistemata: qualche buco alle pareti da tappare, una pulizia da spazzacamini, una colata di resina sul pavimento, una sbiancata ai muri e infine il collegamento elettrico e idraulico. Loro non dovevano preoccuparsi di niente. Ma le sorprese non erano ancora finite, perché verso la metà dei lavori all’ingegnere venne una grande idea: e se installassimo un bell’impianto fotovoltaico per dare energia elettrica a tutta la cascina? - Ma non costa un po’ troppo? – chiese Jonas perplesso, ma

tentato dall’idea dell’autonomia energetica. - Non ti preoccupare, i pannelli me li dà un amico che lavora in

fabbrica, l’installazione la facciamo io e Mario. Sarà il mio pagamento per l’ospitalità e per il danno che, sia pure involontariamente, ho provocato. -

Iniziarono così i lavori e in capo a una settimana Antonio aveva un quartierino illegalmente abitabile e la cascina un impianto elettrico autonomo che sembrava soddisfare le loro necessità. L’ingegnere volle fare all’impianto una lunga serie di collaudi meticolosi, accendendo contemporaneamente tutte le luci e gli apparecchi elettrici della cascina. Passati i test di verifica con esito positivo, con una emozionante cerimonia a poche sere dal grande spettacolo venne finalmente sconnesso il collegamento illegalmente provvisorio che finora aveva fornito energia alla comunità: da quel momento Cascina Cuccagna diventava elettricamente autonoma con fonte di energia rinnovabile e pulita. Antonio e Mario furono gli eroi della serata, nella quale venne messo in discussione un nuovo volantino che pubblicizzasse l’autonomia energetica raggiunta, ma Antonio convinse tutti a rinunciare, per non attirare l’attenzione sull’illegale provvisorietà dell’allacciamento alla rete gas.

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Il varo Dopo gli ultimi interventi l’Arca di Noè che si era pian piano formata a Cascina Cuccagna era pronta al varo ufficiale. La sera fatidica sarebbe stata quella del grande spettacolo, anche se Florence preferì farla precedere da alcuni eventi minori, ma ugualmente importanti sul piano del richiamo di pubblico. Prima una grande festa per i bambini del quartiere, con contributo volontario di torte da parte delle mamme e giochi sfrenati organizzati dai bimbi gitani: le cronache raccontano di una percentuale record di bambini che, dopo quella festa, sapevano fare capriole e salti mortali. Il giorno seguente fu la volta degli anziani, di cui si occupava Elsa. Giochi di carte, scacchi, cruciverba, indovinelli, film. Elsa era un vulcano di idee: a metà pomeriggio le venne in mente di lanciare un progetto di mini spettacolo teatrale recitato dagli anziani stessi in dialetto meneghino, con una trama da cucire poco alla volta su esperienze ed episodi di vita vissuta dei singoli “attori”. L’idea fu accettata con entusiasmo e i vecchietti tornarono a casa ringiovaniti di almeno dieci anni. Florence intanto aveva avviato un corso di tai-chi-chuan per signore, che era già arrivato alla dozzina di iscritte; le donne occupavano una zona del giardino non distante dal gruppo degli anziani che ogni tanto gettavano sguardi nostalgici alle loro calzamaglie colorate. Venne infine la sera del grande spettacolo. Jonas e Florence erano molto nervosi nell’attesa, domandandosi se avrebbe richiamato un buon numero di persone. Florence era inoltre molto turbata dal rifiuto di Antonio a partecipare all’evento, in qualsiasi forma e ruolo; era veramente uno strano personaggio, che si era subito dichiarato poco incline agli eventi chiassosi, affollati, e si era ritirato nei suoi locali molto prima che il tutto avesse inizio. Ma quando, alle otto di sera, Elsa prese posizione davanti al portone d’ingresso per vendere i biglietti, l’insperato successo di vendita fugò presto i timori dei due ragazzi. Infatti numerosi spettatori, comprato il biglietto per “spettacolo e ghiottonerie” si

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dirigevano al banco degustazione prima di prendere ordinatamente posto sulle sedie disposte ad anfiteatro. Lo spettacolo era piuttosto articolato: prima la grande orchestra dei gitani scaldava gli animi con le musiche di Bregovic, poi Florence e i due ladri recitavano una scenetta goldoniana, seguita da un assolo al sassofono di Mario e infine da una sonata al flauto traverso di Jonas. Il gran finale era tutto affidato ai bimbi gitani che con acrobazie da saltimbanchi si guadagnarono gli applausi e la simpatia del pubblico. A fine spettacolo gran parte del pubblico si trattenne fino a notte inoltrata presso il punto ristoro, rimpinguando ulteriormente le casse della comunità. Stanco, Jonas si era da poco sdraiato sul letto, ripercorrendo eccitato le varie fasi di quella memorabile serata, quando Florence fece irruzione nella sua stanza. - E’ stato un trionfo – disse, sedendosi sul letto vicino a lui, il

viso illuminato di gioia - non sai quanto sono felice. – - Anch’io, ma è tutto merito tuo… - I due ragazzi erano intenti a rimpallarsi i meriti e a descrivere ammirati la bravura dei vari artisti, quando una ventata improvvisa chiuse di colpo la porta della camera. Florence scoppiò in una risata, un po’ meno cristallina, più nervosa del solito, cui seguì un lungo silenzio imbarazzato. – Uuh come sono stanca – disse infine, stiracchiandosi e

coricandosi al suo fianco – Tu no? - Nel dire questo la ragazza accarezzò dolcemente i capelli di Jonas, il quale, a sua volta, pensò che era forse giunto il momento di scoprire se era umana, ricambiando teneramente la carezza. Sembrava proprio umana, eccome! Non portava reggiseno, per cui non fu difficile per Jonas slacciare due bottoni e raggiungere i seni armoniosi, duri, succhiarne i piccoli capezzoli sentendo il respiro di lei diventare affannoso. Cambiando obiettivo fu ugualmente facile per la sua mano risalire lentamente le cosce snelle ma atletiche, scostando con delicatezza l’abito di cotone leggero. Giunto a sfiorare l’intimità profonda della ragazza, Jonas si sentì avvolgere violentemente da una vampa di calore, come se fosse

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entrato in una fornace; quasi contemporaneamente dal corpo di Florence si sprigionò un aroma inconsueto, a lui sconosciuto, con un vago sentore di zenzero. Stava per ritrarsi spaventato, quando la ragazza lo attirò a sé e lo baciò dolcemente e a lungo. Il potere afrodisiaco dell’aroma nell’aria fece il resto, l’urgenza del desiderio ebbe il sopravvento e un attimo dopo le fu sopra alla ricerca della penetrazione. Da quel momento Jonas non ricordò più nulla, se non di essersi sentito catturare, avviluppare in un vortice morbido, caldo, umido che li spingeva in su e in giù assieme, uniti nell’occhio di un ciclone in cui si tuffavano e da cui riemergevano innumerevoli volte, fino all’istante in cui gli occhi di Florence si inumidirono nell’estasi. - Mon amour…mon amour…avec toi...ensemble... - 3 Un istante in cui il vortice morbido e caldo e umido li consegnò a un orgasmo dolce che a Jonas sembrò durare all’infinito. Si risvegliò che era già mattina ma Florence non era più al suo fianco. Anzi, quando appena sveglio aveva allungato un braccio dalla parte della ragazza, la sua mano aveva incontrato un cuscino gelido e rigido, quasi fosse stato un blocco di marmo. Aveva ritirato la mano inorridito ed era balzato a sedere sul letto; aveva cercato il suo profumo, il suo odore sulle lenzuola, ma sembrava che la ragazza si fosse portata via anche quello. Toccò di nuovo il cuscino, che stavolta gli sembrò un normale cuscino forse un po’ troppo morbido, alla temperatura dell’ambiente. Certo, anche lui privo del calore e dell’odore di Florence, ma assolutamente normale. Aveva forse sognato? Si alzò con ansia, dette una fuggevole occhiata all’armadio che era sempre aperto, corse fuori quasi temendo di non ritrovarla. Florence stava organizzando la giornata con Elsa e Goran, e quando lo vide lo salutò con un cenno della mano e un sorriso. Per quel pomeriggio erano attesi i pensionati per la lettura di libri, e i bambini per una serie di giochi di movimento, il cui pezzo forte era comunque l’insegnamento di capriole e salti mortali: inutile dire che, dopo lo spettacolo dei saltimbanchi della

3 - Amore mio…amore mio…con te…insieme. -

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sera prima, il numero di bambini era destinato a crescere fortemente. Nuvole Era passato circa un mese dal grande spettacolo inaugurale e le cose si erano ormai incanalate in una regolare attività che sembrava rendere tutti felici. La comunità di Cascina Cuccagna prosperava, offrendo ormai una serie di servizi di tutto rispetto che annoveravano, come si leggeva su un orgoglioso volantino distribuito in tutte le case di Porta Romana:

Restauro mobili e cornici in legno Ferramenta e piccole riparazioni Pomeriggi ricreativi per anziani

Lezioni di tai-chi-chuan Ludoteca e biblioteca per bambini

Pomeriggi acrobatici per bambini e ragazzi Serate di spettacolo e musica

A queste attività si aggiungeva il punto di ristoro gestito da Florence ed Elsa che proponeva una interminabile gara tra cucina francese e meneghina, tra quiche lorraine e risotto al salto, terrine de campagne e rustin negàa, affermandosi progressivamente presso gli abitanti del quartiere che cominciavano per così dire a gravitare su Cascina Cuccagna. L’unico membro di quella piccola comunità che si teneva fuori da tutto era Antonio, “l’ingegnere”, come era chiamato da tutti con una punta di ironia. Misogino incallito, non amava mescolarsi agli altri neppure al momento del pasto che preferiva consumare in camera, scomparendo letteralmente quando c’erano eventi con persone esterne. La cosa infastidiva particolarmente Florence, che non capiva questo atteggiamento e finiva per chiedere di lui in continuazione, nella speranza di un suo cambio di rotta. Dal canto suo, la ragazza era invece incontentabile. Non vedeva di buon occhio il fatto che le mattinate fossero sostanzialmente libere e meditava di riempire quelle ore con attività per gli handicappati. Si era insomma al culmine della parabola.

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Quel giorno Florence stava appunto discutendo con Elsa e alcune donne gitane la possibile organizzazione di un centro di ricreazione per handicappati quando un temporale di inusitata violenza si abbatté su Milano e una nube nera con bagliori rossastri si installò sulla cascina. I tuoni scuotevano la struttura rompendo qualche vetro, la pioggia battente allagava il prato ma anche qualche stanza, per via di alcune falle nel tetto. Niente di straordinario, dicevano gli altri, era solo il primo temporale estivo; ma Florence fiutò l’aria ed entrò in una strana agitazione. Sembrava trasfigurata. Volle subito annullare i previsti giochi dei bambini adducendo a motivazione l’inagibilità del prato, qualcuno la sentì mormorare “tira un’aria che non mi piace” ma non volle dare nessuna spiegazione. In effetti era qualcosa di più di un semplice temporale estivo. La pioggia, divenuta un muro d’acqua tropicale, si insinuava dappertutto, finché a un certo punto l’acqua cominciò a sgorgare dal terreno e, spazzata dal vento impetuoso, a formare onde inusitate, tali da far apparire la cascina stessa come una nave in fase di naufragio. Florence si aggirava nervosa nella cucina, una delle poche zone che resistevano all’allagamento, quando un fulmine più vicino degli altri fece saltare l’impianto elettrico: ci sarebbe voluto l’ingegnere, ma Antonio sembrava scomparso e non rispondeva ai richiami. Florence preparò in fretta e furia un biglietto che diceva che il punto di ristoro era momentaneamente chiuso e lo appese al portone d’ingresso, poi si sedette in cucina come se aspettasse qualcosa. Erano al buio quando sentì arrivare Anya, la moglie di Drazan, uno dei figli del capo, che piagnucolando disse che non trovava più Nino, il più piccolo dei suoi bambini. Florence si irrigidì, ma cercò di consolarla. - Sei sicura che non sia andato con tuo marito? - La donna non sapeva e non aveva neppure la forza di reagire, l’aveva cercato in tutta la cascina e sembrava ormai rassegnata alla sua misteriosa scomparsa. - Comunque è meglio aspettare che torni Drazan – disse

Florence per farle coraggio - forse lui sa dirti dov’è. -

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Quando Drazan tornò la cascina riemerse dal buio, non per un miracoloso ripristino dell’impianto elettrico, bensì per via dei grossi fari di automobile che imboccarono l’androne d’ingresso e poco dopo il prato. Era la prima volta che veniva utilizzata la porta carraia. L’auto che Drazan conduceva con destrezza, ma lentamente perché tutti la potessero vedere, non era di poco conto trattandosi di una Porsche Carrera d’epoca ma in perfetto stato, con le cromature e la vernice luccicanti. Non per puro caso l’ingresso di Drazan con la Porsche fu accompagnato da un codazzo di piccoli gitani festanti e vocianti, che seguirono l’auto fino alla zona delle tende, dove dopo un’ultima accelerata il rombo del motore finalmente tacque. Drazan scese sventolando le chiavi, come un gesto di saluto del principe al suo popolo. Fu sorpreso di non vedere la moglie. In effetti, Anya era uscita dalla tenda correndo incontro al marito, ma vista l’auto nuova si era bloccata ed era tornata indietro. Stava piangendo sul letto quando Drazan entrando si mise a urlare che era una stupida e la prese violentemente a schiaffi. L’avrebbe forse uccisa, se non fosse intervenuto Goran, con la sua autorità, a farlo smettere. Tempesta Florence e Jonas avevano assistito come tutti all’ingresso trionfale della Porsche e al violento litigio familiare che ne era seguito. A quel punto Florence l’aveva preso per mano sussurrandogli all’orecchio: - Andiamo via. - La mano della ragazza era gelida, la voce un po’ tremante. Senza una parola, i due ragazzi si diressero alla stanza di Jonas, dove si coricarono abbracciati e in silenzio, preda di un’inquietudine che li tenne svegli a lungo. - Che cosa pensi, che Drazan abbia rubato l’auto? – Jonas si

decise infine a rompere il silenzio. - Molto peggio. - - Che vuoi dire, che ha fatto una rapina per comprarsela? -

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- No, temo piuttosto che abbia venduto il figlio. Non hai visto che Anya non gli ha nemmeno detto che è scomparso? Vuol dire che quando ha visto la Porsche ha capito tutto. – disse Florence riflessiva – Sai, quando accadono queste cose temo che tu abbia ragione, che l’uomo non voglia migliorare e la filosofia del “si è sempre fatto così” sia dura a morire – concluse quasi rassegnata.

La gravità del sospetto li stringeva in una morsa angosciosa, e solo a notte fonda la stanchezza riuscì a chiuder loro gli occhi. Verso mattina fu ancora Florence a prendere l’iniziativa, e in pieno sonno Jonas si sentì nuovamente avviluppare dal vortice morbido e caldo che lo portava in su e in giù, in su e in giù, fino a quell’estremo piacere unito allo svuotamento di linfa vitale che lo traghettò dolcemente dal sonno al risveglio. Passò qualche minuto prima che prendesse coscienza del tutto. Florence questa volta era rimasta abbracciata a lui, ma in volto aveva dipinta una maschera triste, come se avesse pianto. - Che cosa c’è? – domandò Jonas allarmato. - C’è che prima ho avuto un incubo: ero piccola e avevo fatto

un castello di sabbia bellissimo, sai con le torri il fossato e il ponte levatoio. Ma poi è arrivata un’ondata, è bastata una sola ondata, e si è sgretolato tutto in pochi secondi, davanti ai miei occhi… -

La giornata era una di quelle di inizio estate in cui il cielo si è svegliato di malumore, ingombro di nembi grigi e nerastri che brontolavano tuoni in continuazione come un intestino disturbato; in lontananza si scorgeva il bagliore di qualche saetta, tutti sintomi di un temporale in avvicinamento. I primi riscontri della mattinata sembrarono invece aprire qualche squarcio di ottimismo. L’elettricità non c’era ancora perché Antonio continuava a essere irreperibile, ma Elsa disse che conosceva un elettricista, suo vecchio cliente, che avrebbe sicuramente sistemato l’impianto. A pagarlo ci avrebbe pensato lei, aggiunse con un sorrisetto malizioso. Rimaneva il problema di Nino, il bimbo di Drazan e Anya. Con molta fermezza Florence affrontò la cosa con Goran: non era una strana coincidenza che nello stesso giorno in cui il bimbo era

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scomparso Drazan fosse arrivato con l’auto nuova? Dove prendeva il giovane gitano tutti quei soldi? Goran rifletté a lungo, indugiando nell’abituale gesto di grattarsi lo stomaco prominente; poi disse con una certa gravità. - Tu non preoccupare, bimbo riporto io casa oggi stesso. - - E Drazan? – domandò Florence, che aveva già notato

l’assenza della Porsche dal prato dov’era parcheggiata. - Drazan giovane, come tutti giovani a volte sbaglia – rispose

esitante il capo gitano - può darsi che per un po’ di tempo noi non vediamo lui. -

- Che cosa vuoi dire? - - Noi fare così, quando sbagli vai via un po’ da famiglia, vai

guadagnare soldi da solo, poi torni a casa. Ho fatto così anch’io quando avevo sua età. – rispose evasivo Goran.

Ma proprio mentre questa faccenda prometteva di sistemarsi, si udirono delle urla provenire dalla camera di Elsa, il rumore di una colluttazione. Qualche secondo dopo Mario apparve sulla porta, pallido come un morto; si guardò intorno incerto prima di mettersi a correre verso l’uscita. - Quello stronzo ha cercato di violentarmi – urlò Elsa

sistemandosi i vestiti scomposti - Non sa con chi ha a che fare, ne ho tenuti a bada uno e via di uomini allupati! - Poi aggiunse ridacchiando - Ah, verso l’una, in pausa pranzo, arriva Angelo, il mio amico elettricista. Prevede un lavoretto di quindici, venti minuti, diciamo un’oretta col pagamento.

Elsa aveva tentato di sdrammatizzare, ma il tentativo di violenza era pur sempre un nuovo segnale che non lasciava tranquilla Florence, come se la situazione stesse degenerando e diventasse difficile controllarla. O forse aveva ragione Elsa a prendere gli eventi un po’ allegramente. Difatti nel corso della mattinata alcune cose sembrarono aggiustarsi: Goran rientrò da un misterioso giro “in città” riportando Nino per mano; all’una in punto Angelo l’elettricista si mise all’opera, in pochi minuti aveva ridato la corrente a Cascina Cuccagna ed intorno alle due usciva dalla stanza di Elsa visibilmente soddisfatto. Pochi minuti dopo anche Mario rientrò furtivamente e con aria contrita cercò subito Elsa e Florence per chiedere scusa dell’episodio, ottenendo così la riammissione in cascina.

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Sembrava che tutto stesse raddrizzandosi, meno il tempo; anzi, Florence alzando gli occhi al cielo mormorò lugubre: - Peggiora! Erano forse le tre di quella giornata burrascosa quando il primo scroscio di pioggia torrenziale accompagnò in cascina un quarantenne piuttosto distinto che, nonostante il vestito inzuppato, Goran e Elsa identificarono subito per un poliziotto. Chiese di parlare col “capo”. Dopo pochi minuti il quarantenne distinto, Florence e Jonas erano seduti a un tavolo della cucina mentre Elsa preparava un caffè per tutti. Jonas era preoccupato: quale reato poteva aver condotto la Polizia in cascina? L’ospitalità data ai gitani e agli scassinatori, l’allacciamento illegale del gas, l’utilizzo del primo piano inagibile? Insomma, si sentiva responsabile e aspettava il verdetto. L’ospite, dopo aver passato più volte la mano destra sui capelli neri carichi di brillantina, si guardò attorno con aria indagatrice scrutando ogni angolo della stanza. Si qualificò come l’ispettore Crespi esibendo il tesserino; poi, ridacchiando in maniera sgradevole, entrò in argomento: - Sono della Polizia e mi occupo di crimini violenti – disse

rivolto a Florence – è lei che ha chiamato? - - Chiamato? – le pagliuzze dorate sembrarono proiettarsi fuori

dagli occhi della ragazza in uno sguardo di stupore che l’ispettore giudicò genuino.

- Mi spiego. Abbiamo ricevuto una chiamata dal telefono fisso di Cascina Cuccagna che segnalava la presenza di un individuo sospetto, forse ricercato dalla Polizia. – disse – Di solito non diamo peso alle telefonate anonime, ma la ragazza che chiamava ha insistito molto. –

- Ma qui non abbiamo il telefono e non esiste nessuna linea intestata a Cascina Cuccagna. – tagliò corto Jonas.

- Questo è davvero molto strano. Perché così risulta dai tabulati della società telefonica; la linea chiamante era quella di Cascina Cuccagna e la voce femminile che parlava aveva la erre francese come la signorina…ma se mi dite che non c’è il telefono non posso che prenderne atto. -

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Sorrise vedendo i due ragazzi a disagio; fece una breve pausa e quindi con movimenti molto lenti, studiati, estrasse una foto dalla tasca della giacca. - Il fatto è che noi stiamo davvero cercando una persona.

Perciò veniamo al dunque: lo conoscete questo? - - Certo, è Antonio “l’ingegnere” – risposero impallidendo -

pensi che in cambio dell’alloggio ci ha costruito un fantastico impianto fotovoltaico che dà energia a tutta la cascina, anche se proprio ieri ha avuto un blackout. Un tipo un po’ misogino, ma per il resto… -

- Per il resto, questo signore non si chiama affatto Antonio bensì Dario, forse è davvero un ingegnere ma quello che interessa a me è che questo Dario è un serial killer ricercato dalle polizie di mezza Europa. -

- Se…serial killer? – biascicò Jonas. - Vi ricordate la vicenda dei pedofili in Belgio? E’ stata su tutti

i giornali; la storia parte da lì, attraversa Francia e Austria fino ad arrivare da noi. Otto bambine dai sei ai dieci anni violentate e uccise, le ultime due in Lombardia. – disse, concludendo poi con estrema durezza - Capite bene che dobbiamo fermarlo: dov’è? -

- La sua stanza è al piano superiore della seconda corte, di là –disse Florence indicando la direzione con un ampio gesto del braccio – Ma è un po’ di giorni che non lo vediamo. -

- Me lo immaginavo – disse l’ispettore con un sorriso tagliente – ma sono sicuro che lo troveremo…oh se lo troveremo quel bastardo! -

Col telefonino di servizio l’ispettore chiamò a raccolta i suoi uomini che si diressero con circospezione verso la seconda corte; Jonas fece appena in tempo a dire: - Attenzione, il piano superiore è pericolante – informazione

che i poliziotti recepirono ma dimostrarono di voler ignorare. Dopo un’ora di ricerche in tutti gli angoli, pericolanti e non, l’ufficiale che guidava la squadra ritornò deluso e sfiduciato. - Capo – disse – non c’è. Abbiamo rivoltato tutte le stanze ma

del nostro uomo nessuna traccia. O meglio, tracce ce ne sono, nel senso che al primo piano c’è un letto, un tavolino, le carte di progetto di un impianto fotovoltaico, ma lui sembra evaporato. -

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L’ispettore era disorientato; meditando sul da farsi, passò più volte nervosamente la mano tra i capelli, senza profferire parola. Jonas appariva invece quasi sollevato: non gli andava proprio che venisse catturato un criminale nella cascina a lui affidata. Ma il corso dei loro pensieri venne presto interrotto dalla reazione di Florence, che entrambi guardarono con stupore. - Non se la può cavare così, non è giusto. Otto bambini… –

disse la ragazza, pallida e agitata, premendo con forza le mani sulle tempie per otto volte.

Erano passati solo pochi istanti, quando un rumore agghiacciante segnalò il crollo di una parte di cascina, quella affacciata alla seconda corte. I poliziotti corsero immediatamente in quella direzione, saltabeccando tra le macerie, i tubi rotti, i fili elettrici tranciati. Alcuni metri di cascina erano inspiegabilmente crollati e non era facile orientarsi nella fitta nebbia che si era generata. Dopo qualche minuto il polverone diradò e allora lo videro: Antonio-Dario giaceva al suolo, stordito da una trave e con entrambe le braccia fratturate. Non rimase però a lungo privo di conoscenza perché i poliziotti fecero a gara a farlo rinvenire a suon di schiaffoni. - Quel disgraziato si era nascosto in un cavedio che nessuno poteva vedere – esclamò trionfante l’ispettore – meno male che è crollata proprio quella zona, siamo stati fortunati! – concluse, mentre il criminale sfilava ammanettato davanti agli abitanti della cascina, lo sguardo sprezzante di chi lascia l’ultimo rifugio da uomo libero. La fine - Dov’è? – Goran era livido in volto e la sua voce alterata

esigeva immediata attenzione. - Dov’è chi, cosa? – rispose Jonas sollevando malvolentieri lo

sguardo dal prezioso trumeau dell’Ottocento che stava lucidando con amore.

- Non fare furbo tu! Florence, dove finita? E’ sparita, io cerco lei da un’ora per parlare di Drazan e Nino. -

- Ma non sarà uscita come sempre? -

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- Col cazzo Jonas, non è uscita, nessuno vista uscire. Io chiesto anche tutti amici dintorni, nessuno vista uscire lei. E qui non c’è! -

Una sottile agitazione si stava impossessando di Jonas, ma non ebbe il tempo di dire nulla perché la lama di un coltello balenò nelle mani di Goran gelandogli le parole sulle labbra. - Attento Jonas, so che tu andare a letto con lei, noi tutti capito.

Ma se scopro che fatto male a ragazza, se anche solo torto un capello, sei spacciato. -

- Ma io le voglio bene, ti pare che… - balbettò Jonas, fissando la lama come ipnotizzato.

Non riuscì a finire la frase perché il capo dei gitani se n’era già andato sbattendo la porta. A quel punto a Jonas non restò altro che alzarsi e mettersi anche lui alla ricerca della ragazza. Mario, per sua sfortuna, fu il primo che Jonas incontrò sulla sua strada. Memore del tentativo di violenza su Elsa lo prese subito per il colletto chiedendogli che cosa avesse fatto a Florence; per farsi capire meglio lo picchiò di santa ragione ancor prima che lui avesse il tempo di rispondere, di difendersi, sfogando sul malcapitato tutta la rabbia che gli stava montando dentro. - Niente, niente le ho fatto, sei pazzo! – urlò Mario tremante di

paura, il viso sporco di sangue, correndo veloce verso l’uscita della cascina che attraversò questa volta definitivamente.

Jonas orientò la sua ricerca alle zone circostanti, ai negozi e ai bar che la ragazza frequentava per stabilire rapporti e capire le esigenze, ma nessuno sembrava averla più vista dal giorno prima. Mentre il ragazzo indagava all’esterno, dentro a Cascina Cuccagna si andava purtroppo materializzando l’incubo di Florence: tutto quello che avevano costruito franava miseramente, come sotto l’influsso di un oscuro sortilegio. In rapida sequenza infatti: un gruppetto di gitani accusò i due ex-scassinatori di aver “venduto” Florence alla malavita con cui avevano mantenuto sottili legami. I due, vistisi persi, attribuirono la colpa a Elsa, che secondo loro era segretamente innamorata di Jonas e quindi pazza di gelosia per Florence, ed essendo in due contro una questa volta non fu difficile per loro “punirla”, violentandola selvaggiamente sul tavolo di cucina. Elsa ne uscì sconvolta per correre piangente in camera a raccogliere le sue cose e abbandonare per sempre la cascina.

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Gli scassinatori a seguito dello stupro si erano già dileguati quando Goran riunì gli uomini del campo per decidere che cosa convenisse fare. Fu una decisione dolorosa ma inevitabile, perché con una donna scomparsa e un’altra stuprata le probabilità che tutte le colpe venissero fatte ricadere sui gitani erano altissime; pertanto prepararono le loro masserizie, smontarono le tende e si incolonnarono mestamente verso l’uscita. Jonas rientrando verso la cascina si ricordò di un ultimo possibile testimone. Era il mendicante cieco che stazionava davanti al portone della cascina; Florence gli aveva più volte raccontato di come il cieco conoscesse tutti i suoi spostamenti perché, pur non vedendola, era in grado di riconoscere i suoi passi anche a distanza, sia quando usciva che addirittura quando circolava dentro Cascina Cuccagna. Trascinava lentamente i piedi Jonas, come si fa quando si vuole rinviare il momento di una verità che si teme spiacevole. Giunto infine dal cieco cercò goffamente di presentarsi. - Sono Jonas, amico di Florence… - - Certo Jonas, so bene chi sei. Bella ragazza Florence, vero? E

anche molto simpatica. - - Sì, molto bella, ma ora è sparita, sono preoccupato – lo

interruppe Jonas cercando di controllare la sua agitazione - anzi volevo sapere se l’hai sentita passare oggi. -

Il cieco sembrò riflettere lungamente, poi pronunciò il suo verdetto inappellabile. - Oggi non è mai uscita, ho sentito i suoi passi solo all’interno –

fece una pausa, gli occhi spenti rivolti verso l’alto - ora che ci penso…ad una cert’ora il rumore dei passi si è affievolito, ma sono sicuro che è ancora dentro. Devi guardare bene, in qualche posto nascosto. -

Jonas si congedò; si stava già avviando verso la cascina, quando fu richiamato dal mendicante. Lo vide armeggiare a lungo con le dita artrosiche sui risvolti della giacca logora, nell’atto di togliere un distintivo dall’occhiello. Quando ci riuscì glielo porse: era una minuscola coccarda tricolore, a sottili righe bianche rosse e blu. - Tienila con te mentre cerchi Florence – disse, aggiungendo con tono misterioso – tienila sempre, tutte le volte che la cercherai. Ti aiuterà a trovarla. -

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Jonas, stringendo in mano il suo nuovo amuleto, si avviò trepidante verso l’ingresso, ma fu preso egualmente da grande sconforto nel trovare Cascina Cuccagna completamente deserta. Gli venne da piangere: l’arca di Noè che avevano pazientemente costruito si era incagliata sul monte Ararat e gli occupanti se ne erano andati senza salutare né ringraziare, e oltre tutto qualcuno di loro poteva anche aver fatto del male alla sua Florence. Perlustrò attentamente varie zone della cascina per poi cedere alla stanchezza e alla delusione. Puntò dritto verso la sua stanza, ma giunto nei pressi volle prima dare un’occhiata a quella della ragazza. Socchiudere la porta e provare un tuffo al cuore fu tutt’uno: sul tavolo di quella stanza vuota campeggiava il quaderno segreto di Florence, quello rilegato in tela blu con i fregi in oro. Voleva dire che la ragazza era passata di là, e forse il quaderno conteneva qualche utile traccia per ritrovarla. Forse l’amuleto del cieco funzionava davvero? Si avvicinò al tavolo, vi appoggiò la coccarda e prese in mano il quaderno con mani tremanti dall’emozione. Dovette anche sedersi perché le gambe non lo reggevano. Aprì il quaderno lentamente. Fu subito colpito dalla calligrafia antiquata, con le lettere leggermente appuntite; inoltre, guardando con più attenzione, si accorse che le scritte erano fatte con inchiostro e pennini…ma Florence aveva sempre usato una normalissima penna a sfera. Restò per alcuni minuti a fissare il quaderno inebetito, prima di osservarne il contenuto: iniziava con una data, venticinque aprile 1792, e un nome, poi proseguiva con un lungo elenco di date e di nomi. La data iniziale mise in moto il suo cervello; che cosa accadde in quel periodo? Che cosa poteva essere quella specie di registro che consultò febbrilmente, trovandovi nomi famosi come Louis XVI e Marie Antoinette? “O mio Dio…sembra quasi un elenco delle esecuzioni, dei ghigliottinati durante la rivoluzione francese – pensò Jonas, poi come folgorato – Florence aveva detto qualcosa su un papà rivoluzionario…” In realtà a Jonas poco importava di capire la ragion d’essere dell’elenco; si domandava piuttosto dove fossero finiti gli appunti di Florence, dove potesse esserci un indizio per ritrovarla.

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Fece scorrere le pagine ad una ad una, ma della grafia della ragazza non c’era traccia. Giunse infine all’ultima pagina, dove una mano diversa aveva vergato, sempre con pennini e inchiostro, una dedica: “A’ ma fille Florence, qui va changer le monde sans cette folie sanguinaire.” 4 Stringendo il quaderno in una mano e la piccola coccarda nell’altra, si spostò ormai rassegnato in camera sua. Venne subito percorso da un violento brivido freddo dalla testa ai piedi, lo stesso di quella lontana mattina in cui tutto era iniziato: il duplicato della chiave di Cascina Cuccagna giaceva sul tavolo da lavoro, un’altra traccia del passaggio di Florence. Jonas osservò impietrito la chiave senza riuscire a farsene una ragione, fino a che il suo sguardo, sfuggendo al suo controllo, alla sua volontà, si sollevò lentamente in direzione dell’armadio a tre ante che per mesi aveva quasi dimenticato. La terza anta era chiusa. Rimase a guardarla attonito per un lungo momento, nel quale capì, o almeno così credette, che difficilmente si sarebbe riaperta. E quasi pensando ad alta voce mormorò: “Peccato Florence, è finita male…ma se vuoi…quando vuoi…ci possiamo riprovare”. L’eco delle sue parole sulle pareti tristi della stanza rimbalzò sui muri abbandonati di Cascina Cuccagna spingendolo a correr fuori, col quaderno e la coccarda in mano, a chiedere spiegazioni al mendicante cieco: l’unico che sentiva amico in quel momento, l’unico che esaminando il quaderno con le mani avrebbe forse capito e saputo spiegargli la verità. Giunse trafelato e pieno di speranza al portone, si guardò intorno. Anche il mendicante cieco era scomparso. Lo sguardo di Jonas divenne liquido, la vista gli si appannò. Scrutò la zona in tutte le direzioni, non vide nessuno. Esplorò con gli occhi la lunga via che dalla cascina conduceva alla Porta romana, era vuota. In una sorta di delirio, la vista sembrò attraversare i muri delle case, estendersi verso il centro di Milano, lambire la torre Velasca, il Duomo, il Castello.

4 “A mia figlia Florence, che cambierà il mondo senza questa follia sanguinaria.”

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Non vide nessuno in giro, nessuno passeggiare per le vie del centro, nessun bimbo giocare ai giardinetti, nessuna donna uscire dai mercati con la borsa della spesa. La città sembrava abbandonata. Rimaneva solo Jonas, in piedi all’ingresso di Cascina Cuccagna, per ricominciare.