caso fiat

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Da Pomigliano a Mirafiori: il caso FIAT – FIOM e la sentenza 231/2013 Il sistema industriale italiano è composto per la maggioranza da piccole e medie imprese. Le situazioni di crisi come quella attuale hanno un maggiore impatto su sistemi di questo tipo poiché recessione, contrazione dei consumi e della produzione ed elevata tassazione spiegano i propri effetti negativi in primis proprio verso imprese medie e piccole, erodendone i ricavi e costringendo molte di esse al fallimento. Anche le grandi imprese naturalmente soffrono gli stessi problemi, ma la diversa dimensione dei mercati su cui operano permette di contenerne in parte gli effetti. Anzi, i problemi che maggiormente interessano le grandi imprese in questi periodi sono in larga parte diversi, amplificati anche dal ruolo sociale che le stesse ricoprono (o che a esse è attribuito, almeno nel nostro Paese): ristrutturazioni e ridimensionamenti aziendali, per esempio, ma soprattutto nuove politiche di investimento che richiedono maggiore flessibilità e che possono portare allo scontro con le opposte organizzazioni di tutela dei lavoratori e delle loro garanzie sull’impiego. Questo è ciò che è accaduto in Italia, a partire indicativamente dal 2010, tra la più importante impresa automobilistica italiana, FIAT, e il principale sindacato dei lavoratori metalmeccanici, FIOM, a sua volta affiliato a CGIL. Ancor prima dell’inizio di questo braccio di ferro si erano manifestate alcune incongruenze di vedute tra le tre principali confederazioni sindacali: CGIL, CISL e UIL. Nel 2009 venne stipulato un Accordo Interconfederale sulla riforma degli assetti contrattuali, definito “quadro” in quanto dettava in via sperimentale, i principi del nuovo modello contrattuale, con il rinvio della definizione delle specifiche regole applicative a successivi accordi interconfederali o di categoria. Si trattò però di un accordo separato, in quanto la

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Diritto del lavoro

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Da Pomigliano a Mirafiori: il caso FIAT – FIOM e la sentenza 231/2013

Il sistema industriale italiano è composto per la maggioranza da piccole e medie imprese. Le situazioni di crisi come quella attuale hanno un maggiore impatto su sistemi di questo tipo poiché recessione, contrazione dei consumi e della produzione ed elevata tassazione spiegano i propri effetti negativi in primis proprio verso imprese medie e piccole, erodendone i ricavi e costringendo molte di esse al fallimento.

Anche le grandi imprese naturalmente soffrono gli stessi problemi, ma la diversa dimensione dei mercati su cui operano permette di contenerne in parte gli effetti. Anzi, i problemi che maggiormente interessano le grandi imprese in questi periodi sono in larga parte diversi, amplificati anche dal ruolo sociale che le stesse ricoprono (o che a esse è attribuito, almeno nel nostro Paese): ristrutturazioni e ridimensionamenti aziendali, per esempio, ma soprattutto nuove politiche di investimento che richiedono maggiore flessibilità e che possono portare allo scontro con le opposte organizzazioni di tutela dei lavoratori e delle loro garanzie sull’impiego. Questo è ciò che è accaduto in Italia, a partire indicativamente dal 2010, tra la più importante impresa automobilistica italiana, FIAT, e il principale sindacato dei lavoratori metalmeccanici, FIOM, a sua volta affiliato a CGIL.Ancor prima dell’inizio di questo braccio di ferro si erano manifestate alcune incongruenze di vedute tra le tre principali confederazioni sindacali: CGIL, CISL e UIL. Nel 2009 venne stipulato un Accordo Interconfederale sulla riforma degli assetti contrattuali, definito “quadro” in quanto dettava in via sperimentale, i principi del nuovo modello contrattuale, con il rinvio della definizione delle specifiche regole applicative a successivi accordi interconfederali o di categoria. Si trattò però di un accordo separato, in quanto la CGIL non lo sottoscrisse a causa della possibilità, prevista nello stesso, di introdurre nel successivo contratto nazionale di categoria le cosiddette “clausole di uscita” o “di apertura”. Tali clausole permettono ai contratti decentrati di derogare anche in pejus alla disciplina dei singoli istituti economici o normativi previsti nel contratto nazionale, qualora ciò sia funzionale al governo di situazioni di crisi o a favorire l’occupazione o lo sviluppo economico di un territorio o di un’azienda.In questo modo si creò un differenza soggettiva di disciplina: alla CISL e alla UIL,

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nonché alle relative organizzazioni di settore, si applicavano le regole previste dall’Accordo del 2009 mentre le stesse non si applicavano alla CGIL e alle relative organizzazioni di settore, tra cui la FIOM, che rimanevo ancorate alle regole introdotte con il precedente Accordo (Protocollo Ciampi-Giugni del 1993).Quindi, in una situazione già di per sé precaria, caratterizzata da tensione e disaccordo tra i principali esponenti del mondo sindacale, si abbatte sul sistema delle relazioni industriali il cosiddetto “uragano Marchionne”, proprio a indicare gli effetti devastanti che il caso avrebbe avuto, o che perlomeno avrebbe dovuto avere nelle previsioni, sul sistema stesso.Nel 2010 FIAT annuncia la nascita del progetto “Fabbrica Italia” e in forza di ciò si trova davanti a una fondamentale scelta di politica aziendale: il suddetto progetto prevede di investire un’ingente quantità di danaro (si parla di circa 20 miliardi) negli stabilimenti italiani per raddoppiare la produzione, con l’alternativa di trasferire la stessa all’estero, dov’è possibile abbattere i costi e godere di una legislazione lavoristica meno vincolante. Non volendo rinnegare il suo retaggio l’azienda manifesta l’intenzione di proseguire la produzione in Italia, ma a condizione che sia possibile, per i contratti decentrati, derogare alle stringenti regole dei contratti nazionali di categoria, nel caso al contratto dei Metalmeccanici, al fine di introdurre regole di maggiore flessibilità per gli stabilimenti locali: l’accusa di FIAT è che dietro alle garanzie che il contratto di categoria pone a favore dei lavoratori si nascondano comportamenti di scarsa efficienza da parte degli stessi, cosa che incide negativamente sulla produttività. Tale situazione si manifesta soprattutto nello stabilimento di Pomigliano d’Arco (NA), dove si registra un tasso di assenteismo per malattia di molto superiore alla media, che si incrementa ulteriormente in prossimità del weekend (famosa è la risposta dell’AD Marchionne alla domanda sul giorno di maggior assenteismo:“Dipende da che partita c’è”).Nell’ambito del progetto “Fabbrica Italia” lo stabilimento di Pomigliano ha un’importanza cruciale: il 15 giugno 2010 viene siglato un accordo tra FIM, UILM, UGL, cioè i sindacati del settore metalmeccanico facenti capo alle confederazioni, e FIAT per la costituzione della newco “Fabbrica Italia Pomigliano – FIP” , nella quale vengono riversati tutti i lavoratori della ex fabbrica FIAT di Pomigliano. Formalmente FIP è una nuova azienda, soltanto controllata dal gruppo FIAT e non aderente al contratto nazionale dei Metalmeccanici: in questo modo è possibile estendere ai lavoratori le deroghe al contratto dei Metalmeccanici che la FIAT ha ottenuto dai sindacati firmatari dell’accordo, senza pericolo di violazione del contratto stesso e potendone pretendere il rispetto da parte di tutti i lavoratori indipendentemente dalla loro adesione a sindacati firmatari o meno dell’accordo nazionale. A tale modifica contrattuale non aderisce però la FIOM-CGIL, che anzi si

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oppone fermamente alla stessa: viene quindi proposto un referendum sul contratto in questione, che vede l’approvazione del 63% dei lavoratori.Si giunge così a una svolta fondamentale: sull’onda dell’“effetto Pomigliano” il 7 settembre 2010 FIAT disdice il contratto nazionale dei Metalmeccanici stipulato nel 2008 con CGIL, CISL e UIL e in scadenza nel 2011; a fronte di ciò FIAT e Federmeccanica manifestano l’intenzione di stipulare un nuovo contratto nazionale per il solo settore automobilistico, separato dal CCNL Metalmeccanici appena disdetto, che da molti è ritenuto di fatto un contratto aziendale.Il 23 dicembre 2010 viene siglato a Torino, presso lo storico stabilimento di Mirafiori, un contratto tra FIAT e FIM, UILM, FISMIC, UGLM e Associazione Capi e Quadri FIAT che viene definito storico per il sistema di relazioni industriali italiano. A questo CCSL (Contratto Collettivo Specifico di lavoro di primo livello) partecipano infatti tutte le principali sigle del settore metalmeccanico, ma non la FIOM, ritenuta la principale sigla sindacale dei Metalmeccanici per numero di adesioni; inoltre dopo la disdetta del CCNL Metalmeccanici questo risulta essere l’unico contratto vincolante per il gruppo FIAT e l’unico contratto che stabilisce le regole di rappresentanza aziendale vincolanti per il gruppo stesso.Nel 2011 si assiste a un ricompattamento del fronte sindacale, con la stipula dell’Accordo interconfederale del 28 giugno: questa volta non si tratta di un accordo separato, com’era successo nel 2009, in quanto la CGIL torna parzialmente sui suoi passi e accetta che i contratti decentrati, in particolare quelli aziendali, possano derogare in pejus al contratto collettivo nazionale, ma solo nei limiti di quanto previsto dallo stesso contratto nazionale. La partecipazione della CGIL, a fianco di CISL e UIL, nella stipula del contratto con Confindustria (quindi vincolante anche per FIAT in quanto aderente a Confindustria) determina dunque un alleggerimento della difficile situazione che si era venuta a creare tra parti sindacali e parti datoriali a seguito dei fatti precedentemente esposti.La ritrovata unità si manifesta ulteriormente in seguito all’intervento “a gamba tesa” effettuato dal Governo sulle regole definite nell’ultimo Accordo Interconfederale. Il 13 agosto 2011, nemmeno due mesi dopo l’approvazione dell’AI e senza alcuna considerazione dello stesso, viene emanato il decreto legge 138/2011, poi convertito in legge 148/2011 con l’apposizione della questione di fiducia, nel quale vengono dettate in particolare nuove regole nei rapporti tra contratto nazionale e contratto decentrato: l’articolo 8 prevede che i cosiddetti “contratti di prossimità”, cioè contratti territoriali non meglio definiti, possano derogare in pejus non solo al contratto nazionale ma anche alla legge, pur rimettendo all’autonomia delle parti la discrezionalità sull’esercizio di queste deroghe; tutto ciò nel solo rispetto di criteri generalissimi (scopo e oggetto dell’accordo) o che sarebbero comunque inviolabili anche senza un’apposita

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previsione (sistema delle fonti del diritto). Particolarmente critico e criticato risulta il comma 3, detto “salva-FIAT” in quanto prevede che “le disposizioni contenute in contratti collettivi aziendali vigenti, approvati e sottoscritti prima dell’accordo interconfederale del 28 giugno 2011 tra le parti sociali, sono efficaci nei confronti di tutto il personale delle unità produttive cui il contratto stesso si riferisce a condizione che sia stato approvato con votazione a maggioranza dei lavoratori”: si tratta evidentemente di una disposizione espressamente volta a garantire l’applicabilità del CCSL FIAT e degli accordi di Pomigliano, ratificati dalla maggioranza dei lavoratori tramite referendum.Con tale espediente il Governo è sicuro di risolvere definitivamente la controversia a favore di FIAT (vista anche la “scarsa simpatia” dei governi Berlusconi per le organizzazioni sindacali); senonché il 21 settembre 2011, in occasione della ratifica definitiva dell’AI del 28 giugno, Confindustria, CGIL, CISL e UIL aggiungono al testo dello stesso una postilla nel quale si afferma che le organizzazioni aderenti a tale accordo si sarebbero impegnate ad applicare solamente le norme dello stesso, con l’intenzione dunque di lasciare in disparte la normativa prevista dall’articolo 8.Questa ulteriore presa di posizione dei sindacati e soprattutto di Confindustria spinge FIAT a fare “il grande passo”: l’impresa torinese decide di uscire dall’associazione degli industriali con decorrenza dal 1 gennaio 2012. In questo modo essa è svincolata da tutti gli accordi conclusi da Confindustria con i sindacati, compreso l’AI del 28 giugno 2011, con il risultato che l’unica disciplina applicabile ai dipendenti del gruppo risulta quella prevista dal CCSL siglato il 23 dicembre 2010.

Si giunge così alla questione fondamentale della vicenda, cioè la possibilità per i lavoratori FIAT di costituire rappresentanze sindacali aziendali (RSA) nelle diverse unità produttive. La disciplina generale in materia non si trova in accordi collettivi ma nella legge 300/1970, il cosiddetto “Statuto dei lavoratori”. L’articolo 19 dello stesso prevede che “rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva, nell’ambito delle associazioni sindacali che siano firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati nell’unità produttiva”; nel caso in questione ciò vuol dire che possono costituire RSA solo i lavoratori che siano iscritti a sindacati che abbiano firmato il CCSL. Ciò determina una situazione quantomeno paradossale dal momento che FIOM, che rivendica la maggior rappresentatività non solo nell’ambito del gruppo FIAT, ma anche in tutto il settore metalmeccanico, non può rappresentare i propri lavoratori nelle unità produttive del gruppo in quanto non firmataria del CCSL.

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Questa situazione genera immediate reazioni di censura verso la scelta operata da FIAT e verso le sue conseguenze, a cui seguono ricorsi giudiziari da parte di FIOM, che lamenta una lesione dei diritti dei lavoratori a essere rappresentati e l’antisindacalità del comportamento di FIAT. In particolare il Tribunale di Modena, seguito da quelli di Torino e Vercelli, propone ricorso alla Corte Costituzionale per una lamentata violazione degli artt. 2 e 3 della Costituzione a opera dell’articolo 19. Questi articoli postulano rispettivamente garanzie di protezione dei diritti inviolabili dell’uomo che si estrinsencano in formazioni sociali e di protezione del principio di uguaglianza, ritenute dai suddetti Tribunali violate nel momento in cui è fatto irragionevole divieto a un sindacato di rappresentare i propri lavoratori e di tutelare così gli interessi degli stessi.La Corte Costituzionale accetta il ricorso e colpisce l’articolo 19 con una sentenza di incostituzionalità di tipo additivo, cioè di implementazione del diritto vigente (Ghera 2013): nella sentenza 231/2013 è dichiarata l’incostituzionalità dello stesso “nella parte in cui non prevede che la rappresentanza sindacale aziendale possa essere costituita anche nell’ambito di associazioni sindacali che, pur non firmatarie dei contratti collettivi applicati nell’unità produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei lavoratori dell’azienda”.Le motivazioni della Corte vertono in primis sulla ratio dell’articolo 19: tradizionalmente questo è inteso come criterio di distinzione tra i sindacati che possono accedere ai diritti previsti dal titolo III dello Statuto e quelli che non sono legittimati a usufruirne. Questo perchè i diritti in questione necessitano di un comportamento attivo del datore di lavoro, il quale è costretto a sopportarne i relativi costi; si intende quindi evitare di oberare quest’ultimo con spese eccessive permettendo di accedere ai suddetti diritti solo ai sindacati che possono realmente avere voce nel conflitto sociale in forza della loro effettiva rappresentatività. Sarebbe quindi un ovvio controsenso escludere un sindacato che rappresenta un ampio numero di lavoratori perché non ha firmato il contratto collettivo, come avviene invece nel caso in questione.In questo contesto avrebbe luogo un’ inequivocabile violazione degli artt. 2, 3 e 39 della Costituzione. Si afferma nella sentenza: “Risulta, in primo luogo, violato l’art. 3 Cost., sotto il duplice profilo della irragionevolezza intrinseca di quel criterio, e della disparità di trattamento che è suscettibile di ingenerare tra sindacati. Questi ultimi infatti nell’esercizio della loro funzione di autotutela dell’interesse collettivo – che, in quanto tale, reclama la garanzia di cui all’art. 2 Cost. – sarebbero privilegiati o discriminati sulla base non già del rapporto con i lavoratori, che rimanda al dato oggettivo […] della loro rappresentatività e quindi giustifica la stessa partecipazione alla trattativa, bensì del rapporto con l’azienda, per il rilievo

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condizionante attribuito al dato contingente di avere prestato il proprio consenso alla conclusione di un contratto con la stessa. E se, come appena dimostrato, il modello disegnato dall’art. 19 […] condiziona il beneficio esclusivamente ad un atteggiamento consonante con l’impresa, o quanto meno presupponente il suo assenso alla fruizione della partecipazione sindacale, risulta evidente anche il vulnus all’art. 39, primo e quarto comma, Cost., per il contrasto che, sul piano negoziale, ne deriva ai valori del pluralismo e della libertà di azione della organizzazione sindacale”.L’effetto della sentenza nella vicenda è quello di vanificare gli sforzi effettuati da FIAT per superare la contrapposizione di FIOM: quest’ultima è infatti nuovamente ammessa a costituire RSA perché, pur non firmandolo, aveva preso parte alle negoziazioni relative al CCSL del 2010.Pur fornendo un criterio di soluzione semplice e apparentemente esaustivo la pronuncia della Corte rivela alcune criticità.La prima riguarda il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato a cui la Corte deve attenersi nelle sue sentenze: il giudizio di quest’ultima deve vertere esattamente sulle questioni sollevate dai giudici rimettenti. Nella sentenza 231 si assiste a una parziale violazione di questo principio, in quanto le istanze di rinvio chiedevano la dichiarazione di illegittimità dell’art. 19 perché questo adottava un criterio che non teneva conto della “misurazione effettiva della rappresentatività e dell’accesso e partecipazione al negoziato”; sono poste quindi due questioni, ma la Corte risponde solamente alla seconda di queste.Il secondo problema è di tipo interpretativo: che cosa deve intendersi per partecipazione alle trattative? Risulta sufficiente, ai fini in questione, la semplice presentazione di una piattaforma rivendicativa alla parte datoriale (Ichino 2013), per poi magari disinteressarsi degli esiti della trattativa stessa, o è necessario un confronto prolungato sino al raggiungimento di accordi, con l’eventuale esercizio di scioperi e simili?In terzo luogo si pone il problema dell’esaustività del criterio individuato dalla Corte per l’attribuzione dei diritti di cui al titolo III dello Statuto. Viene infatti da chiedersi se lo stesso criterio, ovvero l’effettiva attività contrattuale, sia onnicomprensivo, possa cioè applicarsi a ogni fattispecie di rapporti tra parte datoriale e lavoratori. La risposta è chiaramente negativa e nella sentenza 231 la Corte stessa lo ammette, relativamente ai casi di “mancanza di un contratto collettivo applicato nell’unità produttiva per carenza di attività negoziale o per impossibilità di pervenire a un accordo aziendale”. Proprio questo è il senso del monito presente nella sentenza stessa, con cui la Consulta invita il legislatore a dettare criteri selettivi della rappresentatività sindacale. Senza considerare che in una sana logica di contrattazione dovrebbe essere l’attività contrattuale a

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discendere dalla capacità rappresentativa e non viceversa.Se quindi il giudizio della Corte risolve il caso FIAT – FIOM nello specifico, altrettanto non può dirsi dei problemi relativi alla disciplina della rappresentanza sindacale in azienda. Questo è d’altronde un ulteriore profilo di criticità della sentenza, che dovrebbe avere un carattere di generalità e astrattezza e risolvere eventuali aporie del diritto in un ottica differente da quella del caso in questione. Pare invece che in questo caso la Corte, forse spinta dall’impatto sociale della questione, abbia ancorato la sua pronuncia al fatto concreto, operando quasi più da Cassazione che da Corte Costituzionale (secondo l’espressione dell’avvocato Di Rutigliano del collegio FIAT). Non è un caso che, per risolvere finalmente l’incoerenza della disciplina della RSA, all’indomani della sentenza siano già stati proposti disegni di legge, come il d.d.l. 993 presentato dal senatore Ichino e altri.Qual è quindi l’impatto innovativo, da molti esaltato, della sentenza 231/2013? A ben guardare esso risulta di difficile individuazione: forse la vera innovazione sarebbe stata una dichiarazione di incostituzionalità totale dell’articolo 19, in modo da obbligare l’intervento legislativo sull’assetto di una materia fondamentale che l’evoluzione dei rapporti sociali dimostra ormai obsoleto.

ERRATA CORRIGE: la costituzione di Fabbrica Italia Pomigliano non è oggetto dell’accordo 15 giugno 2010, ma è conseguenza del consenso non plebiscitario ottenuto dallo stesso.