causalità e omissione

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CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA Nona Commissione – Tirocinio e Formazione Professionale Incontro di studio sul tema: “Reati omissivi e posizioni di garanzia” Roma, 10-12 luglio 2003 L’accertamento della colpevolezza nell’omissione - adempimento del dovere e presupposti della “possibilità di agire” - la fonte delle regole precauzionali - obblighi di adozione di misure cautelari, di preventiva informazione e di controllo sull’operato altrui - diagnosi tardive, errore diagnostico e omissione di cure - obbligo di attivarsi del medico e rispetto della volontà del paziente dr. Andrea MONTAGNI Giudice presso il Tribunale di Forlì

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La causalità nei reati omissivi

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CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA Nona Commissione – Tirocinio e Formazione Professionale

Incontro di studio sul tema:

“Reati omissivi e posizioni di garanzia”

Roma, 10-12 luglio 2003

L’accertamento della colpevolezza nell’omissione - adempimento del dovere e presupposti della “possibilità di

agire” - la fonte delle regole precauzionali - obblighi di adozione di misure cautelari, di preventiva

informazione e di controllo sull’operato altrui - diagnosi tardive, errore diagnostico e omissione di cure - obbligo di attivarsi del medico e rispetto della volontà del

paziente

dr. Andrea MONTAGNI

Giudice presso il Tribunale di Forlì

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SOMMARIO: 1. Riflessioni introduttive. - 2. Il superamento del paradigma del reato commissivo doloso. - 2.1. Nesso causale e reato colposo (cenni). - 3. La nozione di omissione.- 3.1. Bipartizione dei reati omissivi in propri ed impropri. - 4.Tipicità del reato omissivo improprio. - 5. Gli elementi costitutivi della fattispecie omissiva impropria: la situazione tipica.- 5.1. La condotta omissiva. - 5.2 La posizione di garanzia. - 6. Anfibologia della norma cautelare. - 7. Regole statistiche nella c.d. causalità della colpa. - 8. L’ambito omissivo della colpa. - 9. Il principio di affidamento. - 10. Il consenso all’attività medica. - 11. Conclusioni.

1. Riflessioni introduttive La riflessione prende avvio dal trattamento giudiziario dei casi di esposizione a rischio. In particolare, ci si sofferma sull’attività medico-chirurgica: l’arte medica è costitutivamente legata all’incertezza ed al rischio, ed il ragionamento clinico è sempre un ragionamento incerto. Sussistono limiti fisiologici della medicina biologica, la quale offre le basi della conoscenza impiegate dalla medicina legale. Offrire tutela alle vittime della esposizione ai rischi tecnologici: questo è il compito dei giuristi, la giustificazione vera delle scienze giuridiche è dare una risposta alle vittime. Il dato caratterizzante delle democrazie occidentali è la tutela dei diritti: recte, il sistema di tutela dei diritti. Si registra una crisi della civilizzazione tecnica e della civilizzazione giuridica. E nei casi in cui il problema tecnico sia di difficile soluzione il Diritto Civile ed il Diritto Amministrativo passano il cerino al Diritto Penale. Sull’impiego del diritto penale per fronteggiare i rischi da ignoto tecnologico, si rimanda ai rilievi espressi in dottrina recentemente da Stortoni, circa la (im)possibilità che l’intervento penale sia effettivo, rispetto alla tutela dei singoli nell’ambito dei pericoli della tecnologia1.

1 STORTONI, Angoscia tecnologica ed esorcismo penale, in Il Rischio da ignoto tecnologico, AA.VV., Giuffrè, 2002, 85,ss.

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Dai primi anni novanta, invero, si assiste ad massiccio ricorso delle vittime al giudice penale, in particolare per i casi di esito infausto di attività medica. L’analisi sistematica delle decisioni sul punto2 evidenzia l’avvenuta creazione giurisprudenziale di un vero e proprio sottosistema relativo alla responsabilita’ penale del medico, ove vengono impiegati specifici criteri nell’accertamento del nesso causale. Si osserva una nozione evanescente e debole di nesso causale, ove l’individuazione della connessione tra condotta colposa ed evento viene fatta discendere dalla posizione di garanzia in cui versa il medico. Il giudice penale sembra fare ricorso, senza enunciazione espressa, alla teorica dell’aumento dei rischio, della perdita di chance. Ed infatti individua criteri di giudizio eccezionali e di dubbia costituzionalità: in dubio contra reum. Per inquadrare i riflessi di tale orientamento, rispetto alla ortodossia costituzionale del sistema giudiziario nel suo complesso, sembra utile rimandare ad una pagina mirabile di Calamandrei3. Di fronte ad un impiccato, condannato a morte ingiustamente, ci si chiede chi sia responsabile di aver assassinato un innocente: il legislatore, che ha individuato una norma generale ed astratta, o il giudice che ha individuato la fattispecie concreta ? Osserva l’autore: “Il legislatore ed il giudice, l’uno e l’altro trovano il mezzo per salvarsi l’anima col pretesto del sillogismo. Il legislatore dice: io non ho colpa di quella morte, io posso dormire tranquillo: la sentenza è un sillogismo, del quale io ho costruito soltanto la premessa maggiore, una innocua formula ipotetica, generale ed astratta, che minacciava tutti, ma non colpiva nessuno. Chi l’ha assassinato è stato il giudice, perché è lui che dalle premesse innocue ha tratto la conclusione micidiale, la lex specialis che ha ordinato l’uccisione di quell’innocente. Ma il giudice dice a sua volta: io non ho colpa di quella morte, io posso dormire tranquillo: la sentenza è un sillogismo, dal quale io non ho fatto altro che estrarre la conclusione dalla premessa imposta dal legislatore…così legislatore e giudice si rimandano la responsabilità; e possono dormire l’uno e l’altro sonni tranquilli, mentre l’innocente dondola dalla forca”. Conclude

2. Tra le decisioni di merito che affrontano il tema causale, si segnala: Pret. Pordenone 7.7.92, Virga, in FI, 1992, II, 720; Pret. Torino 9.2.95, Barbotto Beraud, in FI, 1996, I, 122; App. Milano 28.1.80, in RIDPP, 1983, 1560; App. Perugia 9.11.84, in FI, 1988, II, 125; Trib. Ravenna 23.7.90, in CP, 1992, 1619; e, tra le pronunce del giudice di legittimità: Cass. 20.6.66, De Caprio, CP, 1967, 500; Cass. 6.12.90, in FI, 1992, II, 36; Cass. 12.7.91 n. 1957, Silvestri, FI, 1992, II, 363; Cass. 13.5.92, Massimo, in Riv. it. med. leg., 1993, 460; Cass. 27.5.1993, Rech, CP, 1995, 2899; Cass. 1.10.98, in RP, 1999, 270; Cass. 1.9.98, in CP, 2000, 1187; Cass. 8.1.99 n. 1957, in RP, 1999, 271; Cass. 11.1.99 n. 7151, DVD Juris Data, 2000; Cass. 2.7.99, in FI, 2000, II, 268; Cass. 5.10.99, in FI 2000, II, 266; Cass. 28.9.00 n. 1688, in RIDPP, 2001, 277; Cass. 28.11.00 n. 2123, in RIDPP, 2001, 289; Cass. 29.11.00 n. 2139, in RIDPP, 2001, 286; Cass. S.U. 11.9.02, n. 30328, in Guida al Diritto, 2002, n. 38, 62; Cass. 15.11.2002, n. 38334, in Guida al Diritto, 2003, 6, 67. 3 CALAMANDREI, Processo e democrazia, Padova, 1954, p. 60 e ss.,

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Calamandrei: “Questa non può essere la giustizia di una democrazia; questo non può essere il giudice degno della città degli uomini liberi”4. Merita ancora un richiamo l’art. 27 COST. : il principio della personalità della responsabilità penale, oltre a bandire le ipotesi di responsabilità penale per fatto altrui e a richiedere un coefficiente psichico tra autore e fatto, enuncia anche una regola di giudizio: si può condannare solo se si supera il ragionevole dubbio (arg. ex CASS. SU 11.9.2002 n., 30328). L’opposto orientamento che qui si critica fa leva sulla natura e sulla particolare rilevanza degli interesse protetti. Peraltro, sembra imprescindibile che il giudice utilizzi istituti normativamente e tassativamente individuati (quali il nesso causale o la colpa), di talchè non è dato all’interprete diversificare la nozione di causalità giuridica, a seconda degli interessi sostanziali protetti dalla norma incriminatrice. Il diritto civile prescinde da tali assunti (non sussiste un sistema costituzionale sul punto); ben può configurarsi, quindi, una responsabilità civile <da contatto>, <per aumento del rischio>, <di posizione>, addirittura anche per il caso in cui non si accerti l’identità del medico che ebbe, in concreto, a prendere in cura il paziente . Nel diritto civile trovano applicazione diversi i criteri di imputazione della responsabilità. Un esempio suggestivo: O.J. Simpson è stato assolto dalla imputazione di omicidio (per il ragionevole dubbio dato dal voto dissenziente di un giurato) e condannato al risarcimento dei danni alle vittime… L’analisi del reato omissivo colposo conduce inevitabilmente ad analizzare le categorie giudiziali dell’accertamento e della valutazione della prova. L’approdo dello studio del nesso causale è lo studio dei criteri di giudizio (CASS. SU, cit.); l’arte del giudicare; il libero convincimento, che deve rispondere ai criteri dell’art. 192 comma 2; l’art. 546, comma 1, lett. e), c.p.p., ed il dovere di falsificare le ipotesi alternative. DIRITTO PENALE DELL’EVENTO, DELLA CAUSALITA’, DEL DANNO. Questo è lo schema delle democrazie occidentali. Il diritto penale del pericolo è di dubbia legittimazione. Nel processo penale occorre accertare una causalità ed una colpa individuale. Occorre rilevare che il Progetto Grosso di riforma al codice penale (Commissione istituita con D.M. 1.10.1998) da un lato appare

4 CALAMANDREI, op. cit., 63.

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estremamente garantista, dedicando disposizioni specifiche dell’articolato al nesso causale omissivo, alle posizioni di garanzia ed in particolare alla attività terapeutica, compie un serio sforzo definitorio, e per tale ragione ha conosciuto una inedita applicazione giurisprudenziale, in epoca anteriore alla sua entrata in vigore. Dall’altro, secondo quanto si legge nella parte della relazione dedicata al reato omissivo ed alle posizioni di garanzia, il legislatore ipotizza la necessità, nell’ambito dei doveri legali conseguenti alla presa in carico da parte di un medico di un paziente, di definire <<condizioni di rilevanza penale che possono anche prescindere da concrete conseguenze lesive, attestandosi sulla configurazioni di fattispecie di mera condotta (omissiva)>>. Come si vede, lo stesso progetto Grosso, letto nella sua interezza, per offrire una tutela penale ai soggetti garantiti, rispetto alle situazioni di rischio ingenerantesi nell’ambito della attività medica, incrimina il comportamento del sanitario, indipendentemente da ogni rilievo delle conseguenze della condotta. E al riguardo la dottrina penalistica come noto da tempo mette in guardia circa il difetto di legittimazione costituzionale del diritto penale di mera condotta (Stella). Nelle aule giudiziarie sovente la responsabilità medica viene ipotizzata in termini omissivi; e ciò, non tanto perché il medico abbia realmente omesso qualcosa, sibbene perché si confonde la componente omissiva dell’inosservanza alle regole cautelari (attinente ai profili di colpa del garante), rispetto all’ambito delle spiegazione dell’imputazione causale. Nel reato omissivo sovente la norma cautelare individua anche la fattispecie obbligante, generandosi un rapporto di interferenza tra il piano oggettivo del reato omissivo e la osservanza della norma cautelare sotto il profilo colposo, della attribuibilità colposa della trasgressione all’autore. Nel reato omissivo colposo occorre applicare un criterio causale non dissimile da quello del reato commissivo (individuazione di una nozione unitaria di CONDOTTA, declinata in ATTIVA ED OMISSIVA, a cui corrisponde una nozione unitaria di causalità). Nel reato omissivo si riferisce un evento al nihil facere. Specificità della causalità omissiva, normativa, ipotetica. Bandire il post hoc, propter hoc. Del pari, anche nell’accertamento della colpevolezza si attinge al giudizio probabilistico, giudizio che si compie ex ante, collocandosi idealmente nel momento in cui veniva posta in essere la condotta (attiva od omissiva); al contrario, nella valutazione del nesso causale occorre procedere ad una valutazione ex post, ricostruendo i nessi dinamici della fattispecie a posteriori, dopo la (e sulla base della) verificazione dell’evento. Il giudice deve governare le leggi extragiuridiche che entrano nel processo, nel giudizio controfattuale ed anche nel giudizio sulla ascrivibilità colposa della condotta .

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LA MERA PROBABILITA’ STASTICA deve essere contestualizzata rispetto alla complessiva evidenza probatoria. La valutazione giudiziale del nesso di riferibilità materiale, secondo l’incedere induttivo del ragionamento probatorio, deve portare a ritenere, con elevata probabilità logica che il singolo evento verificatosi è la CONCRETIZZAZIONE pratica della legge di copertura. Il giudice deve spiegare perché ha raggiunto tale certezza probatoria, secondo i criteri di elevata probabilità logica. Occorre sempre contestualizzare il dato statistico (non utilizzando meccanicisticamente le percentuali statistiche), anche per la valutazione di prevedibilità dell’evento. Si pensi alla suora illibata, violentata da un tossicodipendente, la quale si scopre affetta da HIV; il dato statistico - indice relativo alla frequenza di accadimento di determinati eventi - stima in tre possibilità su cento la trasmissione di malattie per via sessuale, con un solo rapporto; ciò non di meno, nel caso della suora illibata, corrisponde a criteri di alta probabilità logica, alto grado di credibilità razionale, ritenere che la trasmissione dell’infezione HIV possa dipendere da quell’unico rapporto sessuale. Il giudice deve dimostrare che il caso di giudizio rientra in un modulo fenomenologico, ripetibile, osservabile; e che l’evento è la concretizzazione del rischio che la norma cautelare intendeva scongiurare”5. Non si tratta di una spiegazione scientifica in senso proprio,

5 Tra i molteplici contributi dottrinari sul tema, si segnalano: v. BURI M., Uber Causalitat und deren Verantwortung, Leipizig, 1873; ENGISH K., Die Kausalitat als Merkmal der strafrechtlichen, Tatbestande, Tubingen, 1931; ANTOLISEI F., Il rapporto di causalità nel diritto penale, Cedam, Padova, 1934; SINISCALCO M., Causalità, in Enc. Dir., 1960, 639; BRICOLA F., La discrezionalità nel diritto penale, Giuffrè, Milano, 1965; POPPER K., Logica della scoperta scientifica, Torino, 1970; CARNAP R., I fondamenti filosofici della fisica, Milano, 1971; SGUBBI F., Responsabilità penale per omesso impedimento dell’evento, Cedam, Padova, 1975; AMSTERDAMSKY S., Causa/effetto, in Enciclopedia Einaudi, II, 823; PALIERO C.E., Le fattispecie “casualmente orientate” sono davvero “a forma libera” (Tipicità e accertamento nel nesso di causalità), in RIDPP, 1977, 1499; Id., La causalità dell’omissione: formule concettuali e paradigmi prasseologici, in Riv. it. med. leg., 1992, 821; HEMPEL C.G., Aspetti della spiegazione scientifica, Il Saggiatore, 1986; STELLA F., Leggi scientifiche e spiegazione causale in diritto penale, Giuffrè, Milano, 1975; Id., La nozione penalmente rilevante di causa: la condizione necessaria, in RIDPP, 1988, 1217; Id., Rapporto di causalità, in Enc. Giur. Treccani, XXV; Id., Giustizia e modernità. La protezione dell’innocente e la tutela delle vittime, Giuffrè, Milano, 2001; Id., Etica e razionalità del processo penale nella recente sentenza sulla causalità delle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, in RIDPP, 2003; CASTALDO A.R., L’imputazione oggettiva nel delitto colposo di evento, Jovene, Napoli, 1989; DONINI M., Lettura sistematica delle teorie della imputazione oggettiva dell’evento, in RIDPP, 1989, 588; Id., Illecito e colpevolezza nell’imputazione del reato, Giuffrè, Milano, 1991; Id., La causalità omissiva e l’imputazione per l’aumento del rischio. Significato teorico e pratico delle tendenze attuali in tema di accertamenti eziologici probabilistici e decorsi causali ipotetici, in RIDPP, 1999, 32; FORTI G., Colpa ed evento nel diritto penale, Giuffrè, Milano, 1990; ROMANO M., Commentario Sistematico del codice penale, Milano, I, 316; PIZZI C., Eventi e cause. Una prospettiva condizionalistica, Giuffrè, Milano, 1977; MANTOVANI F., Diritto Penale, Cedam, Padova, 1988; MARINUCCI G., Non c’è dolo senza colpa. Morte della “imputazione oggettiva dell’evento” e trasfigurazione nella colpevolezza ?, in RIDPP, 1991, 3; FIANDACA G., Causalità (rapporto di), in Dig. Disc. Pen., 1988, II, 119; FIANDACA G.-MUSCO E., Diritto Penale, parte generale, Zanichelli, Bologna, 1995; PARODI C.- NIZZA V., La responsabilità penale del personale medico e paramedico, in Giur. sist. di dir. pen., 1996, a cura di Bricola-Zagrebelsky, 165; GUARINIELLO R., I rischi lavorativi da rumore, amianto, piombo, nella

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ma di una spiegazione razionale del fenomeno, secondo stilemi di tranquillante ripetitività: noi crediamo che il sole sorgerà domani perché è sorto ieri, non perché conosciamo il sistema solare e sappiamo che la terra ruota intorno al proprio asse. La clausola di equivalenza (art. 40, cpv., c.p.) assume una specifica valenza normativa, nella stessa individuazione di fattispecie omissive: si registra un deficit di tassatività, di cui (opportunamente) si fa carico il Progetto Grosso. L’omissione come sistema sanzionatorio specifico a carico del garante (es.: fratello maggiore, incaricato dai genitori di sorvegliare il minore, al quale i genitori imputeranno ogni evento lesivo che occorra al garantito). Occorre che il giudice governi le leggi statistiche ed i saperi extragiuridici che entrano nel processo. I processi per colpa si risolvono nei processi alla classe dirigente di un paese. Si tratta di un controllo di legalità che implica la soluzione di delicati passaggi tecnici:

- valutazione complessiva del fatto, rispetto ad un evento non voluto; - analisi del nesso di derivazione tra condotta omissiva ed evento

verificatosi; - valutazione della condotta colposa e della incidenza della stessa

sull’evento: c.d. nesso di rischio, che si valuta attraverso l’utilità del comportamento alternativo lecito;

- impiego dei canoni di giudizio stabiliti dal codice di rito, senza ricorrere ad criteri extrasistemici.

Parallelamente al moltiplicarsi di indagini penali per il caso di esito infausto dell’attività medico chirurgica, si osserva come le ASL stiano affidandosi alle competenze dell’Ufficio di Qualità. Si tratta di centrali normative, di uffici di normazione secondaria, dediti alla stesura delle linee guida e protocolli di attività, per il medico operante. La tendenza è quella di disciplinare in dettaglio sia l’attività diagnostica che l’attività terapeutica, in modo da ottenere un duplice risultato:

- scolpire le regole professionali esigibili per il tipo di attività (di modo che ogni condotta non osservante risulta perciò negligente);

giurisprudenza della Corte di Cassazione, in FI, 1996, II, 542; LICCI G., Teorie causali e rapporto di imputazione, Jovene, Napoli, 1996; TRAMONTANO L., Causalità attiva o omissiva, ed obblighi divisi e congiunti di garanzia: tre sentenze di merito a confronto, in FI, 1997, II, 417; CRESPI A. - STELLA F. - ZUCCALA’ G., Commentario breve al codice penale, Cedam, Padova, 1999; BLAIOTTA R., Causalità e colpa nella professione medica tra probabilità e certezza, in CP, 2000, 1188; VALLINI A., Nota a Cass. 18.1.2000, in Dir. pen e processo, 2000, 1629; CENTONZE F., Causalità attiva e causalità omissiva: tre rivoluzionarie sentenze della giurisprudenza di legittimità, in RIDPP, 2001, 289; MONTAGNI A., La responsabilità penale per omissione. Il nesso causale, Cedam, Padova, 2002.

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- burocratizzare ogni tipo di intervento, in modo che sia agevolmente ricostruibile a posteriori la specifica attività svolta, indipendentemente dalle dichiarazioni del curante, che può assumere la veste di indagato; in tal modo, sarà sempre verificabile il tipo di attività svolta (ad es.: il medico di pronto soccorso è chiamato a compilare una scheda dettagliata, contenente indicazioni sulle modalità della prima visita del paziente, sull’indagine anamnestica svolta ed altro, così da rendere obiettivamente verificabile la diligenza dell’intervento di urgenza compiuto).

2. Il superamento del paradigma del reato commissivo doloso. Come in dottrina si viene da tempo e da più parti osservando, il

modello di riferimento che ha guidato lo studio del nesso causale sino agli anni settanta si esaurisce nel delitto doloso di evento e, segnatamente, nell’omicidio a dolo diretto.

La giurisprudenza sembra aver preso consapevolezza di ciò e con frequenza crescente si rinvengono motivazioni che affrontano partitamente il fenomeno causale nel reato omissivo e, segnatamente nel reato omissivo colposo.

Dalla lettura di talune decisioni emerge lucidamente la ricostruzione analitica degli elementi costitutivi della fattispecie, quali il nesso eziologico, per il caso di reato omissivo e colposo , ipotesi ove la nozione di nesso causale viene declinata in termini ipotetici e congiuntamente a figure di recente elaborazione dogmatica, nelle quali il soggetto versa in posizione di garanzia rispetto a determinati interessi sostanziali.

Tra le decisioni di merito si segnala la articolata motivazione in iure del Pretore di Torino, ove il giudice affronta specificamente la relazione causale nell’ambito delle fattispecie omissive:

<9.- La Causalità omissiva. Nella fattispecie concreta in esame si

ascrive agli imputati la responsabilità per morte di Terlingo per aver omesso una serie di misure preventive.

Quindi occorre portare l’attenzione in particolare sulla struttura della causalità omissiva che si articola in quattro momenti: la sussistenza di un obbligo giuridico di agire, la violazione di tale obbligo (che rende la condotta comunque illecita), la verificazione di un evento, il rapporto causale tra l’omissione e l’evento. Su quest’ultimo momento il legislatore ha imposto l’equivalenza fra l’omissione non impeditiva (in violazione di un obbligo giuridico di attivarsi) e l’azione causale (art. 40, 2° comma, c.p.).

Per comprendere la ratio di tale equivalenza non basta affermare che l’omissione, in quanto non facere, essendo fisicamente inconsistente e insussistente, non si manifesta nel mondo esterno sotto forma di energia capace di sviluppare processi

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causali reali. Piuttosto occorre specificare che la causalità omissiva muove dalla necessità di assicurare una speciale tutela a determinati beni attraverso l’imposizione di obblighi giuridici a taluni soggetti, diversi dai titolari dei beni giuridici protetti. La posizione di garanzia ricoperta dal destinatario dell’obbligo giuridico caratterizza non soltanto genericamente la struttura del reato omissivo, ma caratterizza più specificamente la causalità omissiva costituendone il prius logico. Soltanto delineando il comportamento dovuto è possibile tracciare un collegamento eziologico con l’evento verificatosi attraverso un giudizio ipotetico e prognostico su come l’eventuale compimento dell’azione doverosa avrebbe influenzato il corso degli accadimenti, impedendo l’evento a sua volta direttamente cagionato dall’accadimento naturale o dall’azione di un terzo. In definitiva, il giudice penale nel campo della causalità omissiva deve porre mentalmente due condizioni entrambe false, rectius ipotetiche: prima deve supporre un fatto che non si è verificato, dopo deve supporre le conseguenze che ci sarebbero state (ma che non ci sono state) se tale fatto si fosse realizzato>

(Pret. Torino 9.2.95, Barbotto Beraud, FI, 1996, I, 122). Invero il modello del reato commissivo doloso risulta inadeguato

sotto un duplice ordine di considerazioni. Da un lato, come si vedrà nel proseguo della ricerca, la stessa

struttura formale del reato omissivo improprio, non consente l’automatica trasposizione delle teorie causali elaborate nell’ambito del reato commissivo. I peculiari profili delle fattispecie omissive evidenziano, infatti, l’inadeguatezza dei modelli di imputazione causale a base naturalistica elaborati nei reati di evento.

Dall’altro, si viene affermando un orientamento dottrinario che coglie la rilevanza della connotazione psicologica del reato anche con riguardo all’elemento materiale della fattispecie. Secondo tale teorica, la qualificazione dolosa ovvero colposa del nesso psicologico incide sui termini obiettivi della fattispecie. Si ritiene cioè che il dolo e la colpa, oltre a connotare il nesso psichico, assumano autonomo rilievo nell’ambito della tipicità del reato, connotando anche i profili obiettivi della condotta.

<Si assume che, poichè nel nostro sistema penale coesistono elementi

soggettivi accanto a quelli oggettivi all’interno della tipicità (c.d. doppia funzione del dolo e della colpa), di tali elementi soggettivi non si può disconoscere l’esistenza in sede di accertamento della causalità.

Sarebbe dunque legittimo, ne non necessario, svolgere un’indagine su tali elementi che incidono sulla valutazione dell’azione dolosa e colposa, ma che vengono assunti, ai fini dell’accertamento causale, spogliati da ogni valutazione concreta circa le condizioni e le capacità dell’agente.

Verrebbe così svolta un’indagine su elementi psichici <ripartita> sia al momento dell’accertamento del fatto di reato che al momento dell’accertamento dell’elemento psicologico>

(Magro 1991, 350). Così argomentando

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<Si ammette dunque pienamente l’esigenza di una ulteriore indagine con funzione correttivi e delimitativa, già in sede di imputazione oggettiva, e dunque prima del terreno del dolo e della colpa, ma si giungerebbe persino ad ammettere che valutazioni di tipo soggettivo possano, già in sede di accertamento del fatto tipico, incidere nel giudizio di responsabilità penale>

(Magro 1991, 350). anche se si esclude che conseguenza logica dell’accettazione della doppia funzione svolta dagli

elementi del dolo e della colpa a livello di tipicità e di colpevolezza, sia quella di consentire che vengano incluse, nel giudizio di imputazione dell’evento, valutazioni di tipo soggettivo>

(Magro 1991, 350). 2.1. Nesso causale e reato colposo (cenni). Con particolare riguardo al rapporto intercorrente tra nesso causale e

colpevolezza viene consolidandosi nella dottrina che ha specificamente affrontato la questione, il seguente assunto: nei reati colposi la sussistenza delle condizioni di derivazione, proprie dei reati dolosi, tra condotta ed evento, è condizione necessaria ma non sufficiente per l’accertamento del nesso di condizionamento. Oltre a tale relazione, nel reato colposo, si deve verificare una ulteriore condizione obiettiva: l’evento che si è prodotto deve essere non solo l’effetto della condotta, ma esattamente quell’effetto che la norma cautelare violata intendeva prevenire.

Il soggetto agente si qualifica come autore dell’evento solo se quest’ultimo sia esattamente quello previsto dalle norme di cautela che lo stesso agente ha colposamente violato.

Si richiamano al riguardo le incisive notazioni di un autore: <Nell’ambito dei reati colposi, la ricostruzione del rapporto di causalità si

effettua sempre alla stregua della teoria condizionalistica orientata secondo il modello della sussunzione sotto leggi scientifiche. L’attribuzione dell’evento lesivo al soggetto presuppone tuttavia un quid pluris rispetto all’esistenza del nesso causale strettamente inteso: l’evento deve cioè rappresentare la conseguenza non tanto della semplice azione materiale, quanto di un’azione connotata dalla specifica caratteristica di contravvenire al dovere oggettivo di diligenza. Riproponendo una formula ormai abbastanza diffusa, lo stesso concetto lo si può esprimere nel modo seguente: l’evento deve apparire come una concretizzazione del rischio, che la norma violata tendeva a prevenire>

(Fiandaca 1988, 127). In tali termini la nozione di nesso causale dei reati colposi si

caratterizza obiettivamente: il nesso causale è una nozione appartenente all’elemento materiale del reato, ma che si declina specificamene a seconda che si versi in ipotesi dolose ovvero colpose.

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<Proprio la necessità di dimostrare che l’evento costituisce una conseguenza delle caratteristiche <antigiuridiche> della condotta colposa, può rendere più complesso l’accertamento del nesso causale e ciò sino al punto di indurre il giudice a scindere l’accertamento stesso in due fasi. In un primo momento, si tratta di stabilire se l’azione ha materialmente cagionato l’evento: ma la risposta positiva a questo interrogativo può di per sè - specialmente in determinati casi - lasciare insoluto il problema se sussista uno specifico <legame colposo> tra condotta ed evento. Ecco che, per accertare il ricercato rechtswidrigkeitszusammenang, sembra allora necessario procedere ad una ulteriore verifica: cioè occorre rispondere all’interrogativo, se l’osservanza della condotta conforme al dovere di diligenza sarebbe valsa ad impedire l’evento. In questa seconda fase dell’accertamento, il giudice finisce dunque con l’emettere un giudizio di tipo ipotetico, analogo a quello che si effettua nella responsabilità omissiva>

(Fiandaca 1988, 128). Detti rilievi appaiono perfettamente compatibili con i dettami del

diritto penale costituzionale sopra ricordati ed in particolare con il principio della personalità della responsabilità penale. Il fatto che nei reati colposi l’evento risulti non voluto implica, infatti, che il nesso causale esca dal fuoco della volontà. Conseguentemente appare conforme ai principi che l’ordinamento richieda, per la sussistenza di un nesso causale non previsto e non voluto dal soggetto in ragione della natura colposa del comportamento (qualificato proprio dalla non volontarietà del fatto tipico), e, in ultima analisi, per l’affermativa di responsabilità penale, che sussistano peculiari elementi obiettivi che ne delimitino l’ambito di operatività.

Si osserva che la Suprema Corte espressamente ha richiamato il comportamento conforme al dovere di diligenza, nella verifica di sussistenza della derivazione causale ipotetica tra evento ed azione pretermessa (Cass. 13.4.59, Saur, GP, 1959, II, 1171; Cass. 6.4.72, Romagnoli, CP, 1973, 1201).

3. La nozione di omissione.

Come sopra visto, il tema del nesso causale richiama riflessioni su ambiti extragiuridici, della filosofia e della metascienza; altrettanto accade in merito alla individuazione del fondamento ontologico del reato omissivo, in considerazione della sfuggente componente naturalistica della omissione <pura>. L‘incrocio tra i due piani concettuali offre la dimensione problematica della presente ricerca: quale valenza causale può assumere una nozione priva di evidenza naturalistica ? Il sintagma ex nihilo nihil fit ben riassume i dubbi espressi dalla dottrina sulla valenza causale della omissione. Peraltro, si è venuta consolidando una ricostruzione dogmatica del reato omissivo che, preso atto della assenza di alcuna azione umana, qualifica normativamente tale inerzia. Si è così fatta strada la nozione 11

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normativa dell’omissione, specificata ora come <azione attesa>, ora come non facere quod debetur ; in tale ricostruzione l’omissione costituisce un dato che può essere <pensato solo sotto logica presupposizione di una norma> (Engish 1954, 127). Invero, anche tale teorica non sembra spiegare compitamente il fenomeno omissivo. Un insigne autore chiarisce così la componente naturalistica dell’omissione: <E’ senza fondamento il timore che, accogliendo questa concezione [normativa], si finisca col dover negare, come hanno fatto alcuni scrittori nordici e in Italia il Vannini, la realtà dell’omissione, riducendo questa ad un semplice giudizio della mente umana. Per giungere ad una simile conclusione bisognerebbe partire dall’idea alquanto grossolana che nel mondo non ci sia nulla oltre la realtà materiale, sensibile e tangibile. Anche senza ricorrere a concezioni filosofiche, a noi basta il richiamo al comune modo di pensare, quale, del resto, è sempre alla base delle norme giuridiche. Ora, v’è forse una persona che, giudicando alla stregua del buon senso, dubiti che sia un fatto, una realtà, ad es., il comportamento di una madre che lascia morire di fame il suo bambino ? > (Antolisei 1982, 189). L’esempio antoliseiano coglie un profilo sul quale la speculazione dottrinaria ha ampiamente dibattuto. Le più recenti ed accreditate teorie hanno, infatti, elaborato una nozione unitaria di condotta, la quale ricomprende in sè sia l’azione che l’omissione. L’omissione, cioè, non viene altrimenti vista isolatamente come <assenza> di azione antropomorfica. In tale ambito ricostruttivo l’accento viene posto sui termini del processo causale complessivo in cui l’omissione si inscrive: il dominio umano delle forze naturalistiche fa sì che anche semplicemente omettendo si possa incidere nelle modificazioni del mondo esterno. Pertanto, anche una condizione statica, e non dinamica, come il <non fare>, può costituire una condizione contingentemente necessaria dell’evento. La giurisprudenza ha recepito ormai da venti anni una nozione unitaria del genus condotta di cui l’azione e l’omissione costituiscono altrettante species. La lettura delle motivazioni sembra evidenziare peraltro un recepimento di tale teoria, quale necessario passaggio argomentativo nello sviluppo della ratio decidendi per dar conto della sussistenza di un nesso di condizionamento tra inerzia ed evento. La Corte regolatrice, nel 1983, così argomentava nel ritenere sussistente il nesso causale tra l’inerzia dei sanitari che non avevano

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tempestivamente proceduto ad intervento chirurgico e la morte del paziente: <Ben può affermarsi, pertanto, che sussiste sempre il nesso di causalità tra la condotta imperita, negligente ed imprudente del sanitario, che non abbia disposto cautele ed accertamenti che avrebbero portato ad un sollecito intervento chirurgico su un infortunato e l’evento mortale che ne è seguito, quando tale intervento, anche se non avrebbe salvato con certezza il ferito, aveva buone probabilità di raggiungere tale scopo> (Cass. 7.1.1983, Melis, FI, 1986, 355). Come si vede i giudici indicano con il termine condotta l’inerzia del sanitario che aveva visitato un paziente infortunato e non disposto alcun accertamento diagnostico, limitandosi a suturare la profonda ferita da taglio presente in zona toracica. Giova, peraltro, ricordare il caso clinico censito nella richiamata decisione: l’infortunato, passate alcune ore dall’intervento del primo medico, accusando gravi sintomi, si recò presso altro centro sanitario; ivi venne ricoverato di urgenza ed inutilmente sottoposto ad intervento chirurgico che evidenziava la ritenzione in cavità addominale di corpo estraneo (grosso frammento di vetro). Il ferimento si era verificato quando il paziente aveva sfondato, con il proprio peso, il vetro di una serra. Mette conto rilevare che il riconoscimento giudiziale di un nesso causale tra condotta omissiva ed evento avviene nell’ambito della c.d. colpa medica, fattispecie ove <entra in gioco> il destino della vita umana. L’evenienza ha una non secondaria incidenza nel recepimento della nozione di condotta omissiva e, quindi, nella affermazione della valenza causale della stessa. La funzione teleologica del giudizio penale permea anche i passaggi tecnici del legal reasoning.

3.1. Bipartizione dei reati omissivi in propri ed impropri. Appurato, dunque, che il reato omissivo va esplorato

distintamente dal reato commissivo, resta da vedere se, all’interno dell’omissione, abbia senso operare altre biforcazioni dogmatiche di qualche utilità.

Le categorie <reato omissivo proprio> e <reato omissivo improprio> si sono rivelate di congrua importanza, come ad oggi unanimemente ritenuto.

Molteplici, peraltro, sono i criteri individuati dalla dottrina per discernere le due categorie di reati omissivi. Questa la tipologia:

<a) Il primo criterio - anche storicamente, come si è visto - è quello per

cui i reati omissivi propri sono reati puramente formali, descritti dalla norma senza la previsione di alcun evento come conseguenza della condotta; mentre i reati omissivi

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impropri sono quei reati che, pur commissibili attraverso una condotta omissiva, contengono un evento nella descrizione normativa: lo denomineremo <criterio dell’evento>.

b) Il secondo criterio - storicamente tutt’uno con quello <dell’evento> - è

quello per cui i reati omissivi propri sono infrazioni ad una norma di comando; mentre i reati omissivi impropri sono infrazioni ad una norma di divieto (o per alcuni anche ad una norma di divieto): lo chiameremo <criterio normologico>.

c) Stando al terzo criterio, i reati omissivi propri sono quelli che possono

essere commessi solo attraverso una omissione; mentre i reati omissivi improprio sono quelli che possono essere commessi sia attraverso una omissione che attraverso una azione.

d) Per il quarto criterio, i reati omissivi proprio sono descritti

espressamente dalla legge penale come commissibili per omissione; mentre i reati omissivi impropri sono quelli non descritti direttamente come omissivi, ma bensì come attivi, e però sono commissibili anche per omissione attraverso una clausola generale eventualmente codificata (si tratta del criterio attribuito ad Armin Kaufmann).

e) Un quinto criterio è quello appellabile come <criterio del garante>. In

base ad esso, i reati omissivi propri sono quelli a cui non si applica la dottrina del garante; mentre i reati omissivi impropri sono quelli a cui tale dottrina si applica.

f) Un ultimo criterio va preso espressamente in considerazione: quello

proposto da Androulakis, denominabile <criterio ontologico>. In applicazione di esso, occorre guardare alla natura delle condotta omissiva. Ove essa, in concreto, sia paragonabile ad una condotta attiva corrispondente, ci si trova di fronte ad un reato omissivo improprio; viceversa, nel caso in cui la Lassung non sia paragonabile ad una handlung [azione] corrispondente, si è in presenza di un reato omissivo proprio>

(Cadoppi 1984, 30). Il criterio discretivo seguito dalla giurisprudenza è quello

dell’evento fondato sulla considerazione che i reati commissivi mediante omissione determinano una modificazione nel mondo esterno, sono cioè quei reati che consistono nella violazione dell’obbligo di impedire il verificarsi di un evento tipico ai sensi di una fattispecie commissiva base (<delicta commissiva per omissionem>, o <per omissionem commissa>).

Paradigmatico, nell’analisi giurisprudenziale, l’ambito della attività medico-chirurgica. Si è, infatti, ritenuto che in tema di responsabilità professionale il medico anestesista il quale, per errori compiuti, prima o dopo l’intervento chirurgico, nella scelta del metodo di anestesia o delle iniziative atte a procurare il risveglio post-operatorio, venga a trovarsi in difficoltà e non sia in grado di dominare la crisi nella quale il paziente versi, ha obbligo di attivarsi, facendo intervenire altro anestesista e altri sanitari, ovvero disponendo il ricovero d’urgenza del paziente presso unità di rianimazione. Qualora ometta tale comportamento, tenendo, invece, condotta inerte ed inadeguata, sicchè il paziente venga a

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morte, di ciò ne risponde sia sotto il profilo della causazione diretta, sia in relazione all’inerzia, connotata dal referente normativo ex art. 40 cpv. c.p., essendogli addebitabile la verificazione di un evento che aveva l’obbligo di impedire (Cass. 23.1.89, n. 790, Servadio).

4.Tipicità del reato omissivo improprio. Il reato omissivo improprio è qualificato dal fatto che il mancato

compimento dell’azione doverosa determina la causazione dell’evento. La tipizzazione normativa della fattispecie omissiva nel nostro

ordinamento è data dal combinato disposto di due disposizioni codicistiche: la previsione, nella parte generale del codice penale, della c.d. clausola di equivalenza, la quale sancisce che non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo (art. 40, cpv., c.p.); e le diverse disposizioni di parte speciale che prevedono un reato di evento, la cui verificazione possa realizzarsi anche nella forma statica dell’omissione.

L’innesto tra le due disposizioni normative dà luogo ad un nuovo nome penale, in cui la cui parte precettiva risulta composta da una norma di comando - quella dettata dall’art. 40 cpv, c.p. - ed anche dalla norma di divieto contenuta nel reato di parte speciale convertito in illecito omissivo improprio.

Come si vede l’individuazione delle fattispecie omissive improprie è rimessa all’interprete è ciò ha determinato la dottrina ad osservare un punto di frizione tra la tecnica ora vista di tipizzazione del reato omissivo improprio ed il principio di legalità formale.

<De jure condendo: di fronte alle attuali inadeguatezze della disciplina del

reato omissivo improprio, le vie additate per una non agevole riforma legislativa sono: a) quella del miglioramento del sistema della clausola di parte generale, attraverso l’indicazione del tipo di fonti dell’obbligo di impedire e della limitazione di tale obbligo ai soli <obblighi di garanzia> (es.: nuovo codice brasiliano); con diminuzione facoltativa della pena (es.: codice tedesco, austriaco, brasiliano), giacchè in non pochi casi la colpevolezza del lasciar che la causa in atto segua il suo corso è minore di quella di porre in essere la causa; b) quella di prevedere nella parte speciale le singole fattispecie omissive improprie o, più fattibilmente, gruppi omogenei di doveri di garanzia per singole o per gruppi di fattispecie commissive, rilevandosi che alle eccepite lacune, inevitabili, di tutela di beni di particolare rilievo si può ovviare con apposite figure di reati omissivi propri (omissioni di soccorso qualificate, ecc.) e che la <frammentarietà> del diritto penale è, non di rado, il prezzo della legalità e certezza giuridica>

(Mantovani 1988, 196).

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Le attuali difficoltà di tipizzazione delle fattispecie omissive improprie, e le conseguenti violazioni dei canoni costituzionali di legalità e tipicità dell’illecito penale, risultano focalizzate nella Relazione della Commissione Ministeriale per la Riforma del Codice Penale istituita con D.M. 1.10.98.

Nel capitolo dedicato ai reati omissivi ed alle posizioni di garanzia si osserva:

<L’indirizzo di fondo dovrebbe essere nel senso di una forte selezione delle

figure di reato omissivo, per la più penetrante incidenza dei comandi di agire nella sfera di libertà dei destinatari e per il peculiare rischio di forzatura dei criteri della responsabilità personale. Da ciò la opportunità di uno speciale fondamento della responsabilità per omissione, da ricercare in esigenze non altrimenti soddisfacibili di tutela di beni giuridici importanti, e la conseguente necessità di una costruzione particolarmente attenta delle fattispecie di reato omissivo, che ne assicuri, ad un tempo, la “tenuta” garantista e la funzionalità generalpreventiva>

(Relazione Commissione Ministeriale D.M. 1988, 12). E, con specifico riguardo ai reati commissivi mediante omissione: <Il problema dell’individuazione delle posizioni di

garanzia rilevanti. Secondo il modello generalmente adottato (anche dal codice Rocco, nell’interpretazione ormai consolidata) il presupposto dell’obbligo di attivarsi (di “impedimento dell’evento”) dipende da una “posizione di garanzia” il cui fondamento non è dato dalla norma penale “di parte speciale”, ma questa recepisce come rilevante i fini dell’equiparazione del non impedimento alla realizzazione positiva del fatto. Il rispetto del principio di legalità, e comunque esigenze di certezza del diritto, esigono che le posizioni di garanzia penalmente rilevanti abbiano fondamento legale>

(Relazione Commissione Ministeriale D.M. 1988, 12). 5. Gli elementi costitutivi della fattispecie omissiva impropria : la situazione tipica. Come ora visto, l’individuazione della singola fattispecie

omissiva impropria è rimessa all’interprete che deve procedere ad una delicata operazione ermeneutica. E’ il momento in cui concretamente la fattispecie commissiva (es.: <chiunque cagiona la morte di un uomo è punito...> di cui all’art. 575 c.p.) si converte in una corrispondente ipotesi di reato omissivo improprio, ex artt. 40 cpv., 575 c.p., che possiamo immaginare, con riguardo ad una ipotesi di omicidio volontario, del seguente tenore: <Chiunque non impedisce la morte di un uomo, che ha l’obbligo giuridico di impedire, è punito...>, sull’assunto che non impedire la morte di un uomo, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarla.

La conversione in ipotesi omissive di reati commissivi può riguardare indifferentemente fattispecie dolose ovvero colpose.

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Pertanto, può anche aversi l’incriminazione di colui che: <Non ebbe ad impedire per colpa la morte di una persona, avendo l’obbligo giuridico di impedire l’evento> ai sensi degli artt. 40 cpv., e 589 c.p..

La situazione tipica della fattispecie omissiva è determinata dal concorso di circostanze che rendono attuale l’obbligo di attivarsi per scongiurare la lesione di un bene penalmente protetto.

Si tratta della peculiare situazione di fatto in cui il bene protetto dalla norma incriminatrice si trova in pericolo e le lesioni che a quel bene possano essere arrecate vengono imputate al soggetto posto in posizione di garanzia. Segnatamente, le aggressioni al bene protetto vengono imputate al mancato intervento impeditivo del garante.

La Corte regolatrice ha più volte analizzato ed individuato i presupposti di fatto che compongono la situazione tipica del reato omissivo.

Significativo il caso di morte da soffocamento a seguito di incendio di un degente presso un ospedale psichiatrico che si trovava in stato di contenzione; nello specifico, la situazione tipica obbligante rispetto ad ogni lesione della incolumità fisica della paziente è conseguenza della applicazione della misura di contenimento, misura che impedisce al titolare del bene protetto ogni autonoma azione difensiva:

<Il Tribunale, dopo ampia disamina della legislazione manicomiale in

materia, ha escluso che la comunità Omega fosse dalla legge abilitata alla contenzione dei malati - impregiudicato il problema della ammissibilità scientifica della contenzione meccanica dei malati - ed ha ritenuto che le <modalità di applicazione> della misura (nel caso della Rossi) siano state esorbitanti rispetto alle stesse indicazioni originarie del sanitario ed al carattere assolutamente eccezionale che la misura deve avere per legge. Il Tribunale ha peraltro osservato che il problema della responsabilità per la morte di Cesarina Rossi andava rinvenuto non già nella violazione delle leggi richiamate, le quali, ad avviso del Tribunale, avrebbero una <finalità esclusiva di tutela della libertà della persona> ma <nella mancata adozione di cautele che, nell’ambito del prevedibile e dell’inevitabile, avrebbero dovuto impedire eventi dannosi, in relazione alla particolare situazione di coatta immobilità della paziente (non importa in questa sede se legittima o no)>. Osservato che in linea di fatto l’incendio del materassino e dei vestiti non può che essere attribuito alla disponibilità da parte della Rossi di sigarette e cerini, oggetti rinvenuti accanto alla testata del letto, dalla Polizia; stabilito il nesso di causalità tra la contenzione e l’evento, l’ossido di carbonio non potendo che essersi sprigionato in conseguenza dell’incendio del materassino, il Tribunale, per l’individuazione delle singole responsabilità, ha fatto leva sulla <mancata predisposizione di cautele suggerite dallo stato di contenzione>

(App. Milano 28.1.1980, RDPP, 1983, 1560). La decisione ora richiamata conferma che le speciali esigenze

di tutela, le quali giustificano la stessa individuazione della figura del garante, si colgono nella situazione di passività in cui versa il titolare del bene protetto; e che per tale ragione l’ordinamento assegna una speciale funzione di protezione ad un terzo soggetto. E’ stato anche sostenuto che

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l’effettività della protezione sembra garantita dall’ordine delle conseguenze di una vigilanza poco solerte: l’omesso intervento difensivo, da parte del soggetto garante, viene dall’ordinamento equiparato alla diretta causazione dell’evento (sulla clausola di equivalenza vedi infra cap 4).

Tra gli speciali obblighi di protezione individuati dalla giurisprudenza si richiama la figura del medico psichiatra. Controverso il caso in cui ad uno psichiatra venne addebitato, sotto specie di omicidio colposo omissivo, il gesto omicidiario compiuto verso la propria madre dal soggetto in cura psichiatrica. Nel caso, al medico si contestò la mancata disposizione del ricovero coatto del malato. Sul punto, i giudici della Corte di Appello di Perugia, ribaltando la decisione assolutoria del giudice di primo grado, osservarono:

<Infatti la normativa in questione, laddove non più impone il ricovero

coatto, tende esclusivamente a salvaguardare i diritti e la personalità del malato, ma non esclude davvero tutti gli obblighi che sempre gravano sul sanitario della struttura pubblica alla quale quel malato è affidato.

Ad esempio nel codice penale esiste una norma specifica che impone di adottare, nella custodia delle armi, le cautele necessarie ad impedire che un minore degli anni quattordici o una qualsiasi persona incapace o inesperta nel maneggio dell’arma, possa impossessarsene agevolmente; ebbene, nello stesso codice non esiste una analoga norma in materia di medicinali, ma nessuno potrà negare la responsabilità colposa di un padre che, per mera imprudenza, non abbia posto in essere una qualsiasi cautela per impedire che il figlio minore se ne possa impossessare e, ingerendoli, morire.

Allo stesso modo, non può davvero ritenersi che la inesistenza dell’obbligo giuridico di ricovero giustifichi la totale inerzia: invero il dr. Bondioli, quale responsabile del servizio igiene mentale, aveva il dovere di assicurare una effettiva difesa alla salute mentale e, in particolare, quale medico inserito in una struttura pubblica, di curare il Santi Onerio che a quella struttura pubblica era affidato>

(App. Perugia 9.11.84, FI, 1988, II, 125). Per concludere, dopo aver poi analizzato le specifiche

modalità con le quali il sanitario ebbe a seguire il caso clinico: <Ma nulla di tutto ciò è stato fatto: il Bondioli, pur avendo

concretamente constatato il completo fallimento del sistema terapeutico adottato (il Santi rifiutava di vederlo e non era più possibile far leva sull’aiuto dei familiari i quali - al contrario e fondatamente - chiedevano <aiuto> alle strutture pubbliche), è rimasto, in sostanza, completamente inerte essendosi limitato a prendere contatto con la dott. Fiorentina che aveva avuto in cura il Santi e con i prossimi congiunti, in attesa di vedere le successive reazioni del paziente>

(App. Perugia 9.11.1984, FI, 1988, 126). La decisione venne cassata senza rinvio dalla S. C. (Cass.

5.5.87, Bondioli, FI, 1988, II, 109), sull’assunto che sfuggisse alcun nesso

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di condizionamento tra la condotta omissiva del sanitario e l’autonoma condotta omicidiaria perpetrata dal malato.

Il caso citato consente di cogliere l’urgenza delle considerazioni sopra svolte circa la necessità di tipizzazione delle fattispecie omissive improprie e rafforza i dubbi di compatibilità dell’attuale sistema - che rimette all’interprete la concreta individuazione delle situazioni tipiche obbliganti - con il principio di tassatività.

In argomento, si richiama la decisione della Corte regolatrice che afferma la responsabilità per omicidio colposo del presidente e dell’amministratore di fatto di una società polisportiva per il caso di morte di uno sportivo che, terminata la lezione di nuoto, si era nuovamente immerso nella piscina gestita dalla società. La S.C. definisce i termini della situazione obbligante, statuendo sulla necessità di predisposizione di un permanente servizio di vigilanza a bordo vasca e finanche di un efficiente impianto di illuminazione subacqueo della intera struttura (Cass. 3493/96). Si tratta della individuazione giudiziaria, post factum, del contenuto precettivo discendente dalla posizione di garanzia, ritenuto idoneo a scongiurare l’evento in concreto verificatosi.

5.1. La condotta omissiva.

Sul piano naturalistico omettere significa non fare alcunchè. Rimessa al prosieguo ogni considerazione sulla valenza causale che taluni autori assegnano alla omissione nell’ambito dei processi deterministici in cui l’inerzia si inserisca quale <fattore negativo>, tenuto conto del dominio che l’omittente ha sulle forze dinamiche della fattispecie complessivamente intesa, il dato naturalistico della <assenza> della condotta omissiva appare insuperabile. Giuridicamente, come si è visto, di converso, omettere significa non fare ciò che la norma di comando pretendeva. La valenza normativa dell’omissione appare ad oggi un portato acquisito, sia per la dottrina che per la giurisprudenza, tanto che le teoriche poggianti sulla nozione dell’aliud facere da parte del soggetto obbligato non trovano attualmente séguito. Identiche considerazioni si impongono per le teorie, dal non convincente impianto teorico, tutte tese ad assegnare all’omissione una valenza <fisica>, sul presupposto che tale nozione fosse utile per la dimostrazione causale dell’omissione impropria; in tale prospettiva la fisicità dell’omissione è stata anche rintracciata <nell’eccitamento volto a trattenere i nervi motori> (Beling 1906, 15).

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Chiarito che omettere significa non compiere ciò che la norma comandava, mette conto rilevare che nella definizione della condotta tipica la dottrina sovente richiama la nozione di concreta possibilità di agire, quale presupposto implicito della omissione. <Il compimento dell’azione comandata presuppone in realtà che il soggetto abbia la <possibilità di agire> nel senso normativamente richiesto. Sul piano della tipicità della condotta omissiva, tale possibilità di agire va intesa nel senso minimo di possibilità materiale di adempiere al comando: possibilità che può essere esclusa sia dall’assenza delle necessarie attitudini psico-fisiche (ad es. non si può sostenere che omette di soccorrere un bagnante in pericolo colui il quale non è in grado di nuotare), sia dalla mancanza delle condizioni esterne indispensabili per compiere l’azione doverosa (ad es. non si può dire che omette chi si trova a grande distanza dal luogo del soccorso o è obiettivamente privo dei mezzi necessari per prestare aiuto)> (Fiandaca 1995, 531). I termini obiettivi del nihil facere vengono ulteriormente chiariti dal rilievo che l’obbligo di attivarsi non si qualifica come obbligo di risultato: così, ad esempio, il medico andrà esente da ogni profilo di responsabilità penale per la morte del paziente, se nonostante il proprio tempestivo, diligente e perito intervento l’exitus si sia verificato (Mantovani, 195). 5.2 La posizione di garanzia. L’art. 40 cpv., c.p. sancisce la c.d. <clausola di equivalenza>: la causazione ed il mancato impedimento di un evento sono penalmente equivalenti. L’analisi delle clausola solleva molteplici problematiche, tra le quali le centrali questioni afferenti alla causalità ipotetica tra evento e condotta omissiva, che verranno successivamente analizzate. In questa sede mette conto rilevare che il rapporto di equivalenza tra cagionare e non impedire opera, unicamente, per il caso in cui sussista l’obbligo giuridico di impedire l’evento. Come è stato osservato, l’obbligo di impedire l’evento entra nella tipicità della fattispecie omissiva impropria, determinandone la stessa sussistenza: senza lo specifico obbligo giuridico di impedire l’evento non può sussistere, infatti, il reato commissivo mediante omissione, quale conversione, in chiave omissiva, di una fattispecie incriminatrice di un comportamento positivo. Oltre a ciò, l’obbligo di garanzia assolve ad una altra centrale funzione, quella di selezionare i soggetti che possono essere chiamati a rispondere della causazione dell’evento per mancato impedimento: coloro che sono specificamente gravati da un eccezionale obbligo di attivarsi.

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Alquanto problematica risulta la concreta individuazione degli obblighi a finalità impeditiva. Da un lato si registra la tradizionale teoria formale, in forza della quale l’obbligo di attivarsi, la cui violazione determini l’affermativa di responsabilità penale, può scaturire da una precisa fonte di produzione giuridica, riconosciuta come tale dall’ordinamento giuridico, sia essa la legge o il contratto. Detta impostazione non chiarisce le ragioni di fondo in base alle quali il diritto penale assimila l’omissione non impeditiva all’azione causale; in particolare detta teorica non spiega perchè non ogni obbligo di attivarsi sia convertibile in un obbligo rilevante ex art. 40 cpv., c.p.; nè perchè fonti non formali - quali la precedente attività pericolosa - costituiscano invece pacificamente situazioni obbliganti di rilievo penale (il boy scout che guida l’escursione in montagna di un gruppo di bambini è obbligato ad impedire che la vita e l’incolumità fisica dei ragazzi siano messe in pericolo; e ciò anche se l’attività del boy scout sia di mero volontariato, non remunerata e non altrimenti formalizzata). Sul punto la giurisprudenza di legittimità, a partire dagli anni novanta, ha rivisitato la <teoria del garante>, cogliendo il significato profondo degli obblighi di garanzia, che si riassume nello speciale vincolo di tutela che lega il soggetto garante ed un determinato bene giuridico, per il caso in cui il titolare dello stesso bene sia incapace di proteggerlo autonomamente. Nella sentenza sul disastro di Stava ben vengono chiariti i profili solidaristici che permeano la posizione di garanzia: <Il tema o problema delle cosiddette <posizioni di garanzia> è collegato alle condotte omissive contestate agli imputati e li interessa tutti anche se a titolo diverso, dovendosi distinguere tra coloro che hanno ideato, costruito e gestito i bacini e coloro, il Perna e il Currò Dossi, che, nella qualità, in epoche diverse, di ingegnere capo del distretto minerario, avrebbero avuto, secondo le due sentenze, uno specifico obbligo di intervenire per impedire l’evento. Nell’affrontare questo problema non è superfluo osservare che le cosiddette posizioni di garanzia, che sono inequivoche espressioni di una particolare solidarietà hanno, oggi, un indubbio retroterra, un innegabile punto di riferimento in quella norma - art. 2 - della Carta Costituzionale che, ispirandosi, come da tutti riconosciuto in dottrina, al principio personalistico o del rispetto della persona umana nella sua totalità, esige, nel riconoscere i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nella formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale; norma che costituisce una indubbia chiave di lettura di tante altre norme della Costituzione, tra la quali la norma dell’art. 32, che esalta il diritto alla salute e, quindi, all’integrità psicofisica e che ha condizionato e condiziona, come da tutti ritenuto, la legislazione antinfortunistica - e, quindi, anche il d.p.r. 128/59, ripetutamente invocato in questo processo - e la norma dell’art. 41, 2° comma, che vuole che l’iniziativa economica non si svolga in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana>

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(Cass. 6.12.90, Bonetti, FI ,1992, II, 47). Nel corso della motivazione i giudici evidenziano, quindi, e con mirabile lucidità argomentativa, il paradigma sostanziale che genera le posizioni di garanzia: la relazione di dipendenza a contenuto protettivo <Che la norma dell’art. 40 cpv., c.p., secondo la quale non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo, possa e debba essere interpretata in termini solidaristici, avendo presenti le norme costituzionali dianzi riportate, non pare contestabile, ove si consideri che la giurisprudenza e la dottrina sono sostanzialmente concordi nell’affermare che <a fondamento del meccanismo di questa responsabilità, ex art. 40 cpv., c.p., sta la necessità, riconosciuta dall’ordinamento, di assicurare a determinati beni una tutela rafforzata, stante l’incapacità - totale o parziale - dei loro rispettivi titolari a proteggerli adeguatamente, donde l’attribuzione a taluni soggetti, diversi dai rispettivi titolari, della speciale posizione di garanti dell’integrità dei beni che si ha interesse a salvaguardare>, aggiungendo che, se questo è il fondamento del meccanismo di responsabilità, <il principio di equivalenza tra l’omissione non impeditiva e l’azione causale presuppone non già un semplice obbligo giuridico di attivarsi, ma, appunto, una posizione di garanzia nei confronti del bene protetto>, sicchè <la funzione specifica della posizione di garante è rivolta a riequilibrare la situazione di inferiorità, in senso lato, di determinati soggetti, attraverso l’instaurazione di un rapporto di dipendenza a scopo protettivo> (Cass. 6.12.90, Bonetti, FI, 1992, II, 47). per poi recepire la specificazione dottrinaria delle posizioni di garanzia in posizioni di protezione e posizione di controllo <La posizione di garanzia che viene in considerazione nel caso di specie è quella che si definisce <posizione di controllo> su fonti di pericolo, posizione che, oltre ad esigere che il titolare del bene da garantire, da proteggere, si trovi nell’impossibilità di proteggere il bene medesimo, vuole che < il garante tenga sotto la sua sfera di signoria, perchè rientrante nella sua sfera di appartenenza, la sorgente, cioè l’oggetto materiale o l’attività, da cui si origina la situazione di pericolo a carico di terze persone>. Non si può, poi, omettere di ricordare che il reato omissivo improprio, che è il reato commesso da chi viola gli speciali doveri connessi alla posizione di garanzia non impedendo, così, il verificarsi dell’evento, è un reato che ha una sua precisa autonomia, scaturendo, come si è osservato in dottrina, dall’innesto dell’art. 40 cpv., sulle norme di parte speciale che prevedono le ipotesi di reato commissivo suscettive di essere convertite in corrispondenti ipotesi omissive; autonomia che pone indubbi problemi in ordine i principi di legalità e sufficiente determinatezza della fattispecie, donde il compito del giudice <sia di selezionare attentamente le fattispecie di azione legalmente tipizzate da convertire in corrispondenti ipotesi omissive, sia di individuare gli obblighi di agire, la cui violazione veramente giustifichi una responsabilità penale per omesso impedimento> (Cass. 6.12.90, Bonetti, FI, 1992, II, 48). Sulla scorta di tali considerazioni viene poi riconosciuta la penale responsabilità del direttore della miniera per la frana, atteso che

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<Non pare si possa dubitare, pertanto, che il direttore di miniera abbia l’obbligo di impedire gli eventi che potrebbero porre in pericolo quei due particolari interessi e che debba porre in essere quelle condotte, azioni, che il <modello> di dirigente di miniera di volta in volta suggerisce onde evitare determinati tipi di eventi e che, conseguentemente, risponda penalmente se, omettendo di intervenire, omettendo di controllare tutte le potenziali fonti di pericolo della miniera, consenta, per colpa, che si producano quegli eventi, che vi sia lesione di quei determinati, delicatissimi, beni, tutelati, nella forma del divieto, nelle norme di parte speciale del codice penale. E’ di tutta evidenza che il direttore di miniera, essendo il destinatario dell’obbligo di osservare quelle norme, essendo fatto garante, attraverso il rispetto di quelle norme, della tutela di determinati beni, non potrà mai essere condizionato, ai fini di questa garanzia, dagli eventuali ordini o disposizioni dell’imprenditore in grado, se osservati, di porre in pericolo quei beni, e ciò per la decisiva ragione che un ordine o una disposizione di tal genere non possono sovrapporsi all’obbligo ex lege di impedire l’evento che il direttore di miniera ha in quanto tale> (Cass. 6.12.90, Bonetti, FI, 1992, II, 48).

6. Anfibologia della norma cautelare. Come si è visto (supra, Cap. I, § 2.1), la nozione del nesso

causale, benché rientrante nell’elemento materiale del reato, si connota diversamente per effetto della natura dolosa ovvero colposa della condotta. Nel reato colposo, il criterio di riferibilità causale tra la condotta e l’evento richiede non solo la verifica del rapporto di dipendenza materiale tra l’azione ed il concreto accadimento verificatosi secondo la teoria condizionalistica (conformemente a quanto avviene per le ipotesi dolose), ma anche che l’evento sia la concretizzazione del pericolo che la norma a contenuto precauzionale voleva evitare.

Nei reati colposi, cioè a dire, il procedimento di accertamento del nesso causale implica:

<Un giudizio prognostico e ipotetico, a contenuto inevitabilmente

soggettivo, attraverso il quale il giudice verificherà se <<scopo della norma violata>> era evitare proprio quel rischio che si è realizzato e se l’eventuale comportamento dell’agente conforme al dovere di diligenza sarebbe bastato ad impedire l’evento (c.d. comportamento alternativo lecito)>

(Magro 1991, 350). Nell’ambito dei reati omissivi impropri colposi, che qui

specificamente interessano, si registra la <doppia valenza> della norma cautelare. La stessa norma da un lato, obiettivamente, scolpisce il dovere di agire, e, quindi, delinea il contenuto della fattispecie obbligante che grava sul soggetto che versa in posizione di garanzia; dall’altro, assurge a parametro per il profilo di rimproverabilità per colpa dell’agente, al quale

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si addebita la mancata osservanza del contenuto impositivo della medesima norma cautelare.

Come si vede, la norma cautelare nel reato omissivo improprio colposo acquisisce una valenza anfibologica, riverberando i propri effetti in entrambi gli elementi nei quali è dato scomporre, secondo la considerazione analitica del reato, l’illecito penale. Ed invero, la norma di cautela incide sia nell’ambito dell’elemento oggettivo, in funzione definitoria della fattispecie, sia nell’ambito dell’elemento psicologico, quale parametro precauzionale di riferimento della condotta.

Sul punto, in dottrina si è icasticamente osservato: <Circa i rapporti tra l’obbligo di garanzia e il c.d. obbligo di diligenza

(comprensivo cioè dei suddetti obblighi) nei reati omissivi impropri, essi interferiscono, poichè il secondo poggia sul primo e la misura della diligenza non oltrepassa quella cui il soggetto è obbligato come garante. Ma non si può affermarne, concettualmente, la coincidenza poichè il primo fonda l’omissione oggettiva ed il secondo la colpa. E vi può essere quella senza questa (es.: omette di impedire il disastro ferroviario, ma non colposamente, il casellante che non abbassa le sbarre perchè un sabotatore ha sposato indietro tutti gli orologi a disposizione)>

(Mantovani 1988, 327). Analizzando criticamente i percorsi argomentativi di decisioni

giurisprudenziali riguardanti il problema della prova del nesso causale nei reati colposi, un autore osserva quanto segue:

<Nella sentenza del 20 marzo 1989, n. 4049, il ricorrente lamenta che il

giudice ha dedotto la prova dell’esistenza del rapporto di causalità tra ambiente di lavoro malsano e rumoroso e l’indebolimento della funzione uditiva dei lavoratori, dal fatto che i livelli di rumorosità si sarebbero potuti sensibilmente ridurre, ed indipendentemente dall’indagine che tale sintomo potesse ricondursi a causa estranea.

Ma l’evitabilità degli alti livelli di rumorosità, più che costituire prova dell’esistenza del nesso causale tra condotta ed evento, attiene alla prova dell’elemento soggettivo della colpa.

In tema di imputazione obiettiva nei reati colposi altre sentenze possono essere citate come sintomatiche di un certo orientamento.

Nella sentenza del 13 ottobre 1981, n. 8921, con riferimento alle cause interruttive del rapporto di causalità, la Corte ha affermato: che << la causa sopravvenuta è quella che si inserisce nella serie causale dipendente dalla condotta iniziale, ma che presenta una tale incisività da potersi considerare la sola a produrre l’evento. Nell’ambito dei reati colposi occorre verificare l’atipicità e l’eccezionalità rispetto ad una prevedibile linea di sviluppo, nonchè inevitabilità malgrado il più alto grado di previdenza e prudenza>>.

Allo stesso modo (Cass. 2 novembre 1987, n. 11268), in tema di responsabilità colposa inerente alle modalità di circolazione dei veicoli <<la condotta imprudente di un ciclista può ritenersi causa sopravvenuta solo quanto si presenti al di fuori di ogni normale e prevedibile linea di sviluppo della serie causale e non quando risulti prevedibile e prevenibile>>.

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<<L’imprevedibilità e l’inevitabilità dell’evento nei delitti colposi, escludono la causalità materiale e psicologica>> (Cass. pen., 23 febbraio 1989, n. 2989).

Nelle sentenze citate è rilevabile una non chiara distinzione tra profili attinenti alla causalità e alla colpa. Attraverso l’accurata disamina della <<prevedibilità>> dell’evento, i giudici affrontano questioni che avrebbero dovuto essere considerate ai fini della spiegazione causale. Il criterio della imprevedibilità viene affiancato a quello dell’inevitabilità al fine di accertare la sussistenza di una causa sopravvenuta idonea ad interrompere il nesso causale; tali parametri acquistano un ruolo polifunzionale e multiuso, sia nella fase dell’accertamento del nesso di causalità materiale che in quella dell’accertamento del nesso psicologico>

(Magro 1991, 349). Non appare revocabile in dubbio, invero, che talora, nelle

decisioni in tema di reati colposi, si verifichi, o si sia verificata, una <contaminazione> tra distinti ambiti della teoria del reato. Mette conto rilevare che l’evenienza si è manifestata principalmente nell’ambito dei reati omissivi impropri colposi.

Si tratta, peraltro, di un’evenienza che, tenuto conto della tipologia dei reati censiti, trova agevole spiegazione nella comune natura normativa delle nozioni di colpa e di omissione: il reato colposo ed il reato omissivo presuppongono, infatti, entrambi la vigenza di una norma cautelare.

Nel caso in cui la norma di cautela abbia un contenuto precauzionale a valenza impositiva, si verifica la materiale sovrapponibilità tra il profilo normativo della colpa e l’obbligo di impedire l’evento incombente sul soggetto posto in posizione di garanzia (ex art. 40., cpv., c.p.).

E lo stesso ordine di considerazioni che precede ha talora dato causa alla trasformazione dei reati omissivi impropri in reati commissivi colposi, sul presupposto che la colpa implichi sempre la componente omissiva della inosservanza delle regole cautelari; tanto che in dottrina si è suggerito il seguente criterio discretivo:

<Fondamentale è, perciò, distinguere tra: a) gli eventi cagionati da una

azione pericolosa del soggetto (non importa se immediatamente o non immediatamente precedente), poichè in questo caso versiamo nell’ambito della causalità attiva: il soggetto ha l’”onere” di adottare le misure impeditive se vuole evitare responsabilità, non l’obbligo (salvi i casi in cui l’omissione di tali misure è già di per sé punibile); b) gli eventi causati da forze naturali o dall’azione umana altrui, solo rispetto ai quali possono porsi problemi di omesso impedimento e, quindi, di imputazione ex art. 40/2>

(Mantovani 1988, 192). La contaminazione metodologica tra aspetti attinenti a piani

diversi dell’imputazione trova poi ulteriore causa nella rilevanza che, si è

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visto, la norma di cautela acquista già in sede di tipicità del reato. Nei reati colposi di evento, tra i quali sono da annoverarsi i reati omissivi impropri, l’interprete è infatti chiamato a verificare se l’evento lesivo rappresenti, secondo la teoria condizionalistica, il risultato pratico della condotta illecita; e se tale evento appaia come concretizzazione del rischio che la norma di condotta violata tendeva a prevenire.

Chiarisce la portata dell’assunto il seguente rilievo: <Le regole di diligenza contengono radicati giudizi probabilistici in

ordine alla verificazione di eventi dannosi al compimento di certe condotte: esse sono il risultato di una vasta previsione di possibili pericoli. Ne consegue che, nei reati colposi, l’imputazione dell’evento, consiste in una doppia verifica della adeguatezza della condotta rispetto all’evento, prima da un punto di vista ex ante e in astratto, e poi, in caso di esito positivo di tale accertamento, ex post e in concreto, al fine di accertare l’idoneità della condotta in rapporto alle caratteristiche concrete del decorso causale. E’ nella prospettiva ex post che assumono rilevanza anche gli anelli causali intermedi del decorso causale, che incidono nelle concrete modalità di verificazione dell’evento. In questa seconda fase trovano spazio valutazioni di tipo politico criminale, concernenti l’applicazione di misure normative e di delimitazione della responsabilità, volte a riequilibrare l’eccessiva ampiezza del criterio condizionalistico.

In definitiva, nei reati colposi l’imputazione oggettiva richiede un quid pluris rispetto alla semplice applicazione della teoria condizionalistica. Per essi occorre dimostrare che l’evento è concretizzazione del pericolo che la norma a contenuto precauzionale voleva evitare, e quindi, realizzazione della violazione della diligenza prescritta; tale esigenza complica il procedimento di accertamento del nesso causale, richiedendo un giudizio prognostico e ipotetico, a contenuto inevitabilmente soggettivo, attraverso il quale il giudice verificherà se <<scopo della norma violata>> era evitare proprio quel rischio che si è realizzato e se l’eventuale comportamento dell’agente conforme al dovere di diligenza sarebbe bastato ad impedire l’evento>

(Magro 1991, 350). Come si è detto (supra, Cap. I, § 2), peraltro, la teorica della

doppia funzione svolta dagli elementi del dolo e della colpa sia sul piano della tipicità che della colpevolezza, non può altrimenti consentire che vengano incluse, nel giudizio di imputazione dell’evento, valutazioni di tipo soggettivo.

7. Regole statistiche nella c.d. causalità della colpa. La dottrina ha elaborato, nell’ambito del reato colposo, la

teorica della doppia causalità: oltre alla causalità materiale, che ha come riferimento l’evento quale effetto della condotta, si individua un secondo nesso causale, il nesso di rischio afferente alla relazione tra <colpa> ed evento.

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Mentre l’accertamento relativo alla valenza causale della condotta viene guidato dalle teorie condizionaliste, la verifica sulla concreta evitabilità dell’evento verificatosi poggia sulla ipotetica utilità del comportamento alternativo lecito (non realizzato dall’agente); si tratta, cioè, di verificare ex post, su base probabilistica ed ipotetica, il grado di attitudine della condotta alternativa lecita a prevenire l’evento. E nei due distinti accertamenti causali, si individua una diversa rilevanza degli indici statistici di riferimento per la legge di copertura: per la sussistenza del nesso causale ex art. 40 c.p. si richiede una spiegazione eziologica in termini di probabilità confinate con la certezza. Diversamente, quanto all’accertamento sulla evitabilità dell’evento, presupponendo realizzato il comportamento alternativo lecito, si ritiene che tale giudizio ammetta valutazioni di tipo meramente probabilistico.

Da ultimo, un autore ha così argomentato sul punto: <La soluzione teorica e pratica che, allo stato della legislazione vigente,

consente di rendere accettabile l’attribuzione non solo di una colpa, ma di un evento come conseguenza “probabile” di una condotta, deve rigorosamente differenziare tra la causazione in senso stretto (art. 40 c.p.), e il problema del dubbio sull’evitabilità (e il rapporto di rischio) in caso di comportamento lecito, allorchè già consti, tuttavia, la causazione effettiva dell’evento da parte della condotta illecita reale (art. 43 c.p.), a prescindere dal suo essere o meno colposa.

In caso di accertamento della causazione ex art. 40 c.p., a mio avviso, si deve ribadire l’accoglimento delle formule (in realtà equipollenti) della “alta credibilità razionale” o “probabilità confinante con la certezza” processuale relativa non già alla salvezza del bene in senso assoluto, ma al verificarsi comunque della lesione in tempi e modi peggiorativi per effetto della condotta storica>

(Donini 1999, 76). Dopo aver chiarito che detta teorica deve trovare applicazione

anche nei casi di reato omissivo colposo, l‘autore rileva: <Viceversa, in caso di accertamento del comportamento alternativo

lecito (l’evitabilità rilevante ai sensi dell’art. 43 c.p.), ma in presenza di sicura incidenza causale tra condotta inosservante - significativa almeno per l’intensificarsi dell’offesa, ed evento storico -, l’accertamento “controfattuale” ammette valutazioni molto più probabilistiche: se, infatti, già sussiste la prova della causalità c.d. “materiale” della condotta da un lato, della colpa come inosservanza della cautela dall’altro, e altresì la prova che comunque l’evento materialmente condizionato (almeno nell’hic et nunc) era del tipo degli eventi che lo scopo della regola precauzionale mirava a prevenire (ad es. salvare la vita, o almeno prolungarla il più possibile, minimizzando i rischi e massimizzando i tempi della sua perdita), non si può dubitare che si imputa un evento cagionato come “fatto proprio”, non essendovi qui nessuna surrettizia “trasformazione di un reato di evento in reato di pericolo”.

“Accontentarsi”, in questi casi, del fatto che la condotta soggettivamente colposa e causale abbia aumentato (ex post) il rischio del verificarsi dell’evento significa, è vero, non avere la “prova” che nell’evento si sia materializzata in modo “necessario” la colpa, perchè le cose avrebbero anche potuto conoscere lo stesso esito.

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Ma in primo luogo per una condanna (...) occorre comunque provare che, anche qualora non potesse dirsi “inevitabile” l’evento tenendo il comportamento realmente posto in essere (di fatto, accade spesso che la violazione, una volta realizzata, abbia reso quasi inevitabile o molto probabile l’evento), in ogni caso il comportamento diligente avrebbe non solo offerto maggiori, ma rilevanti, significative probabilità di evitare l’offesa. Il dubbio sulla sussistenza di queste rilevanti probabilità, è un dubbio sulla misura dell’evitabilità dell’evento. Ma - come detto - non si richiede qui la certezza o la probabilità “confinante con la certezza” che la condotta osservante avrebbe salvato il bene protetto, o ne avrebbe prolungato l’integrità: perchè l’evitabilità ai sensi dell’art. 43 c.p., non essendo la causalità ai sensi dell’art. 40 c.p., significa qui rilevante probabilità di evitare un evento comunque certamente cagionato>

(Donini 1999, 78). Tanto premesso, la portata esimente della teoria dell’aumento

del rischio viene così esplicitata: <Il c.d. aumento del rischio, in questi casi, seleziona ulteriormente la

responsabilità, a fronte di una condotta sicuramente colposa (in termini di inosservanza), sicuramente causale (ex art. 40 c.p.), e accerta l’effettiva evitabilità dell’evento: che non significa dunque certezza di evitarlo, ma apprezzabile, buona, effettiva probabilità. Ciò che non persuade delle teorie dell’aumento del rischio, per come applicate anche al problema dell’evitabilità, è l’idea di affermare la responsabilità in presenza di una qualsiasi probabilità “in più”: dovendosi piuttosto esigere una valutazione di maggiore probabilità veramente significativa, anche senza la possibilità di quantificare una percentuale, tanto più in assenza di una univoca indicazione legislativa, diversa dalla formulazione molto impegnativa del vigente art. 43 c.p., che sembrerebbe richiedere una vera “causalità” fra la colpa (e non solo fra la condotta materiale) e l’evento>

(Donini 1999, 78). L’incidenza del nesso di rischio nella ricostruzione della

fattispecie colposa viene così conclusivamente esplicitata: <Nel senso della esclusione della colpa - rectius: del nesso di rischio tra

colpa ed evento, pur in presenza di una causazione materiale - si segnalano infine i noti esempi ripresi dalla letteratura penalistica: i casi del ciclista, della cocaina, dei peli i capra, della miocardite, ecc., nei quali l’evento si sarebbe verificato ugualmente (o con differenze temporali scarsamente rilevanti) anche in ipotesi di condotta diligente, osservante - rispettivamente: distanza di sicurezza in caso di sorpasso (inutile per lo spostamento improvviso a sinistra del velocipide sorpassato); impiego della novocaina anzichè della cocaina nella anestesia (con identico risultato nella situazione concreta); pulizia, comunque inutile anche con i metodi richiesti, delle pelli di capra prima della loro consegna agli operai per la lavorazione; effettuazione, prima di procedere all’anestesia, di analisi di routine omesse e doverose, ma che non avrebbero rivelato la miocardite, nè quindi impedito l’uso dell’anestetico mortale.

Si comprende allora il diverso valore del significato probabilistico della spiegazione nella causalità e nella colpa. Si comprende, ancora meglio, che c’è davvero un livello “oggettivo” che viene prima del fatto tipico “colposo”, della tipicità “oggettivo-soggettiva” riguardante i profili di imputazione ormai segnati da questioni specifiche della causalità della colpa, anzichè della condotta.

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Nella causalità fra condotta materiale ed evento si verifica un primo livello di condizionamento, dove l’attribuzione dell’evento come “fatto proprio” al soggetto non può tollerare percentuali probabilistiche significativamente affievolite in ordine alla certezza processuale che l’evento storico sia stato realmente condizionato dalla condotta dell’imputato: limite di garanzia che non ha nulla a che vedere con l’impiego di leggi statistiche scientificamente non collaudate o esposte a dubbi rilevanti sulla possibile incidenza esclusiva, nel caso concreto, di altre condizioni (non mere concause esse stesse condizionali, valendo in tal caso il disposto dell’art. 41, commi 1 e 3 c.p.).

A livello di verifica dell’evitabilità dell’evento in caso di condotta diligente o prudente, qualora già consti una causazione significativa rispetto alle modalità spazio-temporali dell’evento - qualora cioè la prova della causalità non si sovrapponga del tutto a quella dell’evitabilità, come avviene nell’omissione vera e propria e in certi casi di condizioni negative - un accertamento più latamente probabilistico dell’evitabilità (apprezzabile, non modesto aumento del rischio per effetto della violazione, rispetto alle chances esistenti in caso di comportamento alternativo lecito) non ha il significato di imputare come fatto proprio un evento solo “forse” cagionato: ma di accertare importanti chances di impedire il risultato, la sua reale evitabilità in caso di condotta osservante>

(Donini 1999, 80). Si deve rilevare che detta ricostruzione teorica dell’illecito

colposo, la quale mette in luce e distingue i fattori di condizionamento causale che presiedono alla riferibilità materiale della condotta all’autore, rispetto alla attribuibilità dell’evento quale conseguenza concreta della violazione della norma cautelare, soffermandosi sulla reale evitabilità dell’evento dannoso in caso di condotta diligente o comunque osservante, non sembra trovare seguito in giurisprudenza.

Con riguardo all’accertamento del profilo soggettivo colposo il diritto vivente ritiene sufficiente: a) che l’evento in concreto verificatosi appartenga al genus di eventi che la norma cautelare è volta a prevenire; b) che il soggetto agente si sia genericamente rappresentato la possibilità di verificazione di un tale tipo di evento come conseguenza della condotta colposa.

Il paradigma argomentativo in esame viene analiticamente censito nella seguente motivazione di merito:

<A tal punto occorre chiedersi quale sia il rapporto in astratto e in

concreto tra la formazione psicologica (in modo imprudente, negligente, imperito e in violazione di norme cautelari specifiche) e il fatto. Nel determinare su cosa deve cadere la colpa si precisi che la prevedibilità e l’evitabilità per un soggetto tenuto ad un comportamento altamente rispettoso della dignità e della salute di determinati soggetti, deve avere ad oggetto non il danno in concreto effettivamente verificatosi ma è sufficiente che abbia per oggetto la <<potenziale idoneità della condotta a dar vita ad una situazione di danno e non anche alla specifica rappresentazione ex ante dell’evento dannoso, quale si è concretamente verificato in tutta la sua gravità ed estensione>> (Cass. sez. IV, 6 dicembre 1990, Bonetti, cit.).

In tema di accertamento della colpa va accertato se al momento del fatto era prevedibile che si verificasse non l’evento cagionato ma un evento (cioè un

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qualunque danno) del genere di quello prodottosi e non l’evento così come si è verificato storicamente e specificamente (App. Milano 28 gennaio 1980, Foro It. Rep. 1984, voce Reato in genere, n. 52); non certo, quindi, un qualunque evento ma un evento appartenente al genus delle conseguenze che possono cagionarsi con la condotta umana nell’ambito del bene giuridico che le regole di comportamento generiche specifiche tendono a tutelare. La descrizione dell’evento deve avvenire riconducendo l’evento storicamente realizzatosi in un genus, ridisegnando quegli aspetti del fatto che lo rendono irripetibile.

La colpevolezza dell’agente è integrata anche dalla possibilità di rappresentarsi da parte dell’homo eiusdem condicionis et professionis l’evento (del genere di quello verificatosi)quale possibile realizzazione della pericolosità insita nella propria condotta. La prevedibilità consiste nella possibilità generica che un uomo di una determinata cultura e in un certo contesto storico ha di prevedere l’evento come conseguenza della sua condotta, cioè quale probabile esito di una condotta avente una capacità lesiva del bene giuridico tutelato.

Nel campo della responsabilità colposa generica e specifica per la morte di un lavoratore non occorre che il soggetto tenuto ad adottare specifiche misure cautelari e comunque e una generica attenzione si sia rappresentato in modo specifico la prevedibilità dell’evento mortis o addirittura del decorso causale attraverso cui si può giungere alla morte. Piuttosto è necessario e sufficiente che il soggetto agente abbia potuto prevedere che adottando le misure imposte si sarebbe potuto evitare un grave danno alla salute o un danno alla vita>

(Pret. Torino 9.2.95, FI, 1996, II, 137). Da rilevare, in chiusura di argomento, che anche in dottrina si

registra (e permane) diversità di opinioni sulla ammissibilità dogmatica dell’individuazione di un rapporto di natura causale tra la <colpa> e l’evento che si attribuisce al soggetto agente:

<La giurisprudenza e la dottrina tedesca, che sinora hanno con maggiore

impegno e consapevolezza esplicitamente affrontato i problemi posti dai casi accennati, per attribuire efficacia liberatoria all’obiezione del c.d. comportamento alternativo lecito (cioè del comportamento omesso conforme al dovere di diligenza ma inidoneo ad impedire l’evento), ricorrono a spiegazioni dogmatiche diverse e non riconducibili a criteri di valutazione omogenei.

L’orientamento più diffuso ritiene che nelle ipotesi in esame manchi il nesso causale tra <<colpa>> ed evento, nel senso che quest’ultimo non rappresenterebbe una vera conseguenza della violazione della regola di condotta: è appena il caso però di ribattere che il nesso causale si pone tra due realtà fisiche come l’azione e l’evento, non tra l’evento e un’entità ideale costituita in questo caso dalla trasgressione della norma>

(Fiandaca 1999, 503). Altri, richiama la necessità: <di rigorosamente differenziare tra la causazione in senso stretto e il

problema del dubbio sulle evitabilità in caso di comportamento lecito, allorchè già consti, tuttavia, la causazione effettiva dell’evento da parte della condotta illecita a prescindere dal suo essere o meno colposa. In caso di accertamento della causazione ex art. 40 si deve fare applicazione delle formule della alta credibilità razionale o

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probabilità confinante con la certezza processuale, relativa non già alla salvezza del bene in senso assoluto, ma al verificarsi comunque della lesione in tempi e modi peggiorativi per effetto della condotta storica. Viceversa, in caso di accertamento del comportamento alternativo lecito (l’evitabilità rilevante ai sensi dell’art. 43 c.p.), ma in presenza di sicura incidenza causale tra la condotta inosservante e l’evento, l’accertamento controfattuale ammette valutazioni molto più probabilistiche. Infatti, l’evitabilità ai sensi dell’art. 43, non essendo la causalità ai sensi dell’art. 40, significa rilevante probabilità di evitare un evento certamente cagionato. Il cosiddetto aumento del rischio in questi casi seleziona ulteriormente la responsabilità a fronte di una condotta sicuramente colposa, sicuramente causale, e accerta la effettiva evitabilità dell’evento, che non significa dunque certezza di evitarlo, ma apprezzabile, buona effettiva probabilità>

(Blaiotta 2000, 1215) per giungere a formulare il seguente rilievo critico alla teorica della

causalità delle colpa: <Il secondo aspetto problematico riguarda la completa sovrapposizione

tra controfattuale nell’indagine causale e controfattuale nell’indagine sul comportamento alternativo lecito e quindi sulla colpa. E’ ben vero che vi è omogeneità dello strumento nomologico ed ontologico di cui occorre avvalersi per questi pur distinti giudizi d’imputazione (causalità e colpa) tuttavia tale sovrapposizione non è completa non solo perchè differiscono le prospettive dell’indagine ma soprattutto perchè i parametri di riferimento differiscono o possono differire. Infatti nell’indagine causale contano le basi nomologiche note al momento del giudizio, mentre nell’indagine sulla colpa, dovendosi valutare il contegno ai fini del giudizio di rimproverabilità personale, contano le basi nomologiche che erano note al momento della condotta e che erano ragionevolmente conoscibili dall’agente>

(Blaiotta 2000, 1216). 8. L’ambito omissivo della colpa. Come si è visto, l’analisi strutturale del reato omissivo

improprio colposo pone in evidenza il ruolo centrale che nel normotipo assumono i parametri normativi fondanti sia l’obbligo di impedire l’evento - obbligo che scolpisce la situazione tipica - sia il dovere di diligenza, il cui mancato rispetto fonda la rimproverabilità, per colpa, dell’inerzia tenuta dal soggetto che versa in posizione di garanzia.

Un autore così delinea le peculiarità dei limiti strutturali del modello legale del reato omissivo colposo:

<Tali peculiarità riguardano rispettivamente: (A) la fattispecie oggettiva del delitto omissivo colposo; (B) la natura cosiddetta “ipotetica” - e, comunque, peculiare - della causalità

omissiva. Sub (A) va subito posto in evidenza che il nostro paradigma, rispetto al

“normotipo” di fattispecie omissiva (cioè quello doloso), si caratterizza per un surplus

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di normatività: detto in altri termini, per un maggior contenuto di elementi normativi, che vanno ulteriormente ad arricchire una figura che già di per sé - come tipico reato d’obbligo - “ di normatività” è impregnata.

Se infatti lo schema-base della fattispecie oggettiva del “tipo” omissivo è caratterizzata, secondo la formula di Armin Kaufmann, da:

(i) (-a+g) +b+ec [in cui a preceduto dal segno meno rappresenta la (mancata) azione impeditiva; g

la posizione di garanzia - id est l’obbligo giuridico di impedire l’evento ex art. 40 comma 2° c.p. italiano -; b l’evento tipico; ec l’equivalente tipico della causalità attiva].

nella corrispondente fattispecie a struttura colposa si avrà: (ii) [-(a+r)+g]+b+ec [ove la componente “condotta” è integrata, oltre che dalla posizione di garanzia g,

da r , corrispondente alla violazione della regola di diligenza che rende tipica la (mancata) azione impeditiva a ].

Si vede perciò che, nello schema (ii), come elemento prettamente normativo, rinviante a norme di condotta esterne al tipo penale si trova, oltre all’”obbligo giuridico” fondante la posizione di garanzia, il “dovere di diligenza” fondante la colpa. Ne consegue, già a livello strutturale, una contiguità “pericolosa” di nuclei normativi (il dovere di attivarsi che fonda la posizione di garanzia e il dovere di diligenza che fonda la colpa), che rischiano, sovrapponendosi, di oscurare gli stessi confini e rapporti fra fattispecie oggettiva e fattispecie soggettiva, ovvero fra tipo e colpevolezza>

(Paliero 1992, 828). Altri sottolinea poi la molteplicità di casi di apparente

omissione e di reale culpa in agendo, secondo il seguente percorso argomentativo:

<Esistono altre ipotesi sicuramente colpose e commissive, nelle quali

peraltro l’accertamento eziologico non diverge da quello che si avrebbe qualificando come omissiva la condotta tipica.

Si pensi ancora a un trattamento inadeguato da parte del sanitario che abbia assunto in terapia il paziente, affetto da sintomatologia tipica dell’infezione da tetano (trisma e rigidità dei muscoli mandibolari, irrequietezza), e lo abbia rimandato a casa con semplice prescrizione di un tranquillante; si assuma che consti, a posteriori, che la prescrizione di una terapia con siero antitetanico (previe verifiche, omesse, circa l’effettiva esistenza di lesioni cutanee recenti) avrebbe avuto discrete, ma non altissime, probabilità di evitare l’evento.

Si può correttamente assumere che sia questo un caso tipico di culpa in agendo, perchè non ricorre nessun “omesso impedimento dell’evento” nella condotta dei sanitari che hanno sbagliato diagnosi e terapia. Questi medici non hanno violato un comando penale, bensì solo un divieto: il divieto di cagionare (o contribuire a cagionare, si trattasse anche solo di accelerare) lesioni o morte con negligenza, imperizia o imprudenza, e quindi per effetto di un comportamento negligente o imperito nell’esercizio della attività professionale.

Sono situazioni normalissime in cui emerge il c.d. momento omissivo della colpa. La tendenza a considerare omissive le condotte stesse - quasi che il soggetto contravvenisse a un precetto penale di intervenire, e quindi a un comando, mentre in realtà sta solo male adempiendo i suoi doveri - non è tuttavia stravagante. Essa dipende qui dal fatto che il sanitario (come ogni professionista chiamato a intervenire in una situazione “di rischio”) compie comportamenti per loro natura

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“impeditivi” rispetto a eventi dannosi.(...) La sua azione, quindi, è condizione dell’evento non solo perchè lo condiziona storicamente quanto meno accelerando i tempi del decesso, ma anche perchè non attiva condizioni negative (impeditive) dello stesso, e anzi proprio per questo il condizionamento è giuridicamente assai più interessante: nel caso in cui, cioè, la vita stessa - non meramente prolungabile di qualche ora, di un giorno o una settimana - avrebbe potuto verosimilmente o probabilmente essere salvata>

(Donini 1999, 55). L’autore distingue, quindi, tra condizioni positive e

condizioni negative dell’evento, osservando: <Sono condizioni positive quelle la cui presenza (segno +) determina

(secondo una legge di successione causale) l’evento; sono condizioni negative quelle che impediscono (che “negano”) l’evento, e perciò condizioni la cui assenza (segno -) determina (secondo una legge di successione causale) l’evento. Orbene, la caratteristica di queste condizioni è che se pur definiamo “causale” e altresì “attiva” la condotta del sanitario, nondimeno occorrerà accertare il nesso di condizionamento esattamene come se si trattasse di un vera omissione: ciò discende dal fatto che nella spiegazione il punto di vista del diritto, la sua valutazione rende decisiva la presenza o l’assenza di condizioni negative (nel caso di specie: l’adozione di una terapia adeguata): e quindi, come meglio si dirà, è necessario che ad ogni livello (dove causalità e colpa si trovano teleologicamente “confuse”) si richieda un accertamento ipotetico con probabilità tanto più “confinante con la certezza”, quanto meno significativo è il condizionamento “attivo”>

(Donini 1999, 56). E l’accertamento della rilevanza causale delle condizioni

negative dell’evento rende indispensabile la costruzione di decorsi causali ipotetici per la verifica di sussistenza del nesso di condizionamento.

Si spiega così perchè l’accertamento del nesso eziologico, sia nel reato di azione che nel rato d’omissione, una volta che ricorra una condizione negativa dell’evento, implichi necessariamente l’utilizzo dei modelli funzionali della causalità ipotetica; osservandosi che le condizioni negative:

<impongono sempre l’utilizzo di condizioni controfattuali, e quindi di

decorsi causali ipotetici aventi tutti la medesima struttura gnoseologica di spiegazione causale (prima ancora che di accertamento del c.d. comportamento alternativo lecito, che ad es. nel dolo è del tutto irrilevante) e la stessa validità probabilistica di accertamento processuale>

(Donini 1999, 58). Ai fini che interessano nella presente indagine sembra, quindi,

di potere affermare che sussiste una nozione unitaria di nesso causale, utilizzabile per il reato omissivo e per il reato colposo realizzato mediante condizioni negative dell’evento. L’accertamento della causalità richiede, cioè, in tutti i casi ora richiamati, il ricorso a giudizi controfattuali,

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normativi o ipotetici. Parametri, questi, che non possono venire allora confinati nella causidica nozione di causalità omissiva, ma che, al contrario, vengono in gioco ogni qual volta l’interprete sia chiamato ad una ricostruzione controfattuale della fattispecie rispetto all’evento verificatosi.

9. Il principio di affidamento Nell’ambito di situazioni di rischio che implichino il simultaneo

intervento di una pluralità di soggetti gravati da obblighi di diligenza (attività in équipe), al fine di individuare gli specifici profili di rimproverabilità colposa della condotta tenuta da ciascun operatore, si fa ricorso al principio dell’affidamento.

Per effetto di esso, ogni destinatario di obblighi di diligenza è autorizzato a contare sul fatto che i destinatari di obblighi di diligenza di diverso contenuto ma rivolti a prevenire la verificazione dello stesso tipo di pericoli che al primo è fatto carico di evitare, vi si uniformeranno a loro volta, salvo che risulti riconoscibile il contrario. In forza di tale principio ciascun membro della équipe è esonerato da obblighi di controllo sull’operato altrui.

Si tratta di un canone di distribuzione della responsabilità colposa fra più titolari di obblighi di diligenza sorto in Germania con riferimento ai rapporti tra i diversi partecipanti alla circolazione stradale. In Italia è stato recepito6 nell’ambito delle attività pericolose svolte secondo il metodo della divisione del lavoro, in generale, e nell’ambito della attività medico chirurgica in particolare.

Come detto, il nucleo essenziale del principio di affidamento si sostanzia nell’affermare che ciascun titolare di obblighi di diligenza di differente contenuto ma pur sempre orientati alla prevenzione dei medesimi pericoli, è autorizzato ad attendersi che coloro i quali con lui interagiranno, vi daranno effettivamente corso, esonerando il primo da qualsivoglia obbligo di controllo sulla correttezza delle loro prestazioni.

Il limite di operatività è dato dalla sussistenza di indizi suscettibili di infirmare l’originaria aspettativa di un altrui comportamento conforme alle richieste di diligenza. In tal caso, di converso, l’affidante dovrà adottare una condotta idonea a fronteggiare gli effetti dell’altrui inosservanza alle regole di diligenza.

6 Senza alcuna pretesa di completezza, in dottrina si segnala: MANTOVANI, Il principio di affidamento nella teoria del reato colposo, Milano, 1997; MARINUCCI-MARRUBINI, Profili penalistici del lavoro medico-chirurgico in équipe, in Temi, 1968, 217; BELFIORE, Sulla responsabilità colposa nell’ambito della attività medico chirurgica in équipe, in Foro It., 1983, II, 167; e, in giurisprudenza: Pret. Bologna, 31.5.1996, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1997, 1043; Pret. Verbania, 11.3.1998, in Ind. Pen., 1999, 1187; Cass. 1.2.1996, Roghi, in Cass. Pen., 1997, p. 2074; Cass. 13.9.2000, n. 9638, Troiano.

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Il principio di affidamento legittima l’aspettativa dei membri del gruppo di lavoro sul fatto che ciascuno osservi i propri obblighi di diligenza; si rileva, che non si tratta di un soggettivo strato di fiducia, sibbene di uno strumento per la ripartizione delle rispettive responsabilità, che restringe l’ambito dei doveri di diligenza e quindi la portata dell’impegno da riferirsi a ciascuno dei garanti.

E’ stato pure sostenuto che il principio di affidamento costituisca una emanazione del principio di uguaglianza (art. 3 Cost.) tra ciascun garante, “che allo stesso modo in cui l’ordinamento si attende da lui l’osservanza dei precetti di diligenza… parimenti esso si attende lo stesso dagli altri consociati” 7.

Con specifico riguardo alla responsabilità del capo équipe dottrina e giurisprudenza non fanno discendere automaticamente una responsabilità a suo carico. Egli, infatti, non risponde degli eventi verificatisi in danno del paziente in conseguenza di ogni difettosa esecuzione dei rispettivi compiti da parte dei suoi collaboratori, per effetto di questa sua sola posizione: occorre, in più, che al soggetto investito di questa qualità si siano presentate situazioni di carattere oggettivo o soggettivo tali da far dubitare dell’idoneità dei relativi collaboratori a fronteggiarle nel rispetto degli standards di diligenza da loro rispettivamente pretesi8.

La giurisprudenza, dal canto suo, al cospetto della problematica della divisione del lavoro cui si fa cenno, subordina l’insorgere di un dovere di controllo, ed il correlativo venire meno di un affidamento tutelabile, alla sussistenza di entrambe le condizioni esposte (posizione di sovraordinazione gerarchia e ragioni inducenti a dubitare dell’idoneità dei collaboratori ad assolvere correttamente ai compiti loro assegnati).

Tra le decisioni rappresentative di questo orientamento si segnalano: App. Bari, 26.1.1981, Lilli e altro, ove si esclude la responsabilità del chirurgo capo équipe in relazione alla morte di una paziente conseguente alla dimenticanza od allo smarrimento di una garza nel ventre della medesima, fatti ascritti ad altri medici che avevano proceduto all’intervento; Cass. Sez. IV, 7.11.1988, Servadio, laddove, previa identificazione a carico del capo éqiupe di un obbligo di attivarsi ai sensi dell’art. 40 cpv., c.p., si fa notare, a proposito delle condizioni efficienti a dar luogo ad una responsabilità del capo équipe, che questi, “una volta concluso l’atto operatorio in senso stretto, qualora si manifestino circostanze denunzianti possibili complicanze, tali da escludere la assolta normalità del decorso post-operatorio, non può disinteressarsene…ma ha obbligo di non allontanarsi dal luogo di cura…di attuare quelle cure e quegli interventi che una attenta diagnosi consiglia e, altresì, di vigilare sull’operato dei collaboratori; Cass. Sez. IV, 9.2.1993, 7 MANTOVANI, Alcune puntualizzazioni sul principio di affidamento, in Riv. It. Dir. Proc. Pen. 1997, 1057. 8 FIANDACA MUSCO, Diritto Penale, Parte Generale, III ed., p. 500.

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Giordano, nella quale, si precisa che “nei lavori eseguiti in équipe, …lo stabilire se sussista o meno un obbligo di controllo e di sorveglianza dipende, da un lato, dalla posizione gerarchica che ciascun partecipante occupa in seno all’équipe, e, dall’altro, dall’esistenza di ragioni oggettive e soggettive che fanno dubitare del fatto che il terzo tenga un comportamento conforme a diligenza.

10. Il consenso all’attività medica.

Il trattamento medico-chirurgico, anche nel caso di esito fausto,

sembra integrare gli estremi del fatto penalmente tipico, fatto che si assume scriminato dalla presenza di una causa di giustificazione, individuata alternativamente nell’esercizio del diritto, nell’adempimento del dovere, nel consenso dell’avente diritto, ovvero nello stato di necessità. Peraltro, nell’ambito di ciascuna delle diverse ipotesi ricostruttive ora richiamate, si osserva che il consenso del paziente si pone come presupposto indefettibile per il lecito intervento del sanitario9.

Invero, il rapporto tra medico e paziente risulta caratterizzato <dall’incomprimibile, libera e consapevole autodeterminazione di ogni scelta che investe l’ambito della salute e dell’integrità fisica. La sensibilità collettiva non dubita della collocazione nell’area dell’illecito penale della terapia non consentita>10.

L’assunto trova precisi riferimenti nella Carta fondamentale, segnatamente nella affermazione: della inviolabilità della libertà individuale (art. 13), della tutela della salute co11me fondamentale diritto dell’individuo (32, comma 1), del divieto di trattamenti sanitari obbligatori (32, comma 2).

Nell’ambito delle superiori considerazioni si inquadra il seguente duplice problema: a) la liceità della lesione e della sofferenza, in cui si concreta l’intervento medico chirurgico; b) la non punibilità dell’eventuale esito infausto12, salvo il caso in cui sussista la riferibilità colposa dell’evento.

Il consenso del paziente alla attività medico chirurgica terapeutica deve essere reale, informato o consapevole, specifico.

Come noto, la prova del consenso può inferirsi dalla apposizione della firma sui moduli predisposti dalle strutture sanitarie. La 9 ARCERI, Riflessi penalistici dell’esito infausto dell’attività medico-chirugica, in Giur. di Merito, 1993, IV, 878,ss. 10 POLVANI, Indicazioni giurisprudenziali e considerazioni critiche sul consenso all’attività medica, in Foro It., 1996, II, 190. 11 12 MANTOVANI, Diritto Penale, Padova, 1988, 273.

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giurisprudenza maggioritaria ritiene, al riguardo, che la sottoscrizione del relativo modulo valga come indizio (e non già quale prova) di espressione di valido consenso.

Il consenso informato presuppone, ovviamente, che il medico curante dia al paziente un bagaglio informativo adeguato. Sul punto, il codice etico prevede che il medico si impegni a “dare al paziente, tenendo conto del suo livello di cultura e di emotività e delle sue capacità di discernimento, la più serena ed idonea informazione sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive terapeutiche e sulle verosimili conseguenze della terapia e della mancata terapia” (art. 29 del Codice Deontologico).

Quid juris, per il caso di trattamento medico chirurgico effettuato in mancanza del consenso del malato ?

I casi maggiormente problematici si verificano nell’ipotesi in cui si prospetti a posteriori una invalidità del consenso (es., per difetto di adeguata preventiva informazione), ovvero qualora il medico effettui un intervento diverso da quello per il quale il paziente aveva prestato il consenso.

Sul punto, il leading case è dato dalla decisione della Corte di Assise di Firenze, che ha ravvisato la sussistenza del delitto di lesioni volontarie nella condotta del chirurgo che, in corso di intervento e senza il consenso del paziente, muti le modalità operatorie, in assenza di condizioni di necessità, cagionando al malato diverse e più estese lesioni; e conseguentemente, per il caso di esito infausto, la condotta è stata qualifica nell’ambito del delitto di omicidio preterintenzionale13.

Peraltro, al caso Massimo sono seguite pronunce che hanno (diversamente) qualificato la condotta lesiva del medico che abbia agito in assenza di valido consenso, nell’ambito del delitto di lesioni colpose14. Interessante rilevare che nel caso i giudici argomentando sulla base delle complessive emergenze probatorie, ritengono che la paziente avesse certamente manifestato il consenso, nonostante il difforme tenore delle affermazioni giudiziali della stesse paziente.

Per il caso di intervento cruento, realizzato dal medico in assenza di valido consenso da parte del malato, come si è visto, la giurisprudenza ha qualificato la condotta del sanitario sub art. 582 c.p.. Sul punto, un autore si domanda se “la condotta del chirurgo sia astrattamente, di per sé, qualificabile come un fatto di lesioni, equiparando la condotta del chirurgo che affonda il bisturi a quella del teppista che mena un fendente con il coltello a serramanico”; e rilevando che tale equiparazione appare inconferente, atteso che la condotta di lesioni è “proiettata alla causazione

13 Assise Firenze 18.10.1990, in Foro it. 1991, II, 236; decisione di poi confermata da Cass. 21.4.1992, Massimo, in Riv. Pen. 1993, 42. 14 Si veda Gip Tribunale di Arezzo, 31.3.1994, ed in particolare Corte Appello Firenze, 11.7.1995, In Foro it. 1996, cit., che conferma la decisione del Gip di Arezzo.

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di uno stato di malattia [mentre] l’intervento chirurgico …non procura …uno stato patologico …ma viceversa un beneficio”15.

Mette conto rilevare che si registrano, peraltro, recenti decisioni della Corte regolatrice che escludono la rilevanza dolosa della condotta del sanitario che esegua un intervento demolitivo in assenza di specifico consenso, nel caso in cui il paziente avesse prestato consenso solo per un intervento di dimensioni ablative più ridotte16.

Altra ipotesi si ha nel caso cui il paziente manifesti un esplicito dissenso alle cure. In questo caso, si richiede che il dissenso sia attuale, cioè temporalmente contiguo rispetto alla situazione di pericolo di vita, perché diversamente scatta l’obbligo per il medico di intervenire per la salvezza di una vita umana.

I casi maggiormente problematici tradizionalmente si rinvengono: a) in ipotesi di tentato suicidio, cui faccia seguito il trasferimento dell’agente presso una struttura sanitaria in stato di incapacità naturale; b) in ipotesi di rifiuto espresso di cure, qualora il malato versi in pericolo di vita.

Con riguardo al caso sub a), si rileva che il medico assume nella fattispecie una posizione di garanzia (recte: di protezione) c.d. originaria, verificandosi una situazione di necessità terapeutica. In tale ipotesi, si ritiene che il medico abbia il dovere di agire a tutela della vita del malato, anche contro la sua volontà. Diverso il caso, in cui il medico assuma una posizione di protezione c.d. derivata, qualora cioè sia stato il paziente a rivolgersi al medico. In tale seconda ipotesi, si instaura un rapporto (para)negoziale tra medico e paziente, ed in tale ambito si ammette che il paziente possa manifestare, per il futuro, un valido rifiuto alle cure.

Si rileva che la materia è oggetto del disegno di legge n. 2279, in discussione al Senato, dal titolo: “Disposizioni in materia di consenso informato e di dichiarazioni di volontà anticipate nei trattamenti sanitari”. Punto centrale del provvedimento è la tutela della autodeterminazione del malato nel campo delle cure mediche; ed infatti, viene espressamente previsto il potere di rifiuto di cure mediche anche in caso di pericolo di vita e l’esonero da ogni responsabilità per il sanitario “indipendentemente da qualunque disposizione di legge vigente prima delle data di entrata in vigore della presente legge” (art.2). Oltre a ciò, (art. 3), viene disciplinato il c.d. testamento biologico, riconoscendosi il diritto di ogni persona capace ad esprimere il proprio consenso od il proprio rifiuto in relazione ai trattamenti sanitari, anche per il tempo successivo alla perdita della capacità naturale.

15 POLVANI, Indicazioni giurisprudenziali, cit, 193. 16 Cass. 12.7.2001, n. 28132, Barese; nel caso la Corte ha configurato il reato di omicidio colposo a carico del chirurgo che aveva eseguito, in assenza di ragioni di urgenza, l’asportazione di una massa tumorale e degli organi genitali, pur in presenza del consenso espresso soltanto per l’asportazione di una cisti ovarica.

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La Corte regolatrice ha rilevato che “In tema di attività medico-chirurgica deve ritenersi che il medico sia sempre legittimato ad effettuare il trattamento terapeutico giudicato necessario per la salvaguardia della salute del paziente affidato alle sue cure, anche in mancanza di esplicito consenso, dovendosi invece ritenere insuperabile l’espresso, libero e consapevole rifiuto eventualmente manifestato dal medesimo paziente, ancorchè l’omissione dell’intervento possa cagionare il pericolo di un aggravamento dello stato di salute dell’infermo e, persino, la sua morte”17.

Particolari difficoltà si registrano nel censire adeguatamente l’ipotesi in cui, in conseguenza dell’intervento illecito del sanitario per difetto di consenso, si verifichi la morte del malato.

Occorre, invero tenere distinto il piano di rilevanza del consenso, che legittima l’intervento del sanitario, da quello della eventuale violazione delle regole di diligenza da parte del medico, violazione che dovrebbe rilevare comunque sul piano della colpa. La questione appare centrale, attesa l’opinione prevalente18, che ravvisa nel trattamento chirurgico arbitrario un’offesa all’interesse protetto dalla norma incriminatrice di cui all’art. 610 c.p.; e che individua, per il caso di effetti lesivi ovvero letali, la rilevanza penale della condotta del medico ai sensi dell’art. 586 c.p.19.

In tale ipotesi ricostruttiva si innesta poi la questione dell’ambito di operatività della norma di cui all’art. 586 c.p.; come noto, secondo l’interpretazione prevalente, la disposizione richiede l’accertamento di un reale profilo di colpa in capo all’agente, sì che sfuggirebbe la rilevanza penale di un intervento cruento illecito, per mancanza di consenso, al quale consegua la morte del paziente, qualora il gesto operatorio sia avvenuto nel rispetto delle specifiche regole di diligenza20.

17 Cass. 11.7.2002, n. 26446, PG in proc. Volterrani; ritiene la Corte che qualora il medico effettui il trattamento sanitario rifiutato sia da escludere il reato di omicidio preterintenzionale, non potendosi ritenere che le lesioni chirurgiche, strumentali all’intervento terapeutico, rientrino nella previsione di cui all’art. 582 c.p.; e potendo ravvisarsi il reato di violenza privata. 18 MELILLO, Condotta medica arbitraria e responsabilità penale, in Cass. Pen., 1993, 65 ss. 19 La soluzione riportata nel testo torva riscontro nell’intervento di ARCERI, Riflessi penalistici, cit, p. 887, ove si ipotizza la ricorrenza dei delitti di sequestro di persona e stato di incapacità procurato mediante violenza, con riguardo all’intervento del sanitario in difetto di consenso. In termini, si segnala Tribunale di Palermo, 25.7.2001, in Giur. di merito, 2002, II, 506, s.m.; nel caso i giudici rilevano che in condizioni non necessitate dall’urgenza il sanitario non può agire senza ottenere preventivamente un valido consenso informato; che deve rispondere di un delitto doloso quando intervenga arbitrariamente; e che di conseguenza il medico risponde, quanto meno, del reato di violenza privata qualora operi senza che il paziente abbia rilasciato un consenso informato, salva l’ulteriore responsabilità anche a norma dell’art. 586 c.p., ove l’intervento abbia esito infausto o comunque dannoso per il paziente. 20 In argomento si segnala NAPPI, La responsabilità penale del medico, in La responsabilità professionale del medico, AAVV, Lanciano, 2000, 26, secondo il quale il trattamento sanitario arbitrario appare riprovevole in quanto atto di sopraffazione e di violazione della libertà individuale del paziente, non per il danno che solo eventualmente può arrecargli.

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11. Conclusioni. La sentenza della SU dell’11.9.2002 contiene gli anticorpi della democrazia (Stella): nel comporre il contrasto tra leggi statistiche (100 contro 30%), richiamando i principi fondanti l’arte del giudizio la Corte regolatrice ci ricorda che l’affermazione di responsabilità penale è possibile solo quando sia dato ritenere in termini di certezza processuale (i giudici non trasformano più l’albo in nigro) che la condotta omissiva dell’imputato sia stata condizione necessaria dell’evento hic et nunc verificatosi, evento attribuibile perciò all’agente come fatto proprio colpevole. Il ragionevole dubbio sul ruolo svolto nella sequenza causale dai diversi antecedenti rilevanti, indubbiando l’efficacia condizionante della singola condotta omissiva, non può non comportare la neutralizzazione dell’ipotesi di accusa. La causalità del processo penale è la causalità individuale. La ascrivibilità colposa dell’evento, parimenti, non può prescindere da una specificazione soggettiva della condotta, operazione tanto più necessaria nei casi di attività medico chirurgica, attività che con frequenza crescente, proprio in considerazione dei progressi tecnologici e scientifici raggiunti dalla medicina, si svolge con l’intervento simultaneo di più professionisti. L’intuizionismo del giudice, frutto della concezione autoritaria del diritto penale, lascia spazio al terreno della spiegazione razionale dei fenomeni umani censiti in giudizio; il diritto vivente individua nel principio della personalità della responsabilità penale (27 Cost.), anche l’inedita enunciazione di un canone di giudizio. La giusta tutela delle vittime impone, allora, il ricorso a regole processuali certe, tassative, la cui interpretazione non soffra della eterogenesi dei fini: procediamo per tentativi, ma la strada imboccata è quella della approssimazione alla verità21.

Andrea Montagni

21 STELLA, Etica e razionalità del processo penale, cit., 48.

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