c'era 'na vota
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Un viaggio a ritroso nel tempo a ricostruire, sul filo della memoria, gli anni spensierati dell’infanzia e della prima giovinezza che, seppure travagliati e non immuni da privazioni e stenti, erano fondati su saldi rapporti interpersonali, animati da sani principi, e caratterizzati da una serenità e felicità che molti oggi cercano, “in questi tempi d’arroganza, d’invidia, dell’apparire ad ogni costo”, senza riuscire a trovarle forse”per disimpegno, trascuratezza, paura di sbagliare”.TRANSCRIPT
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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C‟era „na vota (frammenti di memoria)
Giovanni D‟Angelo
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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Prefazione di Eugenio Giannone
“solamente quello che ho visto…
Solamente quello che ho udito…
Racconterò… null‟altro.”
“a li vastuna di la me vicchiaia”
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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“ Per sapere chi si è oggi è importante sapere chi si è stati … una persona è la somma delle sue memorie.”
Ringrazio Il Prof. Eugenio Giannone per la Prefazione
Il Prof. Gaspare D‟Angelo per la nota dell‟Editore
Il Dott. Angelo Abella per lo spartito musicale
Il Sig. Vincenzo Ingravidi per i disegni
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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Prefazione
Un viaggio a ritroso nel tempo a ricostruire, sul filo della
memoria, gli anni spensierati dell‟infanzia e della prima
giovinezza che, seppure travagliati e non immuni da
privazioni e stenti, erano fondati su saldi rapporti
interpersonali, animati da sani principi, e caratterizzati da
una serenità e felicità che molti oggi cercano, «in questi
tempi d‟arroganza, d‟invidia, dell‟apparire ad ogni costo»,
senza riuscire a trovarle forse «per disimpegno,
trascuratezza, paura di sbagliare».
«C‟era „na vota» è un archivio della memoria, che non
vuole imporre modelli di vita ormai improponibili ma
invitare a riscoprire determinati valori, magari datati,
eppure insostituibili anche in questa società dell‟usa e
getta, che pare refrattaria a ogni tipo di sollecitazione,
onnivora, che tritura ogni cosa, tutte le mode, senza
pensare a quello che potrà essere domani.
La colpa non è dei giovani ma nostra – e questo è il
grande rammarico di Giovanni – ché non abbiamo saputo
trasmettere i valori cui da piccoli siamo stati informati,
abdicando al ruolo di genitori-educatori, dimenticando la
lezione dei padri. Che i giovani sappiano, che i meno
giovani rammentino, prima a se stessi e poi agli altri, per
non disperdere il ricco patrimonio della nostra storia
sociale, civile e politica, nel quale affondano le nostre
radici, la cui conoscenza è indispensabile per capire il
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presente e costruire consapevolmente il futuro,
trasmettendoci, da generazione in generazione, il testimone
della civiltà.
In questo film, ricco di flash back, riemerge la storia del
popolo ciancianese, l‟analisi d‟uno spaccato d‟altri tempi in
cui non c‟erano cioccolattini, caramelle o giocattoli da
offrire ai bambini ma tutto aveva un gusto particolare
condito con «odori, sapori, natura e compagnia» perché
esisteva ancora l‟epopea del vicinato, che si manifestava
nei momenti belli e gai dell‟esistenza (fidanzamenti,
matrimoni, serenare notturne etc) e in quelli tristi (i
decessi, per esempio), che coinvolgevano parenti, amici,
vicini di casa.
Riemergono momenti salienti della vita quotidiana e
figure che sembrano uscire da un libro di fiabe, poetiche e
drammatiche nella loro consistenza ; uomini che
svolgevano con umiltà e decoro le loro mansioni perché il
pane era « duci » e i bambini aspettavano con la bocca
aperta: lo stagnino, il lattaio che con le sue capre o vacche
serviva a domicilio i clienti, il conciapelle, il mediatore
(sinzali), il conzalemme (conciabrocche), il banditore
(vanniaturi), il ciaramiddaru (zampognaro), gli ambulanti
(es.: l‟arrotino), il cantastorie che intratteneva in piazza con
la sua chitarra e il suo telo istoriato. In piazza, sotto la
Torre dell‟Orologio, dove, prima che albeggiasse si
riunivano operai e braccianti nella speranza di essere scelti
per una giornata di lavoro e che dall‟imbrunire, o durante
le ore delle giornate piovose, affollavano i laboratori
artigiani (allora numerosi) di sarti, calzolai, barbieri
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trascorrendo amenamente il tempo tra frizzi e lazzi,
scambiandosi informazioni ed esperienze, commentando
l‟accaduto, cantando e sparlando di tutto e di più.
L‟amarezza per la povertà diffusa, per la sporcizia, per le
condizioni igieniche precarie, per i sacrifici atti a far
studiare (arrinesciri) un figlio che riscattasse tutta la
famiglia, il tenero ricordo di mamme e donne
perennemente incinte vengono stemperati dal ricordo della
semplicità dei costumi e dell‟amicizia disinteressata, che si
cementava ogni sera, attorno al braciere, quando qualcuno
rievocava le vicende del Conte di Montecristo, dei Beati
Paoli, della Bella dei sette veli, affabulando e incantando i
fanciulli che cascavano dal sonno; anche dal ricordo della
spensieratezza dei giochi ruspanti, dell‟ingegnarsi
giovanile per procurarsi i soldi per il biglietto del
cinematografo, dei rimedi empirici ma efficaci per curare
malattie e far rimarginare in fretta le ferite (li merchi) di
cui erano ricchi i figli della strada, quali erano tutti i
bambini, che trascorrevano il loro tempo negli
immondezzai, rincorrendosi, schiamazzando e liberando la
loro fantasia. Non tutti potevano farlo: a sette anni molti
erano già uomini, abbandonavano le elementari andando a
lavorare in campagna, in zolfara o apprendendo un
mestiere, che generalmente era quello del padre. Andavano
laceri, scalzi, erano denutriti, rachitici e suscitavano una
gran pena; tanti morivano in tenera età con dispiacere
anche dei maesrti che a quei tempi adottavano la «didattica
della virga». Tempi travagliati, amari, certamente, in cui
ogni persona svolgeva un suo ruolo, ogni cosa occupava un
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posto preciso e le stagioni erano scandite dalla fatica,
soprattutto contadina, dalla sacralità del lavoro e dalla
santità del focolare con i suoi principi, dai riti religiosi
molto partecipati, dalle tradizioni, dalla percezione di tante
virtù e dalla saggezza degli anziani.
Beato chi ha un paese da raccontare : il paese è
Cianciana, ma potrebbe essere uno qualsiasi del Meridione;
un paese che dagli anni del racconto ha più che dimezzato
la sua popolazione, falcidiata dall‟emigrazione, con i suoi
innumerevoli problemi irrisolti, con le sue incombenze, le
sue abitudini e tradizioni che, in C’era ’na vota, vengono
esposte in un linguaggio infarcito di termini dialettali che
gli conferiscono un tocco esotico, spontaneo, discorsivo,
parlato e che non per questo perde di incisività,
ammaliatore, parenetico, teso alla riproposizione di valori
che è «peccato far perdere».
Per concludere: un‟opera che va degnamente a collocarsi
accanto a quelle di altri autori ciancianesi di storia e
costume, di tradizioni popolari, ambiente etc, colmandone
un vuoto e della quale siamo grati all‟Autore.
Cianciana, Settembre 2007
Eugenio Giannone
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Introduzione
Diversi hanno cercato di non fare perdere quelli che sono stati la
vita, le tradizioni, gli usi i costumi tipici della nostra gente
ciancianese; tanti i temi, gli argomenti ma i più restano sempre da
raccontare da trasmettere a chi viene dopo di noi per avere
conoscenza e sapere quali le loro origini, le loro radici, da dove
vengono...per non dimenticare!
Le pene e le gioie, le proverbiali battute e lo spirito di sapersi
sempre porre in tante occasioni della vita quotidiana creando
intorno a se attenzione e interesse ma senza porsi a protagonista;
i sentimenti di altruismo, di solidarietà quasi sempre
disinteressata, quell‟essere ciancianese “surfararazzu”, vorrei
testimoniare, perchè non venisse dimenticato.
Oggi tanto di quello che scriverò è stato dimenticato; chi ha già
passato il mezzo secolo di vita può ricordare quale era la
quotidianità della gente ciancianese di cui molti sono dovuti
andare in terre lontane per trovare un pezzo di pane e certamente
hanno portato dentro lo scrigno dei loro cuori le sofferenze, i
sacrifici, le gioie e i dolori; altri più fortunati hanno percorso la
strada del sapere andando a vivere là ove c'era le università e
conseguentemente non hanno potuto seguire bene la quotidianità
del proprio paese;
altri, e questo è più grave, che hanno vissuto quei tempi e che
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sono nelle condizioni di poterlo fare, per disimpegno, per
trascuratezza, forse per paura di sbagliare e di non essere fedeli
alla realtà con conseguenti critiche negative, non trattano tali
argomenti.
Dunque mi convinco sempre di più che è giusto e doveroso,anche
andando incontro alle immancabili critiche, trasmettere da quali
radici siamo stati nutriti nella nostra crescita per riappropriarci di
quei valori
positivi che oggi, purtroppo, sono considerati obsoleti e deboli
quali il rispetto, l'umiltà, la fratellanza, la solidarietà,
privilegiando l'indifferenza, la superbia, l'arroganza, l'invidia e,
cosa più grave, il quasi allontanamento dal concetto di
prossimo...dai comandamenti Divini.
Se chi sa farlo, se chi può farlo, se chi è nelle condizioni di
ricordare e scriverlo “si scanta”questi miei disordinati appunti
siano di sprone di incitamento di sollecito ad operare in questa
direzione,
nella giusta direzione, nella direzione del non dimenticare.
Certo non tutto quello che era riuscirò a scrivere, tantissimo non
sarà da me trattato dato che non sono nelle condizioni di
ricordare perfettamente ciò che era la vita quotidiana di allora
ma quello che ho vissuto, che ho visto, che riesco a ricordare, lo
scriverò cercando di non alterare la realtà ne tanto meno
sminuirla, aiutandomi anche col dialetto corrente che in certe
circostanze è il miglior modo per descrivere
fatti,azioni, modi di dire e di fare che facevano parte della
quotidianità degli anni quaranta e cinquanta, lasciando alla
immaginazione di chi legge quello che doveva essere la vita
qualche decennio precedente a quello che ho vissuto.
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Memoria
Mio Padre andava a lavorare la mattina presto e via Lui tutta
l'attenzione di mia Madre era rivolta a me piccolo ragazzino che
sotto le sue ali protettive mi accingevo ad affrontare la vita nella
nostra società.
Dopo avermi lavato e vestito mi faceva sedere sul gradino
d'entrata di casa “aspetta ddocu e non t'arrassari”
mi diceva.
Stavo lì seduto buono buono in attesa che arrivasse l'ora per
portarmi all'asilo dalle sorelle monache Orsoline.
Sì, perchè a Cianciana avevamo le monache Orsoline;
avevano i locali attigui alla chiesa Madre, erano quattro a volte
cinque ed oltre che accudire ai bisogni della chiesa ed a dedicarsi
alle opere pie tra i bisognosi del Paese, tenevano i bambini per
mezza giornata insegnando loro “li cosi di Dì “ facendoli
giocare nel giardino, attiguo ai locali, tenendoli lontani dai
pericoli e dalle sporcizie delle strade (che c'erano !); le mamme
vi portavano i loro bambini (la mia era tra queste) non tanto
perchè mancava il tempo da dedicare ma per dar loro la
possibilità di imparare a stare ordinati, obbedienti dato che a
casa c'era sempre la tolleranza materna ma in particolare dei
nonni ad accontentare i capricci dei bambini.
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Li Picciotti ( I Ragazzi )
Mentre aspettavo seduto su quel gradino vedevo tanti ragazzi che
si recavano a scuola,con i musi lunghi e gli occhi grossi e pieni di
sonno; per lo più mal vestiti con giacchette rattoppate e con le
maniche sempre corte; le camicie sgualcite ed incolore avevano
quasi sempre i colletti piegati in avanti formando due corna; ai
piedi quasi sempre scarponi troppo grandi per la loro età con le punte
aperte e le suole piene di “tacci “chiodi con le teste grosse per durare
di più.
Tanti ragazzi andavano a scuola con le scarpe sulla spalla temuti
assieme con i legacci e li mettevano prima di entrare in classe.
Infilato a tracollo avevano una specie di saccoccio fatto di stoffa
dentro cui tenevano un quaderno quasi sempre sgualcito, un
pezzettino di matita e non sempre il libro di lettura perchè la
famiglia non aveva i soldi per comprarlo.
Non c'era merenda dentro il saccoccio, il pane era scarso e quel pò
che i papà portavano a casa veniva diviso tra tutta la famiglia sempre
numerosissima, i ragazzi aspettavano il “mangiare” che il Patronato
scolastico offriva dopo le ore di scuola ai bambini bisognosi per
potersi sfamare e mettere nello stomaco un pasto caldo quasi sempre
composto da pasta “cavatuna grossi “e fagioli ( il tutto gustosissimo )
seguito da una fetta di pane ed un pezzetto di cotognata.
Molti ragazzi andavano a scuola più per il mangiare che per
imparare a leggere e scrivere.
I ripetenti ,anche di due tre anni,erano in molti che abituati fin da
piccoli a correre e giocare per le strade non avevano voglia di andare
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a scuola e non studiavano; a casa nessuno poteva aiutarli a fare i
compiti perchè il novanta per cento della popolazione era
analfabeta.
Non tutti potevano andare a scuola, molti ragazzi fin dalla tenera
età andavano a lavorare nelle campagne o nelle miniere oppure
andavano a “garzuni “a servizio presso benestanti che li
compensavano dando loro da mangiare e vestendoli, venivano trattati
bene specie se i padroni non avevano figli e veniva loro riservato un
trattamento particolare se si fossero dimostrati onesti difendendo gli
interessi ed ubbidienti alle direttive dei padroni.
Ogni tanto si affezionavano in maniera particolare da ambo le
parti, in questi casi il benestante padrone chiedeva alla famiglia di
provenienza del ragazzo,sempre numerosa e a corto di mangiare, di
poterlo adottare come “figlio d'arma “cioè lo acquisiva a tutti gli
effetti legali a far parte della loro famiglia anche nel cognome, era la
massima fortuna che potesse capitare.
Erano ragazzi quasi sempre smilzi con visini scarni, con occhi
grandi e vispi, intelligenti, ma patiti nel corpo privi delle sostanze
necessarie alla loro crescita.
Poi c'erano i ragazzi che andavano a lavorare nelle viscere della
terra “a la surfara “per nulla, neanche un piccolo compenso,no, ma
davano la possibilità al proprio padre di avere una lavoro sicuro e
portare un pane a casa ove oltre la mamma spesso altri quattro o
cinque fratelli più piccoli aspettavano come uccellini nel nido
(sempre affamati con la bocca aperta). Era una categoria molto
sfruttata lavoravano per diedi dodici ore al giorno sotto terra alla
flebile lucetta di una acetilena ( la citalena ) quasi al buio per il
corrispondente in denaro quanto bastava per comperare un chilo di
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pane al giorno; il pagamento veniva effettuato ogni quindici giorni e
più con il conseguente indebitamento delle persone verso le botteghe
che fornivano loro il necessario per vivere. Il portarsi appresso il
figliolo spesso in tenera età e farlo lavorare per nulla era una
maniera per garantire al padre il posto di lavoro e dare al padrone del
lavoro gratis e senza pretese, cìò faceva comodo a tutti e due ma non
al piccolo che cresceva spesso deformato nelle ossa e con il gibbo (
lu immu ), preclusione e sofferenza per tutta la vita (spesso il tipo
“immirutu “non trovava moglie facilmente ed era escluso da tanti
lavori ).
Vederli ritornare a casa la sera tardi, era una pena; con addosso un
pantalone che era appartenuto al padre o al fratello maggiore, con una
camiciola sempre rattoppata, con “la sacchina” e la “citalena” che
facevano parte integrante del loro vestimento, ritornavano a casa
dopo dieci dodici ore di duro lavoro, accanto o appresso al padre,
anch'esso col viso “scalamistrato e stancu “da sembrare malaticcio.
“Poviru surfararu sbinturatu” lo definì il Poeta ed a ragion vista,
solo a guardare quei ragazzi di nove, diedi, undici anni, già
sembravano adulti tra i vecchi.
Molti altri oltre la scuola o il lavoro il loro tempo libero lo
passavano per le strade a giocare; giochi poveri ed innocenti fatti di
povere cose o addirittura di fantasia; giocavano “a li mazzi”, “a li
chiappi”, “a li liscira”, “a lu turnachettu”, “a zuppareddu”, “a li
vasti”, “a sajita la cerba”, “a lu zuzzu”, “a li quattru canti”, “a
mucciareddu”, “a li pumetta”, “a lignu longhu”, “a la corda”, “a lu
cuculijolu”, questi quelli che mi vengono alla mente e che non
richiedevano strumentazione particolare perchè necessitavano di
poverissime cose e tanta fantasia; alcuni ragazzi giocavano “a la
strummula”, “a la palla”, “a li bucatura”, “cu lu manipattu”, questi
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già richiedevano un piccolo costo che non tutte le mamme riuscivano
a risparmiare per fare divertire i propri figli... ed ogni famiglia ne
aveva tre quattro spesso cinque o sei.
La mattina appena alzati “scurciati di lu lettu” venivano mandati a
giocare per le strade ( in casa spesso non c'era spazio ) “fora ssi
cifari ca cca un c'è largu”.
Per le femminucce il discorso cambiava, per queste niente strade,
sempre in casa “a la pudia di la matri” ad imparare le faccende
domestiche e guardate a vista dal padre o dai fratelli; ogni tanto
davanti la porta o nella strada di casa a giocare con qualche altra
ragazzina con la bambola di pezza o a “zuppareddu”.
Il Paese era pieno di ragazzi per le strade era tutto un vociare
, grida, pianti, stramazzi, richiami di mamme, urla di adulti che
spinti dalla disperazione se la prendevano con i familiari, richiami di
persone che raccoglievano le galline sparse per le strade, cani che
abbaiavano in continuazione notte e giorno, ragli di asini e nitriti di
muli e cavalli,grugniti di maiali che nelle stalle aspettavano
d'ingrassare per fare la festa dei padroni, tutto ciò che oggi è
inimmaginabile allora era realtà.
Ogni rione aveva la sua “banda” di ragazzi che giocavano per le
strade ed a farsi guerra tra di loro nello stesso rione o rione contro
rione “stasira Canaleddu contru San Gaetanu” oppure “La Filicia
contru lu Cummentu” ed era una sassaiola continua da una parte
contro l'altra, con le mani, con fionde, con lancia pietre, e quant‟altro
la fantasia poteva sviluppare.
Spesso capitava che da una sassaiola ne venivano fuori alcuni
ragazzi con la testa rotta ( si faciva lu mercu ), allora si correva a casa
ove le povere mamme, sempre indaffarate nei lavori domestici per lo
più a rattoppare e cucire i panni, alla vista del sangue e con il cuore in
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gola, si metteva a strillare, ingiuriare,a chiedere aiuto alla nonna
sempre vicina o ai vicini di casa che accorrevano sempre numerosi e
curiosi, a cercare “l'ogliu Piricò” liquido miracoloso, composto di
olio d'oliva extra vergine d'oliva mischiato a delle piantine intere di
“piricò” che si usava in queste circostanze e che ogni famiglia teneva
in una bottiglia appesa ad un chiodo “a lu suli e a lu sirenu” cioè
all'esterno della finestra o del balcone.
Quanti ragazzi giravano per le strade ! Ogni quartiere ne aveva
centinaia, le numerosissime classi scolastiche erano composte
ognuna da venticinque e più ragazzi che tutto volevano fare tranne
studiare.
I maestri avevano il loro bel da fare, i ceffoni erano all'ordine del
giorno, le punizioni, spesso severe, facevano parte della didattica
come per esempio impartire dieci colpi sulle palme delle mani con
una bacchetta fatta da un ramoscello dritto e robusto, se si trattava di
elemento particolarmente turbolento,nelle natiche o nelle gambe
queste quasi sempre nude anche d'inverno; la punizione che i maestri
davano a chi commetteva qualcosa di serio era di stare in
ginocchio con due ceci sotto le ginocchia, i ragazzi più delicati
venivano puniti stando in ginocchio per una due ore nel corridoio o
dietro la lavagna.
Oltre le lezioni quotidiane ogni tanto, tempo permettendo, si
facevano delle passeggiate scolastiche , avanti le ragazze con le loro
insegnanti e appresso i ragazzi con gli insegnanti; tenerli in fila era
un grosso problema, chi correva a destra chi a sinistra,. chi tirava le
trecce alle ragazze chi faceva “cazzicatummuli” per farsi notare.
Era uno spasso ed un divertimento ! Una volta all'anno si andava
in un campo a piantare gli alberelli, era la festa dell'albero una
giornata dedicata alla natura ed al rispetto di essa.
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Gli ultimi giorni di scuola erano una festa continua che culminava
con il buttare sui muri dei corridoi il piccolo calamaio di vetro con
l'inchiostro nero che i ragazzi della quarta e della quinta si
portavano a scuola per intingervi il pennino e scrivere, immaginate
quelle pareti!
Chi superava la quinta classe con risultato positivo e secondo il
maestro aveva un particolare trasporto per lo studio, dimostrava di
essere interessato alla conoscenza della cultura, poteva continuare a
studiare alla scuola media ( a li superiori ) non tutti andavano
l'ottanta ed anche più per cento prendevano la via del lavoro nei
campi, nell'edilizia, nell'artigianato numeroso e fiorente.
Tanti andavano all'estero ove erano andati i loro padri prima di
loro in carca di fortuna e benessere che la propria Nazione non ha
saputo dare.
Altri continuavano gli studi, con alterne fortune, incominciando
col frequentare la scuola media che allora in Paese non era presente
e si doveva andare a Bivona utilizzando il treno che si andava a
prendere alla stazione ferroviaria a due chilometri fuori Paese o la
corriera che partiva da sotto l'orologio ma costava più cara del
treno.
A Bivona si studiava fino al terzo liceo classico, poi si andava a
Palermo all'Università.
Mantenere un figlio all'Università non era cosa facile, i sacrifici
erano considerevoli e motivo di grande orgoglio, infinitamente
maggiore per chi riusciva a laureare il proprio figlio; tutto il Paese ne
parlava per diversi giorni era l'oggetto delle discussioni che si
facevano in piazza o in famiglia; le ragazze dopo le elementari,
stavano a casa ad imparare a fare le buone e brave donne di casa,
mogli, madri ma....anche per loro la vita incominciava a cambiare e
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sempre più spesso i genitori permettevano il proseguimento degli
studi come i ragazzi.
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A la Sacristia (Alla Sacrestia )
Non c'erano divertimenti la sera e moltissimi ragazzi si
ritrovavano nelle sacrestie delle Parrocchie ove i preti mettevano
a disposizione tanti giochi e passatempi; si stava volentieri due
tre ore fino a che spesso nelle sere invernali fredde e piovose,
veniva il Papà o un fratello maggiore a prelevarli e portarli a
casa.
Spesso il Prete sospendeva i giochi e invitava i presenti a
recitare le preghiere e a studiare “li Cosi di Dì”.
Certo non erano graditi a tutti quelle sospensioni anzi spesso
qualcuno riusciva a sgattaiolare e andare via erano i più
irrequieti quasi tutti restavano a pregare per poi continuare a
giocare.
In quei locali il vociare era assordante, ma c'era un'atmosfera
di serenità di fratellanza di affetto fraterno; certo ogni tanto
avveniva qualche piccola lite o qualche incomprensione, erano
tutti ragazzi, ma l'intervento del parroco o del capo “aspiranti”,
metteva tutto a posto; penso che molte coscienze, molti caratteri
gentili, altruisti, rispettosi, si venivano forgiando proprio in
questi posti sotto la guida e lo sguardo attento dell'Arciprete!
Che orgoglio quando si entrava a far parte dell'Azione
Cattolica !
Prima “fiamma bianca” poi “fiamma verde” poi “fiamma
rossa” infine aspiranti giovani cattolici.
Con orgoglio si portava la fascia a tracolla e si sedeva nel coro
per seguire la s. Messa della Domenica; c'era un qualcosa di più
che molti altri non avevano o non potevano avere perchè
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obbligati ad andare a lavorare e la sera erano stanchi e dovevano
riposare o non volevano avere perchè preferivano le amicizie
delle strade il correre ed il fantasticare tipico della gioventù.
Qualcuno che riusciva a racimolare dieci lire poteva andare al
cinema che si trovava ove adesso c'è il posteggio sotto la
Matrice.
Film di cappa e spada oppure di avventure del West erano i
preferiti dai ragazzi che spesso rubavano, vendendoli a botteghe
poco serie, qualche uovo oppure mandorle o frumento, a casa
loro pur di racimolare i soldi per vedere il film preferito.
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Un Quatrettu (Spaccato di vita quotidiana)
La mattina presto e la sera tardi le vie del Paese che portavano
nelle campagne erano letteralmente piene di quadrupedi muli,
asini, cavalli spesso accompagnati da capre o cani.
Il rumore degli zoccoli, che essendo provvisti di ferri appositi
per risparmiare e salvaguardare le unghie,
riempiva l'aria, file lunghissime di contadini la mattina
andavano e la sera ritornavano dai lavori nei campi: le strade
sterrate erano piene di concime stallatico lasciato dagli animali,
la puzza faceva parte dell'ambiente nessuno ci badava e per le
strade era normale sentire l'olezzo dell'urina e della cacca degli
animali.
Le stalle erano diffusissime, non c'era strada che ne avesse
qualche decina per cui il fetore di queste era parte dell'ambiente;
al tanfo che i vestiti dei contadini emanavano nessuno ci badava
e se qualcuno lo sentiva non ci faceva caso perchè faceva parte
della vita quotidiana.
I cani randagi erano parte integrante dell'ambiente, tanto scarni
che si potevano contare le ossa, pulciosi e d'estate sempre pieni di
zecche, spesso feriti per le continue lotte che facevano tra di loro
per qualche misero avanzo caduto occasionalmente, spesso, spinti
dalla forza della natura si accoppiavano per le strade, allora era
lo spasso ed il passatempo dei ragazzi che con sassi “a
ruccazzati” martoriavano i poveri animali costringendoli a
separarsi anzi tempo ed in modo violento e doloroso.
“Curriti, curriti, a Santu Roccu nna mula appizzà” spesso
d'inverno si sentiva qualche voce che chiedeva aiuto.
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Le strade inzuppate d'acqua erano come le sabbie mobili e
qualche quadrupede, a volte anche qualche persona, restava
impantanata nel fango rischiando di morire se non fosse arrivato
l'aiuto.
Il povero animale immerso fino alla pancia con il terrore negli
occhi con le narici dilatate per il troppo sforzo, cercava di uscire
dalla melma, inutilmente, da solo non ce l'avrebbe mai fatto se
non avesse avuto l'aiuto di gente che si trovava spesso a
soccorrere in tali occasioni dato che abitavano nella zona!
Tira di qua, spingi di là dopo sforzi non indifferenti si riusciva
a liberare l'animale con grande sollievo del padrone, che aveva
in quell'animale l'unico mezzo per guadagnare il sostentamento
per la famiglia, e dell'animale che si toglieva da quella scomoda
e pericolosa posizione.
“Chiujiti li porti cc'è nna mula scappata! Trasiti l'addevi !” Era
uno spettacolo... ma uno spettacolo pericoloso!
Il povero animale correva, saltava, nitriva, scalciava senza
tregua, senza una precisa direzione, era imbizzarrita, spaventata
nervosa, ed in quella corsa saltellante mandava a destra e a
manca quanto aveva legato alla sella; era molto pericoloso e
qualche volta feriva qualche audace che cercava di pararsi
davanti l'animale per fermarlo.
Il proprietario affannato, molto preoccupato per il danno che
avrebbe potuto provocare l'animale, gli correva dietro cercando
di avvisare la gente del pericolo e gridando:
“Firmatilu... firmati ss'armali”. La tragicomica farsa terminava
quando l'animale stanco,sfiancato, a volte ferito, si fermava da
solo dando al padrone la possibilità di riprenderlo non senza
avere sfilato una interminabile filastrocca di bestemmie, ingiurie,
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imprecazioni.
Gli animali facevano parte della società, ogni famiglia ne
aveva: chi aveva la campagna doveva avere per forza il mulo o
l'asino anche due a seconda delle proprietà possedute, l'unico
mezzo che gli permetteva il trasporto delle masserie e la
coltivazione della stessa, di conseguenza il quadrupede nella
stalla era vitale; spesso,se in famiglia c'erano bambini o vecchi a
cui il latte era indispensabile , la mula aveva la compagnia di una
capretta; le galline, per le uova; nella stalla non mancavano mai il
cane per “guardari li robbi all'antu”.
Il gatto “pì li surci” viveva in casa con le persone e chi
aveva spazio anche il maiale “pì la sazizza”e quant'altro (del
maiale non si buttava nulla, le ossa spolpate venivano conservate
nel sale e usate per fare il brodo nelle occasioni importanti, anche
i peli erano usati dal ciabattino).
Le galline erano alla portata di tutti, anche nel sotto scala o
dentro una piccola gabbia di legno che per mancanza di spazio in
casa la mattina si usciva e la sera si entrava, il costo era quasi
zero perchè stavano dalla mattina alla sera per le strade a
razzolare alla ricerca di qualche bocconcino e depositavano un
uovo al giorno che puntualmente veniva servito agli uomini che
lavoravano ed avevano bisogno di sostanza, o diviso tra i bambini
che dovevano crescere; molti vendevano le proprie uova e col
ricavato compravano il necessario per mettere la pentola oppure
comprare qualcosa per i bambini.
Per le strade del paese in ogni quartiere la mattina e la sera
giravano “li lattara” pastori che allevavano il gregge di capre e
vendevano il latte per le strade.
Era bello vedere quelle povere caprette che avvezzi da tempo
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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a fare quel lavoro si fermavano puntualmente davanti la porta del
cliente, il capraio si accovacciava dietro la prescelta e riempiva,
“mungennu li minni” una misura di alluminio, mezzo litro, un
quarto li litro, centilitro, secondo la richiesta del cliente.
Che latte! Che sapore! Caldo appena mungiutu (munto) quella
schiuma...quell'odore!
Si intingeva un pezzo di pane (quel Pane) che era una
leccornia...che gusto! ...
Non solo con le capre si girava il paese, c'erano pure “li
vaccara” che facevano lo stesso servizio portandosi dietro le
vacche, paurosamente alte, maestose, di colore rossiccio, anche
loro belle bestie si fermavano nei posti abituali con dolce
docilità.
Per le vie del paese i cani randagi facevano parte
dell'ambiente, pulciosi, scheletrici, sempre in cerca di qualcosa
che potesse smorzare la loro cronica fame.
Per un nonnulla litigavano abbaiavano a volte mordevano
costringendo i poveri genitori a correre dal dottore e
spesso,dopo catturato il cane colpevole, correvano per il
veterinario ed essere sicuri che il cane non avesse la rabbia.
Le strade erano quelle che erano; non erano lastricate, ne
ammattonate, tanto meno incatramate, descriverle non farei
giustizia, non è cosa da capire facilmente per chi non le ha viste.
Di terra battuta e polverose d' estate, acquitrinose e pericolose
d'inverno.
Le piogge invernali rendevano le strade praticamente
intransitabili; era un pericolo camminare, le pozzanghere e il
fango scivoloso costringevano le persone a scivoloni e
“culacchiati nterra” con conseguente sporcare degli indumenti
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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che si avevano addosso e quando non era il fango e le
pozzanghere ad impedire il cammino erano “li ncanalati” che
riversavano dai tetti a terra l'acqua piovana sempre copiosa ed
impetuosa; chi aveva necessità di uscire da casa (si restava a casa
molto volentieri) lo faceva a proprio rischio non senza avere
indossato “la ncirata” per ripararsi dalla pioggia e “li scapuna”
per non bagnarsi i piedi.
D'estate era un'altra cosa, non c'era fango e acqua,ma bastava
un venticello “nnà vintuliata” per riempire di polvere chi
passava; che brutta fine facevano “li gaviteddi” pieni di succo di
pomodoro messi al sole per fare “lu strattu” conserva per condire
la pasta.
Le pietre “li rocchi” non mancavano, di tutte le misure
riempivano i bordi delle strade quasi ad invitare i ragazzi che
giocavano sempre numerosi, ad iniziare una sassaiola sempre
pericolosa per loro e per chi passava.
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‘Na Nascita (Una Nascita)
Le famiglie erano quasi tutte numerose, ognuna in media aveva
tre, quattro figli, se non di più.
Le mogli erano sempre in stato di gravidanza, le “mammane”
(le tre ostetriche di allora ), avevano il loro bel da fare per
assistere le partorienti.
“Mariuzza appi n'addevu”!
Una delle tante nascite era una occasione per fare visita alla
parente, all'amica e uscire di casa, sì perchè le donne non
uscivano tanto spesso di casa senza il permesso dei propri mariti
o padri.
Si riusciva a fare un piccolo sacrificio per comprare un
regalino al neonato: “un bavaglinu”, ”un vestiteddu”, “un paru di
scarpuzzi”, “un porta ova d'argentu”.
“Chi beddu addevu... ch'è sciacquatu... pari „na rosa”.
Non si poteva dire altro quello che si vedeva erano le manine
ed il faccino; tutto il corpicino era coperto da una lunga fascia
che lo faceva assomigliare ad una piccola mummia, anche la
testolina era coperta da un “cappucceddu “per non prendere
freddo.
Il neonato si doveva battezzare presto entro il mese...
“mpozzica mori” allora la percentuale delle morti infantili era
altissimo.
Spesso il Padrino a la Madrina erano della stessa famiglia, zii,
cugini, parenti stretti perchè la povertà non permetteva di fare
spese, in famiglia era più facile non fare inviti e “arranciarisi a la
meglio”.
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Quando si voleva fare colpo sugli altri o si voleva dare della
arie, si cercava qualche padrino benestante; si procedeva ad
invito allargato e si offrivano biscotti e “tetù” assieme a ceci
“amma‟nati e caliati”, qualche confetto con la mandorla dentro,
vermout o vino buono.
Durante il trattenimento a casa dei genitori del neonato si
facevano vedere i regali su un vassoio; i regali per il figlioccio
da una parte, quelli per i Padrini dall'altra: “beddi,...veramenti
splendidi... prosita e prusituni a li Parrini”, “Aurii e prosita a li
ginitura”.
In un angolo della stanza tre quattro musicanti intonavano
qualche mazurca o qualche canzoncina in voga in quel periodo.
Tutto finiva verso sera,gli invitati andavano via e..”l'addevu
s‟addummisciva”.
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Divuzioni (devozione)
Tra queste atmosfere di attese, emozioni, a volte l'aria era
invasa da brevi, solenni, pietosi, tocchi di campana.
L'atmosfera quasi gelava anche chi non capiva si fermava un
poco e cercava di intendere cosa dicessero quei tocchi; i ragazzi
erano presi dalla curiosità perchè quel suono “Dooooon......
Dooooon......Dooooon......” doloroso, pietoso, quasi implorante,
non era riconosciuto; un suono raro che per molti era sentito la
prima volta; ritmati, alla stessa distanza, con la stessa campana,
quasi dovevano essere sentiti con pietosa prepotenza.
Agli occhi attenti dei figli,sempre vicini alle madri, non
sfuggiva l'atteggiamento che questa assumeva al sentire quei
pietosi tocchi; ovunque si trovasse o qualunque cosa facesse
smetteva, congiungeva le mani e rivolgendo gli occhi al cielo
recitava sotto voce un'Ave Maria.
La curiosità arrivava al massimo; spinti dalla grande forza
della conoscenza : “Mamà pirchì li campani sonanu cussì
strammi? Chi si ruppi la corda ?” (Allora le campane venivano
suonate tirando delle funi dal piano terra sotto il campanile).
Incessante e a volte irrispettosi verso la mamma che ripeteva
le preghiere, continuava pressante la domanda, mentre le
campane continuavano a diffondere quei lamentosi rintocchi:
Doooon….Doooon….
“No” rispondeva la mamma dopo avere terminato le preghiere
e avere fatto il segno della croce, “chissi sunnu ti tocchi di Matri
Sant'A‟na..., „na Mamma sta accattannu nn‟addrevu e trova
difficoltà; cu li tocchi di campani si duma‟na aiutu a Matri
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Sant'A‟na ca è la Mamma di la Mado‟na e sapi comu aiutari li
puviri partorienti chi trovanu dificurtà.”
Allora sentivi il pelo drizzare sulla pelle, una grande emozione
t'invadeva e dalla mente attenta ed incuriosita automaticamente
iniziava a recitarsi una umile preghiera...Ave Maria..., forse si
poteva aiutare una mamma.
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Un Quatrettu (Spaccato di vita quotidiana)
Mentre si percorrevano le vie del paese decine di voci
provenienti da diverse parti si mischiavano si accavallavamo si
confondevano...ma la nenia, la ni‟nana‟na che le mamme
cantavano ai loro bambini spiccava sopra di tutte con una
cantilena dolce, familiare, che ti conciliava con la vita.
“Sant'Antuninu calati calati ca j l'a‟nacu e Bbu
l'addummisciti”.
“A lalò a lalò fina chi bbeni la mamma tò... si la mamma tò
ummoli viniri tetè nculiddu avadaviri...” le mamme e le nonne
cantavano per conciliare il sonno ai bimbi per calmarli e farli
stare buoni, spesso per far dimenticare loro, anche per un po, la
fame che avevano fino a che tornasse la mamma per allattarli al
seno.
Le giornate passavano sempre le stesse alla continua ricerca di
qualche giornata di lavoro pagata male.
Gli operai se ne stavano sotto l'orologio a la scalunata in attesa
che qualcuno avendo bisogno di mano d‟opera li chiamasse.
Quando capitava si andava a lavorare a giornata per il
corrispettivo di un pane da un chilo; per quel giorno la famiglia
poteva “mettere la pignata “ non avrebbe sofferto la fame e non
si sentivano le richieste laceranti dei bambini piccoli... “Mamà
pitittu aiu!”
Sì perchè in molte famiglie le pignate non si mettevano sul
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fuoco stavano “a testa a puzzoni”.
Tutto o quasi si comprava “a credenza” il bottegaio,
l'artigiano, il commerciante, quasi tutti usavano il mezzo della
“credenza”.
Era una forma di solidarietà, certamente non disinteressata, tra
chi vendeva la merce e chi la comprava; quest‟ultimo, non
potendola comprare in contanti, che scarseggiavano per la
mancanza di lavoro, comprava quanto bisognava alla famiglia “a
cridenza” con l'impegno che, appena “siggivanu”, avrebbero
pagato quanto dovuto, spesso con qualcosa in più.
Tra i compratori c'erano i buoni clienti ed i cattivi, quelli cioè
che appena lavoravano e prendevano i soldi andavano subito a
pagare i debiti contratti e quelli che oziavano dalla mattina alla
sera e non pagavano tanto puntualmente con disapprovo dei
fornitori e facendosi la mala nomina di “mali pagatura”; le
famiglie di questi soffrivano tanto e le liti tra moglie e marito
erano all'ordine del giorno.
Tempi duri... molto duri!
Si tirava avanti, si sopravviveva; il tempo passava tra sorrisi e
lacrime ed i bambini crescevano facendo “tinturii”, è nella natura
umana fare esperienze che agli occhi degli altri possono sembrare
“tinturii” specie se fatte da bambini o da ragazzi vivaci.
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Lu Scarparu (Il Calzolaio)
Quanti bambini... in ogni quartiere se ne contavano due -
trecento e camminavano, correvano, giocavano, facevano qualche
servizio alla Mamma e correvano, con le scarpe ai piedi o senza,
perchè tantissimi ragazzi erano di famiglia povera e non
potevano permettersi le scarpe, un paio buono lo calzavano in
certe occasioni o per le feste importanti.
Calzavano scarpe di tutti i tipi non potevano permettersi di
scegliere, spesso li “scarpunedda”, appartenuti sicuramente al
fratello maggiore o a qualche cugino, ormai vecchiotti e poco
resistenti , per cui si vedevano le punte aperte e le suole con
qualche buchetto.
Le scarpe rotte erano all'ordine del giorno ma non era un
grosso problema perchè in Paese c'erano tantissimi “scarpara”,
veri artisti nella lavorazione del cuoio e della pelle,che
riparavano qualsiasi rottura o scucitura sia nelle scarpe di festa
“li tappini” sia nelle scarpe da lavoro “li scarpina” o
“scarpunedda” per i ragazzi, con la punta e il tacco ricoperte da
una lamella di ferro “puntetta “e con la suola ricoperta da artistici
chiodi con la testa grossa “tacci” al fine di non consumare
facilmente le scarpe e farle durare di più.
Dunque “lu scarparu” era una figura molto importante nella
povera economia del Paese.
Riparava e portava a nuovo le scarpe rotte, ne costruiva di
nuove di zecca per quelli che avevano la possibilità finanziaria di
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poterlo fare, molti per farseli notare pretendevano che una volta
calzate avessero “lu stric-strac” quando camminando si piegava
il piede, (allora non c'era altro che cuoio magari un poco
scadente, ma solo cuoio, la plastica non era stata ancora
inventata) allora l'artigiano pretendeva che il committente gli
portasse delle uova fresche al fine di metterci il cuoio a mollo (se
li mangiava con la famiglia).
Chi andava con ai piedi un paio di scarpe nuove non poteva
fare a meno di essere notato; oltre la lucentezza e l'eleganza ad
ogni piegatura del piede destro si sentiva un piacevole “stric” a
cui rispondeva subito dopo il sinistro con lo “strac”.
Chi guardava ed ammirava quella nuova bellezza ai piedi,
non senza un poco d'invidia, spesso abusando della confidenza si
rivolgeva al fortunato con qualche complimento “Ohh scarpi
novi... Aurii !!!”
Lu scarparu lavorava quasi sempre a casa propria,o in affitto,in
un angolino di una stanza preferibilmente a piano terra in
maniera che non disturbasse la famiglia e meglio potesse
assolvere anche al ruolo di “ritrovo” per gli amici abituati a
riunirsi tutte le sere per passare il tempo in compagnia.
Non c‟era dove passare la serata, per cui le botteghe degli
artigiani erano solitamente scelte quale ritrovo tra amici ed
assieme passare qualche oretta tra chiacchiere e il gioco delle
carte.
Lui “lu mastru” se ne stava dietro “lu bancareddu”, piccolo
tavolo rettangolare con i bordi del pianale alzati, in maniera che
quanto stava sopra non cadesse per terra; alto appena settanta
centimetri, variabili a seconda il modo di lavorare del calzolaio;
personaggio spesso portatore di qualche difetto alle gambe per
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cui il ruolo di calzolaio si addiceva perfettamente visto che
espletava il proprio lavoro standosene seduto.
Il piccolo tavolo era collocato sempre con la faccia alla porta
di entrata con lo scopo di controllare i visitatori; alle spalle
qualche mensola e molti chiodi per metà conficcati alla parete,
da essi pendevano “li furmi di lignu” riproduzioni in legno dei
piedi, di diverse misure per consentire al calzolaio di costruire le
scarpe nuove.
Sulle mensole a bella vista stavano tutte le scarpe dei clienti ,
da una parte quelle già riparate, dall'altra quelle da riparare.
In un angolo “la quartara o la lancedda” con l'acqua fresca ,
dato che nelle case ancora non c'era l'acqua corrente e si andava
ad attingerla alla fontanella pubblica che stava all'angolo della
strada.
Un piccolo boccale, legato per il manico da una cordicella,
pendeva da un chiodo piantato al muro; chi aveva sete poteva
bere.
Sul tavolo di lavoro la confusione regnava sovrana,tante
lattine con dentro chiodi e chiodini di tutte le misure: “chiova,
tacci, simicci”, qualche rotolo di spago e delle cera d'api per
incerarlo, aghi, martello con la punta piatta e rotonda, tenaglie, la
raspa, la tenaglia per fare gli occhielli, lesine, due tre trincetti
che servivano per tagliare e lavorare il cuoio e la pelle; erano
taglientissimi come rasoi, anche “lu mastru” con tutte le sue
protezioni alle mani qualche volta si faceva dei tagli, non si
dovevano toccare, specie per i ragazzi era severamente proibito;
a terra frammenti di suole e di cuoio per rattoppare, risuolare,
rammentare le vecchie scarpe dei clienti.
La “furma” di ferro poggiata con la base su di un piedistallo di
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legno, rappresentava un piede capovolto con la pianta rivolta
verso l'alto, questa si calzava con la scarpa da riparare specie
quando si dovevano piantare tacci o chiodi; questi erano gli
strumenti di “lu mastru scarparu” che custodiva con tanta
attenzione e scrupolosità.
Sempre geloso delle sue cose, nessuno glieli doveva toccare
senza il suo permesso, raramente prestava qualcosa.
Lui, lu mastru, con il grembiule davanti il petto e spesso con
gli occhiali rotti e legati con lo spago, seduto sul suo trono senza
spalliera armeggiava con insolita perizia tra quegli arnesi, tanto
importanti e preziosi che molto attentamente ogni sera, a fine
giornata lavorativa, riordinava, puliva, metteva ogni cosa al
proprio posto molto attentamente e gelosamente, lasciando “lu
bancareddu” pronto per il giorno dopo.
Il luogo “la putia” era frequentatissimo; oltre i clienti che
portavano o ritiravano le scarpe c'erano gli amici che tutti i
pomeriggi si riunivano nella bottega per chiacchierare, parlare e
mettersi al corrente dei fatti che succedevano nel paese; sei, otto
persone, qualche ragazzo, seduti su vecchie panche di legno o
qualche sedia sgangherata, attorno al tavolino si raccontava ciò
che accadeva in paese, qualche fatterello o, specie
d'inverno,qualche interessante racconto che sembrava non finisse
mai, tanto era il talento di chi li raccontava.
Non molto di frequente si vedeva “lu giovani”, il ragazzo di
bottega che spinto dal genitore cercava di apprendere l'arte del
ciabattino.
Un mestiere misero che teneva quasi sempre la famiglia in
uno stato di continuo bisogno; lui che rinnovava e riparava le
scarpe non trovava mai il tempo ne la volontà di restaurare le
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sue, sempre vecchie e molto lontane dall'essere eleganti; da qui il
detto “lu scarparu senza scarpi”.
Spesso spuntava un mazzo di carte da gioco e subito, gli
immancabili ospiti iniziavano una partita che durava pomeriggi
interi tra rivincite e cappotti.
Così passavano il tempo, magari dopo una giornata di duro
lavoro, si ritrovavano lì per svagarsi un poco, visto che in paese
non c'era nessun altro tipo di divertimento, nulla, neanche la
radio, privilegio di pochi facoltosi e benestanti.
C'era il cinema....ma ci volevano i soldi per il biglietto, cosa
che non tutti potevano permettersi.
Lu scarparu era un'arte diffusa a Cianciana, lavoro che faceva
sopravvivere le diverse famiglie e nel contempo permetteva a
tantissime persone di potere camminare comode con le scarpe ai
piedi.
Tantissimi ragazzi andavano scalzi per le strade ed al lavoro,
mettendosi l'unico paio di scarpe che possedevano la Domenica
e per le occasioni importanti.
Non era rado vedere dei ragazzi ormai adulti che nei campi o
nelle zolfare lavoravano a piedi scalzi risparmiando così le scarpe
che certamente dovevano servire a qualche altro fratello dopo li
lui.
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A lu cannolu (alla fontana pubblica)
In paese l'acqua era scarsa, pochissimi l'avevano in casa; la
popolazione andava ad attingere l'acqua alle fontanelle pubbliche
(a lu cannolu); ce n'erano decine in tutto il paese, collocate quasi
sempre all'incrocio di quattro strade, l'acqua arrivava ad orario
manovrata dal fontaniere; ai lati della fontanella ogni mattina
c'erano decine di “quartari, bagneri, cati, muzzuna,” messi in
fila dai proprietari ad aspettare il proprio turno per attingere
l'acqua quando fosse arrivata.
L‟arrivo dell‟acqua era uno spettacolo; prima iniziava ad
uscire violentemente l‟aria, sempre più violenta; qualche minuto
dopo arrivava dell‟aria mista all'acqua ed infine arrivava l'acqua
con una pressione tale che spesso bagnava chi stata vicino alla
fontanella.
Allora incominciava il vociare delle donne che litigavano per
attingere l'acqua per prima.
I bambini si mettevano a gridare festosamente “l'acqua
viiinnniii, l'acqua viiiiinni”.
Tra il vociare e le piccole liti, sempre per il turno, ogni tanto si
rompeva qualche brocca “quartara “allora erano guai; parole
pesanti, ingiurie “ngiurii”, maledizioni “gastimi”, reciproche;
qualche volta si arrivava anche alle mani.
Per fare il bucato le donne utilizzavano “la pila”; lavatoio di
legno, di diverse misure, che consentiva di lavare la biancheria a
casa, davanti la porta o all'interno in qualche angolo; si doveva
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cambiare l'acqua diverse volte ed ogni volta si doveva svuotare;
per riempirla occorreva una certa quantità di acqua e questo
costringeva qualcuno della famiglia, quasi sempre la mamma o la
sorella maggiore, ad andare alla fontanella e riempire “li
quartari”.
“La pila” serviva anche per fare il bagno ai ragazzi; in quel
tempo le famiglie che avevano un bagno in casa erano contate, le
docce non esistevano e il bidet era sconosciuto.
I servizi igienici erano quasi inesistenti, poche famiglie
avevano lo scarico nella fogna; quelle che ce l‟avevano potevano
utilizzarlo per gettare via i depositi che si accumulavano nel
“cantaru” e “„na lu rinali” (pitale di terracotta o di ferro fuso
smaltato di bianco), durante la nottata.
Detto servizio era composto da un buco in un angolo della
casa, quasi sempre dietro la porta, direttamente in comunicazione
con la rete fognaria comunale; terminava con un fungo di
terracotta smaltata con al centro un buco, in cui venivano versati i
rifiuti organici e l‟acqua sporca.
L'igiene lasciava molto desiderare; la maggior parte delle
persone avevano sempre le mani sporche, il sapone era raro e
quel poco che c'era costava caruccio, non tutti potevano
comprarlo; sotto le unghie c'era sempre un alone di nero, non era
raro vedere ragazzi con gli occhi pieni di cerume “occhi
miccusi” per la carenza di pulizia; i ragazzi avevano sempre il
moccio nel naso che colava fino alla bocca, “muccarusi”, due
cascatelle che si fermavano sopra il labbro superiore veniva
pulito sistematicamente col dorso della mano o con l‟inizio della
manica della giacchetta, quando non si adoperava la lingua,
specie per i più piccoli; i fazzoletti erano per i grandi non per i
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ragazzi.
La sporcizia la faceva da padrone e le pulci e le cimici erano
all'ordine del giorno.
Molti ragazzi, specie d'estate, venivano rasati a zero
“cuzzuluti” per riuscire meglio a spulciarli e non dare possibilità
ai pidocchi di proliferare.
Davanti le porte le mamme sedute con il figlio o la figlia tra le
gambe molto pazientemente spulciavano le teste, depositavano la
pulce catturata sull'unghia del pollice e poi schiacciarla con
l'altro pollice; lo spulciare i figli era una operazione
normalissima, faceva parte della tradizione paesana e nessuno ci
poneva attenzione, non faceva impressione a nessuno, tanto meno
lo schiacciare il parassita con le unghie.
L‟arrivo dell‟acqua potabile nelle case ha fatto perdere l‟uso
delle fontanelle pubbliche ed ha permesso a tute le famiglie di
dedicarsi con accuratezza all‟igiene personale cancellando
definitivamente (!) i parassiti dalla nostra società.
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L’Accumpagnamentu (Il Funerale)
Così come le nascite erano numerosissime anche i decessi
erano numerosi; ma, a differenza delle prime gioiose ed allegre,
queste erano una vera disgrazia, una perdita irreparabile che si
ripercuoteva sulla famiglia per anni specie se a morire era il capo
famiglia.
Non era raro nel silenzio della notte profonda sentire urla
disumane da accapponare la pelle, urla di donne che piangevano.
Era un dovere svegliare il marito, il padre, il fratello per
andare a vedere da dove venivano le urla; il perchè era quasi
sicuro, o la morte o una disgrazia.
Allora nel cuore della notte, vestito alla meglio e con addosso
qualche mantello o qualcosa di pesante si affacciava alla finestra
per cercare di capire.
Altre finestre si aprivano per la stessa ragione ed alla luce della
notte si potevano scorgere profili di persone che, anch‟esse
attratte dalle urla, cercavano di capire cosa fosse successo.
Cercando di individuare da quale direzione arrivassero le urla,
si incominciava ad avere qualche sospetto, mentre altre finestre
si aprivano: “chi cc'è ? cu grida ? cu jietta vuci,chi murì
quarcunu?”, “ma arsira lu gnuri Caliddu c'era malu, pò essiri
iddu?”
Qualche ardimentoso già era uscito per la strada; la moglie
dalla finestra lo incitava a ritornare a casa:
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“aggira…aggira…aspetta tanticchia…aggira!”
Senza dare ascolto alla preoccupata consorte si avvicinava al
posto da dove venivano le urla.
Sì, i sospetti dei vicini erano giusti: era morto lu gnuri
Caliddu!
Vestiti alla meglio, con gli occhi ancora dormienti ed i capelli
sparpagliati, i vicini si recavano a portare aiuto e conforto a
quella gente.
Alla flebile luce del lume i maschi incominciavano a vestire e
preparare la salma da comporre su un umile lettino sistemato in
mezzo alla stanza; le donne confortavano i familiari, specie
quelle di sesso femminile, che come ossessi urlavano, si
percuotevano, si tiravano i capelli.
La luce del mattino trovava una famiglia in preda al dolore;
tutte le donne vestite di nero, la testa coperta da un nero
fazzoletto legato dietro la nuca; se ne stavano in un angolo a
fianco della salma a gridare ed a decantare le gesta, la bontà, i
buoni caratteri del caro defunto.
Non era raro vedere la moglie che si schiaffeggiava sulle
cosce, sulle guance, quasi volesse infliggersi dolore,sofferenza.
“Comu fazzu ora... cu cci duna a mangiari a sti
figliareddi...chi famiglia sfurtunata... comu finì lu sustegnu di sta
casa... bbeddu maritu miu...comu fazzu senza di tiia...”
Lamenti, cantilene, pianti, che coinvolgevano i presenti,
stimolando la compassione, la solidarietà; il tutto rattristava nel
profondo il cuore fino al pianto.
In chiesa, durante le funzioni religiose, le grida dei dolenti non
finivano; si placavano un pochino, ma riprendevano subito dopo,
provocando le reazioni del prete che con lo sguardo richiamava
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alla compostezza i familiari.
Terminate le esequie ed usciti dalla chiesa si procedeva a
comporre il corteo per accompagnare la salma al cimitero.
Durante tutto il tragitto le grida riempivano l‟aria; il pianto
straziante coinvolgeva la sensibilità delle persone che sempre
numerose erano dietro il feretro.
A destra ed a sinistra, davanti alla bara, due file di ragazzini
aprivano l‟accompagnamento portando in mano dei fiori.
Quando i funerali erano fatti a persone benestanti e altolocate i
ragazzi portavano decine di corone di fiori ed a volte c‟era anche
il gagliardetto di qualche associazione religiosa a cui il defunto
apparteneva.
Il corteo attraversava tutto il corso principale, oggi diviso in
due tronconi, partiva dalla matrice e terminava alla periferia sud
del paese in prossimità della villa comunale (allora non esisteva;
al suo posto un profondissimo fossato scavato dalle copiose
acque piovane che scendevano dal paese; per attraversarlo c‟era
un robusto ponte in muratura denominato “lu ponti granni”).
Qui il corteo si fermava.
L‟aria si riempiva di pianti e urla, specie della moglie e dei
figli a cui veniva a mancare il sostentamento principale.
Guidate da persone vicine alla famiglia i dolenti familiari si
sistemavano in fila addossati alla parete di un edificio e
incominciavano a ringraziare le persone.
La gente, cercando di non accalcarsi più del dovuto, messasi in
fila, porgeva la propria solidarietà alla famiglia che rispondeva
alla stretta di mano con calore e riconoscenza.
“Cordoglianzi…mi dispiaci… cordoglianzi”, ogni tanto
qualche amico intimo porgeva qualche bacio, ma solamente tra
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uomini e tra donne.
Terminate le condoglianze restavano oltre i parenti, gli amici
intimi ed i vicini di casa.
A questo punto il piccolo corteo continuava fino all‟incrocio
tra la strada principale e la deviazione per andare al cimitero.
Qui avveniva l‟ultimo saluto alla salma da parte dei familiare e
tutti gli altri.
Riprendevano le grida in maniera inimmaginabile; la vedova, i
figli, si abbracciavano alla bara quasi volessero rianimare il
defunto.
I più coraggiosi cercavano di staccare i dolenti da quell‟ultimo
abbraccio.
Dopo tanti tentativi, facilitati anche dalla stanchezza che già
s‟impossessava della stanche membra dei familiari, il feretro
continuava la sua strada verso l‟ultima dimora, lasciando dietro
di se dolore, pianti, grida, disperazione.
Era uno strazio!
Le povere donne non avevano più voce, le corde vocali si
rifiutavano di emettere suoni, eppure con voce rauca e quasi
inesistente continuavano a gridare e piangere.
Arrivati a casa l‟ultimo saluto alle persone che li avevano
accompagnati fino alla fine.
Si mettevano uno accanto all'altro e con il corpo e l'animo
distrutti davano la mano e ringraziavano con un filo di voce,
spesso stando seduti, specie la vedova o la vecchia madre.
La morte nella quasi totalità delle famiglie portava un danno
incalcolabile, specie per coloro che vivevano solamente del frutto
del lavoro del capo famiglia; moltissime si trovavano in queste
condizioni.
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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Spesso restavano a carico della povera vedova tre, quattro figli
piccoli, da sfamare e da crescere.
Era una vera tragedia vedere la povera vedova che si adattava
a fare i lavori più umili e faticosi per far da mangiare ai propri
figli.
I più fortunati avevano un poco d'aiuto dai suoceri, ma non
sempre questi potevano farlo.
Allora per quei poveri ragazzi era un calvario!
Niente scuola; i più grandicelli dovevano andare a cercare
qualche lavoretto per portare a casa dei soldi oppure un po di
roba da mangiare; alla fine un intero giorno di eseguire gli
ordini del padrone ove servivano, portavano alla famiglia qualche
soldino oppure del cibo.
Per più di tre anni le mogli stavano vestite di nero fitto, dalle
calze alle vesti, col fazzoletto in testa a coprire i capelli, quasi
nulla si vedeva, solo le mani e la faccia quando non era coperta in
parte dal fazzoletto.
“Cu mi murì lu cani?” dicevano a qualche familiare che dopo
tre quattro anni cercava di fare togliere almeno il fazzoletto dalla
testa.
Risposarsi con qualche bravo uomo che potesse accudire ai
piccoli?
Neanche a pesarlo, si rischiava di litigare e rompere la
parentela.
La vedova e in particolare gli orfani, specie se minorenni,
erano oggetto di attenzione da parte dei familiari; suoceri,
cognati, cugini, facevano il possibile per aiutarli, dare loro del
cibo, delle particolari attenzioni ai minori.
Qualche volta, se le possibilità economiche lo permettevano,
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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era il nonno paterno, a pagare e mantenere il nipote, orfano di
padre, a studiare consentendogli di riuscire nella vita in maniera
egregia.
Questa solidarietà fino a quando uno dei figli, ormai adulto,
prendeva in mano la situazione familiare.
I ragazzi dovevano andare a lavorare per aiutare la mamma;
andavano a “garzuni”cioè a servire chi si poteva permettere di
mantenere avere un servo alle proprie dipendenze.
Qui si eseguivano tutti tipi di lavori, anche quelli pesanti.
Accudire alle bestie nelle stalle, condurre le pecore al pascolo
d'inverno con la pioggia che entrava nelle ossa, d'estate con la
calura che scioglieva le pietre; tutto questo minava la salute dei
ragazzi fin da piccoli, le conseguenze si vedevano da grandi
quando si ritrovavano con bronchiti e dolori, spesso si vedevano
in giro “cu lu immu” con il gibbo oppure con una struttura ossea
deformata e carente.
A volte venivano presi a buon cuore dal padrone che li destinava
ai bisogni della casa, ai lavori domestici, a fare i servizi esterni;
in questo caso conducevano una vita discretamente agiata e la
continuavano fino a che decidevano di sposarsi e farsi una
famiglia propria.
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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C'era 'na vota frammenti di mamoria
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C'era 'na vota frammenti di mamoria
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Lu Sartu (Il Sarto)
Quando in famiglia il padre guadagnava sufficientemente da non
avere problemi finanziari qualche ragazzo o qualche ragazza, non
tutti ma chi lo poteva, venivano mandati presso la bottega di un
artigiano ad imparare un‟arte.
Le ragazze potevano accedere solamente dalla sarta, mentre i
ragazzi avevano tante possibilità di scelta.
Molti erano gli artigiani sarti che lavoravano in paese: si pensi che
allora non esistevano i vestiti preconfezionati in serie, sia per gli
uomini che per le donne, tutto veniva confezionato a mano, perfino
i calzini, i guanti, i berretti, maglie e quant'altro veniva indossato,
sia d'inverno che d'estate.
Le nostre nonne erano delle vere artiste nel lavorare ai ferri
riciclando il riciclabile fino alla consunzione del filo di lana.
Fin da piccole imparavano a lavorare “a li uglioli” e
“all‟unginettu” dalle loro mamme che a loro volta l‟avevano
imparato dalle rispettive, secondo una tradizione secolare.
Per i vestiti, le giacche, i pantaloni, le camicie, si ricorreva “a lu
sartu.”
La bottega del sarto era quasi sempre collocata nella stessa casa di
abitazione dell'artigiano titolate,o in un locale attiguo alla propria
casa.
Un luogo sempre in ordine, pulito, con alle pareti foto di figurini e
mostre di modelli di vestiti, di cappotti, di giacche, di pantaloni; in
un angolo un guardaroba per la conservazione dei vestiti finiti e
delle stoffe buone; non tutti i sarti si potevano permettere di tenere in
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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casa delle pezze di stoffa da vendere ai clienti benestanti, allora si
andava a comprare la stoffa dal rivenditore “lu panieri” ed ogni
quartiere ne aveva uno o due, addirittura qualcuno oltre ad avere un
negozietto a cui accudiva tutta la famiglia, andava per le strade con
l'asinello carico di pezze di stoffa; vendeva la propria mercanzia
gridando e squarcia gola e contrattando sul prezzo, giurando sempre
che non ci guadagnava nulla anzi ci perdeva e che stava facendo un
favore a chi comprava.
Entrati nella bottega (“putia”) del sarto subito l'attenzione era
attratta dall‟immenso tavolo da lavoro (“lu banconi”) che
troneggiava in un lato o di fronte di che entrava; sopra c'erano delle
grosse forbici, una lunga riga, la squadra, fili di tanti colori e forme
(“li rutina cu lu filu” ), in un angolo del tavolo c'era un grosso ferro
da stiro riscaldato a carbonella, pezzi di stoffa da imbastire; sempre
rivolta verso la luce del sole (la luce elettrica costava) ed orgoglio
del padrone, la macchina da cucire, strumento indispensabile per
sbrigarsi nei lavori, sempre lucida e ben oleata.
Vicino alle pareti, ma un poco distante dal bancone, delle sedie
per potere lavorare seduti e per permettere agli ospiti, sempre
presenti, di riposarsi e potere “sparlare”meglio.
L'usanza di andare a sedersi a la putia di lu sartu, come di lu
scarparu o di lu firraru, era molto diffusa.
Non avendo lavoro perchè questo scarseggiava o per le cattive
condizioni atmosferiche non si poteva andare a lavorare; stare a casa
era una noia e le giornate non passavano mai, allora non c'era altro
svago se non quello di andare a sedersi a la putia di l'amicu scarparu,
firraru, o sartu.
La bottega del sarto era il posto ideale per tenersi aggiornati su
tutto quello che succedeva in paese: nascite, battesimi, matrimoni,
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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fujitini, corna, morti, pettegolezzi di tutti i generi erano trattati,
analizzati, commentati e divulgati,con qualche piccola aggiunta
sempre più piccante.
Lu mastru, seduto con in mano la parte più importante del lavoro,
era circondato dai “giuvani”, apprendisti sarti che imparavano il
mestiere e nel contempo lavoravano gratis per il padrone dalla
mattina alla sera tardi con la pausa di mezzo giorno.
Gli apprendisti erano ragazzi che da anni andavano ed
imparavano il mestiere; molto spesso se ne incontrava qualcuno
che ne sapeva quanto il maestro, forse anche di più perchè dotato di
qualcosa che certi maestri non avevano: la fantasia.
I giovani “mastri” stavano col maestro fino a quando questi non
dichiarava che potevano andarsene per conto loro e che erano
all'altezza di aprire da soli bottega, fino ad allora stavano a lavorare
per il padrone senza averne in cambio nulla se non l'insegnamento.
Spesso si verificava che lo “sfruttatore”teneva per due o tre anni in
bottega il giovane maturo ed in cambio gli permetteva di potersi fare
qualche lavoretto privato utilizzando gli strumenti della bottega.
Quanto accadeva presso la bottega del sarto uomo, accadeva pure
nella bottega della sarta do‟na.
Che abiti, che cappotti venivano fuori da quei bugigattoli messi a
nuovo! Indossati erano così perfetti che “vesti zuccuni ca pari
baruni” cambiava la personalità di una persona; erano capolavori
veri e propri, le giacche erano fatte così perfette che sembrava un
tutt'uno con chi le indossava dandogli un aspetto signorile e di una
infinita eleganza.
Certo non era di tutti farsi un vestito o un cappotto nuovo, c'era
una spesa da sostenere ed i soldi erano scarsi; allora, man mano che
le esigenze dei ragazzi aumentavano, si ricorreva agli indumenti dei
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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fratelli più grandi, o sorella maggiore; portandoli alla sartoria e si
facevano rivoltare e rimettere a taglio, cioè si adattavano alle nuove
esigenze utilizzando la parte interna della stoffa che non era stata
mai usata.
Lu mastru era sempre vestito bene, magari utilizzando il metodo
del “rivolto “ma agli occhi di chi entrava era sempre impeccabile,
pulito e servizievole.
Il pavimento era tenuto sempre pulito; questo compito spettava al
giovane ultimo arrivato, che non sapendo ancora fare “lu
supramanu”, (cucitura per imparare a tenere l'ago fra le dita), si
dedicava alla pulizia e spesso a recuperare i lunghi fili che tolta
l'imbastitura dal vestito si potevano riutilizzare.
Una volta ultimato un lavoro era costume che il sarto lo mandava
direttamente a casa del cliente.
Questo piacevole compito veniva affidato quasi sempre al
giovane apprendista, che riceveva una ricompensa dal ricevente,
qualche monetina o qualche dolce da mangiare.
Il lavoro della sartoria si svolgeva all'interno della bottega, ma
durante l'estate, col sole che faceva sudare, in casa non si poteva
stare; allora tutti si spostavano all'esterno davanti la porta, col
maestro al centro ed i giovani apprendisti tutti attorno.
Era uno spettacolo, tutti a chiacchierare, chi passava si fermava e
raccontava qualche novità, oppure si aggiornava di qualche “ntisi diri
ca... veru è?”
Anche nelle botteghe femminili si mettevano un poco all'esterno
(mezzi d'intra e mezzi di fora); allora si assisteva ad un vai e vieni di
giovanotti, piccoli gioiosi gruppetti in cerca di fidanzatina, che
passavano e ripassavano da quella strada guardando insistentemente
tra le numerose apprendiste che tutto facevano meno che lavorare.
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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Avevano gli occhi sempre in giro, mentre con le loro delicate
mani passavano il filo ad un pezzo di stoffa; chiacchieravano e
ridevano più o meno forte, al passaggio dei giovanotti (questo era
una delle poche occasioni che i ragazzi avevano per potersi vedere e
incontrare i loro ingenui dolci sguardi).
Quanta tenerezza, quanta ingenuità, quanta bellezza,quanta
naturalezza in quegli sguardi: c'era la vita, c'era l'amore!
Molti amori si concludevano in maniera positiva; altri, tanti altri,
restavano solamente un ricordo di gioventù, il ricordo del visino di
una bella sartina.
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C'era 'na vota frammenti di mamoria
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Lu Vanniaturi (Il Banditore)
Tutti i giorni verso le sette di mattina l'aria circostante si
riempiva di una voce, a volte forte a volte meno forte spesso, ma
non sempre, preceduta da qualche rullo di tamburo; la voce, con
tono molto alto, annunciava qualche notizia alla popolazione: era
la voce di “lu vanniaturi”.
Quasi sempre la stessa persona; ogni tanto tale attività veniva
esercitata da qualche sostituto o da qualche persona venuta da
altro paese.
Se la notizia da divulgare era molto importante il bando era
preceduto da rulli di tamburo, eseguiti con maestria da “lu
tammurinaru”.
Spesso era il Municipio che metteva al corrente la cittadinanza
di notizie o di ordinanze, allora il bando iniziava con una frase
che all‟udirla la gente poneva tanta attenzione: “cumannu e
cuma‟namentu...pi ordini di lu Si‟nacu...” e seguiva il messaggio.
Dalle finestre si vedevano spuntare le teste delle donne che con
tanta curiosità si affacciavano per sentire meglio l‟ordinanza o la
comunicazione; non avevano la possibilità di accedere alle
notizie diffuse mediante manifesti perché, i pochi bandi affissi ai
muri potevano essere letti da coloro che avevano la possibilità di
andare a passeggiare in piazza, luogo in cui venivano per la
maggior parte affissi i manifesti.
Gli uomini erano, nella quasi totalità a lavorare; la sera al
ritorno a casa erano tanto stanchi che non avevano nessuna voglia
di andare in piazza a passeggiare, se non per importante
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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necessità.
Le persone si affacciavano, si mettevano davanti la porta, per
sentire meglio; frotte, sempre numerose, di ragazzi vocianti
seguivano il banditore per le strade cessando di imitarlo e dargli
fastidio appena iniziava il bando; ogni tanto, i più birbantelli
tanto molestavano il banditore e il tamburino da costringendoli a
prendere sassi da terra... e ce n'erano tanti ... per lanciarli verso i
ragazzi che scappavano da tutte le direzioni”.
Questi erano i bandi che si sentivano più frequentemente ed a
cui ormai la popolazione era tanto abituata a sentire da capirne il
contenuto alle prime parole pronunciate: “arrivà la piscami” -
“sardi e cu voli sardi frischi”-“fragaglia frisca e bbona --
”ammari, mirluzzeddi e pisci palummu” quando in piazza
arrivava il pescivendolo; “a lu scaru arrivaru li patati, li puma, li
pira, li milinciani, li cacocciuli “quando arrivava frutta e
verdura”;“a lu fu‟nacu robbi e cazetti americani novi novi...
arrivaru ora ora” quando al fondaco arrivavano le prime calze da
do‟na in nylon, tessuti provenienti dall‟USA, pezzi di stoffe di
qualsiasi genere provenienti da chissà dove.
Questa nenia si sentiva ogni mattina, per le strade del paese, in
tutti gli incroci delle strade; era l'unica maniera per mettere al
corrente la popolazione delle novità e degli arrivi commerciali.
Anche i privati ricorrevano a questo mezzo di comunicazione
quando avevano qualcosa di serio da comunicare.
“A lu 'gnuri Turiddu cci scappà la mula...si quarcunu l'ha vistu
ci lu dicissi...ca sarà ricumpinsatu bonu...”; “lu zì Nardu s‟avà
livari la putia… sbinni tutti cosi a mità prezzu…curriti curriti…”
“Lu vanniaturi”, umile figura che sa secoli calpestava tutte le
strade del paese per mettere al corrente i cittadini delle novità,
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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delle comunicazioni, di tutto ciò che poteva essere utile alla
collettività.
Vestito di umili indumenti, con le tasche sempre piene di
pezzetti di pane che qualcuno gli regalava; con in mano un
bastone per appoggiarsi ed evitare gli scivoloni tra le centinaia di
pozzanghere sparse in tutte le strade, ma anche per difendersi dai
numerosi cani randagi che circolavano continuamente per le
strade; con quella sua mano sempre posta sull‟orecchio a fargli
da cassa armonica onde evitare stonamenti nel suo bandire; Lui
ignorante e analfabeta, tanto da non sapere mettere il segno della
croce all‟occorrenza; Lui modestissimo personaggio che
assolveva un importante ruolo d‟informazione nella società.
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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La Nuvena di Natali (La Novena di Natale)
Gradevole, piacevole, dormire sotto le coperte nelle notti
d'inverno con temperature esterne che ti ghiacciano le mani, il
naso, il viso; ancora più bello quando il dolce sonno viene
interrotto da una flebile, lenta nenia lontana, che ti fa tendere
l'orecchio ma ti dà fastidio metterlo fuori dalle coperte per non
uscire da quel primordiale, familiare, protettore calduccio; ti
sforzi a seguire quella dolce nenia che da lontano si avvicina
piano piano, con note sempre più distinte ed accarezzevoli; ad
intervalli regolari, tra le note si sente un tintinnio metallico che a
ritmo costante sembra scandire il tempo alla melodiosa musica
della “ciaramedda”.
Quel pensiero mi emoziona mi fa sentire fragile e debole,mi
riempie di allegra tristezza, di bontà... di amore!
Sono circa le quattro del mattino quando quella dolce nenia ti
riportava alla fredda realtà invernale, cominciava a spandere
nell'aria un'atmosfera natalizia,... invitando i buoni cristiani a
preparare la venuta del bambinello Gesù.
Alla ni‟na na‟na della ciaramedda (cornamusa) facevano eco
le campane della chiesa che avvisavano i fedeli l'inizio della
funzione religiosa: “la Nuvena di Natali”.
Iniziava il 16 Dicembre e per nove giorni, tutte le mattine, alle
ore cinque, in chiesa si celebrava “la santa novena”.
Bastava dare uno sguardo da dietro il vetro della finestra per
vedere le persone, nel buio della notte rischiarato da quella
flebile lampadina elettrica che squarciava il tetro buio,
imbacuccate nei loro scialle sempre neri, correre verso la chiesa.
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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La maggioranza erano donne anziane con il loro “tancinu”,
piccolo recipiente pieno di tizzoni ardenti (scaldino), sotto lo
scialle, stringendosi a se stesse, andavano con passo svelto; con
loro spesso si vedevano uomini con la sedia in mano,
accompagnavano alle funzioni la moglie, a volte la famiglia.
Non era raro, anzi... trovare davanti la cancellata della chiesa
legati con le redini al cancello, dei muli: qualche devoto
contadino prima di andare a lavorare i campi assisteva alla
sacra funzione.
Quei fagotti neri raggomitolati in se stessi spuntavano dal buio
delle strade molto velocemente e così svanivano in lontananza in
direzione delle chiesa!
La nenia si faceva sempre più vicina, la musica, incessante
quasi prepotente, accompagnata dal suo “acciarino”, lasciava
volare nell'aria in alto...sempre più in alto le sue melodiose note,
quasi a volere che qualcuno lassù le sentisse e se ne godesse.
Nel giro di pochi minuti la chiesa era piena di fedeli,molte
persone si sedevano nei banchi di legno che si trovavano già in
chiesa, altre nelle sedie che una vecchietta metteva a disposizione
dei convenuti in cambio di una piccola offerta che le consentiva
di vivere, tanti altri,specie gli uomini, in piedi nelle due navate
laterali.
Molti erano i giovanotti che approfittando delle funzioni
religiose si recavano in chiesa per guardare da lontano qualche
ragazza, che sotto gli occhi vigili della madre sempre attenta ai
movimenti della figlia, ricambiava sguardi amorosi e cenni
impercettibili con qualche giovanotto.
Le funzioni erano seguite con grande devozione ed alle
preghiere si alternava qualche canto natalizio; chi faceva la
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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grande parte era “la ciaramedda e l'acciarino” che riempivano di
note melodiose e piacevoli le grandi arcate della chiesa ed
accarezzavano le orecchie di tutti quei fedeli che, molto
coraggiosamente, avevano lasciato quel piacevole calduccio del
proprio letto per i‟nalzare al cielo una preghiera ed...una ni‟na
na‟na.
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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C'era 'na vota frammenti di mamoria
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C'era 'na vota frammenti di mamoria
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Natali
L'atmosfera era quella che prelude la venuta in terra del
Salvatore; tutto aveva un mistero di bontà, di sincerità, di affetto;
le stesse persone che qualche tempo prima ti sembravano essere
burbere e autoritarie adesso davano l'impressione di essere
cambiate in meglio sembravano più alla buona, più umane con il
prossimo; questa era l'impressione che facevano, alla sensibilità
di un ragazzo. Le famiglie si preparavano a mettere insieme un
pranzetto all'altezza della ricorrenza; quelli che avevano la figlia
fidanzata in casa dovevano ospitare la famiglia del fidanzato
cercando di mettere sulla tavola natalizia il meglio che avevano;
si andava spesso dalla parente o dalla vicina per avere in prestito
i piatti, i bicchieri, la tovaglia buona.
Tutto il possibile veniva fatto, per apparire agli occhi degli
altri meglio e di fonte al Redentore più buoni.
Nell'aria era un continuo suono di campane, ora quelle della
chiesa madre ora quelle del convento, ora quelle del carmine.
Le campane instancabili ricordavano agli uomini di buona
volontà che si appressava il tempo della nascita di
Gesù...prepariamo la strada al Signore. Nelle Chiese era un
continuo fermento di persone, un continuo entra ed esci sempre
indaffarati a preparare, organizzare, celebrare.
I preti avevano il loro da fare con le funzioni continue da
celebrare nelle chiese alle centinaia di fedeli che si accalcavano
riempiendo le navate fino all'inverosimile.
Gente di tutte le estrazioni sociali era ad assistere alle funzioni;
quelle più nobili ed altolocate stavano sedute nelle prime file,
man mano fino ai più umili in piedi o nelle sedie che si portavano
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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da casa.
I ragazzi a frotte di decine correvano e vociavano davanti la
chiesa, giocando “a la strummula”, “a li liscira”, “a li sordi”, “a
turnachettu”, “a saita la cerba”, noncuranti che indossavano il
vestito buono della festa, spesso appartenuto al fratello maggiore
e che la mamma teneva da parte, sempre perfetto, pulito e
stirato, in attesa delle Festa.
Finita la Santa Messa quasi nessuna do‟na si vedeva per le
strade, tutti erano indaffarate a preparate il pranzo di Natale.
Gli uomini accudivano le bestie nelle stalle e poi facevano
qualche passeggiata in piazza, “tisi” e vestiti con gli abiti della
festa.
I ragazzi a vociare per le strade giocando; i più grandicelli a
giocarsi quelle poche lire della “fera” (regalino in soldi) che i
genitori o i nonni gli avevano regalato non senza sacrificio.
Era bello, bellissimo, inimmaginabile, per chi non l'ha provato;
tantissimi i sentimenti di affetto, di unione, di rispetto che
riempivano i cuori in quei giorni di Festa...
Si visitavano tutti i parenti incominciando dai nonni, per finire
agli zii tutti, non con lo scopo di avere in regalo qualche
monetina, che era bene accetta, ma per dovere, sentimento che si
coltivava fin da piccoli spinti dall‟esempio che i genitori davano.
La famiglia quasi sempre si riuniva presso la casa di “lu
Nannu” paterno “nta la casa granni di lu papà”,ove per qual
giorno era Festa grande.
Figli, nipoti, nuore e generi, a volte anche i genitori del genero
o della nuora, che si trovavano soli, qualche fratello o sorella del
nonno non sposatisi facevano parte della famiglia e trattati con
rispetto.
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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Era una confusione di persone; gli uomini si riunivano in una
stanzetta o in un angolo della casa a chiacchierare, mentre il
vociare e il rumore delle pentole e delle posate riempiva la casa.
“Talia si ssù sucu è bbonu... vidica la sazizza è
pronta...arrimina la carni ca s‟appiglia.. li patati ..li patati... metti
li ligna sutta la tannura...troppu fumu cc'è....” dolce melodia di
parole e toni di voci che tutt'ora echeggiano nelle orecchie e che,
non nego, mi fanno sentire un leggero magone alla gola, specie se
la fantasia dei ricordi accoppia voci e immagini...
In mezzo alla stanza più grande c'era preparata una grande
mensa,spesso formata da due tavoli collegati, il tutto coperto
dalle più bella tovaglia dotale custodita con cura, posate buone,
bicchieri presi per l‟occasione dalla vetrinetta, dava l'impressione
di una lunga e grande tavola medioevale come si vedevano ogni
tanto nei film al cinematografo.
Non tutte le tavole erano così imbandite ne tutti i pranzi
natalizi erano succulenti e ricchi.
La maggior quantità erano poveri pasti con una o due portate
messe assieme dalla modestia e dai sacrifici della do‟na di casa,
spesso in difficoltà per la scarsezza di denari.
Per Natale si facevano i regali e molti nonni e papà preferivano
regalare qualche monetina al posto della fastidiosa ricerca dei
regali, che tra l'altro non era facile reperire.
Per i ragazzi era una delle poche occasioni in cui potevano
avere dei soldi; chi andava in bottega a comprare qualche
caramella... chi andava a conservarli “nni lu caruseddu”
(salvadenaro di creta cotta).. chi, purtroppo, andava negli angoli
delle piazze a giocarseli a “testa e littra”, “a spacca maduni”, “a
la riga”, “a zicchittuni”, “a lu zuzzu”, “a lu turnachettu”, spesso
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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perdendoli a favore di altri sempre più svegli, più scaltri, più
fortunati e... più bravi.
A seguire le feste natalizie comprendevano il passaggio
dall'anno vecchio all'anno nuovo; “lu capu d'annu”.
Il bello di questa festa era racchiuso nel passaggio notturno dal
31 di Dicembre al 1° di Ge‟naio.
Chi riusciva a resistere al sonno, sempre traditore in quelle
occasioni, poteva sentire qualche colpo di fucile o di pistola che
salutava l'arrivo del nuovo e la fine del vecchio anno.
Era tradizione buttare fuori dalla finestra qualche cosa di
vecchio e di rotto. Durante l'anno nella famiglia si rompeva
qualche suppellettile o qualche piatto; allora si metteva da parte
“pi lu capud'annu” e in quella notte, proprio allo scoccare della
mezzanotte, assieme agli spari si sentiva rumore di piatti infranti,
di “cicara” che si frantumava definitivamente per la strada; non
erano troppi i rumori di questa natura, ma quei pochi bastavano a
buttare via tutto il negativo che era avvenuto durante il vecchio
anno con l‟augurio che quello nuovo poteva portare tanta fortuna.
A portarsi via tutte le feste natalizie l'Epifania, festeggiata
prevalentemente in chiesa in ricordo della visita, dei Re sapienti,
a Gesù nella stalla di Betlemme. Questa ricorrenza era
prevalentemente una festa religiosa, ma era anche l‟occasione di
un‟ultima mangiata assieme a tutta la famiglia.
Per le famiglie benestanti era una occasione per fare un
regalino ai bambini; per molte altre solamente un giorno festivo e
null‟altro.
Certi bambini aspettavano un anno, condizionando spesso le
loro azioni, l‟arrivo della Befana; infatti quando facevano i
capricci molte persone erano soliti dire: “vidi ca nenti ti porta la
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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Befana”.
Chi se lo poteva permettere ed aveva i mezzi sufficienti
festeggiava la Befana. Raffigurata da una vecchia e brutta
strega che, cavalcando una scopa volante, portava regalini ai
bambini buoni ed ubbidienti; li depositava dentro una capiente
calza, appesa e preparata il giorno prima dalla mamma, il
regalino se erano stati buoni durante l‟anno, oppure dei pezzi di
carbone in caso contrario.
La befana portava con sé tutte le feste natalizie; tutte le cose
buone che solamente nel periodo natalizio si potevano
permettere; la grande opportunità di avere dei bei regali assieme
ai soldi, sempre bene accetti dai ragazzi; tutto finiva, restava
solamente il ricordo di quello che era stato, ma già
s‟incominciava a contare i giorni che mancavano per la prossima
occasione.
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Lu Canciacapiddi (Il cambia capelli)
Un personaggio che ogni tanto mi ritorna alla mente e che, alla
luce di oggi, mi accorgo quanta povertà,quanta miseria, quanto
bisogno, c'era nelle famiglie, è un personaggio al di fuori del
tempo, di fuori di ogni realtà, tutto fantastico, che solamente la
grande necessità di guadagnare per mangiare restando nella
legalità, un ingegnoso cervello, poteva inventare: “lu cancia
capiddi”. Ogni tanto, una volta al mese anche due a volte, per le strade
del paese si sentiva una voce gridare, sempre maschile e per quel
che mi ricordo sempre le due stesse persone, alternandosi oppure
dividendosi il paese in due: “cu avi capiddi vi li canciu...cu avi
capiiiddi”… “lu cancia capiddi…”
Con passo calmo, con un sacco sulla spalla e un contenitore,
legato con lo spago a mo di pacchetto, in mano, quel signore
“vanniava”; ogni tanto qualche do‟na (sempre donne sposate o
anziane perchè le ragazze si vergognavano oppure non era loro
permesso affacciarsi e parlare con estranei) lo chiamava “..a
bbossia.. a bbossia, cancia capiddi...” il signore si avvicinata
all'uscio della porta e la do‟na “mezza d'intra e mezza di fòra”
usciva dalla tasca di “lu faidali” (grembiule) un pugno pieno di
capelli arrotolati tra di loro ad anellini di varie misure.
Erano i capelli che alle donne, con i capelli sempre lunghi,
restavano in mano quando si pettinavano.
La mattina appena alzati e spesso la sera prima di andare a
dormire si pettinavano i lunghi capelli che non tagliavano quasi
mai, solo in certe occasioni.
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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Tra quelli che si spezzavano e quelli che cadevano
naturalmente restavano in mano dei piccoli ciuffeti di capelli;
questi non venivano buttati bensì arrotolati in un dito e poi
deposti in un buchetto del muro o in un contenitore.
Oggi...domani...poi... i ciuffetti si facevano tanti e venivano
presi proprio quando passava “lu cancia capiddi”.
“Chi mi duna cu sti capiddi ?”
“Chi avi bbisognu Vossia ?”
Mentre il signore metteva nel sacco il gomitolo di capelli la
signora chiedeva ciò di cui abbisognava: “ugli pi
cusiri...tomatici… pumetta pi cammisi...filu pi cusiri...”.
A seconda della quantità dei capelli il commerciante dava ciò
che si chiedeva, non tutto naturalmente, ma accontentava sempre
le persone che con quel piccolo commercio di capelli aiutavano
al far bisogno della famiglia e risparmiavano qualcosa che
altrimenti dovevano necessariamente comperare.
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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C'era 'na vota frammenti di mamoria
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‘na lu paisi e ‘na la campagna (Nel paese e nella campagna)
In quel periodo le piogge ed il maltempo la facevano da
padrone.
Iniziavano ad Ottobre e fino a Marzo era un serio problema.
Sette, otto ed anche più giorni sempre maltempo; pioggia,
vento, freddo, in continuazione; “inchi e addrivaca”, si diceva
perchè a breve pause di sereno seguiva acqua abbondante e
continua.
Le strade del paese erano un pantano; la Salita Regina Elena,
iniziando da “San Gaetano”e fino a sotto il “mulino di l'acqua”,
era un torrente in piena; a tratti anche profondo ed impossibile
da passare; dalla “scalunata” scendeva una grande quantità
d'acqua che impediva ogni piccolo spostamento,neanche tramite
quadrupedi.
Lo stesso per la Salita Matrice fino a “lu Canaleddu” e oltre.
Anche da San Gaetano si riversava una grande quantità di
acqua piovana in direzione del Largo Prato verso “Canalaro”e il
ponte di “Patri Vicè”.
L‟attuale villa comunale allora non esisteva, al suo posto c'era
una vallata, profonda oltre dieci metri, che raccoglieva tutta
l'acqua che proveniente dal paese alto.
La piazza Largo Prato, ove oggi sorge il poliambulatorio, era
percorsa per tutta la sua lunghezza da un “vadduni funnutu”;
raccoglieva le acque di mezzo paese.
C'era 'na vota frammenti di mamoria
85
Al posto della cancellata della villa comunale c'era un grande e
profondo ponte, “lu ponti granni” sopra cui passava la Statale
118; il vallone di “Canalaru” tutt'ora esistente ci può dare un'idea
di quello che era “lu ponti granni” e la portata d'acqua che aveva.
Dalla statale 118 si entrava al Paese, per chi veniva da
Agrigento; circa un chilometro prima di arrivare a “lu ponti
granni” si incontrava “lu ponti di Patri Vicè”, altro ponte
notissimo ai cittadini per essere stato luogo di fatti e racconti veri
e fantasiosi, il cui sottopassaggio era tanto alto ed ampio
(trazzera regia) da permettere il transito delle persone a cavallo ai
muli; tale trazzera conduceva al paese di Cattolica Eraclea e
attraversava “tuttu lu feu di lu Cavaddu” unico feudo
appartenente all'agro di Cianciana.
Tutto era fermo in quei giorni freddi e piovosi d'inverno, in
particolare i lavori nei campi.
A settembre, tempo permettendo, si incominciava a preparare
la terra per le semine.
Si lavorava con la zappa o con l'aratro, per chi non possedeva
un aratro, che doveva essere trainato da muli e non tutti
possedevano animali, poteva prenderlo in affitto con tutto il
proprietario che eseguiva il lavoro di aratura dietro pagamento
spesso in frumento o fave, all'atto della raccolta.
Secondo la coltura da collocare nella terra la zappa o l'aratro
non erano sufficienti allora si lavorava la terra col piccone
rivoltandola fino a circa quaranta centimetri di profondità; era
un lavoro massacrante e la resa poca; si utilizzavano quattro
cinque anche più persone che messe uno accanto all'altro
“scatinavanu lu tirrenu”.
Era uno spettacolo di fatica e di durezza ma “lu pani era duci e
C'era 'na vota frammenti di mamoria
86
la famiglia avia mangiari”.
Dopo qualche oretta di lavoro il sudore inzuppava la camicia,
allora si lavorava a dorso nudo (lu scatinamentu si eseguiva nei
mesi di Settembre - Ottobre - dalle nostre parti fa ancora caldo)
mettendo in evidenza corpi scarni ma muscolosi; si potevano
contare le ossa e le grosse vene che con l'eccessivo sforzo ed il
sudore si gonfiavano e si mettevano maggiormente in evidenza.
Appena il tempo si metteva al bello la terra scaricava l'acqua
ricevuta ed il vento ne asciugava la crosta permettendo, allora, di
lavorarla.
I contadini subito si affrettavano a seminare i prodotti tipici
della nostra tradizione ed adatti alla nostra terra: fave e
frumento, qualche volta orzo o ceci.
In tutte le parti del Paese, in tutte le strade era un continuo
fermento; centinaia e centinaia di muli, cavalli, asini, che per
tutto il periodo delle piogge si erano riposati stando nella stalla a
mangiare e dormire, venivano preparati con le loro some “li
sidduna” su cui si legavano le sementi e gli strumenti utili per la
semina.
A completare la preparazione per la partenza il solito cane, che
sul posto di lavoro faceva “la guardia a la robba” in compagnia
di una capretta, che produceva il latte per la famiglia.
Il correre, l'abbaiare dei cani, il rumore degli zoccoli ed il
conversare dei contadini, svegliavano tutto il vicinato, sì che
quasi tutto il Paese era sveglio con le stelle ancora in cielo ed un
tenue chiarore all'orizzonte.
Tutte le uscite del Paese, verso tutte le direzioni che lo
circondavano, erano un continuo esodo di animali e di persone;
centinaia, qualche migliaio certamente, erano in cammino in
C'era 'na vota frammenti di mamoria
87
direzione diverse: “pi jiri a siminari”.
In qualsiasi direzione in qualsiasi appezzamento di terra,sia
esso grande che piccolo, era un continuo movimento di persone e
di animali; “areccììì” - “tiràti beddi meee”-“a la voccaaa” spesso
non avevano significato quelle frasi gridate con musicale
cantilena dai contadini, ma erano riconosciute dall'animale e
sufficienti per spronarlo a mettere più forza nel trainare l'aratro,
mentre dietro di lui un altro operaio, seguendo la scia lasciata
dall'aratro (lu surcu) lasciava cadere con competenza e sapienza
il prezioso seme.
Tanti i canti ad alta o a bassa voce le cui cadenzate e
melodiose note accarezzavano l'orecchio di chi ascoltava e
ritmavano il lavoro del bracciante che con la zappa, spesso in
compagnia di qualche altro collega, seminava la terra,con nel
cuore la speranza mista ad una preghiera che ogni chicco
seminato darà dieci, cento, tanto da potere pagare le spese e
restare il sufficiente per sfamare la propria famiglia.
Fave, frumento, prezioso cibo per le famiglie, se ne
aspettavano sei di mesi per la maturità e la raccolta.
Durante questo tempo non si stava con le mani in mano, la
campagna aveva sempre tante necessità.
Seduti in un angolo della casa oppure nel davanzale della stalla
si procedeva alla fabbricazione delle “liame” ciuffi d'erba (disa)
molto lunghi e duttili tali da potersi legare tra di loro formando
una specie di corda con cui legare “la gregna” (il covone di
grano mietuto), per essere trasportato, in seguito, alla successiva
lavorazione.
Si costruivano o si riparavano “li zimmila”, “li
zimmiledda”,”li coffi”, contenitori di materiale naturale
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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intrecciato da mani esperte, molto in uso per trasportare il
concime stallatico o quant'altro.
Si costruivano o si riparavano “li carteddi”, “li panara”, con
manici o senza, altro tipo di contenitore, fatto sempre a mano
utilizzando strisce di ca‟na e virgulti (jttuna) d'olivo.
Revisionavano e mettevano a punto li zappuna, li capistri, li
retini, li sidduna e li jughi pi li muli e li scecchi; la vardedda e la
sedda pi li jiumenti e pi li cavaddi; affilavano e oliavano li
sirracula e li forbici pi putari, preparavano lu pignateddu cu la
pici nivura, pi nnistari.
Non finivano mai di lavorare, quando sembrava avere
terminato se ne presentavano altri, non meno importanti dei
primi.
Febbraio “lu friddu di Frivaru si mpila intra lu cornu di lu vò!”
si era soliti ripetere; i contadini se ne stavano a casa, imbacuccati
nei lori lunghi e sempre neri scialle, accanto al braciere (spesso al
posto del braciere veniva utilizzato qualche vecchio contenitore
in disuso).
Fuori il freddo, il vento, la pioggia la facevano da padrone;
per le strade non si sentiva nessun rumore, solo il continuo,
incessante rumore dell'acqua che cadeva dai tetti “di li canala”,
finendo immancabilmente quasi al centro della strada dando
origine ad un torrentello spesso impetuoso (lo scarico delle acqua
nelle fogne era inesistente, tutto ciò che cadeva per terra scorreva
in maniera naturale per scivolamento o infiltrazione nella terra).
Arriva Marzo (“Marzu ogni troffa è jiazzu”) la natura si
risveglia si veste si imbellisce e si prepara a ripetere il
meraviglioso miracolo della nascita della vita e della
riproduzione.
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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Si termina la potatura degli alberi che già danno segni di
avanzato risveglio; si tolgono i tralci selvatici dalle vigne,
legando i teneri tralci in maniera che il vento non li faccia cadere;
si passa una spolverata di zolfo sulle foglie, “si vò viviri vinu... a
Marzu la forbicia mmanu”; si innestano il mandorlo e le tante
altre specie di frutto, ed infine si raccoglievano gli scarti della
potatura, cioè “li rami” e li si legavano, “cu li liami”, in fasci
pronti ad essere utilizzati per accendere il fuoco e cuocere i cibi
nelle cucine di casa.
Le piante del frumento e delle fave, ormai grandicelle,
avevano necessità di essere liberate dalle erbe infestati e parassite
(la Jina, li lassani, la spatulidda, la spiredda,) lavoro questo in cui
si vedevano tra i campi anche le mogli dei mezzadri e dei
braccianti (le donne ciancianesi per tradizione locale stavano a
casa e molto raramente andavano a lavorare nei campi se non per
assoluto bisogno), estirpavano le piante parassite utilizzando una
piccola e leggera zappetta con il manico lungo, “la zappudda”, o
addirittura con le mani lasciando tutte le sostanze della terra alla
coltura voluta; con le mani che per molto tempo rimanevano
“lordi e ngrasciati” di un colore nero-verde.
La terra si presentava soffice e molto buona da lavorare; con
la zappa allora si procedeva a dare una zappata alle fave
liberandole dalle erbe infestanti e ad incappucciare le piccole
piantine per proteggerle da qualche violento colpo di vento o
dalle micidiali gelate mattutine.
La produzione delle fave era importantissima; venivano usate
per darle da mangiare agli animali, venivano usate anche come
cibo per le persone preparandole in diverse maniere, il più si
vendeva per “pagari li spisi”.
C'era 'na vota frammenti di mamoria
90
Tradizionalmente la fava era il prodotto più coltivato, dopo il
frumento, nelle nostre terre che si adattavano in maniera egregia
al far bisogno nutrizionale di queste piantine; dopo il frumento le
fave era il prodotto più diffuso.
Aprile si continuava nella pulizia dei campi ed in particolare
alla potatura degli ulivi da cui si ricava l'olio, prodotto nutriente e
genuino, importantissimo nella dieta giornaliera; l'olio era molto
apprezzato, usato con parsimonia “priziusu comu l'oru”si era
soliti dire; non tutti lo producevano, si andava a comperarlo alla
bottega con un contenitore adatto, spesso di creta “l'aglialoru”,
guai seri se durante il tragitto, per una scivolata o un urto
involontario, si rompeva, allora erano dolori e “stridor di denti”.
I mandorli, allora in grande quantità nelle nostre terre, erano
tutti in fiore addirittura qualche albero primizio aveva già “li
mennuli virdi” pronti ad essere mangiate, per la gioia dei ragazzi
che a piccole bande andavano nei campi a “rrubbari li mennuli
virdi” facendone incetta con quasi sempre conseguenti dolori allo
stomaco e “cacaruni”.
Arile - Maggio gli alberi da frutta incominciavano la loro
produzione; li panara e li sacchini andavano e venivano dalle
campagne; “a lu Patruni di lu tirrenu, a lu Dutturi, all'Abbucatu, a
lu Professuri, all'Amicu mportanti”; era il tempo di ricompensare
la buona azione ricevuta, ricambiando coi doni di primizie che la
terra, sempre generosa, dava a chi la coltivava con amore.
Si preparava tutto il necessario per raccogliere le fave e il
frumento.
Dopo averle mietute asciugate e “mbasciatu” le fave venivano
portate “nall'aria” uno spiazzale, preparato dal contadino in
precedenza ed usato più volte e da più persone che partecipavano
C'era 'na vota frammenti di mamoria
91
alla realizzazione dello stesso; di forma rotonda, realizzato di
proposito in una zona ventosa (molto importante questo), dentro
cui si collocavano i fasci di fave.
Riempita l'aia, si procedeva “a la pisata” facendo correre in
tondo su di essi una due, muli, o cavalli, o asini, o coppie miste,
in modo da schiacciare e fare uscire dai baccelli le fave; dopo ore
di continuo girotondo, da parte delle bestie e della persona che li
guidava, il prodotto veniva separato dallo scarto “spagliannu”;
utilizzando dei forconi di legno veniva buttato all‟aria il materiale
misto, lasciando che il vento, sempre presente nel luogo
appositamente prescelto, portasse lontano dalle fave la paglia,
consegnando al contadino il prodotto pulito e finito, pronto
all'uso.
“A la pisaredda bedda bedda... Arecciiiiii.... sciuscia beddu
miu...!”, le solite cantilene che i contadini gridavano per
accompagnare e sollecitare ora i poveri animali costretti a correre
in tondo per ore ed ore, oppure quasi fosse una preghiera rivolta
al vento affinché soffiasse forte per agevolare la separazione del
prodotto dallo scarto.
Che bellezza vedere “l'aria china di favi “bianche e nere,piatte
e piccole,era mangiari e... benessere!
Il tempo appena di finire con le fave che già un altro prodotto
era pronto per la raccolta.
Arriva Giugno: “faci mpugnu”!
Le grandi distese di spighe gialle già mature e pronte alla
raccolta ondeggiavano alla soffice ed accarezzevole brezza della
sera; il grano era maturo il momento di tirare le somme di una
a‟nata di lavori e sacrifici era arrivato.
Sui gradini della “scalunata” e sopra i due spiazzali di li
C'era 'na vota frammenti di mamoria
92
“casotti”alcune decine di “mititura stranii” stavano ad aspettare
che i proprietari li “adduvassiru pi metiri lu lavuri”.
Erano poveri operai di paesi viciniori che non potendo trovare
lavoro nei propri paesi si recavano a piedi nei paesi vicini, con la
speranza di potere lavorare come mietitori e portare un tozzo di
pane alla famiglia.
Erano brave persone ed ottimi operai che facevano i lavori dei
campi con perizia e conoscenza; a questi si univano, quasi
sempre, quelli locali, conoscitori delle contrade e dei posti,
spesso persone di fiducia dei proprietari ed utilizzati anche per
altri lavori durante l'anno.
Vederli lavorare era uno spettacolo: camicia con le maniche
lunghe, cappello di paglia a falda larga in testa, qualche ditale di
ca‟na per proteggere le dita della mano di appoggio e via...sei,
sette operai, uno accanto all'altro; una grande distesa di giallo
grano davanti a loro ed il sole in cielo che “cuciva l'ova”; tutti gli
ingredienti erano lì, per iniziare la giornata di lavoro massacrante
“di lu mitituri”.
La falce roteava con maestria spinta dalla forza di quelle
braccia potenti e laboriose, il braccio sinistro accumulava,
coricato su di esso, il grano mietuto e appena pieno che non ne
poteva più contenere, legato il mazzo con le stesse spighe, veniva
deposto a terra, quel mazzetto era chiamato “manata”; più
manate formavano “un iermitu”, più “iermita” formavano una
“gregna” che veniva allacciata con la “liama” (preparata in
inverno quando pioveva e non si poteva lavorare); ogni sei
“gregni” erano un carico di mula.
La mietitura durava fino a Luglio per poi passare alla fase
della raccolta del frumento vera e propria.
C'era 'na vota frammenti di mamoria
93
Le spighe “li gregni”, sempre a dorso di quadrupedi, si
trasportavano nelle aie, come si faceva con le fave; qui venivano
sistemate, tutto a forza di braccia, dentro lo spiazzale una accanto
all‟altra.
Si facevano entrare i muli, o altri quadrupedi adatti a qual
lavoro, guidati da un uomo si incominciava a girare in tondo per
ore e ore.
Guidare gli animali dentro l‟aia era certamente un lavoro
pesante; sotto i raggi cocenti del sole si doveva girare
continuamente su se stessi stando attenti agli animali; non meno
pesante era il lavoro successivo, della divisione del frumento
dalla paglia e dalla pula.
L'artefice principale dello spagliare era il vento, se questo
soffiava in maniera forte si poteva procedere alla pulizia del
grano in maniera spedita, se no si aspettava ore ed ore, mezze
giornate, giornate intere, prima che il vento si mettesse a
“sciusciari”.
Anche se il posto era considerato da sempre ideale per
l‟utilizzo del vento, ogni tanto capitava una totale scomparsa del
vento costringeva gli operai a starsene con le braccia conserte per
tanto tempo, in attesa che il vento riprendesse a soffiare.
Allora incominciavano a bestemmiare, ad imprecare
paurosamente; ogni filo era una trave, tutto andava a rotoli,
“tutticosi a mmia a‟naccapitari... Tutti ì cci li chiantavu li chiova”
la sfiducia incominciava a pervadere l'animo del contadino che
si sentiva abbandonato anche dalle forze superiori.
Bastava che la bonaccia si allontanasse ed il vento
incominciasse a soffiare che subito spazzava via anche i brutti
pensieri del contadino che, presi gli strumenti sempre lì a
C'era 'na vota frammenti di mamoria
94
disposizione e facendosi aiutare da qualche lavoratore, iniziava
con rinnovata lena a spagliare buttando col forcone all'aria certe
quantità di paglia miste al prezioso cereale: il frumento.
Giornate intere passavano prima che tutto il prodotto contenuto
nell'aia potesse essere diviso dalla paglia, giornate di duro lavoro
a spagliare ad a crivellare.
Chi aveva tante terre doveva per forza approntare tante aie e di
conseguenza tantissime giornate di pisari e spagliari; due, tre
settimane, prima di finire.
Alla fine il biodo e prezioso frumento era pronto per diventare
prima farina e poi pane.
Il trasporto a casa avveniva a dorso di muli; decine centinaia di
animali che trasportavano “li visazzi” o li sacchi ricolmi di grano
da destinare in parte a pagare le spese, altro per il fabbisogno
della famiglia, portandolo direttamente al mulino, da dove,
all'occorrenza, si poteva ritirare la farina; oppure collocandolo
nelle “fosse” edificate apposta sotto i pavimenti ed atte a
contenere fave e frumento.
Quando il prodotto era particolarmente abbondante veniva
sistemato, a grandi cumuli, in ariosi magazzini, in maniera tale
che il frumento fosse sempre ben areato e non marcisse, pronto
alla commercializzazione.
Nella compra vendita dei prodotti della terra era chiamato
l'esperto “lu mizzanu” che, sempre a contatto con i grossi
commercianti dei grandi centri, stabiliva il prezzo e lo metteva in
circolazione in maniera che tutti gli interessati lo sapessero.
Luglio - Agosto passava nella canicola, all'ombra delle piante
o per chi non aveva una casetta in campagna “„na li pagliata” a
cercare un po di refrigerio gustando i prodotti delle piante; fichi,
C'era 'na vota frammenti di mamoria
95
fichidindia, pere, uva, albicocche, prugne, sempre succose,
odorose, dolci.
Gli orti erano nel pieno della produzione; i pomodori, rossi e
pieni di gustoso succo, regalavano tanto buono estratto da
utilizzare quale condimento nei freddi inverni, abbellivano le
tavole col loro intenso colore, accarezzavano il palato
accompagnando un odoroso e gustoso pezzo di pane.
Cocomeri, cetrioli, meloni, angurie, “battagliuna”
contribuivano, con i loro gusti ad arricchire le prelibate insalate,
tanto gradite nelle calde giornate estive.
In questo periodo si procedeva alla raccolta delle mandorle,
molto numerose ed abbondanti nelle nostre terre; lavoro che
richiedeva tanta manodopera e molto tempo, prima di potere
avere il prodotto finito.
“Prina si scutulavanu, pò si cuglivanu, pò si scrucchiulavanu,
pò si scacciavanu, pò s'assiddijvanu e pò si vinnivanu o si
mangiavanu” (questo avveniva molto raramente dato che il
ricavato della vendita dava “„na manu d‟aiutu” a pagare le spese
sostenute e un guadagno al proprietario coltivatore.
La mandorla è stata sempre un prodotto molto apprezzato; la
natura delle nostra terre si prestava molto bene alla loro
coltivazione.
Le nostre zone ne producevano una grande quantità, esportava
tutto il prodotto contribuendo in maniera considerevole al
guadagno dei proprietari.
Settembre era dedicato oltre che al lavoro dei campi alla
raccolta dell'uva, alla vendemmia.
La vendemmia era una festa.
Andare a vendemmiare, per chi aveva la vigna, era un
C'era 'na vota frammenti di mamoria
96
divertimento; tutta la famiglia, piccoli e grandi, si recavano in
campagna forniti di “panara”, “carteddi”, “cutedda” e “forfici”.
Si iniziava la raccolta dell‟uva; si faceva molta attenzione a
non ferirsi qualche dito, e facendo attenzione a mettere da parte i
grappoli grossi e belli da portare a casa e fare qualche regalo; una
particolare attenzione era rivolta alla qualità dell‟uva “nzolia”
molto adatta ad essere appesa nei posti molto asciutti ed aerati
per poterla usare nel periodo invernale oltre che utilizzarla come
uva passa “passula” nei dolci che tradizionalmente si facevano in
casa.
Il vociare dei bambini era sempre presente; i richiami delle
mamme, i pianti dei piccoli prepotenti, l‟abbaiare degli
immancabili cani.
Tra risate, solleciti, pianti, si arrivava all‟ora ella pausa di
mezzogiorno.
I convenuti si sedevano tutti assieme, cercando di dare qualche
comodo grosso sasso alle donne presenti, mentre gli uomini si
accomodavano in terra; i ragazzi non si sedevano mai, sempre a
correre e giocare festosamente.
“Pani e racina”, “pani e aulivi virdi scacciati, cu l‟aglia e
l‟accia”; non si cercava di meglio, non c‟era niente di meglio in
quella occasione!
Odori, sapori, natura, compagnia, c‟erano tutti gli ingredienti
per godersi una bella giornata di “vinnignari”.
Al ritorno a casa molti erano “li panaredda”che circolavano
per le strade pieni di succoso frutto; si portavano a qualche
amico, ai vicini più meritevoli, ai parenti stretti, per far loro
gustare il buon prodotto.
Penultimo atto che chiudeva la stagione estiva la pigiatura
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dell'uva e la conseguente produzione del mosto.
In quel periodo le strade erano piene dell'odore del mosto e del
vino, dato che si procedeva alla pulizia delle botti per le strade
davanti la propria casa, riversando in strada tutto ciò che usciva
dalla botte “la fezza di li carratedda e di li vutti” durante la loro
pulizia.
Un buon bicchiere di vino era molto gradito dai nostri nonni e
di vino buono ce n'era!
Ultimo atto dell'anno agricolo era la raccolta e la molitura delle
olive. “La scutulatina” (abbacchiatura) iniziava alla fine di
Ottobre e si inoltrava fino a quasi tutto Novembre.
Il prodotto veniva portato, sempre a dorso di mulo o con
carretti, “a lu trappitu” ove pestato e reso poltiglia da due
gigantesche ruote di pietra (la macina) fatte girare dal traino di
un mulo o di un un asinello veniva sistemato in apposite “coffe”
di forma rotonda; queste venivano collocate sotto una potente
pressa che ne spremeva il prezioso liquido.
Il prodotto, un misto di acqua ed olio, veniva incanalato in
una vasca di cemento a riposare; l'olio, più leggero dell'acqua,
saliva in superficie ove gli interessati, muniti di “piatti e
cicareddi”, lo raccoglievano e lo depositavano “nni li quartari” a
riposare, per essere usato all'occorrenza.
L'oliva era molto importante nella vita della nostra gente; la
nera o la verde, magistralmente trattate, venivano conservate ed
usate come companatico nella dieta quotidiana; si trovava sulle
tavole dei benestanti come dei poveri; usata con parsimonia e con
rispetto; molto nutriente e gustosa si accompagnava in decine di
modi diversi.
Questa, molto confusamente ma fedele in sintesi, la vita della
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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nostra popolazione che viveva lavorando la terra e dei suoi
prodotti; da essa traeva sostentamento e ricchezza.
Non era una vita molto comoda, come tutto ciò che viene dal
duro lavoro manuale, ma permetteva alle famiglie di “mettiri la
pignata e dari un pezzu di pani, anchi duru, a li figli”.
Oggi si guarda la campagna con occhio indifferente, quasi “un ci
fussi nenti”; qualche volta si accarezza con l'occhio il dolce e
delicato verde che madre natura, sempre buona e generosa ci
regala; spesso nei mesi caldi ci si ferma per le strade ad ammirare
lo spettacolo del fuoco mentre sta divorando un pezzo di macchia
mediterranea, un angolo di bosco, un albero di ulivo o una
semplice “troffa di disa”; stiamo lì a guardare senza spirito
d'iniziativa, senza sentimenti, quasi imbambolati ad aspettare che
quelle fameliche lingue finiscano di incenerire quello che la
natura e con essa il sacrificio che centinaia di braccia ci hanno
donato, per il godimento dei nostri sensi e il fabbisogno del
nostro corpo; stiamo lì, senza che nessun interesse ci spinga a
cercare di salvare quella ginestra, pianticella molto generosa di
bellezza per i nostri occhi e di fragrante profumo per le nostre
narici; stimoli questi che regalano attimi di serena tranquillità;
stiamo sempre lì assenti, come a guardare uno scadente
spettacolo, mentre la mente vaga altrove (forse al prezzo della
benzina che sale ancora), ad assistere alla trasformazione in
cenere di un immenso e secolare “carrubo”, luogo di refrigerio e
di dolce riposo del contadino stanco del lavoro quotidiano sotto i
cocenti raggi del sole, casa e rifugio di decine e decine di
uccellini che saranno violentemente costretti ad andare chissà
dove, o tana calda e generosa di una famigliola di conigli proprio
nel momento in cui mamma coniglia deve mettere al mondo la
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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sua numerosa nidiata; stiamo ancora lì confusi, a vedere
scomparire un delizioso panorama, col “telefonino” in tasca
senza cercare, almeno, di avvisare le autorità preposte allo
spegnimento degli incendi, a cercare di fermare in qualche modo
la violenza con cui il “nemico” sta vincendo la battaglia,
pensando: “tantu... avanzi c'arrivanu cca...); stiamo lì ad
aspettare, infine, che l'elemento, scatenatosi quasi sempre per
nostra colpa e volontà, finisca di cancellare le orme lasciate, con
tante pene e sacrifici, dai nostri progenitori che hanno seminato
il “buono” con la speranza che i loro figli, noi, potessero, in
futuro, raccogliere “l'ottimo”.
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Lu Firraru
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(Il Maniscalco)
Molto spesso quando si andava a letto presto, cioè quasi tutte
le sere, al corpo soddisfatto dal lungo sonno ristoratore piaceva
stare a letto, in dormiveglia, ad aspettare che arrivasse la mamma
con la grande “cicara” piena di latte e pane a svegliarti
definitivamente.
Ma prima, molto prima che dalle piccole fessure della finestra
entrava la vivida luce del giorno, l'orecchio, sempre all'erta,
riceveva un suono metallico ritmato, a volte gradevole, in
verità.
Non c'era differenza di stagioni sempre, qualche mattinata
taceva, ma per poco; era lì, lo si sapeva che prima o dopo doveva
incominciare!
Per i dormiglioni era un serio problema essere svegliati da
quella... musica!
“Maaaa! dicicci chi si la finissi... almenu ncuminciassi cchiu
tardu!”
Per i giovani alle sei del mattino era ancora notte, ma per chi
doveva dar loro da mangiare già da tempo era incominciata la
giornata di lavoro!
Tin, tin, tin, tin, tin-tin-titititi era il suono del martello
sull'incudine; il fabbro ferraio (lu firraru) già dalle prime luci
dell'alba “avia graputu la putia” aveva iniziato il proprio lavoro.
Fuori, nello spazio davanti la porta della bottega sempre a
piano terra, quattro cinque quadrupedi, legati per il capestro
(retina) ad uno dei numerosi anelli murati al muro della casa,
aspettavano il turno per essere “firrati”.
Era un'operazione che i contadini facevano ai loro animali da
C'era 'na vota frammenti di mamoria
103
soma ogni qualvolta l'usura consumava i ferri messi ai piedi per
salvaguardarne le unghie.
Gli animali tra asini, cavalli, muli, bisognosi di tale intervento,
erano moltissimi per cui i fabbri, operanti in paese, avevano
lavoro in abbondanza.
Dopo aver legato per bene l'animale il padrone gli alzava un
arto e “lu mastru firraru” con perizia e maestria, procedeva al
cambio del ferro,non senza pericolo,, specie se la bestia era un
poco adombrosa “faza”.
Allora incominciava la farsa: “teni fermu ss'armali...vidi ca si
sciuglì...teni fermu ssu pedi...chiama aiutu ca sulu „un ci la fa...
sta attentu, attentuuu...”.
Tra tutte le arti e mestieri che si esercitavano in Paese quello
del fabbro ferraio era certamente tra i più pericolosi e pesanti;
sempre davanti la “forgia” o col martello in mano a “martiddiari
ncapu la ncuina”.
La “putia”, sempre uguale ovunque, comprendeva in un
angolo la fucina “la forgia”, ad un lato di questa il mantice
“mantaciu”, che incanalava l'aria prodotta sulla “tannura”, il
luogo ove bruciava il carbone per arroventare il ferro che doveva
lavorasi; un altro angolo era riservato al ferro, barre di tutti i tipi
e misure appoggiate lì in attesa di essere prese per la necessità
che si presentava; a terra tantissimi pezzi e pezzettini, perché
“ponnu serbiri”, non si buttava nulla, tutto veniva utilizzato,
anche i pezzettini più piccoli potevano diventare chiodi; una larga
parete era utilizzata per mettere in bella mostra e pronti per essere
adoperati decine e decine di ferri di cavallo, di diverse misure:
piccoli per gli asinelli e grandi per i muli ed i cavalli; spesso
artisticamente lavorati, per le esigenze di chi se lo poteva
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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permettere, i modelli di media grandezza erano la maggioranza,
destinati ai muli avvezzi e più adatti ai lavori pesanti.
A poca distanza dalla “forgia” troneggiava, maestosa, una
pesante incudine “la nguina” di ferro, incastrata su un ceppo di
legno, con le due estremità di forme diverse: una rotonda e l'altra
quadrata, per consentire la formazione di archi o di angoli al ferro
lavorato; quasi ad una delle due estremità un poco verso l'interno
spiccava un taglierino a forma di piramide strozzata a taglio per
intaccare le piccole barre e tagliarle agevolmente.
L'incudine stava sempre vicino la forgia, perchè il ferro
rovente uscito dalla fucina trovasse subito l'appoggio ove poterlo
adagiare per essere lavorato; lì vicino a pochi passi un grosso
recipiente pieno d'acqua, sempre nera, per immergervi il ferro
a raffreddare.
A lato un tavolo robusto col pianale foderato di lamiera su cui
si eseguivano piccoli lavori di precisione; in uno dei due lati del
tavolo stava una grossa morsa indispensabile per tenere fermo ed
alla giusta altezza il pezzo da lavorare; messi in bella mostra, ad
un lato del tavolo le lime; quadrate, rotonde, piccole o grandi;
tre, quattro pinze, con lunghe braccia atte a tenete e rivoltare il
ferro rovente nella brace della fucina; una cassetta con il manico,
contenente gli strumenti per pulire le unghie dei quadrupedi
prima di ferrarli, posto in un posticino vicino la porta d'entrata,
perchè faceva un “tanticchia di fetu”; diversi martelli di tante
grandezze, da quelli piccoli alla mazza, molto pesante e
indispensabile, per appiattire il ferro sull'incudine.
Qualche banchetto di legno e qualche sedia mezza rotta, per
dare la possibilità a chi aspettava il turno o a qualche
immancabile visitatore, di potersi sedere completavano la scura
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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bottega del fabbro ferraio (di lu firraru).
In quel luogo nulla c'era di elegante anzi il pavimento,
nerastro, spesso di terra battuta, al massimo “ncimintatu”, dava
alla bottega un aspetto tetro ma nel contempo sufficiente e senza
fronzoli, che offriva il necessario per un perfetto funzionamento,
secondo il tradizionale ruolo cui doveva assolvere.
Come in ogni esercizio non mancava il ragazzo di bottega (lu
giuvani) che doveva imparare e garantire la continuità del
mestiere artigianale; faceva i lavoretti più umili, dal mettere
ordine nella bottega al pulirla all'occorrenza, dall'eliminare i
residui lasciati dai muli davanti la porta al tirare “li mantaci” per
attizzare il fuoco della fucina.
Proprio il tirare “li mantaci” spingeva diversi ragazzi ad
assistere il fabbro nel suo lavoro; mentre si tirava la corda su e
giù il vento prodotto ed incanalato sotto la brace da un tubo,
produceva il risultato di rendere il carbone “lu carbuni di trenu”
vivido, facendogli sprigionare centinaia di luminose scintille che
diffondendosi nell'aria circostante davano una sensazione di
gioco pirotecnico (un casteddu di focu), per la gioia degli occhi
di chi guardava con interesse.
Che spettacolo vedere uscire dalla fucina l'estremità di una
barra di duro ferro trasformata dal fuoco di quel carbone!
In origine nerastro, usciva dalla fucina di un colore arancione
vivido, ardente, pronto a sottomettersi alla volontà dell'uomo;
tin... tin...tin... il martello iniziava il suo concerto; sotto i potenti
colpi, guidati dalla bravura di “lu mastru”, quel materiale duro ed
inattaccabile diventava docile ed ubbidiente ai comandi del
padrone: “di lu firraru “.
I lavori che eseguiva erano sempre di quotidiana utilità; dai
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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chiavistelli “li surchiari” alle stanghe per porte e finestre “li
stanghetti”; dai ferri di cavallo alle serrature per porte “li toppi”;
dalle grate “li gradi” ai tavoli “li tavulina di ferru”; dalle zappe
”li zappuna” ai vommeri per gli aratri “li sommari”, dai piccoli
ed utilissimi chiodi “li chiova” di tutte le specie e misure ai
capolavori quali: lampadari, candelieri, balconate, manici di
porte, fiori di tante forge; era il massimo che la fantasia unita alla
bravura di lu firraru potesse produrre.
Oggetti che per diversi secoli saranno la testimonianza della
grande ed estrosa capacità dell‟uomo, di “lu mastru firraru”.
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Lu Venniri è Santu (Il Venerdì Santo)
Da sempre i ciancianesi sono stati un popolo religioso,
osservante, credente, praticante.
Le funzioni religiose erano seguite da centinaia di persone; le
tre parrocchie operanti nella comunità erano sempre affollate di
fedeli che, con tanta umiltà e senso di contrizione, assistevano
alle funzioni religiose che si svolgevano durante l'anno.
Il sentimento che di più avvicinava, spingeva, la gente alla
penitenza ed alla preghiera, era un senso di colpa trasmesso dalle
antiche generazioni e radicato profondamente nell'animo: che la
crocifissione e morte di Gesù Cristo fosse stata causata anche
dalle loro colpe, dai loro peccati.
In ogni occasione di sofferenza o di gioia la mente era rivolta a
Lui i‟nalzando lodi di preghiera e di ringraziamento.
Durante il duro lavoro o in un momento di riposante pausa,
come se l'anima volesse scaricarsi di un qualche peso, buttando
fuori un profondo respiro erano soliti rivolgere gli occhi al cielo e
ripetere: “a la volonta di Dìu”, “comu voli Diu facemmo”, tutto
era in funzione di Lui, bene-male, gioia-dolore.
Con questo sentimento sempre vivo nella coscienza della
gente, la ricorrenza religiosa che coinvolgeva molto intimamente,
ed in maniera veramente partecipativa, era certamente la
settimana santa, “la Simana Santa” specie il culmine di questa
ricorrenza: “lu Venniri Santu”.
Durante la “Simana Santa” il digiuno era doveroso; i ragazzi
ed i bambini magari saltavano questo dovere, ma quelli di una
certa età e gli adulti erano tutti presi dal rispettare il digiuno.
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La mattina, dopo il risveglio, i ragazzi aspettavano la solita
“lattera” piena di latte e pane, per la abituale colazione, ma
puntualmente la mamma ripeteva “Oj no ca murì lu Signiruzzu;
oj si diuna”.
Per i ragazzi, che avevano sempre “lu pitittu spidugliatu”, la
fame era una vera penitenza, ma, per quel giorno, si doveva fare
pazienza oppure mangiare qualcosa di nascosto, come spesso
avveniva.
I ragazzi non aspettavano la sera per mangiare, appena
avevano a portata di bocca un pezzetto di qualunque cosa
commestibile la facevano scomparire.
Fin dalla mattina presto si andava in chiesa ad assistere alle
funzioni religiose; per quel giorno tutto si svolgeva alla Matrice
“a la Chiesa”, la chiesa per eccellenza; le altre venivano chiamate
semplicemente (a lu Carminu, a lu Cummentu, a lu Priatoriu).
In breve tempo le tre navate erano piene di persone; dentro
stavano le donne quasi tutte sedute in banchi di legno o su delle
sedie, che una vecchietta teneva a disposizione in cambio di una
piccola offerta; gli uomini si sistemavano in piedi nelle navate
laterali ammassati fino ad arrivare davanti le porte.
I ragazzi, a decine, correvano e vociavano nello spiazzale
antistante; i giovanotti guardavano, molto interessati, in direzione
delle ragazze, che con le loro mamme o sorelle assistevano ai riti
sacri.
“L'omini” (gli adulti) aspettavano a capannelli chiacchierando
a voce bassa.
In un angolo della piazza stavano “li musicanti” i componenti
del gruppo bandistico musicale di cui i ciancianesi andavano
fieri, sia per la loro rinomanza che per la loro bravura e la grande
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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quantità di riconoscimenti conquistati in molte località della
Sicilia ed anche oltre.
Se ne stavano riuniti a provare, molto sommessamente, i loro
strumenti, come sono soliti fare prima di iniziare a suonare.
Tutta la piazza antistante la Matrice era piena, gente che
entrava e usciva dalla chiesa; “li fratelli di lu Signuri e di
l'Addilurata” incominciavano a preparare la loro sfilata, con
addosso i tradizionali abitini, gli uni rossi egli altri neri; le pie
donne preparavano la processione per andare al Calvario “a la
Cruci”.
Quando le funzioni religiose stavano per finire su di una
artistica e bellissima lettiga, con alle due estremità delle robuste
aste per poterla collocare sulle spalle dei portatori, veniva
deposto “lu Signuri” da condurre in processione al Calvario.
Dalla chiesa incominciavano ad uscire le persone, che piano
piano e con grande senso dell'ordine si disponevano nella piazza
antistante in attesa che dalla chiesa uscisse “lu littirinu cu lu
Signuri”.
Era tutto un fermento; ragazzi, adulti, tutti cessavano di
parlare; anche il solito vociare dei ragazzi cessava e tutti si
mettevano in trepida attesa.
La banda musicale si spostava dal suo angolo ed incominciava
a raggrupparsi nel centro della piazza, pronti ad iniziare la
mancia funebre.
Quando dalla porta della chiesa spuntava la lettiga, preceduta
dai preti e dai chierichetti, sulla piazza scendeva un rispettoso e
tombale silenzio.
Allora si alzavano, dolci e piagnucolosi le note della banda
musicale che con ritmo luttuoso i‟nalzava al cielo un pezzo
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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musicale che era preghiera; una marcia funebre composta per
l'occasione,qualche secolo prima, da un ingegnoso e bravo
Maestro di musica ciancianese, esperto musicista, direttore di
banda, compositore dotato di tanto sentimento.
Nella piazza scendeva la tristezza, le preghiere si alzavano
leggere verso l'Altissimo; la gente piena di emozione iniziava a
comporre la processione per accompagnare il Cristo al Calvario.
La confraternita del Signore, ai lati della lettiga portata da
dodici uomini, apriva la processione preceduta dai parroci delle
tre parrocchie, per l'occasione riuniti; subito dopo il simulacro
della Mado‟na a lutto “l'Addilurata”, con ai lati i fratelli e le
sorelle di Maria Addolorata; seguiva il popolo sempre numeroso
e partecipante.
La lunghissima processione attraversava le strade del paese,
aumentando il numero sempre di più man mano andava avanti,
partecipando alla lettura delle stazioni della Via Crucis collocate
lungo il tragitto che portava al Calvario.
Lentamente si procedeva, non senza fatica, fino ad arrivare “a
la Cruci”.
I ragazzi correvano avanti e indietro senza mai stancarsi e
prima che la lettiga col Cristo arrivasse alla croce avevano fatto
già due tre volte e certamente era uno spettacolo come pochi se
ne potevano vedere; dall'alto del monte Calvario, si poteva
ammirare quella lunga, numerosa, pregante, commossa,
processione che con le candele accese spuntava dal paese e pian
piano saliva ove era collocata la centenaria grande croce di legno.
I musicanti (li bannistri) nelle loro ordinate divise nere, con
maestria, umiltà e con un impegno fuori del comune, i‟nalzavano
al cielo le loro dolenti note quasi a volere alleviare all'Uomo le
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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sofferenze patite sulla croce; ordinati in fila per quattro con in
testa il cappello con i fregi dorati e sulla giacca le mostrine da
musicista, portavano con eleganza e grande attenzione “lu
strumentu” che avevano comperato con grandi sacrifici, magari
di seconda mano, e che permetteva loro di guadagnare un
qualcosa in più per la famiglia.
Dietro la lettiga i fedeli cantavano tristi e dolorosi canti
religiosi, alternandosi con la banda musicale, cercando di non
stonare e di donare il meglio delle loro capacità: “sono stato io
l'ingrato, Gesù mio perdon pietà”.
Arrivati sulla vetta del monte Calvario, i religiosi prendevano a
braccia il Cristo e salendo due scale a pioli appoggiate ai bracci
della croce lo collocavano su di essa conficcando chiodi nelle
mani e nei piedi: “tutto era compiuto!”
A fianco della croce veniva collocato il simulacro della
mado‟na Addolorata, lì a piangere il figlio morto in Croce; il
tutto era perfetto molto realistico al punto che la marea di gente
sottostante, con pietà cristiana e molta fede, i‟nalzava le
preghiere di perdono e di umiliazione.
Si vedevano tanti fedeli che piangevano ed esprimevano il
proprio dolore battendosi il petto e mettendosi in ginocchio ad
adorare il Crocefisso.
La popolazione dei fedeli non riusciva ad entrare nella
piazzetta sottostante la collinetta su cui era collocata la croce; il
monte Calvario non poteva contenerli tutti per cui tutta la salita, a
partire da Largo San Gaetano, era
una fila di gente che ordinatamente aspettava il proprio turno
per salire fino ai piedi della croce ed adorare il Crocefisso,
inginocchiandosi ed offrendoGli il loro atto di contrizione; man
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mano che i primi, dopo l'adorazione, scendevano, verso il paese,
gli altri avanzavano e salivano, dando, a chi guardava di lassù, la
sensazione di un grande cordone di persone che sinuosamente si
muoveva e veniva su.
Il devoto e, per i ciancianesi, doveroso “viaggiu a la Cruci”
continuava per tutta la giornata del Venerdì Santo fino a sera
inoltrata quando,a discrezione dei preti, era ora di scendere il
Cristo dalla croce e riportarlo in chiesa.
L'Urna, artisticamente lavorata con fregi d'oro, rosoni e puttini,
opera di grandi maestri artigiani locali, veniva portata fin lassù e
deposta ai piedi della croce in attesa che il simulacro del Cristo
morto in croce venisse collocato dentro ed iniziare il viaggio di
ritorno.
Se tutta la giornata del Venerdì santo con tutte le funzioni era
un continuo pregare,cantare,adorare,la sera col ritorno del Cristo
deposto dentro l'urna era sicuramente il massimo della
Devozione,della Contrizione,della Fede, che il popolo, tutto il
popolo, ciancianese potesse dimostrare.
L'urna incominciava la strada del ritorno portata da circa
venticinque uomini; sotto le grosse e lunghe aste e lungo la base
dell'urna decine di poderose spalle si toccavano l'una con l'altra,
non c'era mai un posticino libero ove potere mettere una mano ed
aiutare a sorreggerla.
I fedeli si davano il turno perchè tanti erano quelli che
volevano portare il Cristo morto per “prummisioni” o per
devozione.
Si vedevano fedeli che per voto, per richiesta di grazia o per
ringraziamento, camminavano a piedi scalzi lungo tutto il tragitto
fino alla fine della celebrazione.
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L'urna avanzava lentissimamente, anzi ogni tanto faceva
qualche passo indietro; seguiva un folto gruppo di persone che
intonavano, molto lentamente con toni solenni e tristi, la “stabat
mater” che nella lingua tradizionale si chiamava “lu lamentu”,
secolare canto luttuoso che da padre a figlio si tramandava per
l'occasione.
Appresso il simulacro dell'Addolorata con la confraternita; a
seguire la banda musicale che si alternava a canti religiosi; infine
il popolo credente, tante tantissime persone.
Di tutti i cattolici romani credenti della comunità solo gli
ammalati ed i vecchi non deambulanti restavano in casa, tutti gli
altri in grado di muoversi “si facivanu lu viaggiu”, almeno una
volta all'anno si recavano a fare l'atto di contrizione ai piedi di
Gesù Crocefisso.
Ogni tanto l'urna faceva una sosta poggiandola su due banchi
opportunamente collocati da occasionali portatori; stava un poco,
più per allungare il tempo del ritorno che per altro, e riprendeva
ad avanzare, sempre con un'andatura triste e penitente.
Il tragitto terminava a tarda notte, con la deposizione del
simulacro del Cristo morto in chiesa; anche se la serata era
fredda ed umida nessuno aveva premura di ritornare a casa,
quello era un giorno speciale e come tale si doveva celebrare fino
alla fine.
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La Banna (La Banda)
Al posto ove adesso si posteggiano le macchine, all'inizio della
via Marconi, sorgeva un grande edificio, composto da un
pianterreno ed un primo piano, adibiti a cinema teatro (lu cinima
vecchiu).
Il piano terra aveva una ottantina di posti a sedere, in fondo
alla parete, di fronte, un grande schermo per le proiezioni
cinematografiche e davanti ad esso, sopraelevato di circa un
metro rispetto alle sedie degli spettatori, un palco scenico per le
rappresentazioni teatrali o qualche altra manifestazione.
Il piano di sopra era occupato dalla cabina di proiezione per
qualche metro, il rimanente era occupato da una quarantina di
posti a sedere denominati palchi (occupare quei posti costava di
più ed erano destinati a chi poteva permetterselo).
Agli inizi degli anni cinquanta le proiezioni si effettuavano a
giorni alterni a causa della scarsa affluenza del pubblico ed in
considerazione del fatto che il ricavato pagava si e no il costo ed
il mantenimento del locale, il gestore del cine teatro, al fine di far
quadrare i conti e dividere le spese di gestione, divideva il piano
terra con la banda (la banna) musicale, che nei giorni che non si
proiettavano i film, usava il locale per studiare e provare i pezzi
musicali del proprio repertorio.
La preparazione era affidata alla guida di un maestro venuto da
fuori; pagato dal Comune, insegnava come eseguire i pezzi e le
marce, in maniera impeccabile, da rappresentare sui palchi dei
vari paesi e città in cui era richiesta la loro prestazione.
Durante le prove molti erano i musicomani che si recavano ad
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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assistere alle prove; si sedevano nelle prime file, non perdendo
una nota musicale, seguivano ogni prova ed ogni esecuzione con
conoscenza e competenza; molti sapevano tante opere a memoria.
Molti altri andavano ad assistere per passare il tempo e stare in
compagnia, specie nei mesi invernali freddi e piovosi;
ascoltavano, e col tempo divenivano conoscitori ed estimatori;
altri, e tra essi molti ragazzi, andavano a sedersi per illudersi di
essere “a lu cinima” dato che, a causa della scarsezza dei denari,
non potevano andare ad assistere alle proiezioni
cinematografiche.
Erano spesso “li picciotti” causa di arrabbiature e rimproveri
da parte del maestro che pretendeva l'assoluto silenzio, cosa alla
quale i ragazzi non erano abituati.
La banda aveva pure i suoi, come si dice oggi, afficiodados
che approfittando dell'autobus che trasportava i musicanti (negli
ultimi periodi utilizzavano qualche auto personale)
accompagnavano il gruppo anche in trasferta.
Il numeroso gruppo musicale era composto per l'ottanta per
cento di artigiani locali quali calzolai, sarti, qualche minatore,
manovali, operai dell'edilizia e dell'agricoltura, che
arrotondavano il loro magro stipendio col doppio lavoro di
“bannistru”; il rimante venti per cento era composto da ragazzi,
magari figli degli stessi musicanti, che apprendevano la musica
per garantire la continuazione del gruppo bandistico.
Dobbiamo ricordare, per dovere, che nelle sere che il maestro
non dirigeva le prove della banda, impartiva lezioni alle nuove
leve, sempre molto numerose, che, negli anni a seguire, hanno
garantito che a Cianciana non finisse la melodiosa tradizione;
molti di queste leve di allora sono i musicanti di oggi, ultimi della
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loro “specie” portatori di valori e ricordi di altri tempi.
Il ciancianese da sempre ha avuto una innata propensione per
la musica; l'istinto a canticchiare qualche ritornello durante il
lavoro o intonare qualche stornello, persiste tutt'ora, anche se con
ritmi diversi.
Mi vengono alla mente le estasianti e melodiose serenate che i
giovanotti portavano, nelle calde serate d'estate, alle amate
fanciulle, recando gioia alla cara amata, piacere ai vicini che
ascoltavano affacciandosi alle finestre e a volte unendosi alla
allegre compagnia.
Questo amore per il bello musicale spingeva la popolazione a
recarsi numerosa ad assistere all'esecuzione della musica a palco
che durante le feste di “Sant'Antuninu, Mezzaustu, San Giseppi”
si offriva al Paese a conclusione dei festeggiamenti dei Santi.
Un grande palco veniva innalzato nella Salita Regina Elena,
poco sotto la sede del Municipio (il vecchio palazzo Marino).
Alto circa un metro e mezzo, rispetto alla strada, per dare la
possibilità alla gente di vedere e seguire bene “la musicata”,
l'esecuzione bandistica; preceduti da diversi colpi di grancassa
che intonavano per tutto il Paese, i musicanti nelle loro eleganti
divise e con il berretto fregiato da strisce dorate con nel mezzo
una grande sproporzionata “Lira” musicale, salivano ad uno ad
uno sul palco di legno, costruito da bravi falegnami, andando a
prendere il loro posto stabilito tradizionalmente dal tipo di
strumento che suonavano; si sedevano su una sedia sistemandosi
accuratamente il loro leggio su cui appoggiavano gli spartiti della
musica da eseguire.
La naturale platea cominciava a riempirsi; tanta gente si
portava la sedia da casa, sedendosi comodamente ed occupando
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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gli spazi antistanti al parco; numerosissime altre si sistemavano
in piedi dietro quelle sedute e tutti aspettavano l‟inizio dei “pezzi
d'opira” che di lì a poco andavano ad incominciare.
Tutt'intorno era un continuo vociare dei ragazzi che, sempre
numerosissimi, correvano e giocavano senza rispetto per i loro
vestitini nuovi, frutto dei sacrifici delle loro mamme.
La gente mormorava mentre i venditori ambulanti, arrivati per
l'occasione della festa, reclamizzavano la bontà dei loro prodotti:
“simenta e nuciddi, cubbaita di mennuli... cubbaita frisca, lu
palluneddu pi l'addevu”.
Tre colpi della grande grancassa seguito da tre squilli di
tromba smorzavano il brusio attirando l'attenzione della gente; i
ragazzi continuavano a gridare ma con meno fervore, molti
andavano a sistemarsi in piedi sotto il palco disturbando chi stava
seduto in prima fila; diversi smettevano di passeggiare e si
avvicinavano al palco, altri continuavano la loro passeggiata.
Con flemma ed eleganza il Maestro si avvicinava al proprio
leggio posto in mezzo al palco a guardare gli orchestrali dando le
spalle al pubblico e dopo avere dato con perizia uno sguardo a
tutti gli elementi dava tre colpetti sul proprio leggio, con la
bacchetta di comando, e all'unisono, senza alcuna sbavatura,
dagli strumenti il suono dolce e melodioso iniziava a prendere il
volo diretto magistralmente da ampie nervose bracciate del
Maestro, sempre attento a qualche eventuale inesattezza o entrata
con ritardo rispetto al ruolo assegnato dallo spartito.
Le esecuzioni di grandi opere della musica classica venivano
intervallate da scroscianti applausi a sottolinearne la perfetta
esecuzione; delle canzonette allora in voga e qualche pezzo
“strappa lacrime” venivano ad intervallare le esecuzioni sempre
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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perfette “di la banna”.
Nei giorni di Festa la banda faceva la sfilata per il Corso
principale, con l'uniforme sempre impeccabile (ne avevano
solamente due una invernale ed una estiva) ed inquadrati stile
militare, avevano l'orgoglio dipinto sul viso; ogni tanto si
fermavano si mettevano sopra il marciapiede e ben compatti e col
maestro a dirigerli eseguivano una marcia e qualche canzonetta,
seguiti sempre da decine e decine di persone che per l'occasione
sospendevano il loro passeggio, per poi riprenderlo.
La più importante esecuzione della mattinata veniva fatta “a la
scalunata” sotto la torre dell'orologio, ove tradizionalmente
tantissime persone sostavano a chiacchierare e passare qualche
ora con gli amici.
Tutti i passanti, vestiti a festa per l'occasione, si fermavano ad
ascoltare l'esecuzione, come sempre impeccabile, seguita, alla
fine, da scroscianti sinceri applausi e commenti sempre positivi.
Durante le processioni per le strade del Paese le preghiere ed i
riti religiosi erano intervallate da marce e marcette, sempre
allegre, che spandevano nell'aria un senso si allegria e di felicità,
tipico della banda musicale... della festa Paesana...di qualcosa
che molti ancora cerchiamo, ma che difficilmente riusciremo a
trovare... la serenità del tempo che fu. (!)
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Lu Fallignami (Il Falegname)
“Mà, la seggia si ruppi...si stuccà lu pedi”.
“Portala nta lu falignami prima chi tò Pà sinnadduna e fà
opira”.
“Lu falignami”; il falegname era un'arte di cui non si poteva
fare a meno; ce n'erano tanti nel nostro Paese.
La lavorazione del legno è stata da sempre molto importante
per la vita dell'uomo, della sua comunità, specie quando questa
non è ricca e dispone di risorse quasi sufficienti per vivere;
allora il ruolo dell'artigiano si avvalora di più in quanto, povero
tra poveri, cerca di venire incontro al bisogno della gente
sfruttando al massimo la propria conoscenza, la propria
esperienza, per rispondere, in maniera veloce e poco onerosa, alle
necessità del cliente e nel contempo realizzare un guadagno per
le proprie tasche, spesso non immediato.
Tutto ciò che era necessario per la casa e per potere vivere in
essa, avendo a disposizione qualche comodità, allora era
realizzato quasi interamente con l‟ausilio del legno.
Buon legno stagionato e lavorato a forza di braccia e tanto
sudore; il falegname era una figura molto importante, cercato da
tutti ricchi e poveri, a tutti dava una risposta alle loro
necessità,alle loro richieste.
“La putìa”, così si chiamava il negozietto ove prestava la
manodopera, era composta da una stanza, piuttosto capiente,
quasi sempre a piano terra; chi se lo poteva permettere aveva a
disposizione una seconda stanza ripostiglio (lu magazzinu) ove
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teneva in deposito tavole, travi, assi, e legni di tante specie e
misure, oltre ad attrezzi del mestiere che venivano utilizzati al
momento del bisogno.
Uno o due grossi banconi (questo dipendeva dal volume di
lavoro che durante l'anno produceva) occupavano una parte della
stanza; nei lati del banco erano installate una o più grandi morse
formate da due ganasce ed una vite centrale capace di tenere
ferma un'asse di legno, per essere lavorata più agevolmente; sotto
il pianale del banco, su mensole appositamente costruite, stavano
gli attrezzi per lisciare il legno grezzo: le pialle, “lu chianozzu” e
la “spinalora”.
Se ne adoperavano di tante misure; dal delicato “cuda di
surci”, adatto a lisciare piccoli intagli, al grosso e possente “lu
chianozzu granni”, adatto per le travi e le grosse assi che
richiedevano, spesso, l'aiuto di una seconda persona per essere
adoperato.
Attaccati ad una parete, sostenuti da grossi chiodi conficcati
nel muro facevano bella mostra, gli attrezzi per segare (li
sirraculi); dal “saraccu”, sega a lama larga ed usata da una
persona tenendolo dall'unico manico che aveva, alla “serra
ntilaiata”, a lama stretta e lunga che poteva essere adoperata da
due persone, una di fronte all‟altra (di questa sega ce n'erano di
diverse misure fino al arrivare ad una gigantesca che serviva per
ricavare le assi dai grossi tronchi).
Dentro un mobile, collocati in appositi sostegni stavano: li
morsetti...li raspi...li scarpeddi...li sgurbii...li martedda...li
tinagli...li mazzola di lignu...li virrini...di diverse misure; in
scatole e scatolette erano i chiodi, di diverse misure dai piccoli
“simicci” ai grossi “subbii”.
C'era 'na vota frammenti di mamoria
126
Con l'arrivo dell'energia elettrica “la putia” si arricchiva, non
tutti ce l'avevano, con una sega circolare, adatta a tagliare le assi
con meno fatica, più precisione, molto guadagno di tempo.
Le mura erano uno spettacolo: tutti rivestiti da locandine dei
film proiettati al cinematografo; centinaia di locandine con il
titolo del film scritto sotto; rendevano il locale caratteristico e
davano la possibilità a chi aspettava di passare qualche minuto,
spesso noioso, diverso.
Si parlava e si criticavano le scene, il contenuto, le azioni che
“lu picciutteddu”, il protagonista del film, aveva recitato,
evidenziando punti di vista personali e modi diversi di
intraprendere certe azioni durante lo svolgimento della storia;
spesso presi dall‟entusiasmo, nel commentare la trama del film,
tra i convenuti si rasentava la lite, attirando persone che sentivano
il vociare, coinvolgendoli nella discussione.
Nel mezzo della stanza, dal soffitto, pendeva un filo doppio
intrecciato, il cui colore era completamente scomparso, coperto
com‟era, da milioni di depositi di mosche sempre presenti specie
d'estate, con una lampadina elettrica, che si accendeva la sera e
con molta parsimonia (la luci costa cara); finche c'era la luce “di
lu Signiruzzu” non si accendeva quella elettrica.
Negli angoli pezzi di legno, lavorato e non, di diverse misure
in attesa di essere utilizzati, perchè era sicuro che sarebbe
arrivato il loro turno dato che nulla, proprio nulla, veniva gettato
via.
“Li porti” (le porte), “li finestri” (le finestre), “li seggi” (le
sedie), “li vanchi” (i banchi), “li casci” (le casse) e quanto
altro….tutto veniva portato per essere riparato e nulla restava
rotto; la maggior parte era materiale vecchio e spesso tarlato o
C'era 'na vota frammenti di mamoria
127
fradicio, da buttare via o bruciare per evitare il contagio delle
tarme, ciò nonostante il sapiente artigiano riusciva a togliere la
parte malata e la ricostruiva con pazienza e maestria facendolo
diventare come nuovo e facendo un favore al cliente che spesso
non era nelle condizioni di farselo costruire nuovo.
Non tutte le ordinazioni erano tali; chi poteva permetterselo
ordinava mobili nuovi, di legno pregiato “di faggiu”, di “cirasa”,
“di piscipainu”, “di nuci”, ordinazioni di un certo stile: scrivanie,
tavoli da pranzo e da salotto, armadi, vetrinette, librerie e quanto
altro occorreva in una casa signorile.
Allora l'arte, la bravura, la competenza, la conoscenza,
l'esperienza, si mettevano all'opera; venivano realizzate, con
mani sicure e perizia, opere d'arte destinate certamente a sfidare i
secoli.
I nostri artigiani falegnami erano bravi; depositari di secoli di
conoscenze ed esperienze; tutto questo veniva messo al servizio
dell'opera d'arte, realizzando pezzi unici.
Così come servivano i ricchi erano sempre a disposizione dei
meno ricchi, arredando, sempre con maestria, le loro case con
mobili di fattura artigianale eseguiti totalmente a mano e degni di
essere conservati per essere tramandati alle generazioni future.
Come tutte le arti e i mestieri si pensava, in maniera seria ed
attenta, a tramandare ai postumi il sapere e le esperienze acquisite
fino ad allora.
A questo scopo “li giuvani di putia” (i ragazzi di bottega) non
mancavano.
Tanti volevano andare ad imparare il mestiere; lu mastru di
fronte alla preghiera di un povero padre non diceva mai di no,
aveva però l‟accortezza di selezionare tra i suoi apprendisti quelli
C'era 'na vota frammenti di mamoria
128
che avevano veramente l‟intenzione di seguire il mestiere, dando
loro più attenzione e cura, “picca ma bboni” era solito dire.
Questi ragazzi facevano i lavori più umili, dallo spazzare il
pavimento al raddrizzare i chiodi ancora buoni che venivano tolti
da legni in riparazione; ordinavano le tavole fuori posto nel
magazzino, mettevano in ordine gli attrezzi di lavoro lasciati quà
e là.
Gli apprendisti più anziani venivano utilizzati per fare
riparazioni, man mano sempre più delicate...fino alla reale
costruzione di qualche mobiletto ed al taglio di precisione,
sempre sotto gli occhi vigili del mastro, dato che non era
concesso fare sbagli e rovinare qualche tavola.
Nulla era dovuto agli apprendisti... anzi erano spesso
destinatari di rimproveri e di richiami.
Man mano che il tempo passava i giovani crescevano in età e
in bravura ed incominciavano ad eseguire lavori sempre più
difficili, sempre sotto gli occhi vigili ed i sapienti suggerimenti
“di lu mastru”.
Ormai maturi e bravi artigiani non lasciavano la bottega, tanto
dovevano al maestro, non potevano che ricambiare quanto
ricevuto lavorando per loro; la riconoscenza era molto
considerata e tenuta in seria considerazione.
Il giovane lavorava col maestro ricevendone ogni tanto
qualche suggerimento sottovoce ed in maniera garbata, non più
grida e rimproveri, come agli inizi della carriera.
Stava a lavorare silenzioso ed attento, in cambio ogni sabato
riceveva un piccolo salario da portare alla famiglia con orgoglio e
soddisfazione.
Le ragioni per cui stava lì a lavorare erano molteplici: prima
C'era 'na vota frammenti di mamoria
129
tra tutte non si avevano le possibilità finanziarie per mettersi in
proprio; l'affitto del locale, gli strumenti da lavoro da comprare, il
magazzino di legname da avere a disposizione per soddisfare le
richieste dei clienti, quanto altro occorreva per avviare l'esercizio,
aveva un costo considerevole e.... i soldi erano scarsi.
Altra considerazione importante, che si metteva in primo piano
in queste occasioni, era il fatto che non si poteva fare un malo
sgarbo al vecchio maestro andandosene via e magari togliendogli
dei clienti.
Quella riconoscenza era molto viva nelle persone sensibili, e
poi si doveva ricompensare il maestro, in qualche modo, per la
grande pazienza avuta in tanti anni di apprendistato senza nulla
chiedere.
Quale occasione migliore di quella di continuare a lavorare per
lui in attesa di tempi migliori?
Il giovane falegname aveva ormai la conoscenza sufficiente,
costruiva quanto ordinato dai clienti senza problemi, consentendo
al maestro di guadagnare di più e ricevendone in cambio un
salario più adeguato.
La creazione di una nuova famiglia, l'aumento considerevole
della clientela personale, la ormai avanzata età del maestro che
non era nelle condizioni fisiche di soddisfare le richieste dei
clienti, erano queste le giuste ragioni per cui si lasciava il
rapporto di lavoro col vecchio maestro senza traumi né liti;
spesso era lo stesso “vecchiu mastru d‟ascia” che non potendo
accudire alle tante richieste le passava “a lu mastru novu” con
tanta reciproca discrezione che durava tutta la vita.
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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C'era 'na vota frammenti di mamoria
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Lu Stagnataru (Lo Stagnaio)
L'economia del Paese non era molto florida; si poteva definire di
sopravvivenza.
Col poco lavoro che c'era si racimolava sì e no il necessario per dar
da mangiare alla famiglia; era difficile trovare un lavoro giustamente
retribuito; quello che si riusciva a trovare nelle campagne ma per lo
più nelle miniere di zolfo, era scarsamente remunerato.
Altro non c‟era se non la strada, molto amara, dell‟emigrazione,
che non sempre andava a buon fine a causa dei severi controlli che
venivano effettuati.
La disoccupazione era molto diffusa, nelle famiglie si facevano
grandi sacrifici, nulla era considerato “superchiu”, mancava sempre
qualcosa per avere il sufficiente.
Niente veniva buttato via; l'immondizia come la conosciamo oggi,
non esisteva; gli immondezzai erano composti quasi esclusivamente
da rifiuti organici animali e umani.
Per le strade non si effettuava la raccolta dei rifiuti, qualche
piccola cosetta scartata veniva portata con lo stallatico in campagna
come fertilizzante; in casa c'era il sufficiente per la vita quotidiana:
“„na pignata, „na padedda, un taganu, „na camella, un cuteddu, li
cucchiara e li burcetta (ne mancava sempre qualcuna), la cicara”; la
maggior parte erano di terracotta e qualcuna di alluminio.
Dopo averli usati venivano accuratamente puliti con acqua e
“cinniri di mennula” (il detersivo di allora, ricavato dalla cenere delle
mandorle bruciate, era buono e funzionava bene con le superfici dure
non buono per i panni che venivano lavati col sapone sfuso
(sembrava grasso color miele).
C'era 'na vota frammenti di mamoria
132
Ogni tanto qualche suppellettile ritenuto importante per l'uso
quotidiano (quartari, giarri, spirlonghi, piatta) cadeva a terra o urtava,
con conseguente rottura; si metteva da parte in attesa che arrivasse:
“Lu stagnataru”.
Questo tipico personaggio arrivava in paese una due volte al mese;
portava addosso tutto l'armamentario necessario per espletare il
proprio lavoro dentro un sacco ed un contenitore di legno.
Si collocava sempre negli stessi posti ed era solito bandire la
propria presenza gridando ma non troppo, direi parlando ad alta voce,
tanto si sentiva lo stesso, non c'era musica, ne rumori di macchine, ne
quant'altro siamo abituati a sentire; a quell'ora gli adulti erano a
lavorare, i ragazzi chi a scuola chi a servizio, giusto qualche decina
“arruccavanu” vociando per le strade.
“Lu stagnataru........ cu ava cunsari... cu ava stagnari... vi consu
giarri, quartari, spirlonghi, piatta... Vi stagnu pignati... padeddi...
taana.. cuppina... lu stagataaaru...”.
Venivano allora tirate fuori le suppellettili che si erano rotte e
messe da parte; si andava a contrattare il prezzo per la riparazione;
qualche decina di lire per la terracotta e di più per stagnare qualche
contenitore di rame.
Fatto il prezzo, si lasciava il pezzo all'artigiano ambulante il quale,
sistemati gli attrezzi piantandoli ben fermi nella terra battuta (non
c'erano mattonelle tanto meno bitume o cemento) procedeva per tutta
la giornata, a volte tornava l'indomani se c'era tanto lavoro, alle
riparazioni.
Un piatto spezzato in due lo univa facendo dei forellini appaiati nei
due pezzi da unire, passava mastice speciale nelle due parti, legava il
tutto con del filo di ferro in maniera così perfetta che il piatto poteva
riutilizzarsi come nuovo; certo si vedeva la linea di unione, ma non
C'era 'na vota frammenti di mamoria
133
era importante, tanto si utilizzava solo in famiglia.
La vera arte e la bravura di uno “stagnataru” si vedeva quando
doveva riparare una giara rotta “la giarra”; era il contenitore per
eccellenza dell'olio d'oliva, prezioso liquido che occupava un posto
molto importante nella vita alimentare quotidiana della famiglia.
I produttori di olio avevano giare di diverse grandezze; quando
qualche giara si rompeva era quasi sempre per l‟eccessiva pressione
che la quantità d'olio esercitava all'interno del contenitore (certe giare
di coccio avevano la capacità di quindici venti decalitri), che in
concomitanza a qualche piccolo difetto di lavorazione dava il
risultato di una spaccatura.
L‟ avvisaglia di una rottura prossima era il fatto che alla base del
contenitore si accumulava una certa quantità di olio, che col passar
del tempo si faceva sempre più consistente.
Allora erano guai seri, bestemmie, grida, preoccupazioni per la
perdita eventuale del prezioso liquido: “la giarra si ruppi, livati
l'ogliu, tramutatilu subbitu”.
Si puliva il contenitore in attesa di lu stagnataru “pì cunzallu”.
Dopo averla esaminata con molta attenzione, valutato il posto, la
natura della rottura, decideva di riparala o meno; in caso positivo, la
maniera di procedere se con colla solamente o con colla e filo di
ferro.
Se la rottura era dalla metà in su quasi sempre si procedeva ad una
riparazione, se dalla pancia in giù, il rischio se lo prendeva il
padrone, dato l'eventuale peso che doveva sopportare una volta
riempitolo d‟olio.
Il lavoro di saldatura di quel genere durava mezza giornata, con il
padrone, o qualche servitore o persona di fiducia sempre presente a
controllare, e all'occorrenza, dare una mano di aiuto.
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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Buchi piccolissimi, filo di ferro speciale, paste abrasive uniche e
infine l'onnipresente mastice miracoloso, garantito a resistere ad
enormi pressioni, venivano adoperate con sapienza e perizia
dall'artigiano, il quale lavorava curvo quasi a nascondere il proprio
lavoro per non dare agli altri la possibilità di svelare ed avere
conoscenza dei suoi segreti “p'un ciarrubbari lu pani”.
Vestiva miseramente ma con un certo orgoglio; in un contenitore
di alluminio aveva il suo pranzo (pasta cotta o virduredda cu lu pani),
che assieme a qualche sorso d'acqua che prendeva da “lu bummulu”,
consumava verso mezzogiorno seduto per terra e senza perdere di
vista i suoi utensili e la “robba”, dei clienti, che doveva riparare.
Altro lavoro che eseguiva con perizia, che i bambini guardavano
sempre con stupore, era il mettere a nuovo l'interno delle pendole e
delle caldaie che col tempo si erano scrostate mettendo a nudo il
rame, con eventuale pericolo per chi le utilizzava per cuocere i cibi.
Era categorico che l'interno delle pendole e delle caldaie che
servivano ai pastori per fare la ricotta ed il formaggio dovevano
essere pulite e lucide; allora si procedeva a stagnarle, in maniera che
fossero igienicamente perfette.
L'altra specializzazione di lu stagnataru era proprio questa: passare
lo stagno all‟interno delle pentole.
Dopo avere portato l'elemento stagno, dallo stato solido allo stato
liquido mediante il fuoco, versava il metallo fuso dentro il recipiente
da stagnare, piano piano, con perizia, girando sapientemente il
contenitore, lasciava che il liquido restasse attaccato alla parete in
maniera da lasciarla lucida e pulita.
Continuava con questo sistema fino a quando tutto l'interno della
pentola, della padella o quant'altro si presentava di una lucidità
impeccabile.
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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Dopo averla pulita e levigata, il risultato era un interno nuovo ed
igienico, facile da pulire e con poca fatica.
Tutta questa metamorfosi e la capacità di liquefare quel duro metallo
attirava l'attenzione dei ragazzi che non mancavano mai lì attorno a
curiosare, spesso facendo arrabbiare “lu stagnataru” che veniva
distratto dalla loro presenza.
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Li Cunti (I Racconti)
Quanti ricordi !!!
Non c'era famiglia, ricca o povera, nella quale una parte della
serata non era dedicata a qualche racconto.
Sempre coinvolgente ed implicante, era una delle poche
maniere, assieme a qualche gioco, di passare intere serate
invernali attorno al braciere, prima di andare a dormire, quando
per le strade “un si vidiva mancu un'arma”.
La famiglia si accerchiava attorno alla unica fonte di calore “la
brasciera” (il braciere), alla luce fioca di uno o due spezzoni di
candela, oppure a quella di un lume a “grassolio”; il nonno o la
nonna, sempre per “fari cuntenti l'addevi e stari bboni”, iniziava
un bel racconto che spesso durava per tre quattro serate,
coinvolgendo tutti non solamente i ragazzi.
Non era raro, specie nelle famiglie in cui qualche componente
sapeva leggere bene, in verità non erano moltissime, si alternava
il racconto col leggere qualche romanzo: “lu conti di
Montecristo”... “li paladini di Francia”, “la bedda di li setti
velira”... “li tri muschitteri”... “li beati Pauli” ...
La lettura di un romanzo era importante non solamente perchè
si stava assieme e si apprendeva sempre qualcosa di nuovo ma
anche perchè non tutti possedevano un libro da leggere; un
romanzo, era cosa per i ricchi non per le famiglie degli operai
poveri che rasentavano la sopravvivenza; diverse famiglie si
riunivano per l'occasione ogni sabato e domenica, attirando anche
la presenza di intimi vicini di casa.
Le anziane, sempre coperte con lo scialle nero sotto cui
C'era 'na vota frammenti di mamoria
139
portavano l'immancabile “tancineddu” per tenersi caldi, sedevano
vicino al braciere, sempre pronte ad intervenire se i ragazzi
facevano qualche marachella.
D'estate, la sera, dopo una opprimente giornata di caldo che
toglieva l'ossigeno dall'aria, si cercava un poco di refrigerio
standosene seduti in strada davanti la porta di casa; allora si
avvicinavano gli altri vicini formando gruppi numerosi di
chiacchieroni, circondati da chiassosi ed immancabili ragazzi che
correvano e giocavano “a li cciappi”, ”a li vasti”, “a li mazzi”, ” a
mmucciareddu”, ”a sàita la cerba”.
Lungo una strada “li sedii” erano numerose; da una all'atra
comitiva si contavano non più di cinquanta metri.
Si chiacchierava del più e del meno mettendosi al corrente
vicendevolmente di quello che accadeva giornalmente in paese
ed in campagna, sottolineando i fatti più interessanti.
Le ragazze da marito stavano tutte vicine, parlavano sottovoce
intercalando ogni tanto qualche chiassosa risata e spingendo i
ragazzini ad origliare, questi facevano finta di giocare, come se
si estraniassero ai discorsi che facevano segretamente,
nascondendoli agli adulti seduti lì vicini.
Spesso dall'angolo della strada spuntava qualche gruppetto di
giovanotti attillati nel loro umile vestire, con i capelli lisci
impomatati e tirati all'indietro; qualcuno più baldanzoso metteva
in bella evidenza una sigaretta accesa.
Allora il vociare della giovanette cessava, la loro attenzione
era attratta dai nuovi arrivi.
Il gruppetto dei ragazzi si avvicinava, mentre qualcuno si
metteva all'esterno per essere più vicino al gruppo delle ragazze
sedute al fresco.
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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Lo sguardo attento di qualche mamma seguiva i giovanotti e
ad ogni piccolo cenno si girava verso la figlia a controllarne tutti
i gesti, riuscendo a percepire ogni movimento, ogni cenno.
Le ragazze, bellissime nella loro semplicità, seguivano con lo
sguardo i ragazzi; due sguardi s'incontravano, qualche fremito li
invadeva; qualcosa di nuovo mai provato prima, qualche risolino
si alzava tra le ragazze, tra loro si capivano: qualche amore... era
nato!
Il freschetto della sera era piacevole nessuno voleva lasciare la
compagnia, allora prendeva volo una proposta:
“pirchì un nni facemmu cuntari un cuntu di la zza Ciccina.?
Sì, bonu iè !!!”
Senza farselo ripetere due volte la zia, (di rispettu), si
collocava in un posto adatto a che tutti potessero ascoltare bene
ed incominciava: “Si cunta e si raccunta ca c'era na vota...”
“La zza Ciccina lu cuntu cumincia...lu cuntu”; una qualche
voce annunciava.
Allora dalle altre comitive si alzavano persone interessante al
racconto, portando con se la sedia, ed andavano ad ingrossare la
già numerosa compagnia.
Le persone sedute occupavano tutta la larghezza della strada,
ma poco male,tanto macchine non ne passavano; giusto qualche
contadino a cavallo della propria mula...ma non era un problema i
poveri animali erano abituati a passare tra la gente.
Si stava ad ascoltare fino a tarda sera; non c'erano altre
distrazioni, non c'erano altri divertimenti; c‟era il cinema, ma
andavano gli uomini, quasi mai le donne, queste venivano portare
dai loro papà o mariti solo se veniva proiettato qualche film
religioso, la vita di qualche santo.
C'era 'na vota frammenti di mamoria
141
Non esisteva ancora la televisione; l'apparecchio radio ad
elettricità e il grammofono a corda non potevano averli tutti,
costavano troppo; solo pochi avevano in casa la luce elettrica.
A parte i sacrifici per sbarcare il lunario, le liti nelle famiglie
erano continue, quasi sempre per superare le difficoltà
quotidiane; la gente era contenta di stare assieme perchè
coltivavano una incommensurabile valore, che adesso è
diventato rarissimo: il calore umano.
La zza Ciccina, tanto brava nel raccontare quanto scaltra
nell‟allungare il racconto, continuava a parlare, mentre davanti a
lei già cominciava a scemare l‟interesse iniziale.
I ragazzini che si erano seduti per terra ad ascoltare già
dormivano con la testa poggiata sulle gambe della mamma o
della sorella maggiore; anche le ragazze, che prima giulive e
vispe guardavano i giovanotti che passavano e ripassavano tre
quattro volte, cominciavano a guardarsi tra loro con gli occhi
sempre più spenti, quasi a non volersi arrendere a quella
pesantezza che abbassava le loro palpebre.
Qualche mamma già faceva segno a la zza Ciccina di
smettere,data l‟ora tarda.
“Picciò, cuntinuammu dumani..ah ?”
“Sissi..sissi..zza Ciccì,dumani cuntinuammu!”rispondeva
qualcuna alzandosi, e prendendo la sedia da portare a casa, si
avviava verso il letto a farsi una bella dormita e forse a sognare
quel bel giovanotto che quella sera non si stancava di passare e
ripassare, facendole arrivare, con gli occhi, dolci messaggi.
Un Quatrettu cu li Nanni (Spaccato di vita quotidiana coi nonni)
C'era 'na vota frammenti di mamoria
142
I componenti di una famiglia erano per la maggior parte
numerosi.
Normale era considerata una famiglia composta dai genitori e
fino a tre figli, ma una ragguardevole percentuale superava i tre e
se ne contavano spesso anche quattro, cinque, sei e oltre.
“Li figli su „na binidizioni di Diu” si soleva dire... ma vestirli e
dar loro da mangiare era un problema del padre.
Quasi sempre quando il padre della sposa donava per dote alla
figlia la propria casa, aveva dei seri problemi di abitazione.
Allora si poneva il dilemma: stare in una casa affittata; con la
scarsezza di denaro che c‟era si presentava un caso irrisolvibile; o
rimanere in mezzo a una strada?... Poveri genitori!
Si trovava, in questi casi, “nn'agnuniddu” dove sistemare i
vecchi genitori.
Oppure i genitori della sposa davano una stanza della propria
abitazione alla nuova famiglia, e allora… si formava una grande
famiglia, con piacere della figlia che aveva i genitori con lei, ma
quasi sempre con molto disappunto dello sposo che non poteva
godersi a pieno i piaceri della famiglia, avendo tutti i giorni i
suoceri tra i piedi; “ddi mischini mancu pari ca cci sù', un'ummira
parinu”, “ora ca mi dettiru la casa chi l‟egghittari fora?” diceva la
moglie!
Ma il tempo è da sempre galantuomo! Dopo qualche periodo
di convivenza tutto diventa normale, anzi si evidenziano di più i
lati positivi e si cerca di non vedere i negativi.
Così andava a finire che la presenza dei vecchi in casa era un
grande aiuto per la famiglia, specie quando incominciavano ad
arrivare “l‟addevi”; correvano, gridavano, sporcavano,
rompevano, davano continui problemi; tre, quattro o cinque
C'era 'na vota frammenti di mamoria
143
bricconcelli erano troppi per la mamma, allora la presenza dei
nonni era vista molto positivamente.
Durante il giorno era normale sentirli litigare, gridare, per la
casa; papà era a lavorare.
Le grida dei ragazzi per le strade non mancavano mai; anche
quelle delle mamme che richiamavano e rimproveravano in
continuazione i loro figlioli; dovevano tenerli sotto controllo,
prima che ritornassero a casa con qualche “mercu” (Bernoccolo).
Le teste rotte erano all‟ordine del giorno; per le strade non
mancavano pietre ed i ragazzi erano sempre in lite tra loro,
tirandosi reciprocamente sassi e tutto ciò che era a portata di
mano.
In tutta quella normalità, i nonni avevano un importante ruolo;
sempre pronti e disponibili ad “accurdari l'addevi”.
Ma la sera, quando ritornava a casa papà, stanco dal lavoro e
spesso dei soprusi subiti, quelle grida erano un chiodo che si
conficcava nella testa del pover‟uomo, che voleva mangiare in
pace ed andare a dormire.
Il dormire, cosa che nelle prime ore della sera i ragazzi non
volevano fare, perché ansiosi di sentire i discorsi dei grandi o di
giocare col papà; volevano sedersi con gli altri fratelli più grandi
attorno al braciere d'inverno, sedersi al fresco davanti la porta
d'estate.
Le bande dei ragazzi erano sempre per le strade a giocare,
gridando e correndo, risvegliando nei più piccoli desideri di
libertà.
Dormire... e chi voleva andarci!
Allora lì, a gridare, a volerla vinta a qualsiasi costo, spingendo
il papà o la mamma a dar loro qualche paio di ceffoni, con
C'era 'na vota frammenti di mamoria
144
conseguente pianto, grida, e con ulteriore arrabbiatura del papà,
che rivolgendosi alla moglie: “vidi caffari cu ssi diavuli o cca ì
nfuddiscu”.
Quello era il momento che apparteneva al ruolo dei nonni:
evitare le punizioni ai bambini, tenerli buoni e non farli diventare
chiassosi.
“Viniti viniti ccà, nicareddi mìi, lu papà è stancu e avi bisognu
d'arripusari...viniti cca, stasira vi cuntu un cunticeddu...” spesso
interveniva il nonno.
Di fronte a un cunticeddu nessuno sapeva resistere; addirittura
si chiamava qualche amico intimo vicino di casa, spesso anche i
grandi stavano a sentire, standosene in silenzio un po‟ in disparte,
facendo finta di essere disinteressati.
Che atmosfera... che stato d'animo... che bellezza... seguire
quei racconti coinvolgenti, interessanti, paurosi a volte; ma
bastava uno sguardo in direzione dei genitori o dei nonni e tutto
tornava a posto.
Il papà teneva gli occhi “a pampinedda” semichiusi per la
stanchezza, ma era interessato a seguire il racconto; con la
mamma lì vicino che rammentava, come ogni sera, “li robbi
strazzati”, che non mancavano mai.
“Si cunta e si raccunta ca c'era „na vota…” iniziava il nonno
con voce bassa e calma.
Gli occhi dei ragazzi sembravano perle nere che brillavano alla
luce “di lu lumi”, tanto erano aperti ed interessati… altro che
dormire… occhi fissi ed attenti ad ogni parola che usciva dalla
bocca del nonno; la loro boccuccia aperta quasi a trattenere il
fiato, secondo della circostanza in cui si veniva a trovare il
personaggio, vero o inventato che fosse, protagonista del
C'era 'na vota frammenti di mamoria
145
racconto; ad intervenire per qualche messa a punto se, per caso, il
nonno si distraeva per un attimo dal filo del racconto e
confondeva qualche nome.
Dopo un quarto d'ora di racconto, nella stanza non si sentiva
un minimo rumore; solamente lo sferruzzare ritmato di “li ugliola
di la nanna” che faceva le calze, era un rumore connaturato,
neanche si sentiva più.
Fuori, in lontananza la voce di qualche mamma che chiamava,
a voce alta, il proprio figlio che si attardava a giocare con gli
amici per le strade; il nitrito di qualche quadrupede, l'abbaiare dei
cani, le liti dei gatti per chissà quale ragione; tutto questo faceva
parte integrante della vita quotidiana.
Papà incominciava a chiudere gli occhi e li riapriva sempre più
lontanamente; la mamma ogni tanto se li stropicciava per lo
sforzo che faceva alla tenue luce del lume a petrolio.
Dopo una mezz'oretta, la nonna si avvicinava e ci porgeva in
un pugno chiuso qualche fico secco, qualche pezzetto di spicchi
di noci, oppure qualche chicco di uva secca (la passula); che
allegria gustare quelle leccornie, che dolcezza, che gusto; era una
piccola pausa, per dare la possibilità al nonno di fare due boccate
alla sua adorata pipa di terracotta, dal fornello sempre nero
(arraddamatu) per il continuo uso.
Buona la frutta secca ma la testa era a lu cunticeddu.
Il nonno riprendeva a raccontare, riassumendo brevemente
quanto detto, forse per allungare un poco il racconto; tra le mani
la sua pipa, che passava da una mano all'altra, e che serviva quale
strumento, quando alle parole associava i gesti, cosa questa che
accadeva molto spesso.
I ragazzi seguivano sia le parole che i gesti, nulla veniva
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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perduto, ma... già qualcuno incominciava a chiudere gli occhi, li
riapriva quasi “pì currivu”.
Il più piccolo andava ad accovacciarsi sulle ginocchia della
nonna, dando l'esempio a qualche altro, che subito lo imitava
andando ad abbracciare la mamma.
Tanti fattori conciliavano il sonno, ma più di tutti, credo, era
quell'atmosfera di tranquillità domestica, alla luce tenue del lume,
faceva da sonnifero ai ragazzi… come ai grandi!
I più grandicelli resistevano ancora, ma il brillare dei loro
occhi perliferi si era attenuato di molto.
A questo punto il nonno dava due colpetti di tosse, come per
schiarirsi la voce, e… “dumani a sira cuntinuammu, ora iemmu a
curcarinni”.
Il più grandicello pregava il nonno di continuare, ma la
pressione non durava più di una volta poi si alzava dalla sedia e
mesto mesto andava a buttarsi sul letto, seguito dalla mamma che
doveva accudirlo per la notte.
Nel letto già giacevano i due fratellini che da qualche tempo si
erano addormentati... anche per lui c'era posto.
C'era 'na vota frammenti di mamoria
147
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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Lu Carrettu (Il Carro)
L'utilizzo degli animali per il trasporto delle masserizie e delle
persone è stato, da quando l'uomo ha capito che fare lavorare gli
altri è cosa giusta, praticato con diligenza cercando sempre il
modo e la maniera di fare sempre più lavoro in minor tempo.
A questo fine ha addomesticato, allevato, accudito, nutrito, con
diligenza, quegli animali che più di altri si adattavano alle
necessità della propria vita ed ai bisogni degli altri.
Nei secoli che si sono susseguiti l'intelligenza, la creatività,
dell'uomo ha messo in opera l'invenzione più importante, più
utile e adoperata, della storia dei bisogni dell'umanità: “la rota “.
Avere capito che la ruota si muove con poco sforzo,addirittura
con nessuno, trasportando con se un certo peso se collocata sotto
qualche pianale, è stata l'intuizione più importante della vita
quotidiana dell'umanità.
L'abbinamento dei due mezzi di trasporto, quadrupede - ruota,
ha creato per l'uomo il maximum di cui aveva necessità, per
trasportare, per lavorare, per spostarsi da solo ed in compagnia di
altri portando con se oggetti e strumenti utili al miglioramento
della sua esistenza.
Il mezzo di locomozione per eccellenza era il cavallo e suoi
derivati, veloce ed affidabile, specie quando tra animale e umano
si instaurava un rapporto di reciproca fiducia, ma era limitato
nella quantità, infatti poteva portare al massimo due persone e
C'era 'na vota frammenti di mamoria
149
non tanto comodamente.
Al fine di dare la possibilità a più persone di potersi spostare,
con comodità e portando con se qualche contenitore con oggetti
utili alla vita quotidiana, l'ingegno dell'uomo sfruttò proprio
l'abbinamento dell'animale e della ruota
creando “lu carrettu “.
Di tante forme e dimensioni il carro è stato per millenni l'unico
mezzo di trasporto, sulla terra ferma, a disposizione della
comunità, dando la possibilità a chi ne possedeva uno di mettersi
a disposizione degli altri, lavorare per i loro bisogni, avendone in
cambio un compenso tale da potere essere sufficiente alle
necessità quotidiane proprie e della famiglia.
Nasce così il mestiere di “carritteri “.-
Nel nostro paese di carrettieri ce n'erano diversi ed erano a
disposizione dei cittadini tutti i giorni ed in qualsiasi ora; il loro
costo era limitato e proporzionato a quanto si trasportava; il peso
era importante e veniva rapportato alla difficoltà della strada da
percorrere ed alla durata del trasporto.
“Lu carrettu “ nostrano ( tipico siciliano) era un'opera d'arte.
Di forma quadrata, composto da un assale portante di ferro
battuto con sopra delle assi robuste di buon legno tenute tra loro
da forti bulloni, il tutto circondato da spalliere laterali di legno
stagionato, “li sponti “, fisse ai lati e smuovibili davanti e dietro a
secondo dei bisogni che si presentavano.
Due grosse stanghe ( li stanghi ) attraversavano tutto il carretto
uscivano dall'anteriore per circa due metri con una larghezza tra
di loro di circa un metro, sufficienti abbastanza per permettere al
cavallo di collocarsi comodamente nel mezzo, legato ad esse dal
sottopancia, dal collare,dall'imbracatura, tutte formate da robuste
C'era 'na vota frammenti di mamoria
150
cinghie di cuoio; due lunghe briglie (li brigli) consentivano al
conducente, che stava seduto nella parte anteriore del carretto, di
comandare e dirigere l'animale; i paraocchi parte integrante dei
finimenti servivano per non far distrarre il quadrupede durante la
marcia,ed evitare eventuali brutti scarti.
Possenti nella loro docilità ed ubbidienti al comando del
padrone, tiravano il carretto con tutto il peso collocato sopra,
spesso fatto da tre,quattro persone oltre al conducente.
Le grandi ruote, protette all'esterno da robusti cerchi di
ferro,erano lavorate nei raggi con figure ed oggetti scolpiti e
pitturate con colori vivaci; i laterali “li sponti “ erano una vera
opera d'arte; non tutti perchè era un grosso costo farli abbellire,
ma quelli che erano lavorate attiravano l'attenzione dei passanti
che non potevano fare a meno di fermarsi ed ammirare quelle
immagini pitturate sul legno scolpito.
Scene tratte dall'epopea dei Paladini di Francia, fatte rivivere
dalla bravura degli scultori appartenenti alle due scuole tipiche
della tradizione “carrettistica” siciliana: quella palermitana e
quella catanese, mettevano in evidenza tutti i misteri che da
secoli avevano circondato le gesta eroiche della saga francese
nella Chanson de Roland: Orlando, Rinaldo, Carlo Magno, lo
scontro cruento ed eroico di Roncisvalle, erano i temi
predominanti delle scene riportate.
L'arte scultorea, incomparabile, completata dalle vivaci e
sapienti miscele di colori, mettevano in evidenza le scene che su
quelle facciate, di lu carrettu, sembravano sciupate se non poste
in una elegante galleria d'arte.
I carretti destinati ad un lavoro umile, al trasporto dello zolfo,
della polvere di gesso destinato alle costruzioni,di materiali
C'era 'na vota frammenti di mamoria
151
inerti, non avevano detti fregi e lavori artistici; presentavano
pochi eleganti accorgimenti,ma altrettanto robusti, erano
parcheggiati qua e là, sempre vicini alla casa del possessore, in
attesa di qualche ordinazione da parte di qualche cliente.
Spesso si vedevano delle file lunghe di carretti di dimensioni
uguali ma di colori e ornamenti diversi, tirati da eleganti e robusti
cavalli o da qualche animale non più giovane ma sempre pronto a
dare il massimo di se stesso al comando del padrone, che carichi
di pesanti forme di zolfo, proveniente dalle zolfare locali,
procedevano in fila indiana verso i porti marittimi delle coste
agrigentine.
D'estate durante la raccolta dei cereali erano molto utili per il
trasporto delle fave o del frumento e quanto altro veniva prodotto
nelle campagne.
Sotto il carretto appesa ad una reticella di forma quadrata, che
fungeva da contenitore di vivande, pendolava l'inseparabile
lanterna a petrolio da accendere la notte, durante il lungo tragitto,
per segnalarne la presenza.
Durante il lavoro e nelle pause di riposo molto spesso si
vedeva accanto al cavallo un altro animale molto amico
dell'equino: il cane.
Affezionatosi al cavallo gli andava a fianco durante il tragitto
o si accovacciava vicino a lui nelle pause di riposo; faceva
compagnia all‟animale e da guardia al carretto e quanto altro
avesse caricato; se c'era il cane nessuno oltre il padrone si
avvicinava al mezzo di trasporto, accontentandosi di qualche
boccone di pane che il padrone gli passava durante il frugale
pranzo.
Lu carrettu era sempre un'attrazione per i numerosi ragazzi che
C'era 'na vota frammenti di mamoria
152
giocavano per le strade,
Spesso cigolante per il troppo peso e col caratteristico cullarsi
(annacata) in senso laterale attirava i ragazzi che a turno si
appendevano alle due stanghe che uscivano un poco dal
posteriore ed avevano la funzione di punto fermo dove legare e
tenere fermo il carico da trasportare.
Ogni carrettu che passava subiva l'assalto dei ragazzi,
provocando le grida “di lu carritteri” che con voce roboante
rimproverava gli assalitori: “crastagnuna viditi ca vi struppiati”!
Il giorno di festa il carretto veniva lavato e lustrato a nuovo; si
strigliava il cavallo con attenzione passando il nero fumo agli
zoccoli dell'animale per renderli più puliti e neri; si bardava con
il finimenti eleganti adatti per le feste e le sfilate
collocando a bella mostra sulla testa del cavallo un grosso
ciuffo di grandi penne di tutti i colori dell'arcobaleno che davano
all'animale un possente e fiero aspetto; al centro,sul dorso della
bestia, faceva bella mostra in altro elegante e grosso ciuffo di
penne colorate sorretto da un piccolo piedistallo di legno
variopinto e tempestato da tanti specchietti di varie forme; nella
parte centrale, laterale, sulla testa e lungo le orecchie, tutto
intorno all'animale, decine e decine di sonagli (ciancianeddi) che
al procedere generavano un piacevole,familiare suono tipico della
ciancianedda -sonaglio ( erano finimmenti elegantissimi nei loro
vivaci colori e costosi che si trovavano solo a Palermo ed a
Catania).
Anche il carrettiere si vestiva col vestito buono, tipico del
mestiere, che presentava pantaloni e giubbotto aderenti al corpo,
stivali neri, la bianca camicia era chiusa al collo da una specie di
cravatta composta da un cordoncino con alle punte due palline di
C'era 'na vota frammenti di mamoria
153
lana di vivaci colori che pendolavano dai colletti della camicia, in
testa una coppola nera; con una mano teneva una lunga frusta che
faceva schioccare continuamente in aria, con l'altra stringeva per
il morso la elegante e luccicante cavezza, guidando il cavallo nel
suo elegante procedere.
Alto, con la testa adornata da bellissimi finimenti, col
pennacchio sopra la testa in cima ad un possente muscoloso e
lungo collo, con passo stile marziale provocava un rumore
piacevole e familiare con gli zoccoli; ogni tanto alzava le belle e
lunghissime setole della coda e con noncuranza e fare dignitoso
lasciava cadere delle palline verdastre, materiale ormai
inutilizzabile dal suo apparato digerente; allora si spandeva
nell'aria un certo profumo, quasi nessuno definiva “fetu” perchè
chi più chi meno tutti avevano in casa o accanto la propria casa
uno o due produttori di quelli ovali rifiuti; più raramente, ma ogni
tanto si poteva ammirare, alla fuoriuscita del materiale solido
seguiva una cascatella liquida di colore paglierino che con
l'impatto della caduta a terra produceva una abbondante e
biancastra schiuma; dopo di tutto questo l'animale, sempre con
molto decoro e lasciando qualche risolino sulla bocca degli
spettatori, continuava il suo cammino lasciando nell'aria un
profumo... molto familiare!
Attraversava la piazza principale in tutta la sua lunghezza con
calma, fermandosi ogni tanto per dare la possibilità a chi lo
desiderava (erano tanti) di ammirare “lu carrettu cu tuttu lu
carritteri”.
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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La Sirinata (La serenata)
Durante le calde serate d‟estate c‟era la buona abitudine di
rinfrescarsi e riposarsi un poco, dopo una calda giornata di
lavoro, standosene seduti davanti la porta lasciandosi accarezzare
dalla fresca brezza serale.
Di solito non si stava da soli; diversi vicini venivano ad
accrescere la compagnia
chiacchierando e rilassandosi; sovente anche gli uomini si
univano alle donne standosene leggermente in disparte parlando
del più e del meno.
Gli argomenti dominanti erano i fatti successi in paese, il lavoro
svolto durante la giornata, gli inconvenienti capitati e quant‟altro
poteva essere argomento di conversazione, in quelle lunghe
serate afose.
I ragazzi correvano e giocavano nei pressi riunendosi a frotte; i
maschietti si sbizzarrivano con giochi che li portavano ad
allontanarsi anche di qualche cantonata, mentre le femminucce si
dedicavano a giochi che le tenevano vicine alle mamme e tra
loro.
Quadretti di vita paesana che mettevano in evidenza la
freschezza, la purezza dei rapporti di amicizia, la sincerità, il
rispetto, che facevano parte della quotidianità delle persone.
Era un‟usanza tanto radicata, quella il sedersi davanti la porta
assieme ad altre persone, tanto che in qualche strada,
particolarmente abitata (lo erano tutte in verità), si potevano
contare più comitive sedute a chiacchierare.
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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Si stava fino a sera tarda; era piacevole parlare ed ascoltare di
quello che succedeva nel paese e oltre.
Sovente, esauriti gli argomenti, qualcuno proponeva di
incominciare qualche racconto (un cunticeddu).
Si invitava, allora, qualche anziana particolarmente preparata in
questi diversivi, ad iniziarne qualcuno.
Il tempo passava senza che si percepisse minimamente il suo
inesorabile trascorrere, fino a che qualcuno, che l‟indomani
doveva alzarsi presto per andare a lavorare, con garbo e
delicatezza, faceva la proposta di rinviare la continuazione
all‟indomani e per quella sera andare tutti a letto.
Tanti ragazzini già dormivano con la testa appoggiata sul grembo
materno; i più piccoli già addormentati da tempo.
Le comitive già avevano sciolto le adunate serali rientrando nelle
rispettive abitazioni quando alle orecchie, sempre tese, della
gente arrivavano dolci note musicali che accompagnavano una
voce tenorile; questa si spandeva forte e chiara nell‟aria, ad
accarezzare il sonno di tanta buona gente, del silenzio assoluto
della notte. Ma non tutti dormivano!
Pian piano, facendosi sempre più forte e comprensibile nelle
parole del cantante, la dolce melodia si avvicinava fino ad essere
facilmente compresa.
Chi era ancora sveglio si apprestava ad affacciarsi alla finestra
preso dalla dolce e coinvolgente melodia che inteneriva e
coinvolgeva gli animi spingendo alla curiosità.
Le melodie si alternavano dando la preferenza ora al cantore, ora
alla chitarra, ora al violino, ora alla fisarmonica.
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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L‟aria circostante ne era satura riuscendo ad arrivare lontano
lasciandosi trasportare, nella silenziosità della notte, dalle leggere
ali della piacevole brezza notturna.
Era una delle tante “sirinati” che gli innamorati erano soliti
portare alle loro amate nelle piacevoli notti estive.
Quella notte qualcuna non stava dormendo; nella sua trepidante
attesa, all‟insaputa dei genitori, l‟innamorata stava al buio dietro
la finestra della propria abitazione ad ascoltare quella melodia,
che la coinvolgeva, farsi pian piano vicina; quanto più vicina si
faceva tanto più forte batteva il suo giovane cuore.
L‟aria ove passava la comitiva era satura di musica, di dolci frasi,
di bella gioventù, di allegria; oltre i musici, il
cantante,l‟interessato innamorato (spesso più di uno recandosi a
vicenda sotto le finestre) un folto gruppo di giovanotti si univa
alla comitiva, spesso ingrossando il coro di accompagnamento e
dando a tutta l‟allegra comitiva una immagine festosa e giuliva.
Da dove passavano, durante le pause tra una melodia e l‟altra, il
circondario si riempiva di voci, di mormorio, di risate, interrotte
da un energico accordo di chitarra seguito subito dopo dalla
melodiosa voce del cantante che iniziava una bellissima serenata:
“affaccia bedda…affaccia al tuo balcone…”
Frasi tenere, dolci, spesso tremanti a significare la trepida attesa
dell‟innamorato che stava lì, accanto al menestrello, quasi a
sorreggerlo nel suo cantare pieno di sentimento.
Gli strumenti musicali sprigionavano il meglio, dalle loro casse
armoniche,sollecitati e guidati dalle energiche e tremanti mani di
amatori che facevano di quella musica arte sublime e
coinvolgente.
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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Tante finestre si illuminavano al loro passaggio; gente che si
accingeva ad andare a letto, gente che si svegliava dolcemente, al
giungere di quelle melodie carezzevoli mai irritanti, gente
interessata a quella musica, conoscitrice di segreti amorosi e
confidenti speciali.
Vicini di casa che con gli occhi assonnati affacciatisi alle finestre
chiedevano a qualcuno della comitiva:
“pi ccu iè ssà sirinata? cù iè ssà furtunata?”
Coinvolgente, curiosa, allegra, la comitiva continuava il
cammino avvicinandosi, piano piano, alla dimora dell‟amata
fanciulla. Il loro procedere era lento, con molte soste necessarie
per dare la possibilità ai suonatori di sistemarsi bene gli
strumenti, al cantante di intonare meglio le melodie, alla gente di
sentire più chiaramente quelle note.
Con quel procedere, ormai ben collaudato dalla tradizione, la
comitiva incominciava a prepararsi alla sosta principale sotto la
finestra o balcone, della giovinetta che era all‟origine di tanta
trepidazione.
Già da tempo la ragazza era in attesa; sapeva della serenata e
sentiva da lontano la melodiosa musica che si avvicinava e si
faceva sempre più forte alle sue orecchie, mescolandola a quella
che si sentiva addosso proveniente dai battiti del suo cuore.
Con la finestra appena aperta sbirciava dalla fessura per vedere
quando l‟amato, con tutta l‟allegra compagnia, entrasse nella
strada; procedeva con la massima attenzione in maniera che i
propri genitori non capissero che tutta quella serenata fosse
destinate a lei.
L‟ingenuità delle ragazze di allora faceva tenerezza.
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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I genitori certamente sospettavano che qualcosa di bello e
gradevole stava cambiando la loro bambina in donna; dal
continuo controllo che i genitori, e con essi anche i fratelli,
avevano sulla ragazza, avevano certamente intuito che qualche
bravo ragazzo stava facendosi strada nel cuore della loro figliola.
Anche il resto della famiglia sentiva la musica; stava con le
orecchie tese ad ascoltare l‟avvicinarsi di quelle gradevoli
melodie.
Un presentimento di coinvolgimento era in loro e si
interrogavano con gli occhi, mentre le loro orecchie erano tese a
percepire il minimo rumore proveniente dalla figliola.
Finalmente la comitiva entrava nella strada ove abitava l‟amata; a
questo punto la frenesia cominciava a impadronirsi dei cantori ed
in particolare dell‟innamorato che, con ampi gesti, invitava i
musici ad organizzarsi a gruppo compatto con innanzi il cantante;
questi si schiariva la gola con piccoli colpetti di tosse, fino a
portare la gola alla perfezione.
L‟innamorata, al buio più totale, stava dietro la finestra,
trepidante ed impaurita; gli occhi puntati nella strada, le orecchie
tese a percepire il minimo rumore proveniente dall‟interno.
Con molta discrezione la comitiva si avvicinava alla casa oggetto
di tutta l‟operazione; pian piano, cercando di fare il meno
possibile rumori inutili, si sistemavano sotto la finestra o il
balcone ove certamente l‟amata fanciulla stava ad aspettare.
L‟innamorato si metteva bene in evidenza disponendosi accanto
al cantante e dando un‟ultima sistematina al suo vestito buono,
messo a posto dalla brava mamma per quella importante
occasione.
C'era 'na vota frammenti di mamoria
161
Anche i genitori e gli altri familiari si erano ormai alzati e
sistemati dietro la finestra a guardare quella allegra gioventù che,
spinta da una irrefrenabile forza interiore, seguiva il ciclo
naturale della vita.
Stavano lì a guardare emozionati ma contenti, cercando di
trattenere qualche lacrimuccia al pensiero che “l‟addeva”
cominciava a prepararsi a lasciarli per andare, con quel bravo
ragazzo, a formare una nuova famiglia.
Un accordo di chitarra già dava il via alla musica, seguita
all‟unisono dagli altri strumenti, preparando l‟entrata in scena
delle dolci ed appassionate parole che di lì a poco l‟innamorato,
per bocca del cantante, avrebbe rivolto alla sua amata:
Vinni a cantari ccà sta sirinata
Cu la chitarra e la me cumpagnia;
Ricordati di me, fanciulla amata,
Ti do la buonanotte e vado via.
Rit .: Tu dormi, dormi, fanciulla mia,
Non sai che sia l‟amare te!
Tengo una smania d‟averti accanto
Amore santo, mi fai soffrir.
Dormi con gli occhi chiusi ma sveglio è il cuore,
lo sai che sono io il tuo primo amore;
Lo sai che sono io che t‟amo tanto
E vengo a risvegliarti col mio canto
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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Rit .: Tu dormi, dormi, fanciulla mia,
Non sai che sia l‟amare te!
Tengo una smania d‟averti accanto
Amore santo, mi fai soffrir.
E la matina di la benlivata
Ti portu lu cafè cu la granita;
e po‟ ti portu a la missa cantata
Cu la to bedda vistina di sita.
Rit .: Tu dormi, dormi, fanciulla mia,
Non sai che sia l‟amare te!
Tengo una smania d‟averti accanto
Amore santo, mi fai soffrir.
L‟aria era satura di una magica atmosfera, tutto sembrava più
bello e conciliante; i pensieri, le ansie, i dolori, le pene, i sacrifici,
le stanchezze, in quel momento venivano totalmente dimenticati.
Tutta l‟anima era presa dalla dolce melodia e dalle romantiche
parole, tutt‟uno con la meravigliosa voce del cantante che, con
grande enfasi, metteva tutta la sua bravura nell‟interpretare i
sentimenti che in quella notturna rappresentazione si volevano
esprimere.
Gli sguardi di tutti i convenuti erano rivolti verso la finestra della
ragazza; qualcuno cominciava a dubitare che quella serenata
venisse accettata (capitava, ogni tanto, che invece di un sorriso,
dalla finestra arrivava “un catu d‟acqua”); qualche vocina, a
basso tono, incominciava ad incunearsi nell‟animo di qualcuno:
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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“mi pari ca stà sira „un ficimu nenti”, “aspittammu
tanticchia…ancora prestu è!”
Dalle finestre vicine qualche lucetta si accendeva; da dietro i
vetri si vedevano le sagome delle persone prese dalla curiosità;
qualcuno si affacciava liberamente ed ascoltava quella gradevole
serenata seguendo con lo sguardo l‟allegra compagnia, occasione
questa di conoscere il giovane spasimante che se ne stava
impalato con lo sguardo fisso alla finestra della sua bella.
Presi dalla melodiosa atmosfera, dalla insopportabile afa estiva,
che teneva la gente sveglia fino a tarda notte sempre sudaticcia,
gli abitanti di quella strada, per quella notte, avevano un bel
passatempo.
Certo non tutti gradivano quella manifestazione; chi doveva
alzarsi presto per andare a lavorare, non accettava di buon grado
quei “rumori notturni”: “‟unnannu chiffari stà sìra…schiffarati jti
a dòrmiri!”
In compenso erano graditi e bene accetti da chi era l‟oggetto
primario di tutta quella manifestazione.
Infatti da dietro la finestra la ragazza, che aspettava ed accettava
di buon grado quella serenata, voleva dare un piccolo cenno si
assenso al suo spasimante.
Con le orecchie sempre tese a percepire il minimo rumore che
potesse giungere dall‟interno della casa, guardava il “suo”
ragazzo che giù in strada stava con gli occhi fissi alla finestra, in
attesa di qualche cenno di assenso.
Spinta dalla grande forza dell‟amore, finalmente si decideva a
fare qualcosa.
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Sempre al buio e con grande accortezza, apriva un poco la
finestra lasciando che da fuori si vedesse la sagoma della sua
tanto attesa figura.
In strada era tutto un fermento; il cuore dell‟innamorato batteva
all‟impazzata, mentre si muoveva nervosamente a fianco del
cantante, il quale, alla vista della ragazza alzava il tono della voce
fino all‟inverosimile.
Per quella sera tutto era andato bene.
Il ragazzo era al settimo cielo; riceveva le congratulazioni degli
amici che lo circondavano, mentre con la mano dava un cenno di
saluto in direzione dell‟amata che, fattasi un poco più
intraprendente, si era un pochino affacciata, dalla finestra semi
aperta.
Da un altro posto della stessa casa, qualche altra persona
asciugava una lacrimuccia di felicità, mentre stavano lì, ad
assistere a quella meravigliosa manifestazione d‟amore.
La serenata era andata a buon fine; la compagnia, dopo avere
intonato qualche altra canzone d‟amore, cominciava ad
allontanarsi, piano piano quasi a perdersi tra l‟aria afosa di una
calorosissima notte d‟estate.
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La Fujitina (Fuga d‟amore)
Ogni tanto la tranquillità paesana, che era solita regnare nel
quartiere, veniva lacerata da grida, sempre femminili, che
attiravano l'attenzione dei vicini e di tutti quelli che le sentivano.
La solidarietà umana, unita alla grande curiosità che è propria
della razza, spingeva prima i vicini di casa poi man mano anche i
più lontani, ad affacciarsi in strada per individuare da dove
venissero quelle strazianti grida.
Già si vedeva qualche persona intima correre in direzione di
una certa abitazione, seguita a poca distanza, da qualche altra
persona con il cuore in gola e la paura la faceva mancare le forze
alle gambe dei soccorritori.
I loro volti sbiancati, il respiro ansimante, con il mano qualche
foglia di cavolo o con le mani ancora imbrattare di farina
impastata, correvano in direzione della provenienza delle grida.
“Chi cc'è... chi succèssi ?...mmari Ciccì chi ffù... cu muri ?).
Tra quel fermento che già invadeva tutta la strada e quelle
viciniori, le grida si facevano più forti quasi a volersi fare sentire
ancora più lontano!
Quelle ingarbugliate parole insieme alle forti grida
incominciavano ad essere capite, qualche parola iniziava a
comprendersi, qualche frase si avviava a prendere forma ad avere
un significato, ancora confuso,ma comprensivo.
La gente correva, uomini, ragazzi, vecchi, donne in
maggioranza; già davanti la porta d'entrata si accalcava un
discreto numero di persone pronte a portare aiuto e ad...appagare
la propria curiosità.
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“Chi cc'è?... chi ssuccessi?...cu murì?...la gnura Cicca!? La
gnura Cicca murìììì...)!
Già qualche voce circolava e si allargava nel vicinato... ma...le
grida, ormai, si facevano chiare e le frasi andavano prendendo
senso compiuto.
“Figlia sbinturata! Disgraziata! la bedda figlia... mi
l'arrubbaru... Miiii l'aaarrruuubbbaaarrruuuu..Bbuttàààna!
Tròòòòia!)
piccola pausa per prendere respiro, poi... “Si nnì fuì, sìì nnììì
fuuuììììììì” la bbuttana ! “gridava la donna rivolgendo la propria
disperazione in direzione dei primi soccorritori che ansimanti
chiedevano spiegazioni.
Ormai tutto era chiaro, puntualmente, sistematicamente,
ordinatamente, si ripeteva ciò che da secoli avveniva quando
l'amore prevaleva sulla volontà della famiglia; l'amore sì...ma a
volte e da noi spesso la “fuitìna” era il risultato
di un ragionamento tanto approfondito e tanto calcolato, la
naturale conclusione per chi viveva nell'assoluta povertà, per chi
aveva sì e no il sufficiente per vivere.
La scena che si presentava agli occhi dei primi arrivati era il
copione di scene già viste, in altri luoghi, in altri tempi, ma
sempre simili tra di loro: in un angolo seduto su una sedia, con lo
spago pendolante da sotto, con la testa appoggiata su una mano,
con il braccio appoggiato sul pianale di un modestissimo ed
unico tavolo, le spalle appoggiate al muro, col volto scarno e
patito, con ai piedi un paio di scarpe che avevano vissuto molto
tempo fa la loro giovinezza, uno scialle sopra le spalle, stava in
silenzio il padre.. il capo famiglia.
Sull'unico letto grande, disordinato, coperto da una “cuttunina”
C'era 'na vota frammenti di mamoria
168
sgualcita, posto su tavole sorrette da “trispa”, stavano pieni di
paura e di interrogativi due,tre bambini stretti tra di loro, per
tenersi caldi e per difendersi da ciò che non capivano ancora; gli
occhi lucidi e tristi, il più piccolo col faccino sporco ai lati dal
moccio, emanavano una tale tenerezza che coinvolgeva chi li
guardava.
La stanza, spesso unica, piena dalle grida dalla donna, la
mamma della fuiuta, presto si riempiva anche di persone che
sentite le ragioni di quella disperazione, dopo avere represso un
istintivo risolino o trattenuto un naturale commento, atteggiando
il proprio viso a dispiacere, tornava indietro mettendo al corrente
le persone che incontrava e sprigionando,finalmente, quel
risolino prima aveva represso.
“La disgraziata si nnì fuì...nasì si nnì fuì! Chi ccì mancava „na
la casa di sò pà, chi cci mancaaaava!
Figlia sbinturata! chi vrigogna chi vrigoooogna “continuava la
donna... ma con meno vigore, vinta ormai dalla stanchezza ed
appagata per averlo comunicato agli altri.
Circondata dalle amiche, la donna non si dava pace; un paio di
brave persone avevano preso in braccio i bambini e cercavano di
rassicurarli dando loro un poco di calore umano.
Alcuni uomini si erano avvicinati a “mpari Ciccu” cercando di
consolarlo e dimostrargli solidarietà con la loro compagnia.
Piano piano nell'aria incominciava a ritornare la normalità con
il vai e vieni delle persone che portavano la loro solidarietà alla
famiglia colpita dalla “disgrazia” e dalla “vergogna”.
“La fuitina” azione, spesso obbligata a volte organizzata, a cui
i fidanzati dovevano ricorrere per coronare il loro sogno d'amore,
per realizzare la loro unione e metter su famiglia, avveniva
C'era 'na vota frammenti di mamoria
169
anche dopo o a conclusione di un periodo di fidanzamento,
durante il quale i ragazzi si frequentavano, si conoscevano, si
affezionavano l'uno all'altra senza nessuna concessione di libertà
da parte dei genitori.
Spesso durante il lungo fidanzamento, l'influenza dei genitori,
per la verità decisionale, portava alla divisione della giovane
coppia, con grande disapprovazione dei ragazzi che ormai si
erano affezionati e si volevano bene.
L'amore dei giovani sì era importante, ma la volontà dei
genitori lo era di più col risultato che spesso si litigava tra le
famiglie, costringendo i ragazzi a lasciarsi.
Parenti, amici, più o meno influenti intervenivano nel fatto a
mettere “la bona palora”, ma la testardaggine dei genitori la
voleva vinta a qualsiasi costo senza sentire ragioni; a questo
punto, quasi sempre con il benestare di qualche parente che
doveva ospitarli e spesso garantire la illibatezza della ragazza per
permetterle di sposarsi in chiesa, si percorreva la strada della
fuitina”.
I ragazzi andavano a pernottare in casa di parenti, consenzienti
o nella peggior delle altre tante numerose volte, in qualche
“paglialora” a concludere la loro scelta e ad iniziare una nuova
vita.
Certi padri per anni ed anni non volevano perdonare quella
scappatella ai loro figli costringendoli a sacrifici non indifferenti,
specie se non avevano una casa ove abitare e il ragazzo non
lavorava in continuazione.
La famigliola cresceva con l'arrivo di bambini, benedizione
questa, che consentiva di ammorbidire il cuore indurito dei
genitori,specie del padre ferito nell'orgoglio, e permetteva la
C'era 'na vota frammenti di mamoria
170
conciliazione tra le famiglie.
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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C'era 'na vota frammenti di mamoria
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Lu Cantaru (Il Pitale)
Per descrivere l'argomento susseguente oltre ai ricordi che ho
da bambino ho cercato conforto e aiuto tra le persone più mature
di me, che hanno nel loro ricordo più chiaro il fatto, l'atto
consueto utile e necessario alla vita quotidiana.
Non era raro, per chi si svegliava presto la mattina o rincasava
tardi la sera ma sempre col buio, incontrare per le strade delle
periferie del paese persone avvolte nel loro grande e nero scialle,
con passo svelto, gli occhi appena visibili rivolti sempre verso
terra, con fare guardingo ed attento a dove mettevano i piedi,
trasportare qualcosa nascosto sotto lo scialle.
La figura ammantata di nero svaniva alla vista molto presto,
inghiottita come per incanto dal buio che, specie d‟inverno, era di
un colore nero pece.
Non passava molto tempo...giusto qualche minuto e dal buio,
leggermente più tenue perché sbiadito dalla sporadica lampada
pubblica accesa, spuntava di nuovo quella figura che percorreva,
sempre col passo veloce e con fare circospetto, la via del ritorno.
Per i bambini, i ragazzi, che, occasionalmente si trovavano
ancora per le strade, era un mistero che per tanto tempo non
riuscivano a capire, anzi spinti dalla loro fervida e pirotecnica
fantasia si immaginavano fosse operato di streghe, di fatti segreti
che non si dovevano vedere ne sapere, dato che si svolgevano in
orari inconsueti e con l'aiuto delle tenebre.
C'era 'na vota frammenti di mamoria
173
Qualche volta si riusciva a vedere fino a dove arrivavano ma
non di più perchè dopo una breve sosta, qualche movimento
furtivo, uno sguardo in giro, sempre avvolti come prima,
ritornavano indietro.
Tra i ragazzi era un argomento di discussine e di curiosità; la
fantasia si sbrigliava ed ognuno diceva la sua:
“streghi, magari, riunioni segreti, li piglia addevi”, che
andavano a controllare a turno il mal tolto.
Tutto il mistero durava fino a quando qualcuno più grande, che
si univa alla comitiva, metteva al corrente i ragazzi del significato
di quel modo di fare.
Finalmente l'arcano si chiariva.
Le donne di casa andavano a buttare nell'immondezzaio i
rifiuti materiali del corpo umano depositati dentro un recipiente
di terracotta ( lu cantaru” o “lu rinali” ).
Non so se quanto raccontato farà lo stesso effetto che ha fatto
su di me nel momento di descriverlo: ho riso.
La maggior parte delle abitazioni non avevano allacci alle
fognature ove scaricare i rifiuti corporali, di conseguenza non
avevano nemmeno un buco ove buttarli; questi venivano raccolti
in uno o più contenitori e buttati assieme al concime stallatico,
per chi aveva l'animale nella stalla; nell'immondezzaio comune,
per chi non ne aveva.
Il trasporto avveniva sempre con un capiente recipiente e
questo compito spettava sempre alla donna di casa più anziana,
che utilizzando le tenebre della sera o della mattina, avvolta in
uno scialle e con fare circospetto, andava a buttare l'aromatico
contenuto nell'immondezzaio più vicino.
Immondezzai ce n'erano tanti; ogni quartiere aveva il suo a
C'era 'na vota frammenti di mamoria
174
volte due, necessari depositi della pochissima immondizia che si
produceva in famiglia ma principalmente per i rifiuti organici
delle persone e dei numerosi animali che si allevavano nelle
stalle.
Non era raro vedere ragazzi che
correvano,giocavano,scavavano, tra quei rifiuti; l'olezzo era
insopportabile specie d'estate durante la naturale decomposizione
del materiale; il fumo saliva verso l'alto e la puzza invadeva
spesso le strade vicine; gli insetti di tutte le specie, nuvole
d'insetti, svolazzavano sopra quell'ammasso puzzolente senza
mai stancarsi, diffondendo per un largo raggio quel rumore tipico
degli ammassi di api vaganti.
Molti contadini usavano questi posti come depositi per il loro
concime stallatico e non solo; depositavano sempre nello stesso
posto creando cumuli alti due tre metri in attesa che si digerisse,
avvenisse la decomposizione e si trasformasse in ottimo
fertilizzante, nutriente concime da utilizzare in agricoltura.
Tutti i giorni si potevano vedere centinaia di galline, qualche
maiale, cani randagi, rimescolare tra quel materiale in cerca di
qualche scarso boccone da inghiottire; era una continua lotta, una
gara tra i poveri animali che non potendolo avere in casa, una
volta liberi per strada cercavano tra i rifiuti qualcosa idonea a
mitigare la loro cronica fame.
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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C'era 'na vota frammenti di mamoria
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Li Munnizzara (Gli Immondezzai)
Ogni tanto, specie d'estate, qualche ragazzino giocando con i
fiammiferi (gioco preferito dai ragazzi)accendeva qualche
fuocherello dando inizio a quello che sarebbe stato un incendio
generale; da gioco all'inizio a tragedia alla fine.
Il fuoco dopo avere, piano piano, divorato per diversi giorni il
deposito di rifiuti appestando e rendendo irrespirabile l'aria
circostante, continuava ad allargarsi arrecando seri danni a
qualche costruzione vicina.
Tramite qualche oggetto particolarmente infiammabile,
qualche poco di paglia sparsa qua e la il fuoco si propagava fino a
incendiare qualche vicino deposito di paglia, destinata al
nutrimento delle bestie, che i contadini sono soliti conservane,
provocando paura tra gli abitanti delle abitazioni vicine.
“Lu focu scappà, la paglialora abbruscia..curriti curriti...
pigliati li cati... l'acqua, curriti...) e così iniziava la corsa contro il
fuoco che trovando buona combustione nella paglia asciutta, la
divorava sprigionando fiamme che presto incenerivano anche il
misero tetto di travi e canne.
Spesso a nulla serviva la solidale catena umana che buttava
acqua tra le fiamme quasi a dar loro un poco di refrigerio in
quelle giornate calde ed afose; in poche ore tutto era finito, tutto
il consueto panorama era stato trasformato;
al posto dell'immondezzaio un largo spiazzo nero e fumante
aveva preso il suo posto; quattro povere mura annerite gli
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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facevano compagnia, guardate con occhi umidi dal povero
“viddanu” che aveva visto svanire la propria pagliera con tutta la
paglia, unico sostentamento della propria mula.
In una estremità dello spiazzo già una zappa era al lavoro per
pulire il posto ove si doveva depositare il nuovo concime che
giornalmente si accumulava.
Lu munnizzaru riprendeva vita !
Ho sempre messo in evidenza, non a caso, quanti ragazzi
correvano e giocavano per le strade: tanti erano i modi di giocare
da soli o in compagnia, stando seduti o correndo, con attrezzi
(sempre povere cose inventate o racimolate proprio nei
mondezzai).
Ogni tanto qualcuno trovava qualcosa utile, (buttata via per
distrazione più che per inutilizzabilità perchè quasi tutto veniva
riparato); a volte si trovava... il dispiacere.
Mentre si scavava e si rovistava tra il concime ferirsi con
qualche pezzetto di filo di ferro, con qualche vecchio ferro di
cavallo, oppure con qualche vecchia lattina buttata via perchè
arrugginita, era cosa che capitava spesso.
Allora erano pianti, corse verso casa, grida che coinvolgevano
tutta la strada, avvolta nel suo tipico sopore paesano.
Ingiurie in direzione del ragazzo “lagnusu e mangia pani a
tradimentu”; bestemmie da parte del padre preoccupato per
eventuali conseguenze; la corsa frenetica verso il medico e la
conseguente verso la farmacia con la speranza che una volta tanto
avesse la medicina prescritta.
Ferite sanguinolenti, ematomi, sbucciatine di gomiti o
ginocchia,erano cose di ordinaria convivenza.
L' “ogliu piricò” era sempre lì nella bottiglia”a lu suli e lu
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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sirenu”, affissa ad un chiodo conficcato al muro esterno della
finestra, sempre pronto ad essere utilizzato in queste occasioni;
ma non era ne adatto ne sufficiente in certe occasioni.
Iniziavano gli anni cinquanta quando un boato lacerò la
naturale tranquillità del quartiere; i vetri delle finestre vicine
tremarono, qualcuno addirittura si ruppe, e dai balconi, dalle
finestre, dalle case, decine e decine di persone si affacciarono per
rendersi conto di quella esplosione.
In verità ogni tanto si sentiva brillare qualche bomba a mano
lasciata cadere o persa o rubata agli americani di passaggio, poi
abbandonata nelle campagne pur di disfarsene, ma negli
immondezzai mai!
Booommmh!
Nelle orecchie delle persone ancora tuonava il cambio di
pressione atmosferica quando una voce di ragazzo ansimante e
dolente si udiva: “aiutu aiutu, Ciccu murì”!
La gente titubante, guardinga, pervasa dalla paura, spuntando
da ogni casa, da ogni angolo di strada, correva verso la voce del
ragazzo, che sempre sofferente: “mamà aiutami, curriti curriti,
aiutu”!
Già i primi soccorritori erano arrivati nell'immondezzaio; alla
loro vista si presentò un quadro straziante: un ragazzetto pieno di
sangue seduto sull'immondezza, accanto un altro ragazzo disteso,
imbrattato di letame misto a sangue.
Subito l'attenzione dei soccorritori su attratta dalla gamba
lacerata in maniera seria e un avambraccio che pulsava sangue a
getti, privo della mano.
I ragazzi non morirono, il più grave perse una mano e restò
zoppo.
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Cerca, cerca chissà cosa e qualcosa avevano trovato “na lu
munnizzaru”!
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C'era 'na vota frammenti di mamoria
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Lu Furnu (Il Forno)
La fame, sensazione impellente, irrefrenabile causata dal
bisogno di cibo, è lo stimolo che più di tutti spinge l'uomo a
lottare con tutti i mezzi a sua disposizione legali e non pur di
soddisfare la necessità di nutrimento.
Da che abbiamo notizia scritta o tramandata verbalmente
l'alimento per eccellenza, sufficiente a soddisfare il bisogno del
nostro corpo, è il pane.
Il pane, quali ricordi di profumi, di gusto, di gesti, di ambienti,
di voci, di atmosfere, di soddisfazioni, vengono alla mente,
solamente al pensiero di...pane!
Quanti sacrifici, sudore,pene,dolori,lavoro,mortificazioni,per
il pane!
Seminare, coltivare, mietere, pulire, molire, impastare,
cuocere, quanto lavoro per un pezzo di odoroso, morbido,
fragrante, caldo, gustoso e soddisfacente pane.
Il posto per eccellenza, ove si possono sentire, provare, tutti i
pregi descritti, del pane, è certamente il forno.
Nel paese i forni erano molti; ogni quartiere ne aveva
tre,quattro; sempre a piano terra, illuminato dalla luce del sole; se
il lavoro si protraeva fino a tarda sera si faceva uso di qualche
lume a petrolio, qualche mozzicone di candela.
Le pareti nerastre a causa del fumo che per quanto bene
incanalato verso l'esterno ogni volta che si “famiava”(si
accendeva il fuoco per riscaldare il forno) una piccola parte
invadeva la casa ove le donne, tra un chiacchierio dominante,
lavoravano.
C'era 'na vota frammenti di mamoria
182
A ridosso dei muri alcuni tavoli, sempre traballanti, su cui
s'impastava la farina formando un grosso amalgama “lu pastuni”;
delle lunghe mensole, poste alla pareti sia in altezza che in
lunghezza, davano la possibilità di deporre i pezzi d' impasto a
forma di pane per consentirne la lievitazione; in un lato della
stanza era collocato “lu scanaturi”, grande e robusto quadrato di
legno con un'asse centrale mobile che veniva alzato ed abbassato
sul grosso pastone, girato e rigirato da una seconda persone per
essere ben amalgamato ed impastato.
Ai muri tanti “criva larghi, criva stritti, criva di sita” per
separare la crusca e le impurità dalla preziosa farina; qualche
sedia qua e la; l'angolo a fianco del forno era adibito come
deposito di combustibile paglia
ed erba di ogni genere raccolta ed accumulata durante la
giusta stagione, per alimentare il fuoco che doveva riscaldare il
capiente forno; una considerevole quantità di paglia era fornita
dai privati che avendola sostituita
con della fresca nei loro materassi, perchè ormai appiattita per
il troppo uso, la portavano al forno per essere utilizzata
bruciandola.
“Li furni” più o meno simili i tra loro, erano così arredati (per
modo di dire perchè la parola arredo era sconosciuta ai più )in
modo molto pratico, senza superfluo, ove si andava solamente
per lavorare e fare il pane, null'altro a parte chiacchiere ed
aggiornarsi su quello che accadeva nel quartiere e nel paese,
Tante famiglie avevano il forno in casa e facevano il pane una
due volte la settimana (si manteneva fresco e buono anche per sei
giorni).
Si utilizzava la farina del frumento che loro stessi producevano
C'era 'na vota frammenti di mamoria
183
(non tutti, tanti compravano “la mangia” una quantità sufficiente
per il fabbisogno di un anno ).
La maggior parte si serviva del forno gestito da privati.
Aperto fin dalla mattina presto era sempre pieno di donne
intende a lavorare: chi crivellava la farina per togliere qualche
impurità e qualche percentuale di crusca “caniglia” che la
molitura tradizionale non riusciva a togliere; chi impastava la
farina rimescolando il pastone in continuazione con le mani
facendo pressione sulle braccia con il peso del corpo,
amalgamando il tutto con un pezzetto di lievito naturale ( lu
criscenti ); quando il pastone era grande, per esigenze di famiglia
numerosa oppure si voleva conservare per più giorni evitando
così frequentare il forno, allora di adoperava “lu scanaturi”, si
chiedeva aiuto a qualche persona per manovrare la “stangha” di
lu scanaturi che sostituiva egregiamente le braccia umane; altre
dividevano l'impasto in pani, di diverse misure e forme, dopo
avere disegnato con qualche strumento (qualcuno usava la grossa
e pesante chiave di casa altre la punta di una forchetta altre
ancora il coltello) il proprio segno di distinzione nella parte
superiore del pane, bene in vista, lu signali” (la panettiera li
conosceva quasi tutti ) lo collocava sulle mensole a lievitare ( lu
pani tunnu, la muscia, lu chichiru, lu pistuluni, cu la giugiulena,
la pagnotta ( questa era a base di crusca rimasta dalla crivellatura
che aumentata con crusca grossa era buona per cibo da cani).
Finito il proprio lavoro ogni persona puliva ciò che aveva
usato lasciando a chi veniva dopo il posto libero e ben pulito.
Intanto... “la pannittera famiava lu furnu”.
Era uno spettacolo, tante persone in attesa che arrivasse il
proprio turno cercavano di aiutare “nni lu famìu”; porgevano
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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qualche manata di paglia o scopavano per terra sotto il forno per
potere camminare e manovrare con sicurezza.
La fornaia,sempre vestita di nero con un largo fazzoletto in
testa legato dietro la nuca, le maniche alzate sui gomiti attizzava
le fiamme “cu lu furcuni” per sprigionarle più forti possibile e
dare molto calore alla volta ed alle pareti del forno che, costruito
da eccellenti artisti muratori, aveva la possibilità di trattenere il
calore e ridarlo al momento della cottura del pane.
Con una destrezza senza pari spostava il fuoco,con tutte le
fiamme, da una parte all'altra del forno per poi alimentarle con
altra paglia.
Per una mezz'ora questo spettacolo continuava sotto gli occhi
divertiti e scintillanti delle ragazzine, che accompagnavano
immancabilmente le mamme e le nonne per imparare “a fari lu
pani”.
Dopo avere controllato per diverse volte la cupola del forno ed
avendola valutata finalmente adatta, la fornaia o fornaio con una
grande pala di lamiera di ferro toglieva il fuoco misto a cenere
dal forno e dopo averne pulito ben bene il piano di cottura
procedeva a collocare il pane dentro ( nfurnari lu pani).
Allora iniziava un vocio caratteristico: “lu furni prontu
è...piglia ssu pani...prima chiddi granni e ppò chiddi
nichi...arridducitivi si nnò s'arrifridda lu furno...lestu.. lestu”.
Le donne si davano una mano vicendevole facendo una catena
umana dalle mensole al forno, rispettando il turno senza
prepotenze.
Ogni tanto capitava che qualcuno voleva fare la “pizzipiturra”
ma tutto veniva a composizione con l'intervento della fornaia.
Intanto il forno era pieno di pani da cuocere e la povera
C'era 'na vota frammenti di mamoria
185
fornaia, bagnata di sudore (anche d'inverno) sbuffando e spesso
imprecando, chiudeva il forno con un grande e pesante portello,
dopo avere controllato molto attentamente che nessun piccolo
spiffero di aria calda uscisse fuori, tappandolo con cenere
impastata oppure con panni imbevuti d'acqua qualche eventuale
piccola perdita.
A questo punto le donne andavano via, a casa loro, sapendo
che prima di un'ora abbondante il pane non era pronto.
Per poco tempo la grande stanza stava vuota perchè già
incominciavano ad arrivare altre donne per la prossima infornata.
Ogni “furnata” tra preparazione, cottura, infornata, poteva
durare circa due ore e mezza.
Durante una giornata di lavoro si “famiava” il forno almeno tre
volte in genere, certe volte anche quattro.
Non poteva andare sotto le tre infornate se no non riusciva a
guadagnare il sufficiente per pagare le spese e sbarcare il lunario.
Dopo circa un quarto d'ora la nostra apriva il forno e dava un
controllino al pane, che intanto si era gonfiato in altezza,
lasciando libero tanto spazio nel perimetro circostante; a questo
punto la fornaia, con fare lesto e con perizia cercando di operare
velocemente, stringeva tra di loro tutte quelle forme riuscendo a
guadagnare un bel pezzo di spazio ove collocava nuove forme di
pane crudo, sfruttando al massimo la capacità del forno e del
calore prodotto.
Verso la fine dava l'ultimo controllino spostando verso
l'esterno le forme più cotte e verso l'interno le più pallide.
“Lu pani cottu è”.
Con perizia e aiutandosi con una grande pala di legno in meno
che non si dica tutta quella quantità di pane fumante veniva posto
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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in una grande cassa di legno, posta a fianco del forno, pronto per
essere rilevato dai proprietari individuandolo dal segnale
impresso in precedenza.
La fragranza del pane appena sfornato riempiva la casa
impregnando l'aria circostante l'edificio, accarezzando l'olfatto di
chi in quei momenti passava da quelle parti.
I giorni che precedevano quelli festivi i forni lavoravano
giorno e notte “un avianu abbentu”.
Per le feste natalizie di facevano “li mastazzooli cu li ficu o cu
li mennuli, tunni cu la mmarmellata”che delizia!
Quale gusto, quale fragranza sprigionava da quei manufatti !
I ragazzi e anche i grandi aspettavano, con ansia con
impazienza, che le donne di casa ritornassero dal forno “cu la
coffa china di mastazzoli” con la cesta piena di “cosi duci”.
Il forno era una bolgia, la stanza un forno,ma quasi nessuno ci
faceva caso, neanche le tante bambine che accompagnavano le
mamme o che le mamme si portavano dietro; asciugavano il
sudore e continuavano incurante il loro lavoro; finite le tre
infornate di pane, subito si iniziava con la cottura dei dolci.
Tutta la stanza era piena di donne indente a impastare,
farcire,tagliare,collocare nelle teglie.
Il chiacchierare predominava su tutto e si sentiva dalla strada;
un forte odore di ammoniaca usciva dalla porta inebriando il
vicinato.
La cottura dei dolci era più veloce di quella del pane e nello
spazio di un'ora già le prime “coffe” uscivano dal forno, coperte
da bianche tovaglie per salvaguardarne la fragranza.
In queste occasioni il forno lavorava a pieno ritmo a volte tutta
la notte,con l'alternanza al forno di una sostituta alla titolare.
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“Pì Pasqua li picciuna cu l'ovu dìntra o tuttu chinu...cu la
mmarmurata ncapu”.
Il massimo della bontà dolciaria tradizionale nostrana, il
piccione pasquale con dentro uno a volte due uova sode, sopra
veniva spalmato, con un pennello fabbricato grossolanamente
dalle nostre donne con penne di gallina, un composto di albume
d'uova, zucchero, un po di limone, il tutto rigirato e ben
amalgamato: il risultato era “la mmarmurata” di colore bianco
usata esclusivamente per decorare i dolci.
Chi aveva più possibilità ne preparava una buona quantità da
distribuirne a qualche parente o amico che non poteva farne a
causa di qualche lutto, di tempo, o di mezzi.
Spesso si impastavano e si lavoravano in casa ed al momento
opportuno si riempivano le teglie, prese in uso dal forno, e
facendo molta attenzione a non cadere durante il tragitto, si
portavano a cuocere.
Altra importante occasione, che vedeva i forni sempre a pieno
regime lavorativo era in occasione della festa di San Giuseppe.
In questa ricorrenza si facevano “li purciddati”, pani di forma
rotonda di diverse grandezze, anche un metro di diametro,
secondo l'ex voto promessa al Santo per grazia chiesta o ricevuta,
con un grosso buco nel mezzo; lavorati nella parte superiore con
ceselli e decorazioni artistici, creati dalla tradizione per
l'occasione, venivano completati passando nella parte superione
dell'acqua fredda che a contatto della superficie calda di forno la
dotava della lucentezza voluta.
Lu purciddatu era ricavato con la materia prima e la procedura
del pane normale (era pane normale cambiava solo la forma), ma
secondo lo stato di agiatezza delle persone spesso venivano
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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confezionati con la stessa materia dei dolci di grandezza normale.
Il forno, luogo ove gli odori si miscelavano tra di loro
partorendone altri piacevoli e sempre graditi; posto ove volentieri
si andava a curiosare a ficcare il naso (sempre interessato) con la
scusa di portare la “coffa cu la farina” alla mamma o alla nonna;
ambiente sempre gradito per quella atmosfera familiare ove tutti
conoscevi e tutti ti conoscevano ( chi ffà ccà stu masculiddu òj);
sito sacro ove si materializzava il... pane quotidiano tanto
necessario ed insostituibile al bisogno del nostro corpo; “Ia
pannittera” immaggine di donna vestita di nero con fazzoletto
nero legato strettamente in testa, le maniche alzate, col sudore
misto a cenere che le colava dalla fronte, dipingendo di neri
solchi quella maschera di sofferenza, con ai piedi il lontano
ricordo di un paio di scarpe senza colore; quella donna che da
sola, lavorando più di quanto la resistenza umana permettesse,
desidero ricordare, pilastro e anima di quel luogo tanto
gradevole: lu furnu!
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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C'era 'na vota frammenti di mamoria
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Li Morti (commemorazione dei defunti)
Diverse sono le ricorrenze che si celebrano nel nostro paese.
Ricordi e momenti di riflessione che ci sono stati tramandati dai
nostri progenitori che per secoli li hanno tenuti in vita,
onorandone con rispetto e devozione i contenuti umani e
religiosi: il Venerdì Santo con “Lu Signuri a la cruci”, Pasqua
con “Lu Ncontru”, San Giuseppe con “La Tavula”, Sant'Antonio
da Padova “Lu Prutitturi” del Paese, Maria Santissima assunta in
cielo “La Mamma di Diu” , Natale “La nascita di lu
Bammineddu” con tutte le feste connesse.
Giorni di festa e di allegria per i ragazzi, sempre al centro
dell'attenzione dei grandi, che in quelle occasioni ricevono
tradizionalmente “la fera”, piccolo regalo in denaro, dai propri
genitori e parenti.
Piccoli tesori per i più poveri che subito correvano verso un
posticino della casa ove era murato un salva denaro, da rompere
quando divenisse pienotto sufficiente per comprare qualcosa di
bello (spesso scarpe, vestitino, maglietta).
Occasioni tanto attese per potere spendere qualche monetina in
giochi e leccornie, per i meno poveri, dato che potevano avere
altri soldini dai genitori appena lo avessero chiesto.
Se le feste erano occasioni importanti, tanto attese dai ragazzi,
una in particolare era quella che si desiderava arrivasse più di una
volta, non tanto per “la fera” quanto per la quantità di roba buona
da mangiare che riuscivano a ricevere in quella occasione: “ li
morti” (la commemorazione dei cari defunti).
Se per gli adulti era, ed è ancora, un giorno di tristezza e
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afflizione al ricordo dei propri cari che non ci sono più, per i
piccoli è un giorno di festa in cui si commemorano i cari defunti,
e questi ricambiano il pensiero dei vivi portando dei regalini ai
bambini, in modo che questi possano portare per sempre nei loro
cuori e nelle loro menti il ricordo delle persone care che li hanno
preceduti e che non ci sono più.
Già qualche settimana prima della ricorrenza in famiglia
s'incominciava a parlarne: “sa chi cciann‟a purtari aguannu li
morti a l'addevu?”
Quasi a fare eco qualcuno rispondeva attirando l'attenzione del
piccolo o dei piccoli che, con occhi lucenti ed interessati,
guardavano in faccia i presenti in attesa che qualcuno desse una
risposta loro gradita: “ah ... certu qualcosa l'ann‟a pur tari!”
Qualcosa certamente la porteranno; ma cosa, si chiedevano; ne
parlavano tra di loro, i bambini, sprigionando le loro fantasie e
facendo i conti della quantità di luoghi che dovevano visitare con
la speranza di trovarci molte cose buone: visita ai nonni materni e
paterni, agli zii stretti da parte di papà e mamma, qualche fratello
o sorella sposati, qualche zia sola ed anziana.
Tutti aveva qualcuno da visitare e tutti avevano qualcuno che
venisse a visitarli...
Il più importante era quello che si aspettava dalla visita alla
propria casa.
Già nelle botteghe incominciavano a vedersi esposti e a fare bella
mostra di sé, negli scaffali di legno, “li pupi di zuccaru” tipica
statuetta di zucchero dipinto, raffigurante un bel cavaliere su di
un gagliardo cavallo (destinato ai maschietti) oppure una bella e
colorata pupa (destinata alla femminucce).
Tutte le botteghe (ed erano tante; ogni strada ne aveva una nelle
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vicinanze; spesso misere e a volte ben fornite) avevano diverse
statuette di zucchero esposte; di differente misura ma quasi tutte
simili nelle fattezze; spesso si andava con la mamma a comprare
qualcosa alla bottega, solo per dare uno sguardo a tutti quei pupi
che pareva ti guardassero per dirti quanto fossero buoni e dolci.
Ce n'erano (pupiddi e cavadduzzi) di diverse grandezze, da quelli
dal peso di qualche etto a quelli di più chili e, di conseguenza, dal
costo modico al costo alto.
Nelle famiglie povere e numerose era un costo non indifferente,
ma il sacrificio delle mamme arrivava a dare, anche se in misura
piccola, una risposta a tutte le aspettative.
“Lu cannistru” il contenitore di paglia dentro cui si presentavano
i doni “di li morti” conteneva tante cose buone: caldarroste,
“pumidda di Napuli” piccole e gustose mele di colore giallo o
rosso vivo, tetù, turcigliuna, caramelle, cioccolato, fichi secchi,
noci, mandorle tostate (mennuli caliati), qualche dolce durissimo
di due colori (testi di morti), qualche melograno, un paio di calze,
una maglietta o un maglioncino, una gonnellina.
Al centro di tutto spiccava, facendola da padrone, sempre in piedi
la “pupidda o lu cavadduzzu”, destinate, finita l'euforia dei
giorni di festa, a fare bella mostra dentro il porta servizio oppure
sul canterano. Destinati anche ad essere mangiati, a pezzettini,
staccati sempre di dietro, lasciando integra la facciata per fare
bella mostra di se.
La sera precedente alla commemorazione dei defunti vedere
l'animazione che c'era nelle famiglie, era uno spettacolo.
I ragazzi facevano pressione presso i familiari per sapere se i
morti avrebbero portato dei regali e che cosa; i più grandicelli
cercavano di tenere gli occhi aperti in attesa che arrivassero i cari
C'era 'na vota frammenti di mamoria
193
defunti, carichi di doni, per poterli conoscere (dicevano loro);
altri, invece, andavano a letto, non prima di avere collocato,
dietro la finestra del balcone, un capiente cesto per dare la
possibilità ai benvenuti visitatori notturni di poter depositare i
doni e li “cosi duci”.
Quelli che andavano a letto cercavano di resistere al sonno
tenendo gli occhi aperti ma...; ormai tutto taceva fuori, neanche
l'immancabile abbaiare dei cani si sentiva più, era l'ora di andare
tutti a letto, anche le mamme ed i papà, non prima però di avere
collocato il tanto desiderato ed atteso “cannistru di li morti”.
Allo spuntar dell'alba del giorno di tutti i Santi, dedicato da
sempre alla commemorazione dei cari defunti, il rumore dei ferri
dei muli, che venivano accuditi la mattina presto, specie nei
giorni di festa, misto all'abbaiare dei cani, immancabili amici dei
quadrupedi ferrati, svegliava i ragazzi che certamente la notte
avevano sognato cosi duci.
Il primo pensiero era quello di correre dove avevano lasciato il
cesto; con grande gioia e meraviglia lo trovavano pieno di cose
buone da mangiare; con in mezzo quel bel variopinto cavaliere,
fiero nella sua armatura, che comandava con le briglie un bel
cavallo in piedi sulle zampe posteriori.
Gli occhi brillavano di gioia a quella vista; giravano in giro a
cercare quelli della mamma, del papà, dei fratelli, dei nonni,
quasi a dire “sono stato buono, i morti mi hanno premiato”.
Per le strade incominciava un fermento di ragazzi: prima,
qualcuno più coraggioso nell'aver lasciato il caldo lettino, poi,
piano piano, ad uno ad uno, decine, centinaia di ragazzi.
Le ragazze, molto di meno, sarebbero uscite più tardi con le
mamme.
C'era 'na vota frammenti di mamoria
194
Correvano per le strade, i ragazzi, con i cesti e “li trusci” in
mano, dopo essere stati a ritirarli dai parenti più intimi.
Chi saliva, chi scendeva, tutti avevano qualcosa in comune: la
gioia, e la bocca piena di leccornie .
Ogni tanto, nel modo di correre lesto, qualcuno inciampava e
cadeva rovesciando il contenuto a terra ma... tutto veniva
recuperato e dimenticato, continuando la corsa in men che non si
dica.
Verso le undici si metteva tutto da parte e si andava al cimitero a
fare visita ai cari defunti; il tragitto era una fila continua di gente,
tanti con i fiori in mano, altri portavano qualche “stierina”
(piccoli lumini), altri ancora delle candele da accendere davanti
alle tombe.
Moltissimi percorrevano tutta la strada recitando il santo rosario,
pregando in suffragio delle care anime.
Già molto prima di arrivare al cimitero si sentivano le grida; i
pianti dei dolenti si sentivano e si facevano più forti, man mano
ci si avvicinava, per farsi strazianti una volta arrivati al cimitero.
Da tutte le parti del camposanto salivano al cielo preghiere miste
a grida di dolore angoscianti che riempivano di grande tristezza
chi le sentiva e spingevano ad una grande emozione.
Era un giorno di lutto; fino a sera tutto il paese si recava al
camposanto, con molto rispetto e grande senso di umiltà.
I ragazzi stavano per lo più con i genitori, altri correvano per i
viali, ma tutti avevano in comune un pensiero: ritornare a casa
ove li aspettavano “li cannistri chini di cosi duci”.
In tante famiglie meno fortunate, ed erano tante, li “cannistri”
non erano tanto numerosi e tanto pieni di cosi duci, ma “unne chi
manca Diu pruvvidi”; con mezzi inaspettati quali la bontà di
C'era 'na vota frammenti di mamoria
195
tante mamme conoscitrici delle ristrettezze economiche dei
vicini, si sopperiva alla mancanza, facendo sì che anche quelli
poveri potessero avere i loro “cannistri” cu li “cosi duci”.
“Li Morti”!
Quali dolci ricordi...!
Che tenerezza...!
Che lacrime..., il cuore si scioglie e trabocca di amore al loro
ricordo!
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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C'era 'na vota frammenti di mamoria
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Lu lumi, lu spicchiu e la cannila. (Il lume, la candela e…)
Il tema che sto per riversare in queste righe è sì di facile
trattazione ma sul come e in che maniera renderlo credibile oggi
alla “luce” della conoscenza tecnologica che abbiamo tra le mani
e quello che si prevede avremo tra una decina di anni, non è di
facile adempimento.
Il paese non era tanto vasto ed era abitato da circa sei mila
persone; stipate in quelle case povere e disadorne, le quali per la
quasi totalità, erano addobbati con il sufficiente; senza fronzoli e
ostentazioni.
I mobili erano scarsi; in una modesta casa si trovava giusto un
tavolo, qualche sedia, un canterano, magari regalato dalla nonna,
un guardaroba, qualche credenza avuta di terza o quarta mano
per l'occasione:
In qualche angolo il cassettone “ la cascia”, più o meno grande,
non mancava perchè doveva custodire, per il futuro, “ la doti”
portata dalla sposa, frutto di immensi sacrifici della famiglia di
provenienza della sposa.
Le pareti delle stanze erano sempre di colore plumpeo-scuro,
dato che la cucina, ubicata spesso nella stessa stanza dove c'era il
letto o al massimo nella stanzetta accanto, era alimentata a legna
e di conseguenza il fumo la faceva da padrone ogni volta che si
doveva preparare qualcosa da mangiare o riscaldare qualche
poco d'acqua per i bisogni giornalieri della famiglia e specie per i
bambini.
Non solamente la cucina produceva fumo, anche altri piccoli
oggetti che per forza maggiore dovevano essere adoperati, se la
C'era 'na vota frammenti di mamoria
199
famiglia voleva guardarsi in faccia, specie con l'arrivo delle
oscurità serali.
“ Piglia ssù lumi e addumalu”...”talè metti tanticchia d'ogliu a lu
spìcchiu”...erano le frasi che echeggiavano nelle casa all'arrivo
della buia sera.
Sì, in qualche casa fortunata si incominciava a girare la manopola
ell'interruttore della corrente elettrica ma “costava cara”, si era
soliti ripetere riaccendendo il vecchio caro lume che aveva
conosciuto de visu il bisnonno e il trisavolo.
“ Lu lumi...lu spicchiu...la cannila...la citalena...” erano i mezzi
che si utilizzavano per rischiarare le abitazioni della gente fino a
pochi decenni fa; alimentati a petrolio (grassoliu) il lume, ad olio
(ogliu,quasi sempre quello andato a male) lu spicchiu,di cera le
candele,in diverse famiglie si utilizzava “la citalena” strumento
che miscelando l'acqua con il carburo di calcio produceva un
gas, facilmente infiammabile, che uscendo a pressione da un
forellino produceva una fiammella e quindi luce( veniva
utilizzata dai minatori nelle viscere della terra per rischiarare il
posto di lavoro); questi mezzi erano gli unici procedimenti che
permettevano alle famiglie di illuminare il buio e continuare la
propria attività familiare.
Il risultato che si otteneva con questi mezzi di illuminazione era
una luce fioca giallina che illuminava poco spazio proiettando nel
rimanente, semi buio, gigantesche ombre, sempre causa di
fantasiose paure ed immagini fantastiche.
Un altro risultato che si otteneva nell'utilizzo di questi strumenti
illuminanti era un sottile fumo grigio nerastro a volte non tanto
visibile ma continuo che , assieme alla cucina, completava
egregiamente il compito di tenere sempre tetri, smorti i colori
C'era 'na vota frammenti di mamoria
200
delle pareti delle stanze, specie quella ove era solita passare la
serata la famiglia riunita.
Da secoli si utilizzavano i mezzi a disposizione della esperienza
degli antenati per rischiarare il buio della giornata e in paese non
si era da meno, a condizione che si possedesse il carburante
necessario da bruciare.
Il petrolio (lu grassoliu) alimentava la fiamma prodotta dal lume
e doveva essere comprato dai rivenditori, in verità molto
abbondanti in quei tempi; il costo non era eccessivo ma era
sempre un costo e non tutti e sempre potevano avere a
disposizione la bottiglia col petrolio.
Il lume era nella stragrande maggioranza costruito di rame ( chi
se lo poteva permettere possedeva dei lumi in ceramica
riccamente adornati e con camme fumarie di varie fogge e
bellezze) con sopra la canna fumaria che facilitava il giusto
espandersi della luce ed incanalava il fumo ,prodotto dalla
combustione, verso l'alto in maniera che disturbasse il meno
possibile la respirazione degli astanti.
Rigorosamente di vetro la canna fumaria era soggetta ad urti e
cadute ,specialmente se in casa c'erano bambini sempre a correre
e giocare,per cui spessissimo si rompeva con conseguenti grida ,
bestemmie,rimproveri,ceffoni da una parte e pianti, lividi e offese
dall'altra parte.
Ogni qualvolta si utilizzava il lume per schiarire il buio si faceva
tanta attenzione a non farlo urtare e a non versare il petrolio a
terra; nel ricaricarlo era un'operazione che faceva quasi sempre
un adulto, avvezzo a tale operazione.
Il combustibile si poteva comprava nelle tante botteghucce
sparse per tutte le contrade nelle quali, oltre al petrolio, si
C'era 'na vota frammenti di mamoria
201
vendeva tutto ciò che abbisognava alla famiglia, compresi roba
da mangiare , veleni per topi, sapone per pulire i panni, polvere
per sgrassare i contenitori ( la liscìa); insomma nell'unica stanza
che ospitava la bottega (la putìa) erano depositati mercanzie di
vario tipo anche in contrasto tra loro, data la pericolosità per la
salute di certi prodotti;
a supporto di ciò ricordo, ad esempio, che non era raro andare a
comprare cento grammi di “tumazzu” (formaggio pecorino
locale) e questo fare tanfo di petrolio o di sarde salate.
Il lume era comodo, di facile trasporto e sicuro nell'uso; riusciva
ad illuminare una stanza di media grandezza in maniera
sufficiente, permettendo di lavorare alle mamme nel sempre
presente rammentare gli indumenti che specie i ragazzi, col
gioco, logoravano e strappavano di sovente e , per chi lo poteva e
lo sapeva fare, di leggere qualche romanzo unica attrazione ed
occasione per unire gli amici ed i vicini nella propria casa.
Una famiglia normale con reddito da lavoro tale da vivere senza
grossi probblemi poteva disporre di due o tre lumi, due da
utilizzare per i bisogni giornalieri, il terzo poteva essere un lume
di ceramica o artisticamente lavorato (si custodiva in un posto
inaccessibile ai
ragazzi ) sempre di riserva in caso di rottura o di ospiti in casa.
In caso di rottura della canna fumaria o dello stesso lume si
comprava il pezzo da sostituire, con qualche piccolo sacrificio
finanziario, presso una delle tante botteghe che guarda caso
vendevano pure lumi e canne fumarie.
Un altro strumento per rischiarare il buio della notte era la
lucerna (lu spicchiu).
Di varie dimensioni e rigorosamente costruito a mano con argilla
C'era 'na vota frammenti di mamoria
202
cotta al forno lu spicchiu
era il mezzo più economico e più umile che si utilizzava per
produrre luminosità; aveva la forma di una mano a coppa
contenente dell'olio di oliva (andato a male e quasi sempre di
scarsa qualità) che inzuppava un cordoncello di cotone la cui
punta posta all'esterno della ciotolina produceva una fiammella
che una volta accesa riusciva a rischiarare l'ambiente circostante
per alcuni metri.
Era una debole e flebile fiammella, si poteva renderla più
brillante ma... ci voleva più olio e questo si comprava alla
bottega, ma riusciva a squarcire il nero buio di certe serate
invernali riempite dal ritmo incessante della pioggia, dagli ululi
minacciosi delle raffiche di vento, da certi tuoni che pareva
volessero buttare giù quelle povere quattro mura e ti spingevano
prepotentemente ad andare a letto; fuori oltre i rumori della
natura solamente l'abbaiare dei soliti cani e il rumore degli
zoccoli dei muli che annunciavano l'avvicinarsi del temporale.
Anche quella piccola fiammella pareva avere una certa paura con
il suo tremolare quasi titubante se continuare ad accendere e dare
luce o andare a dormire pure lei,e mentre cercava di decidere sul
da fare regalava quello scorcio di luce tanto gradita e necessaria
alla persona che china sul suo grembo accanto al suo compagno
stanco e dormiente sferruzzava le sue “ugliola” con la speranza
di terminare i calzini che tanto abbisognavano ai propri bambini.
“Lu spicchiu” tanto umile e tanto necessario era lì sempre a
portata di mano con al centro quel pò di olio puzzolente, quel
piccolo “meccu” inzuppato di liquido grassoso e con la punta
sempre nera; spesso non era solo, se ne avevano in casa tre
quattro e anche pìù
C'era 'na vota frammenti di mamoria
203
per accendersi quando c'era bisogno di più luce collocandoli in
qualche posto alto per consentire alla luce di illuminare più
spazio circostante.
Se a causa di qualche urto o qualche scivolone cadendo a terra si
rompeva non c'erano grandi grida e ceffoni solamente rimproveri
specie se era stato pieno d'olio da poco,un altro spicchio a casa
certamente c'era e poi... non costava caro; si andava a comprare
alla bottega o più specificamente presso una singolare bottega
che vendeva tutto ciò che si poteva costruire con l'argilla: rasti,
quartari. bummula, langeddi, canala, fanghotti, aglialora, cantari,
cicari, friscaletti, e quant'altro di umile sostanza ma tanto utile al
vivere quotidiano della gente e che spesso alleviava gli
inconvenienti che si presentavano: come giusto lu spìcchiu
umilissimo strumento che rischiarava dal buio.
Stava sempre posto in alto in modo da illuminare il più possibile
la stanza, vicino ad un tavolo presso cui era solita riunirsi la
famiglia attorno al braciere per passare la serata
prima di andare a dormire; le mura attorno e il tetto sopra “lu
spicchiu” erano di colore grigio scuro e più tempo passava più si
avvicinava al nero, conseguenza del fumo nerastro prodotto dalla
combustione dell'olio che, oltre al fumo, produceva anche un
odore di olio bruciato a cui si era ormai abituati ma di cui si
sentiva il tanfo.
“Lu spicchiu” (la lucerna) vecchio, povero, umile, utile
strumento, fedele e coraggioso compagno di tante buie e paurose
serate di tempi che furono.
Altro utensile per illuminare il buio era la candela; anche questa
di antichissimo uso ed anche questa si andava a comprare presso
le varie botteghe sparse quà e là; tutte ne vendevano, di tante
C'era 'na vota frammenti di mamoria
204
misure, da quelle fini e piccole a quelle grosse e grandi.
Tutti a casa ne avevano e, posti sui candelieri di centinaia di
foggie e misure, erano sempre pronte per ogni evenienza a
regalarci quella piccola ma tanto beneamata e rassicurante
fiammella.
Adornate sempre sui laterali ed alla base da una o più colate di
cera a forma di gocce scolanti presentavano allo sguardo dei
disegni fantastici che facevano piacere alla vista e sbrigliavano
la fantasia che si lasciava andare alla interpretazione fantastica di
quei disegni.
Con la fiammella sempre tremula e fulgida, con quel suo eterno
pennacchio grigiastro che saliva piano piano fino al tetto, con
quella sua altera e fiera rigidità, la candela era nella cultura della
gente il mezzo più idoneo, elegante, pulito e funzionale per
eccellenza.
Poteva mettersi in tasca o conservarsi in qualche posto senza
paura di sporcare o macchiare; non avena bisogno di portare con
se contenitori di olio o di petrolio, non aveva eccessivo bisogno
di attenzione; era sempre lì, linda nel suo candore e disponibile
nella sua umiltà a regalarti, a tua richiesta, una fulgida goccia di
luce.
Nei cassetti, nei buchetti dei muri, in qualche angolino della casa,
c'era certamente “un scramuzzuni di cannila” un pezzetto che
ogni qualvolta veniva distribuito in chiesa alla fine delle
funzioni religiose andava a finire quasi sempre in tasca (chissà
come mai?) per essere portato a casa ed utilizzato all'occasione.
Si utilizzava fino all'ultima fiammella possibile e non era raro
trovare qualcuno che, ogni qualvolta una candela finiva lo
stoppino, metteva da parte la cera residua per dare vita ad una
C'era 'na vota frammenti di mamoria
205
nuova candela (cose dell'altro mondo... dirà qualcuno, no, cose di
questo mondo... dico io, cose di sessant'anni fa).
Una speciale candela veniva conservata molto gelosamente nel
cassetto in mezzo alle lenzuola buone: era la “Cannila di la
Cannilora”.
Un pezzetto di candela utilizzata e benedetta in chiesa durante la
festa delle candele, giusto la Candelora, funzione dedicata alla
Purificazione della Madonna che ricorre il 2 febbraio.
La tradizione voleva che questa candela non doveva essere
utilizzata nella normalità ma in una occasione specialissima
dell'esistenza terrena: molto spesso durante le ultime ore di vita
nel periodo del trapasso il moribondo, per diverse ragioni, non
riusciva ad esalare l'ultimo respiro ed aveva un'agonia lunga e
difficile, soffriva non soffriva, non era dato sapere, allora si
accendeva al suo fianco la “Cannila di la Cannilora” che aveva la
capacità di non fare soffrire il moribondo e di accorciarne
l'agonìa.
Antica credenza locale...? Non sò!
Una verità ho imparato nella mia vita che tutto quanto ci è stato
tramandato, inculcato, insegnato con parole e con esempi ha
avuto origine da esperienze di vita vissuta, da verità, da fatti che
hanno visto protagonisti o partecipanti i nostri antenati i quali
hanno voluto tramandare ai loro successori quelle verità e quelle
esperienze per rendere il soggiorno su questa terra il più
gradevole possibile.
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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C'era 'na vota frammenti di mamoria
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Lu Cantastorii (Il Cantastorie)
Due, tre volte l'anno arrivava in paese un signore alla giuda di
una vecchia automobile fornita di un capiente e robusto porta
bagagli.
Arrivava sempre nel pomeriggio e posteggiava la macchina
accanto all'entrata del Banco di Sicilia all'incrocio tra la via
Ariosto e la salita regina Elena.
Dopo essere stato a salutare il barista e il salumiere che
lavoravano lì accanto ritornava
alla macchina ed incominciava a collocare le sue cose mettendole
bene in mostra in modo che le persone potessero vederle con
facilità e chiarezza.
Era il cantastorie.
Personaggio tanto rispettato dai ciancianesi che appresa la notizia
del suo arrivo ( le notizie si divulgavano prestissimo in paese
vuoi con le centinaia di ragazzi sempre per le strade,
vuoi con il passaparola mezzo sicuro e perfezionato nei secoli.
Incominciava a scaricare il materiale che aveva ben collocato nel
portabagagli e lo sistemava attaccato alla macchina e in parte su
una impalcatura di ferro; con grande attenzione fissava le sue
locandine, rigorosamente disegnate e dipinte a mano, nella
fiancata della sua automobile seguendo delle precise sequenze e
collocandole in maniera che dal suo posto di lavoro potesse
indicarle alle persone che lo ascoltavano e lo seguivano.
Il tutto rappresentava una storia sempre violenta e
triste,ambientata nella sicilia di quei
tempi in luoghi ove le tradizioni, l'onore e il rispetto se venivano
C'era 'na vota frammenti di mamoria
208
a mancare davano origine a contrasti, dissidi, controversie, che
quasi sempre sfociavano in azioni, nefaste,tragiche, luttuose.
Accanto al materiale posto in bella mostra sulla fiancata della
macchina ne veniva collocato dell'altro; attaccate ad un grande
telo di stoffa bianca arrotolato su se stesso facevano bella mostra
a volte dodici a volte sedici locandine che poste una accanto
all'altra indicavano le sequenze della seconda storia che doveva
essere raccontata di lì a poco tempo dopo avere terminata la
prima.
Erano sempre due le storie che l'artista raccontava.
Dopo avere collocato le locandine procedeva a sistemare sulla
piattaforma posta sul tettuccio della macchina,che fungeva da
base al portabagagli, una sedia robusta e comoda
collocando davanti a questa su un piedistallo a tre punte un
microfono collegato ad un altoparlante; su un'asta posta ad una
certa altezza sopra la sedia veniva collocata una lampadina per
illuminare il posto appena giunto il buio della sera, il tutto veniva
alimentato dalla corrente elettrica prestata per l'occasione,
utilizzando un filo volante , dalla bottega vicina; se per caso
veniva a mancare la corrente elettrica (cosa che avveniva spesso
e puntuale) il personaggio già era pronto ed attrezzato per
utilizzare la batteria della sua automobile; il tutto era
completamente autonomo e sufficiente alla necessità.
Mentre tutto questo veniva sistemato secondo una sequenza
ormai vecchia e collaudata la gente incominciava ad affluire sotto
la macchina; la piazza sempre piena di persone, chi in cerca di
lavoro, chi per svagare un poco dopo una settimana di dura
attività, chi per abitudine alla passeggiata con gli amici, in poco
tempo si svuotava riversando quelle centinaia di persone nella
C'era 'na vota frammenti di mamoria
209
discesa della salita regina Elena ad assistere alla rappresentazione
che di lì a poco il cantastorie doveva presentare.
Intanto l'artista munitosi di una lucida chitarra, prelevata con
cura da una custodia posta dentro la macchina, saliva sul tettuccio
della sua auto e sedutosi comodamente nella sedia
precedentemente preparata e posto il microfono a metà strada tra
la chitarra e la sua bocca incominciava a spandere nell'aria
quella triste melodia ormai riconosciuta da tutti come la sigla del
cantastorie.
“ Ascutati, signure e signuri... chìsta storia chi stò a raccuntari...
ca a sintirla vi fa lacrimari...”
Il Cantastorie aveva iniziata la sua rappresentazione.
La piazza era piena di persone attente e silenziose; perfino
l'onnipresente decine e decine di ragazzini sempre chiassosi e
vocianti stavano seduti a terra in prima fila comodi e
attentissimi, e se qualche frase non era da qualcuno compresa
rivolgendosi al vicino più
grande domandava: “ chi dissi?”
Intanto il cantastorie era entrato nel vivo della storia e sempre in
poesia dialettale, accompagnandosi con la fida chitarra, con una
lunga bacchetta indicava la locandina
corrispondente alla descrizione per far comprendere meglio, con
un'immaggine, il fatto che stava per raccontare a parole.
Non era raro vedere qualche viso emozionato solcato da qualche
furtiva lacrima, tanto reale e verosimile il fatto accaduto veniva
raccontato e descritto dall'artista seduto sul tettuccio della
macchina.
Dopo circa una mezz'ora la storia arrivava al termine e sul finire
il cantastorie, facendo leva sulla sua esperienza e sui sentimenti
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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della gente, accentuava certi toni e certe circostanze
sollecitando gli ascoltatori a comprare il libretto, contenente la
storia raccontata, certamente più ricco di notizie, circostanze e
descrizioni di quanto lui aveva potuto raccontare.
Un fragoroso applauso si alzava dalla numerosissima platea in
direzione del cantastorie il quale dopo avere annunciato che tra
non molto tempo sarebbe iniziata la seconda storia vera, avvisava
che i libretti con la storia appena raccontata erano in vendita
presso la macchina e che un suo collaboratore era a disposizione
del pubblico interessato a comprarlo.
Alcuni ragazzi, entrati nella fiducia del cantastorie, si mettevano
a disposizione dell'artista e lo aiutavano a vendere i libretti
girando tra il pubblico sempre numeroso e portando il ricavato al
leggittimo proprietario ricevendo alla fine della spettacolo
qualche monetina in in segno di ringraziamento.
Quel libretto a casa veniva letto e riletto (da chi “sapiva la
littra”), commentato e discusso per diverso tempo per poi
“mpristallu” a parenti od amici, fino al punto che, ormai
sguarcito e consunto si conservava, addirittura c'erano persone
che ne facevano gelosa collezione.
Quasi sul finire della vendita e prima che la gente si stancasse
stando molto tempo in piedi, l'attento cantastorie pizzicando con
abilità e maestrìa le corde della sua chitarra e facendosi
precedere dalle tristi ed accattivanti note della sua melodia, dopo
avere attirato a sè l'attenzione del numeroso pubblico e placato il
vociare dei ragazzini invitandoli con modi garbati ma autorevoli
a stare seduti ed in silenzio, incominciava l'esposizine della
seconda storia sempre triste e diretta, con grazia e conoscenza, a
colpire la sensibilità e l'orgoglio della gente facendo leva su quei
C'era 'na vota frammenti di mamoria
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sentimenti di onore, di fratellanza, di rispetto, di famiglia,che i
secoli avevano fortemente radicato nelle coscienze della gente
sicula.
“Ascutati signure e signuri... chista storia chi stò a raccuntari... ca
a sintirla vi fà lacrimari...”
il cantastorie iniziava così un'altra storia realmente accaduta in un
lontano e spesso isolato paese dell'entro terra siciliano,storia che
non poteva essere portata a conoscenza della gente lontana da
nessun altro mezzo se non dal cantastorie, tenuto conto che la
radio, lusso per pochi, non era ancora uno strumento di
diffusione di massa e i pochissimi giornali che arrivavano in
paese, destinati a chi poteva permettersi di comprarli,
dedicavano poca attenzione ai numerosi fatti di sangue derivanti
da problemi di onore,di rispetto,di famiglia.
Dopo le sue rappresentazioni e la vendita degli opuscoletti il
cantastorie metteva in ordine con una certa precisione tutto il suo
materiale e salutati conoscenti ed amici si sedeva alla guida della
sua automobile e partiva alla volta di un altro paese lasciando
alle persone materia di ragionamento e di critica per tutta la
passeggiata serale ...ed oltre.