c'era 'na vota

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C'era 'na vota frammenti di mamoria 1 C‟era „na vota (frammenti di memoria) Giovanni D‟Angelo

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Un viaggio a ritroso nel tempo a ricostruire, sul filo della memoria, gli anni spensierati dell’infanzia e della prima giovinezza che, seppure travagliati e non immuni da privazioni e stenti, erano fondati su saldi rapporti interpersonali, animati da sani principi, e caratterizzati da una serenità e felicità che molti oggi cercano, “in questi tempi d’arroganza, d’invidia, dell’apparire ad ogni costo”, senza riuscire a trovarle forse”per disimpegno, trascuratezza, paura di sbagliare”.

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C'era 'na vota frammenti di mamoria

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C‟era „na vota (frammenti di memoria)

Giovanni D‟Angelo

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Prefazione di Eugenio Giannone

“solamente quello che ho visto…

Solamente quello che ho udito…

Racconterò… null‟altro.”

“a li vastuna di la me vicchiaia”

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“ Per sapere chi si è oggi è importante sapere chi si è stati … una persona è la somma delle sue memorie.”

Ringrazio Il Prof. Eugenio Giannone per la Prefazione

Il Prof. Gaspare D‟Angelo per la nota dell‟Editore

Il Dott. Angelo Abella per lo spartito musicale

Il Sig. Vincenzo Ingravidi per i disegni

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Prefazione

Un viaggio a ritroso nel tempo a ricostruire, sul filo della

memoria, gli anni spensierati dell‟infanzia e della prima

giovinezza che, seppure travagliati e non immuni da

privazioni e stenti, erano fondati su saldi rapporti

interpersonali, animati da sani principi, e caratterizzati da

una serenità e felicità che molti oggi cercano, «in questi

tempi d‟arroganza, d‟invidia, dell‟apparire ad ogni costo»,

senza riuscire a trovarle forse «per disimpegno,

trascuratezza, paura di sbagliare».

«C‟era „na vota» è un archivio della memoria, che non

vuole imporre modelli di vita ormai improponibili ma

invitare a riscoprire determinati valori, magari datati,

eppure insostituibili anche in questa società dell‟usa e

getta, che pare refrattaria a ogni tipo di sollecitazione,

onnivora, che tritura ogni cosa, tutte le mode, senza

pensare a quello che potrà essere domani.

La colpa non è dei giovani ma nostra – e questo è il

grande rammarico di Giovanni – ché non abbiamo saputo

trasmettere i valori cui da piccoli siamo stati informati,

abdicando al ruolo di genitori-educatori, dimenticando la

lezione dei padri. Che i giovani sappiano, che i meno

giovani rammentino, prima a se stessi e poi agli altri, per

non disperdere il ricco patrimonio della nostra storia

sociale, civile e politica, nel quale affondano le nostre

radici, la cui conoscenza è indispensabile per capire il

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presente e costruire consapevolmente il futuro,

trasmettendoci, da generazione in generazione, il testimone

della civiltà.

In questo film, ricco di flash back, riemerge la storia del

popolo ciancianese, l‟analisi d‟uno spaccato d‟altri tempi in

cui non c‟erano cioccolattini, caramelle o giocattoli da

offrire ai bambini ma tutto aveva un gusto particolare

condito con «odori, sapori, natura e compagnia» perché

esisteva ancora l‟epopea del vicinato, che si manifestava

nei momenti belli e gai dell‟esistenza (fidanzamenti,

matrimoni, serenare notturne etc) e in quelli tristi (i

decessi, per esempio), che coinvolgevano parenti, amici,

vicini di casa.

Riemergono momenti salienti della vita quotidiana e

figure che sembrano uscire da un libro di fiabe, poetiche e

drammatiche nella loro consistenza ; uomini che

svolgevano con umiltà e decoro le loro mansioni perché il

pane era « duci » e i bambini aspettavano con la bocca

aperta: lo stagnino, il lattaio che con le sue capre o vacche

serviva a domicilio i clienti, il conciapelle, il mediatore

(sinzali), il conzalemme (conciabrocche), il banditore

(vanniaturi), il ciaramiddaru (zampognaro), gli ambulanti

(es.: l‟arrotino), il cantastorie che intratteneva in piazza con

la sua chitarra e il suo telo istoriato. In piazza, sotto la

Torre dell‟Orologio, dove, prima che albeggiasse si

riunivano operai e braccianti nella speranza di essere scelti

per una giornata di lavoro e che dall‟imbrunire, o durante

le ore delle giornate piovose, affollavano i laboratori

artigiani (allora numerosi) di sarti, calzolai, barbieri

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trascorrendo amenamente il tempo tra frizzi e lazzi,

scambiandosi informazioni ed esperienze, commentando

l‟accaduto, cantando e sparlando di tutto e di più.

L‟amarezza per la povertà diffusa, per la sporcizia, per le

condizioni igieniche precarie, per i sacrifici atti a far

studiare (arrinesciri) un figlio che riscattasse tutta la

famiglia, il tenero ricordo di mamme e donne

perennemente incinte vengono stemperati dal ricordo della

semplicità dei costumi e dell‟amicizia disinteressata, che si

cementava ogni sera, attorno al braciere, quando qualcuno

rievocava le vicende del Conte di Montecristo, dei Beati

Paoli, della Bella dei sette veli, affabulando e incantando i

fanciulli che cascavano dal sonno; anche dal ricordo della

spensieratezza dei giochi ruspanti, dell‟ingegnarsi

giovanile per procurarsi i soldi per il biglietto del

cinematografo, dei rimedi empirici ma efficaci per curare

malattie e far rimarginare in fretta le ferite (li merchi) di

cui erano ricchi i figli della strada, quali erano tutti i

bambini, che trascorrevano il loro tempo negli

immondezzai, rincorrendosi, schiamazzando e liberando la

loro fantasia. Non tutti potevano farlo: a sette anni molti

erano già uomini, abbandonavano le elementari andando a

lavorare in campagna, in zolfara o apprendendo un

mestiere, che generalmente era quello del padre. Andavano

laceri, scalzi, erano denutriti, rachitici e suscitavano una

gran pena; tanti morivano in tenera età con dispiacere

anche dei maesrti che a quei tempi adottavano la «didattica

della virga». Tempi travagliati, amari, certamente, in cui

ogni persona svolgeva un suo ruolo, ogni cosa occupava un

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posto preciso e le stagioni erano scandite dalla fatica,

soprattutto contadina, dalla sacralità del lavoro e dalla

santità del focolare con i suoi principi, dai riti religiosi

molto partecipati, dalle tradizioni, dalla percezione di tante

virtù e dalla saggezza degli anziani.

Beato chi ha un paese da raccontare : il paese è

Cianciana, ma potrebbe essere uno qualsiasi del Meridione;

un paese che dagli anni del racconto ha più che dimezzato

la sua popolazione, falcidiata dall‟emigrazione, con i suoi

innumerevoli problemi irrisolti, con le sue incombenze, le

sue abitudini e tradizioni che, in C’era ’na vota, vengono

esposte in un linguaggio infarcito di termini dialettali che

gli conferiscono un tocco esotico, spontaneo, discorsivo,

parlato e che non per questo perde di incisività,

ammaliatore, parenetico, teso alla riproposizione di valori

che è «peccato far perdere».

Per concludere: un‟opera che va degnamente a collocarsi

accanto a quelle di altri autori ciancianesi di storia e

costume, di tradizioni popolari, ambiente etc, colmandone

un vuoto e della quale siamo grati all‟Autore.

Cianciana, Settembre 2007

Eugenio Giannone

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Introduzione

Diversi hanno cercato di non fare perdere quelli che sono stati la

vita, le tradizioni, gli usi i costumi tipici della nostra gente

ciancianese; tanti i temi, gli argomenti ma i più restano sempre da

raccontare da trasmettere a chi viene dopo di noi per avere

conoscenza e sapere quali le loro origini, le loro radici, da dove

vengono...per non dimenticare!

Le pene e le gioie, le proverbiali battute e lo spirito di sapersi

sempre porre in tante occasioni della vita quotidiana creando

intorno a se attenzione e interesse ma senza porsi a protagonista;

i sentimenti di altruismo, di solidarietà quasi sempre

disinteressata, quell‟essere ciancianese “surfararazzu”, vorrei

testimoniare, perchè non venisse dimenticato.

Oggi tanto di quello che scriverò è stato dimenticato; chi ha già

passato il mezzo secolo di vita può ricordare quale era la

quotidianità della gente ciancianese di cui molti sono dovuti

andare in terre lontane per trovare un pezzo di pane e certamente

hanno portato dentro lo scrigno dei loro cuori le sofferenze, i

sacrifici, le gioie e i dolori; altri più fortunati hanno percorso la

strada del sapere andando a vivere là ove c'era le università e

conseguentemente non hanno potuto seguire bene la quotidianità

del proprio paese;

altri, e questo è più grave, che hanno vissuto quei tempi e che

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sono nelle condizioni di poterlo fare, per disimpegno, per

trascuratezza, forse per paura di sbagliare e di non essere fedeli

alla realtà con conseguenti critiche negative, non trattano tali

argomenti.

Dunque mi convinco sempre di più che è giusto e doveroso,anche

andando incontro alle immancabili critiche, trasmettere da quali

radici siamo stati nutriti nella nostra crescita per riappropriarci di

quei valori

positivi che oggi, purtroppo, sono considerati obsoleti e deboli

quali il rispetto, l'umiltà, la fratellanza, la solidarietà,

privilegiando l'indifferenza, la superbia, l'arroganza, l'invidia e,

cosa più grave, il quasi allontanamento dal concetto di

prossimo...dai comandamenti Divini.

Se chi sa farlo, se chi può farlo, se chi è nelle condizioni di

ricordare e scriverlo “si scanta”questi miei disordinati appunti

siano di sprone di incitamento di sollecito ad operare in questa

direzione,

nella giusta direzione, nella direzione del non dimenticare.

Certo non tutto quello che era riuscirò a scrivere, tantissimo non

sarà da me trattato dato che non sono nelle condizioni di

ricordare perfettamente ciò che era la vita quotidiana di allora

ma quello che ho vissuto, che ho visto, che riesco a ricordare, lo

scriverò cercando di non alterare la realtà ne tanto meno

sminuirla, aiutandomi anche col dialetto corrente che in certe

circostanze è il miglior modo per descrivere

fatti,azioni, modi di dire e di fare che facevano parte della

quotidianità degli anni quaranta e cinquanta, lasciando alla

immaginazione di chi legge quello che doveva essere la vita

qualche decennio precedente a quello che ho vissuto.

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Memoria

Mio Padre andava a lavorare la mattina presto e via Lui tutta

l'attenzione di mia Madre era rivolta a me piccolo ragazzino che

sotto le sue ali protettive mi accingevo ad affrontare la vita nella

nostra società.

Dopo avermi lavato e vestito mi faceva sedere sul gradino

d'entrata di casa “aspetta ddocu e non t'arrassari”

mi diceva.

Stavo lì seduto buono buono in attesa che arrivasse l'ora per

portarmi all'asilo dalle sorelle monache Orsoline.

Sì, perchè a Cianciana avevamo le monache Orsoline;

avevano i locali attigui alla chiesa Madre, erano quattro a volte

cinque ed oltre che accudire ai bisogni della chiesa ed a dedicarsi

alle opere pie tra i bisognosi del Paese, tenevano i bambini per

mezza giornata insegnando loro “li cosi di Dì “ facendoli

giocare nel giardino, attiguo ai locali, tenendoli lontani dai

pericoli e dalle sporcizie delle strade (che c'erano !); le mamme

vi portavano i loro bambini (la mia era tra queste) non tanto

perchè mancava il tempo da dedicare ma per dar loro la

possibilità di imparare a stare ordinati, obbedienti dato che a

casa c'era sempre la tolleranza materna ma in particolare dei

nonni ad accontentare i capricci dei bambini.

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Li Picciotti ( I Ragazzi )

Mentre aspettavo seduto su quel gradino vedevo tanti ragazzi che

si recavano a scuola,con i musi lunghi e gli occhi grossi e pieni di

sonno; per lo più mal vestiti con giacchette rattoppate e con le

maniche sempre corte; le camicie sgualcite ed incolore avevano

quasi sempre i colletti piegati in avanti formando due corna; ai

piedi quasi sempre scarponi troppo grandi per la loro età con le punte

aperte e le suole piene di “tacci “chiodi con le teste grosse per durare

di più.

Tanti ragazzi andavano a scuola con le scarpe sulla spalla temuti

assieme con i legacci e li mettevano prima di entrare in classe.

Infilato a tracollo avevano una specie di saccoccio fatto di stoffa

dentro cui tenevano un quaderno quasi sempre sgualcito, un

pezzettino di matita e non sempre il libro di lettura perchè la

famiglia non aveva i soldi per comprarlo.

Non c'era merenda dentro il saccoccio, il pane era scarso e quel pò

che i papà portavano a casa veniva diviso tra tutta la famiglia sempre

numerosissima, i ragazzi aspettavano il “mangiare” che il Patronato

scolastico offriva dopo le ore di scuola ai bambini bisognosi per

potersi sfamare e mettere nello stomaco un pasto caldo quasi sempre

composto da pasta “cavatuna grossi “e fagioli ( il tutto gustosissimo )

seguito da una fetta di pane ed un pezzetto di cotognata.

Molti ragazzi andavano a scuola più per il mangiare che per

imparare a leggere e scrivere.

I ripetenti ,anche di due tre anni,erano in molti che abituati fin da

piccoli a correre e giocare per le strade non avevano voglia di andare

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a scuola e non studiavano; a casa nessuno poteva aiutarli a fare i

compiti perchè il novanta per cento della popolazione era

analfabeta.

Non tutti potevano andare a scuola, molti ragazzi fin dalla tenera

età andavano a lavorare nelle campagne o nelle miniere oppure

andavano a “garzuni “a servizio presso benestanti che li

compensavano dando loro da mangiare e vestendoli, venivano trattati

bene specie se i padroni non avevano figli e veniva loro riservato un

trattamento particolare se si fossero dimostrati onesti difendendo gli

interessi ed ubbidienti alle direttive dei padroni.

Ogni tanto si affezionavano in maniera particolare da ambo le

parti, in questi casi il benestante padrone chiedeva alla famiglia di

provenienza del ragazzo,sempre numerosa e a corto di mangiare, di

poterlo adottare come “figlio d'arma “cioè lo acquisiva a tutti gli

effetti legali a far parte della loro famiglia anche nel cognome, era la

massima fortuna che potesse capitare.

Erano ragazzi quasi sempre smilzi con visini scarni, con occhi

grandi e vispi, intelligenti, ma patiti nel corpo privi delle sostanze

necessarie alla loro crescita.

Poi c'erano i ragazzi che andavano a lavorare nelle viscere della

terra “a la surfara “per nulla, neanche un piccolo compenso,no, ma

davano la possibilità al proprio padre di avere una lavoro sicuro e

portare un pane a casa ove oltre la mamma spesso altri quattro o

cinque fratelli più piccoli aspettavano come uccellini nel nido

(sempre affamati con la bocca aperta). Era una categoria molto

sfruttata lavoravano per diedi dodici ore al giorno sotto terra alla

flebile lucetta di una acetilena ( la citalena ) quasi al buio per il

corrispondente in denaro quanto bastava per comperare un chilo di

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pane al giorno; il pagamento veniva effettuato ogni quindici giorni e

più con il conseguente indebitamento delle persone verso le botteghe

che fornivano loro il necessario per vivere. Il portarsi appresso il

figliolo spesso in tenera età e farlo lavorare per nulla era una

maniera per garantire al padre il posto di lavoro e dare al padrone del

lavoro gratis e senza pretese, cìò faceva comodo a tutti e due ma non

al piccolo che cresceva spesso deformato nelle ossa e con il gibbo (

lu immu ), preclusione e sofferenza per tutta la vita (spesso il tipo

“immirutu “non trovava moglie facilmente ed era escluso da tanti

lavori ).

Vederli ritornare a casa la sera tardi, era una pena; con addosso un

pantalone che era appartenuto al padre o al fratello maggiore, con una

camiciola sempre rattoppata, con “la sacchina” e la “citalena” che

facevano parte integrante del loro vestimento, ritornavano a casa

dopo dieci dodici ore di duro lavoro, accanto o appresso al padre,

anch'esso col viso “scalamistrato e stancu “da sembrare malaticcio.

“Poviru surfararu sbinturatu” lo definì il Poeta ed a ragion vista,

solo a guardare quei ragazzi di nove, diedi, undici anni, già

sembravano adulti tra i vecchi.

Molti altri oltre la scuola o il lavoro il loro tempo libero lo

passavano per le strade a giocare; giochi poveri ed innocenti fatti di

povere cose o addirittura di fantasia; giocavano “a li mazzi”, “a li

chiappi”, “a li liscira”, “a lu turnachettu”, “a zuppareddu”, “a li

vasti”, “a sajita la cerba”, “a lu zuzzu”, “a li quattru canti”, “a

mucciareddu”, “a li pumetta”, “a lignu longhu”, “a la corda”, “a lu

cuculijolu”, questi quelli che mi vengono alla mente e che non

richiedevano strumentazione particolare perchè necessitavano di

poverissime cose e tanta fantasia; alcuni ragazzi giocavano “a la

strummula”, “a la palla”, “a li bucatura”, “cu lu manipattu”, questi

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già richiedevano un piccolo costo che non tutte le mamme riuscivano

a risparmiare per fare divertire i propri figli... ed ogni famiglia ne

aveva tre quattro spesso cinque o sei.

La mattina appena alzati “scurciati di lu lettu” venivano mandati a

giocare per le strade ( in casa spesso non c'era spazio ) “fora ssi

cifari ca cca un c'è largu”.

Per le femminucce il discorso cambiava, per queste niente strade,

sempre in casa “a la pudia di la matri” ad imparare le faccende

domestiche e guardate a vista dal padre o dai fratelli; ogni tanto

davanti la porta o nella strada di casa a giocare con qualche altra

ragazzina con la bambola di pezza o a “zuppareddu”.

Il Paese era pieno di ragazzi per le strade era tutto un vociare

, grida, pianti, stramazzi, richiami di mamme, urla di adulti che

spinti dalla disperazione se la prendevano con i familiari, richiami di

persone che raccoglievano le galline sparse per le strade, cani che

abbaiavano in continuazione notte e giorno, ragli di asini e nitriti di

muli e cavalli,grugniti di maiali che nelle stalle aspettavano

d'ingrassare per fare la festa dei padroni, tutto ciò che oggi è

inimmaginabile allora era realtà.

Ogni rione aveva la sua “banda” di ragazzi che giocavano per le

strade ed a farsi guerra tra di loro nello stesso rione o rione contro

rione “stasira Canaleddu contru San Gaetanu” oppure “La Filicia

contru lu Cummentu” ed era una sassaiola continua da una parte

contro l'altra, con le mani, con fionde, con lancia pietre, e quant‟altro

la fantasia poteva sviluppare.

Spesso capitava che da una sassaiola ne venivano fuori alcuni

ragazzi con la testa rotta ( si faciva lu mercu ), allora si correva a casa

ove le povere mamme, sempre indaffarate nei lavori domestici per lo

più a rattoppare e cucire i panni, alla vista del sangue e con il cuore in

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gola, si metteva a strillare, ingiuriare,a chiedere aiuto alla nonna

sempre vicina o ai vicini di casa che accorrevano sempre numerosi e

curiosi, a cercare “l'ogliu Piricò” liquido miracoloso, composto di

olio d'oliva extra vergine d'oliva mischiato a delle piantine intere di

“piricò” che si usava in queste circostanze e che ogni famiglia teneva

in una bottiglia appesa ad un chiodo “a lu suli e a lu sirenu” cioè

all'esterno della finestra o del balcone.

Quanti ragazzi giravano per le strade ! Ogni quartiere ne aveva

centinaia, le numerosissime classi scolastiche erano composte

ognuna da venticinque e più ragazzi che tutto volevano fare tranne

studiare.

I maestri avevano il loro bel da fare, i ceffoni erano all'ordine del

giorno, le punizioni, spesso severe, facevano parte della didattica

come per esempio impartire dieci colpi sulle palme delle mani con

una bacchetta fatta da un ramoscello dritto e robusto, se si trattava di

elemento particolarmente turbolento,nelle natiche o nelle gambe

queste quasi sempre nude anche d'inverno; la punizione che i maestri

davano a chi commetteva qualcosa di serio era di stare in

ginocchio con due ceci sotto le ginocchia, i ragazzi più delicati

venivano puniti stando in ginocchio per una due ore nel corridoio o

dietro la lavagna.

Oltre le lezioni quotidiane ogni tanto, tempo permettendo, si

facevano delle passeggiate scolastiche , avanti le ragazze con le loro

insegnanti e appresso i ragazzi con gli insegnanti; tenerli in fila era

un grosso problema, chi correva a destra chi a sinistra,. chi tirava le

trecce alle ragazze chi faceva “cazzicatummuli” per farsi notare.

Era uno spasso ed un divertimento ! Una volta all'anno si andava

in un campo a piantare gli alberelli, era la festa dell'albero una

giornata dedicata alla natura ed al rispetto di essa.

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Gli ultimi giorni di scuola erano una festa continua che culminava

con il buttare sui muri dei corridoi il piccolo calamaio di vetro con

l'inchiostro nero che i ragazzi della quarta e della quinta si

portavano a scuola per intingervi il pennino e scrivere, immaginate

quelle pareti!

Chi superava la quinta classe con risultato positivo e secondo il

maestro aveva un particolare trasporto per lo studio, dimostrava di

essere interessato alla conoscenza della cultura, poteva continuare a

studiare alla scuola media ( a li superiori ) non tutti andavano

l'ottanta ed anche più per cento prendevano la via del lavoro nei

campi, nell'edilizia, nell'artigianato numeroso e fiorente.

Tanti andavano all'estero ove erano andati i loro padri prima di

loro in carca di fortuna e benessere che la propria Nazione non ha

saputo dare.

Altri continuavano gli studi, con alterne fortune, incominciando

col frequentare la scuola media che allora in Paese non era presente

e si doveva andare a Bivona utilizzando il treno che si andava a

prendere alla stazione ferroviaria a due chilometri fuori Paese o la

corriera che partiva da sotto l'orologio ma costava più cara del

treno.

A Bivona si studiava fino al terzo liceo classico, poi si andava a

Palermo all'Università.

Mantenere un figlio all'Università non era cosa facile, i sacrifici

erano considerevoli e motivo di grande orgoglio, infinitamente

maggiore per chi riusciva a laureare il proprio figlio; tutto il Paese ne

parlava per diversi giorni era l'oggetto delle discussioni che si

facevano in piazza o in famiglia; le ragazze dopo le elementari,

stavano a casa ad imparare a fare le buone e brave donne di casa,

mogli, madri ma....anche per loro la vita incominciava a cambiare e

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sempre più spesso i genitori permettevano il proseguimento degli

studi come i ragazzi.

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A la Sacristia (Alla Sacrestia )

Non c'erano divertimenti la sera e moltissimi ragazzi si

ritrovavano nelle sacrestie delle Parrocchie ove i preti mettevano

a disposizione tanti giochi e passatempi; si stava volentieri due

tre ore fino a che spesso nelle sere invernali fredde e piovose,

veniva il Papà o un fratello maggiore a prelevarli e portarli a

casa.

Spesso il Prete sospendeva i giochi e invitava i presenti a

recitare le preghiere e a studiare “li Cosi di Dì”.

Certo non erano graditi a tutti quelle sospensioni anzi spesso

qualcuno riusciva a sgattaiolare e andare via erano i più

irrequieti quasi tutti restavano a pregare per poi continuare a

giocare.

In quei locali il vociare era assordante, ma c'era un'atmosfera

di serenità di fratellanza di affetto fraterno; certo ogni tanto

avveniva qualche piccola lite o qualche incomprensione, erano

tutti ragazzi, ma l'intervento del parroco o del capo “aspiranti”,

metteva tutto a posto; penso che molte coscienze, molti caratteri

gentili, altruisti, rispettosi, si venivano forgiando proprio in

questi posti sotto la guida e lo sguardo attento dell'Arciprete!

Che orgoglio quando si entrava a far parte dell'Azione

Cattolica !

Prima “fiamma bianca” poi “fiamma verde” poi “fiamma

rossa” infine aspiranti giovani cattolici.

Con orgoglio si portava la fascia a tracolla e si sedeva nel coro

per seguire la s. Messa della Domenica; c'era un qualcosa di più

che molti altri non avevano o non potevano avere perchè

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obbligati ad andare a lavorare e la sera erano stanchi e dovevano

riposare o non volevano avere perchè preferivano le amicizie

delle strade il correre ed il fantasticare tipico della gioventù.

Qualcuno che riusciva a racimolare dieci lire poteva andare al

cinema che si trovava ove adesso c'è il posteggio sotto la

Matrice.

Film di cappa e spada oppure di avventure del West erano i

preferiti dai ragazzi che spesso rubavano, vendendoli a botteghe

poco serie, qualche uovo oppure mandorle o frumento, a casa

loro pur di racimolare i soldi per vedere il film preferito.

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Un Quatrettu (Spaccato di vita quotidiana)

La mattina presto e la sera tardi le vie del Paese che portavano

nelle campagne erano letteralmente piene di quadrupedi muli,

asini, cavalli spesso accompagnati da capre o cani.

Il rumore degli zoccoli, che essendo provvisti di ferri appositi

per risparmiare e salvaguardare le unghie,

riempiva l'aria, file lunghissime di contadini la mattina

andavano e la sera ritornavano dai lavori nei campi: le strade

sterrate erano piene di concime stallatico lasciato dagli animali,

la puzza faceva parte dell'ambiente nessuno ci badava e per le

strade era normale sentire l'olezzo dell'urina e della cacca degli

animali.

Le stalle erano diffusissime, non c'era strada che ne avesse

qualche decina per cui il fetore di queste era parte dell'ambiente;

al tanfo che i vestiti dei contadini emanavano nessuno ci badava

e se qualcuno lo sentiva non ci faceva caso perchè faceva parte

della vita quotidiana.

I cani randagi erano parte integrante dell'ambiente, tanto scarni

che si potevano contare le ossa, pulciosi e d'estate sempre pieni di

zecche, spesso feriti per le continue lotte che facevano tra di loro

per qualche misero avanzo caduto occasionalmente, spesso, spinti

dalla forza della natura si accoppiavano per le strade, allora era

lo spasso ed il passatempo dei ragazzi che con sassi “a

ruccazzati” martoriavano i poveri animali costringendoli a

separarsi anzi tempo ed in modo violento e doloroso.

“Curriti, curriti, a Santu Roccu nna mula appizzà” spesso

d'inverno si sentiva qualche voce che chiedeva aiuto.

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Le strade inzuppate d'acqua erano come le sabbie mobili e

qualche quadrupede, a volte anche qualche persona, restava

impantanata nel fango rischiando di morire se non fosse arrivato

l'aiuto.

Il povero animale immerso fino alla pancia con il terrore negli

occhi con le narici dilatate per il troppo sforzo, cercava di uscire

dalla melma, inutilmente, da solo non ce l'avrebbe mai fatto se

non avesse avuto l'aiuto di gente che si trovava spesso a

soccorrere in tali occasioni dato che abitavano nella zona!

Tira di qua, spingi di là dopo sforzi non indifferenti si riusciva

a liberare l'animale con grande sollievo del padrone, che aveva

in quell'animale l'unico mezzo per guadagnare il sostentamento

per la famiglia, e dell'animale che si toglieva da quella scomoda

e pericolosa posizione.

“Chiujiti li porti cc'è nna mula scappata! Trasiti l'addevi !” Era

uno spettacolo... ma uno spettacolo pericoloso!

Il povero animale correva, saltava, nitriva, scalciava senza

tregua, senza una precisa direzione, era imbizzarrita, spaventata

nervosa, ed in quella corsa saltellante mandava a destra e a

manca quanto aveva legato alla sella; era molto pericoloso e

qualche volta feriva qualche audace che cercava di pararsi

davanti l'animale per fermarlo.

Il proprietario affannato, molto preoccupato per il danno che

avrebbe potuto provocare l'animale, gli correva dietro cercando

di avvisare la gente del pericolo e gridando:

“Firmatilu... firmati ss'armali”. La tragicomica farsa terminava

quando l'animale stanco,sfiancato, a volte ferito, si fermava da

solo dando al padrone la possibilità di riprenderlo non senza

avere sfilato una interminabile filastrocca di bestemmie, ingiurie,

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imprecazioni.

Gli animali facevano parte della società, ogni famiglia ne

aveva: chi aveva la campagna doveva avere per forza il mulo o

l'asino anche due a seconda delle proprietà possedute, l'unico

mezzo che gli permetteva il trasporto delle masserie e la

coltivazione della stessa, di conseguenza il quadrupede nella

stalla era vitale; spesso,se in famiglia c'erano bambini o vecchi a

cui il latte era indispensabile , la mula aveva la compagnia di una

capretta; le galline, per le uova; nella stalla non mancavano mai il

cane per “guardari li robbi all'antu”.

Il gatto “pì li surci” viveva in casa con le persone e chi

aveva spazio anche il maiale “pì la sazizza”e quant'altro (del

maiale non si buttava nulla, le ossa spolpate venivano conservate

nel sale e usate per fare il brodo nelle occasioni importanti, anche

i peli erano usati dal ciabattino).

Le galline erano alla portata di tutti, anche nel sotto scala o

dentro una piccola gabbia di legno che per mancanza di spazio in

casa la mattina si usciva e la sera si entrava, il costo era quasi

zero perchè stavano dalla mattina alla sera per le strade a

razzolare alla ricerca di qualche bocconcino e depositavano un

uovo al giorno che puntualmente veniva servito agli uomini che

lavoravano ed avevano bisogno di sostanza, o diviso tra i bambini

che dovevano crescere; molti vendevano le proprie uova e col

ricavato compravano il necessario per mettere la pentola oppure

comprare qualcosa per i bambini.

Per le strade del paese in ogni quartiere la mattina e la sera

giravano “li lattara” pastori che allevavano il gregge di capre e

vendevano il latte per le strade.

Era bello vedere quelle povere caprette che avvezzi da tempo

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a fare quel lavoro si fermavano puntualmente davanti la porta del

cliente, il capraio si accovacciava dietro la prescelta e riempiva,

“mungennu li minni” una misura di alluminio, mezzo litro, un

quarto li litro, centilitro, secondo la richiesta del cliente.

Che latte! Che sapore! Caldo appena mungiutu (munto) quella

schiuma...quell'odore!

Si intingeva un pezzo di pane (quel Pane) che era una

leccornia...che gusto! ...

Non solo con le capre si girava il paese, c'erano pure “li

vaccara” che facevano lo stesso servizio portandosi dietro le

vacche, paurosamente alte, maestose, di colore rossiccio, anche

loro belle bestie si fermavano nei posti abituali con dolce

docilità.

Per le vie del paese i cani randagi facevano parte

dell'ambiente, pulciosi, scheletrici, sempre in cerca di qualcosa

che potesse smorzare la loro cronica fame.

Per un nonnulla litigavano abbaiavano a volte mordevano

costringendo i poveri genitori a correre dal dottore e

spesso,dopo catturato il cane colpevole, correvano per il

veterinario ed essere sicuri che il cane non avesse la rabbia.

Le strade erano quelle che erano; non erano lastricate, ne

ammattonate, tanto meno incatramate, descriverle non farei

giustizia, non è cosa da capire facilmente per chi non le ha viste.

Di terra battuta e polverose d' estate, acquitrinose e pericolose

d'inverno.

Le piogge invernali rendevano le strade praticamente

intransitabili; era un pericolo camminare, le pozzanghere e il

fango scivoloso costringevano le persone a scivoloni e

“culacchiati nterra” con conseguente sporcare degli indumenti

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che si avevano addosso e quando non era il fango e le

pozzanghere ad impedire il cammino erano “li ncanalati” che

riversavano dai tetti a terra l'acqua piovana sempre copiosa ed

impetuosa; chi aveva necessità di uscire da casa (si restava a casa

molto volentieri) lo faceva a proprio rischio non senza avere

indossato “la ncirata” per ripararsi dalla pioggia e “li scapuna”

per non bagnarsi i piedi.

D'estate era un'altra cosa, non c'era fango e acqua,ma bastava

un venticello “nnà vintuliata” per riempire di polvere chi

passava; che brutta fine facevano “li gaviteddi” pieni di succo di

pomodoro messi al sole per fare “lu strattu” conserva per condire

la pasta.

Le pietre “li rocchi” non mancavano, di tutte le misure

riempivano i bordi delle strade quasi ad invitare i ragazzi che

giocavano sempre numerosi, ad iniziare una sassaiola sempre

pericolosa per loro e per chi passava.

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‘Na Nascita (Una Nascita)

Le famiglie erano quasi tutte numerose, ognuna in media aveva

tre, quattro figli, se non di più.

Le mogli erano sempre in stato di gravidanza, le “mammane”

(le tre ostetriche di allora ), avevano il loro bel da fare per

assistere le partorienti.

“Mariuzza appi n'addevu”!

Una delle tante nascite era una occasione per fare visita alla

parente, all'amica e uscire di casa, sì perchè le donne non

uscivano tanto spesso di casa senza il permesso dei propri mariti

o padri.

Si riusciva a fare un piccolo sacrificio per comprare un

regalino al neonato: “un bavaglinu”, ”un vestiteddu”, “un paru di

scarpuzzi”, “un porta ova d'argentu”.

“Chi beddu addevu... ch'è sciacquatu... pari „na rosa”.

Non si poteva dire altro quello che si vedeva erano le manine

ed il faccino; tutto il corpicino era coperto da una lunga fascia

che lo faceva assomigliare ad una piccola mummia, anche la

testolina era coperta da un “cappucceddu “per non prendere

freddo.

Il neonato si doveva battezzare presto entro il mese...

“mpozzica mori” allora la percentuale delle morti infantili era

altissimo.

Spesso il Padrino a la Madrina erano della stessa famiglia, zii,

cugini, parenti stretti perchè la povertà non permetteva di fare

spese, in famiglia era più facile non fare inviti e “arranciarisi a la

meglio”.

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Quando si voleva fare colpo sugli altri o si voleva dare della

arie, si cercava qualche padrino benestante; si procedeva ad

invito allargato e si offrivano biscotti e “tetù” assieme a ceci

“amma‟nati e caliati”, qualche confetto con la mandorla dentro,

vermout o vino buono.

Durante il trattenimento a casa dei genitori del neonato si

facevano vedere i regali su un vassoio; i regali per il figlioccio

da una parte, quelli per i Padrini dall'altra: “beddi,...veramenti

splendidi... prosita e prusituni a li Parrini”, “Aurii e prosita a li

ginitura”.

In un angolo della stanza tre quattro musicanti intonavano

qualche mazurca o qualche canzoncina in voga in quel periodo.

Tutto finiva verso sera,gli invitati andavano via e..”l'addevu

s‟addummisciva”.

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Divuzioni (devozione)

Tra queste atmosfere di attese, emozioni, a volte l'aria era

invasa da brevi, solenni, pietosi, tocchi di campana.

L'atmosfera quasi gelava anche chi non capiva si fermava un

poco e cercava di intendere cosa dicessero quei tocchi; i ragazzi

erano presi dalla curiosità perchè quel suono “Dooooon......

Dooooon......Dooooon......” doloroso, pietoso, quasi implorante,

non era riconosciuto; un suono raro che per molti era sentito la

prima volta; ritmati, alla stessa distanza, con la stessa campana,

quasi dovevano essere sentiti con pietosa prepotenza.

Agli occhi attenti dei figli,sempre vicini alle madri, non

sfuggiva l'atteggiamento che questa assumeva al sentire quei

pietosi tocchi; ovunque si trovasse o qualunque cosa facesse

smetteva, congiungeva le mani e rivolgendo gli occhi al cielo

recitava sotto voce un'Ave Maria.

La curiosità arrivava al massimo; spinti dalla grande forza

della conoscenza : “Mamà pirchì li campani sonanu cussì

strammi? Chi si ruppi la corda ?” (Allora le campane venivano

suonate tirando delle funi dal piano terra sotto il campanile).

Incessante e a volte irrispettosi verso la mamma che ripeteva

le preghiere, continuava pressante la domanda, mentre le

campane continuavano a diffondere quei lamentosi rintocchi:

Doooon….Doooon….

“No” rispondeva la mamma dopo avere terminato le preghiere

e avere fatto il segno della croce, “chissi sunnu ti tocchi di Matri

Sant'A‟na..., „na Mamma sta accattannu nn‟addrevu e trova

difficoltà; cu li tocchi di campani si duma‟na aiutu a Matri

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Sant'A‟na ca è la Mamma di la Mado‟na e sapi comu aiutari li

puviri partorienti chi trovanu dificurtà.”

Allora sentivi il pelo drizzare sulla pelle, una grande emozione

t'invadeva e dalla mente attenta ed incuriosita automaticamente

iniziava a recitarsi una umile preghiera...Ave Maria..., forse si

poteva aiutare una mamma.

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Un Quatrettu (Spaccato di vita quotidiana)

Mentre si percorrevano le vie del paese decine di voci

provenienti da diverse parti si mischiavano si accavallavamo si

confondevano...ma la nenia, la ni‟nana‟na che le mamme

cantavano ai loro bambini spiccava sopra di tutte con una

cantilena dolce, familiare, che ti conciliava con la vita.

“Sant'Antuninu calati calati ca j l'a‟nacu e Bbu

l'addummisciti”.

“A lalò a lalò fina chi bbeni la mamma tò... si la mamma tò

ummoli viniri tetè nculiddu avadaviri...” le mamme e le nonne

cantavano per conciliare il sonno ai bimbi per calmarli e farli

stare buoni, spesso per far dimenticare loro, anche per un po, la

fame che avevano fino a che tornasse la mamma per allattarli al

seno.

Le giornate passavano sempre le stesse alla continua ricerca di

qualche giornata di lavoro pagata male.

Gli operai se ne stavano sotto l'orologio a la scalunata in attesa

che qualcuno avendo bisogno di mano d‟opera li chiamasse.

Quando capitava si andava a lavorare a giornata per il

corrispettivo di un pane da un chilo; per quel giorno la famiglia

poteva “mettere la pignata “ non avrebbe sofferto la fame e non

si sentivano le richieste laceranti dei bambini piccoli... “Mamà

pitittu aiu!”

Sì perchè in molte famiglie le pignate non si mettevano sul

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fuoco stavano “a testa a puzzoni”.

Tutto o quasi si comprava “a credenza” il bottegaio,

l'artigiano, il commerciante, quasi tutti usavano il mezzo della

“credenza”.

Era una forma di solidarietà, certamente non disinteressata, tra

chi vendeva la merce e chi la comprava; quest‟ultimo, non

potendola comprare in contanti, che scarseggiavano per la

mancanza di lavoro, comprava quanto bisognava alla famiglia “a

cridenza” con l'impegno che, appena “siggivanu”, avrebbero

pagato quanto dovuto, spesso con qualcosa in più.

Tra i compratori c'erano i buoni clienti ed i cattivi, quelli cioè

che appena lavoravano e prendevano i soldi andavano subito a

pagare i debiti contratti e quelli che oziavano dalla mattina alla

sera e non pagavano tanto puntualmente con disapprovo dei

fornitori e facendosi la mala nomina di “mali pagatura”; le

famiglie di questi soffrivano tanto e le liti tra moglie e marito

erano all'ordine del giorno.

Tempi duri... molto duri!

Si tirava avanti, si sopravviveva; il tempo passava tra sorrisi e

lacrime ed i bambini crescevano facendo “tinturii”, è nella natura

umana fare esperienze che agli occhi degli altri possono sembrare

“tinturii” specie se fatte da bambini o da ragazzi vivaci.

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Lu Scarparu (Il Calzolaio)

Quanti bambini... in ogni quartiere se ne contavano due -

trecento e camminavano, correvano, giocavano, facevano qualche

servizio alla Mamma e correvano, con le scarpe ai piedi o senza,

perchè tantissimi ragazzi erano di famiglia povera e non

potevano permettersi le scarpe, un paio buono lo calzavano in

certe occasioni o per le feste importanti.

Calzavano scarpe di tutti i tipi non potevano permettersi di

scegliere, spesso li “scarpunedda”, appartenuti sicuramente al

fratello maggiore o a qualche cugino, ormai vecchiotti e poco

resistenti , per cui si vedevano le punte aperte e le suole con

qualche buchetto.

Le scarpe rotte erano all'ordine del giorno ma non era un

grosso problema perchè in Paese c'erano tantissimi “scarpara”,

veri artisti nella lavorazione del cuoio e della pelle,che

riparavano qualsiasi rottura o scucitura sia nelle scarpe di festa

“li tappini” sia nelle scarpe da lavoro “li scarpina” o

“scarpunedda” per i ragazzi, con la punta e il tacco ricoperte da

una lamella di ferro “puntetta “e con la suola ricoperta da artistici

chiodi con la testa grossa “tacci” al fine di non consumare

facilmente le scarpe e farle durare di più.

Dunque “lu scarparu” era una figura molto importante nella

povera economia del Paese.

Riparava e portava a nuovo le scarpe rotte, ne costruiva di

nuove di zecca per quelli che avevano la possibilità finanziaria di

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poterlo fare, molti per farseli notare pretendevano che una volta

calzate avessero “lu stric-strac” quando camminando si piegava

il piede, (allora non c'era altro che cuoio magari un poco

scadente, ma solo cuoio, la plastica non era stata ancora

inventata) allora l'artigiano pretendeva che il committente gli

portasse delle uova fresche al fine di metterci il cuoio a mollo (se

li mangiava con la famiglia).

Chi andava con ai piedi un paio di scarpe nuove non poteva

fare a meno di essere notato; oltre la lucentezza e l'eleganza ad

ogni piegatura del piede destro si sentiva un piacevole “stric” a

cui rispondeva subito dopo il sinistro con lo “strac”.

Chi guardava ed ammirava quella nuova bellezza ai piedi,

non senza un poco d'invidia, spesso abusando della confidenza si

rivolgeva al fortunato con qualche complimento “Ohh scarpi

novi... Aurii !!!”

Lu scarparu lavorava quasi sempre a casa propria,o in affitto,in

un angolino di una stanza preferibilmente a piano terra in

maniera che non disturbasse la famiglia e meglio potesse

assolvere anche al ruolo di “ritrovo” per gli amici abituati a

riunirsi tutte le sere per passare il tempo in compagnia.

Non c‟era dove passare la serata, per cui le botteghe degli

artigiani erano solitamente scelte quale ritrovo tra amici ed

assieme passare qualche oretta tra chiacchiere e il gioco delle

carte.

Lui “lu mastru” se ne stava dietro “lu bancareddu”, piccolo

tavolo rettangolare con i bordi del pianale alzati, in maniera che

quanto stava sopra non cadesse per terra; alto appena settanta

centimetri, variabili a seconda il modo di lavorare del calzolaio;

personaggio spesso portatore di qualche difetto alle gambe per

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cui il ruolo di calzolaio si addiceva perfettamente visto che

espletava il proprio lavoro standosene seduto.

Il piccolo tavolo era collocato sempre con la faccia alla porta

di entrata con lo scopo di controllare i visitatori; alle spalle

qualche mensola e molti chiodi per metà conficcati alla parete,

da essi pendevano “li furmi di lignu” riproduzioni in legno dei

piedi, di diverse misure per consentire al calzolaio di costruire le

scarpe nuove.

Sulle mensole a bella vista stavano tutte le scarpe dei clienti ,

da una parte quelle già riparate, dall'altra quelle da riparare.

In un angolo “la quartara o la lancedda” con l'acqua fresca ,

dato che nelle case ancora non c'era l'acqua corrente e si andava

ad attingerla alla fontanella pubblica che stava all'angolo della

strada.

Un piccolo boccale, legato per il manico da una cordicella,

pendeva da un chiodo piantato al muro; chi aveva sete poteva

bere.

Sul tavolo di lavoro la confusione regnava sovrana,tante

lattine con dentro chiodi e chiodini di tutte le misure: “chiova,

tacci, simicci”, qualche rotolo di spago e delle cera d'api per

incerarlo, aghi, martello con la punta piatta e rotonda, tenaglie, la

raspa, la tenaglia per fare gli occhielli, lesine, due tre trincetti

che servivano per tagliare e lavorare il cuoio e la pelle; erano

taglientissimi come rasoi, anche “lu mastru” con tutte le sue

protezioni alle mani qualche volta si faceva dei tagli, non si

dovevano toccare, specie per i ragazzi era severamente proibito;

a terra frammenti di suole e di cuoio per rattoppare, risuolare,

rammentare le vecchie scarpe dei clienti.

La “furma” di ferro poggiata con la base su di un piedistallo di

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legno, rappresentava un piede capovolto con la pianta rivolta

verso l'alto, questa si calzava con la scarpa da riparare specie

quando si dovevano piantare tacci o chiodi; questi erano gli

strumenti di “lu mastru scarparu” che custodiva con tanta

attenzione e scrupolosità.

Sempre geloso delle sue cose, nessuno glieli doveva toccare

senza il suo permesso, raramente prestava qualcosa.

Lui, lu mastru, con il grembiule davanti il petto e spesso con

gli occhiali rotti e legati con lo spago, seduto sul suo trono senza

spalliera armeggiava con insolita perizia tra quegli arnesi, tanto

importanti e preziosi che molto attentamente ogni sera, a fine

giornata lavorativa, riordinava, puliva, metteva ogni cosa al

proprio posto molto attentamente e gelosamente, lasciando “lu

bancareddu” pronto per il giorno dopo.

Il luogo “la putia” era frequentatissimo; oltre i clienti che

portavano o ritiravano le scarpe c'erano gli amici che tutti i

pomeriggi si riunivano nella bottega per chiacchierare, parlare e

mettersi al corrente dei fatti che succedevano nel paese; sei, otto

persone, qualche ragazzo, seduti su vecchie panche di legno o

qualche sedia sgangherata, attorno al tavolino si raccontava ciò

che accadeva in paese, qualche fatterello o, specie

d'inverno,qualche interessante racconto che sembrava non finisse

mai, tanto era il talento di chi li raccontava.

Non molto di frequente si vedeva “lu giovani”, il ragazzo di

bottega che spinto dal genitore cercava di apprendere l'arte del

ciabattino.

Un mestiere misero che teneva quasi sempre la famiglia in

uno stato di continuo bisogno; lui che rinnovava e riparava le

scarpe non trovava mai il tempo ne la volontà di restaurare le

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sue, sempre vecchie e molto lontane dall'essere eleganti; da qui il

detto “lu scarparu senza scarpi”.

Spesso spuntava un mazzo di carte da gioco e subito, gli

immancabili ospiti iniziavano una partita che durava pomeriggi

interi tra rivincite e cappotti.

Così passavano il tempo, magari dopo una giornata di duro

lavoro, si ritrovavano lì per svagarsi un poco, visto che in paese

non c'era nessun altro tipo di divertimento, nulla, neanche la

radio, privilegio di pochi facoltosi e benestanti.

C'era il cinema....ma ci volevano i soldi per il biglietto, cosa

che non tutti potevano permettersi.

Lu scarparu era un'arte diffusa a Cianciana, lavoro che faceva

sopravvivere le diverse famiglie e nel contempo permetteva a

tantissime persone di potere camminare comode con le scarpe ai

piedi.

Tantissimi ragazzi andavano scalzi per le strade ed al lavoro,

mettendosi l'unico paio di scarpe che possedevano la Domenica

e per le occasioni importanti.

Non era rado vedere dei ragazzi ormai adulti che nei campi o

nelle zolfare lavoravano a piedi scalzi risparmiando così le scarpe

che certamente dovevano servire a qualche altro fratello dopo li

lui.

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A lu cannolu (alla fontana pubblica)

In paese l'acqua era scarsa, pochissimi l'avevano in casa; la

popolazione andava ad attingere l'acqua alle fontanelle pubbliche

(a lu cannolu); ce n'erano decine in tutto il paese, collocate quasi

sempre all'incrocio di quattro strade, l'acqua arrivava ad orario

manovrata dal fontaniere; ai lati della fontanella ogni mattina

c'erano decine di “quartari, bagneri, cati, muzzuna,” messi in

fila dai proprietari ad aspettare il proprio turno per attingere

l'acqua quando fosse arrivata.

L‟arrivo dell‟acqua era uno spettacolo; prima iniziava ad

uscire violentemente l‟aria, sempre più violenta; qualche minuto

dopo arrivava dell‟aria mista all'acqua ed infine arrivava l'acqua

con una pressione tale che spesso bagnava chi stata vicino alla

fontanella.

Allora incominciava il vociare delle donne che litigavano per

attingere l'acqua per prima.

I bambini si mettevano a gridare festosamente “l'acqua

viiinnniii, l'acqua viiiiinni”.

Tra il vociare e le piccole liti, sempre per il turno, ogni tanto si

rompeva qualche brocca “quartara “allora erano guai; parole

pesanti, ingiurie “ngiurii”, maledizioni “gastimi”, reciproche;

qualche volta si arrivava anche alle mani.

Per fare il bucato le donne utilizzavano “la pila”; lavatoio di

legno, di diverse misure, che consentiva di lavare la biancheria a

casa, davanti la porta o all'interno in qualche angolo; si doveva

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cambiare l'acqua diverse volte ed ogni volta si doveva svuotare;

per riempirla occorreva una certa quantità di acqua e questo

costringeva qualcuno della famiglia, quasi sempre la mamma o la

sorella maggiore, ad andare alla fontanella e riempire “li

quartari”.

“La pila” serviva anche per fare il bagno ai ragazzi; in quel

tempo le famiglie che avevano un bagno in casa erano contate, le

docce non esistevano e il bidet era sconosciuto.

I servizi igienici erano quasi inesistenti, poche famiglie

avevano lo scarico nella fogna; quelle che ce l‟avevano potevano

utilizzarlo per gettare via i depositi che si accumulavano nel

“cantaru” e “„na lu rinali” (pitale di terracotta o di ferro fuso

smaltato di bianco), durante la nottata.

Detto servizio era composto da un buco in un angolo della

casa, quasi sempre dietro la porta, direttamente in comunicazione

con la rete fognaria comunale; terminava con un fungo di

terracotta smaltata con al centro un buco, in cui venivano versati i

rifiuti organici e l‟acqua sporca.

L'igiene lasciava molto desiderare; la maggior parte delle

persone avevano sempre le mani sporche, il sapone era raro e

quel poco che c'era costava caruccio, non tutti potevano

comprarlo; sotto le unghie c'era sempre un alone di nero, non era

raro vedere ragazzi con gli occhi pieni di cerume “occhi

miccusi” per la carenza di pulizia; i ragazzi avevano sempre il

moccio nel naso che colava fino alla bocca, “muccarusi”, due

cascatelle che si fermavano sopra il labbro superiore veniva

pulito sistematicamente col dorso della mano o con l‟inizio della

manica della giacchetta, quando non si adoperava la lingua,

specie per i più piccoli; i fazzoletti erano per i grandi non per i

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ragazzi.

La sporcizia la faceva da padrone e le pulci e le cimici erano

all'ordine del giorno.

Molti ragazzi, specie d'estate, venivano rasati a zero

“cuzzuluti” per riuscire meglio a spulciarli e non dare possibilità

ai pidocchi di proliferare.

Davanti le porte le mamme sedute con il figlio o la figlia tra le

gambe molto pazientemente spulciavano le teste, depositavano la

pulce catturata sull'unghia del pollice e poi schiacciarla con

l'altro pollice; lo spulciare i figli era una operazione

normalissima, faceva parte della tradizione paesana e nessuno ci

poneva attenzione, non faceva impressione a nessuno, tanto meno

lo schiacciare il parassita con le unghie.

L‟arrivo dell‟acqua potabile nelle case ha fatto perdere l‟uso

delle fontanelle pubbliche ed ha permesso a tute le famiglie di

dedicarsi con accuratezza all‟igiene personale cancellando

definitivamente (!) i parassiti dalla nostra società.

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L’Accumpagnamentu (Il Funerale)

Così come le nascite erano numerosissime anche i decessi

erano numerosi; ma, a differenza delle prime gioiose ed allegre,

queste erano una vera disgrazia, una perdita irreparabile che si

ripercuoteva sulla famiglia per anni specie se a morire era il capo

famiglia.

Non era raro nel silenzio della notte profonda sentire urla

disumane da accapponare la pelle, urla di donne che piangevano.

Era un dovere svegliare il marito, il padre, il fratello per

andare a vedere da dove venivano le urla; il perchè era quasi

sicuro, o la morte o una disgrazia.

Allora nel cuore della notte, vestito alla meglio e con addosso

qualche mantello o qualcosa di pesante si affacciava alla finestra

per cercare di capire.

Altre finestre si aprivano per la stessa ragione ed alla luce della

notte si potevano scorgere profili di persone che, anch‟esse

attratte dalle urla, cercavano di capire cosa fosse successo.

Cercando di individuare da quale direzione arrivassero le urla,

si incominciava ad avere qualche sospetto, mentre altre finestre

si aprivano: “chi cc'è ? cu grida ? cu jietta vuci,chi murì

quarcunu?”, “ma arsira lu gnuri Caliddu c'era malu, pò essiri

iddu?”

Qualche ardimentoso già era uscito per la strada; la moglie

dalla finestra lo incitava a ritornare a casa:

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“aggira…aggira…aspetta tanticchia…aggira!”

Senza dare ascolto alla preoccupata consorte si avvicinava al

posto da dove venivano le urla.

Sì, i sospetti dei vicini erano giusti: era morto lu gnuri

Caliddu!

Vestiti alla meglio, con gli occhi ancora dormienti ed i capelli

sparpagliati, i vicini si recavano a portare aiuto e conforto a

quella gente.

Alla flebile luce del lume i maschi incominciavano a vestire e

preparare la salma da comporre su un umile lettino sistemato in

mezzo alla stanza; le donne confortavano i familiari, specie

quelle di sesso femminile, che come ossessi urlavano, si

percuotevano, si tiravano i capelli.

La luce del mattino trovava una famiglia in preda al dolore;

tutte le donne vestite di nero, la testa coperta da un nero

fazzoletto legato dietro la nuca; se ne stavano in un angolo a

fianco della salma a gridare ed a decantare le gesta, la bontà, i

buoni caratteri del caro defunto.

Non era raro vedere la moglie che si schiaffeggiava sulle

cosce, sulle guance, quasi volesse infliggersi dolore,sofferenza.

“Comu fazzu ora... cu cci duna a mangiari a sti

figliareddi...chi famiglia sfurtunata... comu finì lu sustegnu di sta

casa... bbeddu maritu miu...comu fazzu senza di tiia...”

Lamenti, cantilene, pianti, che coinvolgevano i presenti,

stimolando la compassione, la solidarietà; il tutto rattristava nel

profondo il cuore fino al pianto.

In chiesa, durante le funzioni religiose, le grida dei dolenti non

finivano; si placavano un pochino, ma riprendevano subito dopo,

provocando le reazioni del prete che con lo sguardo richiamava

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C'era 'na vota frammenti di mamoria

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alla compostezza i familiari.

Terminate le esequie ed usciti dalla chiesa si procedeva a

comporre il corteo per accompagnare la salma al cimitero.

Durante tutto il tragitto le grida riempivano l‟aria; il pianto

straziante coinvolgeva la sensibilità delle persone che sempre

numerose erano dietro il feretro.

A destra ed a sinistra, davanti alla bara, due file di ragazzini

aprivano l‟accompagnamento portando in mano dei fiori.

Quando i funerali erano fatti a persone benestanti e altolocate i

ragazzi portavano decine di corone di fiori ed a volte c‟era anche

il gagliardetto di qualche associazione religiosa a cui il defunto

apparteneva.

Il corteo attraversava tutto il corso principale, oggi diviso in

due tronconi, partiva dalla matrice e terminava alla periferia sud

del paese in prossimità della villa comunale (allora non esisteva;

al suo posto un profondissimo fossato scavato dalle copiose

acque piovane che scendevano dal paese; per attraversarlo c‟era

un robusto ponte in muratura denominato “lu ponti granni”).

Qui il corteo si fermava.

L‟aria si riempiva di pianti e urla, specie della moglie e dei

figli a cui veniva a mancare il sostentamento principale.

Guidate da persone vicine alla famiglia i dolenti familiari si

sistemavano in fila addossati alla parete di un edificio e

incominciavano a ringraziare le persone.

La gente, cercando di non accalcarsi più del dovuto, messasi in

fila, porgeva la propria solidarietà alla famiglia che rispondeva

alla stretta di mano con calore e riconoscenza.

“Cordoglianzi…mi dispiaci… cordoglianzi”, ogni tanto

qualche amico intimo porgeva qualche bacio, ma solamente tra

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C'era 'na vota frammenti di mamoria

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uomini e tra donne.

Terminate le condoglianze restavano oltre i parenti, gli amici

intimi ed i vicini di casa.

A questo punto il piccolo corteo continuava fino all‟incrocio

tra la strada principale e la deviazione per andare al cimitero.

Qui avveniva l‟ultimo saluto alla salma da parte dei familiare e

tutti gli altri.

Riprendevano le grida in maniera inimmaginabile; la vedova, i

figli, si abbracciavano alla bara quasi volessero rianimare il

defunto.

I più coraggiosi cercavano di staccare i dolenti da quell‟ultimo

abbraccio.

Dopo tanti tentativi, facilitati anche dalla stanchezza che già

s‟impossessava della stanche membra dei familiari, il feretro

continuava la sua strada verso l‟ultima dimora, lasciando dietro

di se dolore, pianti, grida, disperazione.

Era uno strazio!

Le povere donne non avevano più voce, le corde vocali si

rifiutavano di emettere suoni, eppure con voce rauca e quasi

inesistente continuavano a gridare e piangere.

Arrivati a casa l‟ultimo saluto alle persone che li avevano

accompagnati fino alla fine.

Si mettevano uno accanto all'altro e con il corpo e l'animo

distrutti davano la mano e ringraziavano con un filo di voce,

spesso stando seduti, specie la vedova o la vecchia madre.

La morte nella quasi totalità delle famiglie portava un danno

incalcolabile, specie per coloro che vivevano solamente del frutto

del lavoro del capo famiglia; moltissime si trovavano in queste

condizioni.

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C'era 'na vota frammenti di mamoria

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Spesso restavano a carico della povera vedova tre, quattro figli

piccoli, da sfamare e da crescere.

Era una vera tragedia vedere la povera vedova che si adattava

a fare i lavori più umili e faticosi per far da mangiare ai propri

figli.

I più fortunati avevano un poco d'aiuto dai suoceri, ma non

sempre questi potevano farlo.

Allora per quei poveri ragazzi era un calvario!

Niente scuola; i più grandicelli dovevano andare a cercare

qualche lavoretto per portare a casa dei soldi oppure un po di

roba da mangiare; alla fine un intero giorno di eseguire gli

ordini del padrone ove servivano, portavano alla famiglia qualche

soldino oppure del cibo.

Per più di tre anni le mogli stavano vestite di nero fitto, dalle

calze alle vesti, col fazzoletto in testa a coprire i capelli, quasi

nulla si vedeva, solo le mani e la faccia quando non era coperta in

parte dal fazzoletto.

“Cu mi murì lu cani?” dicevano a qualche familiare che dopo

tre quattro anni cercava di fare togliere almeno il fazzoletto dalla

testa.

Risposarsi con qualche bravo uomo che potesse accudire ai

piccoli?

Neanche a pesarlo, si rischiava di litigare e rompere la

parentela.

La vedova e in particolare gli orfani, specie se minorenni,

erano oggetto di attenzione da parte dei familiari; suoceri,

cognati, cugini, facevano il possibile per aiutarli, dare loro del

cibo, delle particolari attenzioni ai minori.

Qualche volta, se le possibilità economiche lo permettevano,

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era il nonno paterno, a pagare e mantenere il nipote, orfano di

padre, a studiare consentendogli di riuscire nella vita in maniera

egregia.

Questa solidarietà fino a quando uno dei figli, ormai adulto,

prendeva in mano la situazione familiare.

I ragazzi dovevano andare a lavorare per aiutare la mamma;

andavano a “garzuni”cioè a servire chi si poteva permettere di

mantenere avere un servo alle proprie dipendenze.

Qui si eseguivano tutti tipi di lavori, anche quelli pesanti.

Accudire alle bestie nelle stalle, condurre le pecore al pascolo

d'inverno con la pioggia che entrava nelle ossa, d'estate con la

calura che scioglieva le pietre; tutto questo minava la salute dei

ragazzi fin da piccoli, le conseguenze si vedevano da grandi

quando si ritrovavano con bronchiti e dolori, spesso si vedevano

in giro “cu lu immu” con il gibbo oppure con una struttura ossea

deformata e carente.

A volte venivano presi a buon cuore dal padrone che li destinava

ai bisogni della casa, ai lavori domestici, a fare i servizi esterni;

in questo caso conducevano una vita discretamente agiata e la

continuavano fino a che decidevano di sposarsi e farsi una

famiglia propria.

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Lu Sartu (Il Sarto)

Quando in famiglia il padre guadagnava sufficientemente da non

avere problemi finanziari qualche ragazzo o qualche ragazza, non

tutti ma chi lo poteva, venivano mandati presso la bottega di un

artigiano ad imparare un‟arte.

Le ragazze potevano accedere solamente dalla sarta, mentre i

ragazzi avevano tante possibilità di scelta.

Molti erano gli artigiani sarti che lavoravano in paese: si pensi che

allora non esistevano i vestiti preconfezionati in serie, sia per gli

uomini che per le donne, tutto veniva confezionato a mano, perfino

i calzini, i guanti, i berretti, maglie e quant'altro veniva indossato,

sia d'inverno che d'estate.

Le nostre nonne erano delle vere artiste nel lavorare ai ferri

riciclando il riciclabile fino alla consunzione del filo di lana.

Fin da piccole imparavano a lavorare “a li uglioli” e

“all‟unginettu” dalle loro mamme che a loro volta l‟avevano

imparato dalle rispettive, secondo una tradizione secolare.

Per i vestiti, le giacche, i pantaloni, le camicie, si ricorreva “a lu

sartu.”

La bottega del sarto era quasi sempre collocata nella stessa casa di

abitazione dell'artigiano titolate,o in un locale attiguo alla propria

casa.

Un luogo sempre in ordine, pulito, con alle pareti foto di figurini e

mostre di modelli di vestiti, di cappotti, di giacche, di pantaloni; in

un angolo un guardaroba per la conservazione dei vestiti finiti e

delle stoffe buone; non tutti i sarti si potevano permettere di tenere in

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casa delle pezze di stoffa da vendere ai clienti benestanti, allora si

andava a comprare la stoffa dal rivenditore “lu panieri” ed ogni

quartiere ne aveva uno o due, addirittura qualcuno oltre ad avere un

negozietto a cui accudiva tutta la famiglia, andava per le strade con

l'asinello carico di pezze di stoffa; vendeva la propria mercanzia

gridando e squarcia gola e contrattando sul prezzo, giurando sempre

che non ci guadagnava nulla anzi ci perdeva e che stava facendo un

favore a chi comprava.

Entrati nella bottega (“putia”) del sarto subito l'attenzione era

attratta dall‟immenso tavolo da lavoro (“lu banconi”) che

troneggiava in un lato o di fronte di che entrava; sopra c'erano delle

grosse forbici, una lunga riga, la squadra, fili di tanti colori e forme

(“li rutina cu lu filu” ), in un angolo del tavolo c'era un grosso ferro

da stiro riscaldato a carbonella, pezzi di stoffa da imbastire; sempre

rivolta verso la luce del sole (la luce elettrica costava) ed orgoglio

del padrone, la macchina da cucire, strumento indispensabile per

sbrigarsi nei lavori, sempre lucida e ben oleata.

Vicino alle pareti, ma un poco distante dal bancone, delle sedie

per potere lavorare seduti e per permettere agli ospiti, sempre

presenti, di riposarsi e potere “sparlare”meglio.

L'usanza di andare a sedersi a la putia di lu sartu, come di lu

scarparu o di lu firraru, era molto diffusa.

Non avendo lavoro perchè questo scarseggiava o per le cattive

condizioni atmosferiche non si poteva andare a lavorare; stare a casa

era una noia e le giornate non passavano mai, allora non c'era altro

svago se non quello di andare a sedersi a la putia di l'amicu scarparu,

firraru, o sartu.

La bottega del sarto era il posto ideale per tenersi aggiornati su

tutto quello che succedeva in paese: nascite, battesimi, matrimoni,

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fujitini, corna, morti, pettegolezzi di tutti i generi erano trattati,

analizzati, commentati e divulgati,con qualche piccola aggiunta

sempre più piccante.

Lu mastru, seduto con in mano la parte più importante del lavoro,

era circondato dai “giuvani”, apprendisti sarti che imparavano il

mestiere e nel contempo lavoravano gratis per il padrone dalla

mattina alla sera tardi con la pausa di mezzo giorno.

Gli apprendisti erano ragazzi che da anni andavano ed

imparavano il mestiere; molto spesso se ne incontrava qualcuno

che ne sapeva quanto il maestro, forse anche di più perchè dotato di

qualcosa che certi maestri non avevano: la fantasia.

I giovani “mastri” stavano col maestro fino a quando questi non

dichiarava che potevano andarsene per conto loro e che erano

all'altezza di aprire da soli bottega, fino ad allora stavano a lavorare

per il padrone senza averne in cambio nulla se non l'insegnamento.

Spesso si verificava che lo “sfruttatore”teneva per due o tre anni in

bottega il giovane maturo ed in cambio gli permetteva di potersi fare

qualche lavoretto privato utilizzando gli strumenti della bottega.

Quanto accadeva presso la bottega del sarto uomo, accadeva pure

nella bottega della sarta do‟na.

Che abiti, che cappotti venivano fuori da quei bugigattoli messi a

nuovo! Indossati erano così perfetti che “vesti zuccuni ca pari

baruni” cambiava la personalità di una persona; erano capolavori

veri e propri, le giacche erano fatte così perfette che sembrava un

tutt'uno con chi le indossava dandogli un aspetto signorile e di una

infinita eleganza.

Certo non era di tutti farsi un vestito o un cappotto nuovo, c'era

una spesa da sostenere ed i soldi erano scarsi; allora, man mano che

le esigenze dei ragazzi aumentavano, si ricorreva agli indumenti dei

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fratelli più grandi, o sorella maggiore; portandoli alla sartoria e si

facevano rivoltare e rimettere a taglio, cioè si adattavano alle nuove

esigenze utilizzando la parte interna della stoffa che non era stata

mai usata.

Lu mastru era sempre vestito bene, magari utilizzando il metodo

del “rivolto “ma agli occhi di chi entrava era sempre impeccabile,

pulito e servizievole.

Il pavimento era tenuto sempre pulito; questo compito spettava al

giovane ultimo arrivato, che non sapendo ancora fare “lu

supramanu”, (cucitura per imparare a tenere l'ago fra le dita), si

dedicava alla pulizia e spesso a recuperare i lunghi fili che tolta

l'imbastitura dal vestito si potevano riutilizzare.

Una volta ultimato un lavoro era costume che il sarto lo mandava

direttamente a casa del cliente.

Questo piacevole compito veniva affidato quasi sempre al

giovane apprendista, che riceveva una ricompensa dal ricevente,

qualche monetina o qualche dolce da mangiare.

Il lavoro della sartoria si svolgeva all'interno della bottega, ma

durante l'estate, col sole che faceva sudare, in casa non si poteva

stare; allora tutti si spostavano all'esterno davanti la porta, col

maestro al centro ed i giovani apprendisti tutti attorno.

Era uno spettacolo, tutti a chiacchierare, chi passava si fermava e

raccontava qualche novità, oppure si aggiornava di qualche “ntisi diri

ca... veru è?”

Anche nelle botteghe femminili si mettevano un poco all'esterno

(mezzi d'intra e mezzi di fora); allora si assisteva ad un vai e vieni di

giovanotti, piccoli gioiosi gruppetti in cerca di fidanzatina, che

passavano e ripassavano da quella strada guardando insistentemente

tra le numerose apprendiste che tutto facevano meno che lavorare.

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Avevano gli occhi sempre in giro, mentre con le loro delicate

mani passavano il filo ad un pezzo di stoffa; chiacchieravano e

ridevano più o meno forte, al passaggio dei giovanotti (questo era

una delle poche occasioni che i ragazzi avevano per potersi vedere e

incontrare i loro ingenui dolci sguardi).

Quanta tenerezza, quanta ingenuità, quanta bellezza,quanta

naturalezza in quegli sguardi: c'era la vita, c'era l'amore!

Molti amori si concludevano in maniera positiva; altri, tanti altri,

restavano solamente un ricordo di gioventù, il ricordo del visino di

una bella sartina.

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Lu Vanniaturi (Il Banditore)

Tutti i giorni verso le sette di mattina l'aria circostante si

riempiva di una voce, a volte forte a volte meno forte spesso, ma

non sempre, preceduta da qualche rullo di tamburo; la voce, con

tono molto alto, annunciava qualche notizia alla popolazione: era

la voce di “lu vanniaturi”.

Quasi sempre la stessa persona; ogni tanto tale attività veniva

esercitata da qualche sostituto o da qualche persona venuta da

altro paese.

Se la notizia da divulgare era molto importante il bando era

preceduto da rulli di tamburo, eseguiti con maestria da “lu

tammurinaru”.

Spesso era il Municipio che metteva al corrente la cittadinanza

di notizie o di ordinanze, allora il bando iniziava con una frase

che all‟udirla la gente poneva tanta attenzione: “cumannu e

cuma‟namentu...pi ordini di lu Si‟nacu...” e seguiva il messaggio.

Dalle finestre si vedevano spuntare le teste delle donne che con

tanta curiosità si affacciavano per sentire meglio l‟ordinanza o la

comunicazione; non avevano la possibilità di accedere alle

notizie diffuse mediante manifesti perché, i pochi bandi affissi ai

muri potevano essere letti da coloro che avevano la possibilità di

andare a passeggiare in piazza, luogo in cui venivano per la

maggior parte affissi i manifesti.

Gli uomini erano, nella quasi totalità a lavorare; la sera al

ritorno a casa erano tanto stanchi che non avevano nessuna voglia

di andare in piazza a passeggiare, se non per importante

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necessità.

Le persone si affacciavano, si mettevano davanti la porta, per

sentire meglio; frotte, sempre numerose, di ragazzi vocianti

seguivano il banditore per le strade cessando di imitarlo e dargli

fastidio appena iniziava il bando; ogni tanto, i più birbantelli

tanto molestavano il banditore e il tamburino da costringendoli a

prendere sassi da terra... e ce n'erano tanti ... per lanciarli verso i

ragazzi che scappavano da tutte le direzioni”.

Questi erano i bandi che si sentivano più frequentemente ed a

cui ormai la popolazione era tanto abituata a sentire da capirne il

contenuto alle prime parole pronunciate: “arrivà la piscami” -

“sardi e cu voli sardi frischi”-“fragaglia frisca e bbona --

”ammari, mirluzzeddi e pisci palummu” quando in piazza

arrivava il pescivendolo; “a lu scaru arrivaru li patati, li puma, li

pira, li milinciani, li cacocciuli “quando arrivava frutta e

verdura”;“a lu fu‟nacu robbi e cazetti americani novi novi...

arrivaru ora ora” quando al fondaco arrivavano le prime calze da

do‟na in nylon, tessuti provenienti dall‟USA, pezzi di stoffe di

qualsiasi genere provenienti da chissà dove.

Questa nenia si sentiva ogni mattina, per le strade del paese, in

tutti gli incroci delle strade; era l'unica maniera per mettere al

corrente la popolazione delle novità e degli arrivi commerciali.

Anche i privati ricorrevano a questo mezzo di comunicazione

quando avevano qualcosa di serio da comunicare.

“A lu 'gnuri Turiddu cci scappà la mula...si quarcunu l'ha vistu

ci lu dicissi...ca sarà ricumpinsatu bonu...”; “lu zì Nardu s‟avà

livari la putia… sbinni tutti cosi a mità prezzu…curriti curriti…”

“Lu vanniaturi”, umile figura che sa secoli calpestava tutte le

strade del paese per mettere al corrente i cittadini delle novità,

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delle comunicazioni, di tutto ciò che poteva essere utile alla

collettività.

Vestito di umili indumenti, con le tasche sempre piene di

pezzetti di pane che qualcuno gli regalava; con in mano un

bastone per appoggiarsi ed evitare gli scivoloni tra le centinaia di

pozzanghere sparse in tutte le strade, ma anche per difendersi dai

numerosi cani randagi che circolavano continuamente per le

strade; con quella sua mano sempre posta sull‟orecchio a fargli

da cassa armonica onde evitare stonamenti nel suo bandire; Lui

ignorante e analfabeta, tanto da non sapere mettere il segno della

croce all‟occorrenza; Lui modestissimo personaggio che

assolveva un importante ruolo d‟informazione nella società.

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La Nuvena di Natali (La Novena di Natale)

Gradevole, piacevole, dormire sotto le coperte nelle notti

d'inverno con temperature esterne che ti ghiacciano le mani, il

naso, il viso; ancora più bello quando il dolce sonno viene

interrotto da una flebile, lenta nenia lontana, che ti fa tendere

l'orecchio ma ti dà fastidio metterlo fuori dalle coperte per non

uscire da quel primordiale, familiare, protettore calduccio; ti

sforzi a seguire quella dolce nenia che da lontano si avvicina

piano piano, con note sempre più distinte ed accarezzevoli; ad

intervalli regolari, tra le note si sente un tintinnio metallico che a

ritmo costante sembra scandire il tempo alla melodiosa musica

della “ciaramedda”.

Quel pensiero mi emoziona mi fa sentire fragile e debole,mi

riempie di allegra tristezza, di bontà... di amore!

Sono circa le quattro del mattino quando quella dolce nenia ti

riportava alla fredda realtà invernale, cominciava a spandere

nell'aria un'atmosfera natalizia,... invitando i buoni cristiani a

preparare la venuta del bambinello Gesù.

Alla ni‟na na‟na della ciaramedda (cornamusa) facevano eco

le campane della chiesa che avvisavano i fedeli l'inizio della

funzione religiosa: “la Nuvena di Natali”.

Iniziava il 16 Dicembre e per nove giorni, tutte le mattine, alle

ore cinque, in chiesa si celebrava “la santa novena”.

Bastava dare uno sguardo da dietro il vetro della finestra per

vedere le persone, nel buio della notte rischiarato da quella

flebile lampadina elettrica che squarciava il tetro buio,

imbacuccate nei loro scialle sempre neri, correre verso la chiesa.

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La maggioranza erano donne anziane con il loro “tancinu”,

piccolo recipiente pieno di tizzoni ardenti (scaldino), sotto lo

scialle, stringendosi a se stesse, andavano con passo svelto; con

loro spesso si vedevano uomini con la sedia in mano,

accompagnavano alle funzioni la moglie, a volte la famiglia.

Non era raro, anzi... trovare davanti la cancellata della chiesa

legati con le redini al cancello, dei muli: qualche devoto

contadino prima di andare a lavorare i campi assisteva alla

sacra funzione.

Quei fagotti neri raggomitolati in se stessi spuntavano dal buio

delle strade molto velocemente e così svanivano in lontananza in

direzione delle chiesa!

La nenia si faceva sempre più vicina, la musica, incessante

quasi prepotente, accompagnata dal suo “acciarino”, lasciava

volare nell'aria in alto...sempre più in alto le sue melodiose note,

quasi a volere che qualcuno lassù le sentisse e se ne godesse.

Nel giro di pochi minuti la chiesa era piena di fedeli,molte

persone si sedevano nei banchi di legno che si trovavano già in

chiesa, altre nelle sedie che una vecchietta metteva a disposizione

dei convenuti in cambio di una piccola offerta che le consentiva

di vivere, tanti altri,specie gli uomini, in piedi nelle due navate

laterali.

Molti erano i giovanotti che approfittando delle funzioni

religiose si recavano in chiesa per guardare da lontano qualche

ragazza, che sotto gli occhi vigili della madre sempre attenta ai

movimenti della figlia, ricambiava sguardi amorosi e cenni

impercettibili con qualche giovanotto.

Le funzioni erano seguite con grande devozione ed alle

preghiere si alternava qualche canto natalizio; chi faceva la

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grande parte era “la ciaramedda e l'acciarino” che riempivano di

note melodiose e piacevoli le grandi arcate della chiesa ed

accarezzavano le orecchie di tutti quei fedeli che, molto

coraggiosamente, avevano lasciato quel piacevole calduccio del

proprio letto per i‟nalzare al cielo una preghiera ed...una ni‟na

na‟na.

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Natali

L'atmosfera era quella che prelude la venuta in terra del

Salvatore; tutto aveva un mistero di bontà, di sincerità, di affetto;

le stesse persone che qualche tempo prima ti sembravano essere

burbere e autoritarie adesso davano l'impressione di essere

cambiate in meglio sembravano più alla buona, più umane con il

prossimo; questa era l'impressione che facevano, alla sensibilità

di un ragazzo. Le famiglie si preparavano a mettere insieme un

pranzetto all'altezza della ricorrenza; quelli che avevano la figlia

fidanzata in casa dovevano ospitare la famiglia del fidanzato

cercando di mettere sulla tavola natalizia il meglio che avevano;

si andava spesso dalla parente o dalla vicina per avere in prestito

i piatti, i bicchieri, la tovaglia buona.

Tutto il possibile veniva fatto, per apparire agli occhi degli

altri meglio e di fonte al Redentore più buoni.

Nell'aria era un continuo suono di campane, ora quelle della

chiesa madre ora quelle del convento, ora quelle del carmine.

Le campane instancabili ricordavano agli uomini di buona

volontà che si appressava il tempo della nascita di

Gesù...prepariamo la strada al Signore. Nelle Chiese era un

continuo fermento di persone, un continuo entra ed esci sempre

indaffarati a preparare, organizzare, celebrare.

I preti avevano il loro da fare con le funzioni continue da

celebrare nelle chiese alle centinaia di fedeli che si accalcavano

riempiendo le navate fino all'inverosimile.

Gente di tutte le estrazioni sociali era ad assistere alle funzioni;

quelle più nobili ed altolocate stavano sedute nelle prime file,

man mano fino ai più umili in piedi o nelle sedie che si portavano

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da casa.

I ragazzi a frotte di decine correvano e vociavano davanti la

chiesa, giocando “a la strummula”, “a li liscira”, “a li sordi”, “a

turnachettu”, “a saita la cerba”, noncuranti che indossavano il

vestito buono della festa, spesso appartenuto al fratello maggiore

e che la mamma teneva da parte, sempre perfetto, pulito e

stirato, in attesa delle Festa.

Finita la Santa Messa quasi nessuna do‟na si vedeva per le

strade, tutti erano indaffarate a preparate il pranzo di Natale.

Gli uomini accudivano le bestie nelle stalle e poi facevano

qualche passeggiata in piazza, “tisi” e vestiti con gli abiti della

festa.

I ragazzi a vociare per le strade giocando; i più grandicelli a

giocarsi quelle poche lire della “fera” (regalino in soldi) che i

genitori o i nonni gli avevano regalato non senza sacrificio.

Era bello, bellissimo, inimmaginabile, per chi non l'ha provato;

tantissimi i sentimenti di affetto, di unione, di rispetto che

riempivano i cuori in quei giorni di Festa...

Si visitavano tutti i parenti incominciando dai nonni, per finire

agli zii tutti, non con lo scopo di avere in regalo qualche

monetina, che era bene accetta, ma per dovere, sentimento che si

coltivava fin da piccoli spinti dall‟esempio che i genitori davano.

La famiglia quasi sempre si riuniva presso la casa di “lu

Nannu” paterno “nta la casa granni di lu papà”,ove per qual

giorno era Festa grande.

Figli, nipoti, nuore e generi, a volte anche i genitori del genero

o della nuora, che si trovavano soli, qualche fratello o sorella del

nonno non sposatisi facevano parte della famiglia e trattati con

rispetto.

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Era una confusione di persone; gli uomini si riunivano in una

stanzetta o in un angolo della casa a chiacchierare, mentre il

vociare e il rumore delle pentole e delle posate riempiva la casa.

“Talia si ssù sucu è bbonu... vidica la sazizza è

pronta...arrimina la carni ca s‟appiglia.. li patati ..li patati... metti

li ligna sutta la tannura...troppu fumu cc'è....” dolce melodia di

parole e toni di voci che tutt'ora echeggiano nelle orecchie e che,

non nego, mi fanno sentire un leggero magone alla gola, specie se

la fantasia dei ricordi accoppia voci e immagini...

In mezzo alla stanza più grande c'era preparata una grande

mensa,spesso formata da due tavoli collegati, il tutto coperto

dalle più bella tovaglia dotale custodita con cura, posate buone,

bicchieri presi per l‟occasione dalla vetrinetta, dava l'impressione

di una lunga e grande tavola medioevale come si vedevano ogni

tanto nei film al cinematografo.

Non tutte le tavole erano così imbandite ne tutti i pranzi

natalizi erano succulenti e ricchi.

La maggior quantità erano poveri pasti con una o due portate

messe assieme dalla modestia e dai sacrifici della do‟na di casa,

spesso in difficoltà per la scarsezza di denari.

Per Natale si facevano i regali e molti nonni e papà preferivano

regalare qualche monetina al posto della fastidiosa ricerca dei

regali, che tra l'altro non era facile reperire.

Per i ragazzi era una delle poche occasioni in cui potevano

avere dei soldi; chi andava in bottega a comprare qualche

caramella... chi andava a conservarli “nni lu caruseddu”

(salvadenaro di creta cotta).. chi, purtroppo, andava negli angoli

delle piazze a giocarseli a “testa e littra”, “a spacca maduni”, “a

la riga”, “a zicchittuni”, “a lu zuzzu”, “a lu turnachettu”, spesso

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perdendoli a favore di altri sempre più svegli, più scaltri, più

fortunati e... più bravi.

A seguire le feste natalizie comprendevano il passaggio

dall'anno vecchio all'anno nuovo; “lu capu d'annu”.

Il bello di questa festa era racchiuso nel passaggio notturno dal

31 di Dicembre al 1° di Ge‟naio.

Chi riusciva a resistere al sonno, sempre traditore in quelle

occasioni, poteva sentire qualche colpo di fucile o di pistola che

salutava l'arrivo del nuovo e la fine del vecchio anno.

Era tradizione buttare fuori dalla finestra qualche cosa di

vecchio e di rotto. Durante l'anno nella famiglia si rompeva

qualche suppellettile o qualche piatto; allora si metteva da parte

“pi lu capud'annu” e in quella notte, proprio allo scoccare della

mezzanotte, assieme agli spari si sentiva rumore di piatti infranti,

di “cicara” che si frantumava definitivamente per la strada; non

erano troppi i rumori di questa natura, ma quei pochi bastavano a

buttare via tutto il negativo che era avvenuto durante il vecchio

anno con l‟augurio che quello nuovo poteva portare tanta fortuna.

A portarsi via tutte le feste natalizie l'Epifania, festeggiata

prevalentemente in chiesa in ricordo della visita, dei Re sapienti,

a Gesù nella stalla di Betlemme. Questa ricorrenza era

prevalentemente una festa religiosa, ma era anche l‟occasione di

un‟ultima mangiata assieme a tutta la famiglia.

Per le famiglie benestanti era una occasione per fare un

regalino ai bambini; per molte altre solamente un giorno festivo e

null‟altro.

Certi bambini aspettavano un anno, condizionando spesso le

loro azioni, l‟arrivo della Befana; infatti quando facevano i

capricci molte persone erano soliti dire: “vidi ca nenti ti porta la

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Befana”.

Chi se lo poteva permettere ed aveva i mezzi sufficienti

festeggiava la Befana. Raffigurata da una vecchia e brutta

strega che, cavalcando una scopa volante, portava regalini ai

bambini buoni ed ubbidienti; li depositava dentro una capiente

calza, appesa e preparata il giorno prima dalla mamma, il

regalino se erano stati buoni durante l‟anno, oppure dei pezzi di

carbone in caso contrario.

La befana portava con sé tutte le feste natalizie; tutte le cose

buone che solamente nel periodo natalizio si potevano

permettere; la grande opportunità di avere dei bei regali assieme

ai soldi, sempre bene accetti dai ragazzi; tutto finiva, restava

solamente il ricordo di quello che era stato, ma già

s‟incominciava a contare i giorni che mancavano per la prossima

occasione.

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Lu Canciacapiddi (Il cambia capelli)

Un personaggio che ogni tanto mi ritorna alla mente e che, alla

luce di oggi, mi accorgo quanta povertà,quanta miseria, quanto

bisogno, c'era nelle famiglie, è un personaggio al di fuori del

tempo, di fuori di ogni realtà, tutto fantastico, che solamente la

grande necessità di guadagnare per mangiare restando nella

legalità, un ingegnoso cervello, poteva inventare: “lu cancia

capiddi”. Ogni tanto, una volta al mese anche due a volte, per le strade

del paese si sentiva una voce gridare, sempre maschile e per quel

che mi ricordo sempre le due stesse persone, alternandosi oppure

dividendosi il paese in due: “cu avi capiddi vi li canciu...cu avi

capiiiddi”… “lu cancia capiddi…”

Con passo calmo, con un sacco sulla spalla e un contenitore,

legato con lo spago a mo di pacchetto, in mano, quel signore

“vanniava”; ogni tanto qualche do‟na (sempre donne sposate o

anziane perchè le ragazze si vergognavano oppure non era loro

permesso affacciarsi e parlare con estranei) lo chiamava “..a

bbossia.. a bbossia, cancia capiddi...” il signore si avvicinata

all'uscio della porta e la do‟na “mezza d'intra e mezza di fòra”

usciva dalla tasca di “lu faidali” (grembiule) un pugno pieno di

capelli arrotolati tra di loro ad anellini di varie misure.

Erano i capelli che alle donne, con i capelli sempre lunghi,

restavano in mano quando si pettinavano.

La mattina appena alzati e spesso la sera prima di andare a

dormire si pettinavano i lunghi capelli che non tagliavano quasi

mai, solo in certe occasioni.

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Tra quelli che si spezzavano e quelli che cadevano

naturalmente restavano in mano dei piccoli ciuffeti di capelli;

questi non venivano buttati bensì arrotolati in un dito e poi

deposti in un buchetto del muro o in un contenitore.

Oggi...domani...poi... i ciuffetti si facevano tanti e venivano

presi proprio quando passava “lu cancia capiddi”.

“Chi mi duna cu sti capiddi ?”

“Chi avi bbisognu Vossia ?”

Mentre il signore metteva nel sacco il gomitolo di capelli la

signora chiedeva ciò di cui abbisognava: “ugli pi

cusiri...tomatici… pumetta pi cammisi...filu pi cusiri...”.

A seconda della quantità dei capelli il commerciante dava ciò

che si chiedeva, non tutto naturalmente, ma accontentava sempre

le persone che con quel piccolo commercio di capelli aiutavano

al far bisogno della famiglia e risparmiavano qualcosa che

altrimenti dovevano necessariamente comperare.

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‘na lu paisi e ‘na la campagna (Nel paese e nella campagna)

In quel periodo le piogge ed il maltempo la facevano da

padrone.

Iniziavano ad Ottobre e fino a Marzo era un serio problema.

Sette, otto ed anche più giorni sempre maltempo; pioggia,

vento, freddo, in continuazione; “inchi e addrivaca”, si diceva

perchè a breve pause di sereno seguiva acqua abbondante e

continua.

Le strade del paese erano un pantano; la Salita Regina Elena,

iniziando da “San Gaetano”e fino a sotto il “mulino di l'acqua”,

era un torrente in piena; a tratti anche profondo ed impossibile

da passare; dalla “scalunata” scendeva una grande quantità

d'acqua che impediva ogni piccolo spostamento,neanche tramite

quadrupedi.

Lo stesso per la Salita Matrice fino a “lu Canaleddu” e oltre.

Anche da San Gaetano si riversava una grande quantità di

acqua piovana in direzione del Largo Prato verso “Canalaro”e il

ponte di “Patri Vicè”.

L‟attuale villa comunale allora non esisteva, al suo posto c'era

una vallata, profonda oltre dieci metri, che raccoglieva tutta

l'acqua che proveniente dal paese alto.

La piazza Largo Prato, ove oggi sorge il poliambulatorio, era

percorsa per tutta la sua lunghezza da un “vadduni funnutu”;

raccoglieva le acque di mezzo paese.

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Al posto della cancellata della villa comunale c'era un grande e

profondo ponte, “lu ponti granni” sopra cui passava la Statale

118; il vallone di “Canalaru” tutt'ora esistente ci può dare un'idea

di quello che era “lu ponti granni” e la portata d'acqua che aveva.

Dalla statale 118 si entrava al Paese, per chi veniva da

Agrigento; circa un chilometro prima di arrivare a “lu ponti

granni” si incontrava “lu ponti di Patri Vicè”, altro ponte

notissimo ai cittadini per essere stato luogo di fatti e racconti veri

e fantasiosi, il cui sottopassaggio era tanto alto ed ampio

(trazzera regia) da permettere il transito delle persone a cavallo ai

muli; tale trazzera conduceva al paese di Cattolica Eraclea e

attraversava “tuttu lu feu di lu Cavaddu” unico feudo

appartenente all'agro di Cianciana.

Tutto era fermo in quei giorni freddi e piovosi d'inverno, in

particolare i lavori nei campi.

A settembre, tempo permettendo, si incominciava a preparare

la terra per le semine.

Si lavorava con la zappa o con l'aratro, per chi non possedeva

un aratro, che doveva essere trainato da muli e non tutti

possedevano animali, poteva prenderlo in affitto con tutto il

proprietario che eseguiva il lavoro di aratura dietro pagamento

spesso in frumento o fave, all'atto della raccolta.

Secondo la coltura da collocare nella terra la zappa o l'aratro

non erano sufficienti allora si lavorava la terra col piccone

rivoltandola fino a circa quaranta centimetri di profondità; era

un lavoro massacrante e la resa poca; si utilizzavano quattro

cinque anche più persone che messe uno accanto all'altro

“scatinavanu lu tirrenu”.

Era uno spettacolo di fatica e di durezza ma “lu pani era duci e

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la famiglia avia mangiari”.

Dopo qualche oretta di lavoro il sudore inzuppava la camicia,

allora si lavorava a dorso nudo (lu scatinamentu si eseguiva nei

mesi di Settembre - Ottobre - dalle nostre parti fa ancora caldo)

mettendo in evidenza corpi scarni ma muscolosi; si potevano

contare le ossa e le grosse vene che con l'eccessivo sforzo ed il

sudore si gonfiavano e si mettevano maggiormente in evidenza.

Appena il tempo si metteva al bello la terra scaricava l'acqua

ricevuta ed il vento ne asciugava la crosta permettendo, allora, di

lavorarla.

I contadini subito si affrettavano a seminare i prodotti tipici

della nostra tradizione ed adatti alla nostra terra: fave e

frumento, qualche volta orzo o ceci.

In tutte le parti del Paese, in tutte le strade era un continuo

fermento; centinaia e centinaia di muli, cavalli, asini, che per

tutto il periodo delle piogge si erano riposati stando nella stalla a

mangiare e dormire, venivano preparati con le loro some “li

sidduna” su cui si legavano le sementi e gli strumenti utili per la

semina.

A completare la preparazione per la partenza il solito cane, che

sul posto di lavoro faceva “la guardia a la robba” in compagnia

di una capretta, che produceva il latte per la famiglia.

Il correre, l'abbaiare dei cani, il rumore degli zoccoli ed il

conversare dei contadini, svegliavano tutto il vicinato, sì che

quasi tutto il Paese era sveglio con le stelle ancora in cielo ed un

tenue chiarore all'orizzonte.

Tutte le uscite del Paese, verso tutte le direzioni che lo

circondavano, erano un continuo esodo di animali e di persone;

centinaia, qualche migliaio certamente, erano in cammino in

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direzione diverse: “pi jiri a siminari”.

In qualsiasi direzione in qualsiasi appezzamento di terra,sia

esso grande che piccolo, era un continuo movimento di persone e

di animali; “areccììì” - “tiràti beddi meee”-“a la voccaaa” spesso

non avevano significato quelle frasi gridate con musicale

cantilena dai contadini, ma erano riconosciute dall'animale e

sufficienti per spronarlo a mettere più forza nel trainare l'aratro,

mentre dietro di lui un altro operaio, seguendo la scia lasciata

dall'aratro (lu surcu) lasciava cadere con competenza e sapienza

il prezioso seme.

Tanti i canti ad alta o a bassa voce le cui cadenzate e

melodiose note accarezzavano l'orecchio di chi ascoltava e

ritmavano il lavoro del bracciante che con la zappa, spesso in

compagnia di qualche altro collega, seminava la terra,con nel

cuore la speranza mista ad una preghiera che ogni chicco

seminato darà dieci, cento, tanto da potere pagare le spese e

restare il sufficiente per sfamare la propria famiglia.

Fave, frumento, prezioso cibo per le famiglie, se ne

aspettavano sei di mesi per la maturità e la raccolta.

Durante questo tempo non si stava con le mani in mano, la

campagna aveva sempre tante necessità.

Seduti in un angolo della casa oppure nel davanzale della stalla

si procedeva alla fabbricazione delle “liame” ciuffi d'erba (disa)

molto lunghi e duttili tali da potersi legare tra di loro formando

una specie di corda con cui legare “la gregna” (il covone di

grano mietuto), per essere trasportato, in seguito, alla successiva

lavorazione.

Si costruivano o si riparavano “li zimmila”, “li

zimmiledda”,”li coffi”, contenitori di materiale naturale

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intrecciato da mani esperte, molto in uso per trasportare il

concime stallatico o quant'altro.

Si costruivano o si riparavano “li carteddi”, “li panara”, con

manici o senza, altro tipo di contenitore, fatto sempre a mano

utilizzando strisce di ca‟na e virgulti (jttuna) d'olivo.

Revisionavano e mettevano a punto li zappuna, li capistri, li

retini, li sidduna e li jughi pi li muli e li scecchi; la vardedda e la

sedda pi li jiumenti e pi li cavaddi; affilavano e oliavano li

sirracula e li forbici pi putari, preparavano lu pignateddu cu la

pici nivura, pi nnistari.

Non finivano mai di lavorare, quando sembrava avere

terminato se ne presentavano altri, non meno importanti dei

primi.

Febbraio “lu friddu di Frivaru si mpila intra lu cornu di lu vò!”

si era soliti ripetere; i contadini se ne stavano a casa, imbacuccati

nei lori lunghi e sempre neri scialle, accanto al braciere (spesso al

posto del braciere veniva utilizzato qualche vecchio contenitore

in disuso).

Fuori il freddo, il vento, la pioggia la facevano da padrone;

per le strade non si sentiva nessun rumore, solo il continuo,

incessante rumore dell'acqua che cadeva dai tetti “di li canala”,

finendo immancabilmente quasi al centro della strada dando

origine ad un torrentello spesso impetuoso (lo scarico delle acqua

nelle fogne era inesistente, tutto ciò che cadeva per terra scorreva

in maniera naturale per scivolamento o infiltrazione nella terra).

Arriva Marzo (“Marzu ogni troffa è jiazzu”) la natura si

risveglia si veste si imbellisce e si prepara a ripetere il

meraviglioso miracolo della nascita della vita e della

riproduzione.

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Si termina la potatura degli alberi che già danno segni di

avanzato risveglio; si tolgono i tralci selvatici dalle vigne,

legando i teneri tralci in maniera che il vento non li faccia cadere;

si passa una spolverata di zolfo sulle foglie, “si vò viviri vinu... a

Marzu la forbicia mmanu”; si innestano il mandorlo e le tante

altre specie di frutto, ed infine si raccoglievano gli scarti della

potatura, cioè “li rami” e li si legavano, “cu li liami”, in fasci

pronti ad essere utilizzati per accendere il fuoco e cuocere i cibi

nelle cucine di casa.

Le piante del frumento e delle fave, ormai grandicelle,

avevano necessità di essere liberate dalle erbe infestati e parassite

(la Jina, li lassani, la spatulidda, la spiredda,) lavoro questo in cui

si vedevano tra i campi anche le mogli dei mezzadri e dei

braccianti (le donne ciancianesi per tradizione locale stavano a

casa e molto raramente andavano a lavorare nei campi se non per

assoluto bisogno), estirpavano le piante parassite utilizzando una

piccola e leggera zappetta con il manico lungo, “la zappudda”, o

addirittura con le mani lasciando tutte le sostanze della terra alla

coltura voluta; con le mani che per molto tempo rimanevano

“lordi e ngrasciati” di un colore nero-verde.

La terra si presentava soffice e molto buona da lavorare; con

la zappa allora si procedeva a dare una zappata alle fave

liberandole dalle erbe infestanti e ad incappucciare le piccole

piantine per proteggerle da qualche violento colpo di vento o

dalle micidiali gelate mattutine.

La produzione delle fave era importantissima; venivano usate

per darle da mangiare agli animali, venivano usate anche come

cibo per le persone preparandole in diverse maniere, il più si

vendeva per “pagari li spisi”.

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Tradizionalmente la fava era il prodotto più coltivato, dopo il

frumento, nelle nostre terre che si adattavano in maniera egregia

al far bisogno nutrizionale di queste piantine; dopo il frumento le

fave era il prodotto più diffuso.

Aprile si continuava nella pulizia dei campi ed in particolare

alla potatura degli ulivi da cui si ricava l'olio, prodotto nutriente e

genuino, importantissimo nella dieta giornaliera; l'olio era molto

apprezzato, usato con parsimonia “priziusu comu l'oru”si era

soliti dire; non tutti lo producevano, si andava a comperarlo alla

bottega con un contenitore adatto, spesso di creta “l'aglialoru”,

guai seri se durante il tragitto, per una scivolata o un urto

involontario, si rompeva, allora erano dolori e “stridor di denti”.

I mandorli, allora in grande quantità nelle nostre terre, erano

tutti in fiore addirittura qualche albero primizio aveva già “li

mennuli virdi” pronti ad essere mangiate, per la gioia dei ragazzi

che a piccole bande andavano nei campi a “rrubbari li mennuli

virdi” facendone incetta con quasi sempre conseguenti dolori allo

stomaco e “cacaruni”.

Arile - Maggio gli alberi da frutta incominciavano la loro

produzione; li panara e li sacchini andavano e venivano dalle

campagne; “a lu Patruni di lu tirrenu, a lu Dutturi, all'Abbucatu, a

lu Professuri, all'Amicu mportanti”; era il tempo di ricompensare

la buona azione ricevuta, ricambiando coi doni di primizie che la

terra, sempre generosa, dava a chi la coltivava con amore.

Si preparava tutto il necessario per raccogliere le fave e il

frumento.

Dopo averle mietute asciugate e “mbasciatu” le fave venivano

portate “nall'aria” uno spiazzale, preparato dal contadino in

precedenza ed usato più volte e da più persone che partecipavano

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alla realizzazione dello stesso; di forma rotonda, realizzato di

proposito in una zona ventosa (molto importante questo), dentro

cui si collocavano i fasci di fave.

Riempita l'aia, si procedeva “a la pisata” facendo correre in

tondo su di essi una due, muli, o cavalli, o asini, o coppie miste,

in modo da schiacciare e fare uscire dai baccelli le fave; dopo ore

di continuo girotondo, da parte delle bestie e della persona che li

guidava, il prodotto veniva separato dallo scarto “spagliannu”;

utilizzando dei forconi di legno veniva buttato all‟aria il materiale

misto, lasciando che il vento, sempre presente nel luogo

appositamente prescelto, portasse lontano dalle fave la paglia,

consegnando al contadino il prodotto pulito e finito, pronto

all'uso.

“A la pisaredda bedda bedda... Arecciiiiii.... sciuscia beddu

miu...!”, le solite cantilene che i contadini gridavano per

accompagnare e sollecitare ora i poveri animali costretti a correre

in tondo per ore ed ore, oppure quasi fosse una preghiera rivolta

al vento affinché soffiasse forte per agevolare la separazione del

prodotto dallo scarto.

Che bellezza vedere “l'aria china di favi “bianche e nere,piatte

e piccole,era mangiari e... benessere!

Il tempo appena di finire con le fave che già un altro prodotto

era pronto per la raccolta.

Arriva Giugno: “faci mpugnu”!

Le grandi distese di spighe gialle già mature e pronte alla

raccolta ondeggiavano alla soffice ed accarezzevole brezza della

sera; il grano era maturo il momento di tirare le somme di una

a‟nata di lavori e sacrifici era arrivato.

Sui gradini della “scalunata” e sopra i due spiazzali di li

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“casotti”alcune decine di “mititura stranii” stavano ad aspettare

che i proprietari li “adduvassiru pi metiri lu lavuri”.

Erano poveri operai di paesi viciniori che non potendo trovare

lavoro nei propri paesi si recavano a piedi nei paesi vicini, con la

speranza di potere lavorare come mietitori e portare un tozzo di

pane alla famiglia.

Erano brave persone ed ottimi operai che facevano i lavori dei

campi con perizia e conoscenza; a questi si univano, quasi

sempre, quelli locali, conoscitori delle contrade e dei posti,

spesso persone di fiducia dei proprietari ed utilizzati anche per

altri lavori durante l'anno.

Vederli lavorare era uno spettacolo: camicia con le maniche

lunghe, cappello di paglia a falda larga in testa, qualche ditale di

ca‟na per proteggere le dita della mano di appoggio e via...sei,

sette operai, uno accanto all'altro; una grande distesa di giallo

grano davanti a loro ed il sole in cielo che “cuciva l'ova”; tutti gli

ingredienti erano lì, per iniziare la giornata di lavoro massacrante

“di lu mitituri”.

La falce roteava con maestria spinta dalla forza di quelle

braccia potenti e laboriose, il braccio sinistro accumulava,

coricato su di esso, il grano mietuto e appena pieno che non ne

poteva più contenere, legato il mazzo con le stesse spighe, veniva

deposto a terra, quel mazzetto era chiamato “manata”; più

manate formavano “un iermitu”, più “iermita” formavano una

“gregna” che veniva allacciata con la “liama” (preparata in

inverno quando pioveva e non si poteva lavorare); ogni sei

“gregni” erano un carico di mula.

La mietitura durava fino a Luglio per poi passare alla fase

della raccolta del frumento vera e propria.

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Le spighe “li gregni”, sempre a dorso di quadrupedi, si

trasportavano nelle aie, come si faceva con le fave; qui venivano

sistemate, tutto a forza di braccia, dentro lo spiazzale una accanto

all‟altra.

Si facevano entrare i muli, o altri quadrupedi adatti a qual

lavoro, guidati da un uomo si incominciava a girare in tondo per

ore e ore.

Guidare gli animali dentro l‟aia era certamente un lavoro

pesante; sotto i raggi cocenti del sole si doveva girare

continuamente su se stessi stando attenti agli animali; non meno

pesante era il lavoro successivo, della divisione del frumento

dalla paglia e dalla pula.

L'artefice principale dello spagliare era il vento, se questo

soffiava in maniera forte si poteva procedere alla pulizia del

grano in maniera spedita, se no si aspettava ore ed ore, mezze

giornate, giornate intere, prima che il vento si mettesse a

“sciusciari”.

Anche se il posto era considerato da sempre ideale per

l‟utilizzo del vento, ogni tanto capitava una totale scomparsa del

vento costringeva gli operai a starsene con le braccia conserte per

tanto tempo, in attesa che il vento riprendesse a soffiare.

Allora incominciavano a bestemmiare, ad imprecare

paurosamente; ogni filo era una trave, tutto andava a rotoli,

“tutticosi a mmia a‟naccapitari... Tutti ì cci li chiantavu li chiova”

la sfiducia incominciava a pervadere l'animo del contadino che

si sentiva abbandonato anche dalle forze superiori.

Bastava che la bonaccia si allontanasse ed il vento

incominciasse a soffiare che subito spazzava via anche i brutti

pensieri del contadino che, presi gli strumenti sempre lì a

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disposizione e facendosi aiutare da qualche lavoratore, iniziava

con rinnovata lena a spagliare buttando col forcone all'aria certe

quantità di paglia miste al prezioso cereale: il frumento.

Giornate intere passavano prima che tutto il prodotto contenuto

nell'aia potesse essere diviso dalla paglia, giornate di duro lavoro

a spagliare ad a crivellare.

Chi aveva tante terre doveva per forza approntare tante aie e di

conseguenza tantissime giornate di pisari e spagliari; due, tre

settimane, prima di finire.

Alla fine il biodo e prezioso frumento era pronto per diventare

prima farina e poi pane.

Il trasporto a casa avveniva a dorso di muli; decine centinaia di

animali che trasportavano “li visazzi” o li sacchi ricolmi di grano

da destinare in parte a pagare le spese, altro per il fabbisogno

della famiglia, portandolo direttamente al mulino, da dove,

all'occorrenza, si poteva ritirare la farina; oppure collocandolo

nelle “fosse” edificate apposta sotto i pavimenti ed atte a

contenere fave e frumento.

Quando il prodotto era particolarmente abbondante veniva

sistemato, a grandi cumuli, in ariosi magazzini, in maniera tale

che il frumento fosse sempre ben areato e non marcisse, pronto

alla commercializzazione.

Nella compra vendita dei prodotti della terra era chiamato

l'esperto “lu mizzanu” che, sempre a contatto con i grossi

commercianti dei grandi centri, stabiliva il prezzo e lo metteva in

circolazione in maniera che tutti gli interessati lo sapessero.

Luglio - Agosto passava nella canicola, all'ombra delle piante

o per chi non aveva una casetta in campagna “„na li pagliata” a

cercare un po di refrigerio gustando i prodotti delle piante; fichi,

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fichidindia, pere, uva, albicocche, prugne, sempre succose,

odorose, dolci.

Gli orti erano nel pieno della produzione; i pomodori, rossi e

pieni di gustoso succo, regalavano tanto buono estratto da

utilizzare quale condimento nei freddi inverni, abbellivano le

tavole col loro intenso colore, accarezzavano il palato

accompagnando un odoroso e gustoso pezzo di pane.

Cocomeri, cetrioli, meloni, angurie, “battagliuna”

contribuivano, con i loro gusti ad arricchire le prelibate insalate,

tanto gradite nelle calde giornate estive.

In questo periodo si procedeva alla raccolta delle mandorle,

molto numerose ed abbondanti nelle nostre terre; lavoro che

richiedeva tanta manodopera e molto tempo, prima di potere

avere il prodotto finito.

“Prina si scutulavanu, pò si cuglivanu, pò si scrucchiulavanu,

pò si scacciavanu, pò s'assiddijvanu e pò si vinnivanu o si

mangiavanu” (questo avveniva molto raramente dato che il

ricavato della vendita dava “„na manu d‟aiutu” a pagare le spese

sostenute e un guadagno al proprietario coltivatore.

La mandorla è stata sempre un prodotto molto apprezzato; la

natura delle nostra terre si prestava molto bene alla loro

coltivazione.

Le nostre zone ne producevano una grande quantità, esportava

tutto il prodotto contribuendo in maniera considerevole al

guadagno dei proprietari.

Settembre era dedicato oltre che al lavoro dei campi alla

raccolta dell'uva, alla vendemmia.

La vendemmia era una festa.

Andare a vendemmiare, per chi aveva la vigna, era un

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divertimento; tutta la famiglia, piccoli e grandi, si recavano in

campagna forniti di “panara”, “carteddi”, “cutedda” e “forfici”.

Si iniziava la raccolta dell‟uva; si faceva molta attenzione a

non ferirsi qualche dito, e facendo attenzione a mettere da parte i

grappoli grossi e belli da portare a casa e fare qualche regalo; una

particolare attenzione era rivolta alla qualità dell‟uva “nzolia”

molto adatta ad essere appesa nei posti molto asciutti ed aerati

per poterla usare nel periodo invernale oltre che utilizzarla come

uva passa “passula” nei dolci che tradizionalmente si facevano in

casa.

Il vociare dei bambini era sempre presente; i richiami delle

mamme, i pianti dei piccoli prepotenti, l‟abbaiare degli

immancabili cani.

Tra risate, solleciti, pianti, si arrivava all‟ora ella pausa di

mezzogiorno.

I convenuti si sedevano tutti assieme, cercando di dare qualche

comodo grosso sasso alle donne presenti, mentre gli uomini si

accomodavano in terra; i ragazzi non si sedevano mai, sempre a

correre e giocare festosamente.

“Pani e racina”, “pani e aulivi virdi scacciati, cu l‟aglia e

l‟accia”; non si cercava di meglio, non c‟era niente di meglio in

quella occasione!

Odori, sapori, natura, compagnia, c‟erano tutti gli ingredienti

per godersi una bella giornata di “vinnignari”.

Al ritorno a casa molti erano “li panaredda”che circolavano

per le strade pieni di succoso frutto; si portavano a qualche

amico, ai vicini più meritevoli, ai parenti stretti, per far loro

gustare il buon prodotto.

Penultimo atto che chiudeva la stagione estiva la pigiatura

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dell'uva e la conseguente produzione del mosto.

In quel periodo le strade erano piene dell'odore del mosto e del

vino, dato che si procedeva alla pulizia delle botti per le strade

davanti la propria casa, riversando in strada tutto ciò che usciva

dalla botte “la fezza di li carratedda e di li vutti” durante la loro

pulizia.

Un buon bicchiere di vino era molto gradito dai nostri nonni e

di vino buono ce n'era!

Ultimo atto dell'anno agricolo era la raccolta e la molitura delle

olive. “La scutulatina” (abbacchiatura) iniziava alla fine di

Ottobre e si inoltrava fino a quasi tutto Novembre.

Il prodotto veniva portato, sempre a dorso di mulo o con

carretti, “a lu trappitu” ove pestato e reso poltiglia da due

gigantesche ruote di pietra (la macina) fatte girare dal traino di

un mulo o di un un asinello veniva sistemato in apposite “coffe”

di forma rotonda; queste venivano collocate sotto una potente

pressa che ne spremeva il prezioso liquido.

Il prodotto, un misto di acqua ed olio, veniva incanalato in

una vasca di cemento a riposare; l'olio, più leggero dell'acqua,

saliva in superficie ove gli interessati, muniti di “piatti e

cicareddi”, lo raccoglievano e lo depositavano “nni li quartari” a

riposare, per essere usato all'occorrenza.

L'oliva era molto importante nella vita della nostra gente; la

nera o la verde, magistralmente trattate, venivano conservate ed

usate come companatico nella dieta quotidiana; si trovava sulle

tavole dei benestanti come dei poveri; usata con parsimonia e con

rispetto; molto nutriente e gustosa si accompagnava in decine di

modi diversi.

Questa, molto confusamente ma fedele in sintesi, la vita della

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nostra popolazione che viveva lavorando la terra e dei suoi

prodotti; da essa traeva sostentamento e ricchezza.

Non era una vita molto comoda, come tutto ciò che viene dal

duro lavoro manuale, ma permetteva alle famiglie di “mettiri la

pignata e dari un pezzu di pani, anchi duru, a li figli”.

Oggi si guarda la campagna con occhio indifferente, quasi “un ci

fussi nenti”; qualche volta si accarezza con l'occhio il dolce e

delicato verde che madre natura, sempre buona e generosa ci

regala; spesso nei mesi caldi ci si ferma per le strade ad ammirare

lo spettacolo del fuoco mentre sta divorando un pezzo di macchia

mediterranea, un angolo di bosco, un albero di ulivo o una

semplice “troffa di disa”; stiamo lì a guardare senza spirito

d'iniziativa, senza sentimenti, quasi imbambolati ad aspettare che

quelle fameliche lingue finiscano di incenerire quello che la

natura e con essa il sacrificio che centinaia di braccia ci hanno

donato, per il godimento dei nostri sensi e il fabbisogno del

nostro corpo; stiamo lì, senza che nessun interesse ci spinga a

cercare di salvare quella ginestra, pianticella molto generosa di

bellezza per i nostri occhi e di fragrante profumo per le nostre

narici; stimoli questi che regalano attimi di serena tranquillità;

stiamo sempre lì assenti, come a guardare uno scadente

spettacolo, mentre la mente vaga altrove (forse al prezzo della

benzina che sale ancora), ad assistere alla trasformazione in

cenere di un immenso e secolare “carrubo”, luogo di refrigerio e

di dolce riposo del contadino stanco del lavoro quotidiano sotto i

cocenti raggi del sole, casa e rifugio di decine e decine di

uccellini che saranno violentemente costretti ad andare chissà

dove, o tana calda e generosa di una famigliola di conigli proprio

nel momento in cui mamma coniglia deve mettere al mondo la

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sua numerosa nidiata; stiamo ancora lì confusi, a vedere

scomparire un delizioso panorama, col “telefonino” in tasca

senza cercare, almeno, di avvisare le autorità preposte allo

spegnimento degli incendi, a cercare di fermare in qualche modo

la violenza con cui il “nemico” sta vincendo la battaglia,

pensando: “tantu... avanzi c'arrivanu cca...); stiamo lì ad

aspettare, infine, che l'elemento, scatenatosi quasi sempre per

nostra colpa e volontà, finisca di cancellare le orme lasciate, con

tante pene e sacrifici, dai nostri progenitori che hanno seminato

il “buono” con la speranza che i loro figli, noi, potessero, in

futuro, raccogliere “l'ottimo”.

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Lu Firraru

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(Il Maniscalco)

Molto spesso quando si andava a letto presto, cioè quasi tutte

le sere, al corpo soddisfatto dal lungo sonno ristoratore piaceva

stare a letto, in dormiveglia, ad aspettare che arrivasse la mamma

con la grande “cicara” piena di latte e pane a svegliarti

definitivamente.

Ma prima, molto prima che dalle piccole fessure della finestra

entrava la vivida luce del giorno, l'orecchio, sempre all'erta,

riceveva un suono metallico ritmato, a volte gradevole, in

verità.

Non c'era differenza di stagioni sempre, qualche mattinata

taceva, ma per poco; era lì, lo si sapeva che prima o dopo doveva

incominciare!

Per i dormiglioni era un serio problema essere svegliati da

quella... musica!

“Maaaa! dicicci chi si la finissi... almenu ncuminciassi cchiu

tardu!”

Per i giovani alle sei del mattino era ancora notte, ma per chi

doveva dar loro da mangiare già da tempo era incominciata la

giornata di lavoro!

Tin, tin, tin, tin, tin-tin-titititi era il suono del martello

sull'incudine; il fabbro ferraio (lu firraru) già dalle prime luci

dell'alba “avia graputu la putia” aveva iniziato il proprio lavoro.

Fuori, nello spazio davanti la porta della bottega sempre a

piano terra, quattro cinque quadrupedi, legati per il capestro

(retina) ad uno dei numerosi anelli murati al muro della casa,

aspettavano il turno per essere “firrati”.

Era un'operazione che i contadini facevano ai loro animali da

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soma ogni qualvolta l'usura consumava i ferri messi ai piedi per

salvaguardarne le unghie.

Gli animali tra asini, cavalli, muli, bisognosi di tale intervento,

erano moltissimi per cui i fabbri, operanti in paese, avevano

lavoro in abbondanza.

Dopo aver legato per bene l'animale il padrone gli alzava un

arto e “lu mastru firraru” con perizia e maestria, procedeva al

cambio del ferro,non senza pericolo,, specie se la bestia era un

poco adombrosa “faza”.

Allora incominciava la farsa: “teni fermu ss'armali...vidi ca si

sciuglì...teni fermu ssu pedi...chiama aiutu ca sulu „un ci la fa...

sta attentu, attentuuu...”.

Tra tutte le arti e mestieri che si esercitavano in Paese quello

del fabbro ferraio era certamente tra i più pericolosi e pesanti;

sempre davanti la “forgia” o col martello in mano a “martiddiari

ncapu la ncuina”.

La “putia”, sempre uguale ovunque, comprendeva in un

angolo la fucina “la forgia”, ad un lato di questa il mantice

“mantaciu”, che incanalava l'aria prodotta sulla “tannura”, il

luogo ove bruciava il carbone per arroventare il ferro che doveva

lavorasi; un altro angolo era riservato al ferro, barre di tutti i tipi

e misure appoggiate lì in attesa di essere prese per la necessità

che si presentava; a terra tantissimi pezzi e pezzettini, perché

“ponnu serbiri”, non si buttava nulla, tutto veniva utilizzato,

anche i pezzettini più piccoli potevano diventare chiodi; una larga

parete era utilizzata per mettere in bella mostra e pronti per essere

adoperati decine e decine di ferri di cavallo, di diverse misure:

piccoli per gli asinelli e grandi per i muli ed i cavalli; spesso

artisticamente lavorati, per le esigenze di chi se lo poteva

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permettere, i modelli di media grandezza erano la maggioranza,

destinati ai muli avvezzi e più adatti ai lavori pesanti.

A poca distanza dalla “forgia” troneggiava, maestosa, una

pesante incudine “la nguina” di ferro, incastrata su un ceppo di

legno, con le due estremità di forme diverse: una rotonda e l'altra

quadrata, per consentire la formazione di archi o di angoli al ferro

lavorato; quasi ad una delle due estremità un poco verso l'interno

spiccava un taglierino a forma di piramide strozzata a taglio per

intaccare le piccole barre e tagliarle agevolmente.

L'incudine stava sempre vicino la forgia, perchè il ferro

rovente uscito dalla fucina trovasse subito l'appoggio ove poterlo

adagiare per essere lavorato; lì vicino a pochi passi un grosso

recipiente pieno d'acqua, sempre nera, per immergervi il ferro

a raffreddare.

A lato un tavolo robusto col pianale foderato di lamiera su cui

si eseguivano piccoli lavori di precisione; in uno dei due lati del

tavolo stava una grossa morsa indispensabile per tenere fermo ed

alla giusta altezza il pezzo da lavorare; messi in bella mostra, ad

un lato del tavolo le lime; quadrate, rotonde, piccole o grandi;

tre, quattro pinze, con lunghe braccia atte a tenete e rivoltare il

ferro rovente nella brace della fucina; una cassetta con il manico,

contenente gli strumenti per pulire le unghie dei quadrupedi

prima di ferrarli, posto in un posticino vicino la porta d'entrata,

perchè faceva un “tanticchia di fetu”; diversi martelli di tante

grandezze, da quelli piccoli alla mazza, molto pesante e

indispensabile, per appiattire il ferro sull'incudine.

Qualche banchetto di legno e qualche sedia mezza rotta, per

dare la possibilità a chi aspettava il turno o a qualche

immancabile visitatore, di potersi sedere completavano la scura

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bottega del fabbro ferraio (di lu firraru).

In quel luogo nulla c'era di elegante anzi il pavimento,

nerastro, spesso di terra battuta, al massimo “ncimintatu”, dava

alla bottega un aspetto tetro ma nel contempo sufficiente e senza

fronzoli, che offriva il necessario per un perfetto funzionamento,

secondo il tradizionale ruolo cui doveva assolvere.

Come in ogni esercizio non mancava il ragazzo di bottega (lu

giuvani) che doveva imparare e garantire la continuità del

mestiere artigianale; faceva i lavoretti più umili, dal mettere

ordine nella bottega al pulirla all'occorrenza, dall'eliminare i

residui lasciati dai muli davanti la porta al tirare “li mantaci” per

attizzare il fuoco della fucina.

Proprio il tirare “li mantaci” spingeva diversi ragazzi ad

assistere il fabbro nel suo lavoro; mentre si tirava la corda su e

giù il vento prodotto ed incanalato sotto la brace da un tubo,

produceva il risultato di rendere il carbone “lu carbuni di trenu”

vivido, facendogli sprigionare centinaia di luminose scintille che

diffondendosi nell'aria circostante davano una sensazione di

gioco pirotecnico (un casteddu di focu), per la gioia degli occhi

di chi guardava con interesse.

Che spettacolo vedere uscire dalla fucina l'estremità di una

barra di duro ferro trasformata dal fuoco di quel carbone!

In origine nerastro, usciva dalla fucina di un colore arancione

vivido, ardente, pronto a sottomettersi alla volontà dell'uomo;

tin... tin...tin... il martello iniziava il suo concerto; sotto i potenti

colpi, guidati dalla bravura di “lu mastru”, quel materiale duro ed

inattaccabile diventava docile ed ubbidiente ai comandi del

padrone: “di lu firraru “.

I lavori che eseguiva erano sempre di quotidiana utilità; dai

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chiavistelli “li surchiari” alle stanghe per porte e finestre “li

stanghetti”; dai ferri di cavallo alle serrature per porte “li toppi”;

dalle grate “li gradi” ai tavoli “li tavulina di ferru”; dalle zappe

”li zappuna” ai vommeri per gli aratri “li sommari”, dai piccoli

ed utilissimi chiodi “li chiova” di tutte le specie e misure ai

capolavori quali: lampadari, candelieri, balconate, manici di

porte, fiori di tante forge; era il massimo che la fantasia unita alla

bravura di lu firraru potesse produrre.

Oggetti che per diversi secoli saranno la testimonianza della

grande ed estrosa capacità dell‟uomo, di “lu mastru firraru”.

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Lu Venniri è Santu (Il Venerdì Santo)

Da sempre i ciancianesi sono stati un popolo religioso,

osservante, credente, praticante.

Le funzioni religiose erano seguite da centinaia di persone; le

tre parrocchie operanti nella comunità erano sempre affollate di

fedeli che, con tanta umiltà e senso di contrizione, assistevano

alle funzioni religiose che si svolgevano durante l'anno.

Il sentimento che di più avvicinava, spingeva, la gente alla

penitenza ed alla preghiera, era un senso di colpa trasmesso dalle

antiche generazioni e radicato profondamente nell'animo: che la

crocifissione e morte di Gesù Cristo fosse stata causata anche

dalle loro colpe, dai loro peccati.

In ogni occasione di sofferenza o di gioia la mente era rivolta a

Lui i‟nalzando lodi di preghiera e di ringraziamento.

Durante il duro lavoro o in un momento di riposante pausa,

come se l'anima volesse scaricarsi di un qualche peso, buttando

fuori un profondo respiro erano soliti rivolgere gli occhi al cielo e

ripetere: “a la volonta di Dìu”, “comu voli Diu facemmo”, tutto

era in funzione di Lui, bene-male, gioia-dolore.

Con questo sentimento sempre vivo nella coscienza della

gente, la ricorrenza religiosa che coinvolgeva molto intimamente,

ed in maniera veramente partecipativa, era certamente la

settimana santa, “la Simana Santa” specie il culmine di questa

ricorrenza: “lu Venniri Santu”.

Durante la “Simana Santa” il digiuno era doveroso; i ragazzi

ed i bambini magari saltavano questo dovere, ma quelli di una

certa età e gli adulti erano tutti presi dal rispettare il digiuno.

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La mattina, dopo il risveglio, i ragazzi aspettavano la solita

“lattera” piena di latte e pane, per la abituale colazione, ma

puntualmente la mamma ripeteva “Oj no ca murì lu Signiruzzu;

oj si diuna”.

Per i ragazzi, che avevano sempre “lu pitittu spidugliatu”, la

fame era una vera penitenza, ma, per quel giorno, si doveva fare

pazienza oppure mangiare qualcosa di nascosto, come spesso

avveniva.

I ragazzi non aspettavano la sera per mangiare, appena

avevano a portata di bocca un pezzetto di qualunque cosa

commestibile la facevano scomparire.

Fin dalla mattina presto si andava in chiesa ad assistere alle

funzioni religiose; per quel giorno tutto si svolgeva alla Matrice

“a la Chiesa”, la chiesa per eccellenza; le altre venivano chiamate

semplicemente (a lu Carminu, a lu Cummentu, a lu Priatoriu).

In breve tempo le tre navate erano piene di persone; dentro

stavano le donne quasi tutte sedute in banchi di legno o su delle

sedie, che una vecchietta teneva a disposizione in cambio di una

piccola offerta; gli uomini si sistemavano in piedi nelle navate

laterali ammassati fino ad arrivare davanti le porte.

I ragazzi, a decine, correvano e vociavano nello spiazzale

antistante; i giovanotti guardavano, molto interessati, in direzione

delle ragazze, che con le loro mamme o sorelle assistevano ai riti

sacri.

“L'omini” (gli adulti) aspettavano a capannelli chiacchierando

a voce bassa.

In un angolo della piazza stavano “li musicanti” i componenti

del gruppo bandistico musicale di cui i ciancianesi andavano

fieri, sia per la loro rinomanza che per la loro bravura e la grande

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quantità di riconoscimenti conquistati in molte località della

Sicilia ed anche oltre.

Se ne stavano riuniti a provare, molto sommessamente, i loro

strumenti, come sono soliti fare prima di iniziare a suonare.

Tutta la piazza antistante la Matrice era piena, gente che

entrava e usciva dalla chiesa; “li fratelli di lu Signuri e di

l'Addilurata” incominciavano a preparare la loro sfilata, con

addosso i tradizionali abitini, gli uni rossi egli altri neri; le pie

donne preparavano la processione per andare al Calvario “a la

Cruci”.

Quando le funzioni religiose stavano per finire su di una

artistica e bellissima lettiga, con alle due estremità delle robuste

aste per poterla collocare sulle spalle dei portatori, veniva

deposto “lu Signuri” da condurre in processione al Calvario.

Dalla chiesa incominciavano ad uscire le persone, che piano

piano e con grande senso dell'ordine si disponevano nella piazza

antistante in attesa che dalla chiesa uscisse “lu littirinu cu lu

Signuri”.

Era tutto un fermento; ragazzi, adulti, tutti cessavano di

parlare; anche il solito vociare dei ragazzi cessava e tutti si

mettevano in trepida attesa.

La banda musicale si spostava dal suo angolo ed incominciava

a raggrupparsi nel centro della piazza, pronti ad iniziare la

mancia funebre.

Quando dalla porta della chiesa spuntava la lettiga, preceduta

dai preti e dai chierichetti, sulla piazza scendeva un rispettoso e

tombale silenzio.

Allora si alzavano, dolci e piagnucolosi le note della banda

musicale che con ritmo luttuoso i‟nalzava al cielo un pezzo

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musicale che era preghiera; una marcia funebre composta per

l'occasione,qualche secolo prima, da un ingegnoso e bravo

Maestro di musica ciancianese, esperto musicista, direttore di

banda, compositore dotato di tanto sentimento.

Nella piazza scendeva la tristezza, le preghiere si alzavano

leggere verso l'Altissimo; la gente piena di emozione iniziava a

comporre la processione per accompagnare il Cristo al Calvario.

La confraternita del Signore, ai lati della lettiga portata da

dodici uomini, apriva la processione preceduta dai parroci delle

tre parrocchie, per l'occasione riuniti; subito dopo il simulacro

della Mado‟na a lutto “l'Addilurata”, con ai lati i fratelli e le

sorelle di Maria Addolorata; seguiva il popolo sempre numeroso

e partecipante.

La lunghissima processione attraversava le strade del paese,

aumentando il numero sempre di più man mano andava avanti,

partecipando alla lettura delle stazioni della Via Crucis collocate

lungo il tragitto che portava al Calvario.

Lentamente si procedeva, non senza fatica, fino ad arrivare “a

la Cruci”.

I ragazzi correvano avanti e indietro senza mai stancarsi e

prima che la lettiga col Cristo arrivasse alla croce avevano fatto

già due tre volte e certamente era uno spettacolo come pochi se

ne potevano vedere; dall'alto del monte Calvario, si poteva

ammirare quella lunga, numerosa, pregante, commossa,

processione che con le candele accese spuntava dal paese e pian

piano saliva ove era collocata la centenaria grande croce di legno.

I musicanti (li bannistri) nelle loro ordinate divise nere, con

maestria, umiltà e con un impegno fuori del comune, i‟nalzavano

al cielo le loro dolenti note quasi a volere alleviare all'Uomo le

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sofferenze patite sulla croce; ordinati in fila per quattro con in

testa il cappello con i fregi dorati e sulla giacca le mostrine da

musicista, portavano con eleganza e grande attenzione “lu

strumentu” che avevano comperato con grandi sacrifici, magari

di seconda mano, e che permetteva loro di guadagnare un

qualcosa in più per la famiglia.

Dietro la lettiga i fedeli cantavano tristi e dolorosi canti

religiosi, alternandosi con la banda musicale, cercando di non

stonare e di donare il meglio delle loro capacità: “sono stato io

l'ingrato, Gesù mio perdon pietà”.

Arrivati sulla vetta del monte Calvario, i religiosi prendevano a

braccia il Cristo e salendo due scale a pioli appoggiate ai bracci

della croce lo collocavano su di essa conficcando chiodi nelle

mani e nei piedi: “tutto era compiuto!”

A fianco della croce veniva collocato il simulacro della

mado‟na Addolorata, lì a piangere il figlio morto in Croce; il

tutto era perfetto molto realistico al punto che la marea di gente

sottostante, con pietà cristiana e molta fede, i‟nalzava le

preghiere di perdono e di umiliazione.

Si vedevano tanti fedeli che piangevano ed esprimevano il

proprio dolore battendosi il petto e mettendosi in ginocchio ad

adorare il Crocefisso.

La popolazione dei fedeli non riusciva ad entrare nella

piazzetta sottostante la collinetta su cui era collocata la croce; il

monte Calvario non poteva contenerli tutti per cui tutta la salita, a

partire da Largo San Gaetano, era

una fila di gente che ordinatamente aspettava il proprio turno

per salire fino ai piedi della croce ed adorare il Crocefisso,

inginocchiandosi ed offrendoGli il loro atto di contrizione; man

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mano che i primi, dopo l'adorazione, scendevano, verso il paese,

gli altri avanzavano e salivano, dando, a chi guardava di lassù, la

sensazione di un grande cordone di persone che sinuosamente si

muoveva e veniva su.

Il devoto e, per i ciancianesi, doveroso “viaggiu a la Cruci”

continuava per tutta la giornata del Venerdì Santo fino a sera

inoltrata quando,a discrezione dei preti, era ora di scendere il

Cristo dalla croce e riportarlo in chiesa.

L'Urna, artisticamente lavorata con fregi d'oro, rosoni e puttini,

opera di grandi maestri artigiani locali, veniva portata fin lassù e

deposta ai piedi della croce in attesa che il simulacro del Cristo

morto in croce venisse collocato dentro ed iniziare il viaggio di

ritorno.

Se tutta la giornata del Venerdì santo con tutte le funzioni era

un continuo pregare,cantare,adorare,la sera col ritorno del Cristo

deposto dentro l'urna era sicuramente il massimo della

Devozione,della Contrizione,della Fede, che il popolo, tutto il

popolo, ciancianese potesse dimostrare.

L'urna incominciava la strada del ritorno portata da circa

venticinque uomini; sotto le grosse e lunghe aste e lungo la base

dell'urna decine di poderose spalle si toccavano l'una con l'altra,

non c'era mai un posticino libero ove potere mettere una mano ed

aiutare a sorreggerla.

I fedeli si davano il turno perchè tanti erano quelli che

volevano portare il Cristo morto per “prummisioni” o per

devozione.

Si vedevano fedeli che per voto, per richiesta di grazia o per

ringraziamento, camminavano a piedi scalzi lungo tutto il tragitto

fino alla fine della celebrazione.

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L'urna avanzava lentissimamente, anzi ogni tanto faceva

qualche passo indietro; seguiva un folto gruppo di persone che

intonavano, molto lentamente con toni solenni e tristi, la “stabat

mater” che nella lingua tradizionale si chiamava “lu lamentu”,

secolare canto luttuoso che da padre a figlio si tramandava per

l'occasione.

Appresso il simulacro dell'Addolorata con la confraternita; a

seguire la banda musicale che si alternava a canti religiosi; infine

il popolo credente, tante tantissime persone.

Di tutti i cattolici romani credenti della comunità solo gli

ammalati ed i vecchi non deambulanti restavano in casa, tutti gli

altri in grado di muoversi “si facivanu lu viaggiu”, almeno una

volta all'anno si recavano a fare l'atto di contrizione ai piedi di

Gesù Crocefisso.

Ogni tanto l'urna faceva una sosta poggiandola su due banchi

opportunamente collocati da occasionali portatori; stava un poco,

più per allungare il tempo del ritorno che per altro, e riprendeva

ad avanzare, sempre con un'andatura triste e penitente.

Il tragitto terminava a tarda notte, con la deposizione del

simulacro del Cristo morto in chiesa; anche se la serata era

fredda ed umida nessuno aveva premura di ritornare a casa,

quello era un giorno speciale e come tale si doveva celebrare fino

alla fine.

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La Banna (La Banda)

Al posto ove adesso si posteggiano le macchine, all'inizio della

via Marconi, sorgeva un grande edificio, composto da un

pianterreno ed un primo piano, adibiti a cinema teatro (lu cinima

vecchiu).

Il piano terra aveva una ottantina di posti a sedere, in fondo

alla parete, di fronte, un grande schermo per le proiezioni

cinematografiche e davanti ad esso, sopraelevato di circa un

metro rispetto alle sedie degli spettatori, un palco scenico per le

rappresentazioni teatrali o qualche altra manifestazione.

Il piano di sopra era occupato dalla cabina di proiezione per

qualche metro, il rimanente era occupato da una quarantina di

posti a sedere denominati palchi (occupare quei posti costava di

più ed erano destinati a chi poteva permetterselo).

Agli inizi degli anni cinquanta le proiezioni si effettuavano a

giorni alterni a causa della scarsa affluenza del pubblico ed in

considerazione del fatto che il ricavato pagava si e no il costo ed

il mantenimento del locale, il gestore del cine teatro, al fine di far

quadrare i conti e dividere le spese di gestione, divideva il piano

terra con la banda (la banna) musicale, che nei giorni che non si

proiettavano i film, usava il locale per studiare e provare i pezzi

musicali del proprio repertorio.

La preparazione era affidata alla guida di un maestro venuto da

fuori; pagato dal Comune, insegnava come eseguire i pezzi e le

marce, in maniera impeccabile, da rappresentare sui palchi dei

vari paesi e città in cui era richiesta la loro prestazione.

Durante le prove molti erano i musicomani che si recavano ad

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assistere alle prove; si sedevano nelle prime file, non perdendo

una nota musicale, seguivano ogni prova ed ogni esecuzione con

conoscenza e competenza; molti sapevano tante opere a memoria.

Molti altri andavano ad assistere per passare il tempo e stare in

compagnia, specie nei mesi invernali freddi e piovosi;

ascoltavano, e col tempo divenivano conoscitori ed estimatori;

altri, e tra essi molti ragazzi, andavano a sedersi per illudersi di

essere “a lu cinima” dato che, a causa della scarsezza dei denari,

non potevano andare ad assistere alle proiezioni

cinematografiche.

Erano spesso “li picciotti” causa di arrabbiature e rimproveri

da parte del maestro che pretendeva l'assoluto silenzio, cosa alla

quale i ragazzi non erano abituati.

La banda aveva pure i suoi, come si dice oggi, afficiodados

che approfittando dell'autobus che trasportava i musicanti (negli

ultimi periodi utilizzavano qualche auto personale)

accompagnavano il gruppo anche in trasferta.

Il numeroso gruppo musicale era composto per l'ottanta per

cento di artigiani locali quali calzolai, sarti, qualche minatore,

manovali, operai dell'edilizia e dell'agricoltura, che

arrotondavano il loro magro stipendio col doppio lavoro di

“bannistru”; il rimante venti per cento era composto da ragazzi,

magari figli degli stessi musicanti, che apprendevano la musica

per garantire la continuazione del gruppo bandistico.

Dobbiamo ricordare, per dovere, che nelle sere che il maestro

non dirigeva le prove della banda, impartiva lezioni alle nuove

leve, sempre molto numerose, che, negli anni a seguire, hanno

garantito che a Cianciana non finisse la melodiosa tradizione;

molti di queste leve di allora sono i musicanti di oggi, ultimi della

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loro “specie” portatori di valori e ricordi di altri tempi.

Il ciancianese da sempre ha avuto una innata propensione per

la musica; l'istinto a canticchiare qualche ritornello durante il

lavoro o intonare qualche stornello, persiste tutt'ora, anche se con

ritmi diversi.

Mi vengono alla mente le estasianti e melodiose serenate che i

giovanotti portavano, nelle calde serate d'estate, alle amate

fanciulle, recando gioia alla cara amata, piacere ai vicini che

ascoltavano affacciandosi alle finestre e a volte unendosi alla

allegre compagnia.

Questo amore per il bello musicale spingeva la popolazione a

recarsi numerosa ad assistere all'esecuzione della musica a palco

che durante le feste di “Sant'Antuninu, Mezzaustu, San Giseppi”

si offriva al Paese a conclusione dei festeggiamenti dei Santi.

Un grande palco veniva innalzato nella Salita Regina Elena,

poco sotto la sede del Municipio (il vecchio palazzo Marino).

Alto circa un metro e mezzo, rispetto alla strada, per dare la

possibilità alla gente di vedere e seguire bene “la musicata”,

l'esecuzione bandistica; preceduti da diversi colpi di grancassa

che intonavano per tutto il Paese, i musicanti nelle loro eleganti

divise e con il berretto fregiato da strisce dorate con nel mezzo

una grande sproporzionata “Lira” musicale, salivano ad uno ad

uno sul palco di legno, costruito da bravi falegnami, andando a

prendere il loro posto stabilito tradizionalmente dal tipo di

strumento che suonavano; si sedevano su una sedia sistemandosi

accuratamente il loro leggio su cui appoggiavano gli spartiti della

musica da eseguire.

La naturale platea cominciava a riempirsi; tanta gente si

portava la sedia da casa, sedendosi comodamente ed occupando

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C'era 'na vota frammenti di mamoria

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gli spazi antistanti al parco; numerosissime altre si sistemavano

in piedi dietro quelle sedute e tutti aspettavano l‟inizio dei “pezzi

d'opira” che di lì a poco andavano ad incominciare.

Tutt'intorno era un continuo vociare dei ragazzi che, sempre

numerosissimi, correvano e giocavano senza rispetto per i loro

vestitini nuovi, frutto dei sacrifici delle loro mamme.

La gente mormorava mentre i venditori ambulanti, arrivati per

l'occasione della festa, reclamizzavano la bontà dei loro prodotti:

“simenta e nuciddi, cubbaita di mennuli... cubbaita frisca, lu

palluneddu pi l'addevu”.

Tre colpi della grande grancassa seguito da tre squilli di

tromba smorzavano il brusio attirando l'attenzione della gente; i

ragazzi continuavano a gridare ma con meno fervore, molti

andavano a sistemarsi in piedi sotto il palco disturbando chi stava

seduto in prima fila; diversi smettevano di passeggiare e si

avvicinavano al palco, altri continuavano la loro passeggiata.

Con flemma ed eleganza il Maestro si avvicinava al proprio

leggio posto in mezzo al palco a guardare gli orchestrali dando le

spalle al pubblico e dopo avere dato con perizia uno sguardo a

tutti gli elementi dava tre colpetti sul proprio leggio, con la

bacchetta di comando, e all'unisono, senza alcuna sbavatura,

dagli strumenti il suono dolce e melodioso iniziava a prendere il

volo diretto magistralmente da ampie nervose bracciate del

Maestro, sempre attento a qualche eventuale inesattezza o entrata

con ritardo rispetto al ruolo assegnato dallo spartito.

Le esecuzioni di grandi opere della musica classica venivano

intervallate da scroscianti applausi a sottolinearne la perfetta

esecuzione; delle canzonette allora in voga e qualche pezzo

“strappa lacrime” venivano ad intervallare le esecuzioni sempre

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perfette “di la banna”.

Nei giorni di Festa la banda faceva la sfilata per il Corso

principale, con l'uniforme sempre impeccabile (ne avevano

solamente due una invernale ed una estiva) ed inquadrati stile

militare, avevano l'orgoglio dipinto sul viso; ogni tanto si

fermavano si mettevano sopra il marciapiede e ben compatti e col

maestro a dirigerli eseguivano una marcia e qualche canzonetta,

seguiti sempre da decine e decine di persone che per l'occasione

sospendevano il loro passeggio, per poi riprenderlo.

La più importante esecuzione della mattinata veniva fatta “a la

scalunata” sotto la torre dell'orologio, ove tradizionalmente

tantissime persone sostavano a chiacchierare e passare qualche

ora con gli amici.

Tutti i passanti, vestiti a festa per l'occasione, si fermavano ad

ascoltare l'esecuzione, come sempre impeccabile, seguita, alla

fine, da scroscianti sinceri applausi e commenti sempre positivi.

Durante le processioni per le strade del Paese le preghiere ed i

riti religiosi erano intervallate da marce e marcette, sempre

allegre, che spandevano nell'aria un senso si allegria e di felicità,

tipico della banda musicale... della festa Paesana...di qualcosa

che molti ancora cerchiamo, ma che difficilmente riusciremo a

trovare... la serenità del tempo che fu. (!)

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Lu Fallignami (Il Falegname)

“Mà, la seggia si ruppi...si stuccà lu pedi”.

“Portala nta lu falignami prima chi tò Pà sinnadduna e fà

opira”.

“Lu falignami”; il falegname era un'arte di cui non si poteva

fare a meno; ce n'erano tanti nel nostro Paese.

La lavorazione del legno è stata da sempre molto importante

per la vita dell'uomo, della sua comunità, specie quando questa

non è ricca e dispone di risorse quasi sufficienti per vivere;

allora il ruolo dell'artigiano si avvalora di più in quanto, povero

tra poveri, cerca di venire incontro al bisogno della gente

sfruttando al massimo la propria conoscenza, la propria

esperienza, per rispondere, in maniera veloce e poco onerosa, alle

necessità del cliente e nel contempo realizzare un guadagno per

le proprie tasche, spesso non immediato.

Tutto ciò che era necessario per la casa e per potere vivere in

essa, avendo a disposizione qualche comodità, allora era

realizzato quasi interamente con l‟ausilio del legno.

Buon legno stagionato e lavorato a forza di braccia e tanto

sudore; il falegname era una figura molto importante, cercato da

tutti ricchi e poveri, a tutti dava una risposta alle loro

necessità,alle loro richieste.

“La putìa”, così si chiamava il negozietto ove prestava la

manodopera, era composta da una stanza, piuttosto capiente,

quasi sempre a piano terra; chi se lo poteva permettere aveva a

disposizione una seconda stanza ripostiglio (lu magazzinu) ove

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teneva in deposito tavole, travi, assi, e legni di tante specie e

misure, oltre ad attrezzi del mestiere che venivano utilizzati al

momento del bisogno.

Uno o due grossi banconi (questo dipendeva dal volume di

lavoro che durante l'anno produceva) occupavano una parte della

stanza; nei lati del banco erano installate una o più grandi morse

formate da due ganasce ed una vite centrale capace di tenere

ferma un'asse di legno, per essere lavorata più agevolmente; sotto

il pianale del banco, su mensole appositamente costruite, stavano

gli attrezzi per lisciare il legno grezzo: le pialle, “lu chianozzu” e

la “spinalora”.

Se ne adoperavano di tante misure; dal delicato “cuda di

surci”, adatto a lisciare piccoli intagli, al grosso e possente “lu

chianozzu granni”, adatto per le travi e le grosse assi che

richiedevano, spesso, l'aiuto di una seconda persona per essere

adoperato.

Attaccati ad una parete, sostenuti da grossi chiodi conficcati

nel muro facevano bella mostra, gli attrezzi per segare (li

sirraculi); dal “saraccu”, sega a lama larga ed usata da una

persona tenendolo dall'unico manico che aveva, alla “serra

ntilaiata”, a lama stretta e lunga che poteva essere adoperata da

due persone, una di fronte all‟altra (di questa sega ce n'erano di

diverse misure fino al arrivare ad una gigantesca che serviva per

ricavare le assi dai grossi tronchi).

Dentro un mobile, collocati in appositi sostegni stavano: li

morsetti...li raspi...li scarpeddi...li sgurbii...li martedda...li

tinagli...li mazzola di lignu...li virrini...di diverse misure; in

scatole e scatolette erano i chiodi, di diverse misure dai piccoli

“simicci” ai grossi “subbii”.

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Con l'arrivo dell'energia elettrica “la putia” si arricchiva, non

tutti ce l'avevano, con una sega circolare, adatta a tagliare le assi

con meno fatica, più precisione, molto guadagno di tempo.

Le mura erano uno spettacolo: tutti rivestiti da locandine dei

film proiettati al cinematografo; centinaia di locandine con il

titolo del film scritto sotto; rendevano il locale caratteristico e

davano la possibilità a chi aspettava di passare qualche minuto,

spesso noioso, diverso.

Si parlava e si criticavano le scene, il contenuto, le azioni che

“lu picciutteddu”, il protagonista del film, aveva recitato,

evidenziando punti di vista personali e modi diversi di

intraprendere certe azioni durante lo svolgimento della storia;

spesso presi dall‟entusiasmo, nel commentare la trama del film,

tra i convenuti si rasentava la lite, attirando persone che sentivano

il vociare, coinvolgendoli nella discussione.

Nel mezzo della stanza, dal soffitto, pendeva un filo doppio

intrecciato, il cui colore era completamente scomparso, coperto

com‟era, da milioni di depositi di mosche sempre presenti specie

d'estate, con una lampadina elettrica, che si accendeva la sera e

con molta parsimonia (la luci costa cara); finche c'era la luce “di

lu Signiruzzu” non si accendeva quella elettrica.

Negli angoli pezzi di legno, lavorato e non, di diverse misure

in attesa di essere utilizzati, perchè era sicuro che sarebbe

arrivato il loro turno dato che nulla, proprio nulla, veniva gettato

via.

“Li porti” (le porte), “li finestri” (le finestre), “li seggi” (le

sedie), “li vanchi” (i banchi), “li casci” (le casse) e quanto

altro….tutto veniva portato per essere riparato e nulla restava

rotto; la maggior parte era materiale vecchio e spesso tarlato o

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fradicio, da buttare via o bruciare per evitare il contagio delle

tarme, ciò nonostante il sapiente artigiano riusciva a togliere la

parte malata e la ricostruiva con pazienza e maestria facendolo

diventare come nuovo e facendo un favore al cliente che spesso

non era nelle condizioni di farselo costruire nuovo.

Non tutte le ordinazioni erano tali; chi poteva permetterselo

ordinava mobili nuovi, di legno pregiato “di faggiu”, di “cirasa”,

“di piscipainu”, “di nuci”, ordinazioni di un certo stile: scrivanie,

tavoli da pranzo e da salotto, armadi, vetrinette, librerie e quanto

altro occorreva in una casa signorile.

Allora l'arte, la bravura, la competenza, la conoscenza,

l'esperienza, si mettevano all'opera; venivano realizzate, con

mani sicure e perizia, opere d'arte destinate certamente a sfidare i

secoli.

I nostri artigiani falegnami erano bravi; depositari di secoli di

conoscenze ed esperienze; tutto questo veniva messo al servizio

dell'opera d'arte, realizzando pezzi unici.

Così come servivano i ricchi erano sempre a disposizione dei

meno ricchi, arredando, sempre con maestria, le loro case con

mobili di fattura artigianale eseguiti totalmente a mano e degni di

essere conservati per essere tramandati alle generazioni future.

Come tutte le arti e i mestieri si pensava, in maniera seria ed

attenta, a tramandare ai postumi il sapere e le esperienze acquisite

fino ad allora.

A questo scopo “li giuvani di putia” (i ragazzi di bottega) non

mancavano.

Tanti volevano andare ad imparare il mestiere; lu mastru di

fronte alla preghiera di un povero padre non diceva mai di no,

aveva però l‟accortezza di selezionare tra i suoi apprendisti quelli

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che avevano veramente l‟intenzione di seguire il mestiere, dando

loro più attenzione e cura, “picca ma bboni” era solito dire.

Questi ragazzi facevano i lavori più umili, dallo spazzare il

pavimento al raddrizzare i chiodi ancora buoni che venivano tolti

da legni in riparazione; ordinavano le tavole fuori posto nel

magazzino, mettevano in ordine gli attrezzi di lavoro lasciati quà

e là.

Gli apprendisti più anziani venivano utilizzati per fare

riparazioni, man mano sempre più delicate...fino alla reale

costruzione di qualche mobiletto ed al taglio di precisione,

sempre sotto gli occhi vigili del mastro, dato che non era

concesso fare sbagli e rovinare qualche tavola.

Nulla era dovuto agli apprendisti... anzi erano spesso

destinatari di rimproveri e di richiami.

Man mano che il tempo passava i giovani crescevano in età e

in bravura ed incominciavano ad eseguire lavori sempre più

difficili, sempre sotto gli occhi vigili ed i sapienti suggerimenti

“di lu mastru”.

Ormai maturi e bravi artigiani non lasciavano la bottega, tanto

dovevano al maestro, non potevano che ricambiare quanto

ricevuto lavorando per loro; la riconoscenza era molto

considerata e tenuta in seria considerazione.

Il giovane lavorava col maestro ricevendone ogni tanto

qualche suggerimento sottovoce ed in maniera garbata, non più

grida e rimproveri, come agli inizi della carriera.

Stava a lavorare silenzioso ed attento, in cambio ogni sabato

riceveva un piccolo salario da portare alla famiglia con orgoglio e

soddisfazione.

Le ragioni per cui stava lì a lavorare erano molteplici: prima

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tra tutte non si avevano le possibilità finanziarie per mettersi in

proprio; l'affitto del locale, gli strumenti da lavoro da comprare, il

magazzino di legname da avere a disposizione per soddisfare le

richieste dei clienti, quanto altro occorreva per avviare l'esercizio,

aveva un costo considerevole e.... i soldi erano scarsi.

Altra considerazione importante, che si metteva in primo piano

in queste occasioni, era il fatto che non si poteva fare un malo

sgarbo al vecchio maestro andandosene via e magari togliendogli

dei clienti.

Quella riconoscenza era molto viva nelle persone sensibili, e

poi si doveva ricompensare il maestro, in qualche modo, per la

grande pazienza avuta in tanti anni di apprendistato senza nulla

chiedere.

Quale occasione migliore di quella di continuare a lavorare per

lui in attesa di tempi migliori?

Il giovane falegname aveva ormai la conoscenza sufficiente,

costruiva quanto ordinato dai clienti senza problemi, consentendo

al maestro di guadagnare di più e ricevendone in cambio un

salario più adeguato.

La creazione di una nuova famiglia, l'aumento considerevole

della clientela personale, la ormai avanzata età del maestro che

non era nelle condizioni fisiche di soddisfare le richieste dei

clienti, erano queste le giuste ragioni per cui si lasciava il

rapporto di lavoro col vecchio maestro senza traumi né liti;

spesso era lo stesso “vecchiu mastru d‟ascia” che non potendo

accudire alle tante richieste le passava “a lu mastru novu” con

tanta reciproca discrezione che durava tutta la vita.

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Lu Stagnataru (Lo Stagnaio)

L'economia del Paese non era molto florida; si poteva definire di

sopravvivenza.

Col poco lavoro che c'era si racimolava sì e no il necessario per dar

da mangiare alla famiglia; era difficile trovare un lavoro giustamente

retribuito; quello che si riusciva a trovare nelle campagne ma per lo

più nelle miniere di zolfo, era scarsamente remunerato.

Altro non c‟era se non la strada, molto amara, dell‟emigrazione,

che non sempre andava a buon fine a causa dei severi controlli che

venivano effettuati.

La disoccupazione era molto diffusa, nelle famiglie si facevano

grandi sacrifici, nulla era considerato “superchiu”, mancava sempre

qualcosa per avere il sufficiente.

Niente veniva buttato via; l'immondizia come la conosciamo oggi,

non esisteva; gli immondezzai erano composti quasi esclusivamente

da rifiuti organici animali e umani.

Per le strade non si effettuava la raccolta dei rifiuti, qualche

piccola cosetta scartata veniva portata con lo stallatico in campagna

come fertilizzante; in casa c'era il sufficiente per la vita quotidiana:

“„na pignata, „na padedda, un taganu, „na camella, un cuteddu, li

cucchiara e li burcetta (ne mancava sempre qualcuna), la cicara”; la

maggior parte erano di terracotta e qualcuna di alluminio.

Dopo averli usati venivano accuratamente puliti con acqua e

“cinniri di mennula” (il detersivo di allora, ricavato dalla cenere delle

mandorle bruciate, era buono e funzionava bene con le superfici dure

non buono per i panni che venivano lavati col sapone sfuso

(sembrava grasso color miele).

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Ogni tanto qualche suppellettile ritenuto importante per l'uso

quotidiano (quartari, giarri, spirlonghi, piatta) cadeva a terra o urtava,

con conseguente rottura; si metteva da parte in attesa che arrivasse:

“Lu stagnataru”.

Questo tipico personaggio arrivava in paese una due volte al mese;

portava addosso tutto l'armamentario necessario per espletare il

proprio lavoro dentro un sacco ed un contenitore di legno.

Si collocava sempre negli stessi posti ed era solito bandire la

propria presenza gridando ma non troppo, direi parlando ad alta voce,

tanto si sentiva lo stesso, non c'era musica, ne rumori di macchine, ne

quant'altro siamo abituati a sentire; a quell'ora gli adulti erano a

lavorare, i ragazzi chi a scuola chi a servizio, giusto qualche decina

“arruccavanu” vociando per le strade.

“Lu stagnataru........ cu ava cunsari... cu ava stagnari... vi consu

giarri, quartari, spirlonghi, piatta... Vi stagnu pignati... padeddi...

taana.. cuppina... lu stagataaaru...”.

Venivano allora tirate fuori le suppellettili che si erano rotte e

messe da parte; si andava a contrattare il prezzo per la riparazione;

qualche decina di lire per la terracotta e di più per stagnare qualche

contenitore di rame.

Fatto il prezzo, si lasciava il pezzo all'artigiano ambulante il quale,

sistemati gli attrezzi piantandoli ben fermi nella terra battuta (non

c'erano mattonelle tanto meno bitume o cemento) procedeva per tutta

la giornata, a volte tornava l'indomani se c'era tanto lavoro, alle

riparazioni.

Un piatto spezzato in due lo univa facendo dei forellini appaiati nei

due pezzi da unire, passava mastice speciale nelle due parti, legava il

tutto con del filo di ferro in maniera così perfetta che il piatto poteva

riutilizzarsi come nuovo; certo si vedeva la linea di unione, ma non

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era importante, tanto si utilizzava solo in famiglia.

La vera arte e la bravura di uno “stagnataru” si vedeva quando

doveva riparare una giara rotta “la giarra”; era il contenitore per

eccellenza dell'olio d'oliva, prezioso liquido che occupava un posto

molto importante nella vita alimentare quotidiana della famiglia.

I produttori di olio avevano giare di diverse grandezze; quando

qualche giara si rompeva era quasi sempre per l‟eccessiva pressione

che la quantità d'olio esercitava all'interno del contenitore (certe giare

di coccio avevano la capacità di quindici venti decalitri), che in

concomitanza a qualche piccolo difetto di lavorazione dava il

risultato di una spaccatura.

L‟ avvisaglia di una rottura prossima era il fatto che alla base del

contenitore si accumulava una certa quantità di olio, che col passar

del tempo si faceva sempre più consistente.

Allora erano guai seri, bestemmie, grida, preoccupazioni per la

perdita eventuale del prezioso liquido: “la giarra si ruppi, livati

l'ogliu, tramutatilu subbitu”.

Si puliva il contenitore in attesa di lu stagnataru “pì cunzallu”.

Dopo averla esaminata con molta attenzione, valutato il posto, la

natura della rottura, decideva di riparala o meno; in caso positivo, la

maniera di procedere se con colla solamente o con colla e filo di

ferro.

Se la rottura era dalla metà in su quasi sempre si procedeva ad una

riparazione, se dalla pancia in giù, il rischio se lo prendeva il

padrone, dato l'eventuale peso che doveva sopportare una volta

riempitolo d‟olio.

Il lavoro di saldatura di quel genere durava mezza giornata, con il

padrone, o qualche servitore o persona di fiducia sempre presente a

controllare, e all'occorrenza, dare una mano di aiuto.

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Buchi piccolissimi, filo di ferro speciale, paste abrasive uniche e

infine l'onnipresente mastice miracoloso, garantito a resistere ad

enormi pressioni, venivano adoperate con sapienza e perizia

dall'artigiano, il quale lavorava curvo quasi a nascondere il proprio

lavoro per non dare agli altri la possibilità di svelare ed avere

conoscenza dei suoi segreti “p'un ciarrubbari lu pani”.

Vestiva miseramente ma con un certo orgoglio; in un contenitore

di alluminio aveva il suo pranzo (pasta cotta o virduredda cu lu pani),

che assieme a qualche sorso d'acqua che prendeva da “lu bummulu”,

consumava verso mezzogiorno seduto per terra e senza perdere di

vista i suoi utensili e la “robba”, dei clienti, che doveva riparare.

Altro lavoro che eseguiva con perizia, che i bambini guardavano

sempre con stupore, era il mettere a nuovo l'interno delle pendole e

delle caldaie che col tempo si erano scrostate mettendo a nudo il

rame, con eventuale pericolo per chi le utilizzava per cuocere i cibi.

Era categorico che l'interno delle pendole e delle caldaie che

servivano ai pastori per fare la ricotta ed il formaggio dovevano

essere pulite e lucide; allora si procedeva a stagnarle, in maniera che

fossero igienicamente perfette.

L'altra specializzazione di lu stagnataru era proprio questa: passare

lo stagno all‟interno delle pentole.

Dopo avere portato l'elemento stagno, dallo stato solido allo stato

liquido mediante il fuoco, versava il metallo fuso dentro il recipiente

da stagnare, piano piano, con perizia, girando sapientemente il

contenitore, lasciava che il liquido restasse attaccato alla parete in

maniera da lasciarla lucida e pulita.

Continuava con questo sistema fino a quando tutto l'interno della

pentola, della padella o quant'altro si presentava di una lucidità

impeccabile.

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Dopo averla pulita e levigata, il risultato era un interno nuovo ed

igienico, facile da pulire e con poca fatica.

Tutta questa metamorfosi e la capacità di liquefare quel duro metallo

attirava l'attenzione dei ragazzi che non mancavano mai lì attorno a

curiosare, spesso facendo arrabbiare “lu stagnataru” che veniva

distratto dalla loro presenza.

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Li Cunti (I Racconti)

Quanti ricordi !!!

Non c'era famiglia, ricca o povera, nella quale una parte della

serata non era dedicata a qualche racconto.

Sempre coinvolgente ed implicante, era una delle poche

maniere, assieme a qualche gioco, di passare intere serate

invernali attorno al braciere, prima di andare a dormire, quando

per le strade “un si vidiva mancu un'arma”.

La famiglia si accerchiava attorno alla unica fonte di calore “la

brasciera” (il braciere), alla luce fioca di uno o due spezzoni di

candela, oppure a quella di un lume a “grassolio”; il nonno o la

nonna, sempre per “fari cuntenti l'addevi e stari bboni”, iniziava

un bel racconto che spesso durava per tre quattro serate,

coinvolgendo tutti non solamente i ragazzi.

Non era raro, specie nelle famiglie in cui qualche componente

sapeva leggere bene, in verità non erano moltissime, si alternava

il racconto col leggere qualche romanzo: “lu conti di

Montecristo”... “li paladini di Francia”, “la bedda di li setti

velira”... “li tri muschitteri”... “li beati Pauli” ...

La lettura di un romanzo era importante non solamente perchè

si stava assieme e si apprendeva sempre qualcosa di nuovo ma

anche perchè non tutti possedevano un libro da leggere; un

romanzo, era cosa per i ricchi non per le famiglie degli operai

poveri che rasentavano la sopravvivenza; diverse famiglie si

riunivano per l'occasione ogni sabato e domenica, attirando anche

la presenza di intimi vicini di casa.

Le anziane, sempre coperte con lo scialle nero sotto cui

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portavano l'immancabile “tancineddu” per tenersi caldi, sedevano

vicino al braciere, sempre pronte ad intervenire se i ragazzi

facevano qualche marachella.

D'estate, la sera, dopo una opprimente giornata di caldo che

toglieva l'ossigeno dall'aria, si cercava un poco di refrigerio

standosene seduti in strada davanti la porta di casa; allora si

avvicinavano gli altri vicini formando gruppi numerosi di

chiacchieroni, circondati da chiassosi ed immancabili ragazzi che

correvano e giocavano “a li cciappi”, ”a li vasti”, “a li mazzi”, ” a

mmucciareddu”, ”a sàita la cerba”.

Lungo una strada “li sedii” erano numerose; da una all'atra

comitiva si contavano non più di cinquanta metri.

Si chiacchierava del più e del meno mettendosi al corrente

vicendevolmente di quello che accadeva giornalmente in paese

ed in campagna, sottolineando i fatti più interessanti.

Le ragazze da marito stavano tutte vicine, parlavano sottovoce

intercalando ogni tanto qualche chiassosa risata e spingendo i

ragazzini ad origliare, questi facevano finta di giocare, come se

si estraniassero ai discorsi che facevano segretamente,

nascondendoli agli adulti seduti lì vicini.

Spesso dall'angolo della strada spuntava qualche gruppetto di

giovanotti attillati nel loro umile vestire, con i capelli lisci

impomatati e tirati all'indietro; qualcuno più baldanzoso metteva

in bella evidenza una sigaretta accesa.

Allora il vociare della giovanette cessava, la loro attenzione

era attratta dai nuovi arrivi.

Il gruppetto dei ragazzi si avvicinava, mentre qualcuno si

metteva all'esterno per essere più vicino al gruppo delle ragazze

sedute al fresco.

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Lo sguardo attento di qualche mamma seguiva i giovanotti e

ad ogni piccolo cenno si girava verso la figlia a controllarne tutti

i gesti, riuscendo a percepire ogni movimento, ogni cenno.

Le ragazze, bellissime nella loro semplicità, seguivano con lo

sguardo i ragazzi; due sguardi s'incontravano, qualche fremito li

invadeva; qualcosa di nuovo mai provato prima, qualche risolino

si alzava tra le ragazze, tra loro si capivano: qualche amore... era

nato!

Il freschetto della sera era piacevole nessuno voleva lasciare la

compagnia, allora prendeva volo una proposta:

“pirchì un nni facemmu cuntari un cuntu di la zza Ciccina.?

Sì, bonu iè !!!”

Senza farselo ripetere due volte la zia, (di rispettu), si

collocava in un posto adatto a che tutti potessero ascoltare bene

ed incominciava: “Si cunta e si raccunta ca c'era na vota...”

“La zza Ciccina lu cuntu cumincia...lu cuntu”; una qualche

voce annunciava.

Allora dalle altre comitive si alzavano persone interessante al

racconto, portando con se la sedia, ed andavano ad ingrossare la

già numerosa compagnia.

Le persone sedute occupavano tutta la larghezza della strada,

ma poco male,tanto macchine non ne passavano; giusto qualche

contadino a cavallo della propria mula...ma non era un problema i

poveri animali erano abituati a passare tra la gente.

Si stava ad ascoltare fino a tarda sera; non c'erano altre

distrazioni, non c'erano altri divertimenti; c‟era il cinema, ma

andavano gli uomini, quasi mai le donne, queste venivano portare

dai loro papà o mariti solo se veniva proiettato qualche film

religioso, la vita di qualche santo.

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C'era 'na vota frammenti di mamoria

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Non esisteva ancora la televisione; l'apparecchio radio ad

elettricità e il grammofono a corda non potevano averli tutti,

costavano troppo; solo pochi avevano in casa la luce elettrica.

A parte i sacrifici per sbarcare il lunario, le liti nelle famiglie

erano continue, quasi sempre per superare le difficoltà

quotidiane; la gente era contenta di stare assieme perchè

coltivavano una incommensurabile valore, che adesso è

diventato rarissimo: il calore umano.

La zza Ciccina, tanto brava nel raccontare quanto scaltra

nell‟allungare il racconto, continuava a parlare, mentre davanti a

lei già cominciava a scemare l‟interesse iniziale.

I ragazzini che si erano seduti per terra ad ascoltare già

dormivano con la testa poggiata sulle gambe della mamma o

della sorella maggiore; anche le ragazze, che prima giulive e

vispe guardavano i giovanotti che passavano e ripassavano tre

quattro volte, cominciavano a guardarsi tra loro con gli occhi

sempre più spenti, quasi a non volersi arrendere a quella

pesantezza che abbassava le loro palpebre.

Qualche mamma già faceva segno a la zza Ciccina di

smettere,data l‟ora tarda.

“Picciò, cuntinuammu dumani..ah ?”

“Sissi..sissi..zza Ciccì,dumani cuntinuammu!”rispondeva

qualcuna alzandosi, e prendendo la sedia da portare a casa, si

avviava verso il letto a farsi una bella dormita e forse a sognare

quel bel giovanotto che quella sera non si stancava di passare e

ripassare, facendole arrivare, con gli occhi, dolci messaggi.

Un Quatrettu cu li Nanni (Spaccato di vita quotidiana coi nonni)

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I componenti di una famiglia erano per la maggior parte

numerosi.

Normale era considerata una famiglia composta dai genitori e

fino a tre figli, ma una ragguardevole percentuale superava i tre e

se ne contavano spesso anche quattro, cinque, sei e oltre.

“Li figli su „na binidizioni di Diu” si soleva dire... ma vestirli e

dar loro da mangiare era un problema del padre.

Quasi sempre quando il padre della sposa donava per dote alla

figlia la propria casa, aveva dei seri problemi di abitazione.

Allora si poneva il dilemma: stare in una casa affittata; con la

scarsezza di denaro che c‟era si presentava un caso irrisolvibile; o

rimanere in mezzo a una strada?... Poveri genitori!

Si trovava, in questi casi, “nn'agnuniddu” dove sistemare i

vecchi genitori.

Oppure i genitori della sposa davano una stanza della propria

abitazione alla nuova famiglia, e allora… si formava una grande

famiglia, con piacere della figlia che aveva i genitori con lei, ma

quasi sempre con molto disappunto dello sposo che non poteva

godersi a pieno i piaceri della famiglia, avendo tutti i giorni i

suoceri tra i piedi; “ddi mischini mancu pari ca cci sù', un'ummira

parinu”, “ora ca mi dettiru la casa chi l‟egghittari fora?” diceva la

moglie!

Ma il tempo è da sempre galantuomo! Dopo qualche periodo

di convivenza tutto diventa normale, anzi si evidenziano di più i

lati positivi e si cerca di non vedere i negativi.

Così andava a finire che la presenza dei vecchi in casa era un

grande aiuto per la famiglia, specie quando incominciavano ad

arrivare “l‟addevi”; correvano, gridavano, sporcavano,

rompevano, davano continui problemi; tre, quattro o cinque

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C'era 'na vota frammenti di mamoria

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bricconcelli erano troppi per la mamma, allora la presenza dei

nonni era vista molto positivamente.

Durante il giorno era normale sentirli litigare, gridare, per la

casa; papà era a lavorare.

Le grida dei ragazzi per le strade non mancavano mai; anche

quelle delle mamme che richiamavano e rimproveravano in

continuazione i loro figlioli; dovevano tenerli sotto controllo,

prima che ritornassero a casa con qualche “mercu” (Bernoccolo).

Le teste rotte erano all‟ordine del giorno; per le strade non

mancavano pietre ed i ragazzi erano sempre in lite tra loro,

tirandosi reciprocamente sassi e tutto ciò che era a portata di

mano.

In tutta quella normalità, i nonni avevano un importante ruolo;

sempre pronti e disponibili ad “accurdari l'addevi”.

Ma la sera, quando ritornava a casa papà, stanco dal lavoro e

spesso dei soprusi subiti, quelle grida erano un chiodo che si

conficcava nella testa del pover‟uomo, che voleva mangiare in

pace ed andare a dormire.

Il dormire, cosa che nelle prime ore della sera i ragazzi non

volevano fare, perché ansiosi di sentire i discorsi dei grandi o di

giocare col papà; volevano sedersi con gli altri fratelli più grandi

attorno al braciere d'inverno, sedersi al fresco davanti la porta

d'estate.

Le bande dei ragazzi erano sempre per le strade a giocare,

gridando e correndo, risvegliando nei più piccoli desideri di

libertà.

Dormire... e chi voleva andarci!

Allora lì, a gridare, a volerla vinta a qualsiasi costo, spingendo

il papà o la mamma a dar loro qualche paio di ceffoni, con

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conseguente pianto, grida, e con ulteriore arrabbiatura del papà,

che rivolgendosi alla moglie: “vidi caffari cu ssi diavuli o cca ì

nfuddiscu”.

Quello era il momento che apparteneva al ruolo dei nonni:

evitare le punizioni ai bambini, tenerli buoni e non farli diventare

chiassosi.

“Viniti viniti ccà, nicareddi mìi, lu papà è stancu e avi bisognu

d'arripusari...viniti cca, stasira vi cuntu un cunticeddu...” spesso

interveniva il nonno.

Di fronte a un cunticeddu nessuno sapeva resistere; addirittura

si chiamava qualche amico intimo vicino di casa, spesso anche i

grandi stavano a sentire, standosene in silenzio un po‟ in disparte,

facendo finta di essere disinteressati.

Che atmosfera... che stato d'animo... che bellezza... seguire

quei racconti coinvolgenti, interessanti, paurosi a volte; ma

bastava uno sguardo in direzione dei genitori o dei nonni e tutto

tornava a posto.

Il papà teneva gli occhi “a pampinedda” semichiusi per la

stanchezza, ma era interessato a seguire il racconto; con la

mamma lì vicino che rammentava, come ogni sera, “li robbi

strazzati”, che non mancavano mai.

“Si cunta e si raccunta ca c'era „na vota…” iniziava il nonno

con voce bassa e calma.

Gli occhi dei ragazzi sembravano perle nere che brillavano alla

luce “di lu lumi”, tanto erano aperti ed interessati… altro che

dormire… occhi fissi ed attenti ad ogni parola che usciva dalla

bocca del nonno; la loro boccuccia aperta quasi a trattenere il

fiato, secondo della circostanza in cui si veniva a trovare il

personaggio, vero o inventato che fosse, protagonista del

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racconto; ad intervenire per qualche messa a punto se, per caso, il

nonno si distraeva per un attimo dal filo del racconto e

confondeva qualche nome.

Dopo un quarto d'ora di racconto, nella stanza non si sentiva

un minimo rumore; solamente lo sferruzzare ritmato di “li ugliola

di la nanna” che faceva le calze, era un rumore connaturato,

neanche si sentiva più.

Fuori, in lontananza la voce di qualche mamma che chiamava,

a voce alta, il proprio figlio che si attardava a giocare con gli

amici per le strade; il nitrito di qualche quadrupede, l'abbaiare dei

cani, le liti dei gatti per chissà quale ragione; tutto questo faceva

parte integrante della vita quotidiana.

Papà incominciava a chiudere gli occhi e li riapriva sempre più

lontanamente; la mamma ogni tanto se li stropicciava per lo

sforzo che faceva alla tenue luce del lume a petrolio.

Dopo una mezz'oretta, la nonna si avvicinava e ci porgeva in

un pugno chiuso qualche fico secco, qualche pezzetto di spicchi

di noci, oppure qualche chicco di uva secca (la passula); che

allegria gustare quelle leccornie, che dolcezza, che gusto; era una

piccola pausa, per dare la possibilità al nonno di fare due boccate

alla sua adorata pipa di terracotta, dal fornello sempre nero

(arraddamatu) per il continuo uso.

Buona la frutta secca ma la testa era a lu cunticeddu.

Il nonno riprendeva a raccontare, riassumendo brevemente

quanto detto, forse per allungare un poco il racconto; tra le mani

la sua pipa, che passava da una mano all'altra, e che serviva quale

strumento, quando alle parole associava i gesti, cosa questa che

accadeva molto spesso.

I ragazzi seguivano sia le parole che i gesti, nulla veniva

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perduto, ma... già qualcuno incominciava a chiudere gli occhi, li

riapriva quasi “pì currivu”.

Il più piccolo andava ad accovacciarsi sulle ginocchia della

nonna, dando l'esempio a qualche altro, che subito lo imitava

andando ad abbracciare la mamma.

Tanti fattori conciliavano il sonno, ma più di tutti, credo, era

quell'atmosfera di tranquillità domestica, alla luce tenue del lume,

faceva da sonnifero ai ragazzi… come ai grandi!

I più grandicelli resistevano ancora, ma il brillare dei loro

occhi perliferi si era attenuato di molto.

A questo punto il nonno dava due colpetti di tosse, come per

schiarirsi la voce, e… “dumani a sira cuntinuammu, ora iemmu a

curcarinni”.

Il più grandicello pregava il nonno di continuare, ma la

pressione non durava più di una volta poi si alzava dalla sedia e

mesto mesto andava a buttarsi sul letto, seguito dalla mamma che

doveva accudirlo per la notte.

Nel letto già giacevano i due fratellini che da qualche tempo si

erano addormentati... anche per lui c'era posto.

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Lu Carrettu (Il Carro)

L'utilizzo degli animali per il trasporto delle masserizie e delle

persone è stato, da quando l'uomo ha capito che fare lavorare gli

altri è cosa giusta, praticato con diligenza cercando sempre il

modo e la maniera di fare sempre più lavoro in minor tempo.

A questo fine ha addomesticato, allevato, accudito, nutrito, con

diligenza, quegli animali che più di altri si adattavano alle

necessità della propria vita ed ai bisogni degli altri.

Nei secoli che si sono susseguiti l'intelligenza, la creatività,

dell'uomo ha messo in opera l'invenzione più importante, più

utile e adoperata, della storia dei bisogni dell'umanità: “la rota “.

Avere capito che la ruota si muove con poco sforzo,addirittura

con nessuno, trasportando con se un certo peso se collocata sotto

qualche pianale, è stata l'intuizione più importante della vita

quotidiana dell'umanità.

L'abbinamento dei due mezzi di trasporto, quadrupede - ruota,

ha creato per l'uomo il maximum di cui aveva necessità, per

trasportare, per lavorare, per spostarsi da solo ed in compagnia di

altri portando con se oggetti e strumenti utili al miglioramento

della sua esistenza.

Il mezzo di locomozione per eccellenza era il cavallo e suoi

derivati, veloce ed affidabile, specie quando tra animale e umano

si instaurava un rapporto di reciproca fiducia, ma era limitato

nella quantità, infatti poteva portare al massimo due persone e

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non tanto comodamente.

Al fine di dare la possibilità a più persone di potersi spostare,

con comodità e portando con se qualche contenitore con oggetti

utili alla vita quotidiana, l'ingegno dell'uomo sfruttò proprio

l'abbinamento dell'animale e della ruota

creando “lu carrettu “.

Di tante forme e dimensioni il carro è stato per millenni l'unico

mezzo di trasporto, sulla terra ferma, a disposizione della

comunità, dando la possibilità a chi ne possedeva uno di mettersi

a disposizione degli altri, lavorare per i loro bisogni, avendone in

cambio un compenso tale da potere essere sufficiente alle

necessità quotidiane proprie e della famiglia.

Nasce così il mestiere di “carritteri “.-

Nel nostro paese di carrettieri ce n'erano diversi ed erano a

disposizione dei cittadini tutti i giorni ed in qualsiasi ora; il loro

costo era limitato e proporzionato a quanto si trasportava; il peso

era importante e veniva rapportato alla difficoltà della strada da

percorrere ed alla durata del trasporto.

“Lu carrettu “ nostrano ( tipico siciliano) era un'opera d'arte.

Di forma quadrata, composto da un assale portante di ferro

battuto con sopra delle assi robuste di buon legno tenute tra loro

da forti bulloni, il tutto circondato da spalliere laterali di legno

stagionato, “li sponti “, fisse ai lati e smuovibili davanti e dietro a

secondo dei bisogni che si presentavano.

Due grosse stanghe ( li stanghi ) attraversavano tutto il carretto

uscivano dall'anteriore per circa due metri con una larghezza tra

di loro di circa un metro, sufficienti abbastanza per permettere al

cavallo di collocarsi comodamente nel mezzo, legato ad esse dal

sottopancia, dal collare,dall'imbracatura, tutte formate da robuste

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cinghie di cuoio; due lunghe briglie (li brigli) consentivano al

conducente, che stava seduto nella parte anteriore del carretto, di

comandare e dirigere l'animale; i paraocchi parte integrante dei

finimenti servivano per non far distrarre il quadrupede durante la

marcia,ed evitare eventuali brutti scarti.

Possenti nella loro docilità ed ubbidienti al comando del

padrone, tiravano il carretto con tutto il peso collocato sopra,

spesso fatto da tre,quattro persone oltre al conducente.

Le grandi ruote, protette all'esterno da robusti cerchi di

ferro,erano lavorate nei raggi con figure ed oggetti scolpiti e

pitturate con colori vivaci; i laterali “li sponti “ erano una vera

opera d'arte; non tutti perchè era un grosso costo farli abbellire,

ma quelli che erano lavorate attiravano l'attenzione dei passanti

che non potevano fare a meno di fermarsi ed ammirare quelle

immagini pitturate sul legno scolpito.

Scene tratte dall'epopea dei Paladini di Francia, fatte rivivere

dalla bravura degli scultori appartenenti alle due scuole tipiche

della tradizione “carrettistica” siciliana: quella palermitana e

quella catanese, mettevano in evidenza tutti i misteri che da

secoli avevano circondato le gesta eroiche della saga francese

nella Chanson de Roland: Orlando, Rinaldo, Carlo Magno, lo

scontro cruento ed eroico di Roncisvalle, erano i temi

predominanti delle scene riportate.

L'arte scultorea, incomparabile, completata dalle vivaci e

sapienti miscele di colori, mettevano in evidenza le scene che su

quelle facciate, di lu carrettu, sembravano sciupate se non poste

in una elegante galleria d'arte.

I carretti destinati ad un lavoro umile, al trasporto dello zolfo,

della polvere di gesso destinato alle costruzioni,di materiali

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inerti, non avevano detti fregi e lavori artistici; presentavano

pochi eleganti accorgimenti,ma altrettanto robusti, erano

parcheggiati qua e là, sempre vicini alla casa del possessore, in

attesa di qualche ordinazione da parte di qualche cliente.

Spesso si vedevano delle file lunghe di carretti di dimensioni

uguali ma di colori e ornamenti diversi, tirati da eleganti e robusti

cavalli o da qualche animale non più giovane ma sempre pronto a

dare il massimo di se stesso al comando del padrone, che carichi

di pesanti forme di zolfo, proveniente dalle zolfare locali,

procedevano in fila indiana verso i porti marittimi delle coste

agrigentine.

D'estate durante la raccolta dei cereali erano molto utili per il

trasporto delle fave o del frumento e quanto altro veniva prodotto

nelle campagne.

Sotto il carretto appesa ad una reticella di forma quadrata, che

fungeva da contenitore di vivande, pendolava l'inseparabile

lanterna a petrolio da accendere la notte, durante il lungo tragitto,

per segnalarne la presenza.

Durante il lavoro e nelle pause di riposo molto spesso si

vedeva accanto al cavallo un altro animale molto amico

dell'equino: il cane.

Affezionatosi al cavallo gli andava a fianco durante il tragitto

o si accovacciava vicino a lui nelle pause di riposo; faceva

compagnia all‟animale e da guardia al carretto e quanto altro

avesse caricato; se c'era il cane nessuno oltre il padrone si

avvicinava al mezzo di trasporto, accontentandosi di qualche

boccone di pane che il padrone gli passava durante il frugale

pranzo.

Lu carrettu era sempre un'attrazione per i numerosi ragazzi che

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giocavano per le strade,

Spesso cigolante per il troppo peso e col caratteristico cullarsi

(annacata) in senso laterale attirava i ragazzi che a turno si

appendevano alle due stanghe che uscivano un poco dal

posteriore ed avevano la funzione di punto fermo dove legare e

tenere fermo il carico da trasportare.

Ogni carrettu che passava subiva l'assalto dei ragazzi,

provocando le grida “di lu carritteri” che con voce roboante

rimproverava gli assalitori: “crastagnuna viditi ca vi struppiati”!

Il giorno di festa il carretto veniva lavato e lustrato a nuovo; si

strigliava il cavallo con attenzione passando il nero fumo agli

zoccoli dell'animale per renderli più puliti e neri; si bardava con

il finimenti eleganti adatti per le feste e le sfilate

collocando a bella mostra sulla testa del cavallo un grosso

ciuffo di grandi penne di tutti i colori dell'arcobaleno che davano

all'animale un possente e fiero aspetto; al centro,sul dorso della

bestia, faceva bella mostra in altro elegante e grosso ciuffo di

penne colorate sorretto da un piccolo piedistallo di legno

variopinto e tempestato da tanti specchietti di varie forme; nella

parte centrale, laterale, sulla testa e lungo le orecchie, tutto

intorno all'animale, decine e decine di sonagli (ciancianeddi) che

al procedere generavano un piacevole,familiare suono tipico della

ciancianedda -sonaglio ( erano finimmenti elegantissimi nei loro

vivaci colori e costosi che si trovavano solo a Palermo ed a

Catania).

Anche il carrettiere si vestiva col vestito buono, tipico del

mestiere, che presentava pantaloni e giubbotto aderenti al corpo,

stivali neri, la bianca camicia era chiusa al collo da una specie di

cravatta composta da un cordoncino con alle punte due palline di

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lana di vivaci colori che pendolavano dai colletti della camicia, in

testa una coppola nera; con una mano teneva una lunga frusta che

faceva schioccare continuamente in aria, con l'altra stringeva per

il morso la elegante e luccicante cavezza, guidando il cavallo nel

suo elegante procedere.

Alto, con la testa adornata da bellissimi finimenti, col

pennacchio sopra la testa in cima ad un possente muscoloso e

lungo collo, con passo stile marziale provocava un rumore

piacevole e familiare con gli zoccoli; ogni tanto alzava le belle e

lunghissime setole della coda e con noncuranza e fare dignitoso

lasciava cadere delle palline verdastre, materiale ormai

inutilizzabile dal suo apparato digerente; allora si spandeva

nell'aria un certo profumo, quasi nessuno definiva “fetu” perchè

chi più chi meno tutti avevano in casa o accanto la propria casa

uno o due produttori di quelli ovali rifiuti; più raramente, ma ogni

tanto si poteva ammirare, alla fuoriuscita del materiale solido

seguiva una cascatella liquida di colore paglierino che con

l'impatto della caduta a terra produceva una abbondante e

biancastra schiuma; dopo di tutto questo l'animale, sempre con

molto decoro e lasciando qualche risolino sulla bocca degli

spettatori, continuava il suo cammino lasciando nell'aria un

profumo... molto familiare!

Attraversava la piazza principale in tutta la sua lunghezza con

calma, fermandosi ogni tanto per dare la possibilità a chi lo

desiderava (erano tanti) di ammirare “lu carrettu cu tuttu lu

carritteri”.

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La Sirinata (La serenata)

Durante le calde serate d‟estate c‟era la buona abitudine di

rinfrescarsi e riposarsi un poco, dopo una calda giornata di

lavoro, standosene seduti davanti la porta lasciandosi accarezzare

dalla fresca brezza serale.

Di solito non si stava da soli; diversi vicini venivano ad

accrescere la compagnia

chiacchierando e rilassandosi; sovente anche gli uomini si

univano alle donne standosene leggermente in disparte parlando

del più e del meno.

Gli argomenti dominanti erano i fatti successi in paese, il lavoro

svolto durante la giornata, gli inconvenienti capitati e quant‟altro

poteva essere argomento di conversazione, in quelle lunghe

serate afose.

I ragazzi correvano e giocavano nei pressi riunendosi a frotte; i

maschietti si sbizzarrivano con giochi che li portavano ad

allontanarsi anche di qualche cantonata, mentre le femminucce si

dedicavano a giochi che le tenevano vicine alle mamme e tra

loro.

Quadretti di vita paesana che mettevano in evidenza la

freschezza, la purezza dei rapporti di amicizia, la sincerità, il

rispetto, che facevano parte della quotidianità delle persone.

Era un‟usanza tanto radicata, quella il sedersi davanti la porta

assieme ad altre persone, tanto che in qualche strada,

particolarmente abitata (lo erano tutte in verità), si potevano

contare più comitive sedute a chiacchierare.

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Si stava fino a sera tarda; era piacevole parlare ed ascoltare di

quello che succedeva nel paese e oltre.

Sovente, esauriti gli argomenti, qualcuno proponeva di

incominciare qualche racconto (un cunticeddu).

Si invitava, allora, qualche anziana particolarmente preparata in

questi diversivi, ad iniziarne qualcuno.

Il tempo passava senza che si percepisse minimamente il suo

inesorabile trascorrere, fino a che qualcuno, che l‟indomani

doveva alzarsi presto per andare a lavorare, con garbo e

delicatezza, faceva la proposta di rinviare la continuazione

all‟indomani e per quella sera andare tutti a letto.

Tanti ragazzini già dormivano con la testa appoggiata sul grembo

materno; i più piccoli già addormentati da tempo.

Le comitive già avevano sciolto le adunate serali rientrando nelle

rispettive abitazioni quando alle orecchie, sempre tese, della

gente arrivavano dolci note musicali che accompagnavano una

voce tenorile; questa si spandeva forte e chiara nell‟aria, ad

accarezzare il sonno di tanta buona gente, del silenzio assoluto

della notte. Ma non tutti dormivano!

Pian piano, facendosi sempre più forte e comprensibile nelle

parole del cantante, la dolce melodia si avvicinava fino ad essere

facilmente compresa.

Chi era ancora sveglio si apprestava ad affacciarsi alla finestra

preso dalla dolce e coinvolgente melodia che inteneriva e

coinvolgeva gli animi spingendo alla curiosità.

Le melodie si alternavano dando la preferenza ora al cantore, ora

alla chitarra, ora al violino, ora alla fisarmonica.

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L‟aria circostante ne era satura riuscendo ad arrivare lontano

lasciandosi trasportare, nella silenziosità della notte, dalle leggere

ali della piacevole brezza notturna.

Era una delle tante “sirinati” che gli innamorati erano soliti

portare alle loro amate nelle piacevoli notti estive.

Quella notte qualcuna non stava dormendo; nella sua trepidante

attesa, all‟insaputa dei genitori, l‟innamorata stava al buio dietro

la finestra della propria abitazione ad ascoltare quella melodia,

che la coinvolgeva, farsi pian piano vicina; quanto più vicina si

faceva tanto più forte batteva il suo giovane cuore.

L‟aria ove passava la comitiva era satura di musica, di dolci frasi,

di bella gioventù, di allegria; oltre i musici, il

cantante,l‟interessato innamorato (spesso più di uno recandosi a

vicenda sotto le finestre) un folto gruppo di giovanotti si univa

alla comitiva, spesso ingrossando il coro di accompagnamento e

dando a tutta l‟allegra comitiva una immagine festosa e giuliva.

Da dove passavano, durante le pause tra una melodia e l‟altra, il

circondario si riempiva di voci, di mormorio, di risate, interrotte

da un energico accordo di chitarra seguito subito dopo dalla

melodiosa voce del cantante che iniziava una bellissima serenata:

“affaccia bedda…affaccia al tuo balcone…”

Frasi tenere, dolci, spesso tremanti a significare la trepida attesa

dell‟innamorato che stava lì, accanto al menestrello, quasi a

sorreggerlo nel suo cantare pieno di sentimento.

Gli strumenti musicali sprigionavano il meglio, dalle loro casse

armoniche,sollecitati e guidati dalle energiche e tremanti mani di

amatori che facevano di quella musica arte sublime e

coinvolgente.

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Tante finestre si illuminavano al loro passaggio; gente che si

accingeva ad andare a letto, gente che si svegliava dolcemente, al

giungere di quelle melodie carezzevoli mai irritanti, gente

interessata a quella musica, conoscitrice di segreti amorosi e

confidenti speciali.

Vicini di casa che con gli occhi assonnati affacciatisi alle finestre

chiedevano a qualcuno della comitiva:

“pi ccu iè ssà sirinata? cù iè ssà furtunata?”

Coinvolgente, curiosa, allegra, la comitiva continuava il

cammino avvicinandosi, piano piano, alla dimora dell‟amata

fanciulla. Il loro procedere era lento, con molte soste necessarie

per dare la possibilità ai suonatori di sistemarsi bene gli

strumenti, al cantante di intonare meglio le melodie, alla gente di

sentire più chiaramente quelle note.

Con quel procedere, ormai ben collaudato dalla tradizione, la

comitiva incominciava a prepararsi alla sosta principale sotto la

finestra o balcone, della giovinetta che era all‟origine di tanta

trepidazione.

Già da tempo la ragazza era in attesa; sapeva della serenata e

sentiva da lontano la melodiosa musica che si avvicinava e si

faceva sempre più forte alle sue orecchie, mescolandola a quella

che si sentiva addosso proveniente dai battiti del suo cuore.

Con la finestra appena aperta sbirciava dalla fessura per vedere

quando l‟amato, con tutta l‟allegra compagnia, entrasse nella

strada; procedeva con la massima attenzione in maniera che i

propri genitori non capissero che tutta quella serenata fosse

destinate a lei.

L‟ingenuità delle ragazze di allora faceva tenerezza.

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I genitori certamente sospettavano che qualcosa di bello e

gradevole stava cambiando la loro bambina in donna; dal

continuo controllo che i genitori, e con essi anche i fratelli,

avevano sulla ragazza, avevano certamente intuito che qualche

bravo ragazzo stava facendosi strada nel cuore della loro figliola.

Anche il resto della famiglia sentiva la musica; stava con le

orecchie tese ad ascoltare l‟avvicinarsi di quelle gradevoli

melodie.

Un presentimento di coinvolgimento era in loro e si

interrogavano con gli occhi, mentre le loro orecchie erano tese a

percepire il minimo rumore proveniente dalla figliola.

Finalmente la comitiva entrava nella strada ove abitava l‟amata; a

questo punto la frenesia cominciava a impadronirsi dei cantori ed

in particolare dell‟innamorato che, con ampi gesti, invitava i

musici ad organizzarsi a gruppo compatto con innanzi il cantante;

questi si schiariva la gola con piccoli colpetti di tosse, fino a

portare la gola alla perfezione.

L‟innamorata, al buio più totale, stava dietro la finestra,

trepidante ed impaurita; gli occhi puntati nella strada, le orecchie

tese a percepire il minimo rumore proveniente dall‟interno.

Con molta discrezione la comitiva si avvicinava alla casa oggetto

di tutta l‟operazione; pian piano, cercando di fare il meno

possibile rumori inutili, si sistemavano sotto la finestra o il

balcone ove certamente l‟amata fanciulla stava ad aspettare.

L‟innamorato si metteva bene in evidenza disponendosi accanto

al cantante e dando un‟ultima sistematina al suo vestito buono,

messo a posto dalla brava mamma per quella importante

occasione.

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Anche i genitori e gli altri familiari si erano ormai alzati e

sistemati dietro la finestra a guardare quella allegra gioventù che,

spinta da una irrefrenabile forza interiore, seguiva il ciclo

naturale della vita.

Stavano lì a guardare emozionati ma contenti, cercando di

trattenere qualche lacrimuccia al pensiero che “l‟addeva”

cominciava a prepararsi a lasciarli per andare, con quel bravo

ragazzo, a formare una nuova famiglia.

Un accordo di chitarra già dava il via alla musica, seguita

all‟unisono dagli altri strumenti, preparando l‟entrata in scena

delle dolci ed appassionate parole che di lì a poco l‟innamorato,

per bocca del cantante, avrebbe rivolto alla sua amata:

Vinni a cantari ccà sta sirinata

Cu la chitarra e la me cumpagnia;

Ricordati di me, fanciulla amata,

Ti do la buonanotte e vado via.

Rit .: Tu dormi, dormi, fanciulla mia,

Non sai che sia l‟amare te!

Tengo una smania d‟averti accanto

Amore santo, mi fai soffrir.

Dormi con gli occhi chiusi ma sveglio è il cuore,

lo sai che sono io il tuo primo amore;

Lo sai che sono io che t‟amo tanto

E vengo a risvegliarti col mio canto

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Rit .: Tu dormi, dormi, fanciulla mia,

Non sai che sia l‟amare te!

Tengo una smania d‟averti accanto

Amore santo, mi fai soffrir.

E la matina di la benlivata

Ti portu lu cafè cu la granita;

e po‟ ti portu a la missa cantata

Cu la to bedda vistina di sita.

Rit .: Tu dormi, dormi, fanciulla mia,

Non sai che sia l‟amare te!

Tengo una smania d‟averti accanto

Amore santo, mi fai soffrir.

L‟aria era satura di una magica atmosfera, tutto sembrava più

bello e conciliante; i pensieri, le ansie, i dolori, le pene, i sacrifici,

le stanchezze, in quel momento venivano totalmente dimenticati.

Tutta l‟anima era presa dalla dolce melodia e dalle romantiche

parole, tutt‟uno con la meravigliosa voce del cantante che, con

grande enfasi, metteva tutta la sua bravura nell‟interpretare i

sentimenti che in quella notturna rappresentazione si volevano

esprimere.

Gli sguardi di tutti i convenuti erano rivolti verso la finestra della

ragazza; qualcuno cominciava a dubitare che quella serenata

venisse accettata (capitava, ogni tanto, che invece di un sorriso,

dalla finestra arrivava “un catu d‟acqua”); qualche vocina, a

basso tono, incominciava ad incunearsi nell‟animo di qualcuno:

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“mi pari ca stà sira „un ficimu nenti”, “aspittammu

tanticchia…ancora prestu è!”

Dalle finestre vicine qualche lucetta si accendeva; da dietro i

vetri si vedevano le sagome delle persone prese dalla curiosità;

qualcuno si affacciava liberamente ed ascoltava quella gradevole

serenata seguendo con lo sguardo l‟allegra compagnia, occasione

questa di conoscere il giovane spasimante che se ne stava

impalato con lo sguardo fisso alla finestra della sua bella.

Presi dalla melodiosa atmosfera, dalla insopportabile afa estiva,

che teneva la gente sveglia fino a tarda notte sempre sudaticcia,

gli abitanti di quella strada, per quella notte, avevano un bel

passatempo.

Certo non tutti gradivano quella manifestazione; chi doveva

alzarsi presto per andare a lavorare, non accettava di buon grado

quei “rumori notturni”: “‟unnannu chiffari stà sìra…schiffarati jti

a dòrmiri!”

In compenso erano graditi e bene accetti da chi era l‟oggetto

primario di tutta quella manifestazione.

Infatti da dietro la finestra la ragazza, che aspettava ed accettava

di buon grado quella serenata, voleva dare un piccolo cenno si

assenso al suo spasimante.

Con le orecchie sempre tese a percepire il minimo rumore che

potesse giungere dall‟interno della casa, guardava il “suo”

ragazzo che giù in strada stava con gli occhi fissi alla finestra, in

attesa di qualche cenno di assenso.

Spinta dalla grande forza dell‟amore, finalmente si decideva a

fare qualcosa.

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Sempre al buio e con grande accortezza, apriva un poco la

finestra lasciando che da fuori si vedesse la sagoma della sua

tanto attesa figura.

In strada era tutto un fermento; il cuore dell‟innamorato batteva

all‟impazzata, mentre si muoveva nervosamente a fianco del

cantante, il quale, alla vista della ragazza alzava il tono della voce

fino all‟inverosimile.

Per quella sera tutto era andato bene.

Il ragazzo era al settimo cielo; riceveva le congratulazioni degli

amici che lo circondavano, mentre con la mano dava un cenno di

saluto in direzione dell‟amata che, fattasi un poco più

intraprendente, si era un pochino affacciata, dalla finestra semi

aperta.

Da un altro posto della stessa casa, qualche altra persona

asciugava una lacrimuccia di felicità, mentre stavano lì, ad

assistere a quella meravigliosa manifestazione d‟amore.

La serenata era andata a buon fine; la compagnia, dopo avere

intonato qualche altra canzone d‟amore, cominciava ad

allontanarsi, piano piano quasi a perdersi tra l‟aria afosa di una

calorosissima notte d‟estate.

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La Fujitina (Fuga d‟amore)

Ogni tanto la tranquillità paesana, che era solita regnare nel

quartiere, veniva lacerata da grida, sempre femminili, che

attiravano l'attenzione dei vicini e di tutti quelli che le sentivano.

La solidarietà umana, unita alla grande curiosità che è propria

della razza, spingeva prima i vicini di casa poi man mano anche i

più lontani, ad affacciarsi in strada per individuare da dove

venissero quelle strazianti grida.

Già si vedeva qualche persona intima correre in direzione di

una certa abitazione, seguita a poca distanza, da qualche altra

persona con il cuore in gola e la paura la faceva mancare le forze

alle gambe dei soccorritori.

I loro volti sbiancati, il respiro ansimante, con il mano qualche

foglia di cavolo o con le mani ancora imbrattare di farina

impastata, correvano in direzione della provenienza delle grida.

“Chi cc'è... chi succèssi ?...mmari Ciccì chi ffù... cu muri ?).

Tra quel fermento che già invadeva tutta la strada e quelle

viciniori, le grida si facevano più forti quasi a volersi fare sentire

ancora più lontano!

Quelle ingarbugliate parole insieme alle forti grida

incominciavano ad essere capite, qualche parola iniziava a

comprendersi, qualche frase si avviava a prendere forma ad avere

un significato, ancora confuso,ma comprensivo.

La gente correva, uomini, ragazzi, vecchi, donne in

maggioranza; già davanti la porta d'entrata si accalcava un

discreto numero di persone pronte a portare aiuto e ad...appagare

la propria curiosità.

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“Chi cc'è?... chi ssuccessi?...cu murì?...la gnura Cicca!? La

gnura Cicca murìììì...)!

Già qualche voce circolava e si allargava nel vicinato... ma...le

grida, ormai, si facevano chiare e le frasi andavano prendendo

senso compiuto.

“Figlia sbinturata! Disgraziata! la bedda figlia... mi

l'arrubbaru... Miiii l'aaarrruuubbbaaarrruuuu..Bbuttàààna!

Tròòòòia!)

piccola pausa per prendere respiro, poi... “Si nnì fuì, sìì nnììì

fuuuììììììì” la bbuttana ! “gridava la donna rivolgendo la propria

disperazione in direzione dei primi soccorritori che ansimanti

chiedevano spiegazioni.

Ormai tutto era chiaro, puntualmente, sistematicamente,

ordinatamente, si ripeteva ciò che da secoli avveniva quando

l'amore prevaleva sulla volontà della famiglia; l'amore sì...ma a

volte e da noi spesso la “fuitìna” era il risultato

di un ragionamento tanto approfondito e tanto calcolato, la

naturale conclusione per chi viveva nell'assoluta povertà, per chi

aveva sì e no il sufficiente per vivere.

La scena che si presentava agli occhi dei primi arrivati era il

copione di scene già viste, in altri luoghi, in altri tempi, ma

sempre simili tra di loro: in un angolo seduto su una sedia, con lo

spago pendolante da sotto, con la testa appoggiata su una mano,

con il braccio appoggiato sul pianale di un modestissimo ed

unico tavolo, le spalle appoggiate al muro, col volto scarno e

patito, con ai piedi un paio di scarpe che avevano vissuto molto

tempo fa la loro giovinezza, uno scialle sopra le spalle, stava in

silenzio il padre.. il capo famiglia.

Sull'unico letto grande, disordinato, coperto da una “cuttunina”

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sgualcita, posto su tavole sorrette da “trispa”, stavano pieni di

paura e di interrogativi due,tre bambini stretti tra di loro, per

tenersi caldi e per difendersi da ciò che non capivano ancora; gli

occhi lucidi e tristi, il più piccolo col faccino sporco ai lati dal

moccio, emanavano una tale tenerezza che coinvolgeva chi li

guardava.

La stanza, spesso unica, piena dalle grida dalla donna, la

mamma della fuiuta, presto si riempiva anche di persone che

sentite le ragioni di quella disperazione, dopo avere represso un

istintivo risolino o trattenuto un naturale commento, atteggiando

il proprio viso a dispiacere, tornava indietro mettendo al corrente

le persone che incontrava e sprigionando,finalmente, quel

risolino prima aveva represso.

“La disgraziata si nnì fuì...nasì si nnì fuì! Chi ccì mancava „na

la casa di sò pà, chi cci mancaaaava!

Figlia sbinturata! chi vrigogna chi vrigoooogna “continuava la

donna... ma con meno vigore, vinta ormai dalla stanchezza ed

appagata per averlo comunicato agli altri.

Circondata dalle amiche, la donna non si dava pace; un paio di

brave persone avevano preso in braccio i bambini e cercavano di

rassicurarli dando loro un poco di calore umano.

Alcuni uomini si erano avvicinati a “mpari Ciccu” cercando di

consolarlo e dimostrargli solidarietà con la loro compagnia.

Piano piano nell'aria incominciava a ritornare la normalità con

il vai e vieni delle persone che portavano la loro solidarietà alla

famiglia colpita dalla “disgrazia” e dalla “vergogna”.

“La fuitina” azione, spesso obbligata a volte organizzata, a cui

i fidanzati dovevano ricorrere per coronare il loro sogno d'amore,

per realizzare la loro unione e metter su famiglia, avveniva

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anche dopo o a conclusione di un periodo di fidanzamento,

durante il quale i ragazzi si frequentavano, si conoscevano, si

affezionavano l'uno all'altra senza nessuna concessione di libertà

da parte dei genitori.

Spesso durante il lungo fidanzamento, l'influenza dei genitori,

per la verità decisionale, portava alla divisione della giovane

coppia, con grande disapprovazione dei ragazzi che ormai si

erano affezionati e si volevano bene.

L'amore dei giovani sì era importante, ma la volontà dei

genitori lo era di più col risultato che spesso si litigava tra le

famiglie, costringendo i ragazzi a lasciarsi.

Parenti, amici, più o meno influenti intervenivano nel fatto a

mettere “la bona palora”, ma la testardaggine dei genitori la

voleva vinta a qualsiasi costo senza sentire ragioni; a questo

punto, quasi sempre con il benestare di qualche parente che

doveva ospitarli e spesso garantire la illibatezza della ragazza per

permetterle di sposarsi in chiesa, si percorreva la strada della

fuitina”.

I ragazzi andavano a pernottare in casa di parenti, consenzienti

o nella peggior delle altre tante numerose volte, in qualche

“paglialora” a concludere la loro scelta e ad iniziare una nuova

vita.

Certi padri per anni ed anni non volevano perdonare quella

scappatella ai loro figli costringendoli a sacrifici non indifferenti,

specie se non avevano una casa ove abitare e il ragazzo non

lavorava in continuazione.

La famigliola cresceva con l'arrivo di bambini, benedizione

questa, che consentiva di ammorbidire il cuore indurito dei

genitori,specie del padre ferito nell'orgoglio, e permetteva la

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conciliazione tra le famiglie.

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Lu Cantaru (Il Pitale)

Per descrivere l'argomento susseguente oltre ai ricordi che ho

da bambino ho cercato conforto e aiuto tra le persone più mature

di me, che hanno nel loro ricordo più chiaro il fatto, l'atto

consueto utile e necessario alla vita quotidiana.

Non era raro, per chi si svegliava presto la mattina o rincasava

tardi la sera ma sempre col buio, incontrare per le strade delle

periferie del paese persone avvolte nel loro grande e nero scialle,

con passo svelto, gli occhi appena visibili rivolti sempre verso

terra, con fare guardingo ed attento a dove mettevano i piedi,

trasportare qualcosa nascosto sotto lo scialle.

La figura ammantata di nero svaniva alla vista molto presto,

inghiottita come per incanto dal buio che, specie d‟inverno, era di

un colore nero pece.

Non passava molto tempo...giusto qualche minuto e dal buio,

leggermente più tenue perché sbiadito dalla sporadica lampada

pubblica accesa, spuntava di nuovo quella figura che percorreva,

sempre col passo veloce e con fare circospetto, la via del ritorno.

Per i bambini, i ragazzi, che, occasionalmente si trovavano

ancora per le strade, era un mistero che per tanto tempo non

riuscivano a capire, anzi spinti dalla loro fervida e pirotecnica

fantasia si immaginavano fosse operato di streghe, di fatti segreti

che non si dovevano vedere ne sapere, dato che si svolgevano in

orari inconsueti e con l'aiuto delle tenebre.

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Qualche volta si riusciva a vedere fino a dove arrivavano ma

non di più perchè dopo una breve sosta, qualche movimento

furtivo, uno sguardo in giro, sempre avvolti come prima,

ritornavano indietro.

Tra i ragazzi era un argomento di discussine e di curiosità; la

fantasia si sbrigliava ed ognuno diceva la sua:

“streghi, magari, riunioni segreti, li piglia addevi”, che

andavano a controllare a turno il mal tolto.

Tutto il mistero durava fino a quando qualcuno più grande, che

si univa alla comitiva, metteva al corrente i ragazzi del significato

di quel modo di fare.

Finalmente l'arcano si chiariva.

Le donne di casa andavano a buttare nell'immondezzaio i

rifiuti materiali del corpo umano depositati dentro un recipiente

di terracotta ( lu cantaru” o “lu rinali” ).

Non so se quanto raccontato farà lo stesso effetto che ha fatto

su di me nel momento di descriverlo: ho riso.

La maggior parte delle abitazioni non avevano allacci alle

fognature ove scaricare i rifiuti corporali, di conseguenza non

avevano nemmeno un buco ove buttarli; questi venivano raccolti

in uno o più contenitori e buttati assieme al concime stallatico,

per chi aveva l'animale nella stalla; nell'immondezzaio comune,

per chi non ne aveva.

Il trasporto avveniva sempre con un capiente recipiente e

questo compito spettava sempre alla donna di casa più anziana,

che utilizzando le tenebre della sera o della mattina, avvolta in

uno scialle e con fare circospetto, andava a buttare l'aromatico

contenuto nell'immondezzaio più vicino.

Immondezzai ce n'erano tanti; ogni quartiere aveva il suo a

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volte due, necessari depositi della pochissima immondizia che si

produceva in famiglia ma principalmente per i rifiuti organici

delle persone e dei numerosi animali che si allevavano nelle

stalle.

Non era raro vedere ragazzi che

correvano,giocavano,scavavano, tra quei rifiuti; l'olezzo era

insopportabile specie d'estate durante la naturale decomposizione

del materiale; il fumo saliva verso l'alto e la puzza invadeva

spesso le strade vicine; gli insetti di tutte le specie, nuvole

d'insetti, svolazzavano sopra quell'ammasso puzzolente senza

mai stancarsi, diffondendo per un largo raggio quel rumore tipico

degli ammassi di api vaganti.

Molti contadini usavano questi posti come depositi per il loro

concime stallatico e non solo; depositavano sempre nello stesso

posto creando cumuli alti due tre metri in attesa che si digerisse,

avvenisse la decomposizione e si trasformasse in ottimo

fertilizzante, nutriente concime da utilizzare in agricoltura.

Tutti i giorni si potevano vedere centinaia di galline, qualche

maiale, cani randagi, rimescolare tra quel materiale in cerca di

qualche scarso boccone da inghiottire; era una continua lotta, una

gara tra i poveri animali che non potendolo avere in casa, una

volta liberi per strada cercavano tra i rifiuti qualcosa idonea a

mitigare la loro cronica fame.

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Li Munnizzara (Gli Immondezzai)

Ogni tanto, specie d'estate, qualche ragazzino giocando con i

fiammiferi (gioco preferito dai ragazzi)accendeva qualche

fuocherello dando inizio a quello che sarebbe stato un incendio

generale; da gioco all'inizio a tragedia alla fine.

Il fuoco dopo avere, piano piano, divorato per diversi giorni il

deposito di rifiuti appestando e rendendo irrespirabile l'aria

circostante, continuava ad allargarsi arrecando seri danni a

qualche costruzione vicina.

Tramite qualche oggetto particolarmente infiammabile,

qualche poco di paglia sparsa qua e la il fuoco si propagava fino a

incendiare qualche vicino deposito di paglia, destinata al

nutrimento delle bestie, che i contadini sono soliti conservane,

provocando paura tra gli abitanti delle abitazioni vicine.

“Lu focu scappà, la paglialora abbruscia..curriti curriti...

pigliati li cati... l'acqua, curriti...) e così iniziava la corsa contro il

fuoco che trovando buona combustione nella paglia asciutta, la

divorava sprigionando fiamme che presto incenerivano anche il

misero tetto di travi e canne.

Spesso a nulla serviva la solidale catena umana che buttava

acqua tra le fiamme quasi a dar loro un poco di refrigerio in

quelle giornate calde ed afose; in poche ore tutto era finito, tutto

il consueto panorama era stato trasformato;

al posto dell'immondezzaio un largo spiazzo nero e fumante

aveva preso il suo posto; quattro povere mura annerite gli

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facevano compagnia, guardate con occhi umidi dal povero

“viddanu” che aveva visto svanire la propria pagliera con tutta la

paglia, unico sostentamento della propria mula.

In una estremità dello spiazzo già una zappa era al lavoro per

pulire il posto ove si doveva depositare il nuovo concime che

giornalmente si accumulava.

Lu munnizzaru riprendeva vita !

Ho sempre messo in evidenza, non a caso, quanti ragazzi

correvano e giocavano per le strade: tanti erano i modi di giocare

da soli o in compagnia, stando seduti o correndo, con attrezzi

(sempre povere cose inventate o racimolate proprio nei

mondezzai).

Ogni tanto qualcuno trovava qualcosa utile, (buttata via per

distrazione più che per inutilizzabilità perchè quasi tutto veniva

riparato); a volte si trovava... il dispiacere.

Mentre si scavava e si rovistava tra il concime ferirsi con

qualche pezzetto di filo di ferro, con qualche vecchio ferro di

cavallo, oppure con qualche vecchia lattina buttata via perchè

arrugginita, era cosa che capitava spesso.

Allora erano pianti, corse verso casa, grida che coinvolgevano

tutta la strada, avvolta nel suo tipico sopore paesano.

Ingiurie in direzione del ragazzo “lagnusu e mangia pani a

tradimentu”; bestemmie da parte del padre preoccupato per

eventuali conseguenze; la corsa frenetica verso il medico e la

conseguente verso la farmacia con la speranza che una volta tanto

avesse la medicina prescritta.

Ferite sanguinolenti, ematomi, sbucciatine di gomiti o

ginocchia,erano cose di ordinaria convivenza.

L' “ogliu piricò” era sempre lì nella bottiglia”a lu suli e lu

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sirenu”, affissa ad un chiodo conficcato al muro esterno della

finestra, sempre pronto ad essere utilizzato in queste occasioni;

ma non era ne adatto ne sufficiente in certe occasioni.

Iniziavano gli anni cinquanta quando un boato lacerò la

naturale tranquillità del quartiere; i vetri delle finestre vicine

tremarono, qualcuno addirittura si ruppe, e dai balconi, dalle

finestre, dalle case, decine e decine di persone si affacciarono per

rendersi conto di quella esplosione.

In verità ogni tanto si sentiva brillare qualche bomba a mano

lasciata cadere o persa o rubata agli americani di passaggio, poi

abbandonata nelle campagne pur di disfarsene, ma negli

immondezzai mai!

Booommmh!

Nelle orecchie delle persone ancora tuonava il cambio di

pressione atmosferica quando una voce di ragazzo ansimante e

dolente si udiva: “aiutu aiutu, Ciccu murì”!

La gente titubante, guardinga, pervasa dalla paura, spuntando

da ogni casa, da ogni angolo di strada, correva verso la voce del

ragazzo, che sempre sofferente: “mamà aiutami, curriti curriti,

aiutu”!

Già i primi soccorritori erano arrivati nell'immondezzaio; alla

loro vista si presentò un quadro straziante: un ragazzetto pieno di

sangue seduto sull'immondezza, accanto un altro ragazzo disteso,

imbrattato di letame misto a sangue.

Subito l'attenzione dei soccorritori su attratta dalla gamba

lacerata in maniera seria e un avambraccio che pulsava sangue a

getti, privo della mano.

I ragazzi non morirono, il più grave perse una mano e restò

zoppo.

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Cerca, cerca chissà cosa e qualcosa avevano trovato “na lu

munnizzaru”!

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Lu Furnu (Il Forno)

La fame, sensazione impellente, irrefrenabile causata dal

bisogno di cibo, è lo stimolo che più di tutti spinge l'uomo a

lottare con tutti i mezzi a sua disposizione legali e non pur di

soddisfare la necessità di nutrimento.

Da che abbiamo notizia scritta o tramandata verbalmente

l'alimento per eccellenza, sufficiente a soddisfare il bisogno del

nostro corpo, è il pane.

Il pane, quali ricordi di profumi, di gusto, di gesti, di ambienti,

di voci, di atmosfere, di soddisfazioni, vengono alla mente,

solamente al pensiero di...pane!

Quanti sacrifici, sudore,pene,dolori,lavoro,mortificazioni,per

il pane!

Seminare, coltivare, mietere, pulire, molire, impastare,

cuocere, quanto lavoro per un pezzo di odoroso, morbido,

fragrante, caldo, gustoso e soddisfacente pane.

Il posto per eccellenza, ove si possono sentire, provare, tutti i

pregi descritti, del pane, è certamente il forno.

Nel paese i forni erano molti; ogni quartiere ne aveva

tre,quattro; sempre a piano terra, illuminato dalla luce del sole; se

il lavoro si protraeva fino a tarda sera si faceva uso di qualche

lume a petrolio, qualche mozzicone di candela.

Le pareti nerastre a causa del fumo che per quanto bene

incanalato verso l'esterno ogni volta che si “famiava”(si

accendeva il fuoco per riscaldare il forno) una piccola parte

invadeva la casa ove le donne, tra un chiacchierio dominante,

lavoravano.

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A ridosso dei muri alcuni tavoli, sempre traballanti, su cui

s'impastava la farina formando un grosso amalgama “lu pastuni”;

delle lunghe mensole, poste alla pareti sia in altezza che in

lunghezza, davano la possibilità di deporre i pezzi d' impasto a

forma di pane per consentirne la lievitazione; in un lato della

stanza era collocato “lu scanaturi”, grande e robusto quadrato di

legno con un'asse centrale mobile che veniva alzato ed abbassato

sul grosso pastone, girato e rigirato da una seconda persone per

essere ben amalgamato ed impastato.

Ai muri tanti “criva larghi, criva stritti, criva di sita” per

separare la crusca e le impurità dalla preziosa farina; qualche

sedia qua e la; l'angolo a fianco del forno era adibito come

deposito di combustibile paglia

ed erba di ogni genere raccolta ed accumulata durante la

giusta stagione, per alimentare il fuoco che doveva riscaldare il

capiente forno; una considerevole quantità di paglia era fornita

dai privati che avendola sostituita

con della fresca nei loro materassi, perchè ormai appiattita per

il troppo uso, la portavano al forno per essere utilizzata

bruciandola.

“Li furni” più o meno simili i tra loro, erano così arredati (per

modo di dire perchè la parola arredo era sconosciuta ai più )in

modo molto pratico, senza superfluo, ove si andava solamente

per lavorare e fare il pane, null'altro a parte chiacchiere ed

aggiornarsi su quello che accadeva nel quartiere e nel paese,

Tante famiglie avevano il forno in casa e facevano il pane una

due volte la settimana (si manteneva fresco e buono anche per sei

giorni).

Si utilizzava la farina del frumento che loro stessi producevano

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(non tutti, tanti compravano “la mangia” una quantità sufficiente

per il fabbisogno di un anno ).

La maggior parte si serviva del forno gestito da privati.

Aperto fin dalla mattina presto era sempre pieno di donne

intende a lavorare: chi crivellava la farina per togliere qualche

impurità e qualche percentuale di crusca “caniglia” che la

molitura tradizionale non riusciva a togliere; chi impastava la

farina rimescolando il pastone in continuazione con le mani

facendo pressione sulle braccia con il peso del corpo,

amalgamando il tutto con un pezzetto di lievito naturale ( lu

criscenti ); quando il pastone era grande, per esigenze di famiglia

numerosa oppure si voleva conservare per più giorni evitando

così frequentare il forno, allora di adoperava “lu scanaturi”, si

chiedeva aiuto a qualche persona per manovrare la “stangha” di

lu scanaturi che sostituiva egregiamente le braccia umane; altre

dividevano l'impasto in pani, di diverse misure e forme, dopo

avere disegnato con qualche strumento (qualcuno usava la grossa

e pesante chiave di casa altre la punta di una forchetta altre

ancora il coltello) il proprio segno di distinzione nella parte

superiore del pane, bene in vista, lu signali” (la panettiera li

conosceva quasi tutti ) lo collocava sulle mensole a lievitare ( lu

pani tunnu, la muscia, lu chichiru, lu pistuluni, cu la giugiulena,

la pagnotta ( questa era a base di crusca rimasta dalla crivellatura

che aumentata con crusca grossa era buona per cibo da cani).

Finito il proprio lavoro ogni persona puliva ciò che aveva

usato lasciando a chi veniva dopo il posto libero e ben pulito.

Intanto... “la pannittera famiava lu furnu”.

Era uno spettacolo, tante persone in attesa che arrivasse il

proprio turno cercavano di aiutare “nni lu famìu”; porgevano

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qualche manata di paglia o scopavano per terra sotto il forno per

potere camminare e manovrare con sicurezza.

La fornaia,sempre vestita di nero con un largo fazzoletto in

testa legato dietro la nuca, le maniche alzate sui gomiti attizzava

le fiamme “cu lu furcuni” per sprigionarle più forti possibile e

dare molto calore alla volta ed alle pareti del forno che, costruito

da eccellenti artisti muratori, aveva la possibilità di trattenere il

calore e ridarlo al momento della cottura del pane.

Con una destrezza senza pari spostava il fuoco,con tutte le

fiamme, da una parte all'altra del forno per poi alimentarle con

altra paglia.

Per una mezz'ora questo spettacolo continuava sotto gli occhi

divertiti e scintillanti delle ragazzine, che accompagnavano

immancabilmente le mamme e le nonne per imparare “a fari lu

pani”.

Dopo avere controllato per diverse volte la cupola del forno ed

avendola valutata finalmente adatta, la fornaia o fornaio con una

grande pala di lamiera di ferro toglieva il fuoco misto a cenere

dal forno e dopo averne pulito ben bene il piano di cottura

procedeva a collocare il pane dentro ( nfurnari lu pani).

Allora iniziava un vocio caratteristico: “lu furni prontu

è...piglia ssu pani...prima chiddi granni e ppò chiddi

nichi...arridducitivi si nnò s'arrifridda lu furno...lestu.. lestu”.

Le donne si davano una mano vicendevole facendo una catena

umana dalle mensole al forno, rispettando il turno senza

prepotenze.

Ogni tanto capitava che qualcuno voleva fare la “pizzipiturra”

ma tutto veniva a composizione con l'intervento della fornaia.

Intanto il forno era pieno di pani da cuocere e la povera

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fornaia, bagnata di sudore (anche d'inverno) sbuffando e spesso

imprecando, chiudeva il forno con un grande e pesante portello,

dopo avere controllato molto attentamente che nessun piccolo

spiffero di aria calda uscisse fuori, tappandolo con cenere

impastata oppure con panni imbevuti d'acqua qualche eventuale

piccola perdita.

A questo punto le donne andavano via, a casa loro, sapendo

che prima di un'ora abbondante il pane non era pronto.

Per poco tempo la grande stanza stava vuota perchè già

incominciavano ad arrivare altre donne per la prossima infornata.

Ogni “furnata” tra preparazione, cottura, infornata, poteva

durare circa due ore e mezza.

Durante una giornata di lavoro si “famiava” il forno almeno tre

volte in genere, certe volte anche quattro.

Non poteva andare sotto le tre infornate se no non riusciva a

guadagnare il sufficiente per pagare le spese e sbarcare il lunario.

Dopo circa un quarto d'ora la nostra apriva il forno e dava un

controllino al pane, che intanto si era gonfiato in altezza,

lasciando libero tanto spazio nel perimetro circostante; a questo

punto la fornaia, con fare lesto e con perizia cercando di operare

velocemente, stringeva tra di loro tutte quelle forme riuscendo a

guadagnare un bel pezzo di spazio ove collocava nuove forme di

pane crudo, sfruttando al massimo la capacità del forno e del

calore prodotto.

Verso la fine dava l'ultimo controllino spostando verso

l'esterno le forme più cotte e verso l'interno le più pallide.

“Lu pani cottu è”.

Con perizia e aiutandosi con una grande pala di legno in meno

che non si dica tutta quella quantità di pane fumante veniva posto

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C'era 'na vota frammenti di mamoria

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in una grande cassa di legno, posta a fianco del forno, pronto per

essere rilevato dai proprietari individuandolo dal segnale

impresso in precedenza.

La fragranza del pane appena sfornato riempiva la casa

impregnando l'aria circostante l'edificio, accarezzando l'olfatto di

chi in quei momenti passava da quelle parti.

I giorni che precedevano quelli festivi i forni lavoravano

giorno e notte “un avianu abbentu”.

Per le feste natalizie di facevano “li mastazzooli cu li ficu o cu

li mennuli, tunni cu la mmarmellata”che delizia!

Quale gusto, quale fragranza sprigionava da quei manufatti !

I ragazzi e anche i grandi aspettavano, con ansia con

impazienza, che le donne di casa ritornassero dal forno “cu la

coffa china di mastazzoli” con la cesta piena di “cosi duci”.

Il forno era una bolgia, la stanza un forno,ma quasi nessuno ci

faceva caso, neanche le tante bambine che accompagnavano le

mamme o che le mamme si portavano dietro; asciugavano il

sudore e continuavano incurante il loro lavoro; finite le tre

infornate di pane, subito si iniziava con la cottura dei dolci.

Tutta la stanza era piena di donne indente a impastare,

farcire,tagliare,collocare nelle teglie.

Il chiacchierare predominava su tutto e si sentiva dalla strada;

un forte odore di ammoniaca usciva dalla porta inebriando il

vicinato.

La cottura dei dolci era più veloce di quella del pane e nello

spazio di un'ora già le prime “coffe” uscivano dal forno, coperte

da bianche tovaglie per salvaguardarne la fragranza.

In queste occasioni il forno lavorava a pieno ritmo a volte tutta

la notte,con l'alternanza al forno di una sostituta alla titolare.

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“Pì Pasqua li picciuna cu l'ovu dìntra o tuttu chinu...cu la

mmarmurata ncapu”.

Il massimo della bontà dolciaria tradizionale nostrana, il

piccione pasquale con dentro uno a volte due uova sode, sopra

veniva spalmato, con un pennello fabbricato grossolanamente

dalle nostre donne con penne di gallina, un composto di albume

d'uova, zucchero, un po di limone, il tutto rigirato e ben

amalgamato: il risultato era “la mmarmurata” di colore bianco

usata esclusivamente per decorare i dolci.

Chi aveva più possibilità ne preparava una buona quantità da

distribuirne a qualche parente o amico che non poteva farne a

causa di qualche lutto, di tempo, o di mezzi.

Spesso si impastavano e si lavoravano in casa ed al momento

opportuno si riempivano le teglie, prese in uso dal forno, e

facendo molta attenzione a non cadere durante il tragitto, si

portavano a cuocere.

Altra importante occasione, che vedeva i forni sempre a pieno

regime lavorativo era in occasione della festa di San Giuseppe.

In questa ricorrenza si facevano “li purciddati”, pani di forma

rotonda di diverse grandezze, anche un metro di diametro,

secondo l'ex voto promessa al Santo per grazia chiesta o ricevuta,

con un grosso buco nel mezzo; lavorati nella parte superiore con

ceselli e decorazioni artistici, creati dalla tradizione per

l'occasione, venivano completati passando nella parte superione

dell'acqua fredda che a contatto della superficie calda di forno la

dotava della lucentezza voluta.

Lu purciddatu era ricavato con la materia prima e la procedura

del pane normale (era pane normale cambiava solo la forma), ma

secondo lo stato di agiatezza delle persone spesso venivano

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C'era 'na vota frammenti di mamoria

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confezionati con la stessa materia dei dolci di grandezza normale.

Il forno, luogo ove gli odori si miscelavano tra di loro

partorendone altri piacevoli e sempre graditi; posto ove volentieri

si andava a curiosare a ficcare il naso (sempre interessato) con la

scusa di portare la “coffa cu la farina” alla mamma o alla nonna;

ambiente sempre gradito per quella atmosfera familiare ove tutti

conoscevi e tutti ti conoscevano ( chi ffà ccà stu masculiddu òj);

sito sacro ove si materializzava il... pane quotidiano tanto

necessario ed insostituibile al bisogno del nostro corpo; “Ia

pannittera” immaggine di donna vestita di nero con fazzoletto

nero legato strettamente in testa, le maniche alzate, col sudore

misto a cenere che le colava dalla fronte, dipingendo di neri

solchi quella maschera di sofferenza, con ai piedi il lontano

ricordo di un paio di scarpe senza colore; quella donna che da

sola, lavorando più di quanto la resistenza umana permettesse,

desidero ricordare, pilastro e anima di quel luogo tanto

gradevole: lu furnu!

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Li Morti (commemorazione dei defunti)

Diverse sono le ricorrenze che si celebrano nel nostro paese.

Ricordi e momenti di riflessione che ci sono stati tramandati dai

nostri progenitori che per secoli li hanno tenuti in vita,

onorandone con rispetto e devozione i contenuti umani e

religiosi: il Venerdì Santo con “Lu Signuri a la cruci”, Pasqua

con “Lu Ncontru”, San Giuseppe con “La Tavula”, Sant'Antonio

da Padova “Lu Prutitturi” del Paese, Maria Santissima assunta in

cielo “La Mamma di Diu” , Natale “La nascita di lu

Bammineddu” con tutte le feste connesse.

Giorni di festa e di allegria per i ragazzi, sempre al centro

dell'attenzione dei grandi, che in quelle occasioni ricevono

tradizionalmente “la fera”, piccolo regalo in denaro, dai propri

genitori e parenti.

Piccoli tesori per i più poveri che subito correvano verso un

posticino della casa ove era murato un salva denaro, da rompere

quando divenisse pienotto sufficiente per comprare qualcosa di

bello (spesso scarpe, vestitino, maglietta).

Occasioni tanto attese per potere spendere qualche monetina in

giochi e leccornie, per i meno poveri, dato che potevano avere

altri soldini dai genitori appena lo avessero chiesto.

Se le feste erano occasioni importanti, tanto attese dai ragazzi,

una in particolare era quella che si desiderava arrivasse più di una

volta, non tanto per “la fera” quanto per la quantità di roba buona

da mangiare che riuscivano a ricevere in quella occasione: “ li

morti” (la commemorazione dei cari defunti).

Se per gli adulti era, ed è ancora, un giorno di tristezza e

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afflizione al ricordo dei propri cari che non ci sono più, per i

piccoli è un giorno di festa in cui si commemorano i cari defunti,

e questi ricambiano il pensiero dei vivi portando dei regalini ai

bambini, in modo che questi possano portare per sempre nei loro

cuori e nelle loro menti il ricordo delle persone care che li hanno

preceduti e che non ci sono più.

Già qualche settimana prima della ricorrenza in famiglia

s'incominciava a parlarne: “sa chi cciann‟a purtari aguannu li

morti a l'addevu?”

Quasi a fare eco qualcuno rispondeva attirando l'attenzione del

piccolo o dei piccoli che, con occhi lucenti ed interessati,

guardavano in faccia i presenti in attesa che qualcuno desse una

risposta loro gradita: “ah ... certu qualcosa l'ann‟a pur tari!”

Qualcosa certamente la porteranno; ma cosa, si chiedevano; ne

parlavano tra di loro, i bambini, sprigionando le loro fantasie e

facendo i conti della quantità di luoghi che dovevano visitare con

la speranza di trovarci molte cose buone: visita ai nonni materni e

paterni, agli zii stretti da parte di papà e mamma, qualche fratello

o sorella sposati, qualche zia sola ed anziana.

Tutti aveva qualcuno da visitare e tutti avevano qualcuno che

venisse a visitarli...

Il più importante era quello che si aspettava dalla visita alla

propria casa.

Già nelle botteghe incominciavano a vedersi esposti e a fare bella

mostra di sé, negli scaffali di legno, “li pupi di zuccaru” tipica

statuetta di zucchero dipinto, raffigurante un bel cavaliere su di

un gagliardo cavallo (destinato ai maschietti) oppure una bella e

colorata pupa (destinata alla femminucce).

Tutte le botteghe (ed erano tante; ogni strada ne aveva una nelle

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vicinanze; spesso misere e a volte ben fornite) avevano diverse

statuette di zucchero esposte; di differente misura ma quasi tutte

simili nelle fattezze; spesso si andava con la mamma a comprare

qualcosa alla bottega, solo per dare uno sguardo a tutti quei pupi

che pareva ti guardassero per dirti quanto fossero buoni e dolci.

Ce n'erano (pupiddi e cavadduzzi) di diverse grandezze, da quelli

dal peso di qualche etto a quelli di più chili e, di conseguenza, dal

costo modico al costo alto.

Nelle famiglie povere e numerose era un costo non indifferente,

ma il sacrificio delle mamme arrivava a dare, anche se in misura

piccola, una risposta a tutte le aspettative.

“Lu cannistru” il contenitore di paglia dentro cui si presentavano

i doni “di li morti” conteneva tante cose buone: caldarroste,

“pumidda di Napuli” piccole e gustose mele di colore giallo o

rosso vivo, tetù, turcigliuna, caramelle, cioccolato, fichi secchi,

noci, mandorle tostate (mennuli caliati), qualche dolce durissimo

di due colori (testi di morti), qualche melograno, un paio di calze,

una maglietta o un maglioncino, una gonnellina.

Al centro di tutto spiccava, facendola da padrone, sempre in piedi

la “pupidda o lu cavadduzzu”, destinate, finita l'euforia dei

giorni di festa, a fare bella mostra dentro il porta servizio oppure

sul canterano. Destinati anche ad essere mangiati, a pezzettini,

staccati sempre di dietro, lasciando integra la facciata per fare

bella mostra di se.

La sera precedente alla commemorazione dei defunti vedere

l'animazione che c'era nelle famiglie, era uno spettacolo.

I ragazzi facevano pressione presso i familiari per sapere se i

morti avrebbero portato dei regali e che cosa; i più grandicelli

cercavano di tenere gli occhi aperti in attesa che arrivassero i cari

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defunti, carichi di doni, per poterli conoscere (dicevano loro);

altri, invece, andavano a letto, non prima di avere collocato,

dietro la finestra del balcone, un capiente cesto per dare la

possibilità ai benvenuti visitatori notturni di poter depositare i

doni e li “cosi duci”.

Quelli che andavano a letto cercavano di resistere al sonno

tenendo gli occhi aperti ma...; ormai tutto taceva fuori, neanche

l'immancabile abbaiare dei cani si sentiva più, era l'ora di andare

tutti a letto, anche le mamme ed i papà, non prima però di avere

collocato il tanto desiderato ed atteso “cannistru di li morti”.

Allo spuntar dell'alba del giorno di tutti i Santi, dedicato da

sempre alla commemorazione dei cari defunti, il rumore dei ferri

dei muli, che venivano accuditi la mattina presto, specie nei

giorni di festa, misto all'abbaiare dei cani, immancabili amici dei

quadrupedi ferrati, svegliava i ragazzi che certamente la notte

avevano sognato cosi duci.

Il primo pensiero era quello di correre dove avevano lasciato il

cesto; con grande gioia e meraviglia lo trovavano pieno di cose

buone da mangiare; con in mezzo quel bel variopinto cavaliere,

fiero nella sua armatura, che comandava con le briglie un bel

cavallo in piedi sulle zampe posteriori.

Gli occhi brillavano di gioia a quella vista; giravano in giro a

cercare quelli della mamma, del papà, dei fratelli, dei nonni,

quasi a dire “sono stato buono, i morti mi hanno premiato”.

Per le strade incominciava un fermento di ragazzi: prima,

qualcuno più coraggioso nell'aver lasciato il caldo lettino, poi,

piano piano, ad uno ad uno, decine, centinaia di ragazzi.

Le ragazze, molto di meno, sarebbero uscite più tardi con le

mamme.

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Correvano per le strade, i ragazzi, con i cesti e “li trusci” in

mano, dopo essere stati a ritirarli dai parenti più intimi.

Chi saliva, chi scendeva, tutti avevano qualcosa in comune: la

gioia, e la bocca piena di leccornie .

Ogni tanto, nel modo di correre lesto, qualcuno inciampava e

cadeva rovesciando il contenuto a terra ma... tutto veniva

recuperato e dimenticato, continuando la corsa in men che non si

dica.

Verso le undici si metteva tutto da parte e si andava al cimitero a

fare visita ai cari defunti; il tragitto era una fila continua di gente,

tanti con i fiori in mano, altri portavano qualche “stierina”

(piccoli lumini), altri ancora delle candele da accendere davanti

alle tombe.

Moltissimi percorrevano tutta la strada recitando il santo rosario,

pregando in suffragio delle care anime.

Già molto prima di arrivare al cimitero si sentivano le grida; i

pianti dei dolenti si sentivano e si facevano più forti, man mano

ci si avvicinava, per farsi strazianti una volta arrivati al cimitero.

Da tutte le parti del camposanto salivano al cielo preghiere miste

a grida di dolore angoscianti che riempivano di grande tristezza

chi le sentiva e spingevano ad una grande emozione.

Era un giorno di lutto; fino a sera tutto il paese si recava al

camposanto, con molto rispetto e grande senso di umiltà.

I ragazzi stavano per lo più con i genitori, altri correvano per i

viali, ma tutti avevano in comune un pensiero: ritornare a casa

ove li aspettavano “li cannistri chini di cosi duci”.

In tante famiglie meno fortunate, ed erano tante, li “cannistri”

non erano tanto numerosi e tanto pieni di cosi duci, ma “unne chi

manca Diu pruvvidi”; con mezzi inaspettati quali la bontà di

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tante mamme conoscitrici delle ristrettezze economiche dei

vicini, si sopperiva alla mancanza, facendo sì che anche quelli

poveri potessero avere i loro “cannistri” cu li “cosi duci”.

“Li Morti”!

Quali dolci ricordi...!

Che tenerezza...!

Che lacrime..., il cuore si scioglie e trabocca di amore al loro

ricordo!

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Lu lumi, lu spicchiu e la cannila. (Il lume, la candela e…)

Il tema che sto per riversare in queste righe è sì di facile

trattazione ma sul come e in che maniera renderlo credibile oggi

alla “luce” della conoscenza tecnologica che abbiamo tra le mani

e quello che si prevede avremo tra una decina di anni, non è di

facile adempimento.

Il paese non era tanto vasto ed era abitato da circa sei mila

persone; stipate in quelle case povere e disadorne, le quali per la

quasi totalità, erano addobbati con il sufficiente; senza fronzoli e

ostentazioni.

I mobili erano scarsi; in una modesta casa si trovava giusto un

tavolo, qualche sedia, un canterano, magari regalato dalla nonna,

un guardaroba, qualche credenza avuta di terza o quarta mano

per l'occasione:

In qualche angolo il cassettone “ la cascia”, più o meno grande,

non mancava perchè doveva custodire, per il futuro, “ la doti”

portata dalla sposa, frutto di immensi sacrifici della famiglia di

provenienza della sposa.

Le pareti delle stanze erano sempre di colore plumpeo-scuro,

dato che la cucina, ubicata spesso nella stessa stanza dove c'era il

letto o al massimo nella stanzetta accanto, era alimentata a legna

e di conseguenza il fumo la faceva da padrone ogni volta che si

doveva preparare qualcosa da mangiare o riscaldare qualche

poco d'acqua per i bisogni giornalieri della famiglia e specie per i

bambini.

Non solamente la cucina produceva fumo, anche altri piccoli

oggetti che per forza maggiore dovevano essere adoperati, se la

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famiglia voleva guardarsi in faccia, specie con l'arrivo delle

oscurità serali.

“ Piglia ssù lumi e addumalu”...”talè metti tanticchia d'ogliu a lu

spìcchiu”...erano le frasi che echeggiavano nelle casa all'arrivo

della buia sera.

Sì, in qualche casa fortunata si incominciava a girare la manopola

ell'interruttore della corrente elettrica ma “costava cara”, si era

soliti ripetere riaccendendo il vecchio caro lume che aveva

conosciuto de visu il bisnonno e il trisavolo.

“ Lu lumi...lu spicchiu...la cannila...la citalena...” erano i mezzi

che si utilizzavano per rischiarare le abitazioni della gente fino a

pochi decenni fa; alimentati a petrolio (grassoliu) il lume, ad olio

(ogliu,quasi sempre quello andato a male) lu spicchiu,di cera le

candele,in diverse famiglie si utilizzava “la citalena” strumento

che miscelando l'acqua con il carburo di calcio produceva un

gas, facilmente infiammabile, che uscendo a pressione da un

forellino produceva una fiammella e quindi luce( veniva

utilizzata dai minatori nelle viscere della terra per rischiarare il

posto di lavoro); questi mezzi erano gli unici procedimenti che

permettevano alle famiglie di illuminare il buio e continuare la

propria attività familiare.

Il risultato che si otteneva con questi mezzi di illuminazione era

una luce fioca giallina che illuminava poco spazio proiettando nel

rimanente, semi buio, gigantesche ombre, sempre causa di

fantasiose paure ed immagini fantastiche.

Un altro risultato che si otteneva nell'utilizzo di questi strumenti

illuminanti era un sottile fumo grigio nerastro a volte non tanto

visibile ma continuo che , assieme alla cucina, completava

egregiamente il compito di tenere sempre tetri, smorti i colori

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delle pareti delle stanze, specie quella ove era solita passare la

serata la famiglia riunita.

Da secoli si utilizzavano i mezzi a disposizione della esperienza

degli antenati per rischiarare il buio della giornata e in paese non

si era da meno, a condizione che si possedesse il carburante

necessario da bruciare.

Il petrolio (lu grassoliu) alimentava la fiamma prodotta dal lume

e doveva essere comprato dai rivenditori, in verità molto

abbondanti in quei tempi; il costo non era eccessivo ma era

sempre un costo e non tutti e sempre potevano avere a

disposizione la bottiglia col petrolio.

Il lume era nella stragrande maggioranza costruito di rame ( chi

se lo poteva permettere possedeva dei lumi in ceramica

riccamente adornati e con camme fumarie di varie fogge e

bellezze) con sopra la canna fumaria che facilitava il giusto

espandersi della luce ed incanalava il fumo ,prodotto dalla

combustione, verso l'alto in maniera che disturbasse il meno

possibile la respirazione degli astanti.

Rigorosamente di vetro la canna fumaria era soggetta ad urti e

cadute ,specialmente se in casa c'erano bambini sempre a correre

e giocare,per cui spessissimo si rompeva con conseguenti grida ,

bestemmie,rimproveri,ceffoni da una parte e pianti, lividi e offese

dall'altra parte.

Ogni qualvolta si utilizzava il lume per schiarire il buio si faceva

tanta attenzione a non farlo urtare e a non versare il petrolio a

terra; nel ricaricarlo era un'operazione che faceva quasi sempre

un adulto, avvezzo a tale operazione.

Il combustibile si poteva comprava nelle tante botteghucce

sparse per tutte le contrade nelle quali, oltre al petrolio, si

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C'era 'na vota frammenti di mamoria

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vendeva tutto ciò che abbisognava alla famiglia, compresi roba

da mangiare , veleni per topi, sapone per pulire i panni, polvere

per sgrassare i contenitori ( la liscìa); insomma nell'unica stanza

che ospitava la bottega (la putìa) erano depositati mercanzie di

vario tipo anche in contrasto tra loro, data la pericolosità per la

salute di certi prodotti;

a supporto di ciò ricordo, ad esempio, che non era raro andare a

comprare cento grammi di “tumazzu” (formaggio pecorino

locale) e questo fare tanfo di petrolio o di sarde salate.

Il lume era comodo, di facile trasporto e sicuro nell'uso; riusciva

ad illuminare una stanza di media grandezza in maniera

sufficiente, permettendo di lavorare alle mamme nel sempre

presente rammentare gli indumenti che specie i ragazzi, col

gioco, logoravano e strappavano di sovente e , per chi lo poteva e

lo sapeva fare, di leggere qualche romanzo unica attrazione ed

occasione per unire gli amici ed i vicini nella propria casa.

Una famiglia normale con reddito da lavoro tale da vivere senza

grossi probblemi poteva disporre di due o tre lumi, due da

utilizzare per i bisogni giornalieri, il terzo poteva essere un lume

di ceramica o artisticamente lavorato (si custodiva in un posto

inaccessibile ai

ragazzi ) sempre di riserva in caso di rottura o di ospiti in casa.

In caso di rottura della canna fumaria o dello stesso lume si

comprava il pezzo da sostituire, con qualche piccolo sacrificio

finanziario, presso una delle tante botteghe che guarda caso

vendevano pure lumi e canne fumarie.

Un altro strumento per rischiarare il buio della notte era la

lucerna (lu spicchiu).

Di varie dimensioni e rigorosamente costruito a mano con argilla

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cotta al forno lu spicchiu

era il mezzo più economico e più umile che si utilizzava per

produrre luminosità; aveva la forma di una mano a coppa

contenente dell'olio di oliva (andato a male e quasi sempre di

scarsa qualità) che inzuppava un cordoncello di cotone la cui

punta posta all'esterno della ciotolina produceva una fiammella

che una volta accesa riusciva a rischiarare l'ambiente circostante

per alcuni metri.

Era una debole e flebile fiammella, si poteva renderla più

brillante ma... ci voleva più olio e questo si comprava alla

bottega, ma riusciva a squarcire il nero buio di certe serate

invernali riempite dal ritmo incessante della pioggia, dagli ululi

minacciosi delle raffiche di vento, da certi tuoni che pareva

volessero buttare giù quelle povere quattro mura e ti spingevano

prepotentemente ad andare a letto; fuori oltre i rumori della

natura solamente l'abbaiare dei soliti cani e il rumore degli

zoccoli dei muli che annunciavano l'avvicinarsi del temporale.

Anche quella piccola fiammella pareva avere una certa paura con

il suo tremolare quasi titubante se continuare ad accendere e dare

luce o andare a dormire pure lei,e mentre cercava di decidere sul

da fare regalava quello scorcio di luce tanto gradita e necessaria

alla persona che china sul suo grembo accanto al suo compagno

stanco e dormiente sferruzzava le sue “ugliola” con la speranza

di terminare i calzini che tanto abbisognavano ai propri bambini.

“Lu spicchiu” tanto umile e tanto necessario era lì sempre a

portata di mano con al centro quel pò di olio puzzolente, quel

piccolo “meccu” inzuppato di liquido grassoso e con la punta

sempre nera; spesso non era solo, se ne avevano in casa tre

quattro e anche pìù

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203

per accendersi quando c'era bisogno di più luce collocandoli in

qualche posto alto per consentire alla luce di illuminare più

spazio circostante.

Se a causa di qualche urto o qualche scivolone cadendo a terra si

rompeva non c'erano grandi grida e ceffoni solamente rimproveri

specie se era stato pieno d'olio da poco,un altro spicchio a casa

certamente c'era e poi... non costava caro; si andava a comprare

alla bottega o più specificamente presso una singolare bottega

che vendeva tutto ciò che si poteva costruire con l'argilla: rasti,

quartari. bummula, langeddi, canala, fanghotti, aglialora, cantari,

cicari, friscaletti, e quant'altro di umile sostanza ma tanto utile al

vivere quotidiano della gente e che spesso alleviava gli

inconvenienti che si presentavano: come giusto lu spìcchiu

umilissimo strumento che rischiarava dal buio.

Stava sempre posto in alto in modo da illuminare il più possibile

la stanza, vicino ad un tavolo presso cui era solita riunirsi la

famiglia attorno al braciere per passare la serata

prima di andare a dormire; le mura attorno e il tetto sopra “lu

spicchiu” erano di colore grigio scuro e più tempo passava più si

avvicinava al nero, conseguenza del fumo nerastro prodotto dalla

combustione dell'olio che, oltre al fumo, produceva anche un

odore di olio bruciato a cui si era ormai abituati ma di cui si

sentiva il tanfo.

“Lu spicchiu” (la lucerna) vecchio, povero, umile, utile

strumento, fedele e coraggioso compagno di tante buie e paurose

serate di tempi che furono.

Altro utensile per illuminare il buio era la candela; anche questa

di antichissimo uso ed anche questa si andava a comprare presso

le varie botteghe sparse quà e là; tutte ne vendevano, di tante

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misure, da quelle fini e piccole a quelle grosse e grandi.

Tutti a casa ne avevano e, posti sui candelieri di centinaia di

foggie e misure, erano sempre pronte per ogni evenienza a

regalarci quella piccola ma tanto beneamata e rassicurante

fiammella.

Adornate sempre sui laterali ed alla base da una o più colate di

cera a forma di gocce scolanti presentavano allo sguardo dei

disegni fantastici che facevano piacere alla vista e sbrigliavano

la fantasia che si lasciava andare alla interpretazione fantastica di

quei disegni.

Con la fiammella sempre tremula e fulgida, con quel suo eterno

pennacchio grigiastro che saliva piano piano fino al tetto, con

quella sua altera e fiera rigidità, la candela era nella cultura della

gente il mezzo più idoneo, elegante, pulito e funzionale per

eccellenza.

Poteva mettersi in tasca o conservarsi in qualche posto senza

paura di sporcare o macchiare; non avena bisogno di portare con

se contenitori di olio o di petrolio, non aveva eccessivo bisogno

di attenzione; era sempre lì, linda nel suo candore e disponibile

nella sua umiltà a regalarti, a tua richiesta, una fulgida goccia di

luce.

Nei cassetti, nei buchetti dei muri, in qualche angolino della casa,

c'era certamente “un scramuzzuni di cannila” un pezzetto che

ogni qualvolta veniva distribuito in chiesa alla fine delle

funzioni religiose andava a finire quasi sempre in tasca (chissà

come mai?) per essere portato a casa ed utilizzato all'occasione.

Si utilizzava fino all'ultima fiammella possibile e non era raro

trovare qualcuno che, ogni qualvolta una candela finiva lo

stoppino, metteva da parte la cera residua per dare vita ad una

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C'era 'na vota frammenti di mamoria

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nuova candela (cose dell'altro mondo... dirà qualcuno, no, cose di

questo mondo... dico io, cose di sessant'anni fa).

Una speciale candela veniva conservata molto gelosamente nel

cassetto in mezzo alle lenzuola buone: era la “Cannila di la

Cannilora”.

Un pezzetto di candela utilizzata e benedetta in chiesa durante la

festa delle candele, giusto la Candelora, funzione dedicata alla

Purificazione della Madonna che ricorre il 2 febbraio.

La tradizione voleva che questa candela non doveva essere

utilizzata nella normalità ma in una occasione specialissima

dell'esistenza terrena: molto spesso durante le ultime ore di vita

nel periodo del trapasso il moribondo, per diverse ragioni, non

riusciva ad esalare l'ultimo respiro ed aveva un'agonia lunga e

difficile, soffriva non soffriva, non era dato sapere, allora si

accendeva al suo fianco la “Cannila di la Cannilora” che aveva la

capacità di non fare soffrire il moribondo e di accorciarne

l'agonìa.

Antica credenza locale...? Non sò!

Una verità ho imparato nella mia vita che tutto quanto ci è stato

tramandato, inculcato, insegnato con parole e con esempi ha

avuto origine da esperienze di vita vissuta, da verità, da fatti che

hanno visto protagonisti o partecipanti i nostri antenati i quali

hanno voluto tramandare ai loro successori quelle verità e quelle

esperienze per rendere il soggiorno su questa terra il più

gradevole possibile.

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Lu Cantastorii (Il Cantastorie)

Due, tre volte l'anno arrivava in paese un signore alla giuda di

una vecchia automobile fornita di un capiente e robusto porta

bagagli.

Arrivava sempre nel pomeriggio e posteggiava la macchina

accanto all'entrata del Banco di Sicilia all'incrocio tra la via

Ariosto e la salita regina Elena.

Dopo essere stato a salutare il barista e il salumiere che

lavoravano lì accanto ritornava

alla macchina ed incominciava a collocare le sue cose mettendole

bene in mostra in modo che le persone potessero vederle con

facilità e chiarezza.

Era il cantastorie.

Personaggio tanto rispettato dai ciancianesi che appresa la notizia

del suo arrivo ( le notizie si divulgavano prestissimo in paese

vuoi con le centinaia di ragazzi sempre per le strade,

vuoi con il passaparola mezzo sicuro e perfezionato nei secoli.

Incominciava a scaricare il materiale che aveva ben collocato nel

portabagagli e lo sistemava attaccato alla macchina e in parte su

una impalcatura di ferro; con grande attenzione fissava le sue

locandine, rigorosamente disegnate e dipinte a mano, nella

fiancata della sua automobile seguendo delle precise sequenze e

collocandole in maniera che dal suo posto di lavoro potesse

indicarle alle persone che lo ascoltavano e lo seguivano.

Il tutto rappresentava una storia sempre violenta e

triste,ambientata nella sicilia di quei

tempi in luoghi ove le tradizioni, l'onore e il rispetto se venivano

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a mancare davano origine a contrasti, dissidi, controversie, che

quasi sempre sfociavano in azioni, nefaste,tragiche, luttuose.

Accanto al materiale posto in bella mostra sulla fiancata della

macchina ne veniva collocato dell'altro; attaccate ad un grande

telo di stoffa bianca arrotolato su se stesso facevano bella mostra

a volte dodici a volte sedici locandine che poste una accanto

all'altra indicavano le sequenze della seconda storia che doveva

essere raccontata di lì a poco tempo dopo avere terminata la

prima.

Erano sempre due le storie che l'artista raccontava.

Dopo avere collocato le locandine procedeva a sistemare sulla

piattaforma posta sul tettuccio della macchina,che fungeva da

base al portabagagli, una sedia robusta e comoda

collocando davanti a questa su un piedistallo a tre punte un

microfono collegato ad un altoparlante; su un'asta posta ad una

certa altezza sopra la sedia veniva collocata una lampadina per

illuminare il posto appena giunto il buio della sera, il tutto veniva

alimentato dalla corrente elettrica prestata per l'occasione,

utilizzando un filo volante , dalla bottega vicina; se per caso

veniva a mancare la corrente elettrica (cosa che avveniva spesso

e puntuale) il personaggio già era pronto ed attrezzato per

utilizzare la batteria della sua automobile; il tutto era

completamente autonomo e sufficiente alla necessità.

Mentre tutto questo veniva sistemato secondo una sequenza

ormai vecchia e collaudata la gente incominciava ad affluire sotto

la macchina; la piazza sempre piena di persone, chi in cerca di

lavoro, chi per svagare un poco dopo una settimana di dura

attività, chi per abitudine alla passeggiata con gli amici, in poco

tempo si svuotava riversando quelle centinaia di persone nella

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discesa della salita regina Elena ad assistere alla rappresentazione

che di lì a poco il cantastorie doveva presentare.

Intanto l'artista munitosi di una lucida chitarra, prelevata con

cura da una custodia posta dentro la macchina, saliva sul tettuccio

della sua auto e sedutosi comodamente nella sedia

precedentemente preparata e posto il microfono a metà strada tra

la chitarra e la sua bocca incominciava a spandere nell'aria

quella triste melodia ormai riconosciuta da tutti come la sigla del

cantastorie.

“ Ascutati, signure e signuri... chìsta storia chi stò a raccuntari...

ca a sintirla vi fa lacrimari...”

Il Cantastorie aveva iniziata la sua rappresentazione.

La piazza era piena di persone attente e silenziose; perfino

l'onnipresente decine e decine di ragazzini sempre chiassosi e

vocianti stavano seduti a terra in prima fila comodi e

attentissimi, e se qualche frase non era da qualcuno compresa

rivolgendosi al vicino più

grande domandava: “ chi dissi?”

Intanto il cantastorie era entrato nel vivo della storia e sempre in

poesia dialettale, accompagnandosi con la fida chitarra, con una

lunga bacchetta indicava la locandina

corrispondente alla descrizione per far comprendere meglio, con

un'immaggine, il fatto che stava per raccontare a parole.

Non era raro vedere qualche viso emozionato solcato da qualche

furtiva lacrima, tanto reale e verosimile il fatto accaduto veniva

raccontato e descritto dall'artista seduto sul tettuccio della

macchina.

Dopo circa una mezz'ora la storia arrivava al termine e sul finire

il cantastorie, facendo leva sulla sua esperienza e sui sentimenti

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della gente, accentuava certi toni e certe circostanze

sollecitando gli ascoltatori a comprare il libretto, contenente la

storia raccontata, certamente più ricco di notizie, circostanze e

descrizioni di quanto lui aveva potuto raccontare.

Un fragoroso applauso si alzava dalla numerosissima platea in

direzione del cantastorie il quale dopo avere annunciato che tra

non molto tempo sarebbe iniziata la seconda storia vera, avvisava

che i libretti con la storia appena raccontata erano in vendita

presso la macchina e che un suo collaboratore era a disposizione

del pubblico interessato a comprarlo.

Alcuni ragazzi, entrati nella fiducia del cantastorie, si mettevano

a disposizione dell'artista e lo aiutavano a vendere i libretti

girando tra il pubblico sempre numeroso e portando il ricavato al

leggittimo proprietario ricevendo alla fine della spettacolo

qualche monetina in in segno di ringraziamento.

Quel libretto a casa veniva letto e riletto (da chi “sapiva la

littra”), commentato e discusso per diverso tempo per poi

“mpristallu” a parenti od amici, fino al punto che, ormai

sguarcito e consunto si conservava, addirittura c'erano persone

che ne facevano gelosa collezione.

Quasi sul finire della vendita e prima che la gente si stancasse

stando molto tempo in piedi, l'attento cantastorie pizzicando con

abilità e maestrìa le corde della sua chitarra e facendosi

precedere dalle tristi ed accattivanti note della sua melodia, dopo

avere attirato a sè l'attenzione del numeroso pubblico e placato il

vociare dei ragazzini invitandoli con modi garbati ma autorevoli

a stare seduti ed in silenzio, incominciava l'esposizine della

seconda storia sempre triste e diretta, con grazia e conoscenza, a

colpire la sensibilità e l'orgoglio della gente facendo leva su quei

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sentimenti di onore, di fratellanza, di rispetto, di famiglia,che i

secoli avevano fortemente radicato nelle coscienze della gente

sicula.

“Ascutati signure e signuri... chista storia chi stò a raccuntari... ca

a sintirla vi fà lacrimari...”

il cantastorie iniziava così un'altra storia realmente accaduta in un

lontano e spesso isolato paese dell'entro terra siciliano,storia che

non poteva essere portata a conoscenza della gente lontana da

nessun altro mezzo se non dal cantastorie, tenuto conto che la

radio, lusso per pochi, non era ancora uno strumento di

diffusione di massa e i pochissimi giornali che arrivavano in

paese, destinati a chi poteva permettersi di comprarli,

dedicavano poca attenzione ai numerosi fatti di sangue derivanti

da problemi di onore,di rispetto,di famiglia.

Dopo le sue rappresentazioni e la vendita degli opuscoletti il

cantastorie metteva in ordine con una certa precisione tutto il suo

materiale e salutati conoscenti ed amici si sedeva alla guida della

sua automobile e partiva alla volta di un altro paese lasciando

alle persone materia di ragionamento e di critica per tutta la

passeggiata serale ...ed oltre.