chiaroscuro numero 13

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13 Novembre 2011 chiaro s curo NUMERO S Sommario La crisi nel nostro territorio Italiamara Finché la barca va Come la cicala si reinventò formica Vedere quel che non c’è L’angolo della vergogna Quell’uno per cento A che serve studiare Negare l’evidenza San Francesco - Halloween 0-1 Tra cielo e terra L’Italia sono anch’io Lettera di un migrante Babbo natale e dintorni Incontri casuali La mela di Saramago Quando c’era la politica Piccole grandi donne Artemisia, Almodovar, Augusta Antiche lavatrici La ricompensa Il maiale con due code Il Filantrone Una storia disonesta Trionfanti entreremo a Trieste Secoli di letteratura tra i fornelli Angelo Moriconi Gli angeli tra noi Cronache del XX secolo L’unità d’Italia Lbero spazio 4 6 8 10 12 13 14 14 16 17 18 20 22 23 24 25 26 28 30 32 34 36 37 38 40 42 44 46 48 50 51 /Slow Press ANNO II

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ChiaroScuro numero 13

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13Novembre 2011

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O SSommario

La crisi nel nostro territorio Italiamara

Finché la barca vaCome la cicala si reinventò formica

Vedere quel che non c’è L’angolo della vergogna

Quell’uno per centoA che serve studiare

Negare l’evidenza San Francesco - Halloween 0-1

Tra cielo e terraL’Italia sono anch’io

Lettera di un migranteBabbo natale e dintorni

Incontri casuali La mela di Saramago

Quando c’era la politicaPiccole grandi donne

Artemisia, Almodovar, Augusta Antiche lavatrici

La ricompensa Il maiale con due code

Il Filantrone Una storia disonesta

Trionfanti entreremo a Trieste Secoli di letteratura tra i fornelli

Angelo MoriconiGli angeli tra noi

Cronache del XX secolo L’unità d’Italia

Lbero spazio

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ANNO II

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Autorizzazione Trib. Perugia N. 35/2009

Direttore responsabile: Guglielmo CastellanoDirettore editoriale: Claudio StellaImpaginazione e grafica: Riccardo Caprai, Fabio Tacchi, Alessio Vissani

Stampa: Tipolitografia Nuova Eliografica di Fiori Roberto, Via Cerquiglia 7, Spoleto

Bimestrale dell’Associazione Chiaroscuro

[Editoriale]Guglielmo Castellano

Siamo ancora qui.

Al termine del secondo anno di pubblicazioni, Chiaroscuro taglia un traguardo molto importante: continuare ad esprimere (forse, per molti, diventando in tal senso un vero e proprio punto di riferimento), sui temi di carattere sociale, politico e culturale che interessano la nostra città, ma non solo, un punto di vista equilibrato, competente, razionale e, quando le circostanze lo impongono, anche “schierato”…Nel senso più nobile di questo termine.

Questo periodico, emanazione della associazione che porta lo stesso nome, non è un semplice contenitore di contributi, ma rappresenta la sintesi di idee e convinzioni personali (qualche volta differenti tra di loro) che, una volta declinate sulle nostre pagine, si traducono in segni distintivi di una cultura della tolleranza reciproca che, da altre parti, stentiamo ad individuare. Nel corso di questi due anni, le varie riunioni del comitato di redazione atte a pianificare il lavoro in vista dell’uscita del periodico, non hanno mai visto presenze passive, orientate solo a mettere in “bella copia” di-rettive imposte da altri. Anzi, proprio in quelle sedi, è andato sempre in scena quel tipo di confronto, spesso serrato e, perché no, in qualche caso civilmente conflittuale che, alla fine, comunque, ha prodotto articoli e racconti di assoluto rilievo, posti in essere proprio per decifrare la società nei suoi mille“chiaroscuri”; una missione, questa, che il nostro giornale intende rappresentare.

Chiaroscuro, pur nella sua equidistanza “genetica”, in determinati casi ha deciso di “scegliere” e schierarsi. Nel maggio-giugno di questo 2011 che sta volgendo al termine, infatti, il nostro periodico ha det-to “si” al sostegno, a viso aperto, della battaglia referendaria; soprattutto sul versante della privatizzazione della gestione dell’acqua. Abbiamo messo a disposizione delle posizioni contrarie alla privatizzazione, non solo le pagine di Chiaroscuro (e le nostre, personali, convinzioni al proposito), ma abbiamo reso tangibile la nostra idea (poi premiata dalle urne), nel corso di una serata appositamente dedicata a ciò (con spazi musicali e dibattiti sull’argomento) in quel del parco Hoffman.

Poi, pur nel dovuto rispetto delle diverse sensibilità di cui ognuno di noi si fa interprete, Chiaroscuro non ha trascurato di trattare quei temi di bioetica, relativi alle normative di legge in discussione in Parlamento sulla questione del “fine vita”, stimolando un dibattito sereno e, per quanto possibile, privo di forti contrapposizioni di carattere ideologico o confessionale.

Temi “forti”, intercalati, sempre con “stile”, da momenti più leggeri. Ed è stato il caso della presentazione del numero estivo del nostro periodico dove, nella splendida cornice notturna del chiostro di San Giacomo, è andata in onda una riuscitissima serata, fatta di musica e poesia.Siamo ancora qui…..Con più passione e convinzione di prima, con la consapevolezza, già enunciata nel primo numero del gennaio 2010, e adesso tramutatasi in sommessa certezza, di aver realizzato uno strumento che, umilmente e senza clamori, è in grado di farsi largo nel dibattito culturale cittadino per proporre idee, sce-nari, soluzioni.

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Claudio Stella[Editoriale]2Cade, non cade, cade tra una settimana, no tra un mese, non cade più. È caduto. Alla fine il governo Berlusconi è caduto. Molte polemiche, convulse e violente sedute parlamentari, contestazioni per le strade. Il presidente della regione Lombardia Formigoni, che di solito ha modi asceticamente penitenziali, insultato dalla folla, ha reagito dapprima facendo le corna e poi esibendo un vigoroso dito medio ai suoi contestatori e alle telecamere. Il senatore Umberto Bossi, alla domanda se la Lega appoggerebbe un governo tecnico, ha risposto dapprima con una pernacchia un po’ sfiatata e poi mostrando anch’egli il dito medio. Ma del resto Bossi è ormai diventato un professionista del linguaggio pre-grammaticale, di una comunicazione affidata più al corpo che all’articolazione linguistica e concettuale. I suoi celebratori sostengono che questo linguaggio è più immediato, spontaneo, genuinamente popolare, capace di sintonizzarsi con gli umori e il sentire del suo elettorato.

Ma che razza di idea ha del proprio elettorato, il senatore Bossi, se pensa che per comunicare con lui bisogna ricorrere al più becero repertorio di cafoneria? Misteri della seconda repubblica. Naturalmente c’è stato qualche festeggiamento, per la caduta del governo; e mentre scorrevano le immagini della folla gioiosa in piazza del Quirinale, anche io, che sono ontologicamente e geneticamente antiberlusconiano, io che ero antiberlusconiano ancor prima che lui entrasse in politica e forse mentre ancora mi trovavo nella pancia di mia madre, ho fatto il mio piccolo brindisi liberatorio. Ma tutto è avvenuto con grande sobrietà, con una preoccupata perplessità. Perché davvero c’è poco da festeggiare: tra alluvioni, crolli di borsa, rischi di default, ci sentiamo tutti molto intimoriti e angosciati, soprattutto di fronte ad una crisi finanziaria di cui continuiamo a capire molto poco. Sappiamo che ci attendono incognite e pericoli, sappiamo che dovremo affrontare un cammino incerto e molto delicato. Nel frattempo è nato il governo Monti, un governo fatto di tecnici che sembra essere, anche sul piano visivo, una sorta di contrappasso dantesco del Ministero Berlusconi: austeri e grigi professori hanno preso il posto delle facce carnevalesche dei vari La Russa, Calderoli, Brunetta; donne dall’aria severa, categoricamente lontane da ogni seduzione sessuale, hanno sostituito le varie Carfagna e Prestigiacomo, che sembravano un prolungamento governativo dei festini e dei bunga bunga.

Certo, è un po’ difficile entusiasmarsi, di fronte a nomi che evocano, più che una luminosa stagione di rinascita civile, la penombra inaccessibile delle lobby e dei potentati finanziari. Ma aspettiamo, augurandoci che veramente lo spirito che animerà questi austeri tecnocrati sia quello del servizio civile, da rendere ad una patria che si trova in grande difficoltà. Ma l’auspicio vero – e forse la preoccupazione più grande – è che la politica riesca, nel frattempo, a recuperare la dignità e la credibilità che ha perduto. Perché se è vero che il centro destra ha dimostrato di non essere in grado di governare, perdendosi nel labirinto della propria litigiosità e dei problemi giudiziari e umani del proprio leader carismatico, è anche vero che neppure il centrosinistra ha dato l’impressione di aver elaborato un modello politico-culturale all’altezza della gravità del momento. Con le elezioni che in teoria potrebbero essere anche molto vicine, non sappiamo nulla di certo riguardo al suo programma, alle alleanze, al leader che la guiderà. E dunque attendiamo, nella speranza che intanto lo “spread”non cresca troppo. Anzi, la speranza vera è che questa parola, che fino a poche settimane fa quasi nessuno conosceva e di cui tuttora solo pochi conoscono l’esatto significato, possa sprofondare nuovamente nell’oblio, tornando a circolare solo nel piccolo recinto dei tecnici della borsa e della finanza..

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Non proprio “sguardi incrociati”, ma “vi-sioni congiunte e parallele”. Mentre intorno ai “massimi sistemi” (vedi n° 12 di Chiaroscuro n.d.r.), abbiamo voluto ascoltare due voci stori-camente “non contigue” (Confindustria e CGIL), sul tema della crisi economica, e delle sue rica-dute concrete sul territorio folignate, abbiamo ri-unito intorno al nostro tavolo due realtà, una lai-ca ed istituzionale e l’altra cattolica, che, giorno dopo giorno, stanno cercando di dare, per quan-to possibile, risposte immediate al disagio sociali che si è generato. Ed in questa logica, ospiti di Chiaroscuro, sono l’assessore alle politiche socia-le ed abitative del Comune di Foligno Christian Napolitano e Don Luigi Filippucci, parroco di S. Eraclio, nonché storico organizzatore della Cari-tas folignate. Il panorama descritto da entrambi, non lascia spa-zio a dubbi o sfumature particolari; ed i numeri snocciolati, parlano di una situazione che si sta gradualmente deteriorando.“Dal nostro osservatorio – esordisce l’assessore Napolitano – abbiamo rilevato una tendenza ad un aumento della soglia di povertà generalizza-to; siamo ormai vicini al punto di allarme sociale. Nel corso del 2010, l’Amministrazione comunale ha sostenuto una media di 143 famiglie al mese. Ora – prosegue l’assessore – pur non avendo anco-ra definito il riscontro del 2011, posso comunque confermare che il dato è decisamente aumentato. E purtroppo, l’incremento di chi ci chiede assi-stenza, è inversamente proporzionale ai fondi che abbiamo a disposizione per soddisfarne le esigen-ze. Se, nel 2010, sul versante “assistenza”, era stata destinata una somma pari a € 500.000, oggi, visti i tagli operati a livello centrale, abbiamo a disposizione appena la metà di quell’importo. I nuclei familiari che si rivolgono a noi – continua Christian Napolitano – che nel 70% dei casi sono di nazionalità italiana, hanno problemi, principal-mente, con i pagamenti delle varie utenze di cui dispongono: luce, gas, ecc. ecc., e uno dei nostri compiti si concretizza proprio in questa direzio-ne. Ovviamente non distribuiamo gli importi ai nuclei familiari in difficoltà, ma sono gli uffici co-munali a provvedere direttamente al pagamento delle bollette e delle fatture. Tuttavia, il nuovo parametro di povertà e disagio, che più emerge

rispetto al passato, è quello riconducibile ad un aumento degli sfratti per morosità. Le famiglie in difficoltà, non riescono più a pagare l’affitto mensile ai proprietari degli appartamenti. Anche in questo contesto – precisa Napolitano – l’Ammi-nistrazione comunale sta cercando di dare una risposta, attraverso l’attivazione e l’incremento delle graduatorie per l’accesso all’ edilizia resi-denziale pubblica. Questo il quadro generale, tuttavia, sia come am-ministratore ma, soprattutto, come politico di sinistra, vorrei descrivere un lato di questa crisi che mi disorienta. Purtroppo, il momento di difficoltà viene perce-pito dal singolo in modo del tutto personalisti-co. Chi si affaccia ai nostri servizi assistenziali lo fa, legittimamente certo, per tentare di risolve-re immediatamente il “suo” problema. Ci si fer-ma lì, malgrado i nostri sforzi di far elaborare la questione su altri versanti, senza avere coscienza che si è in presenza di una problematica molto più generalizzata che potrebbe essere declinata in termini di un maggior coinvolgimento colletti-vo. Quello che latita – chiosa Napolitano – è una coscienza comune e condivisa del disagio, che preclude a qualsiasi azione comune di sensibiliz-zazione, e quindi politicamente più incisiva, atta far modificare le regole del gioco economico glo-bale. Come amministrazione comunale - conclu-de l’assessore Napolitano – intendiamo muoverci, nei confronti della crisi, sia in termini finanziari, evitando tecnicamente i soliti tagli lineari di bi-lancio, sia politici, unendo e prestando la nostra voce a chi, a tutti i livelli di interlocuzione, sta tentando di scrivere nuove e più eque regole per l’economia”. Dopo la disamina politica e la “fotografia” che le istituzioni politiche fanno della crisi che sta inve-stendo il territorio folignate, passiamo la parola a Don Luigi Filippucci che, in quanto parroco di una realtà, quella di S.Eraclio per l’appunto, dai gran-di “numeri”, dispone di una visuale o meglio, di un “fronte”, decisamente attendibile.“Il quadro tratteggiato dall’assessore Napolita-no – dice Don Luigi – è sostanzialmente analogo a quello che viviamo nella nostra parrocchia. Devo precisare, anche in questa sede, che quando ci sono in ballo tematiche di questo tipo, il ruolo di

di Guglielmo Castellano

nel nostro territorioLa crisi

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coordinamento ed indirizzo dell’amministrazione comunale è fondamentale; e il dialogo, in tal sen-so, non è mai venuto meno. Purtroppo, se siamo arrivati al “capolinea”, sia a livello globale che nel nostro particolare, è perché è venuta meno la centralità della persona. I sistemi politici ed eco-nomici “girano” intorno ad essa, la usano come strumento di consenso, senza coglierne, colpevol-mente, il reale spirito e le speranze che in essa sono insite.Un preambolo, questo – puntualizza Don Filippucci – che mi consente di scendere nella quotidianità della mia parrocchia, dove la miseria e la pover-tà, soprattutto tra i cittadini ed i nuclei familiari extra comunitari, stanno diventando realtà sem-pre più diffuse. Diverse famiglie di S. Eraclio, e mi ricollego all’analisi di Napolitano, stanno at-traversando enormi difficoltà per far fronte al pa-gamento degli affitti. Attenzione – prosegue Don Filippucci – stiamo parlando di affitti esorbitanti, tra i 150 ed 300 euro, per alloggi assimilabili a veri e propri tuguri. Una situazione insostenibile. Oltre al problema casa e bollette, come Caritas parrocchiale, dobbiamo poi far fronte ad una vera e propria emergenza alimentare; sono cir-ca una cinquantina, infatti, le famiglie alle quali distribuiamo il pacco base, composto dai generi alimentari, quali pane, latte e pasta, di primaria necessità, atti al solo sostentamento minimo di base. A pagare i costi della crisi, sono anche quelle persone, penso ai pensionati che vivono da soli o persone con alle spalle crisi coniugali sfociate in divorzi che, con il solo reddito a loro disposizio-ne, non riescono più a far fronte ai vari impegni e costi della quotidianità. Quando poi, a bilanci familiari già sinistrati dalla crisi ed al limite delle loro potenzialità, si aggiun-gono, ad esempio, inaspettati problemi di salute

che comportano una nuova ed ulteriore sovrae-sposizione economica, allora va di scena il dram-ma, con cittadini che pur di far fronte alle spese, si mettono nelle mani degli usurai o tentano la fortuna al gioco; spesso con conseguenze ancora più disastrose. Occorre intraprendere nuovi percorsi – sostiene Don Luigi Filippucci - ed in quest’ottica, in accor-do con la Caritas diocesana e l’amministrazione comunale, bisogna perseguire l’idea, tra le altre, degli “orti sociali”, già sperimentata in altri con-testi, dove essa ha dato ottimi risultati. Da sola, infatti, l’elemosina serve a poco. Se oltre a questa, riusciamo a coinvolgere in lavori social-mente utili, tutti coloro che si trovano ai margini della povertà, allora potremmo donare loro nuova dignità”.In presenza di una crisi economica di questa por-tata e rilevanza, le tessere di partito, le credenze personali e religiose e gli steccati sociali non do-vrebbero sussistere. L’unica logica da perseguire è quella della solidarietà e contribuire, tutti insie-me, a riscrivere nuove regole del gioco, atte ad evitare le sperequazioni ed i disastri (figlie della deregolamentazione più esasperata) che hanno condotto la società occidentale sull’orlo del ba-ratro. Non sappiamo se l’obiettivo sarà alla fine raggiun-to; certo è, che sia nell’incontro odierno con l’as-sessore Napolitano e Don Filippucci che nel prece-dente appuntamento con Ulisse Mazzoli della CGIL e Giuseppe Metelli della Confindustria folignate, abbiamo rilevato, qui dalla tribuna di Chiaroscu-ro, spunti interessanti e disponibilità al dialogo e al confronto. Probabilmente se il cambiamento riuscirà ad inne-scarsi dal basso (e Foligno è parte del “basso”), grazie a donne ed uomini che sappiano guardare lontano, allora, forse, ce la potremmo fare.

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Italiamaradi Maria Paola Giuli

Nel nostro viaggio alla ricerca del senso civico si è affermato (Chiaroscuro n. 9) che la fiducia è so-stanziale e va alimentata con azioni positive, di cui le istituzioni hanno la primaria responsabilità.Quello che avviene da tempo sulla scena politica na-zionale, fino a culminare nella crisi economica più nera dal dopoguerra in qua, aumenta il già grave divario che c’è in Italia tra le istituzioni ed i cittadini e conduce ad una società passiva ed indifferente, impermeabile al senso dello Stato.La storica mancanza di fiducia nelle istituzioni ha arre-cato un profondo danno alla società italiana, tanto che in pochi ci si indigna. Se, invece, si arriva ad essere in molti, la reazione nel giro di poco si esaurisce e, puff, il coniglio torna nel cilindro: bisogna attendere il prossimo cappellaio magico che riesca a risvegliare i Conigli Italiani.Di alcuni fatti non si è parlato più, eppure è evidente la loro gravità ed è altrettanto grave averli sottovalu-tati o dimenticati. La dichiarazione, ad esempio, di un europarlamentare

sulla condivisibilità delle idee dell’assassino di Oslo: si scusò, solo in parte, fu temporaneamente sospe-so dal suo partito, ma non esonerato dalla carica per manifesta inabilità a rappresentare il popolo italiano in Europa. Il trasferimento di taluni ministeri al nord: è stato effettuato con una plateale dimostrazione di spregio nei confronti del Presidente della Repubblica e senza alcun provvedimento legislativo. Che vuoi che sia, lo Stato è cosa nostra (perdonate l’ambiguità della definizione).Si continua a parlare, invece, di sollazzi pubblici e pri-vati e di vergognosi giri di donne e di soldi, ma non c’è più da ridere; il popolo del Luna Park è passato ad essere, da folla festosa, come quei pupazzi che stanno dietro al bancone a prendersi le palle in faccia e a far guadagnare punti ai vincitori.Ormai tutti abbiamo capito quello che da molto tempo dicono economisti, Europa, BCE, e cioè che l’Italia ha bisogno di riforme strutturali, non basta far quadrare i conti, né fare cassa raschiando il barile; bisogna crea-re sviluppo, rilanciare l’economia, un nuovo New Deal,

foto di Alessio Vissani

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insomma. Per l’Italia sarebbe veramente nuovo. Chi ha mai visto un vero new deal come avvenne in America, uno Stato che investe per il futuro e non vara riforme che salvano solo gli interessi di pochi? Invece, ancora una volta, le manovre per arginare la crisi economica peseranno maggiormente sulle solite fasce della popolazione, i più deboli, quelli che pagano sempre e, per arrivare a questo scontato risultato, si è anche passati per un balletto di proposte diverse da un giorno all’altro, una farsa teatrale.I neo pensionati dovranno cambiare i piani per l’uti-lizzo della liquidazione e non potranno più nemmeno aiutare i figli, quelli della “generazione che salta il turno” di una puntata di Report. Se non l’avete vista e siete genitori, nonni, zii di giovani di oggi, andate a guardarla. Oggi, sono tanti i giovani che non si ren-dono autonomi, non entrano nel circuito del lavoro e dei consumi, non fanno figli ed i loro genitori si impo-veriscono per mantenere queste famiglie pesanti con figli adulti, dato che non possono, come vorrebbero in barba al morboso attaccamento italico per la prole, dare una bella zampata ai cuccioli troppo cresciuti per cacciarli via dalla tana.I parlamentari non rinunciano ad uno solo dei moltepli-ci benefits, improbabili e senza eguali in altre demo-crazie, né addirittura ad abusarne, prassi tutta italia-na. A chi parla di casta per descrivere adeguatamente il sistema di privilegi non proporzionati alla carica e al ruolo politico, alcuni politici ribattono che molte altre caste ci sono in Italia; ai rilievi mossi sugli esorbitan-ti costi della politica si oppone l’accusa del qualun-quismo e persino della deriva antidemocratica, come se oggi questo trattamento privilegiato fosse l’unica garanzia che anche i poveracci possono fare politica, neanche fossimo negli anni ante guerra. Di questo passo andremo più indietro ancora, quando l’istruzione era per pochi, perché adesso la vera for-mazione, quella che ti inserisce in un mondo del lavoro sempre più chiuso, alla faccia della mobilità, è solo per chi può mandare i figli in qualche istituto di pregio, mentre la scuola pubblica arranca tra tagli e riforme devastanti sul piano economico e didattico. Si ipotizza un aumento dell’IVA, poi no perché bisogna favorire i consumi e perché i commercianti lo temono. Infine sì, l’aumento c’è. Non si sa, però, chi continue-rà a comprare qualcosa: è il ceto medio che muove i consumi, ma il ceto medio di cui parlano oggi non è più quello di ieri, si è trasformato nei “nuovi poveri” che non arrivano alla fine del mese.I borghesi di ieri sono diventati i cafoni di “Fontamara” (Ignazio Silone, 1933), che vivono come ineluttabile la propria condizione di miseria e di ingiustizia sociale. A Fontamara le leggi siano fatte per tutelare gli interessi dei potenti e, quand’anche non sono nate per questo, a tale scopo vengono interpretate da chi detiene il po-tere. Per i Fontamaresi la scala sociale è chiara: “In capo a tutti c’è Dio, padrone del cielo”, “Poi viene il

principe Torlonia, padrone della terra. Poi vengono le guardie del principe. Poi vengono i cani delle guardie del principe. Poi, nulla. Poi, ancora nulla. Poi, ancora nulla. Poi vengono i cafoni.” “Ma le autorità dove le metti?” – domanda un portavoce di quelle autorità al contadino che ha enunciato l’elenco. Un altro rispon-de: “Le autorità si dividono tra il terzo ed il quarto po-sto. Secondo la paga. Il quarto posto (quello dei cani) è immenso. Questo ognuno lo sa.”Fontamara come Italiamara, dove siamo tornati all’ar-roganza dei potenti e all’ignoranza del popolino. A Italiamara non c’è più alcuna capacità di riconoscere, semplicemente, ciò che è giusto e ciò che non lo è, ciò che è morale e ciò che non lo è, ciò che è etico e ciò che non lo è. A Fontamara, infine, emerge lo spirito libero di colui che “sa ragionare in modo contrario” e di coloro che, dopo la sua morte in carcere in nome della causa col-lettiva dei Fontamaresi, si organizzano per stampare “il giornale dei cafoni”, al quale verrà dato il titolo “Che fare?”.CHE FARE? È la domanda che bisognerebbe porsi an-che adesso. Il che implicherebbe saper “ragionare nel modo contrario”, cercare una risposta, sollecitare l’in-teresse della collettività. Questo è il primo passo, laddove c’è coscienza civi-ca. Nella Spagna di Zapatero e nell’America di Obama scendono in piazza gli indignados. Nell’Italia corrotta e volgare il popolo viola raccoglie poche adesioni, forse perché il principale interesse degli italiani è il calcio, ma non tutti sono fiorentini. C’è abbondante materia di studio per i sociologi, ormai gli unici che possano spiegare la letargia della coscienza civica di Italiama-ra, forse annientata dal senso di ineluttabilità del pro-prio destino. Sul vuoto di valori determinato dalla totale assenza di una morale condivisa, si alza la voce della frangia cat-tolica della politica e di qualche autorevole rappresen-tante della Chiesa. Tra l’amoralità e la morale religio-sa, il nostro Paese non conosce la possibile soluzione di una società che si regge su valori civili ed è forte il rischio che la reazione all’estremo libertinaggio condu-ca all’estrema bigotteria.Nell’attesa di riuscire a farci l’affascinante domanda “Che fare?”, o che ci diano i risultati dell’analisi so-ciologica, può essere utile meditare su questa dichia-razione dell’anarchico De Andrè: “Quello che io penso sia utile è di avere il governo il più vicino possibile a me e lo stato, se proprio non se ne può fare a meno, il più lontano possibile dai coglioni” (Senzapatria, 14 agosto 1991).Intanto è ricominciata la scuola ed i giovani tentano di farsi vedere, almeno, se non sentire. I giovani, quelli che in una società civile e democratica hanno il dirit-to-dovere di svolgere la propria funzione demiurgica, quelli che a Italiamara non hanno spazio alcuno e do-vranno lottare per riconquistarlo.

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Questo 2011 ormai alle porte mi lascia l’ama-ro in bocca. Un modo elegante per dire che è stato proprio un anno di merda. Se penso poi che pote-va andare peggio, lo sconforto diventa cronico, e a questo punto non c’è puntata di Porta a Porta che possa sortire il miracolo di una ripresa. Si perché, come diceva mio nonno, tutto sommato gli “acciac-chi” fanno male, ma col bastone ancora si può cam-minare. Il bastone di una lenta ripresa che dovrebbe cominciare con un Governo più credibile a livello in-ternazionale, in grado di rappresentare un’Italia che ancora ha molto da dire. Lo so che aver guardato il Tg1 e il suo direttore che lo usava come se fosse suo; aver sentito alcuni Ministri della Repubblica incita-re al secessionismo e ad una Padania libera; avere avuto un premier pluri indagato che voleva fondare il “partito della gnocca”, dopo essere stato l’inven-tore del bunga bunga, il sinonimo più stravagante ed estroverso della parola “fottere”; ci viene il dubbio che peggio di così non poteva andare. Invece siamo stati bravi, anche se alcuni pensano che la fortuna ci abbia dato una grossa mano. Pensate se all’ulti-mo referendum sul nucleare avesse vinto il no. Oggi avremmo un Governo costretto ad affrontare un pro-blema che non dovrebbe riguardare più nessun pae-se civile, mentre sembra che ci siano ancora nazioni come l’Iran, che stanno sviluppando armamenti nu-cleari, facendo crescere la paura e la preoccupazio-ne per chi invece pensa ad un futuro di pace. La crisi economica che ha colpito la Grecia, bussa alle porte del nostro Paese ogni giorno più forte. An-cora riusciamo a resistere ma non si sa ancora per quanto. Potevamo già essere tra quelli costretti a chiedere aiuto. Noi in realtà siamo abbastanza abi-tuati a farci aiutare. Da poco ci siamo liberati del cappio economico che gli amici Americani ci aveva-no messo dopo la seconda guerra mondiale col Piano Marshall, e che poi li ha autorizzati ad invadere il Mediterraneo con le loro basi militari. Quello che in realtà mi preoccupa non sono certo le richieste dei Paesi membri nel momento in cui ci dovessimo indebitare, ma quello che il nostro Governo è dispo-sto a cedere. Se penso che il Ministro per i Beni e le Attività Culturali del Governo Berlusconi, ha avuto la brillante intuizione, forse ispirato dal film di Totò

che “vendeva” la fontana di Trevi, di mettere a di-sposizione il Colosseo ad un imprenditore, perché il Comune di Roma non aveva fondi necessari per il re-stauro, non oso immaginare cosa può essere disposto a fare un estroverso Presidente del Consiglio per il suo amato paese! Per non parlare poi dell’eventuale uscita dall’euro. A questo punto non mi sorprende-rebbe un ritorno al baiocco piuttosto che alla lira, se non al pur sempre intramontabile baratto. A Poppi i lungimiranti toscani hanno riproposto il vecchio co-nio dimenticato nel cassetto, per fare acquisti nei fine settimana. Quando andremo alle elezioni e sa-remo dentro quel gabbiottino di legno scarabocchia-to, è bene pensare anche a questo.Immaginate poi se la legge sul testamento biologico fosse stata già approvata! A quel punto ci potrem-mo ritrovare un Governo che, giustamente ci impone delle regole democratiche di vita quotidiana, e con-testualmente norme illegittime su come e quando morire. La morte dovrebbe essere la cosa più libera che ci sia, perché non c’è né giustizia né ingiustizia che ne possa regolare gli eventi. Invece si tenta di avere il controllo anche su questo, avendo la pre-sunzione di poter imporre delle norme e impedendo ad ognuno di scegliere liberamente almeno la fine della sua vita, visto che nel mezzo decidere è diven-tato un vero lusso. Vista la velocità con cui scienza e tecnologia progrediscono, non mi sorprenderebbe un giorno esser colto dalla morte e non sapere di esserlo perché c’è chi pensa per me, mangia per me e tutti mi salutano con la manina mentre io sono nel caldo giaciglio di un letto di ospedale.Ed infine si potrebbe fantasticare sulle strepitose conseguenze che avrebbe potuto avere una convin-cente politica diffamatoria contro la magistratura. Un Presidente del Consiglio che per mesi ha fomen-tato il Paese contro un Organo Costituzionale con poteri giurisdizionali. Credo sia il primo passo verso la fine della democrazia. Quindi, immaginate che invece di un Governo di transizione, che dovrebbe traghettare le anime degli italiani verso elezioni de-mocratiche, ci sia una sana anarchia. Zotici igno-ranti che urlano incomprensibili slogan di secessione perché non conoscono il significato della Costituzio-ne e che hanno fatto del “Va Pensiero” il loro inno.

di Federico BertiFinchèla barca vadisegno di Fabio Tacchi

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Figuriamoci cosa potrebbe accadere se non ci fosse più il rispetto delle leggi e degli organi che devono applicarle e tutelarle. Ritengo che sia necessario un forte ricambio di persone e di idee, perché il tarlo che ha infettato tutti i nostri politici e le modalità di gestione del nostro Paese, non è estirpabile. Non c’è dato sapere cosa accadrà domani ma ritengo in-dispensabile che in questo momento di forte preca-rietà, ci siano dei punti fermi….…Art. 1 L’Italia è una Repubblica democratica, fon-data sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costi-tuzione.Art. 2 La Repubblica riconosce e garantisce i dirit-ti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.Art. 3 Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È com-pito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di or-dine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazio-ne politica, economica e sociale del Paese.Art. 4 La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il di-ritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la pro-pria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.Art. 5 La Repubblica, una e indi-visibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei ser-vizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento ammi-nistrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del de-centramento.Art. 6 La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze lin-guistiche.Art. 7 Lo Stato e la Chiesa catto-lica sono, ciascuno nel proprio or-dine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale.Art. 8 Tutte le confessioni reli-

giose sono egualmente libere davanti alla legge. Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano. I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresen-tanze.Art. 9 La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.Art. 10 L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute. La condizione giuridica dello stranie-ro è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali. Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio del-le libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repub-blica secondo le condizioni stabilite dalla legge. Non è ammessa l’estradizione dello straniero per reati politici.Art. 11 L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; con-sente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamen-to che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazio-nali rivolte a tale scopo.Art. 12 La bandiera della Repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni.

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Alzi la mano chi tra noi preferisce il personag-gio della formica nella celebra favola “La Cicala e la Formica”? Ecco io sono sempre stata tra quelli che detestano cordialmente la formica. Quell’esserino laborioso, saccente, stacanovista, moraleggiante, rompiscatole, un po’ taccagno che accumulava prov-viste per l’inverno e ammoniva la godereccia cicala perché trascorreva le sue giornate canticchiando fe-lice. La cicala per me è la personificazione dell’al-legria, del dolce far niente, della vita bohèmienne, dell’edonismo e dei piaceri fugaci, è la gioia di vive-re e di godere l’estate senza pensieri. In fondo alla cicala non importava dei beni materiali tanto cari alla nera formichina, a lei bastava solo il calore del sole e la compagnia del suo canto e anche se forse era cosciente del rischio che avrebbe corso, trovava che il peccato più imperdonabile sarebbe stato quel-lo di sprecare un’intera stagione di dolcezze e deli-zie con un lavoro alienante e meccanico. Sappiamo tutti come finì la povera cicala agli albori dell’inver-no e conosciamo fin troppo bene il messaggio che la favola vorrebbe veicolare, ma resto sempre dell’i-dea che nulla può la piccolo-borghese formica, tanto previdente ma anche tanto noiosa, sulla poeticità decadente ma sublime della cicala vagabonda. Se dovessi individuare dei caratteri umani adatti a im-personare i due insetti sceglierei un grigio impiegato pubblico per la formichina e un artista di strada che suona uno strumento strampalato per la cicala. E già me la vedo la scena del signore arcigno, grigio e un po’ ingobbito dalla routine quotidiana che si avvicina al baldanzoso musicista fiero e libero e gli dice “Per-ché non vai a lavorare, parassita?!”. Sarà per questa profonda e inconfessabile invidia che certi individui frustrati, è notizia abbastanza recente, dall’alto del colle Capitolino vorrebbero limitare l’attività degli artisti di strada della Capitale perché responsabili del degrado del centro storico? Accusare i saltimban-chi di Roma di essere nefasti per il decoro urbano sa-rebbe un po’ come accusare gli uccellini del cattivo tempo. Evidentemente non tutti possono apprezza-re la bellezza di una danza, di una melodia, di uno spettacolo di mimo o di giocoleria gratuito, che non chiede che pochi spiccioli facoltativi.Eppure, nonostante la mia innata simpatia per i

fricchettoni e nonostante sia io per prima un’amante della vita senza pensieri, ho dovuto capitolare di fronte alla dura contingenza che si è presentata non più così rosea come l’avevo vissuta fino a pochi anni prima. La crisi finanziaria che all’inizio sembrava solo un affare di banche e di borse estere, ha avuto effetti disastrosi su tutte le economie mondiali arrivando ben presto a toccare le nostre vite che fino a quel momento si crogiolavano tranquille nelle acque calme del benessere diffuso. Nessuno poteva prevedere tanta velocità così come nessuno poteva prevedere fin dove si potesse arrivare. Alla crisi economica in Italia si aggiunge, oltre a un debito pubblico esorbitante, l’aggravante di un governo scellerato che in quasi 17 anni ha distrutto lo stato sociale, ha depotenziato ai minimi termini la magistratura, ha massacrato la scuola e l’università pubblica, ha tagliato miliardi di euro a sanità, beni culturali, aiuti alle imprese etc. In pochi mesi è salita vertiginosamente l’inflazione, è aumentata la disoccupazione e centinaia di migliaia di italiani sono andati in cassa integrazione perché le aziende nazionali stanno subendo ridimensionamenti per risparmiare laddove è possibile. La situazione è quella del completo disfacimento di un paese che langue da troppo tempo e che ci lascia impotenti di fronte alla nostra decadenza. Sembra non si trovino forme di reazione concrete e che qualsiasi decisione importante sia delegata a un governo incapace e negletto. Ebbene, essendomi trovata con un contratto co.co.pro in scadenza e con un futuro più che incerto di fronte ai miei occhi, ho dovuto, per necessità indipendenti dalla mia volontà, cambiare stile e soprattutto atteggiamento di fronte alla vita. Nonostante io goda dell’appoggio di una famiglia solida e sempre presente, nonostante sia figlia unica, ho cominciato a studiare una strategia per non prosciugare tutti i miei risparmi e per diventare una donna virtuosa a prova di crisi del terzo millennio. Il concetto è semplice, se ci sono entrate limitate più che fondamentale dovrebbe essere il controllo del denaro in uscita, poiché lo scopo è evitare lo spreco. Per questo ho eliminato completamente i pomeriggi di shopping a zonzo per le vie del centro, quelle giornate in cui si spendono volentieri cifre

Come la cicalasi reinventò formica

di Marta Angelini

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variabili a seconda del paio di scarpe, della borsa o della cipria di cui ci siamo innamorate. Girare per negozi si sa è il modo migliore per far nascere desideri inutili e per far sorgere nuovi ed effimeri bisogni. La cosa fondamentale è stata appunto agire nel cuore dei miei bisogni, una volta a casa con della merce nuova, certamente scintillante e all’ultima moda, mi ponevo una semplice domanda: ma ho davvero bisogno di questo? Una volta su due la risposta era negativa. Per questo mi sono vietata di comprare qualsiasi cosa che non fosse stata meditata precedentemente: avevo bisogno di abiti, prodotti per l’igiene personale, accessori? La cosa più logica da fare era stilare una lista e con quella uscire di casa ripromettendomi di non sgarrare e di non comprare neanche un oggetto in più. Anche la scelta dei negozi è stata modificata, se prima preferivo quelli di marche note e globalizzate, ora sono molto più attenta ai

piccoli negozi di nicchia, ascolto il passaparola delle amiche e sono diventata una vera estimatrice di negozi Vintage. I negozi con merce di seconda mano sono talmente illuminanti che è un vero peccato che in Italia siano ancora poco diffusi. I prezzi sono estremamente convenienti anche quando si tratta di prodotti di “lusso”, ho trovato un trench di una celeberrima casa inglese di moda da far svenire le

mie colleghe, delle borse di pelle perfette e intatte anche nelle rifiniture, foulard francesi di alta moda, gonne tartan di pura lana vergine che costano spesso un decimo del loro valore effettivo solo perché sono vecchi di 30-40 anni. Le leggi di mercato sono a dir poco assurde, preferiamo comprare capi di abbigliamento nuovi e cari, ma di pessima qualità fabbricati in Vietnam o in Cina che durano qualche stagione, quando abbiamo dei negozi specializzati che vendono abiti che hanno già resistito per decenni e sono ancora perfetti, di un’eleganza classica e che col tempo acquistano fascino e preziosità. Sembra l’uovo di Colombo, molto semplicemente dovremmo constatare che non c’è assolutamente bisogno di tutta questa sovrapproduzione di merci quando ci sono ancora tanti oggetti al mondo perfetti per il presente che si potranno usare ancora per molto tempo. La convenienza perciò non è solo

quella economica, ma soprattutto ecologica, chi compra oggetti usati inquina meno e risulta molto più sostenibile di colui che si dedica all’usa e getta. Nel mio rinnovamento di consumatrice consapevole ho rivalutato figure essenziali che rendono quasi immortali alcuni oggetti, il calzolaio, la sarta, l’artigiano del cuoio, l’orologiaio, sono gli angeli che possono, nei limiti del possibile, recuperare i danni causati dall’obsolescenza e dall’uso delle cose del quotidiano. Ho limitato drasticamente anche l’acquisto di libri, cd e dvd che ho in abbondanza in casa, perché ci sono le biblioteche per questo, mediamente ogni settimana ritiro dai due ai quattro libri a volta, due dvd e a volte un cd e avendo una scadenza di riconsegna del materiale, risulto più diligente nella lettura dei libri e nella visione dei film che non sono miei. Altra pratica che ho intrapreso con successo è lo scambio libero di oggetti. Una volta accantonati gli oggetti o i vestiti che non uso più li mostro alle amiche

affinché vi possano trovare qualche cosa di utile e loro fanno lo stesso con me. Anche questo è un modo per sopravvivere a una crisi che sta impoverendo tutti gradualmente, in pochi anni mi sono riscoperta sempre più formichina dopo una giovinezza da cicala. E se il segreto per uscire dalla crisi fosse proprio quello di insegnare alle formiche a cantare e alle cicale ad economizzare come delle formiche?

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Sabato 22 ottobre alle ore 15, puntualissima, Maria Frigeri, assessore del Comune di Foligno “ si è recata in via Pascoli n. 9 per un caffé e per un giro della città...”con sguardo più attento”, così diceva nella mail con cui accettava l’invito.E l’attenzione c’è stata davvero, anche il caffè, in-tendiamoci… L’antefatto è una lettera che nell’aprile 2007, all’av-vio dei lavori per le nuove pavimentazioni stradali di Foligno, la mia “ruotante” compagna ed io inviam-mo al sindaco per sollecitare operosa attenzione al

problema delle così dette “barriere architettoniche (vedi anche il n. 0 “Rottamiamo le barriere”).Nel febbraio scorso, un po’ “scossi” e un po’ “sdruccioli” dal roto/pedo transito sui nuovi sanpietrini, abbiamo nuovamente sollevato il problema scrivendo a cadenza più o meno mensile. Alla lettera numero sei ci hanno dato accoglienza l’assessore Stella, l’architetto Piermarini e l’ing. Rossi. Hanno raccontato della massima attenzione data al problema e ascoltato le osservazioni si sono messi a disposizione personalmente, attraverso i rispettivi uffici e fornendoci persino i recapiti telefonici privati.

Archiviato l’incontro la città ha continuato ad esse-re sempre più “posseduta” da cantieri sempre meno attenti all’accessibilità, nuovi esercizi commerciali con nuove “barriere” e una Foligno che fatica ad immaginarsi per tutti, o “for all” come dicono i tec-nici, tecnici più nelle parole che nella sostanza.Ed è a questo punto della storia che la mia “mar-ziana” compagna, già impegnata a sopravvivere nel pianeta dei “normodotati”, decide di riservare a questo scopo le poche forze (“poche” dice lei, ma dovreste conoscerla…). In poche parole non se la

sente di continuare un colloquio fine a se stesso, “Foligno è pur sempre meno peggio di molti altri luoghi”, dice “ruo-tando” via.E siamo all’11 ottobre scorso, una nuo-va “lettera aperta” al sindaco è firma-ta solo da me. In quella “sfido” l’Am-ministrazione a candidarsi all’Access City Award 2012 per la città più ac-cessibile e a convincere la “marziana” a riprendere il dialogo, “forse allora potremmo davvero definirci non solo “normali” ma persino “abili”Il 13 ottobre la risposta di Maria Frigeri:“Forse perchè, oltre alla de-nuncia di difficoltà, lancia una pro-posta forte di collaborazione. Forse perchè invita a mettersi, oltre che su una carrozzina, anche solo ad altezza di bambino…” Dottoressa pediatra, ci ha raccontato

di conoscere quel n.9 di via Pascoli perchè anni fa “curava” i bambini che vi abitavano e ricordava la madre. “Ma certo, è una nostra amica e ora sta a Milano e i “bimbi” sono ragazzi fantastici…”. Poche battute ma il ghiaccio è rotto.Si scusa per aver atteso tanto a dare una risposta, sorseggia il caffè e accetta volentieri l’idea di “visitare” una casa “accessibile”… …“ma anche colorata e allegra”, aggiunge lei quando poco dopo ci avviamo per le vie di Foligno.Così finalmente una delle persone che amministrano la città passeggia per vie e piazze se non proprio a bordo di una carrozzina almeno al suo fianco.

di Giorgio RaffaelliVederequel che non c’è

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SPERSONE

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Come quando facemmo lo stesso percorso con una giornalista, anche per l’assessore Maria Frigeri la percezione della difficoltà è immediata. Il “rollio” sui sanpietrini non è più una parola, ma è il ferro della carrozzina che pigola un lamento reale e che si acquieta sui percorsi più lisci. Raggiungere un luogo della città non è l’inconsapevole mettere un piede di fronte all’altro, occorre scegliere il percorso, evi-tare quelli troppo sconnessi, assicurarsi che il cam-mino non termini con un gradino e se sbagli paghi pegno e torni alla partenza, e se non c’è spazio per l’inversione pegno doppio con il percorso a marcia indietro…Lo “sguardo più attento” anticipato nella mail si traduce nelle molte domande, nella disponibilità ad ascoltare e la volontà di rendersi conto dei proble-mi, ad esempio quello delle doppie porte del Palaz-zo Comunale.

Io l’avevo predetto: una risata vi seppellirà!Nulla è più distruttivo di una risata: in questo caso muta, di intesa tra due persone di importanza internazio-nale, Sarkozy e la Merkel, alla domanda sulla affidabilità del nostro ex-primo ministro.La risata è stata la certificazione ufficiale, mondiale della grottesca inadeguatezza del nostro capo del gover-no.Più dello spread, più del deficit, più delle temperature siberiane della borsa, ha potuto una risata, l’ultima.Perché di risate, amare, ce ne sono state tante!Si rideva per non piangere, si rideva fino alle lacrime.Vogliamo ricordare corna, cucù, bandane, parole in libertà, bugie plateali, plastiche facciali, capelli alla Big Jim?Ma tra tanto scempio, mi piace ricordare un episodio tra molti, il cui protagonista, per una volta, non è stato il nostro ex leader ma un suo degno alleato: il vanesio Bossi.11 ottobre 2011, una votazione storica alla Camera dei Deputati: bocciato il bilancio dello stato!Il governo è battuto, sono mancati voti determinanti della maggioranza. Bastava un solo voto di più per l’approvazione, non c’è stato.Chi è mancato?Due grandi protagonisti sono arrivati con soli trenta secondi di ritardo al voto: Tremonti e Bossi.Tremonti era in ritardo, come si è detto in un primo momento, perché troppo pio, aveva fatto tardi ad un funerale; poi non era più così, era nel suo studio e nel corridoio di Montecitorio ha camminato troppo lentamente per giungere in tempo. Forse non era così entusiasta della sua politica economica!Ma più singolare il ritardo del vanesio Bossi; si è lasciato irretire da una cronista dell’Unità che gli ha fatto delle domande… e lo sventurato ha risposto! Ma vi ricordate il corvo con il pezzo di formaggio in bocca che cede alle lusinghe della volpe e apre il becco per far sentire la sua bella voce, perdendo così il formaggio?Ma fa ancora più ridere il “nascondino” dell’opposizione; alcuni parlamentari si sono nascosti dietro a delle colonne, per votare a tradimento all’ultimo momento e spiazzare così le previsioni del “nemico”.Colpo riuscito! Capite chi reggeva le sorti dell’Italia?

Ci siamo lasciati nel tardo pomeriggio, un abbraccio caloroso ha rinnovato il suo impegno e la nostra di-sponibilità.Ormai è passato un mese, diversamente da altre volte non mi risulta che siano stati dati comunicati stampa, peccato, sarebbe valsa la pena. Per la pri-ma volta incontrando un Amministratore (forse non è un caso che si trattasse di un’ Amministratrice) ci siamo trovati di fronte ad una persona che non ha cercato parole per convincere di dove e come c’è stata attenzione, ma si è impegnata a capire dove non c’è stata, e ancora di più a immaginare come potrebbe esserci per il futuro.Qualcuno potrebbe chiamarla “partecipazione”, ma forse potrebbe essere semplicemente un buon modo di assumere un incarico - errare humanum est - che prevede di amministrare una città di tutti… o “for all” come si dice oggi.

L’angolo dellavergogna

di Rita Barbetti

IL VANESIO

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IDEE

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Una prima considerazione, di ritorno dalla catastrofica manifestazione romana degli Indigna-ti, imponente e impotente come forse mai prima: tutto si fa più difficile. Perché a Roma si è consu-mata fino in fondo, e sotto gli occhi di tutti, una drammatica esperienza di priva-tizzazione dello spazio pubbli-co, e lo slogan della manifesta-zione (siamo il 99%), coniato per gettare luce sullo squilibrio di potere che devasta l’economia mondiale e cancella il futuro dei giovani, ha finito per illuminare riflessivamente la manifestazione stessa, espropriata da una tec-nocrazia del tumulto non meno organizzata, determinata e in-differente alla volontà collettiva della tecnocrazia finanziaria che sta portando il pianeta alla ro-vina. L’uno per cento, appunto. Ma l’uno per cento di centomila vuol dire mille persone, un pic-colo esercito. Capace, se la po-lizia sonnecchia per un paio d’o-re a beneficio delle telecamere, di devastare un pezzo di città e mandare a casa tutti gli altri, una fetta di popolo. Sono sceso con altri compagni di Sinistra, ecologia e libertà, lungo via Cavour al seguito del grande tir dei centri so-ciali romani, enfatici come sempre nella retorica

degli slogan ma assolutamente pacifici nei compor-tamenti. E fin dall’inizio, tre o quattrocento metri davanti a noi, colonne di fumo nero ci segnalava-no che qualcun altro era al lavoro, contro la cit-tà e contro di noi. Poi avanzavamo e ne vedevamo

le tracce: una vetrina sfondata, qualche auto danneggiata, una saracinesca incendiata, una pom-pa di benzina fuori uso… Ce n’e-rano altri alle nostre spalle, qual-che centinaio, e a un certo punto hanno deciso di risalire il corteo per andare a fare la guerra in piazza S.Giovanni. E man mano che loro passavano, risponden-do col dito medio alzato alla scia di fischi ed insulti che li accompa-gnava, il corteo si frammentava, si scioglieva, mentre finalmente (ma erano ormai quasi le cinque del pomeriggio) un’impressionan-te colonna di cellulari si metteva in movimento, da una traversa tra via Labicana e piazza S.Giovanni. Non un gruppo di infiltrati, dun-que, e nemmeno un’esplosione di collera popolare. Piuttosto, la maledizione dell’uno per cento che insegue la generazione degli

indignati: c’è un uno per cento che ti ruba la vita, ed un altro uno per cento che ti ruba la piazza, e tutti e due ti rubano la democrazia.

“A cosa serve studiare?” Domanda con una va-lenza ambigua. Inquietante direi! Cosa rispondere a una persona giovane che ci pone una domanda del genere? Sarà esauriente rispondergli che ci darà la chiave per diventare quello che si desidera? O, uto-

pisticamente parlando, che il sapere e la conoscen-za ci renderanno liberi e immuni dal maggiore dei mali dell’umanità, ovvero, l’ignoranza! Credo che sia io che scrivo, sia voi che leggete, possiamo esse-re d’accordo che quanto appena detto è una verità

“LA SAGGEZZA NON E’ UN PRODOTTO DELL’ ISTRUZIONE MA DEL TENTATIVO DI ACQUISIRLA, CHE DURA TUTTA LA VITA”

A.Einstein

Quell’unoper centodi Fausto Gentili

foto di Alessio Vissani

A cosa servestudiare? di Davis Sabatini

foto di Alessio Vissani

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oggettiva. Con molta probabilità il giovane interlo-cutore, autore della domanda, non sarà appagato. Perché egli avrà parenti o amici laureati che riem-piono le cassette della posta di brochure pubbliciz-zanti le offerte del mese dell’ipermercato locale. E sempre lui, si accorgerà che per ambire a posti di rilievo nelle istituzioni pubbliche e private, o da dipendenti, non è l’onestà, il sacrificio, la predispo-sizione, la dedizione e perseveranza allo studio che apriranno le porte del mondo del lavoro. No! Tanto basta essere “amico di...” o meglio “parente di..”, e le porte si spalancheranno anche senza avere i giusti meriti. In fondo, che c’importa se un medico all’ospedale confonde i sintomi di un ictus con un virus che “gira”! Per cari-tà! Errare è intrinseco alla natura umana! Ma quando si sente, visto l’esempio ci-tato, che viene ingessato il braccio o la gamba sbaglia-ta!! Più che come errore la vedo come incompeten-za! E le teste brillanti che meriterebbero di essere al posto dei suddetti incom-petenti? Ah già! a fare vo-lantinaggio o quant’altro. Tutto fuorché quello per cui hanno dedicato sacrifici (anche economici) e tem-po della loro vita. Allora il nostro giovane amico di ini-zio pagina, ha ragione? Per contro, esistono persone in grado di svolgere mansioni senza essere titolate. Cer-to non parlo di mansioni specialistiche! Ma ho poca simpatia per coloro che si gongolano e vantano del “pezzo di carta” la cui pro-venienza dà adito a mille dubbi. Che giunge grazie, per esempio, alla cono-scenza del papà avvocato con il rettore o il profes-sore dell’ateneo frequentato dal figlio del suddetto. Ecco che il giovane dubbioso dell’utilità dello stu-dio, e quindi della conoscenza, si convince che più che i libri, serve la conoscenza giusta. Adorare (per edulcorare) i fondoschiena giusti. Per “arrivare” e scavalcare i meritevoli. Ma l’ago della bilancia qual é? Per il sottoscritto dovrebbe essere la MERITOCRA-ZIA! Che brutta parola! Oggigiorno è foneticamente offensiva per i padiglioni auricolari! Mi domando se qui in Italia esiste ancora nel vocabolario. Oppure qualche forza politica l’ha, abilmente, fatta cancel-

lare. O riveduto e corretto l’etimologia trasforman-dola in SCAMBIOCRAZIA. Ovvero: tu mi dai quello che chiedo, e io ti do quello che vuoi. Ne sappiamo qualcosa dalla politica: da showgirl a “politicanti”. O peggio, da oche nullafacenti della porta accanto a soubrette in tv. Ecco perché a mio avviso le giovani generazioni, traendo “educazione” dal tubo catodi-co (pardon, LCD da 1.000”) dove il corpo diventa mercanzia, fanno due più due quattro. Palinsesti dove si tende a stravolgere l’anatomia tentando di istigare a credere che il cervello ormai non risiede più nella testa, bensì nel seno. Se quest’ultimo è di inusitate dimensioni, regalo di madre natura o del 18° compleanno, ancora meglio, perché sarà segno

di abbondante intelligenza.Questo vale anche per gli uomini. Vittime di monar-chiche ambizioni, ignoranti da far paura ma fisicamen-te e visivamente prestan-ti, si fanno contendere da “popolane” starnazzanti bramose di divenire “re-gine”! Ampia dimostrazio-ne che l’ignoranza diventa forza e potere, l’arroganza diventa stile, la prepotenza virtù. Noi che passeremo il testimone che cosa stiamo facendo? Lasciamo i nostri figli in balìa della balia me-diatica che istiga al culto della bellezza a tutti i costi, sminuendo l’importanza della cultura e della serietà (e quindi della MERITOCRA-ZIA) a favore dell’aspetto esteriore come mezzo per “arrivare”? Io sono convin-to che la bellezza non ri-sieda solo nell’esteriorità. Essere “belli” significa va-lere. Avere rispetto di chi, sportivamente parlando,

“corre” più veloce di noi e sa affrontare la salita perché si è sacrificato nell’allenamento senza do-parsi. Essere coscienti che tutti diamo e riceviamo qualcosa attraverso l’intelligenza del saper vivere e rapportarsi con gli altri anche senza aver studia-to. L’esperienza scaturita dal vivere onestamente la vita è più istruttiva di cento libri. Cito una frase dall’ultimo libro di Peter Høeg “I figli dei guardiani di elefanti”: “naturalmente i genitori sono una bella cosa, persino i nostri. Ma se esistesse un esame per gli adulti, onestamente, quanti lo su-pererebbero?”.

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La scuola italiana è peggiorata. Provo una sensazione strana a scriverlo, come se avessi paura che qualcuno mi cancelli questa frase chiara e semplice. Allora per esserne certa la riscrivo: la scuola italiana è peggiorata.Ogni volta che qualcuno a settembre mi chiedeva: “Dove lavori quest’anno?” e io rispondevo: “da nessuna parte, non lavoro” le reazioni erano per tutti le stesse: “Ma come è possibile? Perché non lavori? Ho sentito in televisione che hanno immesso in ruolo moltissimi insegnanti!”. Dopo questa unanime rispo-sta, ricevuta anche da perso-ne che mi conoscono bene e fanno parte della mia vita, io ero presa dall’imbarazzo della scelta perché non sa-pevo quale risposta dare per prima e come poter, con l’or-dine giusto, riempire quel vuoto di informazioni che evidentemente la televisio-ne non è in grado di colmare.Innanzitutto ci sono io in persona che non lavoro e questo è un fatto, quindi avrei dovuto ripetere per prima cosa “Io non lavoro” e convincerli del fatto che non provavo nessun piacere a ripeterlo, neanche per scherzo.In seguito forse avrei potuto spiegare che fare i tagli alla scuola significa che moltissime persone hanno perso il lavoro, perso perché prima dei tagli lavoravano da anni, e che queste persone sono vere, come me che non lavoro.“Ma voi insegnanti siete troppi”, ho sentito anche questa dalle persone che fanno eco alla televisione, infatti è per questo che le ore di lezione settimanali sono diminuite e il numero di alunni per classe aumentato; troppi gli insegnanti, troppe le materie, troppe le ore, quindi meno insegnanti, meno materie, meno ore, meno classi, ma più alunni, quelli sì che non sono mai troppi! E poi diciamoci la verità: troppa cultura, troppa educazione, troppo

lavoro … è troppo!Bene, andiamo avanti con i fatti. Potrei citare il problema del sostegno:“ma ho sentito che il sostegno non è stato toccato”, allora, scusate la domanda, perché Francesco (il ragazzo che ho seguito, che conosco, che vive il disagio ogni giorno) era seguito per 23 ore settimanali e quest’anno solo 9? Sarà avvenuto un miracolo e non ha più bisogno? E poi ci sono loro, i precari della scuola, anche loro sono ancora vivi ed esistono, anche se non

si vedono in televisione e neanche tanto nelle scuole perché, appunto, sono stati “tagliati”.In realtà, per vederli, si può andare ad assistere alle con-vocazioni per l’assegnazione delle cattedre ai precari, e vedere insegnanti piangere (con lacrime vere!), perché non hanno avuto il posto o perché dopo anni di preca-riato non hanno altra scelta e da Perugia devono andare a lavorare a Norcia, o da Spo-leto devono andare a Città della Pieve.

Se non basta il clima di roulette russa che si respira alle convocazioni, si potrebbe anche passare in qualche scuola, quando si assegnano le supplenze da parte dei presidi, per vedere uscire precari delusi con un foglio in mano dove segnano quante persone che non lavorano ci sono ancora in graduatoria prima della propria posizione. Se tutti questi fatti non sono esaurienti, se per crederci e indignarci dobbiamo aspettare che capiti a noi stessi, allora la televisione è riuscita a distrarci, a illuderci, a farci girare dall’altra parte come se ciò che non si vede o di cui non si parla non esiste, scompare, come per i bambini che si coprono gli occhi … ma soprattutto la televisione è riuscita a far sembrare essa stessa più vera delle persone che abbiamo di fronte. Tutto questo non è ciò che si dice “negare l’evidenza”?

di Daniela CerasaleNegarel’evidenza

disegno di Fabio Tacchi

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4 Ottobre 2011Dopo una giornata stressante di lavoro torno a casa e chiamo mamma, insegnante:-Ciao mà, allora come è andata oggi a scuola? Quanti in classe? Nemmeno uno spero..-No,no oggi erano tutti!-Come tutti? Ma avevi compito?-No.-Magari un’interrogazione?-No erano tutti e basta!Rimango basito, dopo aver riagganciato penso: mi sento inadeguato, qualcosa sta cambiando, eppure non sono così vecchio. Qualche anno fa, quando io frequentavo ancora la scuola superiore, il 4 ottobre era un giorno di festa; non un giorno di festa “comandato”, ce la prendevamo la festa! Ci si vedeva presto di fronte all’entrata della scuola e si faceva di tutto per evitare che i più secchioni entrassero: era quasi sempre una lotta persa ma noi non ci arrendevamo. Poi si prendevano i motorini e si facevano le scorte di cibo, chi comprava la pizza “de Domenico”, chi quella “onta de Santarelli”, i più avveniristici passavano al Mac-drive a Santa Maria Degli Angeli. Ci si ritrovava tutti ad Assisi, non eravamo così tutti pii, in realtà, ma era una festa bellissima, un’occasione di unione per ridere, scherzare e fare una bella passeggiata alla faccia dei prof costretti in classe dai soliti pochi secchioni.31-ottobre 2011Fermo ad un semaforo, noto lungo la strada alcuni ragazzi sulla ventina, vestiti da mostri con maschere in viso, le ragazze vestite da streghe, poco più avanti un’orda di bambini strepitanti , anch’essi vestiti da mostri e scheletri, accompagnati dai genitori che li incitano a pronunciare “Dolcetto o scherzetto?” Parcheggio e vicino passano i ragazzi visti poco prima; chiedo loro:“Festa in maschera?”

“No Halloween!”Ed io: “E che cos’è?”Si guardano tra loro e farfugliano: “La festa dei morti? Mostri…zucca? Mah boh? Halloween è Halloween!”Di nuovo vengo pervaso da un senso di inadeguatezza. Certo ormai è così, nella nostra società anche le feste si assumono per osmosi, senza senso critico. Siamo bombardati e violentati da pubblicità con zucche, streghe; nei negozi pullulano mostri e ragnatele e senza accorgercene ci ritroviamo a festeggiare Halloween. Ma io mi chiedo: tra tutti quelli che festeggiano, c’è qualcuno che sa cosa festeggia? C’è qualcuno che si chiede perché proprio Halloween? Io Halloween l’ho conosciuta e studiata su di un libro come parte di una

cultura estera, ora me la ritrovo qui; chi ha deciso di “importarla”? Stiamo concretamente perdendo le nostre tradizioni, da dove nasce la necessità di introdurre feste di altri paesi? Halloween non mi sembra neanche una bella festa, già il periodo non è bello, mettiamoci pure i mostri e le streghe! Alla fine, se proprio non possiamo fare a meno di importare tradizioni altrui, che si festeggi l’ocktober fest, almeno ci si fa una birra tutti insieme; o il giorno del ringraziamento, così da mangiare un bel tacchino, oppure la festa di San Firmino, si infurieranno gli animalisti ma almeno ci facciamo una bella corsa che di certo male non fa.Abbiamo un bagaglio culturale e di tradizioni immenso che non stiamo coltivando, le nostre radici si stanno seccando, abbiamo perso la bellezza della semplicità, siamo costretti a ricorrere ad immagini mostruose per intrattenerci.Vado a dormire affranto, per dirla in termini calcistici San Francesco – Halloween 0 a 1. E pensare che S.Francesco giocava pure in casa.

di Fabiano RaponiSan Francesco

Halloween 10

foto di Alessio Vissani

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La linea dell’orizzonte che si perde nel profilo della savana. La polvere che penetra nella pelle. Gli occhi abbagliati dalla luce calda del sole. Il profumo inebriante della terra rossa. Ricordi chiusi dentro che vanno e vengono, si confondono e mi confondono. “Viaggiare deve comportare il sacrificio di un pro-gramma ordinario a favore del caso, la rinuncia del quotidiano per lo straordinario”. (H. Hesse) Viaggiare in Africa è sperimentare lo straordinario e scontrar-si con problemi che, visti dalla nostra pro-spettiva, sembrano irrisolvibili: ridurre la povertà, convincere il mondo occidentale a consumare meno ri-sorse, riconoscere che una crescita econo-mica illimitata non è sostenibile. Ma in una terra di contraddizio-ni, dove uomo e na-tura si scontrano ogni giorno e ogni giorno convivono, dipendenti l’uno dall’altra, tutto acquista un valore di-verso e il punto di vi-sta improvvisamente cambia: tutto appare possibile. Per dare un senso al nostro equili-brio instabile, ho respirato l’Africa e ho scoperto la ricchezza e la gioia di un mondo sofferente, ma di una vitalità travolgente. Il contrasto fra la sensa-zione di dolore che si prova di fronte ad un popolo sfruttato e umiliato, al quale è negato ogni diritto, e la forza che ne scaturisce genera un turbamento del cuore che resta come un segno indelebile sulla pelle.Avevo sentito parlare tante volte di Susan, la zop-pa. Una donna di forse quarant’anni, vedova, tanti figli (alcuni dei quali morti di Aids), e tanti nipoti di cui prendersi cura. Poi la malattia: probabilmen-

te un’infezione, ma i medici non sanno dare rispo-ste né trovare una cura adeguata. Le altre donne si guardano rassegnate e dicono che si tratta di una malattia africana che “mangia la carne”. Il tempo passa e il male avanza inesorabile. Susan viene ri-coverata all’ospedale per più di un mese e quando torna al suo villaggio non ha più la gamba destra: amputata quasi all’inguine perché andata in cancre-na. Da quel momento tutto cambia. La vita diventa terribile: la zoppa è destinata a trascinarsi a terra

fra la polvere e il fango, non può fare altro con una gamba sola. Non posso dimenticare la dolcezza del suo volto e il sorriso con cui mi ha accolto la prima volta. La ferita dell’operazione non si rimargina; i bambini devono andare a scuola; la farina di polenta è finita. Eppure gli occhi di quella donna seduta sot-to il grande albero sono pieni di speranza. Una sola richiesta, sussurrata con pudore fra le labbra: una sedia a rotelle.Nelle zone rurali dell’Africa nera una sedia a rotelle è un lusso che nessuno si può permettere. Ho visto disabili di ogni età, bambini, giovani, anziani, tra-

Tra cielo e terradi Carla Tacchi

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sformare le loro braccia in gambe e camminare con le mani, i più fortunati trascinarsi sopra tavolette di legno a cui erano state applicate delle piccole ruote.La sedia di Susan impiega un anno prima di arriva-re dall’Italia, l’aspetta un percorso lungo e difficile. Dopo alcune inquietanti incursioni nel mondo della disabilità di un “paese civilizzato”, la troviamo. È usata ma in buono stato, quindi verrà caricata qual-che mese dopo, insieme a generi alimentari, indu-menti usati, coperte e vecchie biciclette, sul con-tainer diretto in Zambia. Il viaggio è complicato e molto costoso. Spedire 33 metri cubi di aiuti uma-nitari costa più di 6.000 euro. Nessuna agevolazio-ne da parte dello Stato, anzi… una serie infinita di ostacoli burocratici. Ma il container alla fine riesce a partire dal porto di La Spezia e dopo quarantacinque giorni, solcando le acque del Mediterraneo e attra-versando il Canale di Suez, giunge a Dar-es-Salaam, in Tanzania. A questo punto comincia l’odissea via ter-ra: 3.500 chilometri nel cuore dell’Africa, su stra-de sterrate, oltrepassando frontiere politiche e bar-riere naturali per giungere alla Missione S. Giuseppe di Kalulushi. L’arrivo di un container è sempre una grande festa, una sorta di cerimonia con la sua speciale ritualità. Dopo il controllo e la firma dei documenti si procede all’apertura. In meno di due ore tutto il prezioso contenuto viene scaricato e riposto con cura nei magazzini. Intanto decine di bambini si infilano sotto le ruote del grande camion per curiosare; si vedono tanti occhi spalancati e stupiti e tante manine pronte a ricevere qualche scatola di fagioli, di tonno o qualche pacchetto di biscotti che cade da uno scatolone rotto. Il giorno successivo comincia la distribuzione alle varie missioni del Copperbelt. Man mano tutto il carico d’amore e di speranza raggiungerà famiglie, donne, bambini, anziani per sostenerli nella lotta quotidiana per la sopravvivenza.

E così, dopo un anno passato fra terra e cielo, un piccolo grande sogno si sta per avverare. Il villag-gio dove vive la zoppa non si può raggiungere con la macchina. Le donne che ci accompagnano e ci indicano la strada ci fanno capire che bisogna pro-seguire a piedi, ma che non è lontano. Una di loro si avvicina e con una disinvoltura ed una grazia disar-manti si carica la sedia a rotelle sulla testa e parte

davanti a tutti. Noi in fila indiana seguiamo la sua figura sinuosa ed elegante, che si staglia contro un cielo azzurro, intenso e trasparente, che illumina i campi bruciati del granoturco appena raccolto. Ci dirigiamo verso la nostra meta, circa quaranta mi-nuti di cammino. In questa terra che si ama a prima vista, ma che per noi occidentali resta difficile da capire come la sua gente, tutto è relativo, e i con-cetti di vicino e lontano non fanno eccezione.Ad un tratto, una frotta di bambini infangati dai pie-di fino alla punta dei capelli ci corre incontro. Tro-viamo Susan ancora seduta a terra sotto il grande albero, ma qualcosa è cambiato: dopo un calvario di sofferenze durato un anno, la ferita è completa-mente rimarginata, ora si può ricominciare a vivere. Con le ruote al posto delle gambe sarà come nascere di nuovo, mi dice all’orecchio, e poi indica orgo-gliosa una capanna in costruzione poco distante. I

bambini, il più grande un-dici anni e la più piccola quattro, stanno cercando di terminare la nuova casa prima che arrivi la stagio-ne delle piogge. Prendono l’argilla dal termitaio, la mescolano ad acqua ed erba, modellano i matto-ni e li mettono a seccare al sole, una volta pronti cominciano ad alzare le pareti. Scalzi e a mani nude lavorano per la loro mamma/nonna che non si può muovere, è per que-sto che sono così sporchi.

Quando arriva il momento di sedersi sulla magica sedia con le ruote c’è un silenzio irreale, un’emozione intima e carica di un significato diverso per ciascuno. Una donna con una gamba amputata trema e piange in silenzio con il volto tra le mani. Un bambino di undici anni spinge la sedia su cui è seduta con un grande sorriso, orgoglioso del suo compito. Le donne intorno cantano e gridano alla maniera africana per dimostrare la loro gioia ed invitare tutti a fare festa. I bambini, presi dall’euforia, danzano e battono le mani. La polvere rossa, alzata da un vento caldo e inaspettato, entra negli occhi e penetra nella pelle. Una donna bianca assiste alla scena, immobile. Travolta dalle emozioni respira l’Africa e per nascondere la commozione si gira per guardare l’orizzonte.In quel preciso istante, isolato per sempre nel fluire inesorabile del tempo, “l’orizzonte non è più solo la linea di demarcazione del confine tra cielo e terra, ma rappresenta un insieme di sfide e di richiami di una natura dalla forza sconosciuta”. (W. Smith)

Da quel momento tutto cambia.

La vita diventa terribile: la zoppa

è destinata a trascinarsi a terra fra la polvere e il fango,

non può fare altro con una gamba sola

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Chi sono io per mettermi a giudicare il tempo in cui vivo? Che titoli ho per puntare il dito contro ciò che di cattivo, o di esemplare, esiste nella mia società? Io, in senso assoluto, come la maggior parte delle persone che vivono in questo mondo, “non sono nessuno”, eppure posso, in senso relativo, considerarmi ugualmente un testimone attendibile della vita così come si svolge in questo minuscolo, ma complicato, pezzettino di mondo. Per esempio: c’è mancato poco che il Presidente Pertini partecipasse al mio battesimo, ho conosciuto la riforma scolastica che ha abolito la maestra unica e poi, naturalmente, a seguire tutte le altre, mi sono fatta una foto (una vecchia polaroid per essere pignoli) con Giulietta Masina, ho avuto l’onore di porgere il braccio a Rita Levi Montalcini, ho visto da vicino la Carrà, ho conosciuto gli effetti della prima e della seconda Repubblica (e mi auguro di vederne presto una terza, e magari una quarta) e ho conosciuto il boom televisivo degli anni Ottanta senza che la mia coscienza vi si potesse opporre; ciò premesso, suppongo comunque di potermi permettere qualche sommario giudizio e qualche generica lamentela su quanto vissuto o intuito fin’ora, senza omettere, bene inteso, le mie colpe individuali. Quando ero una bambina tutti intorno a me si vantavano di non essere razzisti, di essere abbastanza maturi (eravamo o non eravamo “i migliori”, coloro ai quali la storia non aveva più nulla da insegnare?) da non avere preconcetti, salvo forse un po’ di misoginia, legata a una visione rigorosamente “decorosa” della vita di cui all’epoca sembrava non si potesse fare a meno. Ricordo rappresentazioni teatrali amatoriali in cui bisognava “sporcarsi” il volto per interpretare un protagonista nero, e incontri istituzionali in cui fluivano centinaia e centinaia di persone colte ed eleganti, tutte preoccupate di dare il proprio benvenuto al solo studente di colore nel raggio di chilometri. Ricordo soprattutto l’ordine di quegli incontri, la tranquillità con cui ciascuno poteva dare la propria versione di una medesima opinione politicamente corretta. Dire alcune frasi ad effetto, però, serviva prima di tutto a sentirsi importanti, a guadagnarsi il diritto di parlare ancora; le frasi erano troppo spersonalizzate per poter essere efficaci, per

poter convincere i propri ideatori del fatto che si possa davvero guardare qualcuno senza cedere alle apparenze, senza accorgersi se sia zoppo o meno, se sia nero o giallo, sano o malato, bello o brutto. In quel periodo, tutto sommato fortunato, eravamo davvero convinti che non ci saremmo mai fatti trarre in inganno, che avremmo riconosciuto l’umanità, tanto nostra quanto altrui, dietro qualsiasi, casuale, maschera il destino ci avesse appiccicato addosso. In realtà, senza i gioielli, i vestiti, il portamento, la cravatta, insomma, senza i nostri “paramenti sacri”, sarebbe stato difficile anche riconoscersi tra coniugi. E, col senno di poi, so che in molti lo sapevano già, ma forse hanno pensato di poter vivere come fanno i gatti domestici: senza capire le moine o le isterie degli umani, abituandosi tranquillamente alle loro stranezze, anzi considerando proprio le stranezze altrui, gli altrui incomprensibili linguaggi, fonte di aristocratico orgoglio personale.Quello che l’ordine costituito ha il compito d’impedire non è una specie di caos primordiale, ma il semplice, e di per sé naturale, spostamento di “vedute”. Deve impedire il passaggio attraverso i propri confini di idee, forme, simboli diversi dai propri, deve impedire che possa esistere, o peggio ancora accumularsi, materiale per un confronto. Senza un reale punto di paragone, e facendosi scudo delle proprie frontiere mentali, si può creare qualcosa di buono semplicemente etichettandolo come tale, dichiarandolo buono, e così facendo ci si può finalmente sentire padroni a casa propria.Essere padroni di noi stessi a casa nostra, cioè poter controllare tutte le possibili variabili, ha come vantaggio la possibilità di autopredirsi, o meglio, di scegliersi, il futuro. E poco importa se il futuro non sarà eterno, se sarà soltanto una corta appendice del presente, il solo fatto di avere in mano tutto il necessario per gli auspici ci fa sentire onnipotenti. Ci spinge una volta di più a credere quello che abbiamo sempre voluto credere: che la mera casualità non esiste, quindi noi non potremmo mai esserne vittime, che quello che esiste per noi è invece una predisposizione a schierarci dalla parte giusta o dalla parte sbagliata, è una predestinazione. Di questo, solo di questo, cerchiamo conferme dagli eventi, e

L’Italiasono anche iodi Maria Sara Mirti

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lo facciamo interpretando come presagi diversi le guerre a seconda che si svolgano a nord, a sud, a est o a ovest, lanciando le sorti del nostro domani insieme ai dadi di un casinò virtuale, insieme ai titoli quotati in borsa, o facendo extispici (antica divinazione augurale delle viscere) sui corpi di clandestini che il mare involontariamente lascia scoperti sulle nostre coste. L’esposizione dei vari “pezzi” da analizzare e da far digerire alla coscienza sembra quasi seguire un ordine preciso, come fosse un rito tradizionale: le voci, gli occhi febbrili, i corpi ingombranti e pesanti come macigni, accovacciati su se stessi

per il freddo e la paura, tutto ciò che in condizioni diverse contribuirebbe a formare un essere umano, sfila davanti ai nostri occhi mediatici come se si trovassero su di un tavolo autoptico, come se le caratteristiche più “esotiche” delle varie tipologie di migranti ci venissero presentate come oggetti a parte, staccati da una vita compiuta e dotata di senso, come se si trattasse soltanto di trachea, polmoni, fegato, ecc.…come se ci aspettassimo ogni volta di vedere le loro viscere da cui trarre vaticini, per esempio, sul nostro futuro demografico. Oggi, nell’osservare un viso diverso dal nostro, sporco di fame o semplicemente dai tratti non familiari, non

ci aspettiamo più di riconoscervi, riflesso, il nostro buon cuore, ma ci aspettiamo di vedere tutto il male possibile; lo stesso che sentiamo gravarci addosso. E, se per caso guardiamo fuori dalla nostra finestra, non sappiamo nemmeno più cosa ci aspettiamo di vedere. Per questo, quando sono venuta a conoscenza della campagna per i diritti di cittadinanza e il diritto di voto per le persone di origine straniera, inaugurata da numerose associazioni della mia città, ne sono stata felicemente sorpresa: la mia città, la stessa che dandomi i natali mi ha anche donato il pieno diritto di criticarla, sta iniziando finalmente a capire

che non è mai esistita una maschera, una finzione, e, che so io, men che meno un incantesimo, in grado di donarci un’anima civile o di salvare quella che già abbiamo; solo la nostra buona volontà potrà farlo. La città grigia e trascurata della mia adolescenza in questi ultimi anni si è fatta improvvisamente più viva e interessante: i ragazzini non sono più vestiti tutti uguali eppure si assomigliano ancora tutti, i bambini hanno ripreso a popolare le piazze dando del filo da torcere all’invadenza delle auto, mentre anziani con una storia diversa dalla nostra li sorvegliano a giusta distanza. Adesso, guardandoli, sono fiera di poter dire che l’Italia sono io proprio come lo sono anche loro.

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Mi chiamo… ho scordato d’improvviso il mio nome… datemelo voi un nome… uno qualunque. Io sono un migrante, non ho più terra dunque è come se non avessi nome. Eppure sono qui su questa spiaggia, sento il calore del sole sulla pelle ed i brividi di freddo quando è notte, se piove la pioggia bagna le mie misere mani, se piango le lacrime solcano il mio volto e se sorrido i miei occhi sono splendenti come quelli di ogni uomo. Quando sono triste il mio sguardo è fisso nel vuoto e le mie rughe si fanno più profonde. Negli ultimi giorni il pianto e l’amarezza invadono il mio cuore e sento nostalgia della mia terra, di mia madre e di mio padre, nelle orecchie ho il pianto dei miei fratelli e il canto del mio paese, quello che mi accompagna come in una ninna nanna da quando sono venuto al mondo. Ho provato l’amaro in bocca dell’offesa, il peso della sopraf-fazione, le tenebre dell’ingiu-stizia e l’arroganza del sopruso. Abbasso la testa, sto in silenzio anche se avrei molto da dire. Amo i fiori, la terra, le nuvole, gli alberi, amo ogni zolla di terra ed ogni goccia di pioggia che la bagna, amo l’alba e il tramonto, amo l’arcobaleno, gli uomini e spero che anch’essi facciano altrettanto. Amo l’uomo quando ama, quando sorride, quando condivide, quando comprende, quando tende la mano. Sono giovane, spero nel domani, che male c’è ad avere il sogno di un lavoro, di una casa, di una famiglia da amare, che male c’è nel desiderare un po’ di pace dopo tante avventure e un volto sorridente che ti accolga, dopo tante tempeste? Mi hanno parlato di confini, di mare da attraversare, di soldi da trovare ed io ho pregato il mio Dio perché mi indicasse la strada al di là della spiaggia e delle onde del mare, laggiù oltre l’orizzonte risiede il mio

sogno. Ho pagato tanto per avere queste carte, si chiamano documenti, permessi. Se riuscirò a salire su quella misera imbarcazione, se solo toccherò la sponda del sogno, se ce la farò, io saprò cos’è la felicità. È giusto partire, è giusto desiderare qualcosa di meglio? Non credo di essere diverso da ogni uomo del mondo, ho un sogno da realizzare e mi impegno per questo. Io voglio essere in regola, voglio rispettare la legge, voglio imparare altre lingue, voglio guardare le mie mani vuote e riempirle di speranza, vorrei un lavoro, un qualsiasi lavoro, desidero una casa non mi

importa come, non mi importa dove. Una casa, una piccola casa che protegga le mie preoccupazioni, che sia mio rifugio, sia il luogo in cui pensare e meditare in silenzio, una casa in cui pregare per ringraziare Dio e gli uomini che ho incontrato. Vorrei una scuola per i miei figli, un pasto sicuro, una veste calda quando sarà inverno e una finestra aperta per osservare l’alba e il tramonto, gli uccelli del cielo e le nuvole, per osservare gli alberi, l’arcobaleno, per sentire ancora nelle orecchie la ninna nanna, come quando sono venuto al mondo.Grazie, in questa terra ho ricordato il mio nome.

di Maria Vera Speranzini di un migranteLettera

foto di Alessio Vissani

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Khaled piomba in casa nostra con la forza di un ura-gano, aprendoci nuove finestre sul mondo.Sono andata a prenderlo a casa sua, dove la mamma mi ha ricevuto nel salotto buono, tenendoci a dire che da loro, in Marocco, l’ospitalità è sacra e per questo hanno arredato la casa di Foligno secondo la tradizione che riserva uno spazio apposito all’acco-glienza, con un divano che gira tutt’intorno ai tre lati della stanza. Troneggia sopra alle nostre teste un pannello gigante con una frase del Corano sulla vera fede, che puntualmente mi viene tradotta e spiegata. Tornati a casa, mentre spalmo la Nutella sul pane, avendo appena glissato sulla richiesta di un panino con il salame per evitare un incidente diploma-tico dovuto alla carne di ma-iale, implacabile arriva la do-manda di mio figlio all’amico del cuore: “Tu ci credi a Bab-bo Natale?”Pavento: sono anni che in fa-miglia reggiamo il gioco, vo-lendo regalargli ancora qual-che stralcio di favola prima che la vita irrompa a spazzare via i suoi sogni di bambino. Tuttavia resisto e riman-go imperturbabile ad assistere alla conversazione. Khaled argomenta con assertività la sua tesi: Babbo Natale non esiste semplicemente perché non esiste il Natale. Il suo Dio è lassù nei cieli e i regali, se ar-rivano, sono portati da mamma e papà. Stefano lo guarda, addenta il suo panino con la Nutella e poi, per niente turbato, inizia a fare l’elenco dei rega-li che intende ricevere, lanciandosi in una serie di nomi improbabili, anche perché lui non sa pronun-ciarli bene. Personaggi dei cartoni, ma anche oggetti proposti dalla pubblicità. Spesso, nel passato, Babbo Natale si è organizzato in proprio, facendogli tro-vare anche qualcosa di diverso da ciò che era stato richiesto. Qualcosa non “made in China”, senza pile, che magari lasci più spazio alla fantasia. Perché in fondo, ciò che conta è l’effetto-sorpresa, l’idea che

qualcuno pensi specificatamente a noi, a come ren-derci felici. Di solito li trova accanto al presepe, re-alizzati con i materiali più diversi raccolti durante le vacanze: dallo scorso anno ci sono anche le conchi-glie di Itaca, testimoni ideali di una ricerca antica che accomuna tutti gli uomini. Stefano è talmente convinto che Khaled dà segni di cedimento e, dato che il mio scopo non è quello di fare proseliti né per Babbo Natale né per il significato che questa festa

assume nella nostra famiglia, de-cido di intervenire, proponendo un gioco in giardino: le giornate cominciano ad accorciarsi e pre-sto non avranno più modo di far-lo. Mi soffermo a guardarli men-tre corrono insieme sul prato e penso che ieri, alla stazione di

Foligno, è passato un treno con i rappresentanti di tutte le reli-gioni del mondo. Una sfilata di volti diversi e di strani copricapo, curiosamente affacciati a guardare dal fine-strino altri volti e mani di uomini e donne stretti intorno al sogno, tangibile per una volta, di una convivenza possibile. Un segno di speranza lanciato 25 anni fa da

un uomo venuto dall’est, vestito di bianco ma aper-to e interessato all’unicità di ogni uomo; ad Assisi, dopo aver assistito ai riti più variopinti e alle diverse preghiere delle varie confessioni religiose presenti, aveva affermato: “Ci sono molte e importanti dif-ferenze tra noi, ma non è forse vero che, ad un più profondo livello di umanità, c’è un fondo comune onde operare insieme a questa drammatica sfida della nostra epoca: vera pace o guerra catastrofica? (…) Il cantiere della pace è aperto a tutti: essa passa attraverso mille piccoli atti della vita quotidiana. A seconda del loro modo quotidiano di vivere con gli altri, gli uomini scelgono a favore della pace o con-tro la pace”.Non so perché, ma ho la sensazione che Stefano e Khaled siano artefici inconsapevoli di questo cantie-re. E’ davvero un bel regalo di Natale.

disegno di Fabio Tacchi

di Cecilia TacchiBabbo Natale

e dintorni

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PERSONE

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E’ stata una delle prime persone incontrate in questa città, quando con la mia compagna e mio figlio eravamo solo “in odore” di trasloco a Foligno, forse alla fine del 1996. Avevamo un problema con la domanda di rimborso per l’abbattimento delle barriere architettoniche nelle abitazioni private, inoltrata nel comune dove eravamo allora residenti. Ci recammo in un ufficio modesto a piano terra vicino alle Conce per incontrare per la prima volta un Giudice di Pace. Nei miei ricordo credo che mai prima, e ancor meno in seguito, la definizione “burocratica” del ruolo ci sembrò coincidere perfettamente con la persona che incontrammo: Piero Fabbri. Allora “giudice di pace”, poi e comunque uomo di pace, nell’aspetto, nei modi, nello stile, nelle parole.Non ci siamo frequentati particolarmente ma per me e per la mia compagna rimase da allora come un punto di riferimento, un punto “alto” di questa città che ci piacque e dove dopo poco ci trasferimmo.Allora avevamo una ludoteca itinerante e pensando che avrebbe potuto essere una buona proposta anche per Foligno venne naturale confrontarsi con lui. Non ricordo perfettamente e non saprei nemmeno tra le mie carte dove cercare, ma mi pare di ricordare che Piero sostenne anche formalmente la proposta che ci consigliò di formalizzare al sindaco. Lo facemmo, il sindaco ci ricevette, ci ascoltò, prese nota, accolse la nostra lettera e… non se ne fece nulla.E ancora incontrandoci per le vie della città ci capitò di fantasticare su di una sorta di “associazione” dei non Folignati che come lui e noi, e alcuni comuni ami-ci, avevano scelto Foligno perché è una città bella per vivere. E nello stesso spirito, in occasione di un evento tragico per noi ma accolto nelle strutture ospedaliere di Foligno con grande umanità e dispo-nibile professionalità, ci esortò, cosa che facemmo, a scrivere una lettera aperta perchè anche le “cose buone” hanno diritto di cronaca.Anche l’avventura del Quadrivio parve a me e alla mia compagna, in buona sostanza una scelta di amore per questa città. Ne parlammo anche con lui e mi

dispiace di non essere stato capace di convincere la mia redazione (credo che quello di Piero sia stato il primo degli “abbonamenti” ufficiali a Chiaro Scuro) a quel fare comune di cui provammo a ragionare.Il giorno delle esequie ho appreso che la sua ultima casa sarebbe stato il piccolo cimitero di Giano dell’Umbria. E’ un luogo che conosco. Da molti anni pratico il curioso mestiere di “operatore socio-relazionale” e molti dei compagni di questo viaggio non sono più tra di noi. Due tra di loro ho dovuto accompagnarli in quel luogo. Di loro ho un ricordo speciale, Giuseppina Belapassi e Giorgio Magnini. Forse perché sono tra i primi che ho incontrato, forse perché i compagni dell’avventura che è rimasta la più bella, il “Laboratorio di Oggettistica del legno”.Giorgio era un bel ragazzo, a tratti si infuriava per qualcosa, si isolava e ci voleva del bello per convincerlo, senza parole perché era sordo-muto, a stare nuovamente insieme agli altri. Amava lavorare al tornio e gettava in aria i riccioli di legno, una carta strappata, una foglia, una cosa trovata e non sapevi cos’era, le osservava soddisfatto planare, a tratti le aiutava con un soffio mentre chiamava tutti ad osservarne il volo.Giuseppina era una persona dolce, rossa di capelli e spesso in tuta da ginnastica, timida a tal punto che

lo dichiarava nella postura un po’ ricurva e il passo ca-librato e un po’ dondolante. Per quel suo atteggiamen-to, nei primi giorni ancor più accentuato, mi ritrovai a chiedere di quella ragazza che stava a testa bassa, e non parlava … non l’avevo “riconosciuta” negli occhi chiari che poi imparai ad ascoltare. La vista non l’a-

iutava molto ma inventammo un sistema “tattile” per farla essere la decoratrice ufficiale del labora-torio.Mi piace l’idea che questi ricordi, casualmente come hanno incontrato me, si incontrino tra di loro sulla collina che porta a Giano, magari Giorgio troverà il modo di far volare una piccola cosa, Giuseppina riuscirà a mostrare il suo volto e Piero proverà a capire il perché.

Piero Fabbri. Allora “giudice di pace”,

poi e comunque uomo di pace,

nell’aspetto, nei modi, nello stile,

nelle parole

di Giorgio RaffaelliIncontri

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Tanti anni fa, durante la luna di miele in Spagna, la nave attraccò alle isole Canarie.Il sole di quell’agosto scaldava le pietre della sel-vaggia Lanzarote ed in lontananza si ergeva maesto-so il profilo del vulcano Teide, sull’isola di Tenerife.Alcune guide si sgolavano per attirare la nostra at-tenzione su alcuni dettagli dell’isola e sulle sue bel-lezze ma io non potevo seguire il gruppo senza pri-ma aver almeno tentato un miracoloso incontro con l’unica (per me) bellezza dell’isola, ovvero il grande scrittore portoghese che ci viveva, il premio Nobel José Saramago. Avevo da poco finito di leggere il suo capolavoro, Memoriale del convento ed ave-vo acquistato una raccolta di racconti curati da un’altra pre-mio Nobel (Nadine Gordimer) che si intitolava Storie ed i cui ricavi erano destinati alla lotta contro l’Aids. Tra questi racconti ce n’era uno di Saramago e c’era una sua breve biografia. Si dice-va tra le altre cose che viveva a Tias de Lanzerote, nelle Canarie. Noi eravamo a Lanzerote. Ora, come in un bel film, per esempio Il Postino, in cui Troisi incontra Pablo Neruda e ne diventa ami-co e figlioccio, oppure Scoprendo Forrester, con un magnifico Sean Connery che veste i panni di uno scrittore schivo che diventa men-tore di un ragazzo di colore con un gran talento per la narrativa, io sognavo di incontrare Sarama-go in un bar o per strada e conversare con lui, poi scambiarci telefono e indirizzo e viverlo, il sogno.Ma il corso degli eventi mi portò alla visita delle iso-le Canarie da semplice turista in viaggio di nozze, con tanto di foto sul vulcano, sui cammelli, sui ce-stiños, sulla nave ecc.Il terzo giorno di permanenza sull’isola però ci ven-ne concesso un pomeriggio senza escursioni, in li-bertà e subito ne approfittammo per recarci da soli verso l’interno. Il caldo era opprimente, facevano quasi trentotto gradi all’ombra, forse, mi si disse, saremmo stati meglio nell’acqua fresca dell’oceano

atlantico! Ma non desistetti. A volte, risposi, le emo-zioni più belle sono quelle più sofferte! Non so se feci breccia nell’animo inquieto della mia giovane moglie, ma certamente le donai un po’ di brezza con l’aria condizionata di un fruttivendolo.Entrammo per comprare della frutta fresca e disse-tarci. Davanti a noi c’erano delle persone in fila alla cassa. Noi sbuffavamo per l’attesa e per il caldo e fu in quel momento che un uomo si girò ed offrì una bella mela rossa alla mia sposa.Gradimmo il gesto e ringraziammo credendo addi-rittura di assistere ad un cerimoniale tipico e tradi-zionale del luogo, che so, regalare frutta ai turisti ed augurare loro un soggiorno fortunato… una sorta

di ghirlanda al collo come quella delle Hawaii. Ma la fortuna si sa è cieca, come l’amore, e solo quando la com-messa del negozio gridò forte “señor José, señor …” perché aveva dimenticato il resto, mi accorsi di aver perso l’occasione per cui avevo vissuto quei gior-ni. Avevo, o meglio, mia moglie aveva ricevuto in dono dal pre-mio Nobel José Saramago una mela rossa? Eravamo stati così vicini da poterne sentire l’odore che immagino di lavanda, senti-re qualche sprazzo di parola, un segno, un gesto? Non lo sapremo mai. Non ricordo neppure se somi-gliasse allo scrittore o invece avesse una capigliatura diversa,

o gli occhiali di foggia dissimile. Ora penserete che quella mela, racchiusa in una teca di cristallo, stia in bella vista nel soggiorno di casa con tanto di di-dascalia, ma dimenticate che il caldo e l’afa di quei giorni erano davvero impossibili. Addentammo la mela con un gusto diverso e un piacere nuovo. Ci dis-setammo del suo succo come avremmo potuto fare con le parole del maestro portoghese, mangiammo anche la buccia per non sprecare nulla di quel regalo inaspettato e sfuggito.E poi ci tuffammo nell’oceano. E siamo ancora sposati, con tre figli!

di Rocco ZichellaLa mela

di Saramagodisegno di Fabio Tacchi

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IDEE

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L’occasione: 50 anni della marcia Perugia – Assisi. La riscoperta di sentimenti ed idee che a 51 anni credevo relegate in qualche buio angolo della mia pessima memoria. È chiaro che l’argomento è la pace. La celebrazione di quella che potrebbe essere la constatazione dello stato attuale: un pio desiderio in tutti gli stati del mondo.Ma cosa hanno a che fare i miei ricordi con tutto ciò? La risposta è molto articolata ma proverò per lo meno ad evocarvi fatti, ombre, speranze, ideali, uniti a lotte mai sopite.Occorre essere chiari ed immediati e non nascondersi dietro alle parole. I 50 anni della marcia sono anche 33 anni dall’assassinio brutale di Aldo Moro.Le immagini di questa morte mi provocano la stessa reazione epidermica di allora quando ero diciottenne. Un brivido che corre lungo la spina dorsale ed un senso di ripugnanza per il mancato rispetto di un cadavere, sbattuto davanti agli occhi di tutti tramite la televisione. Ad esso si aggiungeva la mancanza di pudore per un uomo che veniva messo in prima pagina per aver per molti anni sostenuto una linea politica. Le B.R. lo avevano barbaramente costretto a chiedere aiuto ai suoi amici di partito. Gli avversari si erano divisi, chi chiedendo il rilascio senza contropartita, chi accogliendo le richieste dei terroristi sia pure trattando.Il Paese era diviso e non poteva non esserlo data la caratura del personaggio sequestrato. Non si faceva certo illusione sulla misericordia dei suoi aguzzini che avevano ucciso tutta la sua scorta con perfezione geometrica. Non ne ignorava persino la lucidità dell’analisi politica. L’eversione delle B.R. era tutto meno che sciocca e soprattutto conosceva il momento contingente: un momento di crisi economica accompagnato da una crisi etica della classe politica. Una situazione con la quale avremmo imparato a convivere ed ogni volta ad uscirne malgrado i nostri rappresentanti.Ma chi era per me Moro? Una mia compagna di classe alla ferale notizia commentò così: “Ora la smetterai di criticare il suo linguaggio incomprensibile insieme alle sue aperture a sinistra.”

È vero, le mie simpatie politiche non andavano a Moro e alla sua DC. Motivo ne era la sua apertura verso una sinistra che si proclamava democratica ed io temevo fosse massimalista. Tuttavia in quegli anni di piombo, che avevano accompagnato le medie inferiori ed il Liceo, non avevo mai giustificato l’omicidio come mezzo di lotta politica. Alle molte discussioni che avevo fatto con i miei amici e compagni di scuola, rispondevo sempre che le sole rivoluzioni che mi avevano convinto

erano quelle di Cristo e di Gandhi. Una posizione chiara, una precisa scelta di campo. Ma la nostra gioventù non era, come molti mi facevano notare, incentrata su discussioni politiche. Data l’età non potevano che essere di basso livello e per lo più influenzate dagli ambienti che frequentavamo: casa, scuola, in taluni casi biblioteca.

di Roberto RidolfiQuando c’era

la politca...

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SIDEE

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Tuttavia anche nei giochi, nei passatempi, una nuances politica non mancava mai. Personalmente mi ero ormai abituato all’appellativo di fascista. Ciò non mi dissuase, all’indomani dell’assassinio, dallo sforzarmi di capire le posizioni dei leaders politici del tempo. La mia formazione politica la devo proprio a due persone che stimavo per prossimità etica: mio padre ed Enrico Berlinguer.In quei periodi mio padre, nonostante la mezza età, lavorava sodo sia manualmente sia intellettualmente, con tutto il significa-to che ciò può avere nelle nostre terre um-bre. Era un camioni-sta al quale i discorsi di principio piacevano poco. Non che li igno-rasse o non li com-prendesse, tuttavia concludeva sempre: “Ma questi una pala l’avranno mai adope-rata?”. Il sequestro Moro ed il suo tragi-co epilogo servirono a lui per ammonirmi dal frequentare com-pagnie non limpide o comunque “cattive”. Disse semplicemen-te: “Anche a 18 anni si può essere degli as-sassini”. Non lo sentii più dire nulla sul fat-to. Quello che dovevo capire avrei dovuto capirlo piano piano nel corso degli anni guardandolo lavorare e ricordando le sue scarne parole.Io allora avevo capito questo. Non si può pretendere di fare una rivoluzione ignorando il vero punto della questione: il lavoro. È il lavoro a renderci liberi, uguali e dignitosamente capaci di essere se stessi senza usare la violenza. Quest’ultima gli appariva come uno stupido ricorso a pratiche infantili o quanto meno estremamente giovanili e non sagge.Berlinguer con la sua ostinata resistenza a qualsiasi trattativa, che avrebbe indebolito lo Stato e

legittimato le azioni omicide delle B.R., divenne col tempo il mio maestro di vita. Non diventai né diventerò mai un uomo di sinistra, ma da lui ho imparato a distinguere un modo onesto e capace di fare politica, intendo una politica democratica.Fu lui a dirci chi era Moro. Un politico capace, ar-tefice di formule che portavano a costruire un Pa-

ese veramente demo-cratico in linea con la Costituzione. Il lavoro, sì il lavoro, torno a ripetere per l’ennesima volta, era il centro dei suoi pen-sieri. Non certo i mil-le complotti e raggiri che dopo la sua morte gli si imputarono fino a spingere la famiglia a chiedere un pietoso e sommesso silenzio. Aveva servito lo stato onestamente, meri-tando il ruolo impor-tante cui era assurto.Berlinguer non era da meno, lo considero anche lui un guardia-no della democrazia. Capì da subito che se doveva lasciare ai suoi compagni di partito un’Italia governabi-le doveva battere sul tasto dell’etica, della chiarezza di compor-tamenti e di scopi.Quando morì stronca-to da un ictus nel cor-so di un comizio non

fu una bella notizia per me. Avevo perso il mio aedo della democrazia, la mia speranza di un riformi-smo forte che fosse dal carattere inclusivo di tutti, maggioranze e minoranze sociali.Moro e Berlinguer non li posso pensare disgiunti e divisi, erano e sono per me l’uno il complemento dell’altro. Certo, esaminando l’andamento dei nostri tempi non possiamo dire che la loro lezione ci sia giunta integra e soprattutto che le loro parole trovino oggi il giusto spazio che meriterebbero. Ma questa è un’altra e dolorosa storia del nostro Paese.

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STORIE

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Nella nausea per il comportamento di tante donne tutte uguali: labbra carnose, seni strabordan-ti, gambe all’aria, rughe spianate, cervelli compia-centi o assenti, ecco farsi largo tante altre donne di-gnitose, coraggiose, combattenti, eroiche, di grande levatura morale, che nell’anonimato conducono le loro battaglie quotidiane. E qualche volta raggiungo-no la notorietà per casi fortuiti: una morte sul lavo-ro, un premio Nobel per la pace…o altro.Le quattro donne morte sul lavoro a Barletta, ne voglio ricordare i nomi: Matilde Doronzo, Giovanna Cardaro, Antonella Zaza, Tina Ceci e la piccola Maria Cinquepalmi, sono morte abbracciate, hanno scelto di non cercare compro-messi, ma di guadagnarsi da vivere lavorando anche quattordici ore al giorno a meno di quattro euro l’o-ra.Hanno meritato che si fa-cesse per loro un minuto di silenzio? No, il minuto di silenzio è obbligatorio solo per chi muore in Iraq o in Afghanistan, lavoran-do per più di quattro euro l’ora. Quelle sono morti eccellenti, chi muore per pochi euro l’ora, come le operaie di Barletta, come gli operai dei cantieri sulla statale 77, o i muratori e manovali che cadono dal palco no, non ha diritto a celebrazioni. Ma ecco che altre donne mi vengono in mente, don-ne che hanno lottato con-tro l’omertà della mafia e il pregiudizio delle proprie famiglie: Rita Atria, la si-ciliana ribelle. Io la por-to nel cuore, aveva l’età delle mie alunne, meno di diciotto anni, quando è

stata costretta a suicidarsi per la solitudine totale dopo la morte del suo vicepadre Paolo Borsellino.Aveva osato denunciare gli affari di mafia in cui la sua stessa famiglia era invischiata, aveva testimo-niato al maxiprocesso di Palermo, era stata abban-donata da tutti e la madre stessa arrivò a profanare la tomba dopo la sua morte.Ma lei vivrà nei cuori di tutti noi che ammiriamo il suo coraggio e abbiamo cara la giustizia.Che dire ancora di Franca Viola, che nel lontano 1965 osò rifiutare il matrimonio riparatore, dopo es-sere stata rapita, violentata e quindi disonorata per sempre dal suo pretendente rifiutato, che pensava

di poterla piegare con la violenza, come avveniva per tante donne in Sicilia.Lei no, osò dire di no, esporsi al pubblico ludi-brio ed accusare il suo ra-pitore, il boss di Alcamo Filippo Melodia, che fu condannato ad undici anni di carcere.Aiutata dall’intelligenza di un padre amoroso che l’appoggiò, riuscì poi a sposare chi voleva lei e a farsi una famiglia amata. E’ anche grazie al suo co-raggio che un po’ di anni dopo si riuscì a cambiare la legge sulla violenza ses-suale, considerandola non più oltraggio alla morale ma oltraggio alla persona.Ma sono ancora donne dei nostri giorni che balzano all’onore della cronaca per fatti insigni e insoliti, Lucia Massarotto, per mol-ti una perfetta sconosciu-ta, a me suscita grande ammirazione.Per dodici anni di seguito, a Venezia, alla festa della

di Rita BarbettiPiccole grandi

donne

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SPERSONE

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Lega Nord, ha esposto alla finestra della sua casa, affacciata sulla piazza del raduno dei leghisti, il tri-colore italiano, suscitando gli insulti e gli sberleffi di tutti quei signori così raffinati ed eleganti. Ma lei imperterrita!Fino a quando, non si sa come e perché, dopo venti-cinque anni, è stata sfrattata da quella casa.Ma, (c’è giustizia a questo mondo!) l’inquilino che le è subentrato, il 18 settembre di quest’anno, al solito raduno dei popoli padani (!), ha esposto due bandiere tricolori, una bandiera della pace e si è affacciato indossando una maglietta con il ritratto di Che Guevara.Signora Lucia, il testimone è stato ampiamente rac-colto!Donne tenaci, sprezzanti del pericolo, solari, dignitose, intraprendenti, geniali ce ne sono tante, pensiamo alle nostre: Margherita, Rita, Emma, Susanna, Tiziana, Maria Luisa, Anna…., ma voglio dedicare il mio pensiero in particolare ad una delle tre donne premio Nobel per la pace 2011: Leymah Gbowee.Per fermare la guerra civile nel suo paese, la Libe-ria, ha proposto lo sciopero del sesso.Gli uomini vanno espugnati facendo leva sui loro istinti, non sulla loro ragionevolezza. Così pensava già nel V secolo a.C., in Grecia, Lisistrata, nella commedia di Aristofane: come fermare la guerra tra Sparta e Atene che durava già da venti anni? Vestiti sexy e provocanti e no al sesso, sciopero! Tattica vincente! Pur di riavere le loro donne, la pace venne conclusa; Leymah ha ideato la stessa strategia: nel pieno della guerra civile, in corso da tredici anni in Liberia, nel 2003, la decisione, prima di fare picchetti, digiuni e veglie di preghiera, poi la proposta provocatoria a tutte le donne

liberiane, mogli, amanti e prostitute, di fare uno sciopero del sesso se i loro uomini continuavano a sparare. L’impegno di Leymah è continuato in tante azioni umanitarie in Congo e Costa d’Avorio volte a conciliare la pace e a disarmare i bambini-soldato; oltre a tutto questo sta crescendo sei figli, tra naturali e adottati ed ha solo trentanove anni.Tante donne stanno conducendo battaglie in tutto il mondo: poter accedere al voto, guidare la macchi-na, cancellare le mutilazioni genitali, liberarsi del troppo umiliante burka.Speriamo che queste battaglie possano essere vinte, ma anche nella nostra società ci sono battaglie da condurre, apparentemente meno eclatanti, ma pro-prio per questo più difficili e insidiose.Come riuscire a far capire, proprio a molte donne, che il potere vero non è quello di sedurre uomini ricchi e potenti, immancabilmente anziani, pronti a pagare un corpo, una carne di prima scelta.Come fare per riappropriarsi di tutti i diritti della propria individualità, a capire che prima di tutto si è delle persone pensanti e che si deve essere rispet-tate per questo.Si deve smettere di ambire a ruoli di valletta muta e non conduttrice; infermiera e non chirurgo; impiegata e non dirigente; semplice cornice e non quadro; femmina e non persona di sesso femminile.Spero che anche tanti giovani uomini si ribellino allo stereotipo che li vuole sempre “sbavanti” per un seno sesta misura e un corpo rinsecchito; questa è anche una loro battaglia: riappropriarsi anche loro della propria dignità, della loro completezza, del-la possibilità di amare veramente e condividere la propria vita con compagne morbide, basse, secche, alte, piatte, burrose, rugose, levigate…così come capita e piace.

Tutti noi di Chiaroscuro diamo il benvenuto a Bianca, quattro chilogrammi di tenerezza!

Dagli acuti che sa modulare lascia già individuare grinta, determinazione, simpatia, intelligente

femminilità!

Felicitazioni vivissime alla mamma Luciana Barbetti e al papà Alessio Castellano.

FIOCCO ROSA

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STORIE

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Artemisia Gentileschi. Storia di una passione. In mostra a Milano, Palazzo Reale, fino al 29 gennaio 2012. La vita di Artemisia (1593-1653) è stata diffi-cile perché ha voluto a tutti i costi fare la pittrice, in un’epoca in cui di solito le donne facevano altro. E’stata una vita difficile perché il suo talento era nettamente superiore a quello del padre Orazio. E’ stata difficile perché è stata violentata da Agosti-no Tassi, pittore presso il quale il padre la mandò a studiare. E che lei denunciò, accettando le umilia-zioni di un lungo processo. Cosa che neanche oggi la maggior parte delle donne vittime di violenza ha il coraggio o la forza di fare. Ma nonostante tutto è

riuscita a fare la pittrice, ad essere richiesta, ammi-rata, ben pagata. Da sempre ricordata come la vera erede del grande Caravaggio.Nelle sale c’è un gruppo di signore anziane, ma più chiassose delle mie alunne. Guardano i quadri, li commentano ad alta voce facendo a gara, tra di loro, a chi sa più cose sulla pittrice, o la pittura del Seicento o le iconografie dei quadri. Mi è sempre piaciuto, nelle mostre e nei musei, ascoltare i com-menti delle altre persone. A volte ridicoli e comici, a volte preziosissimi. Queste signore le trovo deci-samente meravigliose: tailleur troppo pesanti in una giornata autunnale ancora calda; rossetto impecca-

Artemisia, Almodovar,

Augusta di Carla Oliva

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SSTORIE

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bile; entusiaste delle donne rappresentate da Arte-misia; incantate, forse, dalla loro prorompente sen-sualità, fisicità. O dai preziosissimi tessuti. Ma sento il bisogno di un po’ di silenzio: ho la sensazione che siano gli stessi quadri di Artemisia a chiedermelo. Così mi allontano in fretta verso sale più vuote, tor-nerò indietro con calma. Ed eccomi di fronte a Giae-le e Sisara del 1620, proveniente da Budapest. L’e-pisodio é contenuto nel Libro dei Giudici (IV, 17-24), dell’Antico Testamento. Sisara era un generale cana-neo, nemico di Israele; il suo esercito, con novecen-to carri di ferro, grazie all’ intervento del Signore fu completamene sbaragliato. Ma lui riuscì a fuggire e raggiungere la tenda della beduina Giaele, che lo accolse con ospitalità, per poi ucciderlo appena ad-dormentato, conficcandogli un picchetto della tenda nella tempia. Con un martello. Cosa abbastanza tru-ce, ma che gli studiosi hanno sempre spiegato come necessaria alla sconfitta del male. E infatti tutte le altre raffigurazioni dello stesso soggetto sono mol-to teatrali, anche se i gesti sono pacati, è evidente l’intenzione di mostrare la loro eccezionalità: non è cosa consueta, quotidiana, che una donna conficchi un lungo chiodo nella tempia di un tizio, sia pure nemico. Altri pittori ne accentuano la passione, lo slancio del gesto, la furia. Nel quadro di Artemisia tutto questo non c’é. Giaele alza il braccio senza forza, senza violenza e neanche tanto in alto. Lo alza perché la mano impugna il martello. Lo sguardo è abbassato su Sisara, ma dal suo viso non trapela al-cun sentimento, nessuna emozione. C’è semmai una vaga tristezza, una muta rassegnazione nell’essere l’esecutrice di una morte necessaria, perché così è scritto: “ il Signore metterà Sisara nelle mani di una donna”. E lei eccola lì, senza furia né ribrezzo, ad eseguire il compito assegnato. Necessario come la gravidanza di Maria; il suo lacerante dolore; la sua assunzione in cielo. Quel braccio alzato è naturale come quello che si leva a sculacciare il bimbo che ha fatto i capricci. Come quello che si leva per battere i panni che si lavano al fiume. Il suo è un gesto che va compiuto e basta, come tutte le cose che ci sono sempre da fare in casa: mettere in ordine, pulire, accendere il focolare, preparare da mangiare.

Uno dei miei film preferiti è Volver di Pedro Almodo-var, uscito nel 2006. Un film che parla di morte, ma con leggerezza e naturalezza. Il film inizia al cimite-ro, con le donne che puliscono le tombe, lucidano il marmo delle lapidi come fosse quello della cucina o del camino. E intanto parlano tra loro, spettegola-no, ridono, si danno appuntamento. La morte torna con un delitto, sia pure accidentale: una ragazzina subisce un tentativo di violenza da parte del patri-gno che, ubriaco, “cadrà” sul coltello usato per af-fettare le cipolle. La madre, al suo ritorno, lava

coltello e pavimento dal sangue: inginocchiata a terra strofina finché tutto torna come prima. Poi fa sparire il cadavere, dopo averlo nascosto, momen-taneamente, nel congelatore. In seguito arriva la notizia della morte di una zia. E da quel momento si riaffacceranno alla memoria altri morti. Tra chi non era morto veramente, chi è morto al posto di un al-tro, chi torna tra i vivi, chi, veramente se ne andrà. Il tutto narrato con quel garbo anche un po’ folle del regista spagnolo, che sa così bene dare voce all’u-niverso femminile. Le donne di questo film danno la morte, la cancellano, la ricordano, la incontrano, la vivono. Così come mettono in ordine, puliscono, accendono il focolare, preparano da mangiare.

Augusta ha 89 anni ed è l’ostetrica che ha fatto nascere me, mio fratello, i miei cugini. Senza ma-rito né figli, vicina di casa di mia nonna, è diven-tata nel tempo una di famiglia. Sempre disponibile a fare iniezioni (una delle frasi più celebri:”quanti culi ho visto in vita mia”), medicazioni, impacchi, si è trovata inevitabilmente ad essere presente an-che a tutte le morti dei nostri cari. Uscendo ed en-trando dal suo appartamento all’altro con lo stesso passo sbrigativo, i modi “spicci”, i proverbi popolari sempre pronti. Se proprio gli sfuggiva, si asciuga-va veloce una lacrima all’angolo dell’occhio, e poi, via a prendere qualcosa, fare, ordinare, disporre. Riuscendo a portare attimi di allegria anche nei mo-menti più drammatici. Sempre instancabile. Due anni fa, all’approssimarsi della morte di una mia zia (l’ultima), arriva, ci guarda, me, le mie cugine e la giovanissima badante rumena, e ci dice:”Non potete immaginare quanto possono essere d’aiuto la farina, le uova e soprattutto lo zucchero, in certi momenti. Su, svelte, muovetevi!” Abbiamo fatto delle buonis-sime ciambelline al vino bianco e le abbiamo man-giate, un po’ piangendo e un po’ ridendo, mentre Augusta faceva l’inventario della nostra famiglia, dei vivi, dei morti e dei sopravvissuti, dei tempi duri della guerra, della nonna che non abbiamo conosciu-to. Quando, il mattino seguente, la zia è morta, noi eravamo tutte lì con lei, pronte a mettere in ordine, pulire, accendere il focolare, preparare da mangia-re. “Signorina, lo sa che cosa si dice?” Una delle an-ziane signore alla mostra mi fa piacevolmente tra-salire, perché mi ha dato della ‘signorina’e mi ha distolto dai miei pensieri. “Si dice che il volto di Sisara sia quello dell’amante di Artemisia, Francesco Maria Maringhi! Quello a cui lei scrisse, in una lette-ra: vita mia carissima, senza voi io non so niente. Ma secondo lei, è possibile che gli scriva una cosa così e poi immagini di ficcargli questo chiodone in testa?”Eh si, signora. E’ possibile.

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STORIE

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di Maria Rosaria TradardiAntiche

lavatricidisse a noi figlie che aveva da darci una gran bella notizia. Ci fece stare sulle spine. Aspettò che tornasse nostro padre dalle Grandi Offi-cine e, finalmente ce la comunicò. Nel triste tempo della seconda guerra, regnava, più che mai, la solidarietà tra le famiglie, in particola-re tra quelle dello stesso quartiere. In propo-sito mi piace ricordare l’aiuto che venne dato a mia madre da una pregevole famiglia, quella di Feliciano Baldoni, il carrettiere, chiamato affabilmente da tutti, Bardone. La famiglia abitava a noi dirimpetto, al numero civico 54, una casa adiacente e un tutt’uno con la Pe-scheria. I figli, Giovannino e Pierina, avevano sempre il cuore aperto per aiutare il prossimo,

lui valente operaio allo Zuccherificio, e lei ricercata sartina. Quest’ultima, venendo a conoscenza del disagio di salute di mia madre, la invitò a fare liberamente uso del lavatoio situa-to nel loro orto e che permetteva di lavare stando in piedi. Levandosi dalle responsabilità, quasi si scusò per un piccolo inconveniente: per potervi accedere era necessario at-traversare la stalla dove si trovavano sempre due o tre cavalli. Nell’attesa di poter conoscere l’evento, mi as-salì, dunque, una duplice curiosità. E il giorno arrivò. Tirate fuori dalla tinozza e strizzate alla meglio, le benedette lenzuola vennero adagia-te sulla vecchia tavola di legno che, in tempi migliori era servita a mia nonna Elena per portare a cuocere al forno, da Licurgo, i filoncini di pane ben coperti dal mantile. E partimmo per la nuova avventura. Già, perché io aprivo la strada. Ci accolse Pierina che, aprendo la porta della stalla, ci raccomandò:”state attente, non fate rumore, cercate di non disturbare i

…e venne il tempo in cui le ginocchia di mia madre, diventando rosse più del solito, si fe-cero sentire con i loro cri-crac:”scusaci, cara Camelia, siamo tanto dolenti, dobbiamo dirti che non ce la facciamo più ad essere maltrat-tate in ammollo su quel pretenzioso marmo rosa del lavatoio sul Canale dei Molini.” Mia madre si rese conto di quanto giusta fosse la loro protesta e, da quel giorno, disertò il lava-toio. Quelle povere ginocchia presero a sgon-fiarsi ma, sulla fronte cominciarono ad appa-rire nuove increspature a forza di arrovellarsi a pensare dove poter sciacquare le lenzuola dopo il bucato fatto in casa con la cenere. Un giorno, la fronte le si spianò. Tutta raggiante

disegni di Maria Rosaria Tradardi

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SSTORIE

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cavalli che, in genere sono quieti. E che Dio vi protegga.” Mia madre si fece il segno della croce con la mano destra che aveva libera, con l’altra reggeva meglio la tavola con le lenzuola posta sulla testa. Io mi aggrappai al suo zinale con entrambe le mani, questa volta, prudente-mente, dietro ad essa. Ci toccò scendere uno scalino per entrare nella stalla. Il luogo era alquanto buio, penetrava un po’ di luce solo dalla porta che, semiaperta, avevamo di fron-te. Un forte odore acre ci avvolse. Riuscimmo a vedere uno stretto passaggio della larghez-za di un mattone, ci salimmo e provammo a muovere qualche passo, un piede avanti all’al-tro. I mattoni erano sconnessi. La tavola sulla testa di mia madre cominciò ad ondeggiare. Mai, credo, fu esercitato asse di equilibrio in tanta difficoltà. E avanzammo sullo stradello di mattoni posto in mezzo alla stalla. Vedem-mo i cavalli che, ci parve, consumassero il loro pasto, sia a destra che a sinistra. Un nugolo di mosche si nutriva sulla groppa di quelle be-stie che, con mosse lente e continue cercava-no di sbarazzarsene con inutili colpi di coda,

quasi a sfiorarci. Due rigagnoli di liquido giallo intenso ai due lati dello stradello di mattoni, più che vedere si fecero sentire con il loro forte puzzo, quasi da stordirci. A denti stretti, mia madre provò a darmi un consiglio difficile da attuare:”Marì, no’ respirà!”. Eravamo a metà del percorso. Tornare indietro neanche a pensarci. Ci volle tanto coraggio ma proseguimmo. E finalmente uscimmo…a riveder la luce. Ma quello non era un orto, era il paradiso terrestre tanto era pieno di vegetazione. Ci arrivò subito il gorgoglio del fiume, ma del lavatoio nessuna traccia. Ci facemmo più avanti e lo vedemmo. Per arrivarci bi-sognava scendere poche scalette protette da due muretti di mattone grezzo. Il lava-toio era posto in un piccolo anfratto, non era molto grande, vi poteva lavare como-damente una persona. Vedevo mia madre, mentre sedevo sul muretto, che comincia-va a immergere le lenzuola battendole poi con foga sul piano inclinato del lavatoio. La vedevo sempre più stanca e indecisa, evidentemente a causa di quel lavatoio per lei troppo alto, ma l’opera, alla meno peggio, venne conclusa e ci preparammo ad affrontare il ritorno. Trascorsero gior-

ni. Trovando mio padre qualche soldino in più nella busta paga, decise di fare un regalo a mia madre; dare a lavare le lenzuola a pagamento. Da quel giorno divenne musica, per mia ma-dre, il lento cigolio del carrettino unito al ri-chiamo: “donne, arriva Gigetta la lavandaia!”

Un forte odore acre ci avvolse.

Riuscimmo a vedere uno stretto passaggio

della larghezza di un mattone, ci salimmo e provammo a muovere

qualche passo, un piede avanti all’altro

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STORIE

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La Ricompensa

Un giorno imprecisato di un anno imprecisato in una città imprecisata un uomo molto anziano stava seduto nel suo giardino, fumando la pipa, e si godeva l’aria fresca di una sera d’estate. A un tratto davanti a lui apparve una luce molto intensa da cui emerse, seppure in modo piuttosto indistinto, una figura che non pareva umana.“Buonasera vecchio uomo, io sono il dio della Ricompensa. È stato deciso di concederti un premio perché hai condotto un’esistenza giusta, hai svolto bene il tuo dovere di uomo sia nelle gioie che nei dolori, hai rispettato tutti gli esseri della terra e non hai mai chiuso la porta del tuo cuore. Insomma, hai saputo vivere bene la tua vita e ora puoi esprimere un desiderio. Naturalmente non mi potrai chiedere di evitare la morte perché nulla di ciò che vive sotto il cielo può evitare la morte, neppure noi dei, che infatti smettiamo di vivere nel momento in cui nessuno crede più in noi. Ricordo ancora quando morì il vecchio Zeus, la cosa fece grande impressione perché era stato molto longevo e potente: l’ultimo a credere in lui fu un vecchio pastore sabino e quando questi, a novantotto anni, si spense, anche Zeus (altri lo chiamavano Giove) morì con rammarico generale. Io sono più fortunato perché so che gli uomini non smetteranno mai di aspettarsi una Ricompensa, anzi si può dire che gli uomini credano in noi proprio perché anelano a un premio, ne vogliono di continuo, li vogliono sulla terra, li vogliono soprattutto dopo la morte: chissà perché, si sono fatta l’idea che qualcuno debba per forza premiarli, forse perché sotto sotto gli esseri umani rimangono sempre un po’ bambini. Però ciò mi rassicura e so che io vivrò finché l’uomo vivrà.”Il vecchio guardava e ascoltava il dio con grande stupore, si domandava se per caso non avesse esagerato con il vino o se nella zuppa che aveva mangiato per cena sua moglie non avesse aggiunto per sbaglio qualche spezia speciale.“ Allora vecchio” soggiunse il dio” fai in fretta e dimmi qual è il tuo desiderio”.Il vecchio, pur mantenendo un certo scetticismo, decise di assecondare il gioco del dio. Cominciò a

pensare a varie ipotesi. Pensò di chiedere indietro la sua giovinezza, fu molto tentato dall’idea di rivivere gli amori e le tempeste di quell’età; ma la prospettiva di ripercorrere un così lungo cammino, di affrontare di nuovo tante fatiche e dolori lo fece desistere. Sentiva nel suo essere la stanchezza naturale, quasi benefica, di chi è alla fine della propria strada e dunque, per quanto il cammino gli piacesse ancora, aveva un grande bisogno di riposo.A forza di pensare, cominciò a farsi largo nella sua mente un’idea, dapprima confusa ma via via sempre più chiara e accattivante: “Vorrei possedere il mio tempo.”Il dio lo guardò meravigliato.

di Claudio Stella disegno di Fabio Tacchi

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“Temo di non capire il senso di questa insolita richiesta”.“Hai ragione” disse il vecchio” è veramente una bizzarra richiesta. Ma vedi, il mio cruccio più grande non è l’essere vecchio o la certezza di dover morire. Ciò che mi è penoso è sentire che ho perduto il mio tempo, che di una vita così lunga, piena di emozioni, gioie e tormenti io non ricordi quasi nulla. Oh, non pensare che ciò accada a causa della vecchiaia, la mia mente è lucidissima e vispa come quella di un ragazzino. Il fatto è che proprio la nostra mente non è in grado di conservare la vita che ha conosciuto. Ecco, per esempio, la mia infanzia, lo so è lontanissima, ma mi piacerebbe serbare dentro di me la memoria di quegli anni felici di giochi, perché è allora che io mi sono innamorato della vita. Vorrei avere presente nel cuore il calore di mia madre, il sapore dolce del suo latte, il profumo delle torte che inebriava la casa, l’abbandono totale al suo abbraccio, la forza della sua mano, quando mi guidava per le grandi strade ancora sconosciute. E invece a malapena riesco a visualizzare il suo volto, mi appare sfumato, nebbioso e neppure la sua voce sono certo di ricordare, si confonde con mille altre voci che hanno popolato la mia vita. E poi la vecchia che vendeva castagne, sulla strada di casa, ricordo che mi sorrideva e mi diceva sempre parole amiche ma di lei mi resta solo un’immagine vaga, il suo viso è confuso e mutevole nel ricordo; e la ragazzina che passava canticchiando davanti al mio giardino e mi lanciava uno sorriso dispettoso e furbo perché sapeva che la stavo aspettando e che la guardavo e che il suo sguardo mi faceva arrossire; e poi il primo amore, l’emozione furibonda di quel primo bacio e dei suoi seni che si offrivano alla mia bocca timorosa: avrei dato la vita per lei e ora non ricordo più neppure il colore dei suoi occhi. E dove sono tutti i volti e le voci che hanno affollato la mia vita? Cammino per le strade della città, guardo le facce della gente e penso: dove sono le facce di quelli che incontravo in queste stesse strade, sessant’anni fa? Erano persone vive che camminavano in fretta, inseguendo le piccole grandi cose della loro esistenza e ora non ci sono più; talvolta, quando incontro qualche vecchio

come me, mi sforzo di riconoscere dietro quella maschera di rughe il ragazzo che era e che magari io ho conosciuto o in cui semplicemente mi sono imbattuto, quando ero anch’io un ragazzo. E poi penso a tutti i luoghi che ho visto, paesaggi che a volte mi hanno mozzato il fiato per la loro bellezza, chiese o piazze di inusitato splendore: ma anche questo si confonde nella mia mente, le città si intrecciano, montagne e pianure si accavallano. Dove ho visto quella grande luna che apparve all’improvviso sul mare provocandomi uno stupore felice? E quell’antico borgo che si presentò ai miei occhi, maestosamente disteso sopra una collina, nella luce incerta del tramonto? Tutto si mescola, in una geografia confusa di ricordi, in una mappa del mondo disegnata da un cartografo pazzo. Ecco, o dio bizzarro che sei venuto a trovarmi, io vorrei questo. Vorrei possedere il mio tempo, poterlo rivisitare in un ricordo chiaro, in cui voci, volti, profumi conservino la loro brillantezza, la loro nitidezza di vita. Questo io ti chiedo.”Il dio tacque per alcuni istanti, guardando intensamente il vecchio negli occhi, poi rispose:“È un buon desiderio, il tuo, vecchio uomo, ma è impossibile da realizzare, come evitare la morte. Accontentati di conservare qualche goccia preziosa dei tuoi ricordi, godi del loro profumo. Perché vedi, ciò che è passato già appartiene all’infinito regno del Nulla, è già morte, è cenere, è polvere senza tempo, ed è un grande prodigio che voi umani riusciate a strappare qualche filo, a questa tela che si disfa inesorabilmente, è un miracolo della vostra mente mantenere in vita, seppure in modo incerto e frammentario, ciò che è stato inghiottito dalla Notte. Custodisci i tuoi ricordi nello scrigno, e amali. C’è qualcos’altro che desideri?”Il vecchio sorrise:“Sapevo che il mio desiderio era impossibile. E

allora ti chiedo solo di poter bere ancora un po’ di vino, di poter fumare ancora un poco la mia dolce pipa. E di morire come un uomo libero e dignitoso, senza troppo soffrire e senza strepitare.”“Questo ti sarà concesso, vecchio, e ti sarà dato di poter salutare la tua vita con serenità. Addio.”Dette queste parole, il dio si dileguò. Rimase solo la luce incerta del crepuscolo. E il sorriso silenzioso del vecchio.

avrei dato la vita

per lei e ora non ricordo più

neppure il colore dei suoi occhi

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STORIE

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Il maiale

bestie che nel gennaio inol-trato superavano abbondan-temente i 180 kg ciascuno: insomma una bella riserva per la numerosa famiglia: Peppe, appunto, la moglie Marietta, tre figli adulti e i suoceri.Era, Peppe, un coltivatore infaticabile e abitava in un casolare un po’ fuori mano, era un tipo sveglio, un po’ scontroso, un po’ permalo-so, un tipo pratico …. scarpe grosse ma cervello fino; era anche stanco, come tutti, di pagare la tassa sulla ma-cellazione del maiale, tassa che reputava ingiusta, un

vero e proprio latrocinio. Si, ma come fare a non pagare l’odiata tassa? Quell’anno, poi, Peppe di maiali ne voleva am-mazzare due, appunto quelli che aveva accudito e governato per un anno intero. Pensa e ripensa, si organizzò. A gennaio, nel primo mattino di un lunedì siberia-no, con l’aiuto del suocero e di un suo cugino fida-tissimo, senza fare la dovuta denuncia, ammazzò uno dei due maiali. Il mercoledì seguente, prov-vide alla spolpatura dello stesso e fu un tripudio di salsicce (normali, di fegato, dolci,), di salami, ciauscoli, marturelle, prosciutti, capocolli, spallet-te, barbazze, costarelle, zampitti, coppa, grasso e magro ecc… , ecc…, ecc…, a la faccia de lu dazie-re, bofonchiava contento Peppe. Mercoledì sera era tutto sistemato nel granaio, lontano da occhi indiscreti. Marietta aveva provveduto a ripulire il magazzino dove era avvenuta la lavorazione: di tutto era rimasto un piatto, poggiato sopra ad una vecchia sedia, in un angolo dietro ad uno spigolo, con dentro la coda del maiale e qualche spuntatura di cotiche; pezzi che, non perfettamente puliti, non erano stati messi nella coppa. C’è rmastu troppu pilu, commentò

Settembre e ottobre sono per i contadini i mesi del-la raccolta: matura l’uva, si cavano le barbabietole e le patate, si raccoglie il gra-noturco, maturano le mele; ora non più, ma nella nostra montagna fino a tutti gli anni ‘70 in questi mesi per le vie dei paesi era un incessante andirivieni di carri carichi di ogni ben di Dio, tutta roba che andava opportunamen-te ed adeguatamente stipa-ta e/o appesa nelle cantine, nei magazzini, nelle soffitte, messa nelle botti; si, perché l’anno era lungo. Era questo, anche, il periodo in cui si iniziava ad ingrassare i maiali; da macella-re, poi, nei mesi freddi di gennaio e febbraio; e il maiale da allevare, allora, ce l’avevano tutti, ma proprio tutti. Fino alla fine dell’estate la loro alimentazione era a base di semola, resti di pasta e di verdure me-scolati alla lavatura dei piatti, ma solo con quello il lardo non sarebbe venuto fuori; il prezioso ed in-dispensabile lardo che, insieme all’olio, rappresen-tava la base del condimento giornaliero per tutta la famiglia, con buona pace del colesterolo. L’ali-mentazione, quindi, in questi mese diventava più abbondate e ricca: patate, barbabietole, sfarrato, farinaccio, fave, granturco ecc … . A quei tempi il maiale si macellava a casa ma, per poterlo fare bisognava, prima, pagare una tassa al dazio. Tale tassa, invisa a tutti e commisurata al peso dell’animale, veniva appunto pagata prima della macellazione e all’atto del pagamento doveva essere indicato il luogo e la data della macellazione. Spesso venivano fatti controlli da parte del daziere sulla corrispondenza di quanto dichiarato, soprattutto sul peso dell’animale.Peppe de Cellu quell’anno, parlo degli inizi degli anni ‘60, di maiali ne aveva allevati due; due belle

con due codedi Mario Barbetti disegno di Fabio Tacchi

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SSTORIE

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Marietta, e li lasciò lì.Giovedì mattino Peppe si recò nell’ufficio del dazie-re a fare (e pagare) l’au-torizzazione per ammaz-zare il maiale (il secondo), denunciando, ovviamente, un peso molto minore di quello reale per poter pa-gare di meno. Il venerdì mattino di buon’ora ammazzò il ma-iale ed appese le pacche nel magazzino, perfetta-mente pulito, dove aveva lavorato anche l’altro maiale.Sabato mattina alla casa di Peppe bussò il dazie-re; voleva controllare le pacche del maiale: Peppe, senza battere ciglio, lo accompagnò al magazzino.Al daziere apparve subito evidente che il peso di quella bestia era molto al di sopra di quanto dichiarato da Peppe ma, girando e rigirando lentamente attorno alle pacche per meglio valutarne il peso, gli caddero gli occhi sul piatto lasciato lì sopra alla sedia con gli scarti dell’altro maiale, con la coda soprattutto. A quel punto il daziere, tra l’ilare e il compiaciuto, indicando il contenuto del piatto fece: a Pe…. ma … che …. stu porcu c’ia du coe?

Peppe, alla vista della coa dell’altru porcu, rmase de sassu e je se putia mette l’olio santo, .. ammutolito, mogio e mortificato per la figura da babbeo; non po-tendo, ovviamente, negare l’evidenza, cercò di giustifi-care la presenza de quella coa con l’ingiustificabile, tirando fuori un possibile

e imprecisato intervento estraneo nel magazzino, avvenuto a sua insaputa.

Vista la poca sostenibilità degli argomenti addotti (mo’ Pe … non me dirai che sta coa te ce l’ha por-tata lu gattu, replicò il daziere) Peppe continuò a farfugliare facendo cadere parole, a suo modo di vedere, più convincenti quali: assaggio de costa-relle, de sargicce, de…. lu salame pe pasqua ... Ma, niente da fare.La legge è legge ed è uguale per tutti, sentenziò irremovibile lu daziere che, preso un blocchetto dalla borsa, incominciò a scrivere.Peppe dovette pagare la tassa di macellazione del primo maiale, la contravvenzione per la mancata denuncia della stessa e la contravvenzione per la falsa dichiarazione del peso del secondo maiale. Veramente allora erano altri tempi.

di tutto era rimasto un piatto, poggiato sopra ad una

vecchia sedia, in un angolo dietro ad uno spigolo, con dentro la coda del maiale

di Silvia Foglietta

Il FilantroneA Pale c’è la grotta di Filantrone…. Il Filantro-ne era il vecchio saggio del paese, colui che curava le malattie con le sue erbe miracolo-se, è una grotta situata nella strada che porta alle cascate partendo dal paese di Pale. Ora, esternamente è ricoperta di edera ed altre er-bacce, ma dentro è sempre molto bella e spa-ziosa, qui si racconta che il Filantrone elargisse i suoi consigli e le sue erbe ( malva, gramigna, biancospino, ortica, lavanda). Nessuno sapeva da dove venisse, passava al mattino presto con il suo cuituio (raccoglitore di erbe in tela) e arrivava alla grotta. Sedeva su una panca di le-gno e aspettava la gente che non tardava ad arrivare. Tutti portavano qualcosa: latte, uova,

formaggio, olio e vino. Sospendeva un attimo a mezzogiorno per mangiare la sua pagnotta, bere un sorso di vino e poi continuava di nuo-vo. Alla sera ripassava per il paese, salutava calorosamente e se ne andava via, dove non si sa. Nei mesi freddi essiccava le sue erbe ma non ne rimaneva mai sprovvisto. Il Filantrone è morto da tempo. Ma forse la sua figura miste-riosa aleggia ancora nella grotta, poiché tan-tissima gente quando ha bisogno di meditare si reca là. Il Filantrone suggerisce le risposte ai tormenti interiori. Il vento soffia tra le fessure del travertino, ma a noi piace pensare che il Filantrone ci sia ancora e che sia lui a soffiare sui nostri visi.

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Grazie al passaparola, anche il Nostro Eroe venne a sapere della cosa, ma essendo egli uno spilor-cio micragnoso con le braccine corte, nonché un asociale spocchioso bastiancontrario, nonché un grigio monotono nerd, decise di non partecipare all’acquisto di massa e di tenersi le solite scarpe sdrucite e vissute che neanche il suo cane poteva più tollerare.Ma si, il Nostro Eroe in fondo era contento così, non aveva bisogno di scarpe nuove per condurre la sua splendida vita da intelligentissimo superdotato. Finalmente, venne il giorno in cui Il Sagace potè portare a compimento il suo piano. L’ordine era stato controllato e ricontrollato, la comunicazione con il Cinese era stata chiara e senza fraintendi-menti, e tutti i soldi erano stati raccolti: ogni cosa era pronta.Il Sagace, quella mattina, per un malaugurato caso era in compagnia del Nostro Eroe, e a un certo punto esordì con un tranquillissimo “Ehi, perché non mi accompagni alla Western Union? Devo pa-gare quell’ordine di scarpe al Cinese”, e il Nostro Eroe rispose tranquillamente “Ma si, perché no? Andiamo”. Cammina e cammina, i due arrivarono al simpatico ufficio della Western Union. Il Sagace tirò subito fuori tutto il necessario per effettuare il pagamento, ma proprio sul più bello si accorse di aver dimenticato la carta d’identità. L’impie-

Rubando il titolo a una vecchia canzone di quel-la buon’anima di Stefano Rosso, ci accingiamo a raccontare una storia di vera vita folignate, che risale al lontano 2005 e ha come protagonisti uno pseudo-scrittore che chiameremo Il Nostro Eroe, un amico dello scrittore che chiameremo Il Sagace, un cinese che chiameremo Il Cinese, e uno spietato agente della Guardia di Finanza, padre dello scrittore, che chiameremo Il Buon Inquisitore. Il Nostro Eroe era un bravo ragazzo, tutto studio e lavoro. Non beveva, non fumava, non diceva parolacce, non faceva tardi, non faceva bacca-no, non cercava grane, era intelligentissimo e superdotato.Un bel giorno, il suo amico Sagace scoprì su in-ternet che un Cinese vendeva scarpe di marca ad un prezzo non conveniente, non basso, non bas-sissimo: un prezzo semplicemente ridicolo. La cosa avrebbe insospettito chiunque, ma il Sagace, che non per niente abbiamo chiamato così, non si la-sciò abbindolare dai soliti pregiudizi sulla disonestà dei nostri rispettabili amici dagli occhi a mandorla, e decise così di fidarsi dell’esotico rivenditore, an-che perchè dalle foto si vedeva bene che le scar-pe erano originali, e da che mondo è mondo ci si può fidare di una foto scattata da uno sconosciuto dall’altra parte del pianeta. Insomma, era ovvio che non c’era nessun pericolo, così il Sagace fece anche di più: con un paio di telefonate e messag-gini, sparse la voce tra amici e conoscenti. Chi vo-leva scarpe ad un prezzo ridicolo, poteva ordinarle insieme a lui, dividendo così le spese di spedizione e risparmiando ancora di più. Una trovata molto sagace.In men che non si dica, un numero consistente di persone finì per aggregarsi al mega acquisto te-lematico organizzato dal Sagace, il quale in un colpo solo avrebbe procurato scarpe alla moda ad un prezzo fantastico a un sacco di gente, avrebbe sfamato (ma anche ingrassato) la lontana famiglia del buon Cinese, ma soprattutto avrebbe mandato sul lastrico tutti gli sfortunati venditori di scarpe folignati.

di Alessandro PaolucciUna storia

disonesta

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gata fu irremovibile: senza do-cumento, il pagamento non si poteva fare.Una tragedia. La felicità di tutte quelle brave persone che aspettavano le scarpe del Cinese rischiava di venir com-promessa da un misero ma insormontabile intoppo buro-cratico: con quella sua dimen-ticanza, il Sagace stava per rovinare l’affare, e quando si sarebbe saputo tutti lo avrebbero odiato. La situazione sembrava irri-mediabilmente perduta, ma fu proprio in quel mo-mento che il Sagace, guardando il Nostro Eroe con aria incredibilmente sagace, ebbe un’altra idea geniale, una trovata che riecheggerà nei secoli dei secoli grazie alle parole immortali: “Ehi, se tu hai la carta d’identità, potremmo fare il pagamento a tuo nome. Tanto, che vuoi che suc-ceda?” Ma si, che vuoi che succeda, pensò il Nostro Eroe, e tirò fuori documenti, vergò firme e fece tutto il necessario per completare il pagamento. Dopotut-to, cosa non si fa per gli amici che vogliono scarpe nuove? Gira che ti rigira, passarono due settimane, poi passò un mese, poi passarono due mesi, e delle scarpe non c’era traccia. Il Sagace cominciava a preoccuparsi.Nel frattempo, il Nostro Eroe era a pranzo, e non si ricordava più delle scarpe del Sagace, mangiava tranquillamente i suoi fischioni al sugo e pensava alla sua splendida vita da intelligentissimo super-dotato. Niente poteva turbare cotanta perfezione, senonchè in quel momento il suo papà, agente del-la Guardia di Finanza – ovvero il Buon Inquisitore – entrò dalla porta, si avvicinò con tranquillità alla tavola apparecchiata e afferrò dolcemente l’o-recchio destro del Nostro Eroe, sollevando il tutto mezzo metro più in alto.“Stamattina”, disse il Buon Inquisitore mentre il Nostro Eroe scopriva che le orecchie umane si possono allungare molto più facilmente di quanto non sembri, “il comandante è venuto da me, dicendomi che c’era un mandato di perquisi-zione per un’eventuale impor-tatore di scarpe di marca con-traffatte, e che la cosa faceva capo A MIO FIGLIO”.

Tirando a indovinare, il Nostro Eroe ebbe il sospetto che for-se, con le scarpe del Cinese, qualcosina era andata storta, così cercò di raccontare tutta la storia all’accomodantissi-mo Buon Inquisitore, il quale lo ascoltò molto attentamen-te, valutò che in fondo lui e il Sagace erano soltanto dei giovincelli ingenui, e quindi

senza pietà li portò immediatamente in caserma.Il Sagace, messo alle strette dal Buon Inquisitore, tentò sagacemente di difendersi osservando che non aveva avuto nessun motivo per dubitare del-la buona fede del Cinese. A questo punto il Buon Inquisitore, con molta pazienza, spiegò al Sagace che quando le scarpe di marca costano meno delle ciabatte, quando gli annunci di vendita sono su siti fatti con il Frontpage degli anni ’90 (quindi scaden-ti e brutti come il peccato), e quando a venderle è un cinese, allora c’è una vaghissima probabilità di incappare in un rivenditore di merce contraffatta.Il Sagace a questo punto guardò il Buon Inquisitore con aria meditabonda e sagacissima, dopodichè fu libero di andare, perché in fondo il suo nome non risultava da nessuna parte ed era pulitissimo: il pa-gamento, infatti, era stato fatto a nome di un certo Nostro Eroe intelligentissimo e superdotato. “Car-ta canta”, come si suol dire, e anche “la legge non ammette ignoranza”, come si suol dire, e anche “ma io non le avevo comprate, perché ero l’unico pirla che non le voleva, le scarpe”, come ripeteva spesso il Nostro Eroe in quei bellissimi momenti, ma quest’ultima cosa non gli servì a molto, perchè alla fine si beccò non il carcere, non una multa, ma cinque lunghi anni di segnalazione come “im-portatore di merce contraffatta”, e uscendo dal-la caserma, sfilando davanti a tutti i colleghi del Buon Inquisitore che lo conoscevano da una vita, il Nostro Eroe, già accusato, segnalato e diffamato ingiustamente, venne anche apostrofato con dei simpaticissimi sfottò in accento partenopeo che,

credeteci, erano veramente una forza (ma che qui non ri-portiamo perché, ripensando-ci, mi viene da piangere). Cosa abbiamo imparato, dun-que, da questa storia? Che se un tuo amico è in difficoltà e ha tanto bisogno di te, tu devi correre immediatamente da lui.E ucciderlo.

quando le scarpe di marca costano meno

delle ciabatte e quando a venderle è un cinese, allora c’è una vaghissima probabilità

di incappare in un rivenditore di merce

contraffatta.

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mezza dei propositi, fino alla tragica solitudine in un campo di prigionia austriaco.La lettera inviata il 7 marzo 1916, “dalla trincea”, è piena di slanci bellici, di insulti all’imperato-re d’Austria e all’Austria stessa, stupratrice delle vergini: una pagina piena di sangue, un sangue fa-stidioso, oggi, perché la memoria storica (e chi la rammenta) è un fastidio, fardello pesante, inutile alla nostra “leggerezza dell’essere”; possiamo con-dannare tout court questi giovani sciocchi che si sono fatti scannare sulle macchie impervie delle Alpi, ma dimentichiamo che questi giovani siamo noi, sono dentro di noi: se siamo qui, in un’Italia unita, ancorché minacciata da alcuni che blaterano “secessione”, in un’Italia democratica, ancorché gli unti della dittatura egotistica siano sempre in agguato, lo dobbiamo anche a questi ragazzi che hanno contribuito allo sfascio totale dell’impero

Mi sono sempre sentita in debito nei confronti di mia nonna, Elena Tommasuoli in Laureti, per la fi-ducia in me risposta, di non mandare disperse le lettere, da lei tenute con somma cura, ricevute dai soldati al fronte della Grande Guerra. Spesso ho quasi carezzato con lo sguardo quei foglietti di carta, fini fini, fragili come le vite che essi racchiu-devano, ho sempre sentito l’impegno di dare anco-ra loro voce, voci di giovani, voci di patrioti, tutti catalizzati verso Foligno grazie a una signorina di buona famiglia, madrina di guerra, che cercava di trovare le parole per dare un senso a una vita, al fronte, dove si moriva per pochi metri di territorio, di roccia impervia, al non senso della guerra. Così dalle parole di Corrado Bartoli, bolognese, tenore, giovane appassionato e galante, di cui potrei trac-ciare tutto l’iter militare e umano, dai primi, talora retorici, entusiami alla successiva coraggiosa fer-

di Elena Laureti

Trionfanti entreremoa Trieste la pura, Trieste la bella

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austro-ungarico, quindi alla restituzione dei territori ita-liani all’Italia.L’esuberante Corrado ne è pie-namente consapevole: “Ma-drina mia, ti scrivo da quassù, ove il cielo è più vicino a noi, ove la terra esala un odore so-ave di libertà, ti scrivo col fu-cile accanto mentre il cannone borbotta la canzone bella del-la gloria e della morte. Sono in trincea, sono sporco, stan-co, assetato, ma ò l’anima piena di entusiasmo, ò nel cuore la febbre della conquista. Che importa se la granata austriaca à distrutto la mia trincea? Noi abbiamo respinto i militi di Francesco Giuseppe lo stupido, colpendoli con la baionetta nel petto, nella testa, nelle reni, nelle spalle, noi li abbiamo messi in fuga al fatidico grido di “Savoia” e i vili tacitati ànno perduto il sangue prima che il loro Urrà! tremasse in gola. Ci ànno distrutto la trin-cea? L’abbiamo rifatta più forte di prima, là dove il terreno era ingombro di cadaveri austriaci, là dove le zolle erano inzuppate di quel sangue maledetto che dominò le terre belle dell’Italia nostra. Dor-miamo poco e male, i nostri corpi sono infraciditi dalla pioggia continua, assiderati dal freddo, ma che importa? Vigili stiamo noi, pronti all’assalto che quotidianamente ci vien fatto, fiocca tutto il giorno la granata, infuria la morte tormentosa, ma i nostri orecchi sono tesi, i nostri occhi sono aperti. “Savoia” si grida: è un fulmine! Il grido della vitto-ria erompe e via di corsa alla lotta a corpo a corpo con le fiamme nelle pupille, con le fronti radiose. E il nemico fugge o alza le mani invocando pietà o cade rotolante nel burrone vicino. Le nostre ba-ionette guizzano sfavillano rosseggiano di sangue austriaco. Poi è silenzio, la stanchezza ci vince, è passata la tensione nervosa, godiamo della vitto-ria. Vinceremo, lo sentiamo nell’anima, l’abbiamo nel cuore la vittoria! Gorizia cadrà [conquistata l’8 agosto 1916] e trionfanti entreremo a Trieste la pura, Trieste [3 novembre 1918] la bella e di là per Vienna maledetta e infame, nella terra della vio-lazione di ogni diritto, nella terra degli stupratori delle vergini, dei massacratori dei figli dell’eroico Belgio, nella terra dove governa il vecchio più in-fame del mondo, che dopo essersi visto distruggere dall’anatema di Dio tutta la sua famiglia, dovrà vedersi sfasciare quell’impero legato insieme dal sangue e dall’odio. Da quella terra maledetta sarà dettata la pace: nel nome santo di Dio, nel nome benedetto di Roma, nel nome santissimo d’Italia e di Casa Savoia: Vienna o morte”. Potrei tracciare un ritratto spirituale di mia nonna Elena dalle parole, dai giudizi, che i soldati, suoi interlocutori epistola-

ri dal fronte della guerra ’15-’18, esprimevano nelle loro lettere; ne emergerebbe un ritratto corrispondente alla personalità di mia nonna: dolce, sensibile, profonda, intelligente. Così la conside-ra Corrado Bartoli (3 marzo 1916, dalla trincea): “Genti-le e buona madrina tu sei, e le cose che mi ài dette, mi ànno rivelato la tua nettezza d’animo; la sincerità ed ele-

vatezza dei tuoi sentimenti; quel mondo eletto di idee e pensieri in cui vivi! Ma rassicurati e credi che non per ischerzo io ò cercato la madrina e che felicemente ò trovata, ma per ritirare davvero un conforto, ma per avere una persona d’animo genti-le e affettuoso a cui rivolgermi nei momenti gravi di dubbio, d’incertezza, di pessimismo, a cui dire tante cose, narrare la vita mia, presente e passata ed averne in cambio un po’ d’affetto sincero, una premurosa attenzione, una vigilia assidua e protet-trice. E a te io dirò tutto di me; tutto quel che mi s’agita ne la mente e nel cuore. Sono soldato ora per la patria nostra più grande; vigilo sulla trincea irta di baionette, formata da una cintura di giovi-nezza, lotto, mi batto con le avversità della natura e dei nemici; sono lieto, sono tanto superbo di que-sto, di codesta vita temprata di sacrifizi e pericoli. Un giorno, prima d’ora, ero avvezzo ad un’altra vita, che è sempre invidiata, ad una vita per me bellissima; quella dell’artista. Perché io era e sono tenore dalla nativa Bologna, ho peregrinato per molte città nostre e straniere a portare sulle scene dei teatri il mio canto. Ed ò vissuto come può vi-vere un artista a cui la fortuna non viene meno; ò vissuto sì da serbare un ricordo imperituro in me, un ricordo che talora, quando l’animo un poco è depresso e pare che s’accasci, sorge a me dinan-zi e mi fa vedere le belle città lasciate gioconde di vita; le folle attente e palpitanti; erompenti nel saluto acclamatore, nella gioia del godimen-to estetico; allora, se una voce mi richiama alla realtà delle cose, se una voce amica mi sorregge, se un saluto mi giunge in cui veda vibrare l’anima buona, io risorgo fiducioso, bramoso ancora di lot-te, senza dubbi, senza incertezze e non curo di la-sciare la mia vita nel gorgo comune, e non ricordo le gioie godute”. Sopravvivrà Corrado, alle ferite, alle granate, sempre in prima fila, comandante dei mitraglieri. Sopravvivrà grazie, credo, alla tristissi-ma (così dalle lettere) prigionia in Austria; ma poi tornerà a calcare le scene, ad essere inebriato da-gli applausi: avrà ripensato ai due anni di colloquio epistolare intrattenuti con una sconosciuta signori-na di provincia?

possiamo condannare questi giovani sciocchi

che si sono fatti scannare sulle macchie impervie delle Alpi, ma dimentichiamo che questi

giovani siamo noi, sono dentro di noi

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IDEE

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de coquina è rimasto in uso fino alla fine del XIV secolo diffondendosi ben presto in Italia, Francia e Germania. Il libro era indirizzato a persone esperte del mestiere e di conseguenza era poco preciso quanto a dosaggi e tempi che si davano per scontati. Tra i primi libri scritti in lingua volgare per uso domestico c’è il Libro de cocina di un anonimo toscano nato a Sie-na. Con un tono deciso l’autore forniva ricette essenziali, probabilmente un’elaborazione di testi precedenti. La novità era nel destinata-rio, infatti l’opera era indirizzata alla classe media, non solo ai cuochi di corte, e riportava istruzioni molto dettagliate. Le ricette erano quelle dei piatti più amati dai “Dodici Ghiotti”, rampolli di ricche famiglie senesi vissuti nel Duecento che si erano riuniti nella Brigata go-dereccia, prefiggendosi di sperperare il proprio denaro in gozzoviglie. Questo filone domestico però si diffuse solo in Italia. Tra i testi di questo genere spicca il Libro per cuoco di un anonimo veneziano. L’autore si ispirava a modelli auto-revoli: alcune ricette, come la «Torta manfre-da bona e vantagiata» (con «ventre e figatelii de polli, panza de porcho»), si rifacevano alla cucina della corte di Federico II, mentre altre risalivano alla Brigata godereccia. Il veneziano forniva dosi precise con il tono dolce del dia-letto veneto. A metà del Quattrocento apparve un altro testo importante: Due libri di cucina, scritti da un anonimo meridionale in latino e

Oggi gli chef impazzano nei programmi tele-visivi ma anche nei secoli passati erano star: dovevano essere in grado di cucinare, organiz-zare banchetti, realizzare ricette nuove per solleticare il gusto dei signori… Ma che fine hanno fatto le loro ricette? In un primo tempo gli ingredienti dei manicaretti più appetitosi venivano appuntati su foglietti volanti ma ben presto nacque un filone letterario- culinario che comprendeva, oltre ai precetti di dieteti-ca e consigli per trattare i cibi, i bisnonni dei ricettari. Uno dei più antichi ricettari fu scrit-to nel IV secolo a.C. da Archestrato di Gela: il Poema del buongustaio, un raro trattato gastronomico sotto forma di poema epico in esametri. Archestrato scriveva di olive rugose e mature, uteri di scrofe bollite e condite con salsa di cumino, aceto e silfio, tutta la tribù degli uccelli di stagione e tutta una gamma di pesci, come la bonita, ottima in autunno quan-do tramontano le Pleiadi. Nel IV-V secolo d.C. sotto la penna di Apicio abbiamo un’opera più fruibile, il De re coquinaria. Probabilmente il testo era dedicato ai cuochi degli aristocrati-ci romani: gli alimenti base erano carni, pesci, legumi, erbe, vini aromatizzati e soprattutto salse, una componente fondamentale dell’an-tica cucina romana, come la puzzolente ga-rum (a base di interiora di pesce). Le ricette di Apicio a volte erano completate con con-sigli per la salute: «Se preparerai i cocomeri con la salsa acida ti accorgerai che non avrai né rutti né flatulenza». Dalla metà del ‘400, con la diffusione della stampa, la letteratura gastronomica italiana conobbe un grande im-pulso. Lo scambio culinario tra regni e signorie era molto intenso e la cucina era un punto di collegamento così forte che oggi molti stori-ci e linguisti parlano di koinè gastronomica. Come dire l’Italia nacque prima a tavola. Ne è un esempio il Liber de coquina, scritto in lati-no tra il XII e il XIV secolo. Qui si insegnava a cucinare fagioli all’uso della marca trevigiana, i cavoli alla romana e piatti europei. Le prepa-razioni proposte nel libro erano molto raffina-te e i vari piatti si basavano su verdure, carni, uova, pasticci e pesci di mare. L’anonimo Liber

di Katia Cola

Secoli di letteraturatra i fornelli

Le ricette erano quelle dei piatti più amati dai

“Dodici Ghiotti”, rampolli di ricche famiglie senesi vissuti

nel Duecento che si erano riuniti nella Brigata

godereccia

foto di Alessio Vissani

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SIDEE

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volgare e destinati agli aristocratici. Imprecise nei dosaggi, le sue ricette erano però dettaglia-te nelle preparazioni. Ad uscire dall’anonimato dei ricettari fu, nel 1465 con il Libro de arte coquinaria, il Maestro Martino da Como. Il cuo-co fu al servizio di Francesco Sforza a Milano, del cardinale Mezzarota a Roma e del condot-tiere milanese Gianciacomo Trivulzio. Espres-sione di una cultura interregionale, l’opera di Maestro Martino segnò il passaggio dal Medio-evo al Rinascimento. Era un testo destinato a tutti, come dimostrano l’uso del volgare, le spiegazioni accurate e il ricorso a uno strata-gemma per indicare i tempi di cottura in man-canza di orologi nelle case: la lunghezza delle preghiere. L’opera conobbe un enorme succes-so, e nel ‘600 fu spesso plagiata. Il merito della sua diffusione va attribuito a un suo discepolo, l’umanista Bartolomeo Sacchi detto il Platina, forse il più grande cuoco del Rinascimento. Il De honesta voluptate et valetudine del Platina fu pubblicato nel 1474 e fu il primo ricetta-rio stampato, redatto in latino, fu tradotto in volgare nel 1487 e pubblicato per tutto il ‘500 in tutta Europa. L’autore si rifaceva al testo di Maestro Martino integrando le ricette con aneddoti, commenti moraleggianti e osserva-zioni dietetiche. Grande attenzione era riser-vata ai prodotti locali. Nel XVI secolo Venezia diventò il centro della stampa di argomento ga-

stronomico in Italia. I principali esponenti furo-no Cristoforo da Messisbugo, Domenico Romoli e Bartolomeo Scappi. Cristoforo ci ha lasciato il volume più completo e vario del ‘500: Banchet-ti, compositioni di vivande et apparecchio ge-nerale, pubblicato nel 1549 e ristampato per tutto il ‘600. Conteneva 315 ricette tra “po-tacci” (zuppe), minestre quaresimali, pasticci, “sapori da grasso e da magro” (salse), carni, pesci, formaggi. Erano anche presenti le spezie e cominciavano ad imporsi lo zucchero e la pa-sta. Nella Singolar dottrina di Romoli emerge il piacere di condividere con il lettore le pro-prie conoscenze. Il più innovativo fu Scappi che nella sua Opera dell’arte di cucinare del 1570 anticipò precetti dietetici moderni, introdusse infarinatura ed impanatura e preferì il ricorso ad animali d’allevamento rispetto alla selvag-gina dominante nel Medioevo. Nel ‘700 scoppiò una nuova moda gastronomica consacrata dal libro di un altro anonimo: Il cuoco piemontese perfezionato a Parigi (1766). Era un testo ispi-rato ai modelli francesi, dagli ingredienti alle tecniche, fino alla terminologia infarcita di gal-licismi. Nel ‘700 iniziò la guerra culinaria fra Italia e Francia. Il riscatto dei ricettari nostrani arrivò nel 1891 con La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene di Pellegrino Artusi che defini-va la sua opera «Manuale pratico con il quale basta si sappia tenere il mestolo in mano».

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frequentava allora la scuola di avviamento a Foli-gno. Completato questo corso di studi, il padre, più propenso ad assicurare un futuro sicuro al figlio, lo fece iscrivere all´ Istituto Tecnico Industriale, con la speranza di far diventare anche lui ferroviere. Angelo, intanto, iniziò ad andare a lezione di pit-tura dal Prof. Scaramucci, che scoprì subito la sua versatilità, che non si limitava solo alla pittura. A scuola la sua insegnante d´italiano lo chiamava “il poeta”. Durante il secondo anno dell´Istituto Tecni-co Industriale disse alla madre che non aveva alcun interesse per questo tipo di scuola. La sua più gran-de aspirazione sarebbe stata quella di frequentare l´Istituto d´Arte di Perugia. Lei, grazie al suo carattere e all´amore che por-tava ai propri figli, riuscì a convincere il marito ad assecondare la scelta del figlio. Angelo frequentò l´Istituto d´Arte e l´Accademia dal 1948 al 1952.

Le case operaie di viale Ancona mi riconducono con la memoria alla mia infanzia, quando mia madre mi diceva: “Oggi andiamo a trova-re zia Rosetta”. Questa frase era quasi un incubo, poiché per me, che abitavo al centro, era una fa-tica andare a piedi fino alle case operaie. Allora c´erano poche case lungo la via, predominava la cam-pagna; trovavo questo percorso interminabile. La “zia Rosetta” era la sorella di mia madre, che alle case operaie tutti chiamavano “la signora Mori-coni”. Era una donna molto labo-riosa, completamente dedita ai tre figli Angelo, Luciano e Clara. Go-deva della stima del vicinato per la sua disponibilità e discrezione. Tutte le famiglie delle case ope-raie e delle altre abitazioni vicine ricorrevano a lei per farsi fare le iniezioni. Era una donna determi-nata, intelligente, sensibile e cre-ativa. In gioventù aveva frequen-tato un corso di pittura, ottenendo molti elogi per alcuni quadri che aveva esposto in una mostra; suc-cessivamente, aveva partecipato anche a un corso di ricamo nella sua città natale, Gualdo Tadino. Fino al 2009 ha partecipato alla Mostra degli Hobby dei giovani e degli anziani, che si tiene ogni anno a Fo-ligno a settembre, con lavori di pregio. In questa mostra era presentata con il cognome da nubile, cioè come Rosa Gammaitoni. E´morta il 5 gennaio 2010 all´età di 101 anni. La sua creatività l´aveva trasmessa soprattutto al primogenito Angelo. Essendo una donna attenta alla sensibilità dei figli e alle loro esigenze, cer-cava di soddisfarle nei limiti del possibile. Angelo aveva mostrato fin da piccolo una spiccata curiosi-tà all´apprendimento. A 5 anni iniziò a frequentare la prima elementare a Valtopina, dove abitavano prima della guerra. Dopo la guerra, nel 1945, il padre fu trasferito alla stazione di Foligno, come responsabile del magazzino della ferrovia. Angelo

di Candida Pepponi

Angelo Moriconi:l’artista sconosciuto delle case operaie

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Anche qui il Prof. Luppatel-li notò subito la genialità di questo giovane e, concluso il corso di studi, lo raccomandò al suo amico Turcato , affinché potesse affinare la sua tecni-ca pittorica ed entrare in con-tatto con il fervore artistico e culturale della Roma di quegli anni.Angelo andò a Roma, dove ebbe l´opportunità di entrare nell´ambiente artistico, che ruotava intorno a Turcato, Cagli e Guttuso, con l´umiltà di conoscere e di migliorare le sue doti artistiche. Per lui giovane artista quegli anni furono molto difficili. Fu ricoverato, all´insaputa della fa-miglia, all´ospedale di S. Spirito per denutrizione. Più tardi raccontava che un cartoccio di caldarro-ste doveva bastare per un´intera giornata. Negli anni ´60 acquistò notorietà con varie mostre e nel ´66 fu invitato a partecipare alla Biennale di Ve-nezia. Seguì un periodo di intenso lavoro, tra cui l´insegnamento di disegno e di pittura nei corsi estivi, tenuti a Cortona (Arezzo) dalla University of Georgia (di Athens USA).Tra il 30 e il 31 agosto del 1977 Angelo muore , all´età di 45 anni, all´ospedale San Camillo di Roma in seguito a complicanze dopo un interven-to chirurgico. Venne data notizia della sua morte in Paese Sera del 4 settembre dal critico d´arte Nello Ponente, docente presso l´Accademia d´Arte di Roma, che lo definisce “pittore di finissimo gu-sto e di sicuri mezzi espressivi”, oltre ad esaltarne la sensibilità e la grande carica umana, qualità messe in risal-to anche da artisti, suoi amici intimi, come Timner, Molli e Buggiani.Anche dopo la sua morte ci sono state iniziative per ricordare la sua figura, tra cui il manifesto per la mostra col-lettiva “City on Hill. Twenty Years of Artists at Cortona”. Nel 2001 la Camera di Commercio di Perugia organizza la mostra “Arte da Camera- Pittura, Scultura ed Archi-tettura” nella sala ex Borsa Merci di Perugia. Nella mostra e nel catalo-go è inserita una sua opera giovanile “Paesaggio” 1952.Nella mostra “Itinerario di Spello -Terra di Artisti” del 2006, dove erano esposti due suoi quadri, il Prof. Bru-no Toscano invitava gli organizzatori della mostra a far conoscere questo pittore, a suo avviso di notevole spes-sore, conosciuto e frequentato da lui

nel periodo giovanile. Fu la prof.ssa Federica Bor-doni, specializzata in questo settore, a sottoporre il suo progetto sulla mostra in sua memoria al sindaco di Monte-falco, che accolse con grande favore questa iniziativa.Federica cominciò a lavorare sapientemente, supportata

dal lavoro certosino, durato trent´anni, della sorella di An-gelo, Clara, la quale è riuscita

a recuperare le sue opere che si trovavano in Fran-cia, in Germania e negli Stati Uniti. Le ha poi cata-logate insieme a quelle che erano state vendute in Italia.L´8 dicembre del 2007 fu inaugurata la mostra “Angelo Moriconi nella pittura romana dal 1954 al 1977” , presso il Complesso Museale San Francesco di Montefalco, progetto di Federica Bordoni a cura di Bruno Toscano, Professore dell´Università Roma Tre, e di Italo Tomassoni, Professore dell´Università di Roma, “La Sapienza”, grande ammiratore della sua pittura ed amico, che insieme ad Angelo pren-deva lezione dal Prof. Scaramucci.La “zia Rosetta”, che aveva desiderato a lungo che si conoscesse anche a Foligno la figura artistica del figlio, prima di morire ha visto esaudito questo de-siderio.E dalle colonne di Chiaroscuro lanciamo l’invito ai folignati ad accostarsi all’opera di questo poco co-nosciuto artista delle case operaie.

Negli anni ´60 Angelo Moriconi acquistò

notorietà con varie mostre e nel ´66 fu invitato a partecipare alla

Biennale di Venezia

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ta fredda e piovosa mi ritrovo con i miei due amici Stefano e Fabio a chiacchierare del più e del meno. Fabio si mette davanti alla sua tela in procinto di modificare un angelo, prende il suo piattino e inizia a mescolare colori, sceglie il pennello, ne prende uno fino e inizia ad agitare il polso con veemenza. Lo sguardo segue le dita e sulla tela prende forma una figura alata sdraiata in un mondo bianco ancora da realizzare. Io nel frattempo tiro fuori il mio con-sueto taccuino per prendere giusto due appunti su Stefano. Sono mesi che, vuoi la casualità, vuoi un po’ di ricerca, mi diverto a raccontare storie di gio-vani di Foligno con passioni e quando conobbi Stefa-no non ci pensai due volte a voler raccontare ciò che sa fare con le sue mani. Stefano Bovi è un ragazzo classe 1979, saldatore di professione e artigiano-ar-tista-sculture per passione. Non si definisce artista, ma gli piace usare il termine di ricercatore. Ricer-

Sono le 23.45 ed è il 20 ottobre. L’autunno ha spa-lancato le proprie porte e oggi è la giornata in cui Roma si è trasformata nel giro di pochissime ore in una Venezia d’altri tempi. Tombini che ribollivano acqua da tutte le parti, automobilisti seduti sui tet-tini delle loro auto e il Colosseo circondato da un fiume in piena. Hollywood sarebbe fiera di noi…pec-cato che non c’è di mezzo nessun effetto digitale!

Sono le 23.45 ed è il 20 ottobre. Speciale “Matrix” e speciale “Porta a Porta” sull’uccisione del Rais Muammar Gheddafi. Giriamo canale e all’unanimi-tà scorrono i filmati del Colonnello (il vero o il so-sia?....) calpestato e trascinato dalla folla esultante. E’ finita la guerra dicono i media…beata ignoranza dico io!!!

Sono le 23.45 ed è il 20 ottobre. In questa giorna-

di Alessio Vissani

Gli Angeli tra noiStefano Bovi, scultore si racconta.

foto di Alessio Vissani

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catore di emozioni, di sensazioni, di concetti. Gli piace scoprire la materia per come è composta e per come la si può modellare. Un curioso direi io…un pazzo dice lui…un pazzo curioso innamorato della vita e dei doni che essa ci consegna ogni giorno. Lui senza dubbio ha ricevuto e sa sfruttare appieno il dono di creare angeli, o comunque figure umane a gran-dezza naturale, usando sempli-cemente tondini da carpentiere, tagliati a pezzi di 4-5 cm e saldati tra di loro. Non è da tutti model-lare in questo modo la materia e ricavare, da scarti grezzi di ferro, delle opere d’arte come fa Stefano. Arte: questa parola lui cerca sempre di evaderla, per un motivo o per un altro, vuoi per modestia o vuoi per non consapevolezza delle enor-mi potenzialità in suo possesso ma Ja-mes Joyce tempo fa scriveva “cercare adagio, umilmente, costantemente di esprimere, di tornare a spremere dal-la terra bruta o da ciò ch’essa genera, dai suoni, dalle forme e dai colori, che sono le porte della prigione della nostra anima, un’immagine di quella bellezza che siamo giunti a comprendere: questo è l’arte”. Stefano dovrebbe prendere più coscienza dell’enorme facoltà in suo possesso. “Da piccolino la cosa che più mi entusiasmava – afferma Stefano Bovi - era smontare qualsiasi cosa e costrui-re marchingegni fatti da me, a 6-7 anni avevo realizzato una sorta di allarme all’entrata della mia cameretta. Sono sempre stato attratto dal lavoro materiale e dopo aver parteci-pato a un corso da saldatore, mi sono dedicato a 360° alla lavorazione del ferro. Casualmente poi ho iniziato a indirizzarmi alla scultura, era un pome-riggio di qualche anno fa e vicino a Foligno si stava organizzando una festa nella quale ho partecipato con la mia prima opera figurativa: un lupo, realiz-zato in una nottata, utilizzando dei tondini scartati da miei lavori precedenti. Mentre realizzavo la mia prima opera (nonché animale preferito) la mia men-te viaggiava oltre, iniziavo a pensare che si potesse utilizzare il ferro, anche grezzo, per realizzare delle figure o comunque delle opere.” Stefano è un ragaz-zo innamorato delle cose semplici che riempiono la vita, gli piace leggere, anzi ama leggere, gli piace documentarsi su com’è fatta la materia, va in moto con una splendida Harley Davidson, balla e nei viag-gi trova il modo per evadere dalla frenetica realtà di tutti i giorni. “Ogniqualvolta mi metto a realizzare una statua è come se provassi un innamoramento costante, una forte emozione che a volte mi procura

ansia, tanta è la voglia di comple-tare quell’opera. Ad opera finita tutto ciò svanisce molto presto e il mio pensiero corre subito a un nuovo soggetto. Ciò che mi affa-scina di più sono gli angeli, vuoi perché sono credente ed è una figura che mi ha sempre donato molteplici emozioni, vuoi perché

la figura dell’angelo è un elemen-to affascinante dal punto di vista artistico e strutturale. La scultura

per me è un modo per tirare fuori le mie emozioni più nascoste ed è il mio mondo dove posso decide-re io le mie regole. Non sono un tipo che s’ispira a qualcuno in particolare, tutte le mie passioni, dalla motocicletta, al ballo e alla lettura credo che siano i miei punti di riferimento per le sculture. Le regole

nell’arte credo che vadano in qualche modo rivoltate per cercare qualcosa di personale e così io sto cercando di fare. La scultura realizzata con i soliti stru-menti non mi appartiene, mi piace spe-rimentare nuove strade: per esempio, dopo un paio d’anni che realizzo figure (come angeli o animali) con tondini da carpentieri e pezzi di metallo vario, sto studiando nuove soluzioni con la resina o cartapesta. La ricerca di nuovi meto-di o tecniche è il mio stimolo maggiore. Sono assuefatto dalle mie opere, è come se fosse una dipendenza, una dipenden-za però che non voglio troncare giacché i miei pensieri, i miei stati d’animo riaf-fiorano ed escono fuori nel momento in

cui mi metto una maschera e inizio a saldare pezzi di metallo tra di loro per dar vita a qualcosa. Per me la scultura è un auto-miglioramento del mio animo, mi rendo conto che da quando mi sono avvicinato a questo tipo di arte sono migliorato anche per alcune mie sfaccettature caratteriali ed ormai non posso proprio più farne a meno. Inoltre, ora, stando a con-tatto con altri amici come te o Fabio che si occupa-no di altre arti mi stimola ancora di più.” Quando gli domando tra tutte le tue opere qual è che senti più tua mi risponde: “un cuore realizzato con tanti pez-zi di metallo, trafitto…Quello per me rappresenta la Passione di Gesù e seppure è una delle mie opere più semplici, è quella che sento più mia.”

Sono le 22.46 ed è il 25 ottobre. Ho appena fini-to di scrivere il pezzo. Un cuore, un angelo e una moto…parallelamente Stefano con le sue passioni e parole ripercorre con amore un altro angelo, dai fol-ti capelli ricci, che ora sta correndo per tutti coloro che l’hanno amato! Grazie…

sa sfruttare appieno il dono di creare angeli, o

comunque figure umane a grandezza naturale, usando semplicemente tondini da carpentiere, tagliati

a pezzi di 4-5 cm e saldati tra di loro

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STORIE

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Come già preannunciato nel numero scorso, prosegue questa rubrica dedicata alla cronaca della Foligno dei primi del ‘900, che si basa sul materiale utilizzato in un ciclo di trasmissioni radiofoniche che Fausto Scassellati e la moglie, Maria Rosaria Tradardi, hanno condotto a partire dal settembre 2001 su Radio Gente Umbra. Ma purtroppo, circa un mese fa, Fausto ci ha lasciato. Era malato da tempo ma ha vissuto fino all’ultimo con grande alacrità intellettuale. Solo dieci giorni prima di morire mi parlava di un nuovo articolo che voleva scrivere su Chiaroscuro e mi ha fatto il bellissimo regalo di farmi leggere le sue poesie inedite, che sono molto belle perché rivelano la sensibilità di un uomo pieno di energia e capace di dialogare con la propria tristezza. Fausto è andato incontro alla morte con dignità e dolcezza e io voglio ringraziarlo, perché è stato un amico e un collaboratore prezioso del nostro giornale. Sono contento che la sua firma continuerà a comparire su Chiaroscuro, così come quella di Maria Rosaria, a cui voglio mandare un abbraccio pieno di affetto.

13 Maggio 1911Giro ciclistico d’Italia Una folta schiera belligerante di cento eletti campioni ciclistici lasceranno Roma, lunedì 15 alle ore tre e passeranno alle ore 9 antimeridiane per la prima volta in fantasmagorica fuga per la nostra Città che l’attende per porgergli il festoso saluto.Percorso: Roma-Terni-Foligno-Perugia-Firenze. I corridori da Porta Romana si recheranno a Porta Firenze attraversando la Città per il Corso Cavour, Piazza Vittorio Emanuele e Via XX Settembre.Controllo: Sarà situato presso la statua dell’Alunno a Porta Romana. In tale posto verrà collocata una tribuna. Prezzi d’ingresso da L.0,70 a Lire 1 con seggiole al piano superiore della tribuna stessa.

15 Maggio 1911Quelli che vanno in AmericaL’agente Gennaro Crisciuolo della Spett.le Anglo-American Bureau, stipula le seguenti polizze in Via degli Scortichi a Foligno a beneficio degli Emigranti

per l’America. Con 10 lire si garantisce:1.Lire 1000 e 500 in caso di morte2.Lire 500 in caso di infortunio3.Rimborso del nolo pagato in caso che venga respinto l’emigrante dal porto di destinazione

28 Giugno 1912Cimeli di antichitàNella casa appartenente al cav.Clarici, al Corso, mentre si eseguivano i lavori per apporvi una mostra e una ditta, nuove, pel Bar detto del Teatro, condotto dal Sig.Feliciano Antinori, vennero scoperte due alte colonne, una delle quali con in cima un capitello di buona epoca romana, forse da sostegno a due archi, segno che vi sorgeva un edificio civile di molta importanza, poiché le dimensioni della colonna e lo stile del capitello fanno conoscere l’esistenza di un portico il quale probabilmente serviva di uso pubblico. Purtroppo poco rispetto si ha tra noi dei ricordi del passato: poco tempo fa fu coperta con la calce una casa in via della Salara che fu già dei Trinci. Nello sterro che si fa per la grande officina ferroviaria, non si tiene nessun conto dei residui della via Flaminia presso la quale sorgerà detta Officina.

6 Luglio 1912Trilussa al Salone EdisonDomani al Salone Edison, Trilussa, il geniale poeta dialettale romanesco, leggerà alcune delle sue favole romanesche, che tanto favore hanno incontrato presso il pubblico d’Italia. Il geniale dicitore devolverà parte dell’incasso a profitto della Flotta aerea e degli Ospizi Marini (Colonie Marine per bambini a Falconara).

6 Settembre 1913Foligno, in pochi anni, ha compiuto un lungo periodo di progresso civile, e in ciò non ha fatto che seguire quel movimento cui tutto il mondo obbedisce, poiché in quest’ultimo ventennio, tanto cammino si è fatto in ogni parte che pochissime sono le città e i paeselli che non si siano rinnovati. Strade, palazzi pubblici e privati, stabilimenti

a cura di Fausto ScassellatiCronache

del XX secolo

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di ogni genere, sono sorti da pertutto ed hanno, insieme al rifiorire dell’agricoltura, ricondotto un’onda di vero e proprio benessere. Chi può dire d’essere il meritevole di tanti miglioramenti? Tutti e nessuno…Ma Foligno ha ormai il Carnificio militare, il primo, forse, d’Europa, e si vede sorgere attorno il grandioso edificio delle Officine Ferroviarie. Chi ha persuaso il Governo a scegliere Foligno? Parliamoci chiaro. E’ stata la posizione centrale della nostra città; l’equidistanza da Roma, Ancona, Firenze, i tre tronchi della ferrovia, i corsi d’acqua, il movimento dell’aria attraverso i monti, la presenza di una corona di città e paeselli, hanno persuaso il Governo che un posto più felice di Foligno era vano cercarlo nell’Italia Centrale.

6 Novembre 1913Domani inizia la distribuzione dei biglietti per il pane ai poveri. Gli infermi e gli infelici avranno un chilo di pane, 330 grammi di minestra e di carne, un litro di vino, un poco di legumi ed un poco di legna, dono di un benefico signore di Foligno.

17 Gennaio 1914Il Carnificio di ScanzanoNei primi giorni del corrente mese si ultimarono

le varie fabbricazioni di conserve alimentari nel nostro splendido Carnificio di Scanzano. Risulta che in pochi mesi di effettivo lavoro nello Stabilimento si fabbricarono, oltre ad altre conserve, quasi 5 milioni di scatolette impiegando le carni di 5500 buoi, risultati invero mai raggiunti da altri Stabilimente del genere.

16 Gennaio 1915Il terremoto a FolignoMercoledì mattina 13 corr., alle ore 7,53 precise, è stata avvertita una forte scossa di terremoto ondulatorio, ultima eco del terribile terremoto che ha devastato città e paesi negli Abruzzi, che ha impressionato grandemente tutta la cittadinanza. La scossa è durata certo oltre i 12 secondi. Non si sono verificati danni, se si eccettui qualche scalfitura in qualche edificio con la caduta di qualche calcinaccio qua e là. Alla Cattedrale di San Feliciano l’impressione ricevuta dalle molte persone che si trovavano a pregare, pel rombo della scossa che sembrava così lunga, pel movimento della tribuna e per l’agitazione dei suoi mappi, è stata così viva che molti si son messi a invocare l’aiuto di Dio e San Feliciano, ed altri sono usciti verso la piazza. Pure nei dintorni di Foligno la scossa è apparsa assai forte e si narra che sono state viste le acque del Clitunno alzarsi dal loro letto sollevato, uscire da esso e prendere un’altra direzione. Lo stesso fenomeno è stato avvertito presso Casevecchie e in alcuni punti del corso del Topino. Pare incredibile come la forte scossa si sia manifestata proprio il giorno 13 che è l’anniversario del famoso terremoto del 1832, che mise in pericolo la Città di Foligno, per cui clero e popolo, auspice il Comune, emisero un voto di cento anni. Sembra proprio che la scossa sia venuta per ricordare le promesse fatte dai nostri vecchi e messe un poco da parte! I nostri antenati furono terrorizzati da due violente scosse di terremoto il 27 Ottobre e più ancora il 6 Novembre 1831. Ma il terremoto si ripeté terribile il 13 Gennaio 1832 e continuò così forte che la Città fu puntellata perché messa in serio pericolo e imminente pericolo. Fu allora che i buoni folignati, essendo in pericolo anche la Cattedrale, portarono la statua della Madonna del Pianto, insieme al miracoloso Crocefisso della Madre Paola, ai Canapè. Cessato il pericolo, il 16 Gennaio riportarono al suo tempio il simulacro della Madonna. E fu allora che il Comune, spinto dal popolo, decretò una legge in forma di voto, per la quale tutti si obbligarono, per un secolo, a digiuno di stretto magro il 13 gennaio, la vigilia della madonna del Pianto e di San Feliciano.

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IDEE

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Una pioggia di poesie da tutta Italia su Trevi. Dal nord al sud (finalmente uniti dall’arte poe-tica), sono giunti libri di poesie per concorrere alla prima edizione del “ premio-poesia Corinna Angelucci”, indetto dal Comune di Trevi.E’ un premio che inizia nel 2010, dopo la pub-blicazione del libro “Impronte”di Corinna An-gelucci, da parte del Comune. Pubblicazione caldeggiata dagli scrittori Stefania Caracci e Vincenzo Labella, accolta favorevolmente dalla giunta comunale e sviluppata dall’assessore alla cultura,Valentino Brizi. Dalla vendita del libro verrà istituito un fon-do con cui finanziare il premio poesia, istituito sempre dal Comune.

E’ un premio che esprime la volontà del Co-mune di Trevi di incentivare la creatività nella consapevolezza che la poesia è una delle forme d’arte più dirette, capace di dare voce e rende-re condivisibili e universali le nostre più segre-te emozioni. Si vuole istituire uno spazio dove annualmente la parola poetica possa risuonare liberamente. E’ la speranza che si vuole regala-re alle giovani generazioni.La sintesi e la vitalità della poesia ci aiutano a intuire l’essenza della nostra epoca.Sembra che il mondo, cercando di vivere senza poesia, ne abbia scoperto la mancanza ed intu-ito la necessità. La giuria del premio, composta da soci sosteni-

tori, tra cui anche l’associazione Chiaro-scuro, ha stilato il 3 novembre la classi-fica dei vincitori. E’ stata una classifica sofferta, in quanto i partecipanti erano veramente bravi. Veniva richiesta una silloge: ogni concorrente doveva parteci-pare con un minimo di 50 poesie.L’età dei partecipanti varia dai 20 anni, età della più giovane, ai 78, età della più anziana . Anche i generi sono stati ampiamente presenti con più scritti femminili, ma con un nutrito schieramento al maschile.Alla premiazione, che si terrà il 3 dicem-bre alle ore 16 a villa Fabri a Trevi, siete invitati tutti.Si leggeranno le poesie più belle, e non solo dei vincitori, verranno esposte le va-rie poesie per dare la possibilità al pub-blico anche di leggerle. Sarebbe bello creare un festival della poesia o un presi-dio poetico da ripetere o allargare in vari luoghi.Viva la poesia e le emozioni che ci re-gala, la fantasia che galoppa, gli occhi della mente che vestono i sogni di real-tà, la catarsi dei sentimenti che ci rende bambini! A presto. Grazie a voi tutti per la colla-borazione.

“L’Unità d’Italia”Riflessioni a margine del Premio - poesia Corinna Angelucci

di Lucia Gengadisegno di Francesca Greco

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SSTORIE

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Liberodi Libero Pizzoni

s p a z i oSTORRE (forse Astorre )

Indossava una sporcizia antica che anda-va dai capelli lunghi e radi, passava per la barba incolta che doveva essere bianca, scendeva per le vesti - rigorosamente ca-micia, panciotto, giacca e calzoni di un grigio malinconico - fino alle scarpe sfor-mate e troppo grosse che ostentavano le ferite del tempo e dell’usura, per poi espandersi dalla sua figura ai suoi quattro forse unici amici, quattro cagnolini tut-ti a guinzaglio che avanzavano come una superba pariglia di cavalli trascinando il loro signore e padrone. Un paio di barboncini, tipo quelli dove è difficile distinguere la testa dalla coda, dal pelo infittito e giallastro, un bastar-dino poco più alto e poco più marrone e un signor cane, di taglia media, che ema-nava nobiltà nell’incedere e nel non partecipare al casino che sempre scatenavano gli altri tre.Portava un bastone di un paio di metri con un cam-panello per annunciare a noi, miseri mortali, l’arrivo del vecchio saggio della montagna.Se fosse saggio non lo si è mai saputo perché Storre non dialogava, si ascoltava solo la sua voce sussur-rante e continua che partoriva parole senza senso mentre, trainato dai suoi cani avanzava lungo il cor-so con gli occhi rivolti al cielo e mai alla terra. “ Io vò su, tu vai jò, ghiemo assieme “, un modo forse per sottolineare le infinite situazioni che la vita può riservare.Però era simpatico, o solo strano, i ragazzi gli corre-vano intorno al grido di “ Storre, Storre “, ci scher-zavano, alcuni in verità gli davano colpi e spinte e cercavano di infastidire i cani, ma lui procedeva senza esitazioni verso la sua meta a tutti ignota.Portava una sacca in spalla, immagino ci fosse tutto ciò che possedeva, faceva la sua bella passeggiata e poi se ne tornava alla sua casupola dove viveva tut-to solo, non considerando logicamente i cani.Tutti lo conoscevano, tutti lo salutavano anche se lui non rispondeva a nessuno e continuava a parlare con la cadenza delle donne che recitano il rosario.

Al lunedì metteva sul fuoco un pentolone e prepa-rava una quintalata di minestrone con tutto ciò che aveva a disposizione e ne mangiava un po’ al giorno insieme ai cani, quando arrivava alla domenica do-veva usare coltello e forchetta – non è dato sapere cosa usassero i cani -.Ancora oggi qualche moglie che dovesse presentare sulla tavola per due giorni di seguito la stessa pie-tanza sentirebbe il marito salmodiare più o meno bonariamente : Così ce faceva Storre, al lunedì met-teva…………L’unico reddito che possedeva, oltre alla fedeltà dei cani, era una pensione certo non di grande en-tità – ma tanto lui di bisogni terreni ne aveva vera-mente pochi – che comunque risultò essere la sua rovina.Si narra che un fantomatico fratello fu scoperto da Storre mentre frugava nella sua casupola alla ricer-ca del malloppo, ne nacque una rissa dove il nostro povero eroe perse la vita.Questa è la storia più o meno documentabile di Storre; la leggenda, che non ha bisogno di prove, è che i quattro cani continuano a scorrazzare sulle colline intorno a Foligno in attesa che qualche vec-chio lunatico dalla barba bianca più o meno pulita riprenda i loro guinzagli.

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