cicerone: politica e cultura in roma antica

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E' un breve articolo di letteratura latina in cui si esamina la figura poliedrica di Cicerone come oratore e filosofo eclettico, a metà tra stoicismo e scetticismo, il grande ponte tra la cultura classica e quella romana, un avvocato infaticabile, strenuo difensore della Repubblica romana, ma anche amico "opportunista", un formidabile oratore capace di trasformare le proprie arringhe nei processi in veri e propri "spettacoli teatrali"; con lui la retorica conosce il suo vertice nell'eleganza stilistica. Oggi sarebbe uomo di "destra" o di "sinistra"? A mio avviso di destra, ma di quella destra illuminata, alla Indro Montanelli, che non esiste più nella società italiana. E' il frutto di una giornata di studio organizzata dall' "Associazione Italiana di Cultura Classica" a Pontedera (Pisa), con la preziosissima partecipazione di Antonio La Penna, illustre latinista dell'Ateneo fiorentino.

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MARCO MARTINIMARCO MARTINIMARCO MARTINIMARCO MARTINI

CICERONE: POLITICA E CULTURA IN CICERONE: POLITICA E CULTURA IN CICERONE: POLITICA E CULTURA IN CICERONE: POLITICA E CULTURA IN

ROMA ANTICAROMA ANTICAROMA ANTICAROMA ANTICA

EDIZIONE ISSUU.COMEDIZIONE ISSUU.COMEDIZIONE ISSUU.COMEDIZIONE ISSUU.COM

ASSOCIAZIONE ITALIANA DI CULTURA CLASSICA “ATENE E ROMA”. Giornata di studi, Fondazione “Museo Piaggio”, v. R. Piaggio, 7, Pontedera (PI), merc. 10/10/07, h.09,30/16,30, esonero ministeriale prot. AOODG PER.13529 del 03/07/07 per partecipazione a

Convegno/Corso di Aggiornamento. CICERONE: POLITICA E CULTURA IN ROMA ANTICA

1. Introduzione. Interventi di Laura Marconcini Turini (Presidente della delegazione A.I.C.C. di Pontedera) e Mario Citroni (Istituto Italiano di Scienze Umane), 2. Cicerone accusatore: narrazione ed argomentazione nelle Verrine (Gianluigi Baldo, Università di Padova). 3. L’esilio di Cicerone: la lontananza ed il ritorno (Rita degl’Innocenti, Università di Firenze). 4. L’interpretazione narducciana di Cicerone (Antonio La Penna, ordinario di Letteratura Latina a riposo, Università di Firenze). 5.Le ‘familiares’: formazione di un epistolario (Alberto Cavarzese, Università di Verona). 6. Cicerone: l’impero di Roma come ‘patrocinio’ del mondo (Paolo Desideri, Università di Firenze).

RELAZIONI DEL SEMINARIO 1. Introduzione. Marco Tullio Cicerone rappresenta un modello unico sul piano linguistico, come si nota dalla varietà di registri adottati:è un autore-guida nella cultura dell’Occidente. Fu un grande politico, un oratore ed un filosofo eclettico che fino alla morte si è battuto strenuamente per la Repubblica. Il latinista Emanuele Narducci, recentemente scomparso, è stato un insigne studioso di Cicerone: ci ha presentato la figura di Cicerone nella storia. Fino all’Ottocento, Cicerone costituirà infatti un archetipo da imitare sia per i conservatori che per i liberali. Nel 2007 ricorre il 25° anniversario del “Certamen in Ponticulo Herae” di Pontedera, che ha avuto come oggetto proprio una versione di Cicerone, modello ideale di politica e cultura, dalle Epistolae alle Horationes (come la celebre Orazione contro Lucio Sergio Catilina). Ma Cicerone è un autore fondamentale anche per la piena comprensione degli autori contemporanei. L’A.I.C.C. (Associazione Italiana di Cultura Classica) ha sempre partecipato anche al “Certamen Florentinum”. Emanuele Narducci fu, negli anni ’70, un giovane intellettuale impegnato a sinistra, una difficile conciliazione, vista allora con sospetto sia da destra che da sinistra. Trovò un costante punto di riferimento culturale, quale antichista, in Antonio la Penna. Al Liceo Classico fu allievo di Marino Reicich, docente di latino e greco, direttore del Gabinetto Scientifico-Letterario “G.P.Vieusseux” di Firenze, deputato del P.C.I. Dagli iniziali interessi verso Lucano, Narducci spostò in seguito la sua attenzione su Cicerone e sulla transizione politica dalla Repubblica al Principato augusteo. Vide nella monarchia romana il superamento delle guerre civili. La cultura di Lucano affonda comunque le sue radici nell’Eneide di Virgilio. Anche La Penna, altro latinista ed intellettuale di sinistra, è un grande studioso di Virgilio, come di Sallustio e di Cicerone. Narducci, quale antichista di sinistra, collaborò a varie riviste, come i “Quaderni di storia” e “Belfagor”, in cui si prosegue la tradizione di Antonio Gramsci, fondatore del P.C.I. nel 1921 a Livorno e studente, a suo tempo, di lettere classiche all’Università di Torino. A partire dal 1979, l’Istituto “Gramsci” di Firenze pubblicò gli studi ciceroniani e le recensioni di Narducci, il tutto presentato in seguito ai seminari della “Scuola Superiore Normale” di Pisa. Narducci, pur non essendo un esperto, ebbe una conoscenza diretta dei testi di Hegel, Marx, Engels, Gramsci, ma in particolare di Marx; studiò anche l’estetica di Luckàcs, T.W.Adorno e la Scuola di Francoforte. Nel percorso intellettuale di Narducci si nota un costante metodo storico, oltre che analitico. Non fu un marxista ortodosso, anche se studiò Luckàcs: in più occasioni manifestò la sua avversione verso l’ortodossia marxista. Altro maestro di Narducci fu il classicista Sebastiano Timpanaro. Compito primario del Princeps, per Cicero, è garantire l’ordine sociale più che la giustizia sociale: questo è il Cicerone di Narducci, ma Cicerone, come emerge dalle opere filosofiche, è anche il filosofo al quale sta a cuore il bene della collettività, e quindi la giustizia e l’etica, come emerge sia nelle Verrine che nel ricchissimo epistolario, destinato a diventare, nel Rinascimento, modello ideale da imitare sul piano linguistico (si svilupperà infatti il canone del “ciceronianesimo”, sia pure al prezzo di una certa mancanza di originalità). Cicerone è stato anche un grande “sociologo del mondo antico”: conosce e studia usi, costumi, tradizioni e rapporti sociali; particolare attenzione dedicò al tema dell’amicizia, come emerge dal noto De amicizia. La ricchezza di Cicerone consiste nella varietà dei suoi interessi, un eclettismo, anche in sede filosofica, mai scaduto nella superficialità: questo è il Cicerone presentato da Narducci nella sua collaborazione a riviste quali “Atene e Roma” ed all’Istituto Papirologico “Vitelli” di Firenze; fu infatti docente all’Università di Firenze. Nota è la rivista di antichistica “Atene e Roma”, con sede a Roma, diretta dallo storico della filosofia antica Francesco Adorno, docente a riposo di storia della filosofia antica nello stesso Ateneo fiorentino.

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2. Cicerone accusatore: narrazione ed argomentazione nelle Verrine. Cicerone, questore a Siracusa, accusò di peculato il governatore della Sicilia, Gaio Verre; il processo durò 9 giorni, dal 5 al 13 agosto. Verre fu condannato all’esilio e ad una sanzione pecuniaria molto bassa. Il processo si svolse in 3 fasi, ma i discorsi di Cicerone sono relativi alla prima ed alla terza, mentre il l’orazione che il celebre retore romano preparò per la seconda fase non fu mai pronunciato, ma solo discusso. A Cicerone non importava vincere le cause, ma dimostrare la sua arte oratoria, trasformare cioè il processo quasi in una finzione letteraria. A Cicerone interessa quindi l’ “arts” oratoria. In termini moderni, l’accusa mossa a Verre, fu quella di concussione. Particolare magniloquenza hanno l’incipit dei suoi discorsi: l’esordio è sempre grandioso. Nel De praetura urbana Cicerone insiste sulla “faccia di bronzo” di Verre quando si appresta a rispondere. Verre operò in Sicilia, ove scrisse una compromettente lettera a Dione, in cui chiede una falsa testimonianza, quella di avere ricevuto denaro, in realtà rubato, come eredità. “Narratio” ed “Argomentatio” s’intrecciano nello stile ciceroniano.di questa dissertazione. Cicerone amplifica la “narratio” con vera retorica: lo scopo è quello di incriminare Verre e la classe politica cui appartiene (De praetura siciliensi). Nel De signis Cicerone entra nel merito dell’accusa, anche a scapito, in questo caso, di una certa penalizzazione della retorica: Cicerone vuole qui esporre i fatti. In tutta la Sicilia, regione così ricca ed ospitale, non esiste una sola pietra che Verre non abbia esaminato e sottratto: Verre è quindi colpevole in tutto. Ha rubato pitture, sculture, vasi, oro, avorio. Lo stile adottato, afferma Cicerone stesso, non è dettato dall’enfasi retorica, ma dalla volontà di condannare Verre, è quindi necessario aderire alla realtà non con l’enfasi retorica, ma con la chiarezza della “narratio”. Messina e Siracusa furono le due città amiche di Verre, ma alla fine i siracusani si schierarono con Cicerone, contro Verre. La “narratio”, nel De signis, ha quindi il sopravvento sull’ “amplificatio”. Cicerone sa quindi uscire con grande maestria, dall’enfasi retorica, come si vede nella parte in cui descrive il furto della statua di Cerere: è un crimine religioso. I Siciliani lamentano, scrive Cicerone, più l’oltraggio religioso che non il danno subito: si chiede infatti di punire Verre per il reato religioso, in modo che l’espiazione di Verre possa essere un valido deterrente per possibili analoghe vergognose azioni. L’intera Sicilia è coinvolta in un enorme sacrilegio, che ha colpito l’animo dei siciliani, suscitando una forte superstizione, ritenuta un male dell’anima, in questo caso provocato da Verre. Cicerone sa bene che il reato religioso non è espiabile, ma utilizza il mito greco della superstizione per chiedere al giudice di condannare Verre, responsabile di tale superstitio dei siciliani, all’esilio. Cicerone punta quindi il dito sul danno psicologico provocato da Verre. 3. L’esilio di Cicerone: la lontananza e il ritorno. Cicerone trascorre la maggior parte del suo esilio guardando all’Italia ed in particolare a Roma con enorme nostalgia e dolore, come ci illustra Plutarco nelle sue Vite. Filisco si rivolge a Cicerone biasimando il dolore dell’oratore per l’esilio, paragonabile a quello di una donna; Cicerone è un intellettuale che soffre la sua condizione di esule; anche nei Sonetti di Foscolo si avverte lo stesso sentimento di dolore. L’epistolario contribuisce quindi ad illustrarci l’esilio di Cicerone. Il referente dell’epistolario ciceroniano è sempre Roma: Cicerone dichiara di essere tanto afflitto per la sua condizione di esule da non aver neanche voglia di scrivere, anche se trascorre il suo esilio in Grecia, terra culturalmente fertilissima. Ha paura soprattutto di essere dimenticato e di non poter riprendere il suo lavoro:è lo stesso timore che Machiavelli descrive nella Lettera a Fratesco Vettori. Non esistono saggezza filosofica, o buon senso o lettura che possa consolare una disgrazia così grande: l’esilio è considerato peggio della morte ed il tempo non mitiga, ma accresce tale dolore. Nelle Epistolae Tusculanae Cicerone dichiara di essere comunque in pace con la sua coscienza, consapevole di non aver agito male. Nell’Epistolario usa varie metafore per esemplificare il dramma dell’esilio, una caduta inconsolabile che provoca la perdita dell’identità personale. Commoventi, in proposito, le lettere scritte al fratello, in cui emergono temi tragici riscontrabili nell’Antigone di Sofocle: Cicerone si paragona all’eroe ferito, che può essere guarito solo dal suo feritore, un console, nel caso di Cicerone. Preferisce l’amor patrio ad un generico cosmopolitismo di maniera. Il ritorno di Cicerone a Roma fu trionfale, in occasione dell’inizio dei ludi romani, il 4 settembre del 57: i brindisi per festeggiare il suo ritorno durarono un mese. Cicerone si paragona ad un “secondo Romolo”. Cicerone rientra nella sua casa romana ed enfatizza in modo teatrale il suo ritorno, in modo da esercitare un fortissimo peso psicologico sui Romani; Cicerone si presenta non come un reduce, ma come un trionfatore, accolto anche dalle mura, e non solo dalle genti. Immagina di essere tornato a Roma su un carro trainato da bianchi cavalli. Si presenta come un capro espiatorio che è stato immolato sull’altare della patria, come scrive nell’Epistola al popolo romano, di fatto un’orazione. Nel valutare il rapporto di Cicerone con la filosofia stoica bisogna tener presente il rapporto con il popolo romano: dichiara che nessuna ingiustizia può privarlo della “virtus”, non quella militare, ma esistenziale. Nei Paradossi degli stoici (29,s.) Cicerone

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affermò che l’esilio non lo aveva infatti privato della sua libera coscienza. Nell’Orazione ai senatori, infine, Cicerone si presenta come campione della morale e denuncia i suoi accusatori Gabinio e Piso di non essere dei consoli, ma dei “mercanti ambigui” e li paragona agli “avvoltoi”. 4. L’interpretazione narducciana di Cicerone. Narducci ha studiato il rapporto “antitetico”, sul piano letterario, di Virgilio con Lucano, ma soprattutto ha studiato l’etica di Cicerone, l’etica della vita quotidiana. Mirabile fu il suo ritratto di Cornelio Nipote, visto più come un personaggio che come un autore. Nelle sue biografie dei personaggi antichi Narducci fa infatti delle descrizioni “a tutto tondo”. Nel De amicizia emerge l’importanza che Cicerone conferisce alla stima presso gli altri. Cicerone era un uomo in grado di adattarsi ai tempi che cambiano ed agli ambienti che frequentava: questa “flessibilità” di Cicerone gli consentì di avere buoni rapporti con l’imperatore, anche se difese la Repubblica: ciò condusse la critica ad accusarlo di opportunismo. L’interpretazione di Narduci si muove in questa direzione. Lo stoicismo ciceroniano penetrò nella Francia del ’500 e del ‘600 ed in particolare nel filosofo Montagne, per il quale sono importanti i rapporti con gli altri. Ma nel De amicizia si ritrovano anche elementi epicurei:presso gli epicurei l’amicizia era infatti considerato il migliore dei beni ed il regalo più prezioso fatto agli uomini dagli Dei. Nell’ultima fase della Repubblica, insanguinata dalle guerre civili, la voce di Cicerone si leva come ultimo, disperato appello alla ricerca di valori etici assoluti, e non relativi. Per Narducci si possono infatti paragonare, come “secoli brevi”, per usare un’espressione che ricalca il famoso studio dello storico americano Hobsbawm, l’ultima fase della Repubblica romana con il ‘900, iniziato con la Grande Guerra e conclusosi nel 1991 con il crollo del socialismo reale nell’Est europeo. Entrambi i periodi sono infatti caratterizzati da violente lacerazioni civili. Cicerone è un autore studiato molto, oltre che in Francia, come si è detto, anche in Italia, sia nell’Ottocento che nel ‘900, da Carducci, a Verga, a Gadda: quest’ultimo ci offre un’immagine “trasformista” del grande oratore latino assai cara a Narducci. 5. Le ‘familiares’: formazione di un epistolario. Cicerone ebbe la piena consapevolezza di essere un grande scrittore: nelle Epistolae Cicerone non ha intenti storici, perché gli antichi non cercano la storia nelle lettere. Cicerone sottopose il proprio epistolario ad un rigido esame linguistico, anche se tale revisione lessicale e sintattica ha sicuramente recato nocumento alla spontaneità della prima stesura. L’originalità di Cicerone si riscontra, come ha affermato la critica, nelle lettere quotidiane, nelle quali si trattano argomenti di tutti i giorni. Tutti i carteggi di Cicerone furono pubblicati postumi. E’ questa anche la tesi del classicista Luciano Canfora. Spesso, nelle lettere private,la cronologia risulta alterata, per cui è impossibile una ricostruzione diacronica dell’epistolario ciceroniano, per cui si predilige quindi una distinzione tematica. 6. Cicerone: l’impero di Roma come ‘patrocinio’ del mondo. Il “patrocinio” costituisce il complesso degli obblighi del patrizio verso la “clientela”: i “clientes” hanno infatti origini antiche, all’inizio della Roma monarchica, in cui i patrizi sarebbero i patrocinatori ed i plebei i “clientes”. Attraverso il sistema delle clientele i patrizi assicurano protezione ai plebei, come l’Impero romano alle sue colonie. Il sistema delle clientele percorre quindi tutta la storia romana. Cicerone parla spesso delle clientele straniere, come afferma Mayer: il “patrocinium” non è una “virtus” in antitesi con l’ “imperium”, che non è una “vis”; piuttosto il patrocinio diventa uno strumento di governo, di “imperium”. La forza militare è talvolta, afferma Cicerone, necessaria anche per affermare scopi benefici (cfr. Div. in Caec., 65, sgg.). Cicerone denuncia la crudeltà di certi comportamenti nei confronti delle province, in sintonia con Sallustio. La guerra giusta è quella di difesa, non di offesa, per Cicerone, ed è possibile solo quando si governa con il “beneficium”. Il “patrocinium” implica un senso di responsabilità molto forte per l’impero romano:l’impero romano, che vuole porsi come protettore del mondo, non può esimersi dal governare con giustizia ed a tal fine è essenziale il ruolo del Senato. Il ricorso alla forza ed alla guerra, per Cicerone, è legittimo solo se sono falliti i tentativi di pace precedentemente effettuati e solo se ha come fine la pace: questa è la tesi ciceroniana della “guerra giusta” (cfr. De officiis). I vincitori devono poi, per Cicerone, rispettare i vinti, se questi non si sono comportati in modo iniquo in battaglia. Lattanzio nella Div. Inst. precisa che il giusto e l’utile spesso non coincidono: tale tema si ritrova in Cicerone come nel Principe di Machiavelli. La giustizia deve, afferma Agostino nel De civitate Dei, impedire ai malvagi di agire. Per Aristotele il dispotismo non dev’essere esercitato su chi non se lo merita, come non si cacciano animali che non sono pericolosi (Politica). Tuttavia Aristotele, nella Politica, legittima la schiavitù e dichiara giusta una guerra contro coloro che, schiavi per natura, non accettano la loro condizione. Cicerone, pur ammettendo la schiavitù, riserva comunque un trattamento privilegiato ai Greci, verso la cui civiltà il mondo romano è debitore. Anche la libertà va data, afferma Cicerone, a chi se la merita, in altro modo non

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sarebbe compatibile con il “patrocinium” romano. In proposito, Cicerone giustifica l’espressione di catone il censore “Chartago delenda est” perché i cartaginesi si rifiutarono di distruggere la loro città e ricostruirla a 15 chilometri nell’interno, come invece i Romani avevano ordinato; allo stesso modo è per Cicerone stata legittima anche l’altra grande distruzione del 196 a. C. (il 196 a. C. è stato infatti definito “l’anno delle grandi distruzioni”), quella di Corinto, poiché gli abitanti si rifiutarono di obbedire alla “Dura Lex Romana”. Il problema, per Cicerone, è cercare le condizioni affinché non si verifichino tali atti di disobbedienza. Tutto questo, per Cicerone, è il “patrocinium”, il complesso della forza morale e militare.