come tralci n.1 2013

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Anno 1 - Numero 1 - Luglio-Ottobre 2013 Linfa di Vita dei Camilliani d’Italia 1

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Linfa di Vita dei Camilliani d'Italia

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013

Linfa di Vitadei Camilliani d’Italia

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SOMMARIO

Editoriale5 Brindiamo con il vino del nuovo Vigneto P. C. Vanzo7 Bucchianico, Lampada accesa sul monte della sanità IV Centenario di San Camillo 34 L’Anno Giubilare inaugura un nuovo corso in tutto il Mondo Camilliano Giorgio Trasarti36 Bucchianico, la città posta sul monte Giorgia-Giovanna-Anna- Rino38 Convegno internazionale alla Maddalena e Marcia verso San Pietro Floriana Taurelli40 Malattie Neglette: la testimonianza di un Missionario P. P. Guarise44 Convegno alla Cà Granda di Milano Marisa Sfondrini

Pastorale 50 Gesù - Il suo umorismo auto-delatorio P. D. Ruatti

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Come TralciBollettino delle Province Italiane Ufficiale per gli Atti di Curia

Anno 1 - Numero 1 - Luglio-Ottobre 2013

Linfa di Vita dei Camilliani d’Italia

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Formazione 52 Al di sopra di tutto ... l’unità. Nascita della Provincia Italiana P. M. Bizzotto57 Vivere insieme al di là della convivenza P. S. Palumbo

Dal Mondo Camilliano60 Il Cambio di guardia per la Cappellania dell’Ospedale di Niguarda Ennio Carobolante62 Nella splendida cornice di Bolca: festa e 400 anni di S. Camillo Alessandro Dr. Norsa64 Tappe di un giro in bici nelle Comunità della Provincia P. E. Gavotti76 Suggerimeti fraterni ad un confratello ciclista ... P. R. Corghi77 Dal Tirreno all’Adriatico in bicicletta P. P. Guarise83 Con la testa fra le nuvole e il cuore nelle mani Antonia - Pia - Pace85 Torino: torneo triangolare di calcio Franca Berardi86 Un “cuore” che batte ancora ... Simone Iuliano

F.C.L. (Famiglia Camilliana Laica)88 Quelle cento braccia ... Marisa Sfondrini91 Una giornata al monastero di Bose per la F.C.L. Rita93 A conclusione di un anno Marisa Sfondrini95 La F.C.L. di Verona saluta il Consulente Dianalori

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Ricordiamo i nostri morti 96 P. Onorio Zeppa

98 P. Vincenzo Minerdo

100 P. Dino De Zan102 Partecipazione della Delegazione Colombia-Equador P. Juan Pablo103 Omelia al funerale ad Osigo P. B. Nespoli108 Testimonianza di un amico Ezio

110 Fr. Giovanni Petrin113 Liturgia funebre per Fr. Giovanni Petrin P. M. Bizzotto116 Fr. Giovanni: dove c’é amore c’é creatività P. F. Chech

118 P. Alberto Roman120 Omelia in memoria di P. Alberto P. B. Nespoli123 Saluto a P. Alberto: il suo profilo spirituale P. M. Bizzotto125 Ricordi di un confratello missionario P. M. Didoné127 P. Alberto: parroco e amico dei malati P. A. Zambotti129 Per molti anni ha volato nel cielo d’oriente, negli ultimi si è ‘messo in cattedra’ P. C. Vanzo

130 Preghiamo per i nostri morti

131 Attilio Giordani

Sommario

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Direttore: P. Carlo Vanzo

Collaboratori: P. Antonio Marzano, Alfredo Tortorella, Franca Berardi

Direzione e Redazione: Religosi Camilliani - San Giuliano Via C. C. Bresciani 2 - 37124 Verona Tel. 045 8372723 /8372711 (centralino)E-mail: [email protected]

Progetto grafico, realizzazione e stampa: Editrice Velar - Gorle (BG)www.velar.it

In copertina:Bucchianico, ammantato di vigne, visto dall’arco della casa di Giovanni De Lellis. Qui Camillo è nato, ha vissuto l’infanzia e la sua svogliata giovinezza. All’amato paese natale tornava sempre con gioia e nostalgia. Ma la ‘sua vera vigna’ sarà l’ospedale. Qui Camillo diventerà il tralcio rigoglioso, innestato alla vera Vite, il Crocifisso, per produrre il vino che dà speranza e rallegra il cuore del malato. (Progetto grafico T-Studio s.n.c).

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Editoriale

Brindiamo con il vino del nuovo Vigneto

“Interroga la madre terra e ti darà il pane per la vita. Interrogala ancora e ti darà il vino che rallegra il cuore dell’uomo”.

‘Come tralci’ è il titolo scelto per il nuovo Bollettino delle Province Camilliane d’Italia. Il mio pensiero corre spontaneo ai dolci vigneti che adornano le nostre colline e all’intense parole nell’ultima cena quando Gesù saluta i ‘suoi amici’ e raccomanda loro di essere in comunione con lui, “come i tralci innestati alla vite”. Con qualche preoccupazione, ma... con tanto entusiasmo e speranza, ci auguriamo che ‘Come tralci’ sia ancora il ‘diario di bordo’ del Camilliani d’Italia, in questo tempo di grandi sfide, di profondi mutamenti e di rinnovate speranze. Nei dibattiti televisivi molti alzano la mano per ‘prendere la parola’. Confidiamo che molti nostri Confratellii ‘prendano la parola’ attraverso ‘Come Tralci’ per raccontare e testimoniare la nostra storia.

Ci auguriamo che la vite, pianta tenace e generosa, capace di soffrire il freddo dell’inverno e di rifiorire ad ogni primavera, sia simbolo ed emblema anche della nuova realtà camilliana d’Italia, perché il ‘Carisma di Camillo’ fiorisca nel mondo della salute ed accanto ad ogni uomo che soffre ci sia chi dona il vino della conso-lazione e della speranza.

La vite! La puoi trovare ovunque ci sia un fazzoletto di terra: nell’aperta campa-gna, sui colli sassosi e sui monti scoscesi. Radicata ed aggrappata tenacemente alla terra, sa resistere al vento e alla tempesta, alla neve e al freddo, per rifiorire ad ogni primavera come annuncio di vita. Come rappresenta bene le stagioni della nostra vita, le nostre paure e le nostre speranze! Ci parla delle nostre quotidiane sfide nel mondo della sanità! Anche il dolore spunta ovunque dove ci sia un fazzoletto di vita. Ha bisogno di chi lo illumini e gli dia senso.

Figlio di un ‘buon e tenace contadino’, anche la mia infanzia e la mia giovinezza sono state abitate e sono cresciute all’ombra della vigna. Quanti ricordi!

Penso alla potatura d’inverno. I tralci più promettenti si stendevano, spogli, nel cielo e sembrava chiedessero un semplice ‘grazie’ per l’abbondante raccolta appena terminata. Una forbice crudele li tranciava e venivano buttati nel fuoco. Li

Ecco come un tralcio vive il suo inverno: potato con sofferenze e grondante ‘lacrime’, legato indissolubilmente a un filo di ferro e ad una vigna tenace, esposto al vento, al freddo e alla neve. Ma dentro ha la linfa della primavera, la speranza del sole che maturerà i suoi grappoli d’oro e il prossimo anno il vino rallegrerà ancora il cuore dell’uomo!

– 6 –

rivedo: sembrava piangessero grosse e fredde lacrime, ultime gocce della loro linfa. Non comprendevo, ma papà diceva:

“è doloroso ma necessario se vogliamo avere un buon raccolto anche il prossimo anno!”.

Ricordo le calde estati sotto i folti pergolati. Il tempo sembrava pigro e non passava mai, ma era il tempo necessario per produrre i fiori, le gemme, i tralci e poi i turgidi grappoli d’oro. Penso al

tempo della vendemmia, quando tutto sprizzava fragranza: i cesto-ni colmi d’uva bianca e nera; in cantina il grande tino per pigiarla,

rigorosamente con i piedi, il dolce mosto, che anche i bambini potevano sorseggiare.

Tutto era armonia: era la festa del vino, era la festa della vita! Sarà pur vero che il tempo colora i ricordi di poesia, ma questi ricordi sono una rima baciata, un bel ‘verso poetico’, una canzone gioiosa della lontana giovinezza.

Anche le nostre Province religiose italiane, come la vita personale di ognu-no, vivono le stagioni della vita così come la vite e i suoi tralci. La direzione del nostro Bollettino, che vede il coinvolgimento di delegati da ogni Provincia, si augura che continui ad essere il fedele diario di bordo e il sicuro bollettino di navigazione, una palestra libera e dialettica per confronti culturali, religiosi e pastorali. Perché non resti un volume da archiviare velocemente per passare alla storia, auspichiamo la collaborazione di tanti Confratelli che possono offrire il loro contributo, la loro esperienza di vita camilliana.

Quale stagione stanno vivendo i “tralci camilliani”?

Tante cose fanno pensare all’autunno, alle lacrime della potatura e al freddo inverno. Sarà vero, ma c’è anche una promettente primavera che sta bussando alle nostre porte. La speranza di essere sul giusto cammino e di andare verso un futuro gioioso nasce dalla certezza che siamo innestati alla vera Vite, il Cristo!

Il N. S. P. Camillo, nel 400° della sua dipartita per il Cielo, continui a sor-ridere e a benedire ‘la sua pianticella’, ‘la sua vigna’, perché la vendemmia sia sempre abbondante e scorra il vino del suo Carisma che rallegra il nostro cuore e dona speranza ad ogni malato.

P. Carlo Vanzo

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Bucchianico, lampada accesa sul monte della Sanità!

Con una solenne Concelebrazione Eucaristica, presieduta dal Vescovo di Chieti, Mons. Bruno Forte, con la partecipazione del Superiore Generale, P. Renato Salvatore e di molti Confratelli è stato aperto ufficialmente l’Anno Giubilare per il 400° della morte di San Camillo. Per un giorno il paese natale di San Camillo è diventato “la città posta sul monte”, perché il Carisma di Camillo sia speranza per tutto il mondo della sofferenza.

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IN TUTTO IL MONDO CAMILLIANO

Rinnovamento è la parola d’ordine che i Ministri degli Infermi si sono dati durante l’ultimo Capitolo Generale, tenutosi lo scorso maggio presso la Casa Divin Maestro di Ariccia (Roma).

La nuova Consulta, eletta in quell’oc-casione, è il segno di una fortissima volontà di proiettare l’Ordine verso il futuro. L’obiettivo è quello di conferi-re sempre maggiore rilievo alle nuove generazioni, che provengono principal-mente da Africa, Asia e Sudamerica, poggiando contemporaneamente sulla solida esperienza della compagine euro-pea. L’apertura ufficiale dell’Anno Giu-bilare per il IV Centenario della morte di San Camillo, avvenuta il 14 luglio a Bucchianico, ma celebrata contempo-raneamente in tutte le Province camil-

liane, è stata salutata ovunque con grande entusiasmo, proprio sulla scia di questo nuovo spirito che sta attraver-sando l’Ordine. La Santa Messa cele-brata da S. Ecc.nza Mons. Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto, trasmes-sa in diretta su RAI UNO dalla Piazza San Camillo de Lellis di Bucchianico, ha dato avvio a un anno cruciale per i Ministri degli Infermi e per tutti i fedeli che seguono il carisma del santo patro-no degli infermieri. Così, le innumere-voli iniziative che si sono susseguite nei giorni precedenti l’inaugurazione del IV Centenario e gli eventi che sono in cor-so o in programmazione in questi primi mesi dell’Anno Giubilare, stanno tra-ghettando la grande famiglia camilliana verso quella vita “fedele e creativa” a

iv Centenario di San Camillo

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cui sollecitava il motto del 57° Capitolo Generale.

Intanto, il rinnova-mento passa anche per la chiesa di Santa Maria Maddalena a Roma: infat-ti, ha preso il suo posto all’interno della Cappella dedicata a San Camillo la

nuova urna monumentale in bronzo, realizzata dallo

scultore di fama internazionale Alessandro Romano, legato al Santo da importanti vicende personali. L’urna, che ospita la Reliquia del corpo di San Camillo, è quindi ora parte integran-te del capolavoro del barocco-rococò romano, sede della Casa Generalizia. Anche la neonata Provincia Italiana partecipa con una serie di iniziative ed eventi. Un gruppo di operatori sanita-ri, collaboratori ed amici della Provin-cia è a Bucchianico da Verona con P. Carlo Vanzo per l’apertura dell’Anno Giubilare. Nello stesso giorno P. Gian-franco Lunardon celebra la S. Messa, trasmessa da Telepace e dà quasi il via alle celebrazioni della Provincia. È sta-to pubblicato, per questa circostanza, il volume “Un Messaggio di Misericordia - San Camillo de Lellis”, che presenta San Camillo e il suo Istituto in questi 400 anni di storia. Un compendio di pregiata fattura sulla figura del “Gigan-te della Carità” e sul cammino dei suoi eredi fino al giorno d’oggi.

Molte altre iniziative sono in corso di attuazione e verranno comunicate puntualmente. Tra le tante, ricordiamo il Pellegrinaggio a Lourdes del Gruppo Camilliano Amici di Lourdes, sul tema:

“Lourdes, porta della fede. San Camillo, porta della tenerezza per chi soffre”.

A Milano, all’Ospedale Cà Granda, dove Camillo ha lavorato e scritto le sue prime regole, si terrà un convegno sto-rico culturale: “Il messaggio di tenerez-za di San Camillo, a servizio dei malati della Cà Granda dal 1596 al 1613”. Sarà a disposizione, per chi lo richiede, un calendario/agenda per il 2014. Il volume tascabile prevede calendario liturgico giornaliero, preghiere per i momenti significativi e difficili della vita. È arric-chito da foto e scritti di Papa France-sco e San Camillo. Il titolo: “2014 sulle orme di Papa Francesco, un messaggio di speranza per i poveri. e sulle orme di San Camillo, un messaggio di tenerezza per chi soffre”. La Montefortiana, asso-ciazione sportiva e culturale di Monte-forte (VR) organizza anche quest’anno, nella sua 39a edizione, un ‘Concorso di disegno scolastico’ con il seguente tema: “Le tue mani colorano il mondo ... più anima in quelle mani! Ci guida la tene-rezza di San Camilllo per chi soffre”. Partecipano al concorso centinaia di scuole, e migliaia di bambini e giovani presentano i loro disegni. Ad ogni scuo-la è stato mandato, non solo il bando di concorso, ma anche buon materiale perchè gli studenti possano conoscere e trasmettere con i loro lavori il messaggio di San Camillo. Una giuria ne valuterà il valore e i migliori saranno raccolti in una mostra che girerà in varie scuole. I vincitori del concorso saranno ospi-ti a Roma nella Casa Generalizia dove morì San Camillo, e vi sono conservati il Cuore e il Corpo.

Giorgio Trasarti

Le nostre speranze e... i nostri sogni volano nel cielo di Bucchianico.

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BUCCHIANICO, LA CITTÀ POSTA SUL MONTE

Camillo amava il paese natale.Lo visitava spesso nel suo peregri-

nare apostolico da un ospedale all‘altro. Per la sua ‘patria’ usava parole dolci

e nostalgiche, parole forti e di rimpro-vero, parole di speranza, con la promes-sa di proteggerla dal Cielo.

Avrà sorriso, domenica 14 luglio 2013: la sua ‘patria’ è diventata, almeno per un giorno, la ‘città posta sul monte’ per presentare a tutti gli uomini di buo-na volontà, il Messaggio di Misericordia del suo più noto cittadino, il Santo Pro-tettore del Mondo della Sanità.

Era splendida Bucchianico, la cit-tà posta sul monte: tanta luce, colore e folklore ma anche tanto amore, pre-ghiera e devozione hanno caratterizza-to la Festa di San Camillo in occasione dell‘apertura dell‘anno giubilare per il 400° del suo Dies natalis. Molti si sono dati appuntamento a Bucchianico, mol-tissimi hanno potuto vedere e cogliere il messaggio del Santo della carità verso chi soffre attraverso i mass media.

Anche la Provincia Lombardo Vene-ta era presente con i suoi rappresentanti ufficiali, ma anche con un folto gruppo di devoti e ‘tifosi’ di San Camillo.

Riportiamo, in breve sintesi, le impressioni di alcuni partecipanti tra i molti che hanno espresso la loro pro-fonda gratitudine (p.v.c.).

messaggio: “incominciare ad usare

Partiti sabato mattina all‘alba, dopo aver fatto tappa a Loreto, siamo giunti a Chieti in serata, stanchi ma conten-ti di camminare sulla terra di Camillo. Ripreso il cammino, abbiamo conosciu-to la sua Bucchianico, un paesello, in principio “terra di stupide rivalità”, che doveva difendersi dalle guerre dell‘epo-ca, diventata poi la terra dove il nostro Camillo ha imparato a combattere per il suo Signore che lui riconosceva negli ultimi, nei poveri e negli ammalati.

Chi è San Camillo? Un uomo con-vertito dal vizio al servizio, un religioso umilissimo e coraggioso, sicuro e deciso: “Più anima in quelle mani!”, diceva ai suoi seguaci ed aiutanti. Un uomo che ha imparato a seguire la sua Stella, il suo Crocifisso, che lo porterà a diventare sacerdote con due mani che lui avrebbe voluto fossero mille, ed un cuore che è ancora vivo tra noi, a battere per la stessa passione in tanti uomini che con-dividono con lui il carisma.

Di questo viaggio rimane molto: c‘è chi si è portato a casa la storia di San Camillo, chi la speranza, ravvivata, nella guarigione di qualche malato, chi lo stupore della fede di così tanti sco-nosciuti, tutti amici. Un viaggio cul-minato nella Santa Messa celebrata in una piazza gremita di gente: camillia-

come faceva San Camillo, al Santuario di Loreto.

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ni, sacerdoti e suore, oltre a tanti fedeli. È stato bello esse-re lì, nei luoghi di San Camillo. Grazie a lui e per lui è sta-to un‘esperienza di unità, di fratellan-za, di amicizia e di solidarietà con chi soffre. Il viaggio è stato interessante ed arricchente anche

per alcune testimonianze regalateci da padre Giovanni Rizzi e padre Luigi Galvani (missionari camilliani rispet-tivamente in Taiwan ed Indonesia). Ci hanno intrattenuti con il racconto appassionato delle loro attività di assi-stenza e di evangelizzazione.

Un ‘rosario’, corona di rose con Maria per Gesù, ci ha aiutati a lodare il Signore e a ringrazialo per il suo amore e per i tanti doni ricevuti.

Noi, “popolo in cammino”, in que-sto paesino apparentemente anonimo, tranquillo e semplicemente bello da vedere, abbiamo tratto i frutti migliori: l‘esperienza della fratellanza e l‘impor-tanza della Croce, da abbracciare con amore come ha fatto il nostro Santo.

Il compito affidatoci è quello di por-tare ad altri l‘attenzione verso i poveri, i sofferenti tutti, i bisognosi di amore, fede, speranza, carità.

La sensazione è che non bastino le nostre mani a riempire questo bisogno, ma forse la consapevolezza di averle può già bastare per cominciare ad usarle per gli altri, per i malati che san Camillo chiamava ‘miei Signori e Padroni’.

E poi ... abbiamo il suo cuore, che è ancora lì, quasi intatto, nel ‘cubiculum’

dove è morto, per ricordarci che da soli non possiamo nulla, ma possiamo tutto in Gesù. (Giorgia)

Sono riconoscente a chi mi ha dato l‘opportunità di partecipare all‘apertu-ra dell‘anno Giubilare di S. Camillo a Bucchianico, dove ho percepito profon-da partecipazione e voglia di credere. Questi due giorni hanno destato in me serenità e speranza, sentimenti preziosi nel momento così fragile e incerto che tanti di noi stanno vivendo. (Giovanna)

Bellissima la cornice della piazza di Bucchianico. Molto, molto toccante la cerimonia ufficiata, profusa di profonda spiritualità. Il ricordo dell’importante opera umanitaria, prima ancora che religiosa, svolta da Camillo De Lellis, ci ha stimolati a guardare con occhi più attenti alle sofferenze altrui. Palpabile l’attenzione, l’interesse dei pellegrini nei confronti delle parole dei Cele-branti e dei racconti dei Missionari Camilliani, dell’importante testimo-nianza d’amore e di fede che contrad-distingue il loro duro lavoro per aiutare i più deboli e malati. Abbiamo potuto capire tutto l’amore che li sostiene in questo duro cammino, abbiamo visto la stima che i giovani pellegrini orien-tali hanno palesemente dimostrato nei confronti di Padre Rizzi. Abbiamo colto l’entusiasmo missionario di Padre Gal-vani nella neonata Missione Camillia-na in Indonesia. La loro accattivante umanità, umiltà e semplicità catturano l’attenzione e l’interesse di chi ha la fortuna di interagire con loro. Grazie P. Carlo per averci dato l’opportunità di partecipare a questa festa e di averci fatto vivere un’esperienza di amicizia e di fede. (Anna e Rino Nicolis)

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CONVEGNO INTERNAZIONALE ALLA MADDALENA E MARCIA VERSO SAN PIETRO

Sabato e domenica 19 e 20 ottobre 2013, nel cuore di Roma, nella Chiesa e Casa madre dei Camilliani alla Mad-dalena, si è svolto un Convegno inter-nazione sul tema ‘Le malattie neglette’ e una marcia gioiosa per le strade di Roma, percorse da San Camillo quan-do si recava all’Ospedale Santo Spirito.

Un appuntamento significativo nel-la celebrazione dei 400 anni dalla morte del Santo della Carità verso i malati, che ha fatto riecheggiare la sua voce e la sua testimonianza in una Roma distrat-ta ed intasata dai mille turisti.

Un plauso riconoscente all’Asso-ciazione Veronese ‘Montefortiana’ con Gianluigi Pasetto, alla ‘GlaxoSmithKi-ne’ col Dr. Giuseppe Recchia, agli Amici di Isola della Scala con Roberto Bonfan-te e i cuochi del Risotto vialone nano, che con i Religiosi Camilliani di Verona hanno voluto e gestito magistralmente questo evento per San Camillo e per tutto il mondo della sanità: un conve-gno provocatorio e propositivo con la partecipazione dei maggiori esperti sul tema delle malattie neglette; una mar-cia per le strade di Roma per portare la preziosa presenza di Camillo nella sanità e un momento di gioiosa fraternità per tutti i partecipanti all’evento.

Il Simposio Internazionale “Le sfide delle malattie neglette”, un’occasione di riflessione sul tema ad altissimo livel-lo, si è svolto presso la Sala Capitolare della Casa Generalizia dell’Ordine. Il convegno ha visto la partecipazione di autorità come P. Augusto Chendi, M.I., Sottosegretario al Pontificio Consiglio degli Operatori Sanitari per la Pastora-le della Salute, e Don Andrea Manto, Direttore della Pastorale della Salute del Vicariato di Roma. Il Ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, ha inviato per l’occasione un messaggio ai parte-cipanti, nel quale ha voluto ricordare come sia importante implementare e diffondere le strategie messe a pun-to dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), in quanto possono real-

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mente ridurre il carico di malattie e rompere il ciclo di infezione, disabilità e perdita di opportunità che mantengono le persone in uno stato di povertà.

Il giorno seguente si è svolta la mar-cia di solidarietà. “In cammino con San Camillo per le strade di Roma” ha potu-to dare grande visibilità alla lotta alle malattie neglette e ai “malati dimenti-cati”. Più di mille persone si sono date appuntamento presso la chiesa della Maddalena in Campo Marzio. Dopo la Santa Messa, il Superiore Generale, P. Renato Salvatore, ha dato il via alla marcia.

Con striscioni, bandiere ma soprat-tutto con canti e preghiere, i marciatori hanno attraversato le vie del centro sto-rico di Roma, portando un messaggio di amore e solidarietà. Da piazza del Pan-theon il corteo si è snodato verso San Pietro per via dei Coronari, seguendo il percorso che proprio San Camillo com-piva quotidianamente per recarsi dalla

Casa Generalizia all‘Ospedale Santo Spirito per assistere gli ammalati. Rag-giunta piazza San Pietro, anch’essa gre-mita, i partecipanti hanno assistito con commozione all’Angelus di Papa Fran-cesco. I pellegrini, prima di ripartire, hanno avuto la possibilità di visitare il “Museo San Camillo de Lellis”, recen-temente rinnovato, ampliato e arric-chito, e il “Cubiculum Santi Camilli”, la stanza dove il 14 luglio 1614 salì al cielo il Gigante della Carità e dove è attualmente conservata la Reliquia del suo Cuore. Come ultimo messaggio è stata proiettata la fiction “Pregate per me”: racconto filmico dell‘ultimo anno di vita del Santo Patrono degli Infermi.

Siamo sicuri che il Gigante della Carità ci ha sorriso dal Cielo. Ci augu-riamo ancora che il suo ‘messaggio di tenerezza per chi soffre’ sia accolto da tutti, perchè accanto a chi è nel dolore ci sia sempre chi dona speranza.

Floriana Taurelli

Roma, 20 0ttobre 2013.

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MALATTIE NEGLETTE: LA TESTIMONIANZA DI UN MISSIONARIO

Invece che definire la malattia come stato patologico dovuto a cattivo funzio-namento di un organo del corpo, penso sarebbe meglio considerare la malattia sotto un’altra prospettiva, e cioè veder-la come mancanza di salute, dato che è dalla salute, in quanto armonia del cor-po e della persona, che dobbiamo par-tire. Giustamente la scienza, i governi, la Chiesa si attivano in tutti i modi per combattere la malattia, cercando di eli-minarla o quanto meno di ridurla. Ma che dire di quelle malattie di cui pochi o nessuno si occupa, a tal punto da chia-marle neglette, cioè dimenticate?

Non è mio compito illustrare quali esse siano: primo perché non ne sarei capace, e poi perché c’è tuttora discor-danza circa la loro definizione. Il mio obiettivo è di formulare – nella mia capa-cità di cristiano, di ministro degli infermi, di missionario – alcune riflessioni nella speranza che queste contribuiscano ad affrontare in modo migliore il proble-ma delle malattie neglette, che colpisce milioni di persone nei paesi in via di svi-luppo, in particolare in Africa e in Asia.

o trascurare una malattia?In quanto cristiani abbiamo un

comando chiaro, poiché Cristo mandò i suoi discepoli «ad annunciare il regno di Dio e a guarire gli infermi» (Lc 9,2). Dal punto di vista sociale non ci dovrebbe essere distinzione tra tipi di malattie e, di conseguenza, tra categorie di malati, dato che come figli di Dio e come citta-dini siamo tutti uguali. Purtroppo con-statiamo, quale dato di fatto, che esiste una sorta di “gerarchia” nell’approccio

al malato e alla malattia, e quindi nella terapia e nella cura (nota bene: non mi riferisco qui alle necessarie distinzioni fatte a livello clinico-scientifico). Da dove nasce tale gerarchia? Perché viene fatta – più o meno volutamente – una classifica, una selezione delle malattie, cosicché ci sono le malattie, per così dire, di sera A e le malattie poste nell’ul-tima divisione? Varie sono le cause che portano all’esistenza delle malattie neglette; proviamo a nominarne qual-cuna: la priorità data a certi program-mi nel piano economico e sanitario, la diversità di strategie, la lontananza geo-grafica dai luoghi dove proliferano tali malattie, gli interessi economici.

Qualche anno fa, in un precedente simposio organizzato dall’ Associazione Culturale Montefortiana, che ha sede a Monteforte d’Alpone in provincia di Verona, sono stato invitato a parlare, come missionario, della relazione che esiste tra malattia e povertà. Ricordo che il discorso fatto allora era molto simile a quello che stiamo facendo in questo momento. In quell’occasione, avevo detto che tra malattia e pover-tà esiste un circolo vizioso, una sorta di persecuzione la quale fa sì che quanto più una persona o famiglia è povera, tanto più è vittima della malattia e, d’altro canto, quanto più una persona o famiglia è malata, tanto più è povera. Ora, a questo circolo vizioso si aggiun-ge un’altra componente, quella delle malattie dimenticate, il che aggrava maggiormente il quadro clinico, perché il circolo vizioso diventa ancora più chiuso e il paziente ancora più vittima della spirale del male.

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Malattia e discriminazioneA questo punto, so di non sbagliare

se affermo che alcuni malati oltre che essere malati sono anche discriminati a motivo della loro malattia. Per qua-le ragione? Perché la loro malattia non suscita interesse, non è monetizzabile, non è oggetto di mercato o, quanto peggio, non fa trend, non fa tendenza. I missionari, con le strutture che gesti-scono, sono i primi a farsi carico di que-sti ammalati dimenticati dalla macchi-na mondiale della sanità, dimenticati perché la loro malattia non è oggetto di considerazione visto che non entra nel flusso del business e per questo non porta acqua a nessun mulino.

Quando nel 1976 – tra poco saran-no 40 anni – i Camilliani hanno aperto una missione in Kenya e precisamente a Tabaka, sono andati in quella zona, a 400 km dalla capitale Nairobi, perché là non c’erano ospedali, o meglio c’era quello governativo a 25 km di distan-za, ma era inadeguato per far fronte alla bisogna. Quando, 15 anni dopo, la missione camilliana ha pensato bene

di estendersi, è andata a Karungu, sulle sponde del Lago Vittoria, chiamata dai Religiosi Passionisti perché nel raggio di 60 km non esisteva nessun ospedale. Quando, a metà degli anni 90, è scop-piata l’epidemia dell’AIDS che allora era una malattia negletta, in quanto sco-nosciuta, erano gli ospedali di missione che si addossavano il maggior numero di malati. Questo ci fa capire quale è, e quale deve essere la posizione della chie-sa – e dei missionari in particolare – nei confronti delle malattie neglette.

Nei 23 anni che ho passato in missione sono venuto a conoscere – e talvolta anche a farne esperienza sulla mia pelle – diverse malattie neglette, quali la bilharzia (schistosomiasi), il kashawkaw (che è la conseguenza del-la malnutrizione), il tracoma, l’ulcera di Buruli, la verminosi (o parassitosi intestinale), la filariasi (o elefantiasi), eccetera. Tuttavia oserei dire – permet-tetemi l’affermazione un po’ azzardata – che la malattia negletta più comune che ho incontrato è la povertà. In base a quel riferimento fatto poc’anzi sulla connessione tra malattia e povertà, si può dedurre che la povertà è l’antica-mera di molte malattie la cui causa è la malnutrizione, la mancanza di acqua potabile, la scarsità di igiene, l’assenza di prevenzione, la necessità di abitazio-ni adeguate, di ambienti salubri.

Sforzo congiuntoForse si pensa che per far fronte

alle malattie neglette siano necessari grossi investimenti economici. Non è così, perché adottando il sistema della prevenzione, le spese per eliminare le cause di certe malattie sarebbero basa-te su progetti semplici come quello che

iv Centenario di San Camillo

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prevede l’eliminazione di acque putri-de, l’allacciamento di acqua potabile, la disinfestazione di aree abitate da insetti dannosi, l’istallazione di servizi igienici nelle abitazioni, l’approvvigionamento di farmaci di base nei dispensari, come ad esempio gli antiparassitari. Di con-seguenza, la cura per sconfiggere que-sta malattia negletta che è la povertà, consiste principalmente in un’azione di supporto e di prevenzione, investendo in progetti che mirano ad una alimen-tazione bilanciata delle persone, all’i-giene, allo stile di vita, alla conserva-zione dell’ambiente. È necessario che le multinazionali e le ditte farmaceu-tiche investano di più per prevenire le malattie neglette, piuttosto che dover investire poi molto più denaro per fab-bricare farmaci con i quali passare alle terapie. Ma qui naturalmente tocchia-mo la logica dei mercati e dei piani internazionali di produzione. In sintesi, dalla mia esperienza di missionario, pos-so suggerire che le iniziative da svolge-re per combattere le malattie neglette sono tre: a) la sensibilizzazione (cioè far conoscere i fatti); b) la formazione (di agenti locali, che lavorano sul territorio e che passino poi al compito di istruire); c) la prevenzione.

Ogni persona di buona volontà, sia essa impegnata nella società civile, nel-la Chiesa o nel campo del volontariato, deve combattere ogni sorta di malat-tia quanto più presto possibile, anche se poco conosciuta e poco diffusa. Per l’individuo o la comunità che ne viene colpita non fa differenza se la malattia con la quale sta lottando sia conosciuta o sconosciuta, se l’antidoto sia costoso o no, se il farmaco a lui necessario sia prodotto su scala industriale oppure no.

Quello che serve al paziente è che qual-cuno intervenga quanto prima sulla sua malattia, con mezzi efficaci, con rispetto per la sua persona, con sentimenti di solidarietà.

Per il missionario non c’è differen-za tra una malattia e l’altra, c’è solo una persona da soccorrere, subito, con i migliori mezzi possibili. È un diritto del malato essere curato, come pure un dovere di giustizia prestare soccorso alla persona malata.

La parabola del buon samaritano ci mostra come il samaritano abbia mes-so mano al portafoglio per sostenere la cura dello sventurato che era stato vitti-ma dei briganti, stabilendo un piano di intervento con l’albergatore, a favore di quello sconosciuto che da quel giorno è diventato il suo paziente: “Il giorno seguente [il samaritano] estrasse due denari e li diede all’albergatore, dicen-do: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno” (Lc 10, 35).

Sapete qual’è il costo per curare un malato affetto da una malattia negletta? Cinquanta centesimi di dollaro all’an-no, vale a dire 36 centesimi di euro. Quanti bambini possiamo curare rinun-ciando a un caffè?

Una questione di giustiziaCome cittadini e come cristiani,

non possiamo restare indifferenti e in tal modo permettere che malattie che sono il risultato di povertà e indigenza continuino il loro corso, mietendo vit-time a milioni. L’investimento per una seria ricerca scientifica e lo stanziamen-to di fondi per programmi mirati deve essere espressione del dovere di giustizia e di uguaglianza che ci caratterizza come

il Vicario Generale, P. Paolo Guarise, con i relatori del convegno sulle malattie neglette.

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persone. La riduzione degli introiti di un’impresa a favore di un investimento per una ricerca scientifica o un progetto agricolo sono un’azione di giustizia alla quale non possiamo sottrarci, perché la posta in gioco è troppo alta: è la stessa vita umana.

Negli ultimi 30 anni, meno dell’1 per cento dell’aiuto pubblico allo svi-luppo e degli investimenti nella ricerca medica è stato indirizzato al controllo delle malattie neglette. Per fortuna in tempi recenti qualcosa si sta muoven-do, specialmente a seguito della London Declaration, che ha siglato i lavori della Conferenza Internazionale sulle malattie neglette, svoltasi a Londra nel gennaio 2012. Ci sono state donazioni di farmaci e offerte di finanziamenti per realizzare programmi di sorveglianza, di preven-zione, di eliminazione dei parassiti, per redigere programmi di attività agrarie nei paesi poveri, al fine di eliminare la povertà e favorire lo sviluppo. Elementi, questi, che stanno alla base dello sradi-camento delle malattie neglette.

A questo punto la parola chiave che ci deve spronare all’azione “non impor-ta se come semplici cittadini o come imprenditori o quant’altro” è la parola solidarietà, intesa come azione gratui-ta, come dono. La Chiesa annovera la

solidarietà come uno dei principi della sua dottrina sociale. A questo riguar-do ecco quanto ha scritto Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in veritate: “Nell’epoca della globalizzazione, l’at-tività economica non può prescindere dalla gratuità che alimenta e dissemina la solidarietà e la responsabilità per la giustizia e il bene comune nei suoi vari soggetti e attori” (CIV n. 38).

Ci siamo ormai abituati ad ascolta-re le esortazioni di Papa Francesco che, all’inizio del suo pontificato, suonavano come frasi ad effetto perché erano estre-mamente nuove e rivoluzionarie. Ora, a distanza di 7 mesi, siccome tornano regolarmente all’orecchio, ne possia-mo valutare la genuinità, la portata, la valenza teologica e sociale. Esse dicono – tra l’altro – che dobbiamo occuparci dei poveri, dei malati, delle periferie esi-stenziali per toccare con mano la carne di Cristo. Qui, più che con la teologia gesuitica ci incontriamo con la spiritua-lità francescana e la tenerezza di Dio.

Se mettiamo al centro dell’impegno civile l’essere umano e ci prendiamo cura di essa nella sua totalità, allora la solidarietà e il dono a favore di coloro che vivono nelle periferie del mondo sarà cosa spontanea ed espressione di naturale empatia.

Mi piace terminare con le paro-le che Dr. Jim Yong Kim, Presidente della World Bank Group, ha pronun-ciato all’apertura della Conferenza di Washington DC sulle malattie neglette tenutasi lo scorso novembre: “A dire il vero, non è che queste malattie siano state dimenticate. Sono le persone che soffrono queste malattie che sono state dimenticate”.

P. Paolo Guarise

iv Centenario di San Camillo

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La tenerezza del soldataccioEra un omone alto più di due metri.

Già da adolescente aveva appreso dal padre il mestiere delle armi, e di suo aveva aggiunto una sfrenata passione per il gioco delle carte, che gli ave-va fatto sperperare i pochi denari che possedeva e perfino quelli di altri a lui affidati. Insomma, al venticinquenne Camillo de Lellis pochi sarebbero stati in grado di pensare come a una persona dal cuore tenero, anzi…

Se però ci si scontra con l’incredibi-le e inarrivabile tenerezza di Dio padre/madre, e del Figlio, Gesù crocefisso, non si sfugge: cuore e mente si sciolgono, anzi si convertono. Ed è così che il soldataccio e “peccatoraccio” (come lui stesso si defi-niva) Camillo de Lellis diventa “padre Camillo”, uomo d’incredibile tenerez-za verso i malati, i sofferenti, i poveri e dimenticati da una società crudele.

Per questo motivo il convegno sto-rico culturale organizzato presso l’Uni-versità degli studi di Milano a cura del Comitato per i 400 anni della morte di San Camillo, in collaborazione con l’I-PASVI (Federazione nazionale collegi infermieri professionali, assistenti sani-tari, vigilatrici d’infanzia) collegio di

Milano, Lodi e Monza Brianza, ha posto nel suo titolo “Il messaggio di tenerezza di san Camillo de Lellis a servizio dei malati”, con la specificazione che tale servizio era riferito all’opera prestata dal Santo presso la Ca’ Granda dal 1596 al 1613 (anno precedente la sua morte). Per chi non è di Milano va precisato che “Ca’ Granda” (in dialetto per Casa grande) era il nome che il popolo dava all’ospedale la cui costruzione era stata avviata nella seconda metà del Quat-trocento, su impulso del Duca di Mila-no, Francesco Sforza, allo scopo di dota-re Milano di un unico grande ospedale per il ricovero e la cura dei malati, che precedentemente venivano ospitati in vari ospizi sparsi per la città.

Il convegno ha avuto uno svolgi-mento regolare e simile a quello di molti altri: presenze altamente qualificate fra i relatori; presenze di un pubblico più folto di quanto gli organizzatori si aspet-tassero, tanto da aver dovuto attrezzare un altro locale oltre l’Aula Falcone e Borsellino inizialmente dedicata all’e-vento. Da segnalare, inoltre, la presenza di molti giovani, sia medici, sia infer-mieri sia studenti del corso di laurea infermieristica: dunque, bel pubblico!

26 ottobre 2013. P. Carlo Vanzo, moderatore del convegno, illustra brevemente la Figura di San Camillo agli oltre

sono giovani studenti universitari,

Prof. Gianluca Vago, Prof. Carlo Cesana, P. Renato Salvatore, Mons. Erminio De Scalzi, Prof. Alfredo Anzani e Dr. Giogio Cosmacini.

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Moderatore del convegno è sta-to padre Carlo Vanzo, figura nota nel panorama sanitario milanese. Padre Vanzo ha presentato in prima battuta le autorità presenti: il magnifico retto-re della Statale, Prof. Gianluca Vago, medico, già primario all’Ospedale Sac-co, quindi già in rapporto con i Camil-liani cappellani nel medesimo ospedale. Il Prof. Vago ha legato la figura di san Camillo alla sua “speranza”, quella di «una medicina mite che sappia rico-noscere la dignità delle persone che soffrono, che sia efficiente ed efficace e non si lasci confondere dalle ragioni del mercato».

È seguito il saluto del Prof. Giancar-lo Cesana, presidente della Fondazione Ospedale Maggiore, che ha ripercorso brevemente la storia della Ca’ Granda e dell’opera di san Camillo nella stessa.

Mons. Erminio De Scalzi, abate di

Sant’Ambrogio e vescovo ausiliare, ha portato il saluto dell’Arcivescovo, il Cardinale Angelo Scola, sottolinean-do, fra l’altro, come lo stile di tenerezza portato da san Camillo nel mondo sani-tario continui ad essere presente nella diocesi attraverso l’opera dei Camillia-ni, sia come cappellani sia con le loro Case di cura (San Pio X e San Camillo).

Infine, il Prof. Alfredo Anzani, consigliere nazionale dell’Associazione Medici Cattolici, ha sottolineato l’at-tualità del messaggio di san Camillo; anche agli operatori sanitari di oggi il Santo avrebbe ripetuto due suoi con-cetti fondamentali: che gli infermi sono “pupilla e cuore di Dio” e che occorre liberarli dalle mani dei “mercenari”, vale a dire agenti di cura non umana-mente motivati.

: una delle 2 aule universitarie, gremite da attenti auditori.

iv Centenario di San Camillo

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La “lectio magistralis” di Padre Salvatore

È poi intervenuto padre Renato Sal-vatore, Superiore Generale dell’Ordine dei Ministri degli Infermi, su un tema anch’esso alla base dell’esperienza del santo di Bucchianico: l’essere stato fon-datore di una “nuova scuola di carità” come affermato nella bolla di canoniz-zazione da parte di Papa Benedetto XIV (Prospero Lambertini).

La lectio di padre Salvatore è stata esauriente, precisa e molto ben docu-mentata. Per evitare «il rischio di esse-re ritenuto non obiettivo, perché figlio spirituale del soggetto “San Camillo”», padre Salvatore si è rifatto in massima parte alla biografia ufficiale che descrive puntualmente come, dopo la conversio-ne del “soldataccio” al Vangelo, i suoi modi di essere e i comportamenti rela-tivi siano profondamente mutati.

Il rude e spavaldo soldato di ventu-ra, sotto l’influenza del Crocefisso che, come dice la tradizione, gli si era rivela-to, accanto ai sofferenti diventa tenero e sollecito come “una madre accanto al suo unico figlio infermo”. Per Camil-lo, l’ospedale (e quale ospedale tra la fine del ‘500 e i primi del ‘600!) è la sua chiesa; il letto del malato ne diventa l’altare e il malato “Ostia consacrata”.

La dedizione di san Camillo all’O-pera che Gesù Crocefisso ha dichiarato essere “Mia, non tua”, è senza risparmio. Sta accanto ai malati giorno e notte, li nutre, li cura, li protegge… chiede ai suoi di avere “più cuore in quelle mani”. A Milano è chiamato dalle autorità a prestare servizio insieme ad un gruppo di suoi religiosi nel modernissimo (per allora) ospedale voluto dagli Sforza (la Ca’ Granda, appunto). Le autorità mila-

guglia sul Duomo

al vento e alla nebbia,

“Signori e Padroni”, San Camillo continui a benedire

e tutto il Mondo della Salute.

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nesi conoscono gli “Ordini et modi che si anno da tenere nelli hospitali in ser-vire li poveri infermi” e comprendono l’assoluta differenza tra il servizio svol-to nelle corsie da “mercenari” e quello svolto da chi (religioso o laico) segue le regole camilliane.

La presenza di san Camillo (dal 1594 al 1613, un anno prima della sua morte) muta radicalmente in meglio i servizi prestati dalla Ca’ Grande ai malati, tanto da far dire a qualcuno che quando Camillo “si metteva intorno a un malato, sembrava una chioccia con i suoi pulcini”.

Padre Salvatore ha concluso il suo intervento dichiarando che il messag-gio che san Camillo lascia in eredità ai suoi, il Carisma a lui donato dallo Spirito Santo, è ancora oggi di estrema attualità, soprattutto in un mondo della

salute che tende a dare spazio sempre più alle tecniche e sempre meno alla relazione umana.

È toccato poi al Prof. Giorgio Cosmacini, autorità indiscussa in sto-ria della medicina, fare memoria della presenza di san Camillo (e dei suoi) nell’Ospedale maggiore di Milano. Per farlo compiutamente, perché altrimenti alcuni gesti del santo non si compren-derebbero nella loro pregnanza, ne ha rievocato brevemente la biografia, sot-tolineando in particolare come egli sia passato a essere da infirmus (malato) a infirmarius (infermiere, agente di cura).

Milano, 26 ottobre 2013.

P. Renato Salvatore, con altri Confratelli,

iv Centenario di San Camillo

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San Camillo non trae le sue “regole” sul come trattare i malati in ospedale da teorie, ma dalla sua stessa esperienza di malato, di ricoverato negli ospedali della sua epoca.

Nelle regole da lui dettate (e applica-te) per la cura degli infermi, san Camillo prevede che la sollecitudine sia prima di tutto per il corpo e poi per l’anima; ma il “servizio” deve essere globale. Questo si evince chiaramente dalle regole e dalla prassi che san Camillo segue nelle sue relazioni con i malati, perché l’ospedale non sia il “luogo in cui si muore”, ma il luogo in cui si può riacquistare la salute del corpo e dello spirito.

Per questa ragione, il suo modo di rapportarsi ai malati è colmo di tenerezza che si manifesta in gesti concreti di solle-citudine per tutti i bisogni dei malati: da quelli igienico-sanitari a quelli spirituali. È quindi un rivoluzionario innovatore che porta ovunque si trova ad agire il suo modus operandi. Quindi anche nella Ca’ Granda. Qui ha contribuito a tra-sformare quello che era un “albergo dei poveri” in una moderna “fabbrica della salute”, compiendo dal basso una rivolu-zione nella cultura umanitaria portatrice di un nuovo umanesimo.

Al Dottor Giovanni Muttillo, pre-sidente del collegio IPASVI Milano-Lodi-Monza Brianza, alla Dottoressa Anna La Torre, storica dell’assistenza e alla Professoressa Laura Lusignani era affidato il compito di illustrare l’attuali-tà del messaggio di san Camillo.

Tutti e tre, rifacendosi alla biografia di Camillo de Lellis, ne hanno sottolineata l’attualità applicandola ai problemi odier-ni. In particolare, il Dottor Muttillo ha rilevato come oggi alcuni diritti fonda-mentali siano di fatto negati e le povertà siano in aumento, poiché molte “tutele” sono messe in discussione. In questa situa-zione sociale il messaggio camilliano è di sorprendente aderenza e in certa parte ancora rappresenti una novità.

La Dottoressa La Torre ha rilevato che Camillo ha vissuto in un tempo in cui regola era la violenza, e la guerra “metodo di convivenza”; fame e malat-tia erano le uniche certezze per la mag-gioranza della popolazione; anche allora l’Italia era preda di una terribile crisi economica che aveva prodotto grave disoccupazione. Camillo è uno “spec-chio” del suo tempo. Comprende che la vera rivoluzione sta nel sostituire la tenerezza, la sollecitudine alla violenza e che, nella cura degli infermi, il gesto (di tenerezza) diventa terapia.

Anche la Professoressa Lusignani ricorda le “regole” dettate dal santo, un quadro di riferimento che vale anche per l’oggi per qualificare l’assistenza clinica e infermieristica; Camillo non si occupa soltanto di problemi “teorici”, ma anche di quelli pratici nel servizio ai malati,

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come ad esempio dei turni di “guardia” che devono essere stabiliti in modo che vi sia sempre vigilanza; perché vi sia collaborazione tra medici ed infermieri; perché i morenti siano adeguatamente assistiti; perché mai vengano trascurati i bisogni affettivi e spirituali dei malati. Il tipo di servizio che egli auspica (e pra-tica) è direttamente ispirato alla carità, alla misericordia di Dio.

E in seguito…Dopo le relazioni, vi sono stati alcun

interventi da parte del pubblico. In par-ticolare, quello di Maria Pia Garava-glia, che come Ministro della salute ha attuato la trasformazione delle scuole infermieristiche in corso di laurea bre-ve in scienze infermieristiche. Anche due giovani operatori hanno portato un contributo di domande sul “contenuto” dell’attività infermieristica. Un medico, Antonietta Cargnel, già primaria all’O-spedale Sacco, ha sottolineato l’impor-

tanza di stabilire una positiva alleanza tra operatori sanitari e pazienti nel cli-ma attuale che vede mutati tali rappor-ti, un tempo improntati a una sorta di potere dei primi sui secondi.

Il convegno si è concluso con la Celebrazione eucaristica, presieduta da padre Renato Salvatore, nella cap-pella dell’Università dedicata a Maria Annunziata; è seguita una visita guida-ta alla Crociera del Filarete, ovvero le antiche corsie dell’Ospedale maggiore dove ha prestato servizio san Camillo. Infine, nel pomeriggio, sotto la guglia del Duomo di Milano dedicata a san Camillo, padre Renato Salvatore e l’ar-ciprete del Duomo, Mons. Gianantonio Borgonovo, hanno guidato un gruppo di convegnisti in un suggestivo momento di preghiera.

Marisa Sfondrini

Milano, 26 ottobre 2013.

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GESÙ – IL SUO UMORISMO AUTO-DELATORIO (Lc 16,1-8)

La parabola di Luca 16,1ss, viene solitamente titolata come ‘parabola dell’ amministratore disonesto’, oppure come come dell’amministratore scaltro. Le due qualifiche non coincidono. Portano ciascuna a conclusioni diverse. Una cosa comunque è certa: questa parabola si leg-ge volentieri e con passione se si accetta quest’unica premessa. Il protagonista non è un anonimo ‘homo quidam’, ma si chiama Gesù di Nazaret: uno che già conosciamo e che è già stato messo con le spalle al muro più di una volta dai suoi oppositori. Il punto è questo. A Gesù è concesso fare dello spirito mentre ci dà il Vangelo del Padre Celeste? Noi non possiamo permetterci di pensare una cosa del genere, perché un Gesù che si prende in giro, facendo dell’ironia su se stesso per chiarire il più possibile il senso e lo scopo della sua missione, la compro-metterebbe proprio alla radice. A Gesù, l’impenitente imbonitore dell’eterna inesauribile benevolenza di Dio Padre, non è consentita nessuna caduta di sti-le, per esempio nella comicità. Se nei Vangeli non è scritto da nessuna parte che Gesù abbia riso, questa assenza di riso vorrà pur dire qualcosa a proposito del suo temperamento e della sua abi-tuale signorilità. Non dimentichiamo che Gesù è il Figlio di Dio. Come Dio è per noi il severo giudice del ‘dies irae dies illa’, quando squadernerà sotto gli occhi del mondo il libro in cui tutto è scritto; così il suo Unigenito Figlio non può farci ascoltare meno austera e vibrata la voce di quella che risuonerà alla fine. La reli-gione di Gesù, come ogni altra religione

di questo mondo, è vocata non solo a tenere sotto controllo il tasso di ango-scia in circolo nel popolo di Dio, ma lo deve anche costantemente mantenere ad un buon livello, se vuole meritarsi il titolo di religione seria. Questa è la conclusione alla quale giunge fin dall’età della pietra ogni esperto conoscitore di religioni.

Ci voleva lo spirito critico di quel gigante ateo che fu Nietzsche, sempre così abile nel denunciare le auto-gratifi-cazioni del filisteismo religioso-borghe-se, per mettere a nudo la supponenza dei seriosi predicatori di morte e assegnare alla fede religiosa lo spazio di libertà che le è dovuta. “Io potrei prestar fede, afferma il nostro in ‘Così parlò Zara-thustra’, solamente a un dio che sapesse danzare... E quando vidi il mio demonio lo trovai serio, meticoloso, profondo, solenne: era lo spirito di gravità – a cau-sa sua cadono tutte le cose”. Gli uomini, denuncia sempre Nietzsche, sono vissu-ti a loro agio a questo mondo assistendo soprattutto a tragedie, corride e croci-fissioni... e quando è stato inventato l’inferno, ecco questo è stato per loro il paradiso in terra”. Di certo il signor Nietzsche sull’onda della sua spumeg-giante critica non può non sembrarci che uno spregiudicato, per non dire un folle, ma proprio lui ci ricorda che se è vero che nell’amore c’è sempre un po‘ di follia, è pure vero che c’è sempre un po‘ di ragione anche nella follia.

Che dire? Poteva Gesù, in corso d’o-pera, permettersi di fare perfino dell’u-morismo sulla sua persona? Vangeli alla

Pastorale

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mano, come è stato presentato Gesù che annuncia il suo Vangelo alla gen-te ‘con molte parabole e senza parabo-le non parlava loro’? Le istantanee che gli autori hanno scattato sono molte e variamente colorite. Gesù: né monaco né sacerdote, piuttosto profeta, poeta, vagabondo, visionario, medico e perso-na degna di fiducia, trovatore e predi-catore ambulante, arlecchino, maestro di massime eterne e di parole cantate. “Fratelli miei, insegnò Zarathustra ai suoi discepoli, ci fu una volta UNO che scrutò nel cuore dei buoni e dei giusti e disse: ‘sono farisei!’ ma non fu compre-so”. Effettivamente, anche noi quando sentiamo qualche parabola, per esempio quella celebre di Luca 15,11-30, l’ultimo pensiero che ci passa per la testa, anzi addirittura il pensiero che non ci ha mai sfiorati, è che Gesù questa parabola l’ab-bia raccontata per i buoni e per i giu-sti, ai quali, a motivo della loro buona coscienza delle proprie virtù, non era possibile comprenderlo. I buoni e i giusti impigliati nella regnatela delle loro virtù non possono fare a meno di crocifiggere Colui che se ne inventa una tutta sua propria, totalmente opposta alle loro.

“Perdonaci le nostre Virtù !”. Così, con tale sentimento i buoni e i giusti dovrebbero pregare: convinti e contenti di essere tutti e sempre debitori perdo-nati. “Purtroppo questa è la loro sorte, conclude Zarathustra, per questo non

possono fare a meno di essere farisei. Gesù non abbandona la sua missione. Per la fede che nutre verso il Padre, non può non perdere nemmeno la fiducia nella sua creatura. Dio Padre non dà nessuno per perso.

Questa volta Gesù racconta una parabola che è un vero capolavoro di umorismo auto-delatorio, esente da ogni volgarità e disprezzo dell’avversa-rio. Una storia di furfanti che fa di certo svanire la morale ma esalta la religione: la Sua, quella di sempre, quella che gli ha fatto passare già un brutto quarto d’o-ra. Mentre Gesù racconta, forse si pos-sono sentire le risa di chi plaude alla sua geniale astuzia, ma si può anche scorgere il mugugno di chi non condivide affatto il suo discorso. Gesù, l’amministratore unico di Dio Padre, colui che ha truffato per due volte il padrone, merita proprio dal Padrone l’elogio più lusinghiero perché ha condotto tutta l’operazione con sagacia, da vero, accorto, profondo conoscitore del cuore umano. Per Gesù l’umanità non ha confini. È innegabile che in Lui vivesse il sogno della nostra vocazione eterna. “Chi insegnerà agli uomini che tutti sono buoni (perché dice loro che sono amati dal Padre Cele-ste) porterà a compimento l’universo. (Così Dostoevskij ne ‘I Demoni’). Chi lo insegnò fu messo in croce. Ma deve ben arrivare nella vita dell’umanità, nel cuore di ogni individuo il momen-to in cui tutti proclameranno che Lui, con il suo Vangelo, deve vivere, se noi non vogliamo restare senza possibilità di salvezza, creature disumane. Nessun dio, se non Dio Padre può fare di più per dirci di venire al mondo un’altra volta. (Gv 3,3).

P. Domenico Ruatti

Pieter Paul Rubens Festa in casa di Simone il Fariseo (1618).

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NASCITA DELLA PROVINCIA ITALIANA

La provincia italiana nasce, per il momento, dalla fusione di due provin-ce: lombardo-veneta e piemontese. È in progetto l’aggiunta di altre tre: romana, siciliana e austriaca. L’evento inedito si presta ad alcune osservazioni. Anzi-tutto ci fa pensare alle origini, quando l’ordine non era ancora suddiviso in zone geografiche. Il fondatore percor-reva l’intera penisola dal meridione, passando da Roma a Napoli e Palermo, al settentrione, mettendo piede a Firen-ze, Ferrara, Bologna Genova, Milano e Mantova. La spinta della carità non si ferma ai confini territoriali. S. Camil-lo pone la sua sede là dove si trova un malato. La sua patria più che il paese natio è l’ospedale. Lo ribadisce di con-tinuo. L’ospedale è la mia e nostra casa. Qui trova se stesso, qui gravita il suo cuore.

L’ordine, dunque, prima di tracciare linee di separazione, dovute ad esigenze logistiche, nasceva oltrepassando ogni frontiera regionale. Si concentrava in un unico ideale: la carità, che coagulava assieme persone di cultura, tradizioni, linguaggi e mentalità diverse. Al primo posto le opere di misericordia. Tutto il resto scivolava ai margini. Il centro su cui puntava era il malato, un obietti-vo che non è mai venuto meno anche quando si sono imposte delle strutture organizzative differenziate. Preminenti erano la cura del malato e l’intervento, là dove l’aiuto si rendeva più urgente.

Dalla struttura alla comunione fraternaOra, con l’unione delle province, si

torna all’unum necessarium che riporta allo spirito originario. I caratteri diffe-renziali non cessano e non si può far fin-ta che non esistano, tuttavia se la carità è sentita come l’hanno sperimentata i primi seguaci del fondatore, l’abolizio-ne delle strutture precedenti non sarà traumatica e difficile, potrà effettuarsi senza rimpianti. Ci saranno però nuo-vi compiti da assolvere. Al momento la svolta parte dai vertici; passerà poi alla base quando le nuove leve saranno formate sotto la stessa scuola e con gli stessi educatori. A facilitare il cammino dovranno essere lo spirito di apparte-nenza allo stesso ideale, la fiducia reci-proca, la volontà di collaborazione e il clima amichevole, che in fondo sono doti conseguenti alla carità.

L’apostolo Paolo ricorda nel capito-

Formazione

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lo 13 della prima lettera ai Corinzi che la carità non avrà mai fine. Vengono meno tanti altri sia pur lodevoli valori, quali le profezie, la scienza, il dono delle lingue, ma la carità non conosce limiti né di tempo né di spazio. Cedono i con-fini territoriali, come realtà accidentali, non però la lingua parlata dalla carità. Man mano che si avanza nella perfezio-ne, si va sempre più all’essenziale: all’af-fermazione del primo comandamento. Così ha inteso i rapporti interpersonali dei suoi religiosi S. Camillo.

La fusione delle Province è adempiu-ta adeguatamente quando è vissuta e sen-tita da tutti i religiosi, essendo ordinata ad amalgamare gli animi. Solo quando matura un’intesa affiatata di tutti, si adempie il suo fine, per arrivare al quale si deve passare attraverso molte media-zioni, anzitutto attraverso un iter forma-tivo ascetico culturale uniforme. Partico-larmente le giovani leve sono chiamate ad essere protagoniste. Le intese di ver-tice a livello giuridico sono solo un pri-mo passo, poi è la volta del compito più impegnativo che coinvolge la sensibilità dei singoli. Molti istituti di recente for-mazione si muovono con questa sensi-bilità, per cui un religioso passa da una città all’altra, da una regione all’altra e trova ovvio sia così, cosa che attualmen-te nel nostro caso è impensabile.

Conoscenza e amiciziaPer il momento siamo al punto di

partenza, siamo arrivati al programma, cui segue un cammino da percorrere. La carità passa per molte vie. Una di que-ste è l’amicizia, il rapporto spontaneo, dove il lato emotivo ha la sua parte. Lo stesso Camillo lo insegna nel suo rap-porto con il malato, cui era vicino affet-

tivamente. Era arrivato ad un punto in cui il “tu devi” del comandamento non era per niente avvertito. L’imperativo lasciava il posto all’egemonia dell’amo-re. Analogamente la vita fraterna non si regge su addentellati giuridici o sulle prescrizioni della regola. È vero, la vita ha bisogno d’uno statuto normativo ed è altrettanto vero che non lo deve sen-tire come una coazione soffocante. Un ideale non sta in piedi e non regge a lungo se basato su imposizioni.. Lo sot-tolinea la stessa formulazione del primo comandamento. Non dice di amare Dio con tutta la ragione e con tutto l’intel-letto, ma con tutta l’anima e con tut-to il cuore. In altro contesto è detto di amare con “viscere di misericordia”. Sono coinvolti gli affetti e le spinte emotive, appunto gli slanci vitali, senza i quali il soggetto sarebbe sottoposto ad artifici e sforzi che, proprio perché non pene-trati nella psiche, restano insinceri e in superfice.

Nel ritmo della vita ci sono istinti sani, forze cariche di esuberante ener-gia, movenze generose, forme di convi-venza solide perché promosse e soste-nute da spinte spontanee. Così erano i rapporti che Camillo aveva con i mala-ti, che serviva provandone piacere più che fatica. Altrimenti non sarebbero spiegabili il suo entusiasmo e certe sue affermazioni sull’ospedale, definito il “suo nido”, “il paradiso terrestre” , via per arrivare a quello celeste. Non è pensabi-le che queste espressioni siano frutto di infatuazioni di artificio: un esempio che insegna a far propria una causa.

L’anima della nuova Provincia dovrebbe essere sentita come un’espe-

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rienza cui si partecipa emotivamente. L’esempio surriferito di Camillo sta ad indicare come ci si deve disporre nel portare avanti un impegno, nel nostro caso come accogliere e vivere la scelta ordinata ad una più spedita utilizzazio-ne delle forze a disposizione dell’istituto e ad una più realistica convivenza. La svolta in corso è un’esigenza imposta dalla situazione reale. Chiede un assen-so convinto, nonostante gli inevitabi-li disagi che si dovranno affrontare. Il rigore d’un comando non sarebbe un modo di vivere la comunanza di idea-li. L’imperativo va riportato entro l’al-veo della corrente vitale, superandone il peso fino ad eliminarne ogni aspetto mortificante; in caso contrario, non si stabiliscono intese fraterne, si diventa vittime di rapporti che si scambiano tra burocrati, rapporti insinceri, freddi ed esteriori. Ai sentimenti si sostituiscono i calcoli, la comunicazione impersonale, il linguaggio politicamente corretto, ma senza anima, mai vero, mai immediato, sempre controllato da filtri che tengono le distanze. In fondo, dietro l’abitudine dell’artificio si nasconde una malcelata diffidenza.

La contrazione numerica dei religiosiLa fusione delle province ha il

senso d’un programma, che punta alla promozione d’una maggiore vicinan-za e d’un clima di amicizia. Non basta l’appartenenza all’ordine, è importante che si compiano pure gli interscambi individuali proprio come era in origine. Non si può ignorare che la formazione di un’unica struttura è dovuta anche alla contrazione del numero di religiosi, rendendo così superflue le divisioni in ordine geografico. È un motivo di ram-

marico il numero sempre più esiguo di religiosi. Questo però può capovolger-si in un’opportunità che favorisce una maggiore conoscenza reciproca. È ovvia la reazione di riunire le forze puntando all’essenziale: al di sopra di tutto preval-ga la carità e l’intesa fraterna.

La società in cui si vive ci trova spiazzati. Per quanto si tenti di compren-derne la mentalità si ha la sensazione di essere finiti fuori gioco. Un tempo non molto lontano, era la società stessa ad esprimere di propria iniziativa candida-ti alla vita religiosa. Non c’era bisogno di avere degli incaricati alla ricerca di vocazioni. Queste erano il segno d’una comunità cristiana viva, come d’altra parte il loro venir meno depone sia per una caduta di prestigio della figura del religioso, come pure, cosa ancora più deprimente, per una crisi biologica, per un popolo vecchio che non conosce più l’attrattiva della nascita.

La testimonianzaLe domande che la situazione del

tempo solleva sono molteplici. Si può supporre sia venuta meno la testimo-nianza, senza ignorare che l’indifferenza è in grado di vanificare anche gli esem-pi più edificanti. Se si dovesse urtare con risposte ostili il nostro apostolato sarebbe meno difficile. Ma l’insensibili-tà apatica che attualmente segna la vita dell’anima è in grado di vanificare qual-siasi esempio, per quanto edificante. A ragione esclama C. Péguy: “trattenete per un giorno la vostra anima pagana, ne possiamo fare una cristiana. Ma d’un’a-nima che non è né cristiana né pagana che cosa ne potremo fare?”. Di certo un indi-viduo spento e abulico non può trovare posto nel cristianesimo dove il protago-

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nista proclama le beatitudini, innalza come valori la povertà, la mitezza, tan-to da non opporsi al malvagio e da offri-re la guancia destra quando gli viene percossa la sinistra. Cristo vuole al suo seguito persone ardenti, capaci, come il buon pastore, di dare la vita per l’altro. Parla di vita e morte, di provvidenza e speranza rivolta ad un altro mondo. Con questi valori neppure ci si con-fronta, sono molto lontani dalla nostra mentalità tiepida e languida. È troppo provocatorio il messaggio proposto. Ribalta l’intera esistenza. Meglio non confrontarcisi. Per questo forse la stessa testimonianza non basta, a meno che non si esibiscano opere vistose. Tutta-via, la testimonianza resta un compito fondamentale. Paolo lo raccomanda al suo discepolo Timoteo: “verrà un giorno in cui non si sopporterà la sana dottrina, tu però annunzia la parola, insisti in ogni

occasione opportuna, ammonisci, rim-provera, esorta con ogni magnanimità e dottrina” (2 Tim 4,2s). Può darsi che il numero esiguo di religiosi stimoli una maggiore qualità nell’annuncio. Certo, pur citando l’apostolo Paolo, una valu-tazione prevalentemente negativa del nostro tempo mette in imbarazzo. Non va però ignorato il fatto che qualcosa di inedito e non facilmente decifrabile è in corso. Mai come ora si è invitati a sfoderare l’arma della speranza.

Si avanza anche la supposizione che la Chiesa clericale abbia fatto il suo tempo e sia venuto il momento di pas-sare a nuovi esperimenti, ad una Chiesa laicale. Gli slogan proposti sono lusin-ghieri. Si vorrebbero vedere anche fat-ti, troppo timidi finora. Non ci si deve rassegnare arrendendosi alla fine. La

La vita comunitaria è fare corona,‘fare famiglia’ attorno a Gesù,la Parola che ci ha convocati.Diversamente si vola verso un’altra parola profana che spesso ha un forte richiamo nella nostra vita.

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speranza è una riserva di enormi ener-gie, sa trasportare le montagne. Non ci consente di cedere alla tentazione d’un dissolvente pessimismo.

La reazione al clima culturale nel quale si è chiamati a vivere non si è fat-ta attendere da parte di molti pensatori cristiani. Bonhoeffer parla di “resisten-za e resa”: resistenza di fronte al mon-do che la fede è chiamata a vincere, e resa davanti a Dio e alla sua volontà. A sua volta Mounier invita all’affron-tamento cristiano, una risposta adeguata alla situazione attuale. Riducendosi il numero si fa più esigente il ruolo che ci si propone di rappresentare. Sarebbe un tradimento della propria vocazione nel caso si rispondesse alla mentalità refrattaria con una deriva dei valori evangelici, abbracciati nelle promesse della professione religiosa. Ci si conse-gnerebbe allora ad una morte precoce.

Il Signore ci qualifica come “luce del mondo e sale della terra”. L’impegno è eccessivo e ci mette molto in imbaraz-zo. Sarebbe stato meglio se non l’avesse detto. Il pericolo cui allude il Vangelo avverte che la luce può finire nasco-sta senza fugare le tenebre e il sale, a sua volta, può perdere la sua funzione di pungere e trasformarsi, secondo l’e-spressione di Bernanos, in miele. Se così fosse, si avrebbero allora la fine della testimonianza e la conseguente insigni-ficanza della vita religiosa. Con il suo ammonimento, Cristo ci richiama al dovere della testimonianza, uno stru-mento di affermazione modesto e disar-mato, eppure, allo stesso tempo, così coraggioso e provocatorio. Proprio su questo fa leva la rivolta di Kierkegaard contro un cristianesimo di carta-pesta e una cultura languida e indifferente ai

valori. La luce evangelica, tra l’altro, ci premunisce dal pericolo dell’esibi-zionismo. Essa infatti rimanda al Padre: perché vedano le vostre buone opere e glo-rifichino il Padre. Sarebbe un insulto allo spirito evangelico mettere in mostra se stessi secondo lo stile farisaico. Il richia-mo all’immagine della luce è più che pertinente. Essa infatti non è qui per far vedere se stessa, ma per far vedere gli oggetti. Fuori di metafora, sono le opere che devono comparire, non colui che le compie.

Stesso discorso vale nel caso del sale, dove si allude al pericolo del mimetismo che appiattisce tutti: credenti e non cre-denti, spensierati buontemponi e asceti, eliminando ogni carattere differenziale. È il caso di ripetere l’esclamazione di Nietzsche: umano troppo umano! Cui si può aggiungere: un mondo troppo uma-no e così poco evangelico, di così poca speranza, così povero di gioia. È uno dei pericoli che l’apostolo Paolo temeva, da qui la sua raccomandazione nella lettera ai Romani: non conformatevi alla mentalità di questo mondo (12.2). Se c’è la forza di reagire alla cultura dell’in-differenza, la quantità numerica non è determinante.

La nuova scelta intende raccoglie-re e unire le forze. Riflette in piccolo quanto è avvenuto con la formazione dell’UE. È significativo al riguardo che l’Austria aderisca alla Provincia ita-liana, ribadendo un passato di storia comune.

Ci si trova di fronte ad un compi-to, il cui obiettivo ci lusinga non poco, facendoci fin d’ora rallegrare nella spe-ranza che vada in porto nel migliore dei modi.

P. Mario Bizzotto

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VIVERE INSIEME AL DI LÀ DELLA CONVIVENZA

Le pubblicazioni sulla vita comuni-taria dei religiosi e delle religiose non si contano, segno che ci si rende con-to delle difficoltà del vivere insieme, nonchédella necessità di attuare, nelle nostre case, una qualità di vita conforme alle indicazioni del Signore Gesù e, nel-lo stesso tempo, alle esigenze del cuore.

Tra le ragioni che spingono un gio-vane o una giovane a scegliere la vita consacrata, c’è sempre anche questa: la ricerca di un ambiente umanamen-te ricco e arricchente, caldo, ospitale e accogliente, abbracciante, che difenda dal gelo della solitudine; elementi sem-pre più distanti che ormai fanno per-cepire utopica la costruzione di un tale ambiente. Infatti si tratta di costruzione, e non di meno della volontà di costruire che parte dall’impegno personale fino

ad arrivare all’impegno comunitario: Si diceva di loro “Guardate come si amano” (Rom 16), e i pagani si convertivano perché vedevano la bellezza e l’impor-tanza del loro volersi bene.

L’alternativa di essere felice o infe-lice il religioso la gioca, in una per-centuale altissima, su come si trova in comunità, in quella rete di contatti e relazioni affettive che si chiama clima o ambiente comunitario, quella somma di elementi impalpabili, che fanno la differenza tra una convivenza che sia semplice condivisione di tetto, pasti e regole, e una comunità in cui ci sia fusione di cuori e di esistenze e dove tutti desiderano perseguire gli obbiet-tivi comuni. Per i religiosi, è attraverso il sentirsi bene in comunità che il loro servizio/apostolato veicola in maniera

Formazione

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convincente la presenza di Dio tra gli uomini. Al contrario, il rischio è quello di camuffarsi dietro un esasperato atti-vismo che a lungo andare fa perdere il reale contatto con noi stessi e con il mondo esterno.

Di qui la necessità di impegnarsi a fondo, facendo ognuno la propria parte, affinché si gusti la gioia di volersi bene, si rientri sempre volentieri, la sera, per riposarsi dalle fatiche dell’apostolato, e si ringrazi Dio per averci guidati a quella casa, nella convinzione di aver fatto la scelta migliore. La felicità di un religioso o di una religiosa, la pace del cuore passano per questa contrada. Impresa ardua, se si pensa che non ci siamo scelti, ma ci siamo ritrovati, o meglio, ci hanno messi insieme. E sarà forse questo uno dei limiti delle comu-nità di oggi che dovrà essere rivisto. Per molto tempo l’affermazione “Vita religio-sa (comunitaria), massima penitenza” ha cercato di giustificare in uno pseudo-ascetismo, il concetto di vita fraterna. Se oggi ancora viviamo la dimensione della vita comunitaria assecondando questa prospettiva, siamo dei falliti in partenza. Come non ha più senso il voler mantenere a tutti i costi case o comunità religiose aperte per salva-guardare la presenza in quel luogo del proprio carisma. Meglio una presenza di meno, ma più comunità formate da persone che si vogliono bene; tanto più efficiente ed efficace risulterà il proprio ministero.

La gioia come antidoto al veleno della tristezza

In un clima di dissapori, diventa diventa dunque difficile dunque acco-gliere l’invito insistente dell’apostolo

Paolo che, rivolgendosi alla comunità dei Filippesi, dice: “Siate lieti nel Signore, sempre. Ve lo ripeto: siate lieti (Fil 4,4). “Bisogna cercare, con tutti i mezzi, che nella casa di Dio non ci sia alcun motivo di turbamento o di malcontento” (San Bene-detto). La carità fraterna dovrebbe esse-re vissuta in modo tale che, osservando la nostra vita, si possa dire: “Guardate come si amano tra loro e come sono dispo-sti a morire gli uni per gli altri” (Tertulia-no), o, come si diceva anche dei primi cristiani, “si amano anche prima di cono-scersi” (Minucio Felice). Il cammino che porta dalla convivenza alla fraternità, dalla coabitazione a quel contesto uma-no in cui si mettono insieme le esisten-ze, le energie e le debolezze, la ricchezza e la povertà di ognuno, coinvolge tutti e a tutti chiede un contributo, un salu-to, una parola, un’attenzione, uno degli innumerevoli modi in cui si dice: sono contento di essere qui e di essere con te, con voi, fosse anche solo uno sguardo. Gli evangelisti mettono spesso in risalto lo sguardo di Gesù, segno che doveva possedere un’espressività particolare e suscitare un’impressione vivissima. Si pensi per esempio all’episodio del gio-vane ricco riportato da Marco: “Allora Gesù fissatolo lo amò” (Mc 10,21).

Le persone consacrate che non conoscono la contentezza e la gioia non saranno mai testimoni convincenti. La tristezza è la peggiore contro-testimo-nianza che un religioso possa offrire, e viene considerata dai Padri della Chiesa la radice di ogni male.

La gioia è una di quelle parole immense che non si riescono a defini-re e neppure a dimostrare: la si vive. Non è qualcosa. È uno stato d’animo, un modo di sentire e di sentirsi, non è

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un’emozione superficiale, ma un sen-timento profondo intimamente legato alla propria scelta di vita. Io la defini-sco “gioia di fondo”. Oggi molti superiori di comunità di vita consacrata, primi responsabili della vita umana e spiritua-le dei propri religiosi, dovrebbero, verso di essi, spendere più tempo nel dialogo personale ed essere più attenti di fronte ai loro“vissuti tristi”. Nella ricerca di un nuovo stile di fare comunità, che si sta portando avanti in questi ultimi decen-ni, si pone sempre maggiore attenzione alla qualità del dialogo. Io mi sentirei di aggiungere: anche alla quantità.

Il male di farsi del maleIl non farsi del male diventa il pri-

mo gesto per costruire una comunità che sia vera fraternità. È penoso doverlo ammettere: spesso litigare fa addirittu-ra piacere, quasi che se ne avesse biso-gno e si andasse in cerca di pretesti o di occasioni per farlo. Talvolta vi sono espressioni aspre e violente di ostilità che mirano, di proposito, a ferire la per-sona, a svilirla, umiliarla ai suoi stessi occhi, quasi a schiacciarla, espressioni

contrarie non solo ai sentimenti di fra-ternità, ma anche alle più elementari norme di buona educazione ( mi piace-rebbe soffermarmi più a lungo sul tema della buona educazione nella comuni-tà, in cui il “tutto è dovuto” e “lo spazio occupato è soprattutto mio” corrispondo-no alla maleducazione più evidente). Ma ve ne sono altre, mascherate, che generalmente non vengono ricondot-te a un comportamento aggressivo, ma che fanno ugualmente soffrire e com-promettono seriamente la convivenza: la battuta ironica, sprezzante, costruita con cura perché ferisca di più, il silenzio ostile che indica rifiuto di dialogo ed esclusione, il contraddire in mala fede, il voler avere l’ultima parola, il voler zittire l’altro, la voglia di protagonismo, la frequente mormorazione per scredi-tare l’altro, reale cancro della vita in comune. Sono tutti atteggiamenti che spengono il dialogo e allontanano i membri della comunità, avviandoli tri-stemente ognuno su una sua strada, con l’animo amareggiato.

Sono convinto che molti religiosi e religiose non sarebbero usciti dall’Isti-tuto e non avrebbero lasciato il mini-stero, se avessero trovato un ambiente comunitario intensamente umano, quel dialogo, quell’ascolto, quell’attenzio-ne cordiale, quell’interscambio libero e riposante di idee e di emozioni, che sognavano quando hanno lasciato la loro casa. Le crisi religiose sono sempre innanzitutto crisi umane, affettive. Il cuore va a cercare fuori ciò che non ha trovato dentro. E quando rientra la sera si ritrova, con la solita fatica nell’ani-mo, a convivere con persone che non conosce.

P. Sergio Palumbo

Formazione

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DI NIGUARDA

Ricordo, perché me lo hanno rac-contato, l’euforia della popolazione milanese, quando apriva l’attività il Nuovo Ospedale Maggiore di Milano. Nuovo perché prima non esisteva. Era tanto atteso perché se ne cominciò a parlare già nel 1902, poco meno di qua-ranta anni prima. Ospedale Maggiore di Milano perché in questa città sarebbe stato il più grande, con i previsti 1500 letti che ben presto avrebbero ospitato circa 3000 pazienti quasi tutti i giorni del’anno.

Pazientemente, tutte le programma-zioni venivano portate a compimento per far funzionare questa cittadella; le ore lavorative settimanali erano con-trattualmente più di sessanta. Il per-

sonale con responsabilità gestionale e diretta era costituito dalle Suore di Maria Bambina, che per il vero aveva-no denominazione Suore di Carità delle Beate Gerosa e Capitanio. L’Ammini-strazione del Luogo Pio era quella venu-tasi a formare dopo la concentrazione di vari ospedali cittadini negli Istituti Ospitalieri di Milano.

Certamente le suore, che nel giro di qualche anno divennero più di cento-cinquanta, oltre ai compiti di Caposa-la, o di Responsabile dei Convitti, della

Dal Mondo Camilliano

ed altri Concelebranti.

Scuola per Infermiere Professionali e di altri settori economali, ecc., hanno svolto attività di opera pastorale fin da subito.

Dalla parrocchia di Niguarda (Comu-ne autonomo fino a qualche anno prima) veniva un sacerdote, per le Celebrazioni e per iniziare il Servizio Religioso per i malati, i dipendenti ed i parenti.

Anche oggi è visibile nella Chie-sa centrale, abbastanza trascurata nella manutenzione, l’aula al piano interrato ed al piano soprelevato la balconata, con tanto di organo a canne e la scali-nata con i seggi per i parenti. Al piano inferiore erano destinati i pazienti, al fine di evitare i possibili contagi.

Il primo Rettore Vicario è stato Mons. Germano Carboni, vicario di S.E. Mons. Alfredo Ildefonso Schuster, Cardinale Arcivescovo, poiché, per antica tradizione, il Vescovo di Milano, sin dal 1495 è anche parroco di quello che fu l’Ospedale Maggiore di Milano.

Finita la storia, finita l’ampia dispo-nibilità di Presbiteri diocesani ed uti-lizzati quelli disponibili per il servizio di ruolo in Ospedale, la convenzione regionale utilizzò dei Presbiteri come consulenti, sino ad arrivare ad oggi con dei nuovi Religiosi dell’Ordine di San Camillo De Lellis.

La Celebrazione del passaggio del-le consegne tra Diocesani e Camilliani è stata solenne ma anche familiare ed intimo. Le parole del Cardinale Angelo Scola hanno toccato molti cuori.

Questa occasione mi ha fatto torna-re alla mente la “Festa del Perdono” che viene celebrata il 25 marzo degli anni dispari nella Chiesa della Università

Statale e negli anni pari in Cattedrale.Con la celebrazione del passaggio

delle consegne, per molti sono state cancellate le evidenti carenze che pre-senta l’uomo nella sua vecchiaia, i suoi limiti che, come le lumache, lasciano dietro di sé una bava evidente. Forse per questo, in genere, i sacerdoti preferisco-no evitare gli addii ed uscire semplice-mente di scena.

Comunque lo Spirito Santo, anche in quel giorno, ha unito i cuori, ralle-grandoli per la presenza del Pastore del-la Chiesa locale nel centro della comu-nità dolente e supplice.

La speranza del Mondo della Salute, sia per i Malati che per gli Operatori Sanitari, è quella di trovare chi darà consolazione, come sta scritto “Conso-late, consolate il mio popolo”.

Questa è l’attesa di chi soffre e spera ed è anche l’augurio che formuliamo ai Religiosi Camilliani, perchè siano Ope-ratori Pastorali secondo il ‘Carisma’ del loro Fondatore, San Camillo de Lellis.

Ennio CarobolanteCollaboratore Pastorale

Cappellania Niguarda

Milano:

Niguarda.

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NELLA SPLENDIDA CORNICE DI BOLCAFESTA E 400° DI S. CAMILLO

“Più cuore in quelle mani”: è questa la frase che riecheggia più volte oggi 27 luglio quassù a Bolca, amena località che chiude l’alta Val d’Alpone.

Questa radiosa giornata di mezza estate appare a tutti quelli che si sono qui riuniti, come ideale per commemo-rare il primo biennio dell’apertura della Casa di Riposo, nell’anno giubilare in memoria di Camillo de Lellis, fondatore dell’Ordine dei Religiosi Camilliani.

Mentre mi preparo ad assistere alla messa, il mio sguardo non può evitare di soffermarsi sul contesto in cui è inse-rita la casa di accoglienza. È piacevole osservare che la struttura venne pro-gettata per adattarsi all’ambiente in cui si trova: nella sua forma semicircolare, infatti, sembra rappresentarsi un simbo-lico abbraccio della corolla dei monti che la circonda. Lo stesso concetto è espresso simbolicamente anche da un enorme masso con una forma simile, posto a lato della residenza. Padre Car-lo Vanzo e i concelebranti, Don Giorgio Ferrari e Don Gianluca Bacco, stanno ultimando i preparativi prima di dare inizio alla messa commemorativa, e la mia attenzione si sofferma questa volta sulla pace e la serenità che si respirano qui, in questa piccola struttura, che pare essere quella ideale per trascorrere la più tarda età, poiché a queste altitudini Dio sembra essere più vicino.

Un pensiero analogo è ripreso nel commento al Vangelo del celebrante: la sofferenza, ricorda infatti P. Carlo, richiamando l’altitudine dei monti, ci può elevare a Dio o, al contrario, può farci precipitare nella sfiducia, nell’o-

scuramento, nella tristezza. Ma la sof-ferenza, altrimenti, può essere maestra «può guidarci nel cammino del cielo nella nostra vita in ogni momento, anche nel momento del dolore».

Riconducendoci poi alla parabola del giorno, quella del samaritano (Lc 10,25-37), il sacerdote ricorda con-giuntamente la missione salvifica di Gesù Cristo e dell’interpretazione del suo carisma nell’opera misericordiosa di San Camillo, del quale quest’anno si ricordano i 400 anni dalla morte. Que-sto santo, che abbandonò la vita disso-luta del soldato per abbracciare la fede in Cristo, fu maestro dell’attenzione e della tenerezza verso tutti coloro che soffrono. Camillo de Lellis, dal momen-to della conversione, condusse una bat-taglia a favore dell’uomo, di ogni uomo, assistendolo nella sua sofferenza in tut-te le dimensioni. Nella sua missione San Camillo, infatti, non privilegiò le necessità delle cure fisiche o di quel-le spirituali, anzi, le integrò unendole all’assistenza delle umane questioni morali, promovendo un sistema di cura globale. Per lo stile del suo operato la Chiesa lo chiamerà il fondatore di una “nuova scuola di carità”.

A sostegno e conforto dei sofferen-ti, concluso il commento al Vangelo, i sacerdoti amministrano l’Unzione degli Infermi, tracciando con l’olio santo il simbolo di Cristo sulla fronte degli Ospiti della casa di riposo e di nume-rosi fedeli che assistono alla celebra-zione. Come vuole la consuetudine dei momenti solenni delle ricorrenze uffi-ciali, a conclusione della celebrazione,

Dal Mondo CamillianoDal Mondo Camilliano

Imponente masso di marmo veronese, posto all’ingresso della casa di Riposo ‘San Camillo’ di Bolca (VR), con la seguente dizione:

“Guarda all’orizzonte. Una splendida corona di monti ti abbraccia

e sembra toccare il cielo. Anche la sofferenza e la solitudine sono montagne ardite e misteriose:

toccano l’infinito ma possono farti smarrire nel freddo e nel buio. Per scalarle ci vuole una Guida sicura: San Camillo,

Patrono dei Malati e degli Operatori Sanitari”.

danno il saluto e una parola beneaugu-rante il presidente della struttura San Camillo, Carlo Bogoni, il coordinato-re Pierpaolo Posenato e, dal comune di Vestenanuova, il vice sindaco Edo Dalla Verde. Tutti, con brevi discorsi, sottolineano la soddisfazione del lavoro fin qui compiuto.

Mentre le persone si avviano al ric-co buffet organizzato per festeggiare l’e-

vento, il mio sguardo si rivolge nuova-mente all’ambiente agreste circostante, come se volesse rapire ancora qualche immagine di questo paesaggio incantato da portare nel viaggio di ritorno, men-tre riecheggia ancora nella mia mente il motto di insegnamento camilliano “più cuore nelle mie mani”.

Dott. Alessandro Norsa

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TAPPE DI UN GIRO IN BICI ALLE COMUNITÀ DELLA PROVINCIA

Cari Confratelli,

ho combattuto la buona battaglia, ho vinto la corsa...Il mio breve ma intenso giro fra le Comunità della Provincia Italiana camilliana è

terminato. Devo dire, con ottimo esito. Non ho mai avuto un serio momento critico, le gambe hanno sempre “mulinato” bene.

Un po’ di dolorino ogni tanto al sotto-sella, ma si sa... Ho guardato al totale “reale” (si sa che i preventivi saltano sempre) e ho visto che

ho percorso 1800 km. Divisi in 9 giornate utili (tenendo conto di una mezza giornata di riposo intermedia a Genova), significa che siamo alla media giornaliera di 200 km. Beh, è dura da dire ma mi complimento con me stesso.

Vi ringrazio per la fraterna accoglienza e per il ristoro. Mi scuso con quelle tre comu-nità che per limiti di tempo non ho potuto visitare: Madian e Ospedale a Torino, Vialba a Milano. Mi scuso con Venezia se ho fatto il topo clandestino e mangiatore, ma non potevo perdere il ritorno del ferry in una giornata che contava alla fine 246 km.

Ciao a tutti e grazie di nuovo. Viva la fraternità.P. Edoardo Gavotti

HAI VOLUTO LA PROVINCIA ITALIANA? PEDALA... !

in biciclettaIn tempi da spending review uno

le inventa tutte. Ho pensato che per quest’anno avrei potuto approfittare delle vacanze estive per fare un itinera-rio ciclistico che mi facesse toccare tut-te le cittadine dove si trovano le nostre case religiose. Il mio viaggio, fatto in solitaria con uno zainetto sulle spalle, è iniziato il pomeriggio di domenica 21 luglio partendo da Verona Paradiso, ultima sede del provinciale, ed è termi-nato la sera di martedì 30 luglio a Vero-na B.go Trento, dopo aver consumato il pranzo nella nuova sede del Provinciale in Capriate. Al termine ho registrato la distanza totale di 1820 km. Se non con-teggio la mezza giornata di riposo del venerdì 26 luglio, mi ritrovo con una media giornaliera di 200 km. Con un trend del genere, in bicicletta di tempo

per pensare ne hai, eccome! Salvo tu non sia uno di quelli che si ficcano un paio di auricolari negli orecchi e vi fan-no ronzare musica tutto il giorno. Fra la più parte di pensieri futili, a volte qual-che buona riflessione ti sovviene e ti dispiace lasciarla lì per strada, in mezzo alle bottigliette di acqua abbandonate.

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Status quaestionisNon sono certamente il primo e

non sarò l’ultimo. L’uso della biciclet-ta da corsa appartiene alla storia della Provincia Lombardo Veneta, quella che conosco meglio, ma non ho motivo di dubitare che lo sia anche per altre Pro-vince. Nella mia memoria affiorano i nomi memorabili di padre Luigi Dolci (vittima ante litteram di un pirata della strada), padre Abbondio Clerici, padre Marco Bagnara, padre Lino Baggio, solo per citare alcuni dei più illustri vetera-ni. Ad essi si sono aggiunti nel tempo vari religiosi, favoriti dalla migliorata tecnologia e dalla variegata tipologia di bici (molti preferiscono la mountain bike).

Per quanto mi riguarda, la mia pri-ma bici da corsa l’ho avuta in regalo dai miei fratelli maggiori, ciclo-amatori, in occasione dell’Ordinazione sacerdotale. In quel periodo ero assistente al Semi-nario di Mottinello e nelle mattinate libere potevo scorazzare nella pianura o sui rilievi del Veneto. Fin dai primi anni, con uno o più dei miei fratelli, facevo un giro estivo – con zaino in spalla o con auto a seguito - usufruendo dove possibile dell’ospitalità delle nostre case religiose. Nell’estate del 1995 –conte-stualmente col trasferimento da Castel-lanza a Como – ho lasciato la casa reli-giosa con la bici e zainetto, facendo un percorso di una settimana che passava per Tortona, Genova, Mondovì, Torino, Valganna e approdava in Val Imagna, dove i miei facevano le ferie. Cinque anni dopo, ho osato fare in solitaria un pellegrinaggio per l’Anno Santo 2000 il quale, partendo da Treviglio, toccava la Lunigiana, Forte dei Marmi, Grosseto, Roma, Napoli, S. Giovanni Rotondo,

Bucchianico, Cervia, Mottinello, Fon-do, Passo dello Stelvio per finire, attra-verso il Mortirolo, a Treviglio. In totale 2.300 km. Allora avevo 43 anni e da poco avevo acquistato una bici d’occa-sione – sempre in acciaio ma con cambi al manubrio – , alla quale avevo fatto applicare un supporto posteriore per appendere due borse con l’indispensabi-le. La benefica sensazione tratta da quei 17 giorni era di avere fatto 6 mesi di ferie! L’esercizio del corpo libera la testa dai pensieri e il cuore dagli appesanti-menti. L’anno seguente – senza zavorre in quanto accompagnato da un amico in auto – partendo da Como avevo fat-to in dieci giornate una sorta di cuci-tura ideale delle Alpi, attraversando di qua e di là i vari passi di: Aprica (m. 1113 s.l.m.), Tonale (m. 1883), Palade (m. 1512), Stelvio (m. 2760), Bernina (m. 2323), Maloja (m. 1815), Spluga (m. 2115), San Bernardino (m. 2065), San Gottardo (m. 2742), Furkapass (m. 2431), del Sempione (m. 2005). Infine nell’estate 2010, nel decennale del giro giubilare, ho voluto percorrere tutta l’Italia sottostante la Pianura Padana per accertarmi che avesse davvero la forma dello stivale. In nove giorna-te, scendendo grossomodo dalla parte adriatica, sono giunto a Crotone, dove ho sostato una giornata, e in altre nove sono risalito dalla parte tirrenica. In tutto 3.060 km, con una media giorna-liera di 170 km (la tappa più lunga da Taranto a Crotone è stata di 249 km). Volete sapere una stranezza? Rispetto ai miei 81 kg sono calato sì e no di 1 kg! Il ricordo bello di quelle giornate è legato all’ospitalità, ricevuta per metà da case camilliane (Bologna, Predappio, Buc-chianico, S. Angelo al Monte, Crotone,

Dal Mondo Camilliano

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Napoli, Roma, Firenze) e per metà da altri conventi di religiosi (Osimo, Bari, Polla, San Francesco di Paola, Cassino, Perugia, Pontremoli) o da cappellanie diocesane (Lecce, Taranto).

Non so come la pensi il lettore, ma nonostante questi giri un po’ stakanovi-sti non mi considero un “malato di bici-cletta”, quella tipologia di cicloamatore che s’inquieta se per una volta il brutto tempo lo obbliga in casa. Infatti, cam-biarmi per uscire mi richiede un piccolo sforzo psicologico.

La biciÈ famoso il detto canzonatorio:

“Hai voluto la bicicletta? Pedala!”. La bici è un po’ come la fidanzata: è bella, attraente, seducente poi te la sposi e comprendi tutte le calamità che ti sei attirato. Perché la bicicletta da corsa è bello vederla spingere dagli altri, ma quando sei tu a pedalare ne avverti il pedaggio. È come una bella macchina ma senza benzina: se fai il pieno ok, altrimenti essa resta lì in bella mostra nel garage. Il titolo di questo resoconto fa il verso all’adagio sopra citato: “Hai voluto la Provincia Italiana? Pedala!” Sul-

la carta, fare la Provincia Italiana può anche essere un passaggio sbrigativo, ma poi occorrerà vedere nel concreto, pedalata dopo pedalata (metafora n. 1). Lo aveva ben capito quel preveggen-te di Camillo Benso Conte di Cavour: “Abbiamo fatto l’Italia; ora occorrerà fare gli italiani!”.

Se non erro, la bicicletta inizial-mente era chiamata velocipede, a sot-tolineare l’acquistata velocità per chi era aduso al “cavallo di san Francesco”. Poi, nel nome prevalse la figura carat-teristica delle due ruote, biciclo appun-to. Davvero un grande passo in avanti nella velocità di base del popolino! Ora esiste un tipo di bici (detta bici reclina-ta) impostata in modo da ottenere delle velocità che possono superano di gran lunga i 100 km/h, ma non è su questo che voglio dilungarmi, se non per dire che con un mezzo del tutto tradizionale e a bassissimo costo si possono ottenere risultati strabilianti. In un trend eco-nomico da spending review e col traffico caotico delle nostre città, non mi pare una nota da poco. Il senso del vero pro-gresso lo ha capito quel saggio scriba che sa trarre dal suo cassetto cose nuove e cose antiche…(metafora n. 2).

Nelle nostre case di formazione, lo sport principe era tradizionalmente il calcio. Oltre alla popolarità nazionale, esso aveva il vantaggio di tenere occu-pati una ventina di ragazzi/giovani e soprattutto di farli interagire; era una palestra di vita comunitaria. Negli anni Settanta, a San Giuliano c’era qualche chierico appassionato di bici da corsa. Erano i vari Contarin, i Guidolin, i Dal Corso, i Cauzzo... Per lo più uscivano assieme e poi raccontavano agli altri dei loro progressi. Io stesso, al primo

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anno di teologia, li ho accompagnati col pulmino al Seminario di San Vito di Pergine Valsugana. In quel tempo preferivo le corse a piedi non compe-titive. Notavo che la bici, rispetto al calcio, aveva una dimensione più indi-viduale. Con la bici puoi uscire da solo, mentre per organizzare una partita di calcio devi convincere i riluttanti a iscriversi, perché “altrimenti non riu-sciamo ad avere le squadre complete”. E qui abbiamo una seconda riflessione da fare: chi fa da sé, fa per tre. Quando dal periodo formativo si passa al ministero, mica te la organizzi la partita di calcio. La bici invece è sempre obbediente, è là e ti aspetta per vivere un momento di fusione con te, perfetta sincronia di pedalata e giro ruota. Non la devi sup-plicare la bici. Diventa il tuo partner fedele. Ti chiede ma ti dà. Se un giorno proprio non “gira la gamba”, te lo dice schietta schietta. Non fa adulazioni, non fa sconti. La competizione è fra te e te (metafora n. 3). Il tuo avversario sei tu. Nella partita di calcio potrai essere magari in forma, eppure colpisci i pali, ti ritrovi avversari arcigni o compagni di squadra inadeguati... Il risultato non necessariamente è lo specchio fedele della tua bravura.

Per un buon formatore, il risvolto individualista della bici potrebbe susci-tare delle perplessità. L’adagio “chi fa da sé fa per tre”, se da una parte potrebbe essere un’interessante e umoristica pro-spettiva trinitaria (per salvare l’umani-tà Dio s’è fatto in tre!), dall’altra non sembra incoraggiare la fraternità, dove ognuno dovrebbe farsi carico dei pesi e dei tempi dell’altro. La bici dunque nasconde un’insidia: l’individualismo. E anche la competizione appare più sfac-

ciata: “ecco, io ti ho dato tot minuti di distacco!”. Esibizionismo e ostentazione di sé sono sempre dietro l’angolo (meta-fora 4). Ma, sappiamo bene, è dal cuore dell’uomo che vengono le cattiverie. La bici è solo uno strumento, un’occasio-ne. Pensiamo a quelle belle escursioni di intere famiglie o di gruppi parrocchiali.

Lo sapete che per consuetudine due ciclisti che s’incrociano o si sorpassano, pur non conoscendosi spesso si saluta-no? È un tratto cavalleresco che fa ono-re a questo sport, un po’ come avviene sui sentieri di montagna dove è naturale e piacevole una parola fra escursioni-sti. Ebbene, questo tratto cortese stem-pera l’aspetto competitivo. Sottolinea ciò che unisce, è la condivisione di una cultura (la passione per la bici, la valo-rizzazione della fatica...). Sì, perché la scelta della bici è un fatto culturale! Lo puoi toccare con mano quando stai facendo una fatica boia sulla salita di un passo, immaginate quello dello Stelvio, e ti sorpassa una moto che in breve salta via via tutti i tornanti davanti a te. La fatica! Ma anche la soddisfazione! Quel motociclista, dopo il Passo dello Stelvio, in giornata ne vedrà altri tre o quattro di passi. E il giorno dopo farà confusione fra l’uno e l’altro. Ingoia strada ma non esperienze! Si sofferma un minuto, e poi di nuovo via. Il ciclista arriva al passo, legge “P.so dello Stelvio, 2760 s.l.m.” e gli scappa una lacrima di commozio-ne. Il suo viaggio è completo così. Non accumula strada su strada. Ha misurato le pedalate, il respiro, l’alimentazione, l’alternanza di sella e pedale. Dice a se stesso: questa salita l’ho fatta meglio di dieci anni fa, e con meno fatica. E quella è una giornata da segnare sul calenda-rio, ma non ce ne sarà bisogno. Resterà

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stampata nella memoria affettiva, dove i ricordi sono fonte di acqua viva. È que-sto che sottende al saluto fra due cicli-sti, il compiacimento che anche l’altro apprezzi e condivida la tua medesima esperienza (metafora 5).

Ma voglio ritornare sul quel “chi fa da sé fa per tre”. L’idea di organizzarmi un giro per tutte le città che ospitano le comunità della nuova Provincia Ita-liana non è nata come un fungo. Già nell’Ottobre 2012, un gruppo di cinque ciclisti con pulmino al seguito nell’arco di due giornate effettive (dal pomerig-gio del 4 al mezzogiorno del 6), hanno visitato le cinque città dove erano state erette nel 1862 le Case della costituita Provincia Lombardo-Veneta (tragitto: Cremona, Mantova, Ferrara, Padova, Verona). Un modo per onorare i 150 anni della Lombardo Veneta, che peral-tro stava per essere chiusa in quanto tale. In quel momento, mi dicevo che sarebbe stato interessante fare un giro anche per tutte le Comunità dell’Ita-lia in occasione dell’anno centenario del Santo Fondatore, e non è detto che ciò non avvenga. Il problema è: quan-ti effettivamente sarebbero in grado di reggerlo (penso si tratterà almeno di 4.000 km) e come far coincidere il periodo di ferie di ognuno. Insomma, molte perplessità sulla fattibilità mi restano. Nel frattempo il nostro Vica-rio Generale, P. Paolo Guarisce, ha organizzato per Settembre 2013 una pedalata sulla tratta Roma -Bucchianico andata e ritorno, all’incirca della dura-ta di una settimana. Lo confesso: per la gamba che mi sono ritrovato in quel periodo, dopo i 1.800 km del giro di luglio, sentivo più consono per me coprire la distanza Roma-Bucchianico

in una sola giornata, e così ho fatto con la sola andata, partendo due giorni dopo. Quando dico che si potrebbero toccare tutte le comunità italiane, ho in mente lo spazio di un mese al massimo. Come si potrebbero conciliare parame-tri così diversi? Quando mi capita di dire che ho fatto il giro dell’Alta Ita-lia in 9 giorni, mi sento domandare: in quanti eravate? “Da solo: chi fa da sé fa per tre”. La risposta è un po’ birichina, ma è una realtà e va guardata per quel che è: c’è chi regge la media dei 23 k/h, chi dei 27, chi dei 30. Non siamo tutti uguali. Come nella vita del resto, come in tutte le cose. Tarpare le ali a chi vola, così come stressare chi ama la calma, non è buona cosa: l’importante non è la velocità, quanto mantenerci tutti nel-la direzione giusta (metafora n. 6). Ed è stato bello con quel gruppetto di cui sopra, ritrovarci a Bucchianico assieme, attorno ad un’allegra tavola la sera del 7 Settembre. Beh, è anche gratificante vedere un confratello che davanti al tuo comparire sulla porta dopo 225 km si lascia sfuggire quel “Non ho parole!”.

La bici è onesta, dicevo. Quel che sei, sei. Sei allenato? Rendi. Sarà per la bicicletta più leggera, sarà per altro (ho anche perso qualche kg stavolta), ma questa stagione è stata per me particolar-mente di grazia. Quel che si dice “essere in forma”. Cosa fai quando sei in forma? Sei curioso di vedere il grado di fatica e i tempi cronometrici nel ripetere quelle tal salite che un giorno ti avevano fatto patire. È come lavare l’onta subita! Quel punto in cui non ce la facevi più e hai dovuto mettere il piede a terra per pren-dere fiato Che delusione! E nell’affron-tarlo di nuovo, stavolta hai il timore che si ripresenti quel medesimo fallimento. I

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nostri buchi neri sono legati a luoghi, a tempi, a persone Le nostre ferite! Sono dure a guarire del tutto. Ebbene, quella salita stavolta l’hai fatta in men che si dica. Ciononostante, la prossima vol-ta, avrai ancora qualche latente timore (metafora n. 7).

Si fa presto a dire “bicicletta”. Non basta la due ruote per mettersi in strada. Prima devi controllare che tutto sia al suo posto, l’abbigliamento e gli accessori vari: maglia superiore, maglietta intima per sudore, body, casco e bandana per sudore, guantini, calzini e scarpette, tachimetro, borraccia piena, pompa o bombolette, astuccio sottosella per ripa-razione forature. Qualcosa d’altro ve lo risparmio. Hai preso tutto? No: il tele-fonino se succede qualcosa, due soldi per la stessa ragione, documento con recapito per eventuali soccorritori. Hai azzerato il tachimetro prima di partire? Hai riempito la borraccia? Hai pompa-to bene le ruote? Hai preso le chiavi di casa? Vi assicuro che preparare la cele-brazione della Santa Messa è molto più sbrigativo. Ogni cosa va preparata. Cer-to l’abitudine aiuta, ma anche il metodo. Allora puoi uscire senza troppe ansie. Anche il Principe di Condè, riferisce il Manzoni, dormì una notte tranquilla la vigilia della sua battaglia (metafora 8). La cosa peggiore è il dubbio mentre sei in strada: “Non sarà che oggi avevo un appuntamento con qualcuno?”.

La strada“E se ti capita qualcosa per strada,

cosa fai?”. È questa una delle obiezioni più ricorrenti quando precisi a qualcuno che viaggi senza un mezzo a seguito. La strada. La strada come lontananza dalla casa e dalle sicurezze, come incognita,

come pericolo. È vero, sulle strade ci sono pericoli, non si può negare. Puoi fare una caduta o essere investito. Beh, un’ambulanza e un ospedale decente ci saanno pure in giro, non sono un’esclu-siva di Verona! Chissà perché, i luoghi lontani dai nostri sono considerati più pericolosi. Si tende a credersi più al sicu-ro a casa nostra, finché un brutto giorno scopriamo che proprio a casa nostra sono entrati i ladri e proprio nel nostro paese accade un fatto increscioso. Sopravvi-ve quel serpeggiante preconcetto per cui i luoghi più sono lontani e più sono pericolosi. Negli USA si pensa all’Italia come al paese della mafia e in Italia si pensa alla Colombia come al Cartello di Medellin. Il barbaro è sempre quello oltre il confine (metafora n. 9).

“E se buchi?”. Dirò, per cominciare, che nel giro dell’anno 2000, in 2.300 km non ho mai forato e in quello del 2001 pure, mentre nel 2010 ho forato due volte, entrambe però per disatten-zione (sono finito sopra una buca). Se il copertoncino non è usurato e si sta accorti, è ben difficile forare. Ma può capitare, è vero, e stavolta è capitato

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sul passo del Muraglione, fra Predappio e Firenze. In quel caso si fa buon viso a cattivo gioco e si mette mano all’a-stuccio che sta appeso sotto il sellino. C’è tutto quanto occorre per sostitui-re la camera d’aria e per “metterci una pezza”. Ora non c’è neppure bisogno di metterci il mastice perché le pezzette sono adesive. Ce ne sono persino per tenere congiunto un eventuale taglio del copertoncino stesso. Se sei abile, te la cavi in un quarto d’ora. Ogni tanto si vede per strada qualche camera d’aria abbandonata lì da qualche ciclista poco amante dell’ecologia. Una l’ho vista sul tratto da Crema a Treviglio ed ero ten-tato di raccoglierla, non perché volessi rubare il lavoro agli stradini, ma perché è davvero uno spreco. Ho cercato nel-la mia memoria di ricordare se mai un foro aggiustato si sia riaperto e non mi è sovvenuto. La parte aggiustata resta più ispessita e resistente, come quelle ferite della vita che, se curate con pazienza, ti rendono più forte (metafora n. 10). Quella camera d’aria sembrava invoca-re un’altra opportunità, quel perdono offerto che rende più salda una relazio-ne dopo un contrasto.

“Come fai a fare 200 km ogni gior-no!” Semplice, non tutti in un colpo ma uno dopo l’altro... e conti fino a 200. Non è difficile, occorre semplicemen-te il tempo necessario. Ci sono padri e madri di famiglia che non stanno mai fermi e lavorano certamente per più di dieci ore il giorno. Se io faccio 25 km/h, in quattro ore ho coperto 100 km. Met-tici pure una pausa o due, in cinque ore (cioè l’arco di una mattinata o di un pomeriggio) ti fai tranquillamente il percorso. Ogni giorno il leone si alza e sa che deve correre per prendere la sua

preda. Ogni giorno la gazzella al matti-no si alza e sa che deve correre per non farsi prendere dal leone. Ogni operaio si alza e sa che deve lavorare le sue ore. Il ciclista si alza e sa che deve farsi la sua pedalata quotidiana (metafora n. 11)... e senza moglie, figli e suocere e mutui a carico. Solo uno zainetto di 3 o 4 kg.

“E il caldo?!” Ci credete? In quelle giornate assolate di luglio credo di esse-re stato fra gli italiani che meno hanno sofferto il caldo e l’afa. Nelle comunità, vedevo qualche confratello sbatacchiar-si in faccia un giornale o un ventaglio mollemente stravaccato sulla sedia. E io mi sentivo tonico, energetico. Pen-so che il buon allenamento permetta al corpo di traspirare bene, di sfruttare al meglio il diminuito ossigeno dell’aria. Io avrò anche sudato e molto, ma non ho sofferto il caldo. E poi, l’andatura permette di avere un ventilatore natu-rale creato dalla spinta di penetrazione nell’aria. Inoltre c’è alternanza fra il sole e l’ombra delle piante, e c’è ogni tanto la fontanella al ciglio della strada o nella piazzetta che ti permette di refrigerarti. E poi ci sono i tuoi pensieri e ragiona-menti che, operando una de-reflessione, ti permettono di non soffermarti sul pensiero fisso del caldo. Sì, anche il cal-do è relativo (metafora n. 12).

La fontanella merita un commen-to ulteriore. È la Meriba e Massa del ciclista, che in certi momenti avverte l’aridità della sete. Senza sospendere la pedalata, il suo occhio corre a cercare semmai ci sia nel parco giochi o nella piazzetta della chiesa una fontanella. Passa un paese, passa il secondo, ma la fontanella tarda a presentarsi. E allora si alza l’invocazione o anche l’impreca-zione perché le autorità cittadine non

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installano in luogo pubblico un servizio tanto prezioso quanto economico. E ti sovviene il dubbio che la cosa sia una concessione ai ristoratori. È giusto pren-dere il viandante per la sete? L’acqua è un bene elementare. L’acqua è di tutti. Anche di un bicchiere d’acqua, dato o rifiutato, sarà tenuto conto nel regno dei cieli. E questo lo capisci lì, sulla strada (metafora n. 13). Poi, alla disperata, ti ricordi che ogni cimitero ha il suo bel rubinetto per bagnare i fiori sulle tombe E là nessuno presenta il conto.

“E se sbagli strada?”. Oggi sono in voga i navigatori, ma io procedo alla vecchia maniera con mappa cartacea e segnali stradali, senza trascurare la vecchia regola per cui “con la lingua si va in capo al mondo”. Si può sbaglia-re strada, è vero. L’importante è non persistere e correggere il tiro, il che è sempre possibile essendo le strade una congerie di vasi comunicanti, una rete stesa sull’intero territorio nazionale. Imparassimo dalla strada la verità del-la nostra interdipendenza! Come sono brave le strade a mediare certi nostri errori, se solo le valorizzassimo! Non tutte le strade prevedi di percorrerle, soprattutto quelle secondarie o disse-state, eppure quando sei fuori rotta sono proprio le stradicciole più insignificanti a riportarti sulla via smarrita. Quella parola giusta detta al momento giusto che ti arriva da chi meno te lo aspetti (metafora n. 14). Un consiglio: quando per strada chiedi un’indicazione, diffida di quelli che ti dicono di prendere la via a sinistra e intanto la loro mano vira la destra. La strada è una cosa seria, non è mica la politica

E poi, per orientarsi, restano sempre quei riferimenti naturali ai quali non

siamo più abituati a porre attenzio-ne, gli elementi naturali quali il sole, le montagne... Me ne sono reso con-to nel tratto da Cremona a Treviglio, fatto di mattina. Fra le due città ci sta Crema. L’esperienza mi ha insegnato a non seguire sempre pedissequamente le segnaletiche stradali, che hanno lo scopo di portare il traffico pesante fuori dal centro cittadino in circonvallazioni e tangenziali. Al ciclista conviene pas-sare per il centro. Come non perdere l’orientamento nei meandri di viuzze e vicoli? La tua ombra. Essa è come l’ago della bussola: se sta sempre dalla stessa parte, allora procedi senza esitazione. Una verità così semplice eppure così trascurata! L’idea di avere la mia ombra come alleata mi ha richiamato alcuni temi junghiani circa gli aspetti umbrati-li della nostra vita. Se non la temi e non la fuggi, la tua “ombra” ti ricorda una verità di te e ti rende più forte (metafo-ra n. 15). Anche le montagne, con tutta la loro imponenza, sono un riferimento sicuro, così nitide quando il nubifragio del giorno dinanzi ha reso terso il cie-lo. Sempre nella tratta da Cremona a Treviglio ero accompagnato da quei due angeli custodi, l’ombra davanti a me sulla sinistra e le montagne orobiche stagliate all’orizzonte. Non le avrei rag-giunte perché Treviglio è nella pianura antistante, ma la direzione era quella. Un po’ come la proposta evangelica, in fondo: magari non potrai in questa vita raggiungere pienamente Dio, ma se guardi a Lui, nel frattempo la tua uma-nità ne guadagna (metafora n. 16).

Riprendiamo il tema del pericolo. Lo sanno bene – sempre troppo tardi! – quei simpatici roditori che sono i ricci. Più raramente capita ai ratti o ai gat-

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ti, che evidentemente sono più scafati e il nastro d’asfalto lo attraversano di corsa. Provo un istintivo senso di pietà per gli animali che restano schiacciati dai veicoli. In un battibaleno, hanno pagato a caro prezzo l’inesperienza e lì hanno mosso il loro ultimo balzo, esa-lato il loro ultimo respiro. La morte è di casa sulla strada. La morte violenta, che non è come la morte naturale. Da sano che sei, ti ritrovi morto. O magari ti illudi di essere sano e non lo sei, per-ché camminare sul ciglio di una strada forse non è un comportamento del tutto igienico. Assumersi una fascia di rischio significa introdurre un elemento pato-logico nella propria vita. Prevale una latente negazione: “Beh, statisticamen-te parlando, perché dovrebbe capitare proprio a me?”. È vero, ma possiamo anche girare la frittata: “E perché non proprio a te?!”. Duranre il percorso più lungo del mio viaggio - da Trento a Venezia Alberoni a Padova - conclu-devo la mia fatica quotidiana all’ora di cena con 246 km. Davanti all’entrata dell’Ospedale patavino, dove mi atten-deva la cena, mi sono infilato nello spa-zio fra il bus davanti a me e la corsia alla sinistra. Un’auto che procedeva su quella, lentamente per fortuna, con lo specchietto mi urtava il gomito e sono stato in gamba a restare in sella. Credo che l’autista non se ne sia neppure reso conto. Quello che non ti capita in 246 km, ti capita negli ultimi 10 metri. Non domandarti “Perché proprio adesso!”: ogni istante è buono per morire. Colpe o non colpe (metafora n. 17).

In questo terzo paragrafo non ricor-rerò alle metafore e parlerò apertis ver-

bis. Credo che noi non siamo abbastan-za consapevoli del dono dei confratelli. Li diamo per scontati, allo stesso modo di quanto accade per i nostri famigliari. Quando erano in vita i miei genitori, mi ero proposto di fare una capatina men-sile a casa; ora che sono morti apprezzo molto il senso di gioiosa accoglienza da parte dei miei fratelli. Avverto di avere ancora un approdo sicuro e caldo. Se penso a quelle persone che invece, con la perdita dei propri cari, non hanno più nessuno, mi ripeto quanto io sia fortu-nato ad avere quattro sorelle e tre fra-telli, con famiglie a seguito.

Il mio passaggio per le Comunità mi ha dato riprova di quanto io sia inseri-to anche nella famiglia camilliana. In fondo, i confratelli che ho incontrato li conoscevo già. Non venivo ospitato da gente estranea ma da persone con cui condivido la vita. In questo frangente di trasferimenti poi, gli argomenti e i pettegolezzi non mancavano di certo. “Hai saputo dove viene trasferito quel-lo? È vero che quell’altro non farà più quel tipo di ministero?”, e via dicendo. Da una comunità raccoglievo un’infor-mazione e la passavo alla successiva. Mi pareva d’essere l’ape che feconda i

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fiori svolazzando dall’uno all’altro.Certo, per questo ci sono già i com-

puter e i telefonini! P. Pasquale Anzi-liero me lo ricorderebbe subito, con un sorrisino allusivo. Concordo. Ma la visita de visu è un’altra cosa, è la visita! Non vado a scomodare il senso biblico di questa figura che tutti conosciamo, per trasmettere a dei pastori il valore pregnante della visita. Il fratel Amil-care Rebellato, che ora se ne torna in Thailandia, manteneva la bella consue-tudine di fare visita qua e là alle altre comunità. Noi ci vediamo agli incontri istituzionali, ai funerali e generalmente sempre nelle medesime case di nostra proprietà. È bello poter vedere nelle cappellanie dove vivono i nostri con-fratelli, il loro salottino, la loro cuci-na, le stanze. È la loro casa! Hai anche modo di vedere come mangiano, cosa mangiano, come dicono le preghiere camilliane. Noti alcune particolarità. Sì, sono contento di avere visitato i miei confratelli.

E poi questa visita aveva anche uno scopo specifico, quello di legare simbo-licamente fra loro le comunità di due Province religiose che si sono saldate. Vedere i volti, sentire le voci e i ragio-namenti dei confratelli “sposati” è un modo per rendere reale quella che per ora è un’unione istituzionale. Il giro in bici voleva essere un mezzo per accor-ciare le distanze affettive ed affrettare l’unione delle persone. Era anche l’uni-ca maniera per fare una visita generale, considerato che Padre Provinciale non lo sarò mai. Vorrà dire che accanto alla visita canonica/pastorale nasce anche il modulo della visita con/fraterna.

L’accoglienza. “Ti aspettiamo, eroe!”; “Complimenti, ma sei sicuro di farcela?”;

“Vieni che sarai certamente il benve-nuto!”; “Spero che tu passi da me, anche se sono solo in una residenza”. Sono alcune delle espressioni di simpa-tia che ho ricevuto come risposta alla mia prima e-mail di informazione sul giro. Padre Roberto Corghi addirittu-ra s’è premurato di stendere una serie di raccomandazioni umoristiche. Sono gesti di interessamento che fanno pia-cere. Magari ci sarà stato anche chi avrà pensato: “Questo è fuori di testa, non ha altro da fare”. E così via. Sono grato anche a questi eventuali confratelli che hanno avuto il buon cuore di risparmi-armi le loro considerazioni.

C’è poi l’accoglienza fattiva al mio arrivo in casa. “Hai sete? Vuoi fare pri-ma la doccia? Chissà come sei stanco!”: è una manifestazione dell’affetto mater-no auspicato dal Padre Camillo? Se lo dobbiamo ai malati, perché non anche a un confratello “emaciato” dalla fatica? E poi ancora: “Come è andata? Non ha mai bucato? Sei riuscito a trovarci subi-to? A che ora sei partito?”. A tavola ti fanno sentire protagonista.

“Sono proprio contento che tu sia venuto a trovarmi”. Queste parole, padre Domenico Lovera le ha ripetute più volte nei 20 minuti che sono riu-scito a fermarmi nella casa di Piossa-sco. Nel mio tour non potevo davvero permettermi la visita di tutte le nostre realtà, ma per la casa di spiritualità di Piossasco mi sono concesso una dovero-sa eccezione. Anch’io sono stato molto contento di aggiungere qualche km per poter rivedere P. Domenico ad un anno dalla grave malattia che ha rischiato di togliercelo anzitempo.

C’è anche l’accoglienza di chi non la aspetti. Un acquazzone mi ha fermato

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il tempo necessario per non arrivare in orario all’ora di cena. La comunità si era già sciolta ma il fratello - che cer-tamente ha avuto l’incarico dal supe-riore assente per ferie - mi ha atteso e fatto compagnia intanto che cenavo e anche dopo, fino a che non mi ha portato nella mia stanza per il riposo. Siccome lo conosco per uno che non risparmia frecciatine, m’aspettavo una qualche benevola battuta o rimbrotto. Invece solo molta cortesia e simpatia. Vedi come ti sorprendono le persone?

C’è anche chi ti viene a prendere perché il buio ti ha sorpreso, come nel caso della tappa da Predappio a Forte dei Marmi. Nelle misurazioni preventi-ve non devo essere un asso, e anche in quella giornata avevo calcolato una ven-tina di km in meno, oltre ad avere per-so mezz’ora il mattino per aggiustare la

foratura. Sta di fatto che a Viareggio, pur avendo ancora l’energia per pedalare, la prudenza mi ha suggerito di sospendere e di attendere l’arrivo di P. Davide Negri-ni. Poi c’è chi si premura di accompa-gnarti per un tratto all’uscita dalla città che non conosci; P. Giuseppe Rigamonti addirittura s’è messo in uniforme e mi ha accompagnato con la sua bici da corsa da Capriate fino a Palazzolo d’Oglio, al con-fine della provincia bergamasca. Ora mi sovviene un dubbio: mi accompagnava al confine o al confino?

In qualche casa, pressato dal tempo, non sono riuscito ad approdare. Sono quelle comunità multiple presenti nella medesima città: Madian e Cappellani ospedalieri a Torino, Vialba a Milano.

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A testimoniarlo, implacabile, ci sta la casella vuota sul foglio dei timbri.

Già, il timbro. Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio. Avete presente cosa fanno gli escursionisti d’alta altura quando transitano da un rifugio all’al-tro? Prendono il timbro del rifugio e lo pestano sulla cartolina. Mi dicono che anche nel percorso per S. Giacomo di Compostela si faccia così. Considerato il carattere pellegrinante del viaggio, ho pensato di crearmi questo documento. Se non andavo per santuari e rifugi, è pur vero che si trattava di case religio-se che hanno una storia di fraternità, di spiritualità e di ministero alle spal-le. Sono i nostri santuari della carità. Per una sfortunata coincidenza (il mio poco tempo e il momento comunitario di preghiera), nella casa di Alberoni Venezia non ho avuto modo di incon-trare alcun confratello. Niente timbro, niente firma! Allora ho chiesta la firma al portinaio. Eeeh... l’importanza dei collaboratori laici! È stato bello comun-que, mentre ero alle porte di Firenze, essere raggiunto per telefono dal supe-riore che manifestava il dispiacere per il contrattempo. Ciao amici di Venezia. Il mio passaggio non è stato vano, ve ne sarete accorti guardando il vostro frigo.

Uscendo da Mottinello mi sono imbattuto nella signora Francesca Cauzzo, sorella del nostro P. Donato, noto cicloamatore di stanza a Roma. Ma guarda le coincidenze a volte! Sto facendo un giro di fraternità e mi viene ricordato che ci sono anche i famigliari dei confratelli. Fratelli e sorelle in qual-che modo per noi acquisiti. Qualcuno di loro ci tiene a mantenere contatti e amicizie con noi e manifestano sponta-neamente la gioia di incontrarci. A Tur-

bigo ho pranzato piacevolmente con tre miei cugini e la moglie di uno di loro; a Treviglio mi sono fermato un’oretta con mio fratello Roberto, che mi ha pompa-to le ruote e ha avuto misericordia della mia catena mettendoci un po’ d’olio. A Castellanza, Lurate Caccivio e Monta-no Lucino ho potuto rivedere vecchie amicizie. Mettere mano all’aratro, per un consacrato, non significa arare sotto terra le persone che hanno avuto parte importante nella vita.

Vado alla conclusione e riservo al finale il pensiero che più mi sta a cuore. Ogni volta che sono partito da una casa dei confratelli, una volta rassicurato d’a-vere imbroccato la strada giusta, dedi-cavo una breve preghiera mariana alla comunità che mi aveva ospitato. Come accade alla mia comunità, anche le loro stanno avviando il triennio come una nuova avventura, nuovi superiori, nuo-vi confratelli. Alcuni di loro li ho visti stanchi, altri un po’ sofferenti. Anche i malati dei miei reparti d’ospedale resta-no nei miei pensieri stradali. Ci scherzo un po’ con loro – alla faccia dell’empa-tia! –, soprattutto con quelli della Car-diochirurgia. “Adesso vi faccio rabbia: sapete che nelle mie ferie farò un giro in bici per tutta l’Alta Italia? Così evito di farmi la prova dello sforzo”. Mentre pedalo e sento l’energia prorompere dalle gambe e mi gusto il paesaggio, mi sento davvero un privilegiato. Allora mi tolgo quel vago senso di colpa dicendo un’Ave Maria per i miei malati, quei malati che ho canzonato sì, ma con amore. E loro lo capiscono e si sento-no portati in giro sulla mia bici. Non un peso stavolta, ma una forza di spinta in più sul motore.

P. Edoardo Gavotti

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Suggerimenti fraterni ad un Confratello ciclista…

Caro P. Edo, prima che tu dia inizio al tuo “Giro d’Italia”, che in Comuni-tà cercheremo di seguire attraverso le informazioni di P. Pasquale, pronti poi ad offrirti la nostra accoglienza fraterna, mi permetto di darti alcuni suggerimen-ti, senza alcuna intenzione di “prenderti in giro” ma sapendo invece quanto sei incline al buonumore. Eccoli.

Poiché sei il solo “girino” a sfidare il lungo percorso delle strade camilliane dell’Italia (un vero “girone” adatto a un “ciclone” come te), sono certo che “sarai sempre in testa” (come le pulci), ma non inorgoglire per questo: piuttosto, quan-do giungerai al traguardo, sappi “vincere con distacco”.

Lungo il percorso, mantieni “buoni rapporti” con la tua bicicletta, trattala bene, fa’ spesso “il pieno alla sua borrac-cia” (ma non dal benzinaio) e applica sul suo manubrio un buon navigatore, ma sappi che può andare benissimo anche un semplice “giroscopio”.

Non lasciarti affascinare dal tifo degli ammiratori e delle ammiratrici (soprat-tutto quelle che fanno “girare la testa”) che incontrerai sul ciglio della strada, ma rimani concentrato per non “girare a vuo-to”, né attaccarti alle macchine o ad altri veicoli che incontri per farti portare: pas-seresti dalla categoria dei “cicloamatori” a quella dei “ciclomotori”.

Se qualcuno ti attraversa la strada, “non scattare” imprecando ma resta cal-mo e lascialo passare. Quando sei in sali-ta, “stringi i denti” (quelli del cambio) per poter mantenere “una pedalata rotonda”. Corri con prudenza, scegliendo di pre-ferenza le “piste ciclabili” al “fuori pista”,

a meno che non ci sia da fare la pipì. Quando “spingi sui pedali”, fallo senza esagerare (potresti “bruciare le tappe”), ma sfiorali con delicatezza come sai fare con i pedali dell’organo. Se nel frattempo “perdi minuti”, non fermarti a cercarli. Se poi durante il percorso appaiono disturbi fastidiosi come i foruncoli o le dermati-ti pruriginose, ricorri alla “ciclosporina” (che se poi non passano, non rimane che togliere la sella). Se invece facesse capolino qualche linea di febbre, prendi la “ribociclina” (non comunque il “ciclo-fosfamide”, che ha altre indicazioni). Se invece ti capitasse di sentire un “cerchio alla testa”, prima di sostituirlo con quello della ruota, vedi che non sia il caschetto da cambiare o l’aureola un po’ stretta e da allargare un tantino. Se infine soprag-giungesse una “ciclite”, non consultare il meccanico ma l’oftalmologo.

Quando arriverai, se saremo riuniti per le preghiere comuni, non “inforcare l’ a.b.c.” per venire con noi in cappella ma parcheggiala nell’ “emiciclo” ester-no che trovi nel parco della Casa. Se invece saremo a cena, troverai qualche buon piatto, perciò, nel frattempo, non “succhiare la ruota”. A tavola potrai rac-contarci le tue avventure “a ruota libe-ra”, poi, potrai finalmente “ritirarti” in camera per il meritato riposo notturno incluso nel faticoso “ciclo circadiano”. Insieme alla Comunità e a me, potre-sti trovare anche il nuovo Superiore, P. Bebber, venuto da Milano. Con il cam-bio delle nostre residenze, abbiamo rot-tamato le nostre biciclette: per entrambi è“la fine di un ciclo”. Peccato. Insieme avremmo potuto fare un bel “triciclo”. Ciao dunque. Ci vediamo “doping”. Buona corsa.

DAL TIRRENO ALL’ADRIATICO IN BICICLETTA

Il 14 luglio 2013 è iniziato ufficial-mente l’Anno Giubilare Camilliano che celebra i 400 anni della morte di San Camillo de Lellis. Nel corso di tale anno giubilare ci sono stati diversi pel-legrinaggi diretti a Bucchianico (Chie-ti) dove S. Camillo è nato, e a Roma, dove S. Camillo è vissuto ed è morto.

La maggior parte di tali pellegrinag-gi vengono fatti in auto o in pullman; raramente in treno. Ci sono stati però due pellegrinaggi un po’ originali, e cioè quello fatto a piedi da Fratel Luca assie-me ad un amico e quello fatto in bici-cletta da quattro pellegrini-ciclisti. È di quest’ultimo pellegrinaggio che voglio brevemente parlare.

Un pellegrinaggio è soprattutto un percorso da compiere in cui viene dato spazio alla riflessione e alla preghiera. Quanto più tempo viene dedicato all’o-razione e al silenzio, tanto più il pelle-grinaggio è proficuo, ricco di cose da offrire a Dio e di cose da imparare per ciascun pellegrino. Va da sé che in un pellegrinaggio in bicicletta si può uni-re l’utile al dilettevole, vale a dire: si dà una boccata di ossigeno allo spirito come pure un po’ di relax al corpo, con-dividendo gioie e dolori con eventuali compagni di viaggio.

Avendo già fatto due pellegrinag-gi in bicicletta in Spagna, direzione Santiago de Compostela, mi sembrava naturale che quest’anno fosse opportu-

no posizionare il manubrio della bici-cletta non più verso l’ovest (Spagna), ma verso l’est, in direzione di Bucchia-nico. S. Camillo ha fatto molte volte il tragitto Roma-Bucchianico e viceversa. L’ha fatto per lo più a cavallo, oppure in calesse; diversi tratti ha dovuto farli a piedi. Ha sfidato – come viene ripor-tato dai suoi biografi, in particolare dal Cicatelli – il freddo, il caldo, le bufere di vento o di neve, i briganti, l’attra-versamento di torrenti impetuosi. Il viaggiare è stato per Camillo un’impre-sa necessaria e frequente per fondare prima, e visitare poi, le numerose case di apostolato lungo la penisola italiana. I suoi frequenti viaggi sono stati parte della sua vita; in essi ha vissuto momen-ti di sofferenza, di preghiera, di decisio-ni da prendere, di condivisione con i confratelli che l’accompagnavano. Per questo ci è sembrato giusto ripercor-rere il cammino che Camillo ha fatto, attraversando gli stessi villaggi, arram-picandoci sugli stessi monti e venendo sospinti dagli stessi venti.

Certo – si dirà – ai tempi di Camillo non c’era l’asfalto e nemmeno i ponti ad un’unica arcata che ci sono ades-so. Giusto. Però la fatica del percorso rimane quando devi raggiungere con la forza delle tue gambe l’altitudine di 1100 metri di Forca Caruso, o superare in pochi chilometri un dislivello di 400 metri che dal Fosso dell’Inferno, a lato della città di Chieti, porta al Santuario S. Camillo che si trova sulla sommità estrema del paese di Bucchianico, acco-vacciato sul cocuzzolo di un monte.

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Casa della Maddalena

Il pellegrinaggio comincia a Roma il 5 settembre, davanti alla chiesa di Santa Maria Maddalena, Casa Madre dell’Ordi-ne, luogo dove sono custodite le spoglie mortali di S. Camillo, raccolte in un’ur-na di bronzo appena inaugurata. Siamo in 4 persone: Lino, Augusto, Edoardo e Paolo, vale a dire tre ciclisti e un auti-sta/navigatore. Un quarto ciclista, che si chiama Edoardo pure lui, ci raggiunge in bici a Bucchianico, individualmente (ne parleremo poi). Dimenticavo di dire che tra i partecipanti al tour/pellegrinag-gio c’è anche la nostra mascotte Totò, un giovane bulldog assai accattivante che fa compagnia all’autista e a noi nei momenti in cui non siamo in sella.

L’inizio del viaggio comincia con una invocazione a S. Camillo, affinché protegga il nostro cammino e ci man-tenga in salute. Tale preghiera viene recitata ogni mattina prima di salire in bicicletta. L’attraversamento della città di Roma è lungo e noioso, dato che è il momento del mattino in cui la gen-te giunge in città per il lavoro. Mentre respiriamo smog e ci stringiamo per far passare autobus e camion, pensiamo

alle belle montagne abruzzesi che ci attendono e all’aria fresca che riempirà i nostri polmoni. S. Camillo, nei suoi viaggi, ha incontrato tante difficoltà, ma certamente non quella di dovere attraversare il traffico indiavolato della Capitale e respirarne i fumi mefitici.

Percorrendo la Tiburtina uscia-mo finalmente dalla città, anche se si può dire che quasi fino a Tivoli l’area metropolitana di Roma si estende senza soluzione di continuità. Facciamo con piacere la salita di Tivoli, sapendo che di là si può gustare un paesaggio stupen-do con colline coperte di ulivi, anche se squarciate qua e là dalle cave di tra-vertino. Tra Tivoli e Vicovaro, quando ormai si pedala solo tra gli alberi ver-di, ci si ferma per una piccola sosta per rifocillare il corpo e lo spirito, giacché l’orologio segna mezzogiorno passato.

Si arriva a Roviano dove c’è il bivio per Subiaco, luogo che ci richiama la profonda spiritualità di San Benedet-to e di sua sorella Santa Scolastica. Ed ecco che il salire si fa faticoso. Ci si arrampica sulle colline fino ad arrivare ad Arsoli che segna il confine tra Lazio e Abruzzo; il cartello segna metri 470 sul livello del mare. Il mare: oh, quan-

Può essere un buon impegno e una bella proposta per l’uomo di oggi così affannato e distratto.

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to è diversa Ostia, dove andiamo spesso a fare il giretto domenicale in bici, da questo paese montano!

Sono le tre del pomeriggio quando arriviamo a Carsòli, che si eleva a 616 metri sul livello del mare. Fatichiamo un poco a trovare le Suore Riparatrici del Volto Santo, non perché il loro conven-to giace su un erto poggio, ma perché la gente non ha idea di chi possano essere! Ci dicono di conoscere il convento di S. Francesco, dove – come è attestato – è passato e ha dimorato S. Francesco, ma non sanno che ora è abitato dalle Suore Riparatrici. L’accoglienza è ottima ed il posto è un luogo ideale dove il pellegrino può trovare riposo nel silenzio, nella pre-ghiera e nella quiete. Al mattino celebria-mo la Messa per le suore e subito ripartia-mo in direzione di Collarméle. Saliamo fino a quota mille metri per raggiungere una località chiamata Sante Marie. Non abbiamo tempo di fermarci per soddisfare la nostra curiosità e chiedere il perché di quel nome. quel nome. Non ci fermia-mo nemmeno nella cittadina seguente, Tagliacozzo - nome ben noto ai Camillia-ni - dato che ci fermeremo nel viaggio di ritorno. Facciamo invece sosta ad Avez-zano, ridente e industriosa cittadina della Marsica che ha dato i natali ai Letta, due uomini politici di questa nostra Italia.

Da Avezzano raggiungiamo in breve tempo Collarméle (provincia de L’Aqui-la), una cittadina che nel passato con-tava 2.000 abitanti ma che ora non ne conta neanche 1.000, a causa dell’emi-grazione in città, in particolare a Roma. La gente ritorna in paese d’estate per fare le ferie. Ci accoglie il parroco, Don Fran-cesco, il quale ci ospita nei locali dell’asi-lo infantile. A sera prendiamo parte alla Santa Messa nella chiesa parrocchiale: i fedeli sono numerosi e partecipano atti-

vamente all’azione eucaristica, solo che non c’è neppure un giovane. Di buon mattino, sferzati dall’aria fresca, saliamo a Forca Caruso, 1.100 metri di altezza, luogo camilliano. Prima di partire abbia-mo letto il passo del Cicatelli che narra che, qui Camillo in uno dei suoi viaggi ha dovuto raccomandarsi a Dio perché il vento che soffiava sul valico era talmente forte che proseguire il viaggio era diven-tato impossibile. Il Signore esaudì le sue invocazioni, cosicché il Fondatore poté proseguire il cammino fino alla meta pre-vista. Anche noi qui sperimentiamo la forza del vento che soffia gagliardo, ma in maniera positiva, perché approfittando della sua potenza ci buttiamo a capofitto nella lunga discesa di 13 km che ci porta a Castel di Ieri e di qui nella gola di S. Venanzio, lungo il fiume Aterno, spu-meggiante di acque fresche che discen-dono copiose dal Gran Sasso. A Raiano facciamo colazione nei giardini pubblici consumando il pecorino avanzato nella cena della sera prima. A Popoli, detta la città dell’acqua perché vi confluisco-no quattro fiumi, abbiamo un imprevi-sto: un’improvvisa foratura alla ruota ci costringe a fermarci, ma la solidarietà e lo spirito di collaborazione del gruppo fa sì che in una decina di minuti siamo tutti nuovamente in sella. Arriviamo al bivio per Tocco da Casauria, proseguiamo per Scafa dove prendiamo un panino e quin-di proseguiamo per Chieti. Senonché qui c’è un altro imprevisto, perché ci perdia-mo: invece di proseguire per Bucchiani-co evitando la città di Chieti, ci siamo diretti erroneamente verso Chieti Scalo, perdendo la direzione giusta. Dobbiamo tornare indietro di qualche chilometro e ricongiungerci con il nostro autista/navi-gatore che si mette davanti a noi quale stella cometa. Saliamo parecchio, sotto il

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sole del primo pomeriggio, a fianco della città senza mai entrarci, per scendere poi improvvisamente in una strada diretta al fondovalle che porta il nome di Fosso dell’Inferno. Questo ci richiama natu-ralmente la Valle dell’Inferno, situata nel Gargano di Puglia, dove Camillo ha incontrato la conversione. A questo punto comincia la salita dura. Alzando la testa vediamo sul monte il paese di Bucchianico arroccato sulla cima; ci arrampichiamo a fatica, col fiato gros-so. Sembra che il paese sia a un tiro di schioppo, ma non ci si arriva mai, causa anche l’ora poco propizia (sono le tre del pomeriggio), la stanchezza e la fame. La stanchezza è tuttavia presto superata dalla gioia che presto saremo giunti alla meta, quella meta che abbiamo insegui-to per tre giorni. Chissà, forse Camillo ci impiegava di più a fare quel percorso, a motivo dell’asperità delle strade di quei tempi, ma certamente sia lui che noi, una volta arrivati a quel punto, abbiamo provato la stessa gioia, quella di essere giunti alla casa paterna.

Arriviamo all’inizio del paese, ci fer-miamo alla curva che porta al Centro di Spiritualità “Nicola D’Onofrio”. Di qui si vede, guardando in sù al centro del paese, la grande croce rossa dipinta su una parete che segnala la casa nativa di S. Camillo. Per due del gruppo è la prima volta che vedono Bucchianico e tutto d’un tratto sono immersi nella sua storia, intrisa di spiritualità camilliana.

Facciamo ancora un piccolo sfor-zo. Ci inerpichiamo lungo la strada che porta al centro del paese. Passiamo di fronte alla chiesetta di Santa Chiara tenuta dalle Figlie di S. Camillo e poi all’ex chiesetta di S. Antonio, ora uti-lizzata come area museale e sala con-ferenze. Passiamo a lato della grande

chiesa di S. Urbano e finalmente attra-verso una strada stretta arriviamo in Piazza S. Camillo de Lellis (ex Piazza Roma). Siamo stanchi, sudati, ma felici. Posiamo le nostre biciclette sul muro ed entriamo nel santuario: esprimiamo al Fondatore S. Camillo il nostro grazie per averci condotti fino alla sua casa, alla stalla dove è nato, al pozzo miraco-loso che ha costruito con le sue mani. In questa piazza due mesi fa l’Arcive-scovo di Chieti Mons. Bruno Forte ha celebrato una Messa solenne, teletra-smessa, ed ha aperto l’Anno Giubilare Camilliano per onorare la figura di S. Camillo, il santo patrono dei malati e degli operatori sanitari di tutto il mon-do. Il nostro pellegrinaggio in bicicletta è una risposta all’appello di celebrare il Santo della Carità nel luogo a lui più caro, quello che gli ha dato il dono della vita. Mentre scendiamo verso il Centro di Spiritualità “Nicola d’Onofrio”dove veniamo alloggiati per la notte, ammi-riamo i monti della Maiella che si estendono davanti a noi e ci giriamo per dare un’occhiata fugace alle nostre spal-le all’Adriatico selvaggio che verde è più dei pascoli dei monti (G. D’Annunzio).

Obiettivo raggiunto, con un recordDopo esserci rinfrescati un pochi-

no ci dirigiamo verso il santuario per prendere parte alla Messa serale, senon-ché alla porta d’entrata del Centro di Spiritualità ci imbattiamo con un ciclista trafelato – ma neanche tanto! – che arriva proprio in quel momento, appena sceso dalla bicicletta. È Edoar-do, il quarto pellegrino/ciclista che a quell’ora – erano le 17.40 – giungeva da Roma, Casa della Maddalena, da dove era partito all’alba! Aveva per-corso 220 km solo soletto, attraversan-

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do monti e colline con il suo cavallo di alluminio, affrontando ogni sorta di pericoli, che non hanno mancato di capitargli. Infatti, arrivato a Tivoli in pieno centro urbano, la ruota anterio-re della bicicletta gli si incastra in una griglia del fondo stradale, contorcendo-si irreparabilmente. Per fortuna riesce a trovare un meccanico disponibile e generoso che sostituisce la ruota rovina-ta con la ruota della propria bicicletta, pur di dare al pellegrino la possibilità di riprendere il cammino. Nonostante questo curioso e pericoloso imprevisto, pur avendo accumulato un’ora di ritar-do, Edoardo è riuscito a coprire l’intera distanza Roma-Bucchianico di 220 km in poco più di 9 ore. Un record. Com-plimenti al pellegrino/ciclista/atleta: un gigante – a modo suo – come il Gigante della carità!

Dopo tre giorni di duro cammino il nostro pellegrinaggio fa una sosta. È domenica, giorno dedicato alla pre-

ghiera e al riposo. Ne approfittiamo per visitare la casa nativa di S. Camillo, il museo adiacente alla cripta del santua-rio, il piano terra della casa religiosa con l’annesso pozzo miracoloso. Nel pome-riggio visitiamo “La Calcara” situata a pochi chilometri da Bucchianico, nota per il prodigio dell’agnellino Martino. Ne approfittiamo anche per andare a fare un’ispezione del tragitto dei pros-simi giorni, direzione Roma, studiando la lunghezza del percorso e le pendenze. Alla sera celebriamo la Messa nella par-rocchia di S. Michele, che sta di fronte al santuario S. Camillo. Nel viaggio di ritorno ripetiamo grosso modo il percor-so dell’andata, con la differenza che toc-chiamo e ci soffermiamo in tre luoghi nuovi: il Santuario di Manoppello, la città di Popoli e il centro di Tagliacoz-zo. Per andare a Manoppello facciamo volutamente una diversione dalla stra-da statale, allungando il percorso di una ventina di chilometri. Ne vale la pena, perché così visitiamo come pellegrini il santuario che custodisce il Sacro Vol-to di Cristo, fissato in un panno mira-

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colosamente portato in quel paese di montagna da uno sconosciuto, che poi è improvvisamente scomparso. Ciò è avvenuto agli inizi del 1500, poco prima della nascita di S. Camillo. Chissà se S. Camillo avrà mai visitato quel luogo...! Probabilmente no, perché la devozione e il santuario sono sorti dopo. Sappiamo invece dalla cronaca che S. Camillo ha visitato più di una volta il Santuario di Lanciano, famoso per il miracolo euca-ristico (8° secolo), che si trova a 40 km da Bucchianico.

A Popoli, dove eravamo passati velo-cemente nel percorso di andata, ci soffer-miamo presso la “Casa di riposo Mons. D’Achille”. Ci accoglie il direttore, Don Panfilo, che è anche parroco di una gros-sa parrocchia della città. Alla sera pren-diamo parte alla Messa che lui presiede in questa grande e augusta chiesa, che ha l’aspetto di un’antica cattedrale.

Al mattino riprendiamo il cammi-no in direzione di Collarméle, facendo una lunga sosta a Tagliacozzo, cittadina di circa 7.000 abitanti che fa parte del-la Comunità Montana della Marsica. È un luogo noto ai Camilliani perché nel 1576 S. Camillo ha fatto il suo secon-do noviziato presso i frati Cappuccini. Come è noto, S. Camillo è stato allon-tanato anche questa seconda volta (la prima era stata nel Convento di Triven-to, in provincia di Campobasso) a causa della sua piaga alla gamba che gli impe-diva di seguire la rigida disciplina france-scana. Entriamo in paese e subito chie-diamo informazione del Convento di S. Francesco. Si trova nella parte alta della città; lo raggiungiamo in fretta in sel-la delle nostre bici. Il Padre guardiano, molto giovane, che ha fatto il noviziato a Padova, ci accoglie fraternamente e ci

accompagna nel chiostro del convento e poi nella chiesa (noi eravamo vestiti in tuta ciclistica e casco in mano: tutti gli occhi erano addosso a noi!). Ci spiega, con nostro rammarico, che il convento dei Cappuccini non esiste più, perché a seguito dell’incameramento dei beni ecclesiastici di fine Ottocento l’edificio è stato completamente ristrutturato ed adibito a pubblici servizi. Non abbiamo tempo, purtroppo, di cercare il luogo dell’ex convento dei Cappuccini, perché ripartiamo in bici per Collarméle, ser-bando nel cuore il pensiero di avere fatto una buona azione onorando la cittadina di Tagliacozzo che ha visto un momen-to difficile, per non dire drammatico, della vita di S. Camillo. La sofferenza che Camillo ha vissuto in questo luogo l’ha plasmato e preparato per realizzare un programma più vasto che Dio aveva disegnato per lui: ritornare all’Ospeda-le degli Incurabili di Roma per curare la piaga alla gamba e, allo stesso tem-po, mettere assieme una “compagnia di uomini dabbene”, che diverrà l’Ordine dei Ministri degli Infermi.

Da Tagliacozzo saliamo sù sù fino a 1.000 metri, passando nel centro abi-tato di Sante Marie e di lì scendiamo a Collarméle sotto una pioggia battente. Da qui rifacciamo esattamente il per-corso dell’andata, fermandoci nuova-mente a Carsoli. Giungiamo a Roma, alla Maddalena, il 12 settembre, alle ore 13.00, giusto in tempo per unirci alla comunità che si raduna per pranzo. Ai confratelli portiamo un po’ dell’aria frizzante dell’Abruzzo e raccontiamo le belle esperienze vissute in questa indi-menticabile settimana di pellegrinaggio in bicicletta.

P. Paolo Guarise

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CON LA TESTA FRA LE NUVOLE E IL CUORE NELLE MANI

Vacanze intelligenti a servizio dei malati. L’esperienza di un gruppo giovani proveniente da san Giovanni Rotondo (Fg)

“Più cuore nelle mani”. Proprio que-sto colpisce quando parli con un fratel-lo camilliano: la passione e l’amore con cui offrono servizio ai più sfortunati. La missione camilliana tenutasi a San Gio-vanni Rotondo (FG) nel mese di marzo è servita a coinvolgere e trasmettere ai giovani della parrocchia San Giuseppe Artigliano le emozioni che si provano con il servizio. Abbiamo avuto modo si trascorrere un’intera settimana insie-me, durante la quale abbiamo condiviso momenti gioiosi di preghiera e gioco. Un appuntamento immancabile era la compieta in cui, sera dopo sera, i frati ci hanno portato alla scoperta dei sette vizi capitali. La forza e la semplicità dei loro discorsi hanno contribuito a farci avvi-cinare e a sentire nostri coetanei anche i più anziani e le suore, sempre giovani e forti ad ogni età. Fra tante emozioni abbiamo anche condiviso quella dell’e-lezione del Papa, vissuta nei locali della sagrestia e una serata dedicata al can-to, ad alcune letture e testimonianze in onore degli ospiti camilliani. Noi giova-ni abbiamo avuto non solo la fortuna di passare una bella settimana in compa-gnia, ma anche di incontrarci prima per provare i canti e dopo per discutere di cosa farne dell’invito ad Acireale. Infat-ti sia nelle scuole che in parrocchia, è stato lanciato un invito-sfida a fare una vacanza diversa, che con il tempo abbia-mo imparato a chiamare Campo-servi-zio, accolto da tredici giovani pronti a volare verso Catania.

Affrontando non poche difficoltà, più o meno relative all’organizzazione,

sei mesi dopo l’invito siamo arrivati ad Acireale. In quel dì di agosto, esat-tamente il 21, abbiamo raggiunto la consapevolezza della fortuna che ci ha accompagnati sin dal primo incontro con i camilliani, fino all’ultimo giorno di missione.

Dopo una giornata passata affron-tando i problemi logistici, la prima esperienza forte l’abbiamo vissuta all’Istituto Giovanni XXIII. Seguen-do i consigli che ci sono stati affidati, abbiamo potuto cogliere a pieno tutte le emozioni che ci offri-va questa esperienza, vivendole con i cinque sensi collegati al cuore. In fondo è bastato solo ascoltare, osservare, toccare, sentire e dare attenzioni agli ospiti della clinica. La cosa che stupisce è l’acco-glienza che ti viene riservata e l’amore che subito sanno offrirti e poi... è così facile e bello stare con loro! Cadono le barriere ed è come se ti sentissi vero per la prima volta, in un ambiente semplice e gioioso.

Poi abbiamo avuto l’occasione di prestare servizio durante la mensa per i più poveri, organizzata nella casa di Aci-reale. Abbiamo imparato che gli uomi-ni e le donne vengono da due mondi diversi, ma quando si tratta di mettere un piatto a tavola, l’unica cosa a cui devi pensare è calibrare la dolcezza con cui lo fai. Anche a San Giovanni Rotondo c’è

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un ospedale, ma credo che non ci sia-mo mai entrati con lo spirito giusto. Ciò che contraddistingue i giovani è la spe-ranza, che spesso manca in questi luo-ghi, quindi portarne un po’ è un nostro dovere: animare la messa può essere uno dei modi più semplici per portare gioia e luce. Inoltre sentirsi fare i complimenti per un’animazione più attiva dalla gene-razione passata è incoraggiante, perché fa capire che il futuro siamo noi.

L’esperienza in cui è stato più faci-le provare mille emozioni è stata quella a casa di Giuseppe, a Riposto, perché si passa così velocemente dalla iniziale paura del primo incontro, alla gioia dello stare insieme con Cristo Vivo. Vederlo così felice, scoprire come comunica la sua felicità è stato fantastico, quasi quanto sentirlo parlare o stringerti forte i polsi.

Prima di andare alla Tenda abbiamo parlato molto, sia fra di noi, che con i responsabili; ma alla fine ci siamo resi conto che non è pericoloso; chi siamo noi per negare un’occasione di festa e incontro a qualcuno? E infatti è sta-ta proprio una festa! Dopo un’iniziale momento di presentazione, condivisio-ne e merenda, abbiamo ballato e gio-cato insieme, sempre con l’Etna, i suoi scoppi e il suo fumo alle spalle. Se ci pensi troppo può far paura anche solo sapere dove sei, ma in gruppo, e soprat-tutto con degli amici che sanno riscal-darti, è tutto più facile.

Infine siamo stati alla Casa della Speranza dove eravamo andati pronti per organizzare delle attività, ma abbia-mo trovato una festa che attendeva solo gli ospiti, noi! Grazie all’aiuto dei volontari abbiamo trovato delle pizze pronte e un artista pronto a suonare e cantare con noi. È stata una serata all’insegna di canto, ballo e giochi.

Come ultima cosa abbiamo vissuto un momento di veglia e adorazione sul terrazzo dell’Istituto di Mangano, che si è concluso con la condivisione dell’e-sperienza. E il giorno seguente, il 30 agosto, siamo tornati a casa dai nostri familiari, che come gli sconosciuti che ci hanno accolto nelle case, ci attende-vano a braccia aperte.

Nessuno potrà dimenticare questa esperienza, perché penso che tutti con-serveremo dentro qualcosa in particola-re; che siano le emozioni forti provate, i paesaggi stupendi e così vari della Sicilia o le nuove amicizie. Infatti, oltre ad aver condiviso questa esperienza con gli ospiti delle varie case, l’abbiamo fatto anche con i fantastici giovani del “gruppo Smile”, che sin dall’aeroporto ci hanno accompagnato e consigliato durante que-sto cammino, fino a darci testimonianza della loro passione e fiducia in Dio. Dopo aver mangiato, cantato, giocato, cantato, parlato, cantato, prestato servizio nel-le case e cantato abbiamo imparato ad apprezzarci, a condividere e soprattutto a stare insieme con gioia e semplicità: per-ché la cosa che più colpisce degli Smile è proprio la semplicità con cui donano gioia. Penso che ciascuno di noi abbia iniziato la propria vacanza con un obbiettivo; io il mio l’ho raggiunto e adesso so come regalare gioia a chiunque ne abbia biso-gno.

Antonia Pia Pace

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TROFEO 400 ANNI SAN CAMILLOTORNEO TRIANGOLARE DI CALCIO

Sabato 12 ottobre si è tenuto pres-so il circolo de La Stampa – Sporting A.S.D. di Torino, organizzato dal comi-tato Piemontese per il IV centenario, un torneo triangolare di calcio a 8 che ha visto partecipare le squadre del Presidio Sanitario San Camillo, dell’Ospedale Koelliker e del Presidio Ospedaliero Fatebenefratelli.

Questo evento, che fa parte dei festeggiamenti programmati per celebra-re i 400 anni dalla morte di San Camillo, ha visto la partecipazione, nonostante il freddo intenso, di numerosi tifosi che, come da copione, hanno lanciato urla di incitazione, hanno fischiato in direzione dell’arbitro, hanno manifestato la loro delusione per i goal mancati, tutto però all’insegna dell’allegria, del cameratismo e della correttezza.

Le prime due squadre a scendere in campo sono state quella del San Camil-lo contro quella del Koelliker. La prima partita è finita con un punteggio di 2 a 0 a favore della squadra del San Camillo. I due goal sono stati segnati dal direttore amministrativo e da un tirocinante del San Camillo: i due estremi della scala gerarchica hanno insieme costruito la vittoria! La seconda partita ha visto fronteggiarsi la squadra del Koelliker

e la squadra del Fatebenefratelli e si è chiusa con il punteggio di 2 a 1 a favore del Koelliker. La terza e ultima partita si è giocata tra il San Camillo e il Fate-benefratelli. Fin da subito la supremazia del San Camillo è stata schiacciante e la partita è terminata con lo strepitoso punteggio di 9 a 0! Ci sono state le due triplette di Gianluca, Simone e Marco, la doppietta di Alessio e il goal di Gian-luca Manzo; ci sono state alcune parate degne di nota; c’è stato l’infortunio di Gigi che, zoppicante, ha ricevuto dalle mani di P. Gianfranco Lovera la cop-pa “Trofeo 400 Anni San Camillo”. Il P. Gianfranco, che ha pronunciato un breve discorso, ha ringraziato di cuore l’organizzatrice dell’evento, Mariella Oggioni, ringraziamento al quale si sono uniti tutti i partecipanti.

Come da tradizione, la coppa è stata innalzata al cielo tra gli applausi e le grida del pubblico, quasi un omaggio al Santo Fondatore dei Camilliani che, sicuramen-te, da lassù avrà rivolto il suo sorriso e la sua benedizione a questo evento organiz-zato in suo onore. Il pomeriggio calcistico si è concluso con una cena a buffet di cui hanno goduto in grande armonia calcia-tori e pubblico.

Franca Berardi

La squadra “San Camillo”,

vincitrice del triangolare

a Torino

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UN “CUORE” CHE BATTE ANCORA …

La testimonianza commossa di una Parrocchia del Sannio che ha incontrato San Camillo nell’ambito dei festeggiamenti per il IV Centenario.

Domenica 13 Ottobre 2013, presso la Parrocchia Santa Maria Assunta di San Nazzaro (Bn), si è tenuto un grande momento di preghiera che ha trascinato e coinvolto quasi ottocento fedeli alle porte di questo piccolo paesino del San-nio. La giornata è di quelle che restano nell’animo del pellegrino.

Il sole sin dal mattino si eleva alto in cielo, quasi a voler presagire quella che sarà una giornata storica per tut-

ti i fedeli accorsi. Già, proprio il sole è stata la prima sorpresa di una giornata che si pensava potesse essere rovinata dalla pioggia ma che invece, si è innal-zata maestosa in cielo fino all’imbruni-re. Proprio “fratello Sole” sembra qua-si voler riconoscere e mostrare la sua benevolenza per l’ arrivo della Reliquia del “Cuore di San Camillo de Lellis” che fu in vita un altro “vero Sole di speranza” per tutti gli infermi. Proprio quest’ ultimi – afflitti nel corpo e nello spirito – sono accorsi numerosi e com-mossi, in quel di San Nazzaro.

La gente non si contava: pullman parcheggiati fuori posto, macchine a non finire. La Chiesa sembrava essere troppo piccola per ospitare questo even-to tanto storico quanto straordinario. È proprio questo lo scenario che si pre-senta ai nostri occhi: tanta è la gente che si vede accalcata fuori l’ingresso principale della Chiesa, già senza posto ad un’ora prima dell’inizio del momento di preghiera.

Tutti accorsi per lui, uno dei più grandi Santi della storia della Chiesa, il “Gigante” San Camillo de Lellis. L’im-patto visivo con la reliquia non può essere né spiegato né fatto intendere da lettere o parole: solo le immagini e l’aria respirata in quella Chiesa possono aiutare a far capire il momento vissuto dai fortunati presenti. Molti di questi, al solo vedere il “Cuore” iniziano a piangere. Proprio non riescono a trat-tenere le lacrime: queste scendono da sole quasi a voler rigare il volto di chi,

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dinanzi a tanta santità, sembra poter fare solo questo: piangere. Il pianto però è di gioia. La felicità riempie i cuori e la speranza ritorna prepotente nei cuori di chi, pieno di sofferenze e dolori, cerca proprio da San Camillo ristoro e sollie-vo. Il cuore del Santo, per tutta risposta a questo scenario, sembra quasi battere ancora in quella teca al solo vedere gli ammalati.

La sensazione è che, se potesse, quel Cuore tanto venerato anche sen-za un corpo, continuerebbe volentie-ri a soccorrere gli infermi di oggi che, come quelli di ieri, cercano consola-zione e conforto. La pelle rabbrividisce al momento del bacio della reliquia. La commozione raggiunge il picco. La pelle rabbrividisce ancora, sia durante il rosario, sia durante la Santa Messa, quando si percepisce e respira la presen-za del Santo in mezzo alla gente. Molte saranno le guarigioni, sia fisiche che di

conversione, manifestate al termine della giornata.

Il momento di preghiera inizia nel pomeriggio per terminare verso sera. Quattro ore di preghiera, devozione e lode, che però sembrano passare velo-cemente, troppo presto. Come c‘era da aspettarsi, nel frattempo anche “fratel-lo Sole” lascia spazio a “sorella Luna”, anch’ essa speranzosa di fare in tempo a salutare il Santo degli ammalati, che per molte notti contemplava in pre-ghiera e adorazione.

All’ imbrunire si inizia a far ritorno a casa, ma proprio guardando il cielo , si ha la sensazione che questi non sia più lo stesso. Non si può non notare come tra le tante stelle dei santi, la stella di San Camillo ha ormai ben 400 anni dal-le sue prime luci e brilli sempre più forte per ognuno di noi. Unanime è il grido che si eleva guardando questa stella del cielo: “San Camillo prega per noi!

Simone Iuliano

davanti al cuore di San Camillo.

Dal Mondo Camilliano

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QUELLE CENTO BRACCIA…

Forse è inutile ricordarlo, ma la cor-nice dell’ancora splendida Villa Comel-lo a Mottinello è sempre affascinante, aiuta la riflessione con le sue architet-ture palladiane, soprattutto con il suo verde e rigoglioso parco in fondo al quale, quasi una meta privilegiata, c’è la riproduzione della grotta di Lourdes, omaggio perpetuo alla Vergine Maria.

Anche quest’anno, Villa Comello è stato il luogo in cui hanno scelto di riunirsi, per una tre giorni di riflessio-ne e di studio, dal 27 al 29 settembre, i gruppi della Famiglia Camilliana Lai-ca dell’ormai ex Provincia lombardo-veneta (ex poiché l’ordine dei Ministri degli infermi, i Camilliani, ha deciso di formare un’unica Provincia italiana); una quarantina (circa) di laici e padri camilliani assistenti dei vari gruppi, i partecipanti (Castellanza, Mestre, Milano, Verona, Vicenza, Trento…).

Tema principale dell’incontro: il “Testamento spirituale” di San Camillo; un tema doveroso nell’anno in cui tut-ta la grande famiglia camilliana ricorda con giubilo il quattrocentesimo anni-versario del dies natalis del suo Fondato-re; una “consegna” fatta dal Fondatore stesso a tutti coloro che ne avrebbero seguito le orme. Ad aprire e condurre la riflessione padre Renato Salvatore, superiore generale dell’Ordine, e Rosa-bianca Carpene, presidente internazio-nale della Famiglia Camilliana Laica: i due massimi responsabili, quindi.

L’incontro è stato vivace, parteci-pato, sia nelle fasi assembleari sia nei gruppi di studio; anzi, in questi – forse

colti da insospettabile entusiasmo – i partecipanti hanno lavorato più a lungo di quanto normalmente succeda.

Cinque lettere e un testamentoPadre Salvatore ha iniziato il suo

intervento con un’interessante preci-sazione. In realtà, il documento scelto dai gruppi di FCL per lo studio (che si prolungherà anche durante l’anno sociale) è il “Testamento spirituale” di san Camillo; ma il santo di Bucchianico ha lasciato, come preziosissima eredi-tà al suo Ordine, cinque lettere in cui esprimeva ciò che, secondo le indica-zioni dello Spirito, l’Ordine non doveva mai dimenticare, poiché era «…ciò che sento in me circa il nostro santo Ordine affinché tutti camminiamo con rettitu-dine… e secondo quello che Dio vuole da noi». Nelle stesse lettere, Camillo poi fa pressanti esortazioni ai confratel-li, affinché osservino con ogni sforzo il fine specifico dell’Ordine, soprattutto il voto di povertà. Poiché «l’Ordine dure-rà finché esprimerà il servizio totale ai malati… finché tale servizio sarà esente da qualsiasi forma di interesse materia-le».

Questa severa e forte introduzione è stata il leitmotiv, il sottofondo non dimenticabile di tutta la relazione di padre Salvatore. Il timore di san Camil-lo che i suoi potessero snaturare il cari-sma donato dallo Spirito era fondato ai tempi del Santo, ma – possiamo dirlo anche se con un po’ di timore – anche per tutti i tempi. Camillo chiedeva ai suoi fedeltà al dono del Signore, una

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fedeltà mantenuta nel dipanarsi della storia con la necessaria creatività, con il doveroso adattamento ai tempi nuovi, anche socialmente nuovi. Il primo pen-siero di Camillo, che considerava l’Or-dine come voluto direttamente da Dio («Camillo non è opera tua, ma mia» gli aveva suggerito il Crocefisso) e che si considerava semplice strumento del Signore, era appunto il mantenimento di questa assoluta fedeltà di fondo, una fedeltà non scioccamente statica, ma creativa. Segno attuale di questa crea-tività nella fedeltà è la Famiglia Camil-liana Laica.

Nucleo della fedeltà al carisma è l’amore incondizionato per i poveri, il servizio senza risparmi di fatiche, di dedizione, di tenerezza ai malati, ai sof-ferenti. La via camilliana alla santità – santità cui tutti siamo in ogni caso chia-mati, come ci ha ben ricordato anche il Concilio Vaticano II – è segnata unica-mente da questa capacità e volontà di servizio reso quasi “con accanimento”.

Tutto questo, come ha più vol-te ribadito padre Salvatore, ha il suo “motore” nel voto di povertà che non è soltanto rinuncia ai beni materiali, ma soprattutto affidamento totale al Signo-re «nostro Dio e nostro Tutto». Camillo era un contemplativo nell’azione: una vita spirituale profonda è quindi indi-spensabile a chiunque voglia incarnare nell’oggi della storia il carisma camil-liano. San Camillo, forse memore della sua formazione francescana, voleva che l’Amore fosse amato (il santo di Assisi piangeva calde lacrime poiché per lui «l’Amore non è amato»!).

La via alla santità di Camillo è la dura via della conversione quotidiana al Vangelo. È la stessa via che si deve

percorrere per assistere adeguatamen-te chi è nel bisogno: i poveri, i malati, coloro che soffrono; una conversione globale della propria vita al Signore per dare assistenza sia corporale sia spiritua-le. Vivere soltanto per Cristo, morti al mondo: questo chiedeva e chiede oggi san Camillo a quelle «cento braccia» da lui implorate con insistenza al Signore per umanizzare il mondo della salute, riconoscere dignità suprema ai malati. Quelle cento braccia…

Benedetto XIV Lambertini, nel pro-clamare santo Camillo de Lellis, lo ha indicato come fondatore di una “nuo-va scuola di carità”. Questo, in estre-ma sintesi, il fulcro della riflessione di Rosabianca Carpene, che ne ha fatto anche la chiave di lettura del “Testa-mento spirituale” di san Camillo.

Camillo, nel momento cruciale del-la sua vita, è solo davanti a Dio e sente di potersi abbandonare alla misericordia del suo Creatore, colui che è il “Fedele” per antonomasia. Egli è certo di poter contare sempre sulla misericordia del Signore per sé e per tutti gli uomini e le donne create, perché la sua fede è nel

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Dio che si è fatto uomo. La “nuova scuo-la di carità” fondata da Camillo altro non è che il riconoscimento della tene-rezza senza limiti del Signore per ogni creatura. Il Crocefisso è il simbolo stesso di questa “nuova scuola di carità”, per-ché supremo sacramento dell’Amore.

Il messaggio implicitamente conte-nuto nella definizione “nuova scuola di carità” altro non è, allora, che il dovere, per coloro che si sentono chiamati in qualche maniera a questa assunzione di responsabilità e di fattività pratica nei confronti di chi soffre, di “imitare” il Crocefisso nel suo donarsi senza riserve, anzi con “spreco” (come il costoso olio profumato sparso dalla Maddalena sul corpo di un Gesù ormai alle soglie della passione), senza calcoli di convenien-za (un aggancio, questo, alla povertà richiesta ai discepoli di Camillo).

La “nuova scuola di carità” nasce dalla conversione stessa di Camillo, conversione che ha fatto nuova la sua esistenza. È “scuola” perché ha indi-cato nuove forme di assistenza prima ignorate. È un’eredità preziosa, sia come “patrimonio” personale, sia come “patrimonio” della società in cui vivia-mo, in cui soprattutto noi laici agiamo e di cui siamo i principali responsabili.

La FCL è diffusa in tutto il mondo ed è testimonianza di carità in modo specifico verso chi soffre per la malattia o per altri motivi. Lo scopo del nostro esistere, come associazione di laici, è di prenderci cura delle fragilità umane, a iniziare dalle nostre. Il modo di servire queste fragilità ci viene offerto ancora oggi dall’esempio di Camillo. È questa sicuramente una via per quella nuova evangelizzazione che è al centro dell’at-tenzione della Chiesa tutta.

Il lavoro quotidianoIn estrema sintesi, il lavoro dei grup-

pi (quattro per la precisione) ha avuto come contenuto comune la ricerca di un “modo quotidiano”, semplice, prati-co ed efficace di attuare con creatività il carisma camilliano, secondo la nostra specificità di laici. Sono state rilevate le oggettive (e non sempre eliminabi-li) difficoltà. Un punto in particolare è stato ribadito – sia pure in diversa maniera – da tutti: la centralità della persona malata nella pastorale eccle-siale ma soprattutto nel nostro impegno personale e di gruppo. Rendere “uma-no” il nostro servizio, vale a dire sempre consapevole della dignità assoluta del malato così come la vedeva san Camil-lo, è forse la chiave per “umanizzare” tutto il servizio sanitario.

San Camillo si occupava dei malati «con una dedizione che sfiorava l’acca-nimento», ci ha ricordato con insistenza padre Salvatore: così deve essere anche il nostro impegno. Oggi non è facile questo compito, in presenza di reitera-ti tentativi di “disumanizzazione” della sanità. Importante sarebbe poter coin-volgere il mondo giovanile che appare invece molto distante nell’attenzione a questi problemi.

L’assistente provinciale, padre Angelo Brusco, nel suo intervento ha richiamato quanto da lui stesso scrit-to (e ora pubblicato da Gabrielli con il titolo Sentieri di vita – Ventisei lettere a san Camillo) in lettere “immaginarie” al Fondatore; in particolare ne ha let-to una relativa al coinvolgimento dei laici da parte dell’Ordine camilliano – vale a dire di persone che si lascia-no guidare in maniera significativa dal carisma camilliano – coinvolgimen-

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to reso attuale dalla fondazione della Famiglia Camilliana Laica, già prevista nel convegno di Collevalenza del 1992, costituita ufficialmente nel 1995 e con-fermata nel 2001. In questo modo si è risposto anche alla richiesta, più volte emersa, di un rapporto più stretto Ordi-ne – FCL. Padre Brusco ha sottolineato che questo rapporto può avere forme diverse: forse dobbiamo anche imparare a lavorare insieme.

In conclusioneIl lavoro quotidiano che attende la

FCL non è facile, questo è sicuro. Ma è altrettanto sicuramente entusiasmante e di grande responsabilità soprattutto per i laici chiamati, secondo un’interpreta-zione “teologica” di quanto indicato dal Concilio Vaticano II, a “santificare il mondo dal di dentro” poiché il mondo «è il posto che Dio, in Cristo Gesù, si è scelto; il luogo … in cui si è … gratuita-mente reso presente. Ciò significa che i laici vivono una missione che prende le mosse da Dio stesso e come tale è auten-tica missione ecclesiale, non un pallia-tivo o un surrogato della missione» (M. Naro, I laici alla luce del Vaticano II, in “Ho Thelógos” rivista della facoltà teolo-gica di Sicilia, anno XXX, n. 1-2, p. 174).

L’incontro si è chiuso con il saluto di Luciano Barasits, presidente della FCL, provincia lombardo veneta, che ha sottolineato la positività dell’essere insieme a ragionare su un testo impegna-tivo come il “Testamento spirituale” di san Camillo e sul nostro essere in sinto-nia con le prospettive camilliane nella nostra specificità laicale. Forse siamo noi quelle “cento braccia” che Camillo invocava…

Marisa Sfondrini

UNA GIORNATA AL MONASTERO DI BOSE PER LA FCL

Il gruppo della FCL Piccolo Gregge di Castellanza, sabato 29 giugno 2013, ha tenuto la sua giornata conclusiva di spiritualità presso la comunità monasti-ca di Bose, tra le colline e i boschi del Biellese.

All’arrivo, la prima sorpresa è che non ci sono né cancelli né portoni che segnino una separazione con il mondo esterno, ma un viale d’accesso, aperto direttamente sul parcheggio, che intro-duce nella comunità monastica, dove si percepisce un clima di grande cordialità verso gli ospiti. Tutto è ordinatissimo, ma senza ostentazione; predominano la pietra e il legno. Gli edifici, i viali fioriti, i prati e i boschi circostanti sug-geriscono l’idea di una grande cura per l’ambiente e rispetto per il creato.

La chiesa stessa ha uno stile sem-plice e lineare con un tetto spiovente e robuste travi sul soffitto.

Prima della messa però, abbiamo vissuto un momento di profonda rifles-sione sul tema della preghiera in Gesù; Cecilia, una monaca della comunità, ci ha accompagnati a scoprire come Gesù pregava e, da Lui, come imparare a pre-gare. Riassumo qui alcune idee.

Nei Vangeli leggiamo che Gesù si ritira spesso a pregare, ma la sua pre-ghiera non lo isola dagli altri. Gesù è costantemente in comunione con Dio e con tutto il popolo, con i peccatori, si mette in fila con loro per farsi battez-zare, e anche quando compie i miraco-li non indulge alla fama, non ambisce a diventare “ l’uomo del giorno “, ma si ritira in preghiera. C‘è, infatti, una

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grande libertà in Gesù: davanti al suc-cesso non si esalta, né si deprime davan-ti alle difficoltà perché nella preghiera lui sperimenta costantemente l’amore di Dio che lo sostiene e lo rassicura. Prima di ogni momento decisivo, Gesù prega: non è un decisionista, ma si rimette sempre a Dio.

Quale insegnamento per noi? Come superare la voglia di successo, l’egoismo? Ascoltando la parola di Dio. Siamo però fragili, deboli, spesso inca-paci di accogliere i doni dello Spirito. Anche se possediamo un carisma abbia-mo bisogno di pregare, perché non vada sprecato o usato male.

È innanzitutto “ascolto” da cui nasce la fede.

La preghiera, infatti, non è tanto quella dell’uomo a Dio, ma più spesso è Dio che prega l’uomo, lo segue, lo aspet-ta, lo visita, gli parla attraverso le scrit-

ture. In questo modo Dio ci fa anche capire che siamo suoi figli amati anzi, “ognuno” è figlio amato.

Noi cristiani crediamo di dover fare qualcosa per Dio; in realtà è Lui che fa sempre qualcosa per noi, agisce nella nostra vita. La preghiera di lode, di gratitudine nasce dal discernimen-

to per cui riconosciamo l’agire di Dio nella nostra vita. Con la gioia di quanto abbiamo condiviso, assistiamo alla santa Messa, il pranzo e facciamo una visita alla libreria, fornitissima, e al reparto dei prodotti artigianali: vasi, tazze e suppel-lettili varie in gres, icone e, come nella migliore tradizione dei monasteri, non mancano le confetture e le tisane per dormire, per digerire e per… dimagrire!

Rita del Piccolo Gregge - MI

della F.C.L. di Milano.

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A CONCLUSIONE DI UN ANNO

In famiglia si discute… in fami-glia i problemi di uno sono i problemi di tutti… in famiglia ci si batte gli uni per gli altri… in famiglia ci si abbraccia alla fine di ogni discussione… in fami-glia nessuno se ne va senza un sorriso… Siamo Famiglia Camilliana Laica! E ci siamo sentiti così, noi gruppo di Mila-no, durante e dopo il nostro incontro di sabato 22 giugno 2013, presso la Casa di cura San Pio X, che ci ha accolto con il saluto di padre Esterino, che ne è il superiore. L’appuntamento, fissato fin dall’inizio dell’anno, era una verifica del lavoro compiuto durante lo stesso anno: lavoro semplice, di formazione personale a essere interpreti del carisma camilliano nei nostri ambiti di vita, sia professio-nale, sia di volontariato, sia semplice-mente di vita attenta ai bisogni di chi soffre, di chi è povero ed emarginato. Così come fece san Camillo, che da ric-co (quasi unicamente di ambizioni) che era si fece povero tra i poveri, obbeden-do alla sollecitazione del Cristo Gesù.

Una “bella” discussioneIn famiglia si discute. Anche nel-

la “nostra” F.C.L. sabato si è discusso a lungo, animatamente, affettuosa-mente. Dovevamo verificare (e anche un pochino verificarci) su ciò che era accaduto l’anno passato e programmare per l’anno (sempre anno sociale) che inizierà. C’eravamo quasi tutti: padre Guglielmo, Gian Alfredo, Ilenia, Rosa, Giovanna, Marisa, Francesco, Romano e Marco Mancavano Claudia, Cesare, Massimo e padre Giuseppe, tutti giu-stificati. E i cognomi? potrà chiedersi qualcuno dei nostri tre lettori. Ma in

famiglia ci si chiama soltanto con i nomi di battesimo.

Per aiutarci nella discussione ave-vamo un piccolo questionario. La prima domanda riguardava il giorno e l’orario dei nostri incontri. Si è parlato un po’; gli impegni di ciascuno di noi sono tan-ti. Il martedì – tardo pomeriggio – era stato scelto a suo tempo perché poteva favorire chi lavorava. Per qualcuno, però, non è andato bene. Alla fine di un certo tira-e-molla, abbiamo deciso di provare a spostare gli incontri al sabato mattina, dalle ore 10.30 in poi, magari includendo anche un “brunch” insieme (la pappa aiu-ta sempre la fraternità). Ci proveremo; se questo nuovo tipo di appuntamenti non dovesse andar bene, potremo sempre modificare data e durata degli incontri: siamo adulti ed “elastici”. Non potremo più, in questo caso, essere ospiti della Casa di Cura san Camillo che di sabato ha l’aula capitolare occupata; a ospitarci sarà la Casa di Cura san Pio X (chi vorrà, potrà partecipare anche alla S. Messa che nella cappella della san Pio X si celebra alle ore 10). Fuori uno (argomento!).

E una scelta difficileUn po’ più complesso il seguito,

quando si è trattato di scegliere su cosa impegnarci per l’anno prossimo. Qui sono venuti a galla alcuni problemi, interessanti forse non soltanto il nostro gruppo. Li elenco prima brutalmente, poi dando alcune spiegazioni in più.

Il primo problema ha riguardato la natura del nostro essere insieme come F.C.L. e del nostro radunarci periodi-camente come Gruppo; il secondo pro-blema ha coinvolto il rapporto F.C.L.

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– Ordine camilliano; il terzo problema (rimasto un po’ “per aria”) è stato relati-vo al programma da svolgere nell’anno sociale prossimo venturo.

Veniamo al primo problema. L’obie-zione di fondo è stata: siamo “soltanto” – si fa per dire – un gruppo di forma-zione spirituale oppure abbiamo anche sbocchi pratici? Uno che voglia far parte della F.C.L. per svolgere i suoi compiti di volontario presso i malati, deve affi-liarsi ad altra aggregazione? È più volte sottolineato che – a norma anche di sta-tuto associativo – il Gruppo F.C.L. deve svolgere un programma di formazione dei propri appartenenti ad un “servizio com-petente” ai sofferenti (quindi non soltan-to ai malati nel corpo) che sia, appunto, competente e nel pieno accoglimento del carisma camilliano. Quindi l’appro-fondimento spirituale è indispensabile. Ciò non impedisce che, in quanto affiliati alla F.C.L., non si possa svolgere un ser-vizio volontario come F.C.L. Si dovranno fare, in questo caso, anche i passi “ammi-nistrativi” richiesti dalle leggi italiane (per esempio sulla sicurezza personale, sottoscrivendo apposite assicurazioni). I passi necessari possono essere benissimo affrontati. Anzi, si ricorda che qualche tempo fa il superiore attuale della San Camillo, padre Adriano, aveva proposto di individuare qualche forma di volon-tariato da proporre come F.C.L.… Si potrebbe provare.

e Ordine dei Ministri degli infermiIl secondo problema è forse più

complesso, perché coinvolge l’Ordine religioso direttamente e soprattutto il rapporto religiosi camilliani – affiliati F.C.L. Lo statuto associativo prevede espressamente una stretta collaborazio-

ne, poiché la F.C.L. condivide il mede-simo carisma fondativo, la cosa più importante al di là di ogni altra valu-tazione o richiesta. Poiché siamo tutti “peccatori”, a volte i rapporti personali possono presentare qualche lato spiace-vole e dobbiamo fare tutti i conti con i nostri caratteri, ma anche con le nostre fatiche, gli umori, le debolezze. Come in famiglia, a volte i rapporti non sono così lineari, facili, come desidererem-mo. Ma è volontà di tutti migliorare ciò che va migliorato.

Si fa anche presente che il pro-gramma “unitario” (finalmente il 13 aprile scorso si è deciso che tutti i grup-pi della Provincia lombardo-veneta di F.C.L. avranno una base di programma comune, incentrato sulla riflessione sul Testamento spirituale di san Camillo) prevede proprio fin dal suo inizio, cioè l’incontro a Mottinello del 27-29 set-tembre prossimo (siamo tutti ultrainvi-tati a partecipare!), un’esplicita richie-sta all’Ordine di intensificare i propri rapporti con la F.C.L. Non basta, forse, che un padre camilliano sia assistente spirituale dei gruppi. L’Ordine è in ogni caso aperto ad ogni proposta: se il cari-sma da sviluppare nella vita quotidiana è il medesimo, pur con diverse funzioni e responsabilità, medesimo deve essere lo stile e l’impegno.

Circa il terzo tema di discussione, vale a dire il programma per l’anno pros-simo, si è un po’ “scivolati via” per man-canza obiettiva di tempo. Si è deciso di aderire alla proposta di quattro incontri con un comune programma (con F.C.L. provinciale), facendo inoltre nostra un’e-sperienza positiva del gruppo di Verona, che fa precedere i propri incontri da un momento liturgico solenne (un tempo di adorazione eucaristica). È ribadita la

necessità di una formazione spirituale personale. Contrariamente a quanto fat-to finora, in cui le riflessioni spirituali in aggiunta a quanto indicato dal Manuale di formazione erano affidate a una sola persona, queste saranno affidate a turno a uno dei componenti del gruppo.

Una “bella” conclusioneAbbiamo concluso celebrando

insieme l’Eucaristia, “fonte e culmine” di ogni impegno del battezzato, “nutri-mento” spirituale indispensabile, fonte formativa altrettanto indispensabile poiché il Pane è spezzato insieme con la Parola. È stato un momento d’intensa fraternità, cui ha contribuito anche la condivisione della “preghiera camillia-

na” con la comunità di san Pio X. In stile evangelico (il Signore Gesù ha fat-to “cose splendide” a mensa), abbiamo poi condiviso un pranzo fuori ordinan-za con i Fratelli e i Padri della san Pio X. Anche questo un bel momento, cui sono seguite le foto di prammatica.

Piccolo commento finale: forse non siamo stati mostri di efficienza nel nostro incontro di verifica; forse non abbiamo combinato molto e abbiamo invece mol-to parlato. Ma per quei piccoli “miracoli” che a volte accadono, alla fine ci siamo sentiti tutti più coinvolti in un’avventura che ci rende più umani, forse più vicini al cuore di Gesù di Nazaret, primizia dell’u-manità e dei risorti.

Marisa Sfondrini

LA F.C.L. DI VERONA SALUTA IL CONSULENTE

Questa mattina, domenica 13 otto-bre 2013, presso la Chiesa S. Maria del Paradiso, è stata celebrata da P. Aldo Magni la S. Messa in memoria del nostro amico ed ex vice presidente Sancheletti Luigi , assieme al gruppo Salus di Verona. L’animazione è stata affidata ai chierici camilliani presenti in quella comunità e concelebrata dal superiore P. Pierpao-lo Valli e da P. Danio Mozzi.

Durante l’omelia, P. Aldo ha rin-graziato i nostri gruppi per avergli per-messo di accrescere in questi anni di sua vicinanza la conoscenza della realtà veronese e del carisma vario del nostro gruppo. È stata poi consegnata a P. Aldo una formella del portale della Basilica di S. Zeno, come ricordo della nostra città e come nostro ringraziamento.

Ecco il nostro augurio: “Carissi-mo P. Aldo, non è facile poter esprimere quello che noi, Famiglia Camilliana Laica di Verona-Marzana, sentiamo in questo momento di saluto a te che andrai presso un’altra comunità. Ti ringraziamo allo-

ra caro padre per l’accompagnamento, le attenzioni e l’ascolto che hai avuto in que-sti anni per il nostro gruppo, nel guidarci e consigliarci, sostenendoci quando avevamo qualche problema e facendoci capire che è con l’amore che si risolvono molte cose. Dal profondo del nostro cuore ti auguriamo buon proseguimento di missione camilliana dove sei destinato e dove siamo certi che, con l’aiuto di S. Camillo, delle tue capacità e della gente che ti saprà voler bene, come abbiamo fatto noi, saprai proseguire nel nuovo compito. Ti presentiamo l’augurio di buon lavoro pastorale e un affettuoso grazie da tutte e tutti noi”.

Dianalori

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06.03.2009

PADRE ONORIO ZEPPA(1927 - 2013)

Padre Onorio, nato a Casalvieri (Fr) da Antonio e Elena D’Angela il 15 gennaio 1927, fece il suo ingresso nell’Ordine il 10 ottobre 1937.

Divenne novizio il 31 ottobre 1942; il 01 novembre 1943 emise la Professione temporanea e il 19 marzo 1948 la Professione perpetua.

Il 14 maggio 1950 fu ordinato Sacerdote e inviato come Cappellano all’Ospedale San Giovanni.

Il 17 aprile 1952 fu trasferito al “Forlanini” di Roma e l’anno successivo ebbe l’incarico di insegnante presso lo Studentato.

Nel mese di maggio del 1957 fu trasferito a Bucchianico e il 03 gennaio 1962 ricevette l’incarico di esaminatore dei Novizi.

Il 7 settembre 1967 fu trasferito al Villaggio San Camillo di Sassari.Il 28 settembre 1970 ricoprì il delicato compito di Padre Spirituale del Semina-

rio di Soffiano (Firenze).Il 12 settembre 1971 fu di comunità a Sassari.Il 14 maggio 1974 fu trasferito al Seminario di Sora, dove rimase fino al 1986, i

primi sei anni come Superiore e gli altri sei come economo.Nel 1986 divenne Rettore del Santuario San Camillo di Bucchianico (Ch) e vi

rimase per altri sei anni.L’8 settembre 1992 fu di casa a Villa Sacra Famiglia (Roma) come accompagna-

tore vocazionale.Il 09 marzo 1993 divenne cappellano all’Ospedale di San Giacomo e dal 1999

fu di casa al Villaggio Eugenio Litta di Grottaferrata. Dalle date che hanno scandito la sua vita è possibile vedere come egli abbia

esercitato il suo ministero al servizio dei malati, alternando periodi vissuti a contatto

Ricordiamo i Nostri MoRTi

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diretto con gli infermi, come cappellano ospedaliero, a periodi in cui, come formato-re, ha trasmesso il suo grande amore verso chi soffre ai giovani in ricerca vocazionale e a quanti si preparavano a donarsi al Signore come Ministri degli Infermi.

Di certo, tutti ricorderemo Padre Onorio come un grande innamorato di San Camillo: la figura di questo modello di santità, tanto caro a tutti noi, lo ha conqui-stato sin dalla sua giovinezza e gli anni vissuti all’ombra del Santuario San Camillo a Bucchianico gli hanno permesso certamente di alimentare e diffondere la devozione verso il nostro Fondatore.

Padre Onorio ha vissuto intensamente l’esperienza della paternità spirituale, la vicinanza fraterna e aperta agli altri, amando con tutto il cuore i fratelli affidati alle sue cure pastorali.

Padre Onorio è sempre stato, all’interno delle comunità in cui è vissuto, elemento di concordia e unità, di riconciliazione e perdono: veramente una presenza significa-tiva e preziosa, esempio di umiltà e punto di riferimento per tutti i confratelli. Egli, orgoglioso di essere camilliano, ha amato intensamente l’Ordine di cui faceva parte e in modo particolare la nostra Provincia Romana, che considerava come la sua famiglia.

È stato un uomo di preghiera: la devozione alla Madonna, l’amore per l’Eucarestia e il fascino per la figura di San Camillo sono stati per Padre Onorio il segreto che lo ha reso capace di dare ai malati e ai sofferenti speranza, sollievo, incoraggiamento e fiducia nel Signore.

Un’altra risorsa a cui il carissimo Padre Onorio attingeva erano il canto e la musica: quest’ultima, lo sappiamo bene, ha la forza di avvicinare a Dio, di favorire la fede e cooperare alla evangelizzazione.

Verso la fine del mese di luglio Padre Onorio, le cui condizioni di salute erano già piuttosto compromesse, ha cominciato a peggiorare; i confratelli che lo assistevano in comunità con tanta premura, vedendo che stava aggravandosi ulteriormente, l’8 agosto lo hanno ricoverato all’ospedale di Frascati; qui Padre Onorio, amorevolmen-te assistito dai confratelli della sua comunità, dalle sorelle e dai famigliari tutti, il 19 agosto 2013, alle cinque del mattino è tornato alla Casa del Padre.

Ringraziamo il Signore per averci fatto dono di questo confratello che si è speso fino all’ultimo nell’amore verso i fratelli. Infatti, fino a quando le forze glielo hanno permesso, Padre Onorio ha assistito con amore e tenerezza i malati e i diversamente abili del Villaggio Eugenio Litta, dando a tutti una bella testimonianza di carità evangelica.

Dal Cielo egli continuerà ad amare e pregare per il suo Ordine, per la sua Pro-vincia e per ciascuno di noi.

La salma è tumulata nella tomba di famiglia presso il cimitero di Frosinone.

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06.03.2009

PADRE VINCENZO MINERDO(1930 - 2013)

Padre Vincenzo Minerdo nasce il 22 ottobre 1930 a Genova Pegli. Viene bat-tezzato il 12 gennaio 1931 nella Parrocchia di S. Maria Immacolata di Genova.

Negli anni della gioventù, prima di entrare a far parte dell’Ordine Camilliano, è stato membro dell’Istituto dei “Paolini”, dove ha lavorato per tanti anni nelle loro librerie.

Il 30 dicembre 1977 entra nell’Ordine Camilliano a Torino “Villa Benso” come aspirante Sacerdote.

Il giorno 8 settembre 1978 accede al noviziato a Capriate San Gervasio, in Provincia di Bergamo e l’anno seguente, precisamente il 9 settembre 1979, nella stessa casa, emette la professione temporanea.

Il 15 settembre 1979 viene trasferito presso la comunità di Torino “Villa Ben-so” per intraprendere gli studi di teologia alla F.I.S.T. (Federazione Italiana Studi Teologici).

Il 31 ottobre 1982 riceve dal Padre Provinciale p. Crescenzo Mazzella i ministeri del lettorato e accolitato.

Il 12 dicembre 1982 emette la professione perpetua nella cappella della comu-nità della nostra Casa di Cura S. Camillo di Forte dei Marmi (LU).

Il 30 giugno 1984 viene ordinato Sacerdote dal Cardinale Ballestrero nella Chiesa del Cottolengo di Torino.

Il 1° agosto 1985 viene trasferito ad Imperia come aiuto cappellano e vi rimarrà sino al 5 febbraio 1987, quando sarà trasferito a Genova come aiuto rettore della Chiesa di Santa Croce.

Il 14 agosto 1989 gli viene richiesto di portarsi a Casale Monferrato come responsabile della Chiesa, dove dedica il suo tempo alla pastorale e al servizio dei confratelli.

Il 1° settembre 1992 è chiamato a Villa Lellia, Torino, come cappellano del Presidio Sanitario San Camillo.

Il 1° agosto 1995 viene trasferito alla Residenza San Camillo di Genova come cappellano, dove lavora instancabilmente al servizio dei malati.

Il 19 luglio 2007 è nominato Superiore della comunità di Genova.Ivi rimane sino al 5 agosto 2013, giorno del suo decesso all’ospedale “Duchessa

Galliera” di Genova. Padre Vincenzo è stato ricoverato per circa 20 giorni a causa di un ictus ischemico e scompenso cardiaco, spegnendosi pian piano fino al ritorno nell’abbraccio del Padre Celeste.

La perdita di questo Confratello sacerdote riservato e discreto ci rattrista l’ani-mo: avremmo voluto stare di più con lui, condividere maggiormente le esperienze quotidiane della sofferenza fatta offerta, della lamentazione fatta preghiera e della solitudine fatta stile di vita.

Apprezzato nel ministero della consolazione, infondeva senso di affidamento e certezza; le confidenze espresse non andavano oltre il silenzio del suo animo.

Il Signore Gesù lo accolga tra i suoi “piccoli”; abbia pietà e misericordia per P. Vincenzo, per il suo sacerdote che lo ha aiutato infinite volte a “spezzarsi” per farsi pane, farsi cibo per tanta gente con sincera fame di Lui.

La Madonna lo abbracci teneramente quale Madre desiderosa dell’incontro e che San Camillo lo annoveri tra i suoi figli felici con lui nel Regno dei Cieli.

La salma è trasportata per essere tumulata nella Tomba dell’Istituto a Torino.

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6.03.2009

PADRE DINO DE ZAN(1946 - 2013)

Padre Dino nasce il 13 febbraio 1946 a Osigo di Fregona in provincia di Treviso ma in Diocesi di Vittorio Veneto, da Giorgio e Laura De Luca. Nel clima sereno della famiglia respira e assorbe genuini valori umani e cristiani.

Il 27 settembre 1958 entra nel seminario Camilliano di Villa Visconta (Besana Brianza).

Accede al noviziato nel 1963 a San Giuliano (Verona) e l’anno seguente, nella stessa casa, emette la professione temporanea.

Il 9 gennaio 1969, insieme ad altri studenti chierici parte per la Colombia, paese che diventerà la sua seconda patria. A Bogotà termina gli studi di teologia nell’Uni-versità Javeriana, tenuta dai Padri Gesuiti e, nel 1971, si consacra definitivamente al Signore con la professione solenne.

Nel 1972 viene ordinato sacerdote dal vescovo di Vittorio Veneto Mons. Anto-nio Cunial, nel suo paese natale, circondato festosamente dai famigliari e dalla comunità parrocchiale.

Subito dopo l’ordinazione, esercita il ministero come cappellano presso l’ospe-dale “Santa Chiara” di Bogotà e frequenta la facoltà di medicina dell’Università Nazionale della Colombia. Ricevuta la laurea in medicina generale nel 1971, com-pie il tirocinio come medico-cappellano nell’ospedale generale di Neiva (regione dell’Huila) e, poi, nell’ospedale regionale della cittadina di Caqueza (regione del Cundinamarca).

Nel 1984 inizia il servizio medico in un quartiere povero e popoloso, il ”barrio Juan Rey” di Bogotà, in una stanza della scuola primaria tenuta dalle suore di Santa Maria della Pace.

Nel 1988, in seguito alla costruzione del nuovo Centro Medico “San Camillo” sempre nello stesso quartiere, P. Dino è nominato responsabile della locale casa e dell’opera sociale annessa e gli viene affidata la Rettoria della nuova Cappella; incarichi che manterrà fino alla morte.

In breve tempo, l’attività aumenta considerevolmente, ricevendo l’approvazio-

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ne delle autorità locali, amministrative ed ecclesiali. Col tempo, emerge l’esigenza di offrire alla gioventù del luogo, praticamente abbandonata a se stessa e con pro-blemi di emarginazione e violenza, l’opportunità di corsi di avviamento al lavoro, di apprendistato professionale e di formazione generale. In pochi anni cresce il nume-ro degli iscritti e l’importanza del Centro, tanto da richiedere l’ampliamento dell’e-dificio e, in seguito, la costruzione di un nuovo Centro di formazione che, dopo un periodo di sperimentazione, oggi può offrire un’ottima preparazione, conferendo diplomi ai partecipanti e facilitando il loro inserimento nel mondo del lavoro.

Ultimamente, P. Dino, con la collaborazione delle autorità municipali e del ministero della pubblica istruzione, è riuscito ad integrare l’attività formativo-scola-stica del suo Centro con l’Istituzione Nazionale Professionale “SENA”, responsabile di tutte le scuole professionali della Colombia, stabilendone programmazione e gestione.

Un’altra iniziativa di rilievo è stata la costruzione sul terreno del Centro di Formazione di “Juan Rey”di un salone-refettorio comunitario, che ha permesso alla municipalità la realizzazione di un programma finalizzato alla distribuzione di cinquecento pasti giornalieri a persone povere.

Nel maggio del 2005, il riconoscimento del lavoro di P. Dino raggiunge l’apice: attraverso l’ambasciata Italiana in Colombia, il Presidente della Repubblica Italia-na gli conferisce il titolo di “Commendatore” con il riconoscimento dell’Ordine della stella della solidarietà.

In questi anni, quella di “Juan Rey” è diventata un’opera sociale complessa e dinamica a favore dei più poveri, nella quale si integrano attività medico-assisten-ziali e formative che hanno favorito il nascere di piccole e grandi “succursali” di sostegno, in altre zone del “Sud-oriente” di Bogotà.

L’aspirazione di P. Dino è stata quella di operare, nella sua vita di Camilliano, una speciale sintesi tra servizio spirituale e corporale. Convinto di questa unità, l’ha promossa in se stesso, svolgendo con fedeltà il suo ministero sacerdotale, nell’an-nuncio della Parola, nella catechesi dei bambini, dei giovani e degli adulti e nella celebrazione dei sacramenti. Ha incarnato il suo spirito sacerdotale nel servizio assiduo ed esemplare ai malati e ai poveri, indossando il camice bianco del medico e assumendo un atteggiamento profetico per difendere i diritti dei deboli e dei poveri. Tale sintesi di servizio l’ha trasmessa ai confratelli, ai collaboratori e anche alla gente semplice che vedeva in lui un padre generoso, deciso, sempre attento, aperto ai bisogni di tutti, ma anche severo e, a volte, rude di fronte a ipocrisie, incoerenze ed ingiustizie.

Infine domenica 28 Luglio, un potente aneurisma polmonare lo ha fulminato di primo mattino..

Ed ora che hai trovato il tuo approdo definitivo nella Casa del Padre, ti chie-diamo, Padre Dino, di pregare per la continuità della tua opera e del tuo messaggio nel “Sud Oriente” di Bogotà, nella tua amata Colombia.

La Salma di P. Dino è trasportata in Italia e riposa nel cimitero di Osigo (TV).

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Partecipazione della Delegazione Colombia-Equador

Alla Provincia Italianaalla Comunitá di Osigoe alla Famiglia De Zan De Luca

A nome di tutti i religiosi camilliani che fanno parte della Delegazione Colombia-Ecuador, inviamo il nostro saluto, unito ai sentimenti di vicinanza e solidarietà in questi momenti di grande tristezza per l’inattesa partenza del nostro P. Dino De Zan De Luca.

Insieme alla tristezza che è inevitabi-le, vogliamo essere vicini a tutti Voi con gratitudine.

Grazie al buon Dio perché ci ha dato un buon servo suo, che ha saputo construi-re il suo Regno in questa nostra Comunità, un buon pastore che ha saputo spendere la sua vita per il gregge del Popolo di Dio.

Grazie alla nostra Provincia Madre per aver potuto contare sulla presenza nel-la nostra Colombia di un religioso gene-roso e instancabile, un vero figlio di San Camilo, che ha fatto tanto bene in favore dei piú bisognosi.

Grazie alla Comunitá di Osigo per averci “prestato” uno dei suoi migliori figli. Oggi, conoscendo il desiderio di P. Dino, ritorniamo con la sua salma, perché riposi in pace nella sua amata terra natale. Noi conserviamo nel nostro cuore il suo amo-re e il suo esempio che continua ad esse-re vivo e presente nell’opera che per tanti anni P. Dino ha portato avanti in Bogotá.

Grazie specialmente alla Famiglia De Zan De Luca per averci dato il privilegio di contare tra di noi uno dei suoi figli, un uomo di bene, un uomo di Dio, un uomo con un cuore così grande che ha costrui-to in queste terre lontane da Voi, un’al-tra famiglia: quella religiosa camilliana e

quella del settore del Popolo di Dio che lui tanto ha servito e amato, e questo senza smettere di amare la sua famiglia naturale.

Ci resta adesso la grande responsa-bilità di continuare il suo lavoro e testi-monianza, cosa non facile senza la sua presenza, ma che non deve fermarsi, giacché solo così possiamo essere sicuri di onorare la sua memoria, la sua infatica-bile lotta per la vita, e mantenere vivo il suo ricordo, di per sé stesso già non can-cellabile, nel cuore di tutti coloro che lo hanno conosciuto. Che P. Dino, adesso dal cielo, ci accompagni e aiuti a conti-nuare a costruire il “sogno”, il suo sogno, per una società più giusta e in pace, dove tutte le persone siano valorizzate, accolte e difese nella loro dignità di esseri umani e figli di Dio.

Con le parole del nostro santo Fon-datore, San Camillo, anche noi diciamo: “Felice il ministro degli infermi che ha saputo spendere la sua vita in questo san-to servizio”.

FraternamenteP. Juan Pablo Villamizar Jaimes

Delegato Provinciale

“una marcia verso il Cielo”.

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Omelia al funerale ad Osigo

Carissimi,desidero innanzitutto porgere le

condoglianze al fratello di padre Dino, Sisto, alla sorella Maria, ai cognati, ai nipoti, ai parenti, agli amici e ai par-rocchiani.

Saluto e ringrazio a nome di tutta la comunità camilliana, Sua Eccellenza Mons. Corrado Pizziolo, i sacerdoti e i confratelli presenti. Sentiamo vicina e

presente nella preghiera e nella com-partecipazione la comunità camilliana della Delegazione Colombo-Ecuadoria-na, e in particolare la numerosa comu-nità dei fedeli del Sud Oriente di Bogo-

tà (di Juan Rey), le migliaia di giovani studenti e non, la moltitudine di poveri e di malati e la quantità di amici che in Colombia e in Bogotà hanno conosciu-to, apprezzato ed amato p. Dino De Zan, religioso camilliano, sacerdote e medico missionario.

S iamo r imast i tutt i sconvol-ti e costernati alla notizia della morte

improvvisa e prematura di P. Dino, avve-nuta al culmine della sua attività pasto-rale, formativa, sociale ed organizzativa e nel momento in cui le sue iniziative a favore dei poveri, dei malati e dei giova-ni raggiungevano risultati considerevoli, importanti ed invidiabili, come frutto di una Provvidenza Divina che ha sempre accompagnato P. Dino e lo ha sostenuto nei momenti più difficili e critici.

Osigo di Fregona (TV) 5 agosto 2013.

padre dino de zan

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Ma come credenti, siamo qui a rin-graziare Dio Padre per il dono della vita di P. Dino, per l’amore che ha rivelato al prossimo per mezzo della testimo-nianza di un suo figlio e per il bene da lui compiuto.

È bello pensare a P. Dino come a una persona, ad un camilliano, profeta dell’amore di Dio per i malati, i poveri, i giovani … che ha contribuito a ridare salute fisica e spirituale a tante persone malate, a ridonare il senso della vita, speranza e lavoro a tanti giovani senza futuro.

In questo lasciarsi vivere nello spi-rito e nell’azione e, forse, in un lento lasciarsi morire in tanti anni di quoti-diano lavoro, possiamo dire che p. Dino ha donato la vita al Signore e, in lui, ha ridonato vita e speranza.

Questo però, grazie ad una profonda conformazione a Gesù; il profeta è tale nella misura in cui fa trasparire, con la vita e poi con le parole, che è piena-mente identificato con chi lo manda e lo sostiene nel non facile compito di indicare la strada di una vita piena. La vita è un dono di Dio. A lui appartenia-mo. Così come a Lui appartengono l’ora e la modalità della nostra morte. “Chi di voi per quanto si dia da fare, può aggiunge-re un’ora sola alla sua vita?” (Mt 6, 27), chiede Gesù. Se noi viviamo, viviamo a causa del Signore e finalizzati al suo amore. Anche l’ora della morte è nelle sue mani, dentro un suo progetto che è sempre e solo Amore. E il Signore è ritornato alla vita “nello splendore e nella forza della sua Resurrezione, per esercitare una Signoria che è protezione, cura amore-vole, libertà, realizzazione vera, …, sulla vita e sulla morte delle sue creature”.

P. Dino è nato in questo paese di

Osigo di Fregona il 13 di febbraio del 1946. Da papà Giorgio e da mamma Laura ha respirato un clima di sereni-tà, apertura al Signore, fede genuina e amore concreto. Possiamo dire che il senso del dovere, la laboriosità e lo spi-rito di sacrificio li ha imparati prima che a scuola, dalla vita e poi dalle parole dei suoi cari genitori. Nella parrocchia tro-va una seconda famiglia che “avvia alla vita”, coinvolge e prepara alle grandi responsabilità e accompagna col desi-derio di fare il bene al prossimo. Poi matura il desiderio di donarsi al Signo-re. Inizia il cammino vocazionale nel seminario S. Camillo di Villa Visconta di Besana Brianza il 27 settembre 1958, preparandosi ad un servizio di dona-zione a Dio e al prossimo nel carisma evangelico della carità verso i malati e i poveri, che diventerà lo scopo e la meta della sua vita.

Fa il noviziato a Verona (settembre 1963-64), e si offre al Signore con la professione dei consigli evangelici il 26.09.1964.

Il 9 gennaio del 1969, con altri giovani compagni, parte per l’Ameri-ca Latina e, realizzando il sogno della sua vita di poter essere un futuro mis-sionario. Giunge a Bogotà, a sostegno della giovane fondazione camilliana in Colombia.

Compie i suoi studi teologici nell’U-niversità Pontificia Javeriana dei Gesu-iti fino alla meta del sacerdozio. Fa la professione perpetua di consacrazione al Signore il 22.08.1971. Viene ordina-to sacerdote in questa chiesa di Osigo il giorno 8 di Dicembre, festa della Imma-colata, del 1972, dalle mani di Mons. Antonio Cunial, vescovo di Vittorio Veneto.

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Subito dopo l’ordinazione, ritor-nato in Colombia, esercita il ministe-ro come cappellano presso l’ospedale “Santa Chiara” di Bogotà e frequenta la facoltà di medicina dell’Università Nazionale della Colombia. Ricevuta la laurea in medicina generale nel 1981, compie il tirocinio come medico-cap-pellano nell’ospedale generale di Neiva (regione dell’Huila) e, poi, nell’ospeda-le regionale della cittadina di Caqueza (regione del Cundinamarca).

Nel 1984 P. Dino, assieme al P. Ren-zo Roccabruna che diventa responsabile della parte pastorale, dà inizio alla pre-senza camilliana nel quartiene povero e popoloso del Barrio Juan Rey. P. Dino inizia così il suo servizio medico in un piccolo ambiente del Collegio delle Suore di Santa Maria della Pace.

Nel 1988, in seguito alla costru-zione del nuovo Centro Medico “San Camillo”, sempre nello stesso quartiere, P. Dino è nominato responsabile della locale casa e dell’opera sociale annes-sa e gli viene affidata la Rettoria della

nuova Cappella, incarichi che manterrà fino alla morte.

In breve tempo, l’attività sanitaria aumenta considerevolmente, riceven-do l’approvazione delle autorità locali, amministrative ed ecclesiali. Col tempo, emerge l’esigenza di offrire alla gioventù del luogo, praticamente abbandonata a se stessa e con problemi di emarginazio-ne e violenza, l’opportunità di corsi di avviamento al lavoro, di apprendistato professionale e di formazione generale. In pochi anni cresce il numero degli iscritti e l’importanza del Centro, tanto da richiedere l’ampliamento dell’edi-ficio e, in seguito, la costruzione di un nuovo Centro di formazione che, dopo un periodo di sperimentazione, oggi può offrire un’ottima preparazione, conferen-do diplomi ai partecipanti, facilitando il loro inserimento nel mondo del lavoro.

Ultimamente, P. Dino, con la col-laborazione delle autorità municipali e del Ministero della Pubblica Istru-zione, è riuscito ad integrare l’attività formativo-scolastica del suo Centro con l’Istituzione Nazionale Professionale “SENA”.

Un’altra iniziativa di rilievo è sta-ta la costruzione sul terreno dell’Opera di “Juan Rey” di un salone-refettorio comunitario, che ha permesso alla Municipalità di Bogotà la realizzazione di un programma finalizzato alla distri-buzione di cinquecento pasti giornalieri a persone povere.

Nel maggio del 2005, il riconosci-mento del lavoro di P. Dino raggiunge l’apice: attraverso l’ambasciata italiana in Colombia, il Presidente della Repub-blica Italiana gli conferisce il titolo di “Commendatore” con il riconoscimento dell’Ordine della stella della solidarietà.

padre dino de zan

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In questi anni, quella di “Juan Rey” è diventata un’opera sociale comples-sa e dinamica a favore dei poveri, nel-la quale si integrano attività medico-assistenziale e formative che hanno favorito la nascita di piccole e grandi “succursali” di sostegno in altre zone del “Sud-Oriente” di Bogotà.

Per realizzare un’opera di tali dimen-sioni e talmente significativa a livello sociale ed ecclesiale, P. Dino ha dovuto bussare a tante porte, richiedere inter-venti continui da parte delle autorità politiche, municipali ed amministrati-ve, suscitare interesse e collaborazione da parte degli enti ecclesiastici, vincere incomprensioni e difficoltà di ogni tipo,

avvalersi dei mezzi di comunicazione e … confidare tanto nella Provvidenza divina e negli aiuti di tante persone generose, di associazioni caritative, gruppi di beneficienza, organizzazioni nazionali ed internazionali di sostegno a vari progetti socio-comunitari, dona-zioni speciali da parte delle ambascia-te e consolati, … E dobbiamo dire che da tutti riceveva gli aiuti o interventi richiesti.

Il suo stile, la sua dedizione alla causa dei poveri e bisognosi, la sua “lea-dership” e il suo carisma generavano attenzione e rispetto da parte di tutti e la passione evangelica che lo spingeva ed animava era motivo di credibilità ed

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autorevolezza. Inoltre la sua capacità di esecuzione, surrogata da convinzioni ed ideali vissuti e visibili in una quotidiana testimonianza di vita accanto ai poveri, ai malati e ai giovani, creavano attorno a lui consenso ed ammirazione.

Dalla sua casa povera e semplice di Juan Rey è passata una moltitudine incredibile di persone: cardinali, vesco-vi, nunzi apostolici (tra i quali Mons. Beniamino Stella, originario di questa terra), sacerdoti, religiosi, i Presidenti della Repubblica di Colombia, le mogli dei Presidenti (a capo dell’Ufficio dei Servizi Sociali e di Beneficenza), Sinda-ci di Bogotà, senatori e deputati (ai qua-li mostrava concretamente le situazioni drammatiche della sua gente, rivendi-candone diritti e condizioni più digni-tose). A tutti chiedeva, con i suoi modi educati ma inflessibili, aiuto e collabo-razione, non senza aver fatto assaggiare loro un bicchierino di grappa o di “tor-chiato”. Ma chi entrava continuamente nella sua casa erano i poveri, gli infermi e i suoi numerosi collaboratori. …

L’aspirazione di P. Dino è stata quel-la di operare, nella sua vita di Camil-liano, una speciale sintesi tra servizio spirituale e corporale. Convinto di questa unità, l’ha promossa in se stes-so, svolgendo con fedeltà il suo mini-stero sacerdotale, nell’annuncio della Parola, nella catechesi dei bambini, dei giovani e degli adulti e nella celebrazio-ne dei sacramenti. Ha incarnato il suo spirito sacerdotale nel servizio assiduo ed esemplare dei malati e dei poveri, indossando il camice bianco del medico e assumendo un atteggiamento profeti-co per difendere i diritti dei deboli e dei poveri. Tale sintesi di servizio l’ha tra-smessa ai confratelli, ai collaboratori e

anche alla gente semplice, che vedeva in lui un padre generoso, deciso, sempre attento, aperto ai bisogni di tutti, ma anche severo e, a volte, rude di fronte a ipocrisie, incoerenze ed ingiustizie.

Salendo le scale della casa-residen-za di P. Dino a Juan Rey, ci si sentiva accompagnati da una serie di quadri fotografici appesi alle pareti, rappresen-tanti l’uno il paese di Osigo, altri que-ste vallate, l’altipiano del Cansiglio, le grotte del Caglieròn e le montagne spettacolari di questa zona.

P. Dino, anche se è vissuto in una seconda Patria, la Colombia, amava tanto la sua terra, la sua famiglia, la sua parrocchia, la sua Diocesi, che lo ha tanto aiutato… Ha conservato nel suo cuore, nel suo carattere e nel suo spirito i segni tipici di questo popolo e i suoi genuini valori.

Nella sala da pranzo, p. Dino tene-va su una credenza e ben in vista, così da attirare immediatamente l’attenzio-ne, un cappello da Alpino (forse di suo papà o di suo fratello), che mostrava orgogliosamente a tutti e davanti al quale spesso si commuoveva. … Era il ricordo più evidente della sua gente e delle cime delle sue montagne. Cima vuol dire fatica, sacrificio, e … Para-diso!

Caro Dino, ti abbiamo riportato qui da dove sei partito e a nome di tutti ti voglio salutare con quella preghiera-canzone che ti piaceva tanto e che tutti conosciamo.

Dio del cielo, Signore delle cime, un nostro amico hai chiesto alla montagna. Ma ti preghiamo: su nel Paradiso lascia-lo andare per le tue montagne.

padre dino de zan

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Testimonianza di un amico ...

Caro Dino,questa è l’ultima lettera che ti scri-

vo. Il mio animo è ancora sottosopra per la tua improvvisa morte e la notte che mi sono lasciato alle spalle è stata insonne. Mi hanno appena chiamato dalla redazione del settimanale diocesa-no, chiedendomi se potevo scrivere un articolo sulla tua persona. I tempi del-la redazione sono sempre molto stretti. In questo momento, un fiume di ricordi sgorga dal mio animo. È un fiume placi-do, limpido e pieno di vita che non riu-scirò mai a racchiudere in poche righe.

Non scriverò un articolo sulla tua vita raccontando la tua straordinaria storia. A me più della storia in sé inte-ressa il significato che ha avuto per me la tua storia. Poco più di tre anni vis-suti accanto a te in Colombia hanno lasciato in me esperienze difficilmente traducibili in parole.

Caro Dino, cosa raccontare di te? Come raccontare il Dino prete, il Dino medico, il Dino direttore, il Dino ami-co, fratello e padre? Chi ti ha incontra-to ha fatto esperienza di cosa vuol dire essere accolti fin nei minimi particola-ri. Hai vissuto il Vangelo con ogni fibra del tuo essere e con ogni cellula del tuo corpo. Per questo mi piacerebbe vedere la faccia che farai quando Gesù ti rivol-gerà le seguenti parole: “Vieni benedetto del Padre mio, ricevi in eredità il regno preparato per te, perché ho avuto fame e mi hai dato da mangiare, ho avuto sete e mi hai dato da bere, ero straniero e mi hai accolto, nudo e mi hai vestito, malato e mi hai visitato, ero in carcere e sei venuto a trovarmi”. Sono sicuro che, come tutti i giusti, anche tu hai il difetto di non

ricordare e inizierai a dire: “Ma quando ho fatto tutto questo?” Allora ogni per-sona che ti ha incontrato ti rinfrescherà la memoria.

Per l’amicizia che ci lega mi sen-to libero di iniziare subito. Mi ricordo quando, di prima mattina, andavi ad aprire le porte del centro medico, acco-gliendo tutti coloro che erano in fila con una parola di saluto e consegnando loro il numero progressivo per accedere ai vari ambulatori. Subito dopo ti met-tevi a visitare malati e a fare ecografie.

Ti ricordi quella volta che abbiamo aiutato a partorire una donna nel bel mezzo di un prato? Tu stavi lavorando ad una tubatura d’acqua che perdeva e hai mollato pala e piccone e ti sei ingi-nocchiato sul prato a far nascere un bimbo, che poi la mamma ha chiamato con il nome di Camillo. Quando siamo giunti al pronto soccorso con mamma e bambino perfettamente sani, i tuoi colleghi medici hanno strabuzzato gli occhi nel vedere che calzavi ancora gli stivali da lavoro sporchi di fango. Sì, c’ero anch’io Signore e posso dire che quando tu eri malato lui ti ha curato.

E ora caro Dino, non far finta di cadere dalle nuvole. Non mi dire che ti sei scordato anche i viaggi fatti all’a-eroporto internazionale di Bogotà a riempire il Jeep all’inverosimile con gli avanzi di cibo dei voli internazionali! Di quel cibo abbiamo fatto sporte set-timanali per sfamare centinaia di per-sone. Per anni ti sei assunto anche la responsabilità di distribuire circa quat-trocento pasti al giorno per i più poveri del quartiere, grazie all’adesione che hai dato al programma governativo delle

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mense. Sì, c’ero anch’io Signore e posso dire che quando tu avevi fame il mio amico Dino ti ha dato da mangiare.

Caro Dino, non far finta di non ricordare. Ti ho visto accogliere tante persone nel tuo piccolo appartamento. Persone di ogni strato sociale, naziona-lità e credo e anche qualche guerrigliero.

Ma la più grossa l’hai fatta quando ti sei messo ad accogliere nella scuola pro-fessionale i giovani delinquenti di stra-da, dando loro un futuro e un lavoro. Poi la scuola è cresciuta e ora accoglie in corsi professionali di ogni tipo mille e cinquecento giovani. Sì, c’ero anch’io Signore e posso testimoniare che quan-do tu eri straniero e avevi bisogno di ospitalità, era lui ad accoglierti.

Caro Dino, sento che continui a non ricordare. Non mi scorderò mai quando, alla fine dell’eucarestia dome-nicale, la gente si metteva in fila per ricevere dei vestiti che ti erano arri-vati in container dall’Italia o da amici vari. Grande sorpresa è stata quando

tra i vestiti abbiamo trovato nascosta una bottiglia di torchiato! Quella ce la siamo bevuta noi. Sì, Signore io c’ero quando tu eri nudo e Dino ti ha vestito.

Caro Dino, se ancora ti rimane qual-che briciolo di memoria, non scordarti quella volta che sei andato di persona a recuperare in carcere Daniel, che era stato pestato a sangue. A dire, riguardo a quella sera ho le idee un po’ confuse. Ero arrivato da poco da te e non com-prendevo appieno quella realtà. Questo non mi impedisce di attestare che c’ero anch’io quella volta Signore e Dino ti ha visitato mentre eri agli arresti.

Caro Dino ora non hai scampo e quella eredità che il Signore ha prepa-rato per te prendila una buona volta! Lui sa già che ti è sconosciuto il gesto di trattenere e ti è più naturale il gesto del donare. Il Signore sa già che quella eredità preparata per te tu la riverse-rai su tutti noi, in modo traboccante e vitale. Spetta a noi saperla ricevere. Un abbraccio e a presto.

Ezio

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6.03.2009

FRATEL GIOVANNI PETRIN(1934 - 2013) 06.03.2009

Giovanni Petrin nacque a Belvedere di Tezze (Vicenza) il 14 giugno 1934 da Attilio e Ausilia Protti, e fin da piccolo assorbì dai suoi genitori genuini sentimenti cristiani. La vocazione camilliana di Giovanni viene ricondotta dal fratello Don Guido alla frequentazione dei Camilliani della vicina Mottinello: vi si recavano insieme, la domenica, «anche per fare una gita in barca sul laghetto della villa». Nonostante Guido frequentasse già il seminario diocesano, Giovanni era attira-to dalla croce rossa dei Camilliani, tanto che a 12 anni chiese di essere accolto tra loro, proprio a Mottinello, dove si trovavano anche i postulanti del ginnasio superiore.

Giovanni avrebbe anche lui voluto seguire la via del sacerdozio, ma – come pare – ne fu sconsigliato dai superiori, sicché rimase in casa addetto a varie mansio-ni, e specialmente in portineria: una cosa oggi impensabile. Ma non doveva essere facile nemmeno allora, se è vero che una volta pensò di abbandonare l’Istituto. Una mattina in cui aveva già fatto la valigia per andarsene, non volle farlo senza prima adempiere il suo dovere di accendere la stufa che riscaldava la cappella della comu-nità. Lo fece, ma poco dopo, il sonno prevalse su di lui e si addormentò su un banco. Però bastò il rumore dei chierici che scendevano per le pratiche di pietà non solo a svegliarlo dal sonno, ma anche a indurlo a riportare di corsa la valigia in camera e sospendere ogni proposito di andarsene.

Il 24 dicembre 1951, a 17 anni, il postulante fratello Giovanni Petrin fece il suo ingresso in noviziato; il 25 dicembre del 1952 emise la professione semplice e qualche giorno dopo fu trasferito a Milano-San Camillo. Qui, per cinque anni, fu addetto a varie incombenze, e da ultimo fu aiutante in sala operatoria, dove fece la sua bella pratica che gli sarebbe tornata tanto utile in missione. A Milano, Fr. Petrin emise anche la professione solenne il 25 dicembre 1955.

Sull’origine della vocazione missionaria di Fr. Petrin vi è una sua dichiarazione, secondo la quale fu P. Rino Meneghello a proporgli la partenza. Da suo fratello Don Guido, però, apprendiamo che Giovanni, già molto tempo prima della partenza,

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nelle lettere scritte a casa usava firmarsi “Giovanni il Missionario”. Forse, un sugge-rimento può essere venuto anche da altri, non escluso P. Antonelli che era sempre alla ricerca di un aiuto di fiducia per la sala operatoria del Dr. Janež. E difatti, sal-pato da Genova il 30 settembre 1957 insieme allo stesso P. Meneghello, Fr. Petrin dopo un breve – forse troppo breve – apprendistato di lingua cinese, sarà per dieci lunghi anni la spalla dell’esigente chirurgo Dr. Janež, insieme a Sr. Matilde Cer-pelloni e all’anestesista Fr. Luigi Pavan. L’opera generosa e instancabile svolta da questi valorosi missionari, anche con una decina di interventi quotidiani, ha posto gloriose fondamenta al St. Mary’s ed è ricordata ancor oggi, dopo mezzo secolo, da molti cinesi riconoscenti.

Nel 1967, alla scadenza dei dieci anni, Fr. Petrin usufruì della regola della mis-sione e ritornò in Italia per le vacanze. Con le vacanze si chiudeva per lui il primo periodo di vita missionaria. Al suo ritorno a Taiwan, infatti, se ne apriva un altro al sanatorio di Wanshan, per un’attività che durerà oltre un quarantennio, inin-terrottamente, salvo un solo anno (dal 28 luglio 1971 al 15 luglio 1972), trascorso a Makung. La generosa dedizione di Fr. Petrin prima ai malati di TBC e poi agli anziani (quando Wanshan sarà convertita in Casa di riposo) – dedizione disinvolta, molto pratica e pronta ai servizi più umili, senza badare ai rischi connessi – gli è valsa in primo luogo l’ammirazione delle infermiere sue immediate collaboratrici, che egli sapeva trascinare al lavoro, poi la riconoscenza di tanti beneficati e infine, via via, anche il riconoscimento pubblico da parte dei mezzi di comunicazione (giornali e TV) e dell’autorità sanitaria. Il più prestigioso di tali riconoscimenti è stato il “Premio di benemerenza sanitaria” (Y-liao-fong-hsien), conferitogli il 29 aprile 2000 a Taipei.

Una simile onorificenza è arrivata successivamente anche dall’Italia: il 27 dicembre 2006, su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, Fr. Petrin veniva insignito del titolo di Cavaliere al Merito della Repubblica Italiana per la sua abnegazione verso gli ospiti del sanatorio di Wanshan.

Nel frattempo, però, sulla collina di Wanshan le cose erano cambiate. In seguito a reiterati avvertimenti dell’autorità civile e sanitaria sull’inevitabile sgombero del luogo, giocoforza si dovette trovare un’altra sede sia per il Centro degli handicappati (esistente fin dal 1987), sia per il “regno” di Fr. Petrin che dal 1995 era stato trasfor-mato in Casa di riposo. La sede fu individuata a Tayin, non lontano da Lotung, dove in un medesimo compound furono ospitate in nuovissimi edifici entrambe le istituzioni, il Centro per handicappati alla fine del 2005, e la Casa di riposo a metà del 2009.

Qui, nella moderna Casa di riposo, Fr. Petrin avrebbe dovuto continuare il suo servizio; per lui era stato anche ricavato un appartamentino all’ultimo piano della Casa. Ma nel nuovo ambiente Fr. Petrin forse non si trovava più a suo agio, in più già da un anno non stava affatto bene, e accusava disturbi intestinali, cefalee, insonnia, eccetera. Qualche confratello vi vedeva un indizio di incipiente senilità, ma forse era piuttosto depressione, non priva di momenti di determinazione. In questo stato di cose, si situano un paio di ritorni in Italia, fino al suo definitivo rientro nella Provincia Lombardo-Veneta, avvenuto il 10 maggio 2011.

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Destinato di casa a Venezia-Alberoni, Fr. Petrin ha qui trascorso il tramonto della sua vita, visitato da confratelli, parenti e amici, alternando qualche momento di depressione e di debolezza, con altri di rinnovata lucidità mentale, che lo facevano prodigo di ricordi missionari.

La sera del 26 ottobre 2013, Fr. Petrin si trovava ancora in questo stato di sostan-ziale serenità. Ritiratosi in camera dopo la cena, un improvviso infarto metteva termine alla sua vita terrena. Era il Signore che chiamava il suo servo fedele e mise-ricordioso al premio eterno.

La salma è sepolta nel cimitero di Belvedere di Tezze (VI).

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(Is 61,1-3; Lc 7,18-23)

Cari parenti e conoscenti di fr. Giovanni, cari confratelli!

Con fr. Giovanni se ne va un testi-mone esemplare di camilliano e camil-liano missionario. Entrato giovanissimo nell’Istituto, si presentava con le quali-tà d’un ragazzo cresciuto in un ambiente familiare di spiccata sensibilità religiosa. Portava con sé il volto innocente della terra da cui proveniva; questa la valu-tazione di coloro che l’hanno accolto. Aveva il candore di un’anima semplice, come erano semplici i costumi della sua gente, le tradizioni religiose e le con-vinzioni morali che aveva assimilato senza filtri, così come gli erano state insegnate dai genitori. Si presentava tra i camilliani con le migliori dispo-sizioni per avviarsi a divenire un fedele discepolo di S. Camillo. Se dai genitori aveva ricevuto la trasparenza e una sana fiducia nella vita, da S. Camillo ave-va copiato l’amore per la vita fragile e povera, bisognosa di aiuto.

Della sua infanzia raccontava un episodio esilarante. Dopo le prime setti-mane dal suo arrivo nella casa religiosa di Mottinello, aveva preparato la vali-getta per ritornare in famiglia. Prima di partire aveva eseguito il suo impe-gno di accendere la stufa in cappella. Aspettando che il fuoco si avviasse, si è seduto su un banco, addormentandosi. Si è svegliato all’arrivo degli studenti. Ha ripreso la valigia e l’ha riportata in camera. In questo episodio, nella sua semplicità c’è qualcosa che commuove: la fedeltà di questo tenero ragazzino che si alzava presto, prima degli altri e, pur con il proposito di andarsene, non veni-va meno al compito affidatogli. Questo

aneddoto ce lo fa sentire come uno di noi, così vicino e vero. Qui c’è l’inge-nuità popolare e schietta tipica d’un tempo, quando si viveva modestamente senza pretese eppure così contenti.

L’apostolato missionarioPartito per l’avventura della missio-

ne, a Formosa si è unito agli altri suoi confratelli, uomini di eccezionale for-mazione, emulandoli nell’assistenza al malato. Qui ha potuto dare il meglio di se stesso, la vocazione d’un cristiano ardente. In ogni grande scadenza litur-gica, quale Natale e Pasqua, inviava una lettera. Leggendola, si aveva l’im-pressione di entrare in un altro mondo, molto diverso dal nostro, spento e apa-tico. Il suo era il mondo della sofferen-za e del disagio cui faceva fronte con la carità. Le sue lettere non si soffermava-no su teneri sentimenti né tanto meno su effusioni devozionali. Riferivano fat-ti, la cronaca della sua giornata. E già

San Camillo di Venezia/Lido: ultimo saluto della

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questo era un insegnamento che valeva molto più di tanti slanci mistici. Erano sufficienti le scarne notizie da diario per rendersi conto della sua attività.

Da lui arrivavano poveri in condizio-ni disperate. Data la sua abilità ed espe-rienza, sapeva diagnosticare il disturbo e trovare il farmaco adeguato. Molti casi si risolvevano presto, in modo sor-prendente. Passava tutto il suo tempo in corsia, tra i letti dei suoi pazienti. Li seguiva scrupolosamente. Ai momenti di trepidazione si alternavano momenti di soddisfazione, quando li vedeva guariti e pronti per essere dimessi. Tra l’altro, ricordava come malati da lui assistiti si presentassero dopo oltre 10 o anche 15 anni, per offrire dei doni o offerte in denaro. Il tempo trascorso dopo la loro dimissione aveva cancellato in lui ogni ricordo. Se fr. Giovanni s’era dimen-ticato della sua prestazione, non s’era dimenticato però di colui che ne aveva beneficiato. Il segno della riconoscenza era per lui una delle gioie più belle del suo apostolato. Se nonostante lo scorrere degli anni c’era chi si presentava per rin-graziare, è ovvio dedurre che il suo servi-zio aveva lasciato un’impressione più che buona. È segno che l’esercizio della carità era stato compiuto volentieri, con soli-dale partecipazione alle sofferenze altrui.

Nella posta che spediva, oltre la data segnalava anche l’ora della ste-sura. In genere erano le quattro del mattino. Cominciava per tempo il suo

lavoro, quando tutto era ancora immer-so nel silenzio. Forse potrebbe balenare il sospetto che ci sia dell’esagerazione nelle sue notizie. I confratelli ne erano testimoni, ma al di là della loro con-ferma erano l’onestà e la sincerità di fr. Giovanni a non farci dubitare. Era un religioso che non solo ha imitato lo spi-rito del fondatore nella fedeltà ai com-piti abituali, ma anche in casi stupefa-centi, per far fronte ai quali è richiesto un po’ più che un supplemento d’anima: non solo fare la carità, ma a volte farla anche con gesti coraggiosi, come quan-do bocca a bocca ha salvato un paziente che stava per soffocare.

Nelle sue lettere traspariva l’entusia-smo del missionario e soprattutto la gioia di rendersi utile, indipendentemente dai sacrifici richiestigli. Era contento del suo lavoro, ci metteva la passione e l’anima. Nei suoi scritti non usava parole grosse, come sacrificio, bontà, gioia, donazio-ne, disinteresse, ma tutto ciò traspariva dalla maniera con la quale passava in rassegna gli impegni quotidiani. Sembra quasi avesse fiutato come molto spesso si usa un linguaggio vuoto e senza senso. Parlando di amore gratuito e slancio nel servizio, si ha sempre paura di mentire. Nel caso di fr. Giovanni non è così, non ho alcuna esitazione. So che certe paro-le riferite a lui, per quanto elogiative, dicono il vero. È facile rendersi conto di come fosse amatissimo dai malati e dal personale che dirigeva, precedendolo con il suo esempio. Sempre in prima fila, sempre il primo in reparto, sempre l’ul-timo ad andarsene. Nella missione ha trovato l’ambiente a lui più congeniale, gli ha permesso di sviluppare al massi-mo le sue inclinazioni. In altro contesto, ad esempio come il nostro, dove tutto

di molti collaboratori, amci e fedeli, celebra

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è programmato e regolato da strutture a volte soffocanti, non avrebbe potu-to mettere a frutto quello che lui era. Aveva bisogno di eventi imprevisti, che richiedessero flessibilità e inventiva. Qui c’è posto solo per chi sa uscire dalle righe e dagli schemi rigidi.

La sua testimonianza evangelicaFr. Giovanni ci fa ripassare diver-

se pagine della Bibbia, tra le più bel-le. La liturgia ha riportato un passo del profeta Isaia. “Il Signore mi ha inviato a portare il lieto annuncio ai miseri, a fascia-re le piaghe dei cuori spezzati, a consolare tutti gli afflitti”. Altrettanto va detto di fr. Giovanni, un missionario che si è fatto portatore di conforto e interpre-te d’un lieto annuncio. Ripercorrendo la sua attività, viene spontaneo citare le parole del profeta. Certo lui non ha detto parole da profeta, ma ha compiuto opere da profeta. Ha curato, consolato, allietato. Al suo attivo c’è un cumulo di servizi compiuti a favore di sofferenti. Non se ne va da noi lasciando il vuo-to: alla sua vita ha saputo dare un senso evangelico, ha saputo riempirla di cuo-re. La sua cordialità è il punto vincente del suo apostolato. Ricordo le parole di S. Giovanni Crisostomo: “Dio non ha bisogno di oggetti d’oro, ma di cuori d’oro (S. Giovanni Crisostomo, lez ted. 1/8, 33). Cosa vale adornare la tavola di Cri-sto con calici, quando lui stesso muore di fame? Sazia prima chi ha fame, poi orna pure l’altare con ciò che sopravanza”.

Soprattutto il Vangelo consente di capire l’attività di fr. Giovanni. Si è citato il passo di Luca, dove è riferito che Giovanni Battista, dal carcere, ha

inviato due dei suoi discepoli al Signo-re con la domanda: sei tu quello che deve venire? Gesù ha la risposta pronta: anda-te e riferite a Giovanni quanto avete visto. La sua risposta si richiama ai fatti, che parlano sufficientemente chiaro. Anche noi possiamo fare a fr. Giovanni la stessa domanda rivolta a Cristo chiedendogli: sei tu il cristiano che deve venire o dobbia-mo attendere la testimonianza d’un altro? Anche lui, come Cristo, può rispondere: guardate quello che ho compiuto nella mia vita. Molti malati hanno recuperato la salute sotto la mia assistenza e, se non sono guariti, sono stati però curati. In Fr. Giovanni riconosciamo il cristiano che appaga le nostre aspettative. Gandhi ha detto: sono molti i cristiani nel mondo, ma solo di tanto in tanto ne incontriamo uno vero.

Noi ringraziamo il Signore per aver-ne incontrato uno come Fr. Giovanni. A lui sono stati dati molti riconoscimen-ti dalle autorità di Formosa e anche in Italia ha ricevuto il titolo prestigioso di Cavaliere della Repubblica. Ma è da Dio che viene il riconoscimento più ambi-to: vieni benedetto dal padre mio, ricevi in eredità il regno preparato per te perché ero infermo e mi hai curato.

P. Mario Bizzotto

Fr. Giovanni Petrin con le mani,

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Nel 1973, dopo un anno e più di studio della lingua cinese, mi fu affida-to l’incarico pastorale e missionario a Taiwan accanto a Fr. Giovanni Petrin a Wan Shan, nel distaccamento del nostro Ospedale Santa Maria, allora centro per le cure della tubercolosi. È stato il mio primo impatto con la mis-sione e sono grato a Fr. Giovanni per avermi avviato, più con il suo esempio che con le parole, alla realtà del servizio camilliano tra i malati. Si è detto mol-to sul suo modo di esercitare il carisma camilliano; vorrei comunicarvi la mia esperienza, avendo trascorso anni assie-me a lui accanto ai malati, prima con i tubercolosi e poi con gli anziani.

Lo ricordo così. Dormiva poco di notte, anche a causa delle continue chiamate dal reparto: più di una volta l’ho visto girare per i reparti in ciabat-te e con il camice sopra il pigiama, per non svegliare gli ammalati e non farsi notare dal personale e assicurasi che non ci fossero delle brutte sorprese a causa d’ improvvise emottisi. Così, al mattino era consuetudine vederlo girare molto

presto per il viale antistante il sanatorio, con il rosario in mano. Alla santa messa cercava di far partecipare buona parte del personale e tanti ammalati attirati dal suo esempio: si prodigava nel portare più gente possibile in quella cappellina che, dopo una ristrutturazione offerta da una benefattrice e amica, Emiliana Calabria, la nipote del santo Giovanni Calabria, era diventata una tappa quasi obbligatoria. Fr. Giovanni non era mol-to a suo agio con la lettura della lingua cinese, ma la sua voce si faceva senti-re ugualmente forte quando si cantava ed i malati se la godevano nel seguirlo, anche se pur loro stessi poco consci delle parole che farfugliavano. Ma l’esempio li attirava.

Le tasche del suo camice mi ricor-davano il servizio che prestava San Camillo all’ospedale, con la sua cinghia cui erano appese la varie cose che lui valutava di primo aiuto per i malati. Nelle tasche di Fr. Giovanni si poteva trovare la pastiglia per dormire, per il mal di testa, una piccola ampolla con la solita medicina cinese contro ogni dolo-

medici, infermieri e collaboratori festeggiano Fratel Giovanni Petrin

Ministero della Salute

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re, qualche dolcetto di cui molti anziani andavano ghiotti e altri piccoli ragali che sapeva donare ai malati più soli. Io pensavo: veramente dove c’è amore, lì c’è fantasia e creatività. Fr. Giovanni sapeva stare accanto al malato in par-ticolare nei momenti più critici; la sua presenza era più rassicurante della visi-ta del dottore: quante volte l’ho visto abbracciare il malato per fargli capire che in quel momento era tutto per lui!

Quasi ogni giorno scendeva a Lotung per girare nei mercati e cercare quelle cose che i malati gli chiedeva-no. Fu durante una di queste prestazio-ni che una mamma gli si inginocchiò davanti, abbracciandolo, e in lacrime lo ringraziò per aver guarito suo figlio dal-la tubercolosi. Poi, per qualche giorno gli fu quasi impossibile ritornare in quel mercato, tanto si era diffusa la sua fama. Ricordo che qualcuno lo rapportava al loro Buddha misericordioso.

Fr. Giovanni seppe poi ben inserirsi anche nella cultura della gente; ama-va intrattenersi in particolare con gli anziani ed almeno due volte all’anno organizzava una visita al tempio per gli anziani ricoverati poiché, diceva, ‘Dio ha molte vie per salvare le loro anime, quindi se per tutta la vita sono stati dei buddhisti ferventi come si può non appagare il loro desiderio di andare ogni tanto al tempio! Per quelli che non potevano muoversi, portava lui stesso le offerte nel tempio e poi le riportava al malato, che se ne serviva con partico-lare devozione.

Se qualche ammalato veniva meno durante la notte, ci pensava lui a vestir-lo, con l’aiuto dell’infermiera di guardia e poi, a braccia, lo portava in camera mortuaria oppure lo accompagnava fino a casa, seguendo i vari riti e abitudini

locali per non far vedere che il parente era deceduto fuori casa.

A Fr. Giovanni stava molto a cuo-re la formazione etico religiosa del per-sonale. Mi aveva chiesto di fare una conferenzina al mese, sullo spirito del nostro Fondatore. Un buon numero di infermiere si era fatto battezzare, ma a tutte lui aveva dato un nome cristiano e le aveva abituate a chiamarsi con quel nome, per cui anche oggi, dopo tanti anni, si ricordano più con il nome del santo che non con quello cinese. Lui si scusava dicendo che faceva così per ricordare meglio, ma era anche un moti-vo per avvicinare di più le persone alla nostra fede.

Nostalgia di casa, dell’Italia? Non poca. Amava spesso parlare in partico-lare del suo carissimo fratello don Gui-do, della sorella Livia, e di sua mamma e non si lasciava scappare occasione per cantare la canzone: “Mamma, son tanto felice…”, anche se non aveva la voce di Beniamino Gigli.

Carissimo Fr. Giovanni, ci siamo visti per l’ultima volta quest’anno in luglio. È stato per me un gran piacere farmi accompagnare da 25 altri giovani Taiwanesi, alcuni dei quali di tua cono-scenza. In quella occasione ha rivisto i tuoi due occhi nuovamente vivaci come molti anni fa. Chi sa quali pensie-ri, o meglio, quali sogni stavano facen-do capolino in te! Ti sei messo anche a cantare una canzoncina Taiwanese con il gruppetto: ci hai commossi, ma non immaginavamo che quello sarebbe stato il tuo ultimo saluto.

Ora siamo certi che continuerai ad amare questa Taiwan con la stes-sa intensità di una volta. Ne abbiamo bisogno.

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06.03.2009

PADRE ALBERTO ROMAN(1941 - 2013) 0

Nasce il 15 dicembre1941 a Rossano Veneto (VI) da papà Raimondo e mamma Anastasia Lando. Entra in seminario il 3 ottobre 1953, in quel di Visconta a Besana Brianza (MI). Nel 1957 continua le scuole superiori a Marchirolo (VA). Entra in Noviziato a Verona, nella casa di San Giuliano, il 25 settembre 1960 e fa la prima Professione dei voti il 26 settembre 1961, a Mottinello di Rossano Veneto (VI). Dopo avere intrapreso gli studi di teologia, fa la Professione Perpetua 1’8 dicembre 1964 a Verona. È questo il periodo in cui il gruppo dei professi è trasferito dalla tra-dizionale sede di Mottinello a Verona, ospite per un anno nella struttura diocesana di San Massimo e poi a San Giuliano. Il 9 novembre 1968, Alberto è ordinato Dia-cono all’Ospedale civile di Verona Borgo Trento da Mons. Maffeo Ducoli, Vescovo ausiliario di Verona. Il 22 giugno 1969 è ordinato Presbitero, nel medesimo luogo, da Mons. Giuseppe Carraro, vescovo di Verona.

Dopo alcuni mesi di ministero presso l’Ospedale Ca’ Foncello di Treviso, nel novembre 1969 P. Alberto parte per Whitinsville (Massachussets, USA) per lo studio della lingua inglese e per frequentare il Clinical Pastoral Education (CPE). Nel settembre del 1971 rientra in Italia: da metà ottobre viene assegnato alla comu-nità di Mottinello e dal l gennaio 1972 svolge il ministero di cappellano presso l’Ospedale di Cittadella (PD). Il 23 maggio 1973 si trasferisce all’Ospedale civile di Cremona. Il 10 marzo 1975 parte per la nascitura fondazione filippina in Manila, dedicandosi per il primo semestre allo studio del tagallo, lingua locale. Nel marzo 1976 è nominato parroco della nuova parrocchia di ‘’Nostra Signora de la Pas”. Nel novembre 1982 diventa cappellano al National Ortopedic Hospital della metro-poli. Dal 2 giugno 1983 è nominato consigliere della vice-Provincia dell’Estremo Oriente. Nel giugno 1991 è nominato superiore nella casa del Noviziato a Baguio. Nell’agosto 1995 è nuovamente cappellano, stavolta all’East Avenue Medical Cen-ter, nel quartiere Queson City di Manila. Intanto si evidenziano i primi segni di un Parkinson, che lo obbligano al rientro nel luglio 1996. Dal 29 novembre 1996 è assegnato alla comunità veronese di San Giuliano per la cura pastorale della chiesa

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di S. Giuliano. Per una dozzina di anni riesce a tenere fede all’impegno ministeriale, alternandolo alle necessarie e periodiche cure, in particolare con periodi prolungati di riabilitazione a Venezia Alberoni. Nell’estate 2007 gli viene diagnosticato un tumore all’addome, che lo obbliga a vari cicli chemioterapici che limitano ulte-riormente la sua attività. Muore, per un inaspettato cedimento cardiaco, la serata del 24 ottobre 2013.

Alberto, durante gli studi teologici, ha respirato il passaggio conciliare con le nuove prospettive per la Chiesa nel mondo. Il desiderio di raccoglierne le sfide l’ha portato prima a formarsi e poi a intraprendere la strada della missione alla quale aspirava. Con ragione, va considerato il Fondatore della missione camilliana nelle Isole Filippine, ivi appositamente inviato per una richiesta da parte dei camilliani di Taiwan che vi sostavano per periodi di formazione. Amato dalla gente locale e stimato dal Card. Sin, ha avviato nel quartiere poverissimo di Makati una parrocchia nuova alla quale, con l’aiuto dei collaboratori, ha potuto dare una caratterizzazione camilliana e anche un edificio del culto.

P. Alberto raccoglieva nella sua personalità la fede tradizionale e il nuovo: i suoi capelli da hippy e la sua vena provocatoria in realtà si mescolavano a una religiosità popolare, con una convinta devozione a Maria Vergine e al Gesù Misericordioso; era fedele all’appuntamento del rosario e alle novene. Era coriaceo nelle cose che vole-va, buono d’animo, buon confidente, dalla risata sonora, dalla voce squillante e alta nel canto. Il suo corpo ricurvo a spingere il girello e l’uso del metro posto davanti al piede per innescare lo stimolo neurologico alle gambe – unitamente alle immancabili cadute! – non lo facevano passare inosservato. La sua malattia lunga e invalidante lo ha confrontato con una non prevista missione, quella del guaritore ferito, che gli ha dato l’opportunità di una testimonianza che andava al di là delle prediche ben preparate che faceva nella messa prefestiva. La sua croce l’ha vissuta davvero come croce “cristiana” e non come pretesto per lagnarsi o piedistallo per fare del vittimi-smo. L’ha assunta e portata con il Cristo del Calvario.

La salma è tumulata nel locale Cimitero di Rossano Veneto (VI).

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Omelia in memoria di P. Roman Alberto

Carissimi tutti,ci troviamo qui in chiesa, raccolti

in preghiera, per dare il saluto cristia-no al nostro fratello P. Alberto che ha lasciato questa terra, repentinamente, per precederci nella Patria Eterna.

Noi ci troviamo come comunità cristiana per celebrare la nostra comu-ne fede nella vita eterna, rinnovando il mistero pasquale che oggi si compie in P. Alberto.

Nella prima lettura, l’apostolo Pao-lo parte da una professione di fede, che suppone condivisa dalla comunità nella sua formulazione essenziale: “Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti” (v. 20).

In Gesù è iniziato il raccolto che Dio vuole fare dai tempi ultimi, ma quel raccolto non sarà completo finché anche noi non entreremo a far parte del raccolto di Dio, finché Dio non porterà a casa anche noi, con Gesù suo Figlio.

Tutta la riflessione di Paolo vuol darci questa certezza: mostrare come in ciò che Dio ha fatto nella primizia, Gesù, sia iscritto anche ciò che Dio vuol fare di noi.

Il primo spunto viene dalla conside-razione della solidarietà che lega tutti gli uomini: se esiste solidarietà nel male (Adamo), tanto più l’azione vivificante di Dio che ha risuscitato Gesù abbrac-cerà in unità tutta la storia degli uomi-ni. Già adesso i credenti sono quelli di Cristo: l’appartenenza a lui è il segno che il raccolto di Dio è già cominciato anche in noi… poi sarà la fine… non da intendersi come fine del mondo, ma nel senso di compimento!

Avendo cioè avuto parte fin d’ora ai beni della salvezza, noi ne attendiamo il compimento.

Con la vittoria sulla morte, apparirà in pienezza che cosa Dio voleva e vuo-le raggiungere: essere “tutto in tutti”, mediante l’opera di Cristo.

Questa è la vocazione dell’uomo: aprirsi a Dio per essere pieno di Lui!

La morte non può avere l’ultima parola, perché l’uomo deve essere reso partecipe della vita di Dio.

C’è una parola che ricorre inevita-bilmente nel momento della morte di un proprio caro: “addio”.

È questa un’espressione gravida di sentimenti e di emozioni, ma essa è anche ricca di significati e prospettive.Innanzitutto, “addio” è il saluto posto come il sigillo sulla bara che segna la certezza di una lacerazione degli affetti, di un distacco dai contatti. L’addio ha il terribile, amaro sapore della “fine” che taglia la trama delle relazioni intessute.

Ma per il cristiano “addio” assume la pregnanza di una indicazione di percor-

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so. Ogni uomo è pensato fin dall’origine come tendente a Dio, come attratto alla sua origine e al suo fine ultimo e chiamato per vocazione a camminare, giorno dopo giorno, in quella direzione. Ed è in questo senso che risulta evidente e significativa la vita terrena di P. Alberto Roman.

Una vita che ha presentato vari aspetti, vari “compimenti”, tenendo sempre un unico cammino verso un’u-nica direzione: Dio in Cristo.

Il primo addio-inizio della vita di P. Alberto è avvenuto quando ha lascia-to la sua famiglia per seguire l’ideale camilliano, che gli era rimasto impresso guardando le croci rosse sul petto di quei sacerdoti che incontrava nelle strade della sua Mottinello o di quei giovani studenti di teologia di Villa Comello che vedeva allegri ed entusiasti.

Negli anni della formazione ha approfondito progressivamente, inte-riorizzandola, la sua vocazione alla vita religiosa camilliana, cogliendo il signifi-cato della sequela di Cristo e la validità del carisma camilliano.

È giunto al sacerdozio a Verona il 22 giugno 1969, in pieno rinnovamen-to conciliare e nel momento in cui tutti gli istituti religiosi studiavano un vali-do adattamento alle mutate condizioni dei tempi. I giovani sacerdoti e tutti i religiosi in genere si sentivano coin-volti nella vita della Chiesa, nelle sue iniziative e negli scopi che si proponeva di raggiungere nei vari campi: biblico, liturgico, pastorale, sociale, ecumenico, missionario.

E P. Alberto si impegna all’inizio del suo sacerdozio nel campo preferito: il servizio pastorale ai malati nell’ospe-dale. In questa veste lo troviamo a Cit-tadella (PD) e Cremona.

Ma comincia a svilupparsi e a pren-dere quota in lui “l’idea missionaria”, già covata interiormente negli anni della formazione e in sintonia con le esigenze e il desiderio di espansione missionaria della comunità camilliana.

È a questo punto che si propone il secondo “addio” di P. Alberto.

All’invito dei superiori risponde con la consueta generosità, avvalendosi del-la sua profonda spiritualità e del forte desiderio di servire i poveri (e i più biso-gnosi) e accetta di far parte del gruppo-fondatore della nascitura fondazione filippina di Manila (con P. Ivo Anselmi e P. Ernesto Nidini). Sono anni di note-vole impegno missionario, di evangeliz-zazione, di cura pastorale, di formazione dei giovani e di opere sociali.

P. Alberto esprime per più di vent’an-ni di missione il meglio di se stesso come parroco (Parrocchia di Nostra Signora della Pace – e quella di Makati) e come cappellano di ospedale.

Inserito completamente nelle nuo-ve realtà, si impegna alacremente nel ministero, calandosi interamente nella religiosità popolare, suscitando entusia-smo pastorale e creando iniziative mol-teplici in collaborazione con giovani e laici, privilegiando sempre le attività a favore dei poveri e dei malati.

Era amato e rispettato da tutti, e da vero leader naturale diventava punto di riferimento per adulti, giovani e bambi-ni. La sua semplicità e il suo stile libero e aperto permettevano ogni tipo di comu-nicazione con la gente: “era straordina-rio nell’ordinario”.

Ha vissuto la sua esperienza missio-naria in modo normale e straordina-rio per la fede, la carità, la preghiera, la donazione totale alla sua gente e ai

padre albeRTo roman

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malati, la generosità, la gioia di vivere e l’entusiasmo del suo sacerdozio e della sua vocazione camilliana.

Nell’agosto del 1995, mentre è cap-pellano del Centro Medico di Queson City, quartiere di Manila, si evidenzia-no i primi segni del Morbo di Parkinson che lo obbligano al rientro in Italia nel luglio del 1996. È un altro improvviso e toccante “addio”…

È l’inizio del dramma personale di un religioso, sacerdote missionario ancora giovane che, nel culmine del suo ministero e apostolato, deve fermarsi, riordinare prospettive e programmi, cambiare quasi totalmente uno stile di vita acquisito e soprattutto lasciare quella terra filippina, che ormai affetti-vamente riteneva la sua patria adottiva.

Ma non c’è voluto tanto tempo per-ché Alberto comprendesse che Dio gli stava preparando un altro progetto di vita, un altro piano apostolico, molto più difficile, ma più in linea con le esi-genze evangeliche, che lo avvicinava sempre più alla Croce e che lo tirava sempre più vicino a Lui, in una con-formazione quasi totale: la malattia, la sofferenza, il dolore…

P. Alberto ha capito bene tutto que-sto: ha rinnovato la sua fedeltà a Dio, ha cercato una maggiore identificazione con Cristo, ha voluto, come camilliano,

essere più vicino agli infermi provando lui stesso ad essere malato e bisognoso. E ha vissuto questa nuova esperienza con il solito stile e gli atteggiamenti di prima: col sorriso sulle labbra, con man-suetudine, con un impegno di servizio che superava le progressive menoma-zioni, dedicandosi all’apostolato possi-bile, facendo diventare questa chiesa il suo Tempio, celebrando i sacramenti, dispensando la sua parola e i suoi con-sigli a tutti, incoraggiando e dando speranza a chi viveva in situazione di dubbio e difficoltà.

In questo modo ha attirato su di sé l’attenzione e le simpatie dei confratel-li, il rispetto e la venerazione da parte di tante persone che frequentavano la chiesa, l’attenzione e l’assistenza da parte di tutto il personale della casa di riposo, contatti continui e amicizie come espres-sione di bontà e compartecipazione. Anche la malattia e la sofferenza faceva-no il loro corso scalfendo poco a poco il suo fisico, seppure roccioso e resistente.

L’avvento di complicanze nella salu-te limitavano sempre di più i suoi movi-menti ed era ormai ridotto ad una situa-zione di degenza e di stato terminale.

Eppure, in questo martirio quoti-diano mostrava sempre fede e serenità, interesse per la comunità, per la casa di riposo e per tutte le persone che lo avvicinavano. Appariva quasi “spaval-do” nei confronti della malattia e pie-namente identificato con il dolore, non perdeva il buon umore e tutto questo fino a giovedì sera… quando il Signo-re lo ha chiamato in fretta per l’ultimo addio: da questa vita è passato al Cielo.

“Ora Alberto non sei più vicino al Cristo sofferente, sei con il Cristo Risorto, sei in Dio e stai godendo la Sua Gloria”.

P. Alberto Roma, circondato da fedeli ed amici,

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Cari parenti di P. Alberto e cari conoscenti!

Con la sua scomparsa p. Alberto chiude il suo travagliato viaggio terreno e apre il mondo dei ricordi, attraverso i quali vogliamo ricuperare qualche line-amento del suo profilo spirituale. Dietro di sé lascia un’eredità, che non si espri-me in termini di beni materiali, ma in termini di esempi.

Di lui ricordiamo in particolare l’in-segnamento edificante che ci ha impar-tito durante la sua lunga malattia. Di lui parlano anche i confratelli che hanno condiviso la sua attività missionaria dal 1969 al 1996, quasi 30 anni, gli anni della piena salute, i più fecondi di apo-stolato. Missionario però ha continuato ad esserlo anche in patria, durante una lunga malattia che lo ha messo a dura prova. Se in terra di missione si è con-traddistinto per il suo buon esempio di zelo, si è ugualmente contraddistinto, e forse ancora di più, per l’esempio del-la sua serenità nel tempo difficile della sofferenza. Viene spontaneo il richiamo alla figura sofferente di Giobbe, uomo sul quale si è abbattuta una serie di sventure, privandolo di ogni appoggio terreno, non però della fede. Così è sta-to per p. Alberto, la cui fede non è mai venuta meno. Del personaggio biblico poteva ripetere le parola della speranza: “so che il mio Redentore vive e che da ulti-mo si ergerà sulla polvere (del mio sepol-cro) [...] e io lo vedrò [...] i miei occhi lo contempleranno” (Giob 19, 25.27).

L’immaginario popolare ricorda Giobbe non solo per la sua sofferenza ma anche per la sua pazienza. È questo il punto forza che maggiormente spic-ca in p. Alberto. Non ha mai avuto un

sussulto di ribellione, non si è mai posto la domanda: perché? Un pensatore ha scritto: il perché tradisce una mancanza di amore. Chi ama non si chiede mai per-ché, non va alla ricerca di capri espiato-ri. Accetta la mala sorte amando. È que-sto l’insegnamento più edificante che ci ha lasciato p. Alberto. Se chi ama non rivendica giustificazioni del proprio amaro destino, a maggior ragione non lo fa chi crede con tutto il cuore.

Proprio perché aiutato dalla fede in Dio, ha saputo reagire alle sventu-re in modo composto, senza perdere il suo consueto buon umore. Aveva un carattere ottimista fino all’eccesso. Non si lasciava assalire da domande ango-scianti: cosa sarà di me? Che cosa mi aspetta ancora? Come andrà a finire? La sua vita era fissa al momento presente: vivo e sono contento. Ad ogni giorno basta la sua pena; perché poi aggiungere quella di domani? Il suo stato d’animo ci rimanda ad una pagina impegnativa del Vangelo: al discorso della montagna. “Non affannatevi di quello che mangere-te e berrete e neanche del vostro corpo di quello che vestirete [...] Non affannatevi per il domani, perché il domani avrà le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena” (Mt 6,25.34).

La figura di p. Alberto ci colloca in uno dei momenti centrali del Vangelo: nel contesto delle beatitudini, che lui ha vissute senza pensarci. Non gli era congeniale la fatica della riflessione che a volte con i suoi interrogativi, dubbi, oscillazioni pesa come una tortura, né amava il gioco dei sottili ragionamen-ti e tanto meno quello degli artifici. P. Alberto aveva un altro modo di acco-gliere la vita: la semplicità e la spon-

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taneità, l’accettazione rassegnata di quanto accadeva senza rimpianti del tempo passato nel vigore fisico, senza impennate irascibili o scoraggiamenti.

Se tra i tanti ricordi ve n’è uno che prevale, questo è il suo modo di ridere rilassato e aperto. Bastava entrare nella sua camera, luogo di sofferenze, e fare una battuta per provocare una risata sonora. P. Alberto, anche quando era molto malato, non smentiva la sua indo-le gioviale. Perfino quando arrivavano i risultati degli esami di laboratorio con valutazioni piuttosto pesanti, sapeva far buon viso a cattivo gioco, non si agita-va, li faceva leggere a coloro che arriva-vano nella sua camera e li commentava con molta disinvoltura, quasi non lo riguardassero. Non si lasciava prende-re da presentimenti cupi, non restava niente di ombroso dentro di lui, quello che sentiva lo buttava fuori, per cui non c’erano segreti che stagnassero nell’a-nima provocando ansie o apprensioni. Quello che aveva dentro, lo comuni-cava apertamente, quello che pensava, diceva e quello che aveva, dava. Non

aveva niente da nascondere, niente che non fosse messo a conoscenza degli altri e non fosse condiviso.

La sincerità e l’immediatezza delle sue reazioni richiamano quella del bam-bino, di cui si sa, dice sempre il vero e lo dice mettendo spesso in imbarazzo l’a-dulto scaltro che vive di piccole masche-re o bugie. Non c’era in lui il calcolo: devo dire o non devo dire? Mi convie-ne o non mi conviene? No. La verità per lui non ammetteva sotterfugi, non accettava precauzioni, particolari riguar-di o strategie furbe. Per associazione dei contrasti si può dire che niente gli era più estraneo quanto il calcolo e la scal-trezza. Incarnava quel tipo di uomo che Dostoewskij ha descritto nel suo roman-zo dal titolo provocatorio L’idiota, idiota ingenuo perché andava diritto alle cose in qualunque situazione si trovasse nei salotti, nelle strade, negli incontri di alto livello ed era incurante della moda ege-mone della gente dabbene, succube di luoghi comuni e di false sovrastrutture. Ma senza scomodare lo scrittore russo, possiamo ricordare una figura del Van-gelo. Natanaele, definito dal Signore “un vero Israelita in cui non c’è falsità” (Giov 1,48), dunque una persona trasparente che porta sul volto la limpidezza dell’a-nima.

Forse è proprio per questo che p. Alberto attirava a sé e aveva molte persone che gli volevano bene, gli era-no sempre vicine, prestandogli aiuto e compagnia, proprio a lui, per niente manieroso. Sapeva rendersi amabile, aveva conservato l’anima popolare della gente che percepisce per intuito quando un individuo rappresenta quell’ideale di uomo sincero e senza pose che ha entusiasmato il Messia. La solidarietà,

Manila - P. Alberto con P. Virgilio Grandi, P. Mario Didonè e giovani malati.

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che p. Alberto ha creato intorno a sé gli era offerta, senza essere da lui cercata; se non era cercata, era però gradita, lo sosteneva e aiutava non poco. Conser-vava sempre il suo buon umore e il suo modo di fare uniforme, sia che avesse a che fare con le più umili persone sia con persone di riguardo. Restava sem-pre quello che era anche nell’incontro con autorità che di solito esigono un comportamento serio. Così è stato con il Vescovo di Padova Mons. Bordignon che, in visita all’ospedale di Cittadella, si è rivolto a P. Alberto con benevolo ammonimento: come mai non tagli questa lunga capigliatura? E p. Alberto, cosa che nessuno dei presenti si sarebbe aspetta-to, prendendogli la barba: e come mai lei non si taglia la barba altrettanto lunga? Anche il Vescovo, noto per la sua auste-ra presenza, ha riso cordialmente.

Il Vangelo ammonisce: se non divente-rete come bambini, non entrerete a far parte della comunità cristiana. È chiaro il pensie-ro di Cristo. Non invita a diventare pue-rili, ma persone libere da ogni intralcio, da affettazioni, pose, maschere, persone di fiducia, dal cuore semplice, umili, sen-za avanzare pretese, generose e altruiste. P. Alberto ci ha lasciato una lezione di modestia e gioia in eredità, per questo gli siamo grati, come d’altra parte anche lui è certamente grato a chi lo ha accompa-gnato nella sua vita, provata dal dolore e passata per la via del Calvario, eppure rimasto con un atteggiamento amabile e contento. Tra questi meritano un ricordo ricordo il fr. Antonio Zanetti, il p. Bruno Nespoli superiore e, tra le altre persone laiche, in particolare la signora Patrizia che lo ha assistito fino a pochi minuti prima dell’imprevedibile fine.

P. Mario Bizzotto

Ricordi di un Confratello missionario

Caro P. Alberto,ti avevo incontrato qualche mese

fa a San Giuliano, e tu, nonostante le tue sofferenze, mi avevi accolto, come al solito, con serenità e con un since-ro sorriso. Ora che sei stato chiamato a lasciare questa vita per entrare nel Regno di Dio, vorrei ricordare, in modo particolare, quel periodo di tempo che abbiamo trascorso assieme nelle Filip-pine, nella Parrocchia “Our Lady of la Paz” di Makati-Metromanila.

Quando io sono arrivato dall’Italia tu eri già Parroco da due anni, ed eri già famoso nel Barrio “La Paz”. Quando camminavi lungo la strada eri salutato e riverito da tutti.

Dalla piccola Chiesetta, una baracca con il tetto di lamiera, mi accompagna-vi a visitare gli “slums”, questi quartie-ri abusivi, dove la povera gente aveva costruito la loro casa lungo i fossati, lun-go la ferrovia, o sui marciapiedi. In questi luoghi regnavano sovrane solo la miseria, la sporcizia, la mancanza di acqua e di servizi igienici; le zanzare e i topi si com-portavano da padroni assoluti.

Una volta avevi scritto a tua mam-ma Anastasia che le galline del suo pollaio erano trattate molto meglio di questi tuoi parrocchiani!

E tu, con il tuo volto sempre sereno e sorridente, portavi i conforti materiali e spirituali a questa povera gente, che ti accoglieva sempre con gioia.

Una volta sono venuto con te a visi-tare i bambini della scuola elementare; appena ti hanno riconosciuto sono usci-ti tutti dalle aule scolastiche per salutar-ti, e non si decidevano più a ritornare

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ai loro banchi, nonostante i rimproveri delle maestre!

Ricordo volentieri il giorno in cui, dopo tanti sacrifici, sei riuscito ad invi-tare il Cardinale Aime Sin, Arcivesco-vo di Manila, per consacrare la nuova Chiesa Parrocchiale.

Il Cardinale, durante l’Omelia, si è congratulato con te e ha voluto farti i complimenti. Prendendo spunto dalla tua lunga capigliatura, dal tuo volto sempre amabile e sorridente, dalla Cro-ce Rossa della veste, ti ha presentato ai fedeli dicendo: in ogni Parrocchia ho messo come parroco un sacerdote ordi-nario, ma qui da voi ho voluto nomina-

re come Parroco un sacerdote speciale, una copia quasi perfetta di Gesù Cristo.

Quando è arrivato il mio turno per diventare parroco, mi hai dato le conse-gne con queste semplici parole: “ricor-dati di avere sempre tanta pazienza, di dare sempre buon esempio e di amare con tutto il cuore questo popolo di Dio che ti è stato affidato”.

Caro Alberto, anche tu come San Paolo, hai combattuto la buona batta-glia, hai terminato la corsa e hai conser-vato la Fede. Un sincero grazie a te, per il tuo buon esempio e un grazie a Dio per il dono della tua vita.

P. Mario Didonè

P. Alberto Roman: ogni sua visita ai malati

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P. Alberto: parroco e amico dei malati

Ho percorso un tratto di ‘strada missionaria’ con P. Alberto e, tra i mil-le ricordi della sua giovialità, della sua generosità e del suo impegno camillia-no, ne voglio sottolineare due.

Nel marzo del 1976 è stato nomi-nato parroco della nuova Parrocchia di “Nostra Signora della pace”.

P. Alberto ha vissuto per parecchi mesi nella chiesetta con annesso un piccolo ufficio, una piccola camera da letto ancora più piccola ed un bagno, quasi indecente. In questo ambien-te ha iniziato la sua attività pastorale della nuova parrocchia, che compren-deva anche altre due chiese: una situa-ta all’interno di una scuola cattolica costruita su poprietà della diocesi di Manila, e l’altra in un bario popolato da

gente poverissima. Era l’ultima parroc-chia della grande Arcidiocesi di Manila e la più piccola: eppure contava più di 100.000 fedeli.

P. Alberto fu parroco instancabile e fantasioso.

La chiesa parrocchiale era assai pic-cola e collocata in una zona bassa; così, ogni volta che pioveva le strade si tra-sformavano in fiumi che, nel tempo dei tifoni, diventavano torrenti. Ogni volta che passava qualche camion, le onde entravano in chiesa.

Ricordo quando il famoso tifone Didang ha scaricato tanta acqua da far paura e far allarmare tutta la gente della

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Manila:

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zona, tranne i bambini che godevano nel tuffarsi nelle acque profonde delle strade. P. Alberto è arrivato trafelato in Comunità a chiedere aiuto per alzare l’organo della chiesa sopra due banchi e salvarlo dall’acqua; io gli risposi chie-dendo aiuto per alzare il frigorifero e salvare la dispensa che era in pericolo. Ci capimmo e ci aiutammo reciproca-mente.

Altra cosa che merita di essere ricordata è l’avvio di un nuovo grup-po di “Amici degli ammalati”, iniziato nella chiesa dove io offrivo il servizio e la cui attività si è rapidamente estesa a tutta la parrocchia.Ogni mese si orga-nizzavano delle celebrazioni speciali per gli ammalati, rendendo così tutta la parrocchia una realtà camilliana. All’inaugurazione della nuova chiesa parrocchiale, su richiesta della gente, è stato aggiunto il nome di San Camil-lo come compatrono della parrocchia. Cardinal Sin era entusiasta di avere membri della comunità camilliana, che lentamente si era consolidata nelle Filippine per la pastorale sanitaria della diocesi, e aveva una simpatia tutta spe-ciale per P. Alberto.

P. Alberto va ricordato per la sua fedeltà al senso del dovere. Era sempre puntuale nel suo ufficio, anche subito dopo il pranzo, sempre disponibile e pronto ad accogliere, anche con qual-che risata e scherzo, sia con le persone anziane e sole sia con i bambini.

Era attorniato dalle sue “ammiratri-ci”: donne, fedeli collaboratrici in tutti i progetti della parrocchia. Erano loro a portargli i suoi dolcetti favoriti, alcu-ni regali di vestiario, senza escludere le offerte raccolte per la costruzione della chiesa.

Quando nel 1982 venne assegnato come cappellano al National Ortopedic Hospital, c’era una fila di gente che dal-la parrocchia andava a trovarlo: questa dimostrazione di affetto non gli venne mai a mancare.

Fu proprio in questo ospedale che p. Alberto ha offerto al massimo il suo amore per gli ammalati. È stato un esempio per i nostri studenti in forma-zione, che andavano a fare il loro mini-stero proprio in quell’ospedale. Ancora oggi, quando ci si presenta come Camil-liani, subito chi lo ha conosciuto chiede immediatamente del P. Alberto.

Ha ricevuto la stessa accoglienza e lo stesso affetto quando è andato a pre-stare il suo ministero all’East Avenue Medical Center. Purtroppo, nel 1996 è dovuto rientrare in Italia, ma il suo cuore è rimasto nelle Filippine.

Quando andavo a trovarlo a San Giuliano, i suoi discorsi erano ancora legati alle Filippine.

Uomo di preghiera e di fedeltà, sem-pre puntuale nelle celebrazioni della santa messa, rosario ed altre pratiche religiose che viveva con diligenza ed impegno.

Amico di tante persone che ha aiu-tato in diverse maniere, P. Alberto ha offerto una bella testimonianza dell’a-more di Dio verso tutti, in particolare gli ultimi e i sofferenti.

Molti lo ricorderanno e lo porte-ranno nel cuore ed innalzeranno il loro grazie a Dio per aver avuto la grazia di camminare per una parte della loro vita con il nostro caro P. Alberto Roman.

Un grazie, dal profondo del cuore, lo innalzo anch’io.

P. Anselmo Zambotti

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Per molti anni ha volato nel cielo d’oriente, negli ultimi si è ‘messo in cattedra’

Ognuno colora di sentimenti i suoi ricordi e li imprime indelebilmente nella memoria.

A me piace ricordare P. Alberto e rivederlo così.

-to e contestatore, insofferente verso i tradizionali e un pò rigidi schemi for-mativi, ma sempre gioioso e generoso nell’impegno per ogni attività creativa, specie se aperta ai malati e ai poveri.

mondo della pastorale sanitaria ma le regole gli parevano tanto... strette e gli orizzonti senza ... infinito!

dove sorge il sole, è diventata la meta del suo essere ‘missionario camilliano’. Per anni eccolo in intensa attività di annuncio, di servizio e di attenzione ai malati più sfortunati. Dagli Stati Uniti a Taiwan, fino alle Isole Filippine, sem-pre in volo. Manila diventerà la sua seconda patria. Nella nuova Parrocchia Camilliana, nelle Comunità cristiane della zona, nelle strutture sanitarie del territorio, negli Slaam più poveri e dimenticati da tutti, P. Alberto passa-va per portare la sua gioiosa amicizia, il messagio della Speranza cristiana, testi-moniato con il Carisma di San Camil-lo. Quanti Filippini lo hanno stimato, amato ed ora lo rimpiangono!

della sua vita, vissuti a Verona-San Giu-liano, che P. Alberto ha smesso di vola-

re come missionario e si è seduto sulla Cattedra di Gesù, la Croce. Anche su quella misteriosa e difficile cattedra ha voluto seguire il suo Signore e Maestro, Gesù. Anche lui, come molti compagi di formazione, pensano ai lontani anni della filosofia e della teologia; ricordano gli insegnati di lettere, di filosofia, di teologia: palestre che li hanno prepara-ti alla vita pastrorale camilliana. Rara-mente, ma era il tempo della giovinez-za, hanno pensato che la cattedra più vera e più impegnativa poteva essere un’altra: la malattia!

-tedra è divetato un ‘buon professore’. Fin dal lontano 1996 un devastante e progressivo morbo di Parkinson lo riduceva nella sua libertà di lavoro e di vita pastorale. Un subdolo e deva-stante tumore lo ha poi, costretto ad numerosi interventi chirurgici e ad una chemioterapia devastante. Confratelli, infermieri e amici possono assicurare che sul volto di P. Alberto, anche dopo le lunghe sedute chemioterapiche, spuntava sempre il sorriso, il suo grazie per chi gli era stato accanto, la gioia e la forza di vivere contro ogni sfida della malattia.

Il suo carattere un pò spregiudicato ma forte e generoso, soprattutto la sua grande fede e l’abbandono alla volontà del Signore hanno fatto sì che potesse donare a tutti il suo sorriso accativante.

La testimonianza più bella la pos-siamo cogliere da un suo articolo/intervista che ho avuto modo di far-

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gli nel tempo difficile del suo calvario e di pubblicare su Vita Nostra: “oltre all’attenzione dei Confratelli e di tante persone amiche mi sostiene una luce e una speranza: nei miei gioiosi anni di sacerdozio ho volato da un continern-te all’altro ed ora mi muovo ricurvo, incerto e mi muovo a piccoli passi; il mio ideale missionario mi ha portato a contatto con poveri e malati di ogni colore, ora quattro pareti racchiudono i miei sogni, ma sono sicuro che il Signo-re vede e trasformerà anche questa mia schiavitù nella malattia e nel limite in realizzazione del suo Regno di Salvezza per tutti i popoli!”.

P. Carlo Vanzo

P. Alberto in un’immagine emblematica.Con questo sorriso, semplicità

e generosità abbaraccia un bambino malato. Con lo stesso sorriso, semplicità e generosità

diventerà ‘amico di tutti i suoi malati’.

PREGHIAMO PER I NOSTRI MORTI

Religiosi defunti di altre Province

Suor Celina de Oliveira Castro Figlie di San Camillo (Brasile)Suor Teodora Rebelli Ministre degli Infermi (Lucca)

Nostri Famigliari

Sig.a Ada Rossetto sorella di P. NazarenoSig. Antonio Colombo e Sig. Silvia fratello di P. Guseppe ColomboSig.a Maria sorella di P. Mario Griso

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Attilio Giordani

Il giorno 11 ottobre, il Santo Padre Francesco ha autorizzato la Congrega-zione delle Cause dei Santi a promul-gare il Decreto riguardante le virtù eroiche del Servo di Dio Attilio Lucia-no Giordani, laico e padre di famiglia, Cooperatore della Società Salesiana di San Giovanni Bosco.

Attilio Giordani è il cognato dei nostri religiosi P. Alberto, P. Giorgio e P. Guido Davanzo.

Attilio Giordani nasce a Milano il 3 febbraio 1913. Vicino a casa ha scoper-to l’oratorio di Sant’Agostino, tenuto dai Salesiani, che gli hanno fatto cono-scere e amare don Bosco.

L’oratorio sarà sempre la passione di Attilio. Per i giovani, Attilio organizza passeggiate, compone canti e scenette, inventa lotterie di beneficenza, cacce al tesoro parrocchiali e olimpiadi, sen-za mai dimenticare il centro della gioia cristiana: l’amore di Dio e del prossimo.

Attilio ama Dio con tutto il cuore e trova nella partecipazione ai sacramen-ti, nella preghiera, nell’affidarsi a una guida spirituale le risorse per la vita di grazia.

Durante la guerra, Attilio inizia il suo fidanzamento con Noemi Davanzo, che ha conosciuto all’oratorio e come lui è impegnata nel servizio educativo tra i fanciulli.

Nel 1944 può venire a Milano per sposarsi. Noemi, con la sua dolcezza, lo accompagnerà e sosterrà per tutta la vita. In famiglia, Attilio è marito e padre

presente, ricco di grande fede e serenità, in una voluta austerità e povertà evan-gelica a vantaggio dei più bisognosi.

Lavoro, educazione e festa. Nel dopoguerra Attilio è impiegato alla Pirelli. Lavora con grande senso del dovere e della giustizia, diffonde buo-numore e spirito di solidarietà.

Riprende a pieno ritmo la sua atti-vità di catechista e impareggiabile ani-matore dell’oratorio. Per coinvolgere i ragazzi nell’impegno di carità dà vita alla “Crociata della bontà”, un gran-de gioco, ricco di fantasia, che educa al dono di sé nella libertà e nella con-cretezza: i ragazzi diventano “cavalieri” impegnati a realizzare l’impresa di aiu-tare chi è nella necessità. La “Crociata” sarà imitata in tutta Italia.

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Ogni giorno Attilio è fedele alla meditazione, all’Eucaristia, al rosario.

La sua salute è duramente provata da un infarto, che lo costringe ad una lun-ghissima convalescenza, ma non frena il suo slancio missionario.

A 59 anni potrebbe godersi una meritata pensione. Ma quando i tre figli vanno in Brasile per un periodo di volontariato missionario con l’Ope-razione Mato Grosso, Attilio decide si raggiungerli con Noemi: vuole vivere totalmente la sua paternità e condivi-dere con i figli il progetto di impegnar-si per gli altri dentro nuovi orizzonti. Anche in Brasile continua a essere catechista e animatore tra i ragazzi. Il 18

dicembre 1972, a Campo Grande, nel corso di una riunione, sta parlando con ardore del dovere di dare la vita per gli altri, quando improvvisamente si sente venir meno.

«Continua tu». Attilio fa appena in tempo a dire al figlio: «Piergiorgio, continua tu...», e muore stroncato da un infarto.

La sua salma, trasportata in Italia, riposa ora nella “sua” basilica di Sant’A-gostino a Milano.

Nell’omelia per le esequie il parroco disse: «A ciascuno di noi Attilio ripete la frase che, morendo, ha detto al figlio: “Continua tu”».

Da quest’anno il nostro Bollettino sarà visibile ON-LINE!

Vi verrà comunicato, tramite un e-mail, il link dove potrete visionare, stampare (l’intero notiziario o anche solo la pagina che vi interessa) e sca-ricare in formato PDF il Bollettino “Come Tralci”.

Collegandovi alla piattaforma tramite link vi apparirà il notiziario che sfo-

glierete proprio come fosse una rivista, gli strumenti sono semplici e ve li

mostriamo in questa schermata, cerchiando i due principali:

stampa scaricarePDF

Un Messaggio di Tenerezza per chi soffre, sulle orme di

San Camillo de Lellis!

Buon Natale e Sereno Anno Nuovo

Un Messaggio di Speranza per i Poveri, sulle orme di

Papa Francesco!

Una cartolina dall’Arena di VeronaQuest’anno, nella splendida cornice di Piazza Brà e dell’Arena, verrà presentata la 30a edizione

della Mostra dei Presepi da tutto il mondo. Quest edizione sarà dedicata a Papa Francesco

perché porta il nome del Poverello di Assisi, inventore del presepio.

Una sezione di 15 Presepi sarà riservata e dedicata a San Camillo nella celebrazione del

400° della sua morte. I cinquecento Presepi internazionali ci portano sempre alla Grotta di Betlemme

per incontrare il Bambino Gesù, Principe della Pace, ma vogliono essere anche:

È NATALE e dal cuore dell’Arena nasce e risplende

la Stella di Betlemme. L’Arena di Verona è testimone e

specchio di duemila anni di storia,di vittorie e di sconfitte, di speranze e delusioni, di violenze e di morte.

Dall’Arena spunta Gesù, la sola Speranza, la sola Stella che può

rischiarare il nostro cammino tortuoso e buio di oggi!

“Andiamo a vedere”, si dissero i pastori. E trovarono il Dio-Bambino

che porta la Pace, la luce e speranza agli uomini di buona volontà.

Il Natale di Gesù illumini la tua vita e la sua Stella brilli sul tuo cammino.Buon Natale e Sereno Anno Nuovo!

la Direzione