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Università degli Studi di Salerno Facoltà di Scienze Politiche Corso di Laurea in Scienza del Governo e dell’Amministrazione Esame di Diritto dell’Unione Europea A.A. 2005 – 2006 Compendio di Diritto dell’Unione Europea Prof. Salvatore Sica Studente: Aniello Spina - 1210200068

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Università degli Studi di Salerno

Facoltà di Scienze Politiche

Corso di Laurea in Scienza del Governo

e dell’Amministrazione

Esame di Diritto dell’Unione Europea

A.A. 2005 – 2006

Compendio di Diritto dell’Unione Europea

Prof. Salvatore Sica

Studente: Aniello Spina - 1210200068

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Genesi dell’Unione Europea

Con la fine della II guerra mondiale si è innescato un lento cammino verso l’integrazione

economica e politica; cammino irto di ostacoli che più volte ha conosciuto battute d’arresto.

Oggi comunque l’Unione conta di 25 paesi aderenti e per il 2007 è atteso l’ingresso di Bulgaria

e Romania mentre più lentamente l’ammissione della Turchia.

I momenti più importanti del cammino verso l’integrazione europea si sono avuti con la

sottoscrizione del Trattato di Maastricht (1992), del Trattato di Amsterdam (1997); del

Trattato di Nizza (2000) e del Vertice di Roma (29/10/2004).

Le ragioni che portarono all’Unione

Già a metà dell’ottocento troviamo gli auspici di un’Europa nell’opera di G. Mazzini, ma la

spinta più importante ci si ebbe dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando venne fuori la

constatazione che l'Europa non era più al centro del mondo: a est si profilava il blocco sovietico

ad ovest gli Stati Uniti avevano assunto una incontrastata leadership. Non vi era dubbio ormai

che per acquistare un ruolo significativo bisognava intraprendere la strada della collaborazione

sia sul piano economico e politico. Il processo prese avvio proprio per iniziativa di due secolari

antagonisti la Germania è la Francia. Le due conclusero un accordo che prevedeva la creazione

di un ente sovranazionale con il compito di regolare lo sfruttamento dei bacini della Rurh e

della Saar (1951). Subito dopo, l'iniziativa interessò altri paesi per cui nacque la CECA

(Comunità Europea Carbone Acciaio) con lo scopo di creare un mercato comune nel

settore carbosiderurgico.

il 18 aprile 1951 a Parigi i sei paesi aderenti firmarono vari atti comprendenti il trattato

istitutivo della comunità europea del carbone e dell'acciaio. La CECA rappresentava non solo la

prima reazione alle forze disintegranti scatenata dalla guerra, ma anche la prima ricerca del

benessere del singolo Stato nazionale dello sviluppo della comunità europea per sé seduzione

faceva sì che ciascuno degli stati aderenti cedesse una parte della propria sovranità in un

settore limitato, conservando peraltro inalterate le proprie prerogative in altri settori di qui la

sua configurazione come struttura sola nazionale e non internazionali, dotata di poteri propri e

di una propria assemblea munita di poteri consultivi e di controllo politico, decisamente più

consistenti di quelli accordati agli organi del consiglio d'Europa. All'alta autorità era affidato

non solo il potere esecutivo, ma anche il potere normativo nei controlli delle stradine, delle

imprese e delle associazioni di imprese di produzione e di distribuzione del prodotto

carbosiderurgico.

Al consiglio dei ministri spettavano compiti consultivi ed esprimeva pareri vincolanti sulle

proposte avanzate dall'Alta Autorità, mentre alla Corte di Giustizia veniva assegnato il potere

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giurisdizionale con il compito di interpretare e di vigilare sulla corretta applicazione delle norme

del diritto comunitario contenuto nel trattato istitutivo della CECA.

Il modello CECA esercitò la sua prima influenza nel settore militare in seguito allo scoppio della

guerra in Corea si aumentò il timone di una sempre più profonda divisione del mondo in due

blocchi, prese vita il progetto di una comunità militare europea di incontro numerose difficoltà

soprattutto per il contrasto legata al riarmo della Germania e quindi non però possibilità di

attuazione.

I trattati di Roma

Sono i trattati che hanno istituito la Comunità economica europea e la Comunità europea per

l’energia atomica, firmati dai sei Stati membri della CECA il 25 marzo 1957 e conclusi per un

periodo illimitato.

L’obiettivo era quello di creare un mercato comune e riavvicinare progressivamente le

politiche economiche degli Stati, al fine di promuovere uno sviluppo armonioso delle attività

economiche, una continua e bilanciata espansione economica, una crescita del livello di vita dei

popoli e relazioni più strette fra gli Stati membri. La mancata ratifica del trattato istitutivo

della Comunità europea di difesa (CED), nel 1952, non spense di certo il crescente entusiasmo

dell’opinione pubblica europea intorno ai primi dibattiti su un progetto relativo all’istituzione del

mercato comune. L’esperienza positiva della CECA (il cui trattato istitutivo era stato era stato

firmato nel 1951) diede nuovamente slancio al processo d’integrazione europea.

Nel 1955 ebbe così luogo lo storico incontro di Messina (Conferenza di Messina) fra i ministri

degli esteri dei sei paesi membri della CECA, nel corso del quale fu presa in considerazione

l’idea di un’unione economica dell’Europa, da realizzare mediante la creazione del mercato

comune e l’introduzione delle quattro libertà.

I sei ministri degli esteri si riunirono successivamente il 30 maggio 1956 a Venezia, per

negoziare la trasformazione del rapporto Spaak1, redatto dopo l’incontro di Messina, in veri e

propri trattati.

I negoziati si protrassero fino al febbraio del 1957 e finalmente il 25 marzo dello stesso anno si

giunse alla firma, a Roma, dei due trattati.

Il Trattato CEE, stabilendo un ordine giuridico specifico, ha istituito una Comunità di durata

illimitata dotata di personalità e capacità giuridica e poteri propri che le sono stati attribuiti in

base ad un trasferimento di competenze dagli Stati membri alla Comunità.

Si definisce come trattato-quadro in quanto elenca gli obiettivi che le istituzioni comunitarie

dovranno perseguire attraverso l’adozione degli atti giuridici.

1 Documento, presentato il 29 maggio 1956 alla Conferenza di Venezia dei ministri degli esteri da un comitato intergovernativo presieduto da Paul Henry Spaak, contenente indicazioni dettagliate sulla creazione della CEE e dell’EURATOM. La decisione di affidare ad un comitato la redazione di un rapporto che esaminasse tutte le possibili forme di integrazione in specifici settori (ad esempio quello dell’energia) fu adottata dai ministri degli esteri dei paesi già membri della CECA nel corso della Conferenza di Messina. Il rapporto Spaak si articolava in tre parti: mercato comune, energia nucleare e settori che necessitavano di interventi: energia, trasporti e telecomunicazioni. Il rapporto, che portò in breve tempo alla firma dei Trattati della CEE e dell’EURATOM, prevedeva anche una struttura istituzionale simile a quella della già costituita CECA.

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Nel corso degli anni i trattati istitutivi sono stati più volte modificati sia dai vari atti approvati

successivamente come il Trattato sulla fusione degli esecutivi, l’Atto unico europeo, il

Trattato di Maastricht ed il Trattato di Amsterdam, che dai diversi trattati di adesione.

Trattato Quadro è una espressione che si riferisce al trattato istitutivo della Comunità

economica europea per sottolineare la sua caratteristica di negoziato permanente, vale a dire

di un trattato che fissa soltanto l’obiettivo ultimo cui mira, delegando ad altre disposizioni il

compito di definire le procedure di attuazione.

Il Trattato CEE, infatti, al momento della sua firma, conteneva l’indicazione precisa degli

obiettivi intermedi e finali che si volevano raggiungere, senza però specificare nulla riguardo le

procedure che le istituzioni comunitarie avrebbero dovuto seguire.

Le norme contenute nel trattato erano dettagliate in riferimento ai tempi e alle modalità di

attuazione solo per quel che riguardava la realizzazione dell’unione doganale e l’istituzione di

una tariffa doganale comune; per il raggiungimento della completa integrazione economica

comunitaria, invece, erano necessari interventi di armonizzazione legislativa, sia economica

che sociale, che sono stati oggetto di compromessi con gli Stati membri.

I padri fondatori dell’Europa comunitaria, infatti, avevano previsto un graduale trasferimento di

sovranità dagli organi nazionali alle istituzioni comunitarie sulla base di continui negoziati

durante i quali si è cercato di mediare gli interessi a volte contrastanti tra gli Stati e la

Comunità europea.

Trattato sulla fusione degli esecutivi

È il trattato firmato a Bruxelles nel 1965 che prevedeva l’istituzione di un Consiglio ed una

Commissione unica per tutte e tre le Comunità europee, segnando un passo avanti nel

processo di integrazione europea.

A partire dal 1957, venivano ad operare sul medesimo territorio la CEE, la CECA e la CEEA,

rendendo spesso difficile individuare lo specifico campo di intervento di ciascuna Comunità. I

padri fondatori delle Comunità europee all’indomani della stipula dei trattati sentirono

l’esigenza di giungere ad una fusione delle stesse ma le resistenze politiche degli Stati membri

impedirono di giungere ad una totale unificazione.

Va rilevato che sin dalla loro istituzione il Parlamento europeo e la Corte di Giustizia sono stati

istituzioni comuni alle tre Comunità. Invece solo con il Trattato sulla fusione degli esecutivi si

è giunti alla stesura di un testo definitivo che ha unificato le due Commissioni (CE ed Euratom)

e l’Alta Autorità della CECA da un lato, ed i tre Consigli dall’altro.

Successivamente il citato Trattato è stato abrogato dal Trattato di Amsterdam; le relative

disposizioni sono ora richiamate all’interno dei Trattati istitutivi mentre alcuni dei principi

fondamentali, introdotti dal testo abrogato, sono stati richiamati all’art. 9 del Trattato di

Amsterdam.

Alla fusione delle istituzioni, però, non si accompagnava una unificazione delle loro funzioni che

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restarono fondamentalmente separate. Ogni istituzione, infatti, pur essendo composta dalle

stesse persone per tutte e tre le organizzazioni, operava ora come organo di una Comunità,

ora come organo di un’altra.

Come chiaramente affermava l’art. 1 del Trattato sulla fusione degli esecutivi, il Consiglio

unificato esercitava i poteri e le competenze in precedenza devoluti ai tre Consigli; ugualmente

disponeva l’art. 9 in relazione alla Commissione Unica che sostituiva l’Alta Autorità della CECA

e le Commissioni delle altre due Comunità; l’unico atto di tali istituzioni che veniva

espressamente unificato dal trattato in questione era la Relazione Generale sull’attività delle

Comunità che la Commissione era tenuta a pubblicare ogni anno.

AUE (atto unico europeo)

insieme di disposizioni che modificano e completano i tre trattati costitutivi della comunità

europea. L'obiettivo più importante era la realizzazione entro il 31 dicembre 1992 del mercato

interno, cioè di uno spazio senza frontiere interne nel quale è assicurata la libera circolazione

delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali.

Nell’atto unico, oltre alla creazione del mercato interno sono previsti:

a) la ricerca di una coesione economica più stretta tra le ragioni e europei e una riduzione

della disparità regionali restano riforma di fondi strutturali.

b) il rafforzamento della cooperazione monetaria;

c) introduzione di norme in materia di tutela dell'ambiente e di ricerca scientifica e

tecnologica.

L’atto unico ha anche previsto modifiche istituzionali, fra cui ricordiamo:

a) il passaggio dall'unanimità alla maggioranza qualificata per le decisioni del consiglio

dell'Unione Europea nei settori del mercato interno, della politica sociale, della coesione

economica e sociale e della ricerca;

b) l'affidamento alla commissione delle competenze esecutive degli atti al re dà consigli, il

conferimento al Parlamento europeo di un potere di parere conforme in materia di

adesione e degli accordi di associazione:

c) indulge nella procedura di cooperazione tra la commissione, il Parlamento e il consiglio;

d) l'istituzionalizzazione del consiglio europeo;

e) la creazione di un tribunale di primo grado che ha affiancato la corte di giustizia.

Trattato di Maastricht

È il documento firmato a Maastricht nel 1992 dai rappresentanti degli Stati membri, la cui

denominazione ufficiale è Trattato sull’Unione europea.

Il Trattato di Maastricht è il risultato di lunghi e laboriosi negoziati finalizzati al completamento

del mercato interno e all’individuazione delle future tappe dell’integrazione comunitaria. Le

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istituzioni comunitarie, infatti, già a partire dal 1988 avevano avviato un intenso lavorio,

culminato nelle due conferenze intergovernative tenutesi a Roma nel dicembre 1990

sull’unione economica e monetaria e sull’unione politica. Il testo elaborato nelle due conferenze

intergovernative fu definitivamente firmato nel corso del vertice europeo di Maastricht del

dicembre 1991.

Il processo di ratifica del Trattato sull’Unione è stato particolarmente travagliato, tanto da far

temere più volte un completo abbandono del progetto. In Francia il trattato è stato sottoposto

a referendum, così come in Danimarca dove si sono svolte due consultazioni referendarie: la

prima lo ha bocciato e solo dopo aver ottenuto le deroghe richieste la seconda consultazione

ha dato esito positivo. In Gran Bretagna è stato approvato solo dopo che il governo ha posto la

questione di fiducia; in Germania il Parlamento ha ratificato il trattato già nel dicembre 1992,

ma ha dovuto attendere una pronuncia della propria Corte Costituzionale prima di poter

depositare la ratifica.

La portata estremamente innovativa di questo trattato risiede principalmente nella nuova

struttura a tempio dell’Unione europea, composta da tre pilastri (Pilastri dell’Unione

europea): la dimensione comunitaria, la politica estera e di sicurezza comune e la

cooperazione nei settori della giustizia e degli affari interni.

Allo stesso trattato sono aggiunti vari protocolli e dichiarazioni, tra cui spiccano i due Protocolli

che definiscono lo statuto del Sistema europeo delle Banche centrali (SEBC), dell’Istituto

monetario europeo (IME) e della Banca centrale europea (BCE).

In particolare il trattato è articolato nelle seguenti sezioni:

• disposizioni comuni (titolo I). Questa prima sezione definisce le linee guida che ispirano

l’azione comunitaria, il cui compito è quello di organizzare in modo coerente e solidale le

relazioni tra gli Stati membri ed i loro popoli;

• modifiche al Trattato CEE (titolo II). Questa sezione rappresenta la parte più innovativa

dell’intero Trattato di Maastricht a cominciare dall’alto valore simbolico da attribuire alla

disposizione che sostituisce l’espressione “Comunità Economica Europea” con “Comunità

Europea” in tutto il Trattato di Roma del 1957. La modifica è un evidente segnale della

volontà di non limitare più l’azione della Comunità alle sole relazioni economiche ma di

estenderla anche ad altri campi finora considerati di esclusiva competenza degli Stati

membri. Principi fondamentali di questa parte del trattato sono:

1. l’instaurazione di una unione economica e monetaria;

2. l’istituzione di una cittadinanza europea

3. l’affermazione del principio di sussidiarità;

4. l’ampliamento delle politiche comunitarie (in particolare, industria, sanità pubblica,

educazione e cultura);

5. la revisione dei poteri attribuiti ad alcune istituzioni comunitarie ed, in particolare,

l’ampliamento delle funzioni del Parlamento europeo;

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• modifiche ai Trattati CECA ed Euratom (titoli III e IV). Le disposizioni contenute in questi

due titoli sono largamente riproduttive di quelle contenute nel titolo precedente;

• disposizioni relative alla politica estera e di sicurezza comune (titolo V). Rappresenta una

delle novità più importanti del Trattato di Maastricht ed è il risultato finale dei lunghi

negoziati intrapresi nell’ambito della conferenza intergovernativa convocata nel 1990. Le

disposizioni contenute in questo titolo non introducono alcuna modifica ai Trattati istitutivi

delle Comunità europee;

• disposizioni relative alla cooperazione giudiziaria e di polizia in materia penale (titolo VI).

L’apertura delle frontiere tra i paesi comunitari a partire dal 1° gennaio 1993 ha

inevitabilmente imposto un notevole ridimensionamento delle possibilità di controllo

frontaliere. Al fine di realizzare una più efficace cooperazione in questo settore con il

Trattato di Maastricht si è deciso di delineare alcune strategie comuni tra gli Stati membri,

tra cui rientra anche la costituzione di un Ufficio europeo di Polizia. Tuttavia molte delle

disposizioni contenute in questo titolo (che originariamente era denominato cooperazione

nei settori della giustizia e degli affari interni) sono state comunitarizzate con il Trattato di

Amsterdam;

• disposizioni su una cooperazione rafforzata (titolo VII). Non era previsto dall’originario

Trattato di Maastricht, ma è stato aggiunto dal Trattato di Amsterdam. Prevede la

possibilità che alcuni Stati membri possano perseguire autonomamente determinate

politiche quando non è possibile raggiungere l’unanimità;

• disposizioni finali (titolo VIII). Oltre all’art. 49 (ex O), che disciplina la procedura per

l’adesione di nuovi Stati, la disposizione più importante (ora abrogata) contenuta in questo

titolo era quella che prevedeva la convocazione, entro il 1996, di una conferenza

intergovernativa per apportare eventuali modifiche al trattato: da questa disposizione è

nato il Trattato di Amsterdam.

Trattato di Amsterdam

Dopo l’Atto unico europeo ed il Trattato di Maastricht si tratta del terzo trattato con il quale

sono state apportate significative modifiche ai trattati istitutivi delle Comunità europee. In

particolare il Trattato di Amsterdam è nato sulla base di una specifica disposizione contenuta

già nel Trattato di Maastricht e che prevedeva la convocazione, per il 1996, di una Conferenza

intergovernativa con il compito di proporre i necessari adattamenti ai trattati, in vista delle

sfide che si pongono per il nuovo millennio ed in seguito alla introduzione dell’euro.

L’accordo finale sul testo del nuovo trattato è stato raggiunto nel corso del vertice europeo di

Amsterdam del 17 giugno 1997, mentre la firma ufficiale si è avuta il 2 ottobre dello stesso

anno: esaurito il processo di ratifica il trattato è entrato in vigore il 1° maggio 1999.

La più importante novità introdotta dal Trattato di Amsterdam nell’ambito delle politiche

comunitarie è sicuramente l’impegno assunto per la promozione di un più alto livello

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occupazionale; nel Trattato istitutivo della Comunità europea è stato aggiunto un nuovo titolo

interamente dedicato alle problematiche occupazionali, con il quale, pur ribadendo che la

responsabilità in materia di occupazione è posta principalmente a carico degli Stati membri, si

tenta di introdurre un coordinamento anche a livello europeo.

Un altro capitolo dedicato al mondo del lavoro è quello relativo alla politica sociale, finora

relegata in un protocollo allegato al Trattato sull’Unione e che ora entra a far parte a pieno

titolo delle politiche comuni, essendo cadute tutte le obiezioni britanniche.

Altre modifiche hanno riguardato la politica dell’ambiente , la sanità pubblica e la tutela

dei consumatori.

Sebbene estremamente limitate rispetto alle iniziali aspettative, non mancano anche nel

settore della PESC rilevanti novità introdotte dal Trattato di Amsterdam. In particolare:

• è previsto che l’Unione possa adottare strategie comuni per le azioni da intraprendere

nell’ambito della politica estera;

• viene introdotto il principio dell’astensione costruttiva , che potrebbe consentire una più

efficace azione da parte degli Stati membri;

• tra le priorità dell’azione comunitaria rientrano le missioni umanitarie, di soccorso e di

mantenimento della pace, secondo le indicazioni contenute nella Dichiarazione di

Petersberg;

• viene creata una cellula di programmazione politica e di tempestivo allarme che ha il

compito di individuare le zone di conflitto potenziale e anticipare eventuali situazioni di

crisi;

• per dare continuità all’azione dell’Unione in questo settore al Segretariato generale del

Consiglio viene attribuito il ruolo di Alto rappresentante per la PESC.

Le più importanti novità del Trattato di Amsterdam sono, però, sicuramente quelle che hanno

radicalmente trasformato la cooperazione in materia di giustizia e affari interni.

Coerentemente con un’indicazione già contenuta nel Trattato di Maastricht quasi tutti i settori

che rientravano nell’ambito del terzo pilastro sono ora stati trasferiti nel primo pilastro,

comunitarizzando, materie che in precedenza erano trattate esclusivamente in ambito

intergovernativo (rilascio di visti, concessione di asilo, azione comune in materia di

immigrazione, cooperazione doganale, cooperazione giudiziaria in materia civile e più in

generale tutte le questioni attinenti alla libera circolazione delle persone).

La radicale modifica delle disposizioni contenute nel titolo VI del Trattato sull’Unione europea si

riflette anche nella nuova denominazione introdotta dal Trattato di Amsterdam: non più

cooperazione in materia di giustizia e affari interni, ma cooperazione di polizia e giudiziaria

in materia penale.

Con il Trattato di Amsterdam è stata anche istituzionalizzata la facoltà di procedere ad una

integrazione differenziata attraverso il meccanismo della cooperazione rafforzata; in pratica

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si sancisce il diritto per quegli Stati membri che intendono perseguire determinate politiche

comuni a procedere anche in assenza di una volontà comune di tutti i membri.

L’introduzione del principio della cooperazione rafforzata ha consentito, ad esempio, di

comunitarizzare l’acquis di Schengen.

Con il Trattato di Amsterdam si è proceduto anche ad un’opera di razionalizzazione e

semplificazione di questo groviglio di disposizioni; la seconda parte del nuovo trattato è

interamente dedicata a questa operazione.

Trattati di adesione

Accordi internazionali che si concludono tra gli Stati richiedenti l’adesione all’Unione europea e

gli Stati contraenti del trattato originario. Tali accordi devono essere sottoposti alla ratifica di

tutti gli Stati contraenti conformemente alle loro rispettive norme costituzionali.

I trattati di adesione non contengono le condizioni per l’ammissione né gli adattamenti ai

trattati istitutivi che questa rende necessari (esempio: numero dei membri degli organi, elenchi

di prodotti, tariffa doganale comune etc.). Tali elementi sono contenuti nell’Atto relativo alle

condizioni d’adesione e agli adattamenti dei trattati, le cui disposizioni costituiscono parte

integrante del trattato di adesione.

Gli strumenti relativi all’adesione (Trattato, Atto, Allegati, Protocolli, Dichiarazioni) contengono

soprattutto la previsione di periodi transitori, in ossequio al principio, già applicato nei trattati

originari, di gradualità. Di massima, invece, gli strumenti di adesione non contengono

modificazioni alle norme che riguardano i settori d’intervento e le politiche della Comunità.

Un ampliamento anomalo in questo contesto è rappresentato dall’ingresso nell’Unione dell’ex

Repubblica democratica tedesca. Com’è noto la riunificazione delle due Germanie è avvenuta il

3 ottobre 1990: tuttavia già durante il Vertice di Dublino dell’aprile 1990 i capi di Stato e di

governo avevano stabilito che non vi era alcuna necessità di procedere ad una formale

revisione dei trattati istitutivi. Furono introdotte soltanto alcune misure di adeguamento che

tenessero conto della nuova situazione

U n io n e E u r o p e a - T r a tta t i , I s t itu z io n i, S to r ia d e ll 'in te g r a z io n e e u r o p e a

1 9 5 2 1 9 5 8 1 9 6 7 1 9 9 3 1 9 9 9 2 0 0 3 2 0 0 4 - U N I O N E E U R O P E A ( U E )

C o m u n ità e u r o p e a d e l c a r b o n e e d e ll'a c c ia io (C E C A ) C o m u n ità E c o n o m ic a

E u r o p e a (C E E )

C o m u n ità E u r o p e a (C E )

E u r a to m (C o m u n ità E u ro p e a d e ll 'E n e rg ia A to m ic a ) G iu s tiz ia e

a ffa r i in te rn i (C G A I) C o m u n ità

e u ro p e e : C E C A , P o li t ic a e s te ra e d i s ic u re z z a c o m u n e (P

C E E , E u ra to m E S C )

T r a tta to d i P a r ig i

T r a tta t i d i R o m a

T r a tta to d i B r u x e lle s

T r a tta to d i M a a str ic h t

T r a tta to d i A m ste r d a m

T r a tta to d i N iz z a

C o st itu z io n e E u r o p e a

I "T re P ila s tri " d e ll 'U n io n e E u ro p ea - C o m u n ità E u ro p e e (C E E , C E C A , E u ra to m ) , P o lit ic a E s te ra e d i S ic u re z z a C o m u n e (P E S C ), C o o p e ra z io n e n e i se tto r i d e lla G iu s t iz ia e d e g li A f fa r i In te rn i (C G A I)

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I valori gli obiettivi le competenze

Sono i primi articoli della carta costituzionale ad individuare i valori nei quali l'unione si

riconosce e gli obiettivi che essa intende perseguire e la distribuzione delle competenze.

I valori art. 1.2

L'Unione si fonda nei suoi valori della dignità umana, sulla libertà della democrazia

dell'uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani.

Se uno Stato membro non rispetta questi valori, accade che il consiglio dei ministri decide la

sospensione dei diritti che derivano dalla appartenenza all'Unione.

Gli obiettivi art. 1.3

L'Europa si prefigge: di promuovere la pace, il benessere dei suoi popoli, di offrire spazio di

libertà e giustizia ai suoi cittadini senza frontiere interne, di sviluppare l'economia dei membri

ed il progresso sociale, di tutelare l'ambiente e di combattere le discriminazioni sociali, tutelare

i minori e di promuovere la parità tra donne e uomini.

L'aver fissato specifici obiettivi nella costituzione è importante non solo perché ha significato

decidere il percorso da seguire ma anche perché, in questo modo, risulta incostituzionale

qualsiasi iniziativa presa in contrasto con essi.

Le competenze

Avere la competenza significa avere l'autorità necessaria ad assumere certe iniziative per il

raggiungimento degli obiettivi. Sono attribuite in parte ai singoli Stati in parte all'unione.

Abbiamo competenza esclusiva vuol dire che solo l'unione europea ha competenze

necessarie a raggiungere obiettivi predestinati. Competenza concorrenti significa che le

norme necessarie possono essere emanate sia dall'unione che dagli stati membri secondo il

principio di sussidiarietà.

Il principio di attribuzione

È la pietra angolare del sistema delle competenze dell'Unione Europea ed è la valvola di

sicurezza. L'Unione Europea può adottare iniziative sono nell'ambito delle misure in cui i

trattati, le vere basi giuridiche, le permettono di agire. La corte di giustizia ha identificato

alcuni settori in cui solo europea può agire.

Il principio di sussidiarietà

Può essere visto come l'elemento regolatore delle competenze comunitarie, è stato introdotto

dal trattato di Maastricht. In base a tale principio la comunità interviene in quei settori che

non sono di sua esclusiva competenza solo quando la sua azione è considerata più efficace di

quella intrapresa a livello nazionale, regionale, locale. Prendere decisioni il più vicino possibile

ai cittadini i diversi presupposti sono:

1 riguardare le nuove politiche di cooperazione

2. la dimensione europea

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3. vi dovrà essere presunzione dell'insufficienza degli Stati e risolvere il problema.

Il trattato di Amsterdam ha introdotto alcuni principi guida sulla base dei quali procedere alla

valutazione delle condizioni:

1. La questione deve presentare aspetti transnazionali e gli Stati membri non sono in

grado di regolare

2. L'azione degli Stati membri comprometterebbe l'interesse degli altri Stati membri ciò

prescrive il trattato

3. Attraverso l'intervento della comunità si conseguirebbero risultati più vantaggiosi.

Tre riferimenti al principio di sussidiarietà. La commissione dovrebbe presentare una relazione

annuale di giustificazione al Consiglio Europeo, al Parlamento Europeo ed al Consiglio

dell'Unione circa l'applicazione del principio di sussidiarietà.

Il consiglio valuta la conformità delle proposte e informa il Parlamento, in questo modo viene

introdotto una sorta di controllo preventivo sulla negazione del principio di sussidiarietà. La

applicazioni vengono controllate dalla Corte di Giustizia.

Principio di proporzionalità, art. 5

È il principio secondo il quale l'azione della Comunità Europea da non va al di là di quanto

necessario per il raggiungimento degli obiettivi posti dal trattato. Più esattamente, quando a

disposizione degli operatori economici, abbiamo una pluralità di misure appropriate per

raggiungere gli obiettivi prefissati, si dovrà ricorrere a quelle misure meno impegnative, cioè si

deve fare in modo che gli oneri siano proporzionati agli oggetti. La commissione deve scegliere

tra un atto vincolante oppure no.

Le cooperazioni rafforzate

Le cooperazioni rafforzate sono la strada che si può percorrere quando viene a mancare il

consenso di uno o più Stati membri nella realizzazione di un obiettivo previsto dalla

costituzione. Quando ciò avviene non si può permettere che i 1000 trend europeo e viaggia

verso l'integrazione sia rallentato dalla resistenza di vagoni particolarmente lenti. Le

cooperazione rafforzata sono quelle che uniscono i paesi dell'euro gruppo gruppo che adotta

l'euro), quelle che uniscono i territori dell'area shengen; quelle che uniscono i paesi che

tentano di costruire una rete di difesa.

Trattato di Nizza

Con il trattato di Nizza è stata accolta l'adesione di 12 nuovi Stati 10 dei quali hanno fatto il

loro ingresso nel 2004. È stata proclamata la Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione ed

è stata modificata la composizione degli organi comunitari.

Il nuovo testo apporta ai trattati preesistenti modifiche estremamente tecniche ma

indispensabili per delineare il nuovo equilibrio istituzionale dell’Unione. A differenza dei

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precedenti trattati non fissa nessun obiettivo di ampio respiro, come poteva essere la

realizzazione dell'unione doganale per il trattato di Roma, il mercato interno per l'atto unico o

la moneta unica per il trattato di Maastricht, ma delinea un quadro istituzionale dell'Unione che

consentirà di assorbire in modo efficace il più grande allargamento della sua storia.

Fra le novità più significative introdotte nel trattato ricordiamo:

o la loro ripartizione del numero dei rappresentanti degli Stati membri nelle istituzioni e

negli organi comunitari (Parlamento, commissione, consiglio economico e sociale,

comitato delle regioni). Per il consiglio, invece, è stata introdotta una nuova

ponderazione dei voti2;

o l'ampliamento dei poteri del presidente della Commissione Europea, che ora si

viene attribuito un vero e proprio potere direttivo sul collegio, o la possibilità di decidere

sulla struttura interna, sulla nomina dei vicepresidenti e con la facoltà di richiedere le

dimissioni di un commissario;

o una drastica riduzione dei casi in cui il consiglio deve deliberare all'unanimità. Con il

nuovo trattato la regola per l'adozione delle decisioni in seno al consiglio è costituita

dalla votazione a maggioranza qualificata, mentre restano residuali le ipotesi di

votazioni con il consenso di tutti gli Stati membri;

o Le modifiche all'ordinamento giudiziario comunitario. Per poter assorbire l'aumento

del carico di lavoro la competenza del Tribunale di primo grado è estesa anche ad altre

materie in precedenza di esclusiva competenza della Corte. In pratica si viene a creare

un vero e proprio doppio grado di giurisdizione tra Tribunale e la Corte;

o l'introduzione di una procedura di preavviso nel caso in cui siano contestate violazioni

dei diritti fondamentali da parte di uno Stato membro. Prima di adottare decisioni gravi,

infatti, il consiglio può, dopo aver sentito lo Stato interessato, rivolgergli appropriate

raccomandazioni;

o uno snellimento delle procedure per poter procedere ad una cooperazione rafforzata,

attraverso la soppressione del diritto di veto in precedenza attribuito agli Stati membri.

Il trattato di Roma o costituzione europea

Il 20 ottobre 2004 a Roma è stata sottoscritta la costruzione dell'Europa che entra in vigore

gradualmente. La costituzione europea si compone di un preambolo è di quattro parti.

Il preambolo esprime la convinzione che l'Europa possa proseguire il suo cammino integrazione

per il progresso di civiltà, economico, politico e per il bene di tutti i suoi abitanti.

2 Ponderazione dei voti Con l’adozione del sistema della ponderazione nell’ambito delle organizzazioni internazionali viene attribuito ai voti di ciascuno Stato membro un peso diverso a seconda dell’importanza economica, demografica o politica; rappresenta una deroga al principio generale della piena uguaglianza degli Stati nei diritti e nei doveri.Il sistema del voto ponderato è adottato in ambito comunitario per le decisioni assunte dal Consiglio dell’Unione europea , quando per la decisione è richiesta la votazione a maggioranza qualificata; in questo caso viene attribuito un numero di voti più alto ai paesi maggiori (Germania, Francia, Gran Bretagna e Italia) e, proporzionalmente, un numero inferiore agli altri Stati.

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La prima parte contiene norme che definiscono gli obiettivi e le competenze dell'unione

regolano la dignità degli organi costituzionali, stabiliscono le caratteristiche degli atti normativi

dell'unione europea.

La seconda parte recepisce la carta dei diritti fondamentali dell'unione, proclamata nel vertice

di Nizza nel 2000.

La terza parte contiene disposizioni specifiche dell'esercizio delle competenze spettanti

all'unione europea.

La quarta parte contiene disposizioni specifiche dalle quali va ricordato l'articolo 2 nel quale si

stabilisce che l'entrata in vigore della nuova costituzione porta all'abrogazione di tutti trattati

precedenti.

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Le organi dell'unione europea

Le istituzioni principali dell'Unione Europea sono:

Consiglio europeo

art. 4 Trattato sull’Unione europea

Il Consiglio Europeo è nato inizialmente come un organo informale di cooperazione politica che

riuniva almeno due volte l’anno i capi di Stato e di governo dei diversi Stati membri. Non era

un organo previsto dai Trattati istitutivi delle Comunità e doveva originariamente svolgere un

ruolo di stimolo per le più importanti iniziative politiche della Comunità nonché dirimere le

controversie di notevole rilevanza politica ed economica sorte in seno al Consiglio

dell’Unione europea. Le riunioni di questo organo erano molto informali: soltanto in seguito

esse hanno assunto una ben definita cadenza (che in genere coincide con la fine della

presidenza semestrale di ciascuno Stato membro) e rappresentano ormai un appuntamento

molto importante nella definizione delle linee d’azione della Comunità.

Il riconoscimento formale del fondamentale ruolo assunto nel corso degli anni è avvenuto

dapprima con l’Atto unico europeo e poi più esplicitamente con il Trattato di Maastricht.

Secondo l’articolo 4, infatti, spetta a quest’organo dare “all’Unione l’impulso necessario al suo

sviluppo e ne definisce gli orientamenti politici generali”. Con il secondo comma si stabilisce,

invece, che il Consiglio riunisce almeno due volte l’anno i capi di Stato e di governo nonché il

Presidente della Commissione; di fatto si formalizza una procedura ormai già ampiamente

collaudata da diversi anni.

Da tale norma si evince che:

o il Consiglio europeo è un organo delle Comunità (si parla infatti di “Stati membri”);

o le sue competenze non sono stabilite, pertanto si può ritenere che, secondo la prassi

già instauratasi, esso possa continuare a svolgere attività di orientamento politico;

o di conseguenza, il Consiglio, dal punto di vista giuridico è privo di poteri decisionali, in

quanto non è prevista una competenza di attribuzione, ad eccezione di quanto dispone

in merito il Trattato di Maastricht.

Discussa è la natura degli atti adottati dal Consiglio europeo, anche se si propende per la

valenza politica, più che giuridica degli stessi; ciononostante, non bisogna privare del giusto

rilievo le deliberazioni del Consiglio europeo.

Nonostante il Consiglio europeo non sia l’organo legislativo della Comunità, il Trattato di

Maastricht ha contemplato due casi in cui lo stesso esercita poteri decisionali:

• unione economica e monetaria. Il Consiglio europeo ha provveduto a stabilire nel mese

di maggio ’98 quali Stati rispettavano i criteri di convergenza3 e potevano pertanto

procedere sulla strada della moneta unica;

3 Criteri di convergenza Complesso di requisiti in materia economica e finanziaria richiesti affinché si potesse procedere alla terza fase dell’unione economica e monetaria tra gli Stati membri della Comunità europea.

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• politica estera e di sicurezza comune. Spetta al Consiglio europeo definire gli

orientamenti generali e le strategie comuni sulla cui base dovrà operare il Consiglio dei

ministri.

Il Trattato di Amsterdam ha in seguito provveduto a conferire al Consiglio altre attribuzioni in

materia di:

• cooperazione rafforzata4. In questo caso il compito è quello di dirimere eventuali

contrasti nati dall’opposizione di uno Stato alla concessione dell’autorizzazione a

procedere alla cooperazione rafforzata (art. 11 Trattato CE);

• sanzioni a carico degli Stati che non rispettano i diritti umani. È compito del

Consiglio constatare una violazione grave e persistente dei diritti fondamentali

dell’uomo e comminare (nonché successivamente revocare) la relativa sanzione (art. 7

TUE);

• occupazione. Riceve dalla Commissione e dal Consiglio dell’Unione una relazione

annuale sulla situazione occupazionale e adotta le conclusioni del caso; su questa base

saranno elaborati gli orientamenti di cui dovranno tener conto gli Stati membri nelle

rispettive politiche in materia di occupazione (art. 128 Trattato CE).

Commissione delle Comunità europee

artt. 211-219 Trattato CE; Regolamento interno 18 settembre 1999

La Commissione unica delle Comunità europee, istituita nel 1965 col Trattato di fusione degli

esecutivi, ha ereditato le competenze precedentemente attribuite dal Trattato di Parigi all’Alta

Autorità della CECA e dai Trattati di Roma alla Commissione della CEE e dell’Euratom.

Per le sue funzioni e per le sue caratteristiche di indipendenza rispetto ai governi degli Stati

membri, la Commissione è l’istituzione delle Comunità europee che presenta più evidenti

caratteri di originalità.

La Commissione è nominata, attraverso una procedura che si articola in varie fasi:

— i governi degli Stati membri designano la persona che intendono nominare Presidente

della Commissione; la nomina è approvata dal Parlamento europeo;

— i governi procedono poi alla designazione degli altri membri della Commissione di comune

accordo con il Presidente designato;

Gli indicatori del rispetto dei criteri di convergenza stabiliti dal protocollo allegato al Trattato di Maastricht sono: — l’inflazione. Il tasso d’inflazione rilevato in tutti gli Stati membri non può superare di 1,5% quello dei tre Stati membri con il più basso tasso d’inflazione rilevato su base annua; — le finanze pubbliche. Il disavanzo pubblico, o meglio l’indebitamento netto della pubblica amministrazione non deve essere superiore al 3% del PIL; inoltre il debito netto della Pubblica Amministrazione non deve superare il 60% del PIL; — i tassi d’interesse. I tassi d’interesse a lungo termine di ciascuno Stato membro non devono essere superiori del 2% rispetto a quelli adottati dai paesi che possono vantare la migliore performance in termini di stabilità dei prezzi; — la moneta. Nei due anni che precedono la verifica dei criteri di convergenza la moneta nazionale deve aver rispettato il proprio margine di oscillazione nell’ambito dello SME e, quindi, non deve aver subìto svalutazioni volontarie. La verifica del rispetto di criteri di convergenza era affidata all’IME che nel mese di marzo 1998 ha presentato il suo rapporto conclusivo. Sulla base di tale documento il Consiglio ha deciso quali Stati potevano entrare a far parte sin dall’inizio del club dei paesi che adottano l’euro. 4 Principio della cooperazione rafforzata Principio che attribuisce agli Stati membri che intendano perseguire determinate politiche comuni, a procedere anche in assenza di una volontà comune.

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— il Parlamento europeo è chiamato ad esprimere un voto di approvazione sul collegio così

formato: dopodiché avrà luogo la nomina della Commissione nel suo complesso da parte dei

governi, che agiscono di comune accordo.

Il ruolo del Presidente è stato rafforzato dal Trattato di Amsterdam sotto due profili. In

primo luogo partecipa attivamente alla scelta degli altri commissari (in precedenza era solo

consultato) e in secondo luogo si vede attribuire un vero ruolo di leadership, dal momento che

l’art. 219 specifica che “la Commissione agisce nel quadro degli orientamenti politici del suo

Presidente”.

La Commissione deve comprendere almeno un cittadino di ciascuno Stato membro e non più di

due membri aventi la cittadinanza di uno stesso Stato (art. 213).

Anche se i trattati tacciono in tal senso, la prassi è che gli Stati maggiori accreditano due

rappresentanti nella Commissione. Attualmente la Commissione è formata da 20 membri:

due membri per la Francia, l’Italia, il Regno Unito, la Germania e la Spagna e uno per gli altri

Stati.

Il mandato dei commissari dura cinque anni ed è rinnovabile. Al suo interno la Commissione

può nominare uno o due vicepresidenti (art. 217). I Commissari sono nominati a titolo

individuale e devono esercitare “le loro funzioni in piena indipendenza” (art. 213).

La loro indipendenza è tutelata da una serie di norme che creano dei precisi obblighi a carico

dei singoli commissari e, correlativamente, per gli Stati membri. Al fine di garantire la massima

indipendenza e trasparenza all’attività dell’istituzione, la Commissine ha adottato, nell’ambito

del programma di riforma la Commissione di domani, tre codici di condotta che fissano le

regole di comportamento e funzionamento della futura commissione. Pertanto la Commissione

(così come la Corte di Giustizia e il Parlamento e a differenza del Consiglio) è un organo

formato da individui e non da rappresentanti degli Stati, ed agisce nell’esclusivo interesse della

Comunità.

Le volizioni dei singoli componenti della Commissione che concorrono a formare la volontà

dell’organo collegiale, non sono, dunque, riferite agli Stati membri d’appartenenza, ma restano

volizioni individuali e solo la volontà collegiale dell’organo viene in rilievo divenendo così

imputabile alla Comunità nel suo complesso. A conferma di tale indipendenza gioca il fatto che

i membri della Commissione non possono essere rimossi né dai governi nazionali, né dal

Consiglio. Un provvedimento in tal senso può essere preso solo dal Parlamento attraverso la

cd. mozione di censura.

L’art. 218 stabilisce che la Commissione fissa il proprio regolamento interno in piena

autonomia e provvede alla sua pubblicazione. Tale regolamento, del 18 settembre 1999, indica

sistematicamente i criteri di organizzazione del lavoro della Commissione, il quorum per la

validità delle riunioni, i rapporti fra la Commissione e i servizi da essa dipendenti. All’atto

dell’insediamento la Commissione organizza il proprio lavoro ripartendo fra i suoi membri i

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compiti di supervisione dell’attività delle varie unità amministrative nelle quali è articolata la

propria struttura burocratica: direzioni generali, uffici, servizi autonomi.

I poteri della Commissione possono essere distinti in tre grandi gruppi:

- funzione di proposta o iniziativa legislativa;

- funzione esecutiva: tale funzione si sostanzia nella emanazione di atti di esecuzione, cioè di

regolamenti comunitari destinati ad integrare altri regolamenti emanati dal Consiglio, e

nella vigilanza sull’osservanza dei trattati:

- funzione di rappresentanza: la Commissione rappresenta la Comunità sia in ciascuno degli

Stati membri che nei rapporti con gli altri Stati. Sono sue prerogative: la negoziazione di

accordi, le relazioni internazionali e i rapporti con le altre organizzazioni internazionali.

È un organo esecutivo delle comunità in quanto il suo compito principale è quello di far

applicare il trattati e gli atti comunitari, oltre che la gestione delle varie politiche comuni.

È un organo indipendente in quanto i commissari sono nominati a titolo individuale e non

rappresentano negli stati da cui provengono né alcun gruppo di interesse esterno.

È un organo collegiale per cui tutte le delibere vengono riferite sempre alla commissione nel

suo complesso.

È un organo tempo pieno che si riunisce almeno una volta alla settimana e ciò giustifica

l'incompatibilità prevista per i membri della commissione con qualsiasi altra carica.

Per il ruolo che essa svolge e per le sue caratteristiche di dipendenti la commissione è

istituzione della comunità europea che rasenta l'evidente carattere di originalità.

La Commissione Europea è un organo permanente ed i suoi membri rimangono in carica fino al

termine del loro mandato;

Il Consiglio Europeo

Organo decisionale della Comunità composto da un rappresentante di ciascuno Stato membro

a livello ministeriale. Esso provvede anche al coordinamento delle politiche economiche

generali degli Stati membri nonché a svolgere funzioni esecutive.

L’attuale denominazione di Consiglio dell’Unione europea è stata adottata l’8 novembre

1993 in seguito all’entrata in vigore del Trattato di Maastricht, il quale ha stabilito che tale

organo è competente anche in materia di politica estera e di sicurezza comune (PESC) e di

cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale. Nella prassi si usa distinguere un

Consiglio Affari generali tenuto a livello dei ministri degli esteri, dai Consigli settoriali che

riuniscono i ministri di volta in volta competenti (agricoltura, lavoro ecc.).

Il più noto di tali Consigli, anche per il rilevante ruolo che assume nell’ambito della politica

economica e monetaria, è quello che riunisce i Ministri economici e finanziari, noto come

Consiglio Ecofin. Il motivo di questa distinzione è puramente pratico e consiste nel distribuire

le sessioni del Consiglio trattando di volta in volta argomenti omogenei.

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Le funzioni attribuite in questo organo sono indicate nell’art. 202 del Trattato CE.

Al Consiglio spetta un potere decisionale vero e proprio. Questo potere però non è illimitato in

quanto è subordinato alle condizioni poste dal trattato: ciò significa che il Consiglio può

prendere quei provvedimenti che sono, materia per materia, previsti dai trattati istitutivi.

Il potere decisionale del Consiglio si esplica:

— nell’emanazione di atti normativi secondo la Procedura di codecisione o la

Procedura di cooperazione;

— nella formazione ed adozione del bilancio comunitario che condivide con il

Parlamento europeo;

— nella conclusione degli accordi con Stati terzi precedentemente negoziati dalla

Commissione.

Il Consiglio, inoltre, ha un potere di controllo sul rispetto dei trattati e degli atti comunitari da

parte degli Stati membri o, comunque, dei destinatari di questi atti. Questo potere è però

indiretto poiché il Consiglio ha competenza generale a promuovere ricorsi in questo ambito

dinanzi alla Corte di Giustizia delle Comunità europee.

Infine, nel settore dell’unione economica e monetaria il Consiglio è responsabile, su

raccomandazione della Commissione, del coordinamento e della sorveglianza multilaterale

delle politiche nazionali di bilancio.

L’accrescersi col tempo della mole del lavoro comunitario, insieme alla sempre più sentita

esigenza di un più costante contatto tra Consiglio e Commissione, ha fatto sì che con il

Trattato sulla fusione degli esecutivi del 1965 venisse istituito un Comitato dei

rappresentanti permanenti degli Stati membri, costituito dalle rappresentanze diplomatiche

presso le Comunità.

La presidenza del Consiglio è esercitata a turno dagli Stati membri ogni semestre.

Le votazioni in seno al Consiglio sono prese a maggioranza semplice, a maggioranza

qualificata ovvero all’unanimità a seconda delle materie in discussione; quando è prevista la

votazione a maggioranza qualificata i voti dei singoli Stati membri vengono opportunamente

ponderati. Il Trattato di Amsterdam ha esteso il campo delle decisioni per le quali è sufficiente

la maggioranza qualificata dei voti.

Il Consiglio è assistito da un Segretariato Generale posto sotto la direzione di un Segretario

Generale, nominato dal Consiglio all’unanimità. Il calendario delle riunioni del Consiglio non è

rigido, anche se un certo numero di riunioni viene pianificato anno per anno, e anche se in

realtà il Consiglio si riunisce con notevole frequenza, di solito a Bruxelles o a Lussemburgo

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Parlamento europeo

artt. 189-201 Trattato CE

Istituzione delle Comunità europee, prevista dai trattati istitutivi, originariamente denominata

Assemblea; l’attuale denominazione è stata adottata il 30 marzo 1962.

Il Parlamento europeo si compone, attualmente, di 626 membri. A seguito della crescita del

numero dei parlamentari europei, dovuta alle nuove adesioni, il Trattato di Amsterdam ha

stabilito che in futuro essi non potranno essere in numero superiore a 700.

Ha sede a Strasburgo, ogni Stato ha diritto a un numero di parlamentari proporzionale al

numero dei suoi elettori quindi nel 2009 il numero totale non potrà essere superiore a 750,

ogni Stato potrà avvenire massimo sei seggi.

I membri del Parlamento europeo, in base ai trattati istitutivi, venivano designati dai singoli

Parlamenti nazionali, secondo le procedure stabilite da ciascuno Stato membro. La ripartizione

dei seggi tra gli Stati, inoltre, era stata attuata sulla base del loro diverso peso politico e

demografico, pur essendo stata garantita un’adeguata rappresentatività degli Stati minori. A

partire dal giugno 1979, sulla base della decisione del Consiglio n. 787 del 20 settembre 1976,

i membri del Parlamento europeo sono eletti in ogni Stato membro tramite suffragio universale

diretto e restano in carica per cinque anni.

Secondo quanto disposto dall’art. 10 del regolamento interno dell’istituzione, la sessione del

Parlamento europeo ha durata annuale. Il quorum per la validità della seduta è di un terzo dei

membri del Parlamento. All’inizio della sessione viene eletto il Presidente del Parlamento

europeo, che dirige i dibattiti e gode di vasti poteri disciplinari, e l’Ufficio di Presidenza del

Parlamento europeo.

Le deliberazioni del Parlamento europeo sono adottate a maggioranza assoluta dei suffragi

espressi (art.198), a meno che i trattati non dispongano diversamente; di solito si vota per

alzata di mano, ma può anche essere richiesto l’appello nominale.

Nato come organismo dotato di meri poteri consultivi, che si traducevano nell’emanazione di

un parere mai vincolante, il Parlamento europeo ha assunto un ruolo sempre più determinante

nel corso degli anni, colmando in parte il deficit democratico5 che caratterizzava l’originario

assetto istituzionale. Con l’Atto unico europeo, infatti, furono introdotte la procedura di

cooperazione, primo tentativo di inserire il Parlamento nel procedimento legislativo, e la

procedura del parere conforme. In seguito, le disposizioni del Trattato di Maastricht prima e

di quello di Amsterdam poi, hanno conferito al Parlamento europeo un ruolo determinante in

5 Deficit democratico Con questa espressione si fa riferimento agli scarsi poteri attribuiti, in ambito europeo, all’istituzione che più direttamente è espressione del corpo elettorale, il Parlamento europeo, mentre maggiore è il peso delle altre istituzioni i cui membri sono nominati dagli Stati, la Commissione delle Comunità europee ed il Consiglio dell’Unione europea. Tuttavia occorre ricordare che il ruolo del Parlamento europeo si è andato evolvendo nel corso degli anni. Infatti, mentre agli albori della sua attività gli erano attribuite esclusivamente funzioni consultive e di controllo politico, si è in seguito provveduto ad un ampliamento dei suoi poteri, soprattutto attraverso una sua più incisiva partecipazione al procedimento legislativo. Al concetto di deficit democratico hanno fatto riferimento soprattutto coloro i quali sostenevano la necessità di un contributo ancor più efficace del Parlamento europeo nell’ambito dell’iter decisionale comunitario, al fine di elevarlo a vero e proprio co-legislatore con il Consiglio.

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materia legislativa: pur senza attribuirgli la titolarità esclusiva del potere normativo, gli è stato

concesso di inserirsi a pieno titolo nel procedimento di formazione degli atti comunitari,

attraverso l’istituzione della procedura di codecisione e l’attribuzione al Parlamento di un

parziale potere d’iniziativa legislativa.

Il Parlamento europeo è titolare anche di poteri di controllo, che, unitamente a quelli

deliberativi, costituiscono una delle fondamentali prerogative di questa istituzione.

I poteri di controllo del Parlamento possono così suddividersi:

o controllo sugli atti delle istituzioni. Per quanto riguarda il Consiglio, tale controllo

riguarda essenzialmente il bilancio comunitario, mentre quello esercitato sulla

Commissione ha per oggetto la Relazione generale che tale istituzione è tenuta a

presentare annualmente al Parlamento;

o controllo sul bilancio;

o controllo sulle istituzioni. Nei confronti della Commissione, il Parlamento dispone di

un effettivo strumento di controllo giuridico rappresentato dalla mozione di censura;

sul Consiglio, invece, esercita un controllo politico attraverso pareri consultivi e

interrogazioni;

o controllo sull’apparato amministrativo. Si tratta di forme di controllo volte a

salvaguardare i diritti dei membri della Comunità, siano essi Stati, persone fisiche o

persone giuridiche. Tale forma di tutela è volta ad assicurare l’effettiva e corretta

applicazione del diritto comunitario nei confronti dei suoi destinatari. Le innovazioni più

significative alla luce del Trattato sull’Unione riguradano la possibilità per il Parlamento

di costituire una Commissione temporanea d’inchiesta, di nominare un Mediatore

europeo e di ricevere petizioni su materie di interesse comunitario.

Elezione del Parlamento europeo

art. 190 Trattato CE; Decisione 20 settembre 1976 n. 787/76/CEE, CECA, Euratom

A partire dal giugno 1979 i membri del Parlamento europeo vengono eletti in ogni Stato

membro tramite suffragio universale diretto, per un periodo di cinque anni. In precedenza i

membri del Parlamento europeo erano delegati dai rispettivi Parlamenti nazionali (l’elezione,

quindi, avveniva in secondo grado) e potevano essere designati solo coloro che avevano un

mandato nazionale. Le modalità di designazione non erano uniformemente stabilite, ma fissate

autonomamente da ogni Stato membro.

L’elezione a suffragio universale diretto del Parlamento europeo era già prevista dai trattati

istitutivi delle Comunità (art. 21 Trattato CECA, art. 108 Trattato Euratom e art. 138 Trattato

CEE). Questi, oltre ad indicare il sistema di elezione dei parlamentari europei delegati come

provvisorio, affermavano che il Parlamento europeo avrebbe elaborato progetti volti alla

realizzazione di una procedura di elezione uniforme per tutti gli Stati membri.

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Tra il 1951 e il 1976 si sono succeduti numerosi progetti volti all’istituzione della procedura di

elezione a suffragio universale diretto del Parlamento europeo, ma nessuno di essi ha mai

trovato concreta attuazione. Con l’atto del Consiglio del 1976 la questione della procedura

elettorale fu accantonata, lasciando liberi gli Stati membri di adottare la propria procedura. In

compenso il citato atto stabilì la data della prima elezione a suffragio universale (1979) e dettò

alcune regole per lo svolgimento delle consultazioni elettorali. In particolare fu stabilito che le

elezioni si svolgessero alla scadenza del mandato del Parlamento quasi contemporaneamente

in tutti gli Stati membri, in un giorno, scelto da ciascuno Stato, nell’ambito di un unico periodo

che va dal giovedì alla domenica successiva. In tutti gli Stati membri le elezioni europee si

svolgono ora secondo il sistema proporzionale; per le elezioni del 1999 anche il Regno Unito ha

abbandonato il sistema maggioritario.

L’armonizzazione delle procedure elettorali è prevista anche dal Trattato di Amsterdam, che

ha modificato l’art.138 del Trattato CE (ora art.190) affermando che “il Parlamento europeo

elaborerà un progetto inteso a permettere l’elezione a suffragio universale diretto, secondo una

procedura uniforme in tutti gli Stati membri o conformemente a principi comuni a tutti gli Stati

membri”. In pratica, con l’aggiunta di quest’ultimo periodo, gli Stati membri hanno preso atto

delle difficoltà nello stabilire una procedura applicabile su tutto il territorio comunitario e hanno

optato per un semplice ravvicinamento delle diverse legislazioni nazionali stabilendo dei

principi comuni. In attuazione di tale articolo, il 2 giugno 1998 la Commissione per gli affari

istituzionali del Parlamento europeo ha elaborato una relazione contenente i principi comuni di

cui all’art.190, proponendo l’elezione dei rappresentanti al Parlamento con un sistema

elettorale di tipo proporzionale e con l’istituzione di circoscrizioni elettorali uniformi in ciascuno

Stato membro

Presidente del Parlamento europeo

art. 197 Trattato CE; artt. 14, 17-19 Regolamento interno del Parlamento europeo

È eletto per due anni e mezzo dal Parlamento a maggioranza assoluta dei voti espressi, nei

primi tre turni; al quarto turno si procede al ballottaggio tra i due candidati più votati dei turni

precedenti.

Il Presidente forma, insieme ai quattordici vicepresidenti del Parlamento europeo e ai cinque

questori, l’Ufficio di presidenza.

Il Presidente, che riveste un ruolo politico di primaria importanza, esercita le seguenti funzioni:

o di protocollo e di rappresentanza;

o dirige i lavori e i dibattiti del Parlamento, esercitando anche poteri disciplinari per

regolare lo svolgimento delle discussioni;

o è invitato ad esprimersi all’inizio dei lavori del Consiglio europeo.

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Egli inoltre svolge un ruolo di notevole importanza nel dialogo tra le diverse istituzioni della

Comunità: ad esempio insieme al Presidente della Commissione e al Presidente del Consiglio

partecipa alle riunioni per risolvere le questioni sull’attribuzione delle spese in bilancio.

Ufficio di Presidenza del Parlamento europeo

art. 197 Trattato CE; artt. 5, 9,11, 17, 21-30, 166, 182, 183 Regolamento interno del

Parlamento europeo

Organo del Parlamento europeo composto, oltre che dal Presidente, da quattordici

vicepresidenti e da cinque questori, in carica per due anni e mezzo. Questi ultimi svolgono

funzioni consultive e sono incaricati di compiti amministrativi e finanziari riguardanti

direttamente i deputati.

All’Ufficio di Presidenza sono attribuiti i seguenti compiti:

— adotta decisioni di carattere finanziario, organizzativo e amministrativo relative ai

deputati, all’organizzazione interna del Parlamento, al suo Segretario e ai suoi organi;

— disciplina le questioni relativa allo svolgimento delle sedute;

— organizza la segreteria del gruppo dei non iscritti, nonché la loro posizione e le loro

prerogative parlamentari;

— nomina il Segretario generale e stabilisce l’organigramma del Segretariato generale;

— decide sulla richiesta delle commissioni parlamentari di svolgere altrove le proprie

riunioni, nonché di organizzare un’udienza di esperti qualora lo ritengano necessario;

— stabilisce il progetto preliminare dello stato di previsione del Parlamento.

Segretariato generale

Organo complesso delle organizzazioni internazionali, avente funzioni di assistenza

amministrativa e tecnica di altri organi dell’organizzazione medesima. La struttura e le funzioni

del segretariato generale sono analiticamente disciplinate dalle Convenzioni istitutive e dai

relativi regolamenti di attuazione dell’organizzazione in cui è incardinato. I componenti del

segretariato generale rivestono la qualifica di funzionari internazionali

Commissioni parlamentari

artt. 150-167 Regolamento interno Parlamento europeo

La maggior parte dei lavori del Parlamento europeo è svolta all’interno di commissioni

permanenti specializzate, individuate dal regolamento interno dell’istituzione.

Tali commissioni (attualmente in numero di 17) sono suddivise a loro volta in

sottocommissioni, e sono incaricate di esaminare tutte le questioni di loro competenza

sottoposte dal Parlamento.

I membri delle commissioni sono inizialmente designati dai gruppi politici e dai deputati non

iscritti; successivamente spetta alla Conferenza dei presidenti presentare una propria proposta,

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che, se non viene modificata dall’Assemblea, costituisce la fase finale di nomina. I membri

delle commissioni durano in carica due anni e mezzo. La composizione delle varie commissioni

riflette, per quanto possibile, la composizione del Parlamento.

Oltre alla normale attività legislativa, le commissioni redigono anche rapporti di carattere non

legislativo, comprendenti proposte di risoluzioni o di iniziative diverse.

Accanto alle commissioni permanenti è possibile istituire, su proposta della Conferenza dei

presidenti, commissioni temporanee o d’inchiesta, con un mandato che non può superare i

dodici mesi (a meno che il Parlamento non prolunghi questo periodo alla sua scadenza).

Commissioni parlamentari permanenti

I Affari esteri e sicurezza - (AFET)

II Bilanci - (BUDG)

III Controllo bilanci - (CONT)

IV Libertà, diritti dei cittadini, giustizia e affari interni - (LIBE)

V Affari economici e monetari - (ECON)

VI Questioni giuridiche e mercato interno - (SURI)

VII Industria, commercio estero, ricerca, energia - (INDU)

VIII Occupazioni e affari sociali - (EMPL)

IX Ambiente, sanità e politica dei consumatori - (ENVI)

X Agricoltura e sviluppo rurale - (AGRI)

XI Pesca - (PECH)

XII Politica regionale, trasporti e turismo (REGI)

XIII Cultura, gioventù, istruzione, mezzi d’informazione e sport - (CULT)

XIV Sviluppo e cooperazione - (DEVE)

XV Affari costituzionali - (AFCO)

XVI Diritti della donna e pari opportunità (FEMM)

XVII Petizioni - (PETI)

Corte di Giustizia delle Comunità europee

artt. 220-245 Trattato CE; Protocollo 17 aprile 1957

La Corte di Giustizia assicura il rispetto del diritto comunitario nell’interpretazione e

nell’applicazione dei Trattati e degli atti normativi derivati.

Così come il Parlamento europeo, la Corte è unica per le tre Comunità, avendo assorbito le

competenze precedentemente spettanti alla Corte di Giustizia della CECA.

La Corte di Giustizia ha una competenza di attribuzione nel senso che può intervenire solo nei

casi espressamente previsti dai trattati. Gli articoli 221-224 del Trattato CE regolano la

composizione della Corte. Inizialmente di essa facevano parte sette giudici, assistiti da due

avvocati generali. In seguito all’adesione di nuovi Stati alla Comunità il numero dei giudici e

quello degli avvocati è aumentato: attualmente è di 15 giudici e 8 avvocati generali. Sia i

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giudici che gli avvocati sono nominati di comune accordo dai governi degli Stati membri. L’art.

223 del Trattato CE precisa che essi debbono essere scelti fra “personalità che offrano tutte le

garanzie di indipendenza, e che riuniscano le condizioni richieste per l’esercizio, nei rispettivi

paesi, delle più alte funzioni giurisdizionali, ovvero che siano giureconsulti di notoria

competenza”.

I giudici e gli avvocati generali restano in carica sei anni, ma ogni tre anni avviene un

rinnovamento parziale; il mandato è rinnovabile.

La Corte nomina ogni tre anni il Presidente, che dirige i lavori e le sedute. Le sedute sono di

solito plenarie, ma è possibile creare delle sezioni, composte da tre, cinque o sette giudici.

La ripartizione delle cause tra sezioni è decisa dal Presidente sulla base di criteri di massima

stabiliti dalla Corte. La Corte, tuttavia, si riunisce sempre in seduta plenaria qualora lo richieda

uno Stato membro o un’istituzione comunitaria che è parte dell’istanza.

Infine, è previsto per la Corte un Cancelliere, con importanti funzioni giudiziarie e

amministrative.

Per far fronte al progressivo aumento del carico di lavoro della Corte, l’Atto Unico Europeo ha

previsto la possibilità che, su domanda della Corte stessa e previa convocazione della

Commissione e del Parlamento europeo, il Consiglio potesse istituire una giurisdizione di primo

grado competente a conoscere di talune categorie di ricorsi proposti da persone fisiche o

giuridiche, con riserva di impugnazione davanti alla Corte di Giustizia per motivi di diritto. Dal

1989 la Corte è pertanto affiancata da un Tribunale di primo grado.

La procedura davanti alla Corte comprende una fase scritta, con scambio di memorie fra le

parti, ed una fase orale, introdotta dalla relazione del giudice relatore.

Le udienze della Corte sono di regola pubbliche, diversamente dalle deliberazioni che sono e

restano segrete.

Le sentenze, firmate dal Presidente e dal Cancelliere, devono essere motivate e lette in

pubblica udienza. Esse sono definitive e soggette a revisione soltanto in casi eccezionali; hanno

efficacia vincolante per le parti in causa e forza esecutiva all’interno degli Stati membri, alle

condizioni fissate dall’art. 256 del Trattato CE per le decisioni comportanti obblighi pecuniari a

carico di privati.

Le competenze della Corte sono varie ed eterogenee e riguardano in particolare:

— competenza in tema di inadempimento degli Stati (Ricorso per inadempimento). I

ricorsi sono proponibili dalla Commissione o da uno degli Stati membri;

— controllo di legittimità sugli atti comunitari (Ricorso per annullamento). Tale

controllo si estende agli atti vincolanti del Consiglio dell’Unione europea e della

Commissione, nonché a quelli adottati congiuntamente dal Parlamento europeo e dal

Consiglio, quelli del Parlamento europeo destinati a produrre effetti nei confronti degli

Stati terzi e quelli della BCE;

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— controllo sul comportamento omissivo delle istituzioni (v. Ricorso in carenza). Sono

legittimati a ricorrere: gli Stati membri, le istituzioni diverse da quella imputata di

carenza nonché le persone fisiche e giuridiche e la BCE limitatamente alle materie che

rientrano nella sua competenza;

— competenza in tema di questioni pregiudiziali (v. Rinvio pregiudiziale). Qualora

davanti ad un giudice ordinario è sollevata una questione di interpretazione dei Trattati

CE o di atti vincolanti adottati dalle istituzioni comunitarie e dalla BCE, il giudice può, o

deve se di ultima istanza, sospendere il processo e chiedere una pronuncia della Corte.

La pronuncia è vincolante nel giudizio in questione e per tutte le eventuali

interpretazioni successive.

Il Trattato di Amsterdam ha previsto che la Corte possa pronunciarsi in via pregiudiziale

sulla validità o sulla interpretazione delle decisioni e delle decisioni-quadro adottate in

materia di cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale, nonché

sull’interpretazione delle misure di applicazione delle stesse.

Tribunale di primo grado

art. 225 Trattato CE;

Decisione 24 ottobre 1988, n. 88/591/CECA/CEE/EURATOM;

Decisione 8 giugno 1993, n. 93/350/CECA/CEE/EURATOM

Per far fronte al progressivo aumento del carico di lavoro della Corte di Giustizia l’Atto unico

europeo ha previsto la possibilità che, su domanda della Corte stessa e previa convocazione

della Commissione e del Parlamento europeo, il Consiglio potesse istituire una giurisdizione di

primo grado competente a conoscere di talune categorie di ricorsi proposti da persone fisiche o

giuridiche, con riserva di impugnazione davanti alla Corte di Giustizia per motivi di diritto. Di

qui la decisione del Consiglio del 24 ottobre 1988, n. 591 che ha provveduto ad istituire il

Tribunale di primo grado delle Comunità europee.

L’art. 225 ha recepito con carattere di definitivà tale decisione, nella misura in cui affianca alla

Corte di Giustizia una giurisdizione di primo grado a carattere permanente.

Il Tribunale ha la propria sede in Lussemburgo, presso la Corte di Giustizia.

Esso è composto di 15 membri, nominati di comune accordo dai governi degli Stati membri,

per un periodo di 6 anni con criteri analoghi a quelli seguiti per i membri della Corte. Il

Tribunale siede in sezioni composte di tre o cinque giudici; nei casi previsti dal regolamento di

procedura può riunirsi in seduta plenaria o statuire nella persona di un giudice unico. È lo

stesso regolamento di procedura che provvede a stabilire la composizione delle sezioni.

In via generale le sezioni non sono assistite da un avvocato generale: tuttavia, in casi

particolari, la sezione è tenuta a farne formale richiesta al Tribunale, che deciderà in seduta

plenaria.

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La presenza dell’avvocato generale è prevista invece come continuativa e permanente

nell’adunanza plenaria.

Il Tribunale di primo grado è competente in materia:

— di controversie tra la Comunità ed i suoi agenti;

— di ricorso per annullamento, per carenza e per responsabilità extracontrattuale

promosse da persone fisiche nell’ambito del Trattato;

— di ricorsi per annullamento e per carenza promossi da persone fisiche o giuridiche;

— di ricorsi per responsabilità extracontrattuale delle Comunità promossi da persone

fisiche o giuridiche;

— di ricorsi promossi da persone fisiche o giuridiche contro i provvedimenti emessi nel

campo della protezione commerciale, in caso di dumping e sovvenzioni.

La procedura davanti al Tribunale è fondamentalmente analoga a quella prevista davanti alla

Corte, comprendendo una fase scritta, con scambio di memorie tra le parti, ed una fase orale,

che è introdotta dalla relazione del giudice relatore.

Come quelle della Corte, le udienze del Tribunale sono di regola pubbliche, mentre le sue

deliberazioni sono segrete.

Per la decisione della causa è necessario un quorum di tre giudici, quando è riunito in sezione,

di nove in adunanza plenaria. Alle deliberazioni partecipano solo i giudici intervenuti in

udienza.

Le decisioni del Tribunale sono soggette ad impugnazione davanti alla Corte, alla quale sono

legittimati le parti soccombenti (totalmente o parzialmente), gli Stati membri e le istituzioni

della Comunità (anche se non sono intervenuti in primo grado dinanzi al Tribunale).

Questa particolarità fa sì che, in caso di accoglimento dell’impugnazione proposta da Stati

membri o istituzioni comunitarie non intervenuti in primo grado, la Corte ha facoltà di precisare

gli effetti della decisione del Tribunale da considerarsi definitivi per le partecipazioni.

Lo scopo dell’istituzione del Tribunale è stato quello di esonerare la Corte dall’esame dei fatti in

settori di particolare complessità.

Il principio dell’unicità della giurisdizione resta tuttavia garantito:

— dalla impugnabilità delle sentenze del Tribunale di primo grado dinanzi alla Corte di

Giustizia;

— dalla giurisdizione esclusiva della Corte di Giustizia nei ricorsi contro atti normativi o

atti di interesse generale.

Corte dei conti delle Comunità europee

artt. 246-248 Trattato CE; Regolamento interno 22-23 febbraio 1995

Organo di controllo sulla gestione finanziaria della Comunità, istituito dal Trattato di

Bruxelles (v.) del 22 luglio 1975 ed insediato a Lussemburgo nel 1977.

L’art. 7 del Trattato CE ha elevato la Corte al rango di istituzione comunitaria: ciò spiega il

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trasferimento delle disposizioni ad essa relative nella parte quinta del trattato, che concerne le

“disposizioni istituzionali”.

La Corte è composta attualmente di 15 membri (uno per ogni Stato), nominati dal Consiglio

all’unanimità, dopo consultazione del Parlamento europeo, che restano in carica per 6 anni.

I membri della Corte dei Conti devono essere scelti tra persone competenti, che offrano

garanzia di indipendenza.

Alla Corte è stata attribuita una competenza di controllo generale: essa esamina, in base

all’art. 248 del Trattato CE, i conti di tutte le entrate e le spese della Comunità, nonché di ogni

organismo creato dalla stessa, a meno che l’atto costitutivo non esclude espressamente tale

riesame.

Per lo più si tratta di un controllo formale di legittimità, ossia d’un controllo diretto a verificare

la correttezza e la regolarità della gestione finanziaria. Talvolta la Corte dei Conti esercita

anche un controllo di tipo sostanziale o di efficienza sulla gestione finanziaria considerata nel

suo insieme (POCAR). Questa istituzione, organo di controllo per eccellenza, svolge un ruolo

determinante nei riguardi di quello che è il maggiore documento contabile: il bilancio

comunitario. Ad essa spetta il controllo esterno sulla relativa gestione, unitamente agli atti

della Comunità che impegnano le sue risorse, quando si chiude l’esercizio finanziario oppure in

un momento precedente, quello dell’impegnativa.

Il controllo della Corte si esplica attraverso una relazione, che racchiude i tipi di controllo

effettuati sulla gestione. Tale documento consta di due parti:

— una relativa all’esecuzione del bilancio generale della Comunità;

— l’altra relativa ai fondi europei di sviluppo (FES; FESR).

È in questo modo che la Corte si affianca al Consiglio e al Parlamento europeo nella

responsabile opera di gestione.

Il controllo può essere esercitato sui documenti, ma la Corte possiede anche un potere

d’ispezione che può effettuare sul posto: presso le istituzioni della Comunità e negli Stati

membri, tenuti a collaborare.

Il Trattato di Amsterdam ha esteso tale potere di ispezione anche ai locali di qualsiasi

organismo che gestisca le entrate e le spese per conto delle Comunità compresi i locali di

persone fisiche e giuridiche che ricevono contributi a carico del bilancio comunitario.

Viene inoltre riconosciuto alla Corte il diritto di accedere alle informazioni della BEI,

relativamente alla gestione delle entrate e delle spese della Comunità, attraverso un accordo

fra Banca, Corte e Commissione.

L’art. 248, al secondo comma, fa obbligo alla Corte dei Conti di presentare al Consiglio e al

Parlamento europeo una dichiarazione in cui attesta l’affidabilità dei conti e la legittimità e

regolarità delle relative operazioni.

Accanto alla competenza generale di controllo, la Corte dei Conti dispone inoltre di un generale

potere consultivo nelle materie di sua competenza. Tale funzione può avere carattere:

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— obbligatorio, nei casi previsti dall’art. 279 del Trattato CE;

— facoltativo, ogni qualvolta una delle istituzioni della Comunità richieda il suo parere.

Inoltre la Corte può, in ogni momento, presentare di propria iniziativa le sue osservazioni su

problemi particolari.

Comitato delle Regioni

artt. 263-265 Trattato CE

Organo a carattere consultivo istituito dal Trattato di Maastricht e composto di rappresentanti

delle collettività regionali e locali nominati, su proposta dei rispettivi Stati membri, per quattro

anni dal Consiglio dell’Unione europea che delibera all’unanimità. È formato da 222 membri.

Essi esercitano le loro funzioni in piena indipendenza, nell’interesse generale della Comunità, e

non sono vincolati da alcun mandato.

Il Comitato delle Regioni è convocato dal Presidente, che dura in carica 2 anni, su richiesta del

Consiglio o della Commissione delle Comunità europee, ma può anche riunirsi di propria

iniziativa. Nel consultare il Comitato, il Consiglio e la Commissione fissano, qualora lo ritengano

opportuno, un termine per la presentazione del suo parere; tale termine non può essere

inferiore ad un mese a decorrere dalla data della comunicazione inviata a tal fine al Presidente.

Il Comitato delle Regioni, qualora lo ritenga utile, può formulare un parere di propria iniziativa.

I membri del Comitato (222) sono così suddivisi: Germania, Francia, Italia e Regno Unito 24;

Spagna 21; Belgio, Austria, Svezia, Grecia, Paesi Bassi e Portogallo 12; Danimarca, Finlandia e

Irlanda 9; Lussemburgo 6.

BEI [Banca Europea degli Investimenti]

Istituto finanziario che ha il compito di contribuire, facendo appello al mercato dei capitali ed

alle proprie risorse, allo sviluppo equilibrato della Comunità europea. Dispone di un proprio

capitale, sottoscritto fin dall’inizio dagli Stati membri e periodicamente aumentato.

È stata istituita con il Protocollo del 25 marzo 1957 (atto autonomo allegato al Trattato CE):

essa appoggia quelle iniziative economiche dei singoli Stati membri che i governi nazionali non

sono in grado di finanziare ma la cui realizzazione si rivela di volta in volta opportuna al fine di

attenuare gli squilibri esistenti tra regioni o fra settori produttivi all’interno della compagine

comunitaria.

La BEI non ha fini di lucro e può concedere prestiti sia ai governi che ai privati. Dotata di

propria personalità giuridica distinta da quella della Comunità, è retta dal Consiglio dei

Governatori (responsabile degli indirizzi creditizi), dal Consiglio di amministrazione (che

approva i finanziamenti) e dal Consiglio direttivo (che cura l’attività operativa).

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Mediatore europeo

art. 195 Trattato CE; Decisione 9 marzo 1994, n. 262/94/CE/CECA/EURATOM;

Disposizioni di esecuzione 16 ottobre 1997

Figura introdotta con il Trattato di Maastricht, il mediatore è nominato dopo ogni elezione del

Parlamento europeo per la durata della legislatura e dispone di un mandato rinnovabile. Egli

esercita le sue funzioni in piena indipendenza; per tutta la durata del suo mandato non può

esercitare alcuna altra attività professionale.

Il mediatore è abilitato a ricevere le denunce di qualsiasi persona fisica o giuridica che,

rispettivamente, risieda o abbia sede in uno Stato membro, e di qualsiasi cittadino dell’Unione,

riguardanti i casi di cattiva amministrazione da parte degli organi comunitari, salvo comunque

l’esercizio delle funzioni giurisdizionali da parte della Corte di giustizia e del Tribunale di primo

grado.

Si parla di cattiva amministrazione quando un’istituzione omette di compiere un atto dovuto,

opera in modo irregolare o agisce in maniera illegittima (ad esempio vi sono irregolarità

amministrative, iniquità, discriminazioni, abuso di potere, carenza o rifiuto di fornire

informazioni, ritardi ingiustificati etc. La denuncia può essere presentata al mediatore in una

qualunque delle lingue ufficiali6 dell’Unione, indicando chiaramente le proprie generalità,

l’istituzione o l’organo contro il quale si intende procedere ed i motivi che inducono a farlo. La

denuncia deve essere presentata entro due anni dalla data in cui si è avuta conoscenza dei

fatti contestati. Non è necessario che il denunciante sia stato personalmente vittima del caso di

cattiva amministrazione segnalato, anche se è fondamentale che vi sia stato un precedente

interpello dell’istituzione interessata. La denuncia può essere inoltrata tramite semplice lettere

o utilizzando il formulario predisposto dal mediatore.

Di propria iniziativa, ovvero sulla base delle denunce presentategli direttamente o tramite un

membro del Parlamento europeo, il mediatore compie le indagini necessarie e, qualora constati

un caso di cattiva amministrazione, ne investe l’autorità interessata che, entro 3 mesi, dovrà

pronunciarsi con un parere. Egli trasmette quindi una relazione al Parlamento europeo ed

all’istituzione interessata, mentre la persona che ha sporto denuncia viene informata dei

risultati dell’indagine; annualmente inoltre presenta al Parlamento europeo una relazione sui

risultati delle sue indagini.

La disposizione relativa alla nomina del Mediatore ha trovato la sua prima applicazione nel

mese di luglio del 1995 con la designazione da parte del Parlamento del finlandese Jacob

Sodermann, riconfermato nel 1999.

6 Lingue ufficiali Le lingue ufficiali della Comunità sono attualmente undici: inglese, francese, tedesco, spagnolo, italiano, portoghese, greco, olandese, svedese, finlandese e danese. Sebbene le lingue più usate siano l’inglese e il francese, ogni documento deve essere necessariamente tradotto in tutte le lingue.

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Petizione

art. 194 Trattato CE; artt. 174-176 Regolamento interno del Parlamento europeo

Istanza rivolta al Parlamento europeo su materie rientranti nel campo d’azione della Comunità

europea o in materie che la riguardano direttamente.

Legittimati attivi sono i cittadini dell’Unione europea nonché ogni persona fisica o giuridica che

risiede o abbia la propria sede in uno degli Stati membri: il diritto può essere esercitato sia a

titolo individuale, che a titolo collettivo.

Non si richiedono requisiti formali particolari per redigere la petizione, purché essa contenga le

generalità del richiedente (nome, cognome, nazionalità, professione e domicilio) sia scritta in

maniera chiara e leggibile e sia firmata. La stessa può essere redatta in una delle lingue

ufficiali della Comunità. Una volta ricevuta la petizione, il Parlamento la trasmette ad una

Commissione specializzata (detta appunto Commissione per le petizioni) che ha il compito di

valutare la pertinenza della richiesta.

In caso positivo, dichiarata ricevibile la richiesta, si passa all’esame del merito, dopodiché la

Commissione deciderà le misure da adottare.

Della decisione finale verranno adeguatamente informati, con debita motivazione, gli autori

delle petizioni.

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Le fonti del diritto comunitario

Le fonti del diritto comunitario sono costituite da:

1. trattati costitutivi; che costituiscono il diritto comunitario originario;

2. atti emanati dalle istituzioni comunitarie, costituiscono il diritto comunitario derivato;

3. accordi con Stati terzi.

Le fonti si dividono in tre gradi:

1° i trattati sibillini che hanno bisogno di una legge di autorizzazione alla ratifica e l'ordine di

esecuzione

2° i regolamenti comunitari, direttive, decisioni, atti;

3° i regolamenti della commissione di attuazione degli atti emanati dal consiglio dell'Unione

Europea.

La sfera di applicazione del diritto comunitario coincide con quella dei diritti nazionali comprese

le zone di mare e gli spazi aerei.

a funzione legislativa del Parlamento europeo del consiglio dei ministri.

I principi di diritto comunitario

La corte di giustizia e l'unica istituzione competente ad interpretare le norme comunitarie.i

principi generali del diritto sono mutuati dei sistemi giuridici nazionali esso certezza del diritto

proporzionale dà dell'azione e diretta applicabilità.

La nostra costituzione del 1948 essendo stata emanata prima dell'istituzione della comunità

europea nulla prevede in materia nel nostro paese trattati istitutivi della comunità sono stati

recepiti mediante ordine di esecuzione adottato con legge ordinaria a norma dell'articolo 11

che consente la limitazione di sovranità per assicurare la pace tra paesi.

Principi generali di diritto comunitario

L’individuazione dei principi generali di diritto comunitario è avvenuta ad opera della Corte di

Giustizia che, nello svolgimento della sua funzione volta ad assicurare il rispetto del diritto

nell’interpretazione e nell’attuazione dei trattati, prevista dall’art. 220, ha colmato alcune

lacune normative presenti nei trattati comunitari, dato il loro carattere iniziale prettamente

economico, formando di conseguenza un diritto comunitario non scritto.

In tal senso anche la Corte di Giustizia che, nella sentenza n. 309 del 18 dicembre 1997 ha

affermato che “i principi generali del diritto sono parte integrante dell’ordinamento comunitario

soltanto nella misura in cui sono collegati a situazioni disciplinate dal diritto comunitario”. In

particolare la sentenza fa riferimento alla protezione dei diritti individuali, riconosciuti e tutelati

dall’ordinamento comunitario, ma solo con riferimento a situazioni disciplinate da tale

ordinamento.

I principi generali si pongono al vertice delle fonti di diritto comunitario rientrando nella

categoria del diritto comunitario originario: essi, quindi, non possono essere disattesi dalle

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istituzioni comunitarie né dagli Stati membri nell’esercizio delle proprie competenze.

La Corte di Giustizia è l’unica istituzione competente ad interpretare le norme comunitarie,

ricorrendo ai principi generali e colmando in tal modo le lacune del diritto comunitario.

Si suole distinguere i principi generali in due categorie:

— principi generali di diritto mutuati dai sistemi giuridici nazionali che, essendo comuni ad

ogni ordinamento giuridico, rappresentano la base comune dell’ordinamento

comunitario. Tra di essi si suole ricordare: la certezza del diritto, la irretroattività della

legge penale, la proporzionalità dell’azione amministrativa, il rispetto dei diritti quesiti,

l’affidamento dei terzi in buona fede, la forza maggiore etc.;

— principi generali propri del diritto comunitario. Possono ricavarsi dai testi scritti

dell’ordinamento comunitario o possono desumersi dalla natura e dalle finalità

dell’organizzazione. Rientrano in questo gruppo i principi di solidarietà tra gli Stati

membri, della preferenza comunitaria, del primato del diritto comunitario, del mutuo

riconoscimento, della diretta applicabilità del diritto comunitario, dell’equilibrio

istituzionale etc.

Il Trattato CE richiama espressamente i principi generali di diritto solo all’art. 288 in materia di

responsabilità extracontrattuale della Comunità quando afferma che “la Comunità deve

risarcire, conformemente ai principi generali comuni ai diritti degli Stati membri, i danni

cagionati dalle sue istituzioni o dai suoi agenti nell’esercizio delle loro funzioni”.

Il nucleo centrale dei principi generali, però, è quello che riguarda la tutela dei diritti

fondamentali dell’uomo. L’esigenza di una tutela in tale ambito è stata affermata fin dal 1969

dalla Corte di Giustizia che ha cercato di colmare questa grave lacuna dei trattati comunitari

attraverso la sua giurisprudenza.

Diritto comunitario

Complesso di norme che regolano l’organizzazione e lo sviluppo delle Comunità europee

nonché i rapporti tra queste e gli Stati membri.

Le fonti del diritto comunitario sono costituite:ù

— dai trattati istitutivi, così come integrati dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia e

modificati da atti successivi cd Diritto comunitario originario;

— dagli atti emanati dalle istituzioni comunitarie costituenti il cd. diritto comunitario

derivato;

— dagli accordi con Stati terzi.

I trattati istitutivi (così come gli accordi con Stati terzi) rappresentano le fonti di 1° grado

dell’ordinamento giuridico comunitario: le norme in essi contenute non potranno quindi essere

disattese dagli atti delle istituzioni comunitarie. Questi atti, ovvero regolamenti comunitari,

direttive, decisioni e altri atti non vincolanti, costituiscono infatti le fonti di 2° grado: il sistema

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normativo è completato dalle fonti di 3° grado costituite da quei regolamenti della

Commissione di attuazione degli atti emanati dal Consiglio dell’Unione Europea.

Le norme dei trattati istitutivi e le modificazioni ed integrazioni convenzionali hanno un impatto

con il nostro ordinamento come una norma internazionale pattizia. È necessaria, quindi, per

l’Italia, la legge di autorizzazione alla ratifica e l’ordine di esecuzione. Viceversa per il diritto

comunitario derivato non occorre una procedura speciale di adattamento, ma si porranno in

essere dei provvedimenti normativi (leggi, decreti legislativi, decreti presidenziali, atti

amministrativi) per l’attuazione dell’atto comunitario.

Per ciò che riguarda la sfera di applicazione territoriale del diritto comunitario, esso coincide

con quella dei diritti nazionali, comprese le zone di mare e gli spazi aerei e i territori europei di

cui uno Stato membro abbia la rappresentanza nei rapporti esterni, ex art. 299, n. 4, Trattato

CE. Per alcuni territori sono poi previsti regimi particolari, quali ad es. i cd. paesi e territori

d’oltremare che sono sottoposti ad uno speciale regime di associazione.

L’ordinamento giuridico comunitario ha bisogno degli ordinamenti nazionali per il

raggiungimento degli obiettivi fissati: gli atti giuridici della Comunità, infatti, non solo devono

essere osservati dagli organi degli Stati membri, ma devono anche essere applicati da questi

ultimi. Questo stretto collegamento tra i due ordinamenti non intacca, tuttavia, il principio

dell’autonomia del diritto comunitario rispetto all’ordinamento giuridico statale.

Questo principio è stato elaborato dalla Corte di Giustizia delle Comunità europee già nel 1963,

nella famosa sentenza Van Gend & Loos. In quell’occasione, infatti, la Corte aveva affermato

che “la Comunità Economica Europea costituisce un ordinamento giuridico di nuovo genere nel

campo del diritto internazionale, a favore del quale gli Stati membri hanno rinunciato, seppure

in settori limitati, ai loro poteri sovrani ed al quale sono soggetti non soltanto gli Stati membri,

ma pure i loro cittadini”.

L’esigenza di affermare e ribadire con forza il principio dell’autonomia del diritto comunitario

deriva dalla necessità di impedire che quest’ultimo possa essere svuotato nei suoi contenuti da

disposizioni nazionali e garantire una uniforme applicazione su tutto il territorio della Comunità.

In caso contrario, infatti, qualsiasi disposizione nazionale potrebbe introdurre

un’interpretazione restrittiva delle norme comunitarie che non assicurerebbe più una uniforme

applicazione sul territorio della Comunità.

Tuttavia l’autonomia del diritto comunitario non implica una netta separazione o una semplice

sovrapposizione con gli ordinamenti degli Stati membri. A differenza di quanto avviene tra

ordinamento interno e internazionale nel caso delle Comunità si instaura una stretta

integrazione e interdipendenza tra i due ordinamenti.

In quest’ottica può operarsi una distinzione tra:

— rapporto tra ordinamento internazionale e ordinamento interno: in questo caso si deve

parlare di un rapporto di coordinamento, dal momento che sono due ordinamenti

autonomi, ciascuno dei quali non è subordinato all’altro;

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— rapporto tra ordinamento comunitario e ordinamento degli Stati membri: in questo

caso si tratta di un rapporto di integrazione, dato che il primo è destinato ad integrarsi

nel secondo.

Gli elementi dei quali si può desumere l’esistenza di tale rapporto sono i seguenti:

— in primo luogo, tra i due ordinamenti vi è comunità di soggetti, dal momento che i

soggetti dell’ordinamento interno sono anche i destinatari delle norme comunitarie;

— in secondo luogo è riscontrabile una comunità di poteri, in quanto gli organi comunitari

possono talvolta emettere dei comandi che operano direttamente sui soggetti di diritto

interno;

— infine è rilevabile una comunità di garanzie, perchè sia i soggetti di diritto comunitario

che quelli di diritto interno possono adire direttamente gli organi giurisdizionali

comunitari per ottenere il rispetto delle norme comunitarie.

Proprio questa stretta integrazione tra i due ordinamenti potrebbe condurre in alcuni casi a

situazioni di conflitto tra norme comunitarie e disposizioni nazionali, sia anteriori che posteriori,

in particolare per quelle disposizioni che attribuiscono direttamente ai singoli cittadini diritti e

doveri. Tale contrasto, più volte verificatosi nei primi anni di applicazione del Trattato CE, è

stato risolto dalla Corte di Giustizia delle Comunità che, attraverso una costante

giurisprudenza, ha delineato nettamente i due principi cardine che regolano i rapporti tra

ordinamento comunitario e ordinamento degli Stati membri:

— il principio della diretta applicabilità del diritto comunitario;

— il principio della preminenza del diritto comunitario rispetto alla norma conflittuale

statale cd. Principio del primato del diritto comunitario.

Diritto comunitario originario

Insieme delle norme che contengono i principi giuridici fondamentali sui quali si fondano le

Comunità europee. Questi principi rappresentano, insieme agli accordi con Stati terzi, che

traggono la loro validità giuridica dai trattati istitutivi, il cd. diritto primario della Comunità,

in quanto espressione diretta della volontà degli Stati firmatari.

Il diritto comunitario originario comprende i trattati istitutivi delle Comunità europee, compresi

gli allegati e i protocolli, nonché gli atti che nel corso del tempo li hanno modificati e integrati,

come i trattati di adesione, l’Atto unico europeo, il Trattato di Maastricht e il Trattato di

Amsterdam. Le norme in essi contenute non possono essere disattese dagli atti delle istituzioni

comunitarie e non possono essere oggetto di interventi giurisdizionali.

I trattati istitutivi, però, non contengono un’elencazione dettagliata dei principi fondamentali

dell’organizzazione comunitaria. Ciò è dovuto al fatto che la Comunità, nata come unione

economica, ha posto le basi per la regolamentazione di queste discipline; a seguito della sua

evoluzione, l’ambito di applicazione del diritto comunitario si è notevolmente ampliato,

ricomprendendo anche problematiche, quali il rispetto dei diritti umani, che esulano dal settore

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strettamente economico. L’adeguamento quindi dei principi generali alla realtà avviene

attraverso l’opera delle istituzioni comunitarie che, in virtù dei poteri legislativi ed

amministrativi attribuiti loro dai trattati istitutivi, emanano gli atti giuridici delle Comunità.

L’esigenza di dotare le Comunità di un documento contenente i principi giuridici fondamentali si

è tradotta nella proposta, avanzata durante il Consiglio europeo di Tampere dell’ottobre 1999,

di istituire un organo ad hoc incaricato di elaborare un progetto di Carta dei diritti fondamentali

dell’Unione europea.

I principi generali che formano il diritto comunitario originario, pur non essendo esplicitamente

ordinati in forma gerarchica, non hanno tutti lo stesso valore. Di alcuni di essi (principio di

democrazia, solidarietà, non discriminazione) la Corte di Giustizia, attraverso la sua

giurisprudenza, ha sancito la maggiore forza e ne ha affermato l’immodificabilità anche

attraverso la procedura di revisione dei trattati.

Diritto comunitario derivato

art. 249 Trattato CE

Insieme di norme giuridiche emanate dagli organi comunitari per la realizzazione degli obiettivi

definiti dai trattati.

Il Trattato istitutivo della Comunità europea, in quanto trattato quadro, si limita a definire i

principi e gli obiettivi generali della Comunità, lasciando alle istituzioni ampi poteri circa la loro

realizzazione attraverso l’emanazione di specifiche norme.

Tali norme costituiscono il cd. diritto derivato, in quanto promanano dalle regole formali

contenute nei trattati. Esse sono pertanto gerarchicamente subordinate ai trattati non potendo

in alcun modo disattendere le norme in essi contenute. L’art. 249 del Trattato CE dispone che

“per l’assolvimento dei loro compiti e alle condizioni contemplate dal presente Trattato, il

Parlamento europeo congiuntamente con il Consiglio, il Consiglio e la Commissione adottano:

regolamenti comunitari e direttive, prendono decisioni e formulano raccomandazioni o

pareri ”.

Per ciò che concerne l’individuazione dello strumento giuridico da utilizzare, generalmente sono

i trattati a precisare quale tipo di atto le istituzioni sono tenute ad adottare. Tuttavia qualora

ciò non sia espressamente indicato dalle disposizioni del trattato o sia concessa alle istituzioni

una scelta tra diverse misure, queste possono discrezionalmente emanare il tipo di atto che

considerano più opportuno.

Accanto agli atti elencati e disciplinati dal trattato esistono poi altri atti che possono essere

emanati dagli organi comunitari, pur sfuggendo alle categorie previste dall’art. 249. Si tratta

dei cd. atti atipici, tra cui rientrano alcuni atti vincolanti come gli atti di autorizzazione e di

concessione e gli atti interni con i quali le istituzioni regolano il proprio funzionamento, e atti

non vincolanti, quali proposte, richieste, dichiarazioni e programmi d’azione.

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Per l’emanazione degli atti comunitari si rende necessaria l’esistenza di alcuni requisiti formali,

quali la motivazione e la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale delle Comunità europee in

ciascuna delle lingue ufficiali della Comunità.

Viene altresì richiesta l’indicazione della loro base giuridica, al fine di poter verificare la

legittimità e la correttezza della procedura osservata per la loro adozione. Si tratta di un

requisito di forma essenziale per la formulazione dell’atto, in quanto l’inosservanza della base

giuridica può comportare il suo annullamento.

Quanto al rapporto fra diritto comunitario derivato e diritto degli Stati membri, mentre per i

regolamenti è lo stesso trattato a prevedere che essi siano obbligatori in tutti i loro elementi e

direttamente applicabili in ciascuno degli Stati membri, per le direttive e le decisioni la diretta

applicabilità è stata riconosciuta soltanto attraverso una costante giurisprudenza della Corte di

Giustizia in tal senso.

Atti vincolanti

art. 249 Trattato CE

Gli atti comunitari giuridicamente vincolanti per gli Stati membri sono:

— i regolamenti comunitari, i quali hanno una portata generale, essendo indirizzati a

tutti gli Stati membri, e direttamente applicabili;

— le direttive che possono avere una portata individuale o generale e non sono

obbligatorie in tutti i loro elementi, in quanto vincolano i destinatari solo riguardo il

risultato da raggiungere lasciando alla loro discrezione la scelta dei mezzi;

— le decisioni, che hanno una portata individuale, vale a dire che sono indirizzate a

singoli Stati membri e sono obbligatorie in tutti i loro elementi.

Regolamenti comunitari

art.249 Trattato CE

I regolamenti sono atti vincolanti emanati dalle istituzioni comunitarie e si caratterizzano per

tre elementi fondamentali: hanno portata generale, essendo indirizzati a tutti i soggetti

giuridici comunitari (Stati membri e persone fisiche e giuridiche degli Stati stessi), sono

obbligatori in tutti i loro elementi e sono direttamente applicabili (Diretta applicabilità del

diritto comunitario). Rappresentano pertanto tipiche norme self-executing, cioè operanti senza

atti di adattamento da parte degli ordinamenti statali.

La Corte di Giustizia ha, con giurisprudenza costante, contribuito a delineare il significato della

diretta applicabilità dei regolamenti, sottolineando l’illiceità di misure nazionali di

trasformazione.

Per quanto riguarda l’obbligatorietà del regolamento, invece, è utile sottolineare che tale

caratteristica non sta ad indicare necessariamente la completezza del regolamento, anzi,

spesso accade che debba essere integrato con misure di esecuzione che possono essere

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adottate sia dalla stessa istituzione che ha emanato il regolamento, sia da un’altra istituzione

comunitaria, sia dalle autorità nazionali.

Il processo di formazione dei regolamenti, in realtà, è abbastanza complesso; essi in genere

sono emanati dal Consiglio su proposta della Commissione. Al processo di formazione di tali

atti viene associato anche il Parlamento europeo, attraverso una delle procedure previste dal

Trattato (Procedura di consultazione; Procedura di cooperazione; Procedura di

codecisione). Il principale requisito formale previsto dai Trattati per i regolamenti è la

motivazione.

Laddove è previsto, devono essere richiesti anche i pareri di altre istituzioni come il Consiglio

economico e sociale ed il Comitato delle Regioni. I regolamenti sono pubblicati sulla Gazzetta

Ufficiale delle Comunità europee ed entrano in vigore dopo un periodo di vacatio legis di 20

giorni, a meno che una data diversa non sia stata indicata nel regolamento stesso

Direttiva

art. 249 Trattato CE; art. 161 Trattato Euratom

È un atto vincolante delle istituzioni comunitarie previsto dall’art. 249 del Trattato istitutivo

della Comunità europea il quale stabilisce che le direttive vincolano lo Stato membro cui sono

rivolte per quanto riguarda il risultato da raggiungere.

Requisiti formali della direttiva sono:

- la portata individuale. Esse hanno come destinatari gli Stati membri (e le imprese nella

CECA). A tal proposito le direttive si distinguono in:

a) generali, se indirizzate a tutti gli Stati membri;

b) individuali o particolari, se indirizzate ad uno o ad alcuni di essi;

— l’obbligatorietà di risultato. A differenza dei regolamenti comunitari e delle

decisioni, le direttive impongono solo l’obbligo di raggiungere un risultato, lasciando

liberi gli Stati di adottare le misure dagli stessi ritenute opportune;

— la motivazione. Le direttive devono essere motivate e devono riferirsi ai pareri

obbligatori o alle proposte previsti dal Trattato.

A causa del loro carattere individuale questi atti devono essere notificati ai destinatari e

acquistano efficacia dalla data della notifica o da una data successiva, se indicata; è tuttavia

invalsa la prassi di pubblicarle anche sulla Gazzetta Ufficiale della Comunità, oltre

naturalmente a notificarle.

Inoltre le direttive fissano un termine per la loro attuazione. Pertanto, se gli Stati membri entro

detto termine non adottano le misure interne di esecuzione, commettono una violazione del

trattato ai sensi dell’art. 226.

Per quanto riguarda l’efficacia, le direttive, secondo l’art. 249, non hanno efficacia diretta, cioè

non producono diritti ed obblighi che i giudici nazionali devono far osservare. Perciò la dottrina

sostiene che le direttive non sono direttamente applicabili, ma hanno un’efficacia mediata

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attraverso i provvedimenti che gli Stati intenderanno adottare, nel rispetto dei principi

fondamentali del Trattato.

Si può ritenere che si possa parlare di efficacia diretta delle direttive quando queste ultime:

— impongono al destinatario del provvedimento di tenere un comportamento di carattere

negativo: in tal caso, infatti, non è necessario nessun provvedimento di esecuzione;

— ribadiscono un obbligo già previsto dal Trattato e quindi già produttivo di effetti,

specificandone solo la portata e i tempi di attuazione;

— contengono con precisione le norme interne che gli Stati sono tenuti ad adottare.

Nell’ordinamento italiano le direttive sono state di regola recepite attraverso leggi ordinarie di

esecuzione per ciascun provvedimento comunitario, modificando in tal modo norme già

esistenti o introducendone di nuove. Questa procedura non ha creato difficoltà fino al 1985,

dato l’esiguo numero di direttive emanate; con l’adozione del Libro bianco sul

completamento del mercato interno, il numero dei provvedimenti comunitari da trasferire

nell’ordinamento italiano cresceva sensibilmente, rivelando l’inadeguatezza della procedura in

vigore. Si è così proceduto, in applicazione dell’art. 76 della Costituzione, all’attuazione delle

disposizioni legislative comunitarie anche mediante leggi delega al Governo, che avrebbe

emanato l’atto normativo (decreto legislativo, regolamento, decreto del Presidente della

Repubblica) necessario, data la natura della materia oggetto di direttiva.

Ma per recuperare il ritardo accumulato dall’ordinamento italiano nel recepimento delle

direttive comunitarie, si è proceduto alla razionalizzazione di tale sistema con l’emanazione

della L. 9 marzo 1989, n. 86, la cosiddetta Legge La Pergola, che ha stabilito le norme

generali del sistema di recepimento delle direttive comunitarie e ha disposto l’emanazione della

legge comunitaria.

Decisione

art. 249 Trattato CE; art. 14 Trattato CECA

È un atto vincolante delle istituzioni comunitarie, contemplato dall’art. 249 del Trattato

istitutivo della Comunità europea, il quale stabilisce che la decisione è obbligatoria in tutti i

suoi elementi per i destinatari da essa designati.

La decisione corrisponde, in sostanza, all’atto amministrativo dei sistemi giuridici nazionali e

rappresenta lo strumento utilizzato dalle istituzioni quando si vuole applicare il diritto

comunitario a fattispecie concrete. Pertanto, la decisione crea, modifica od estingue situazioni

giuridiche in capo ai destinatari che, nel caso siano individui direttamente investiti dall’atto,

non troveranno alcun ostacolo ad impugnare l’atto con il rimedio previsto dall’articolo 230 del

Trattato CE (Ricorso per annullamento).

Elementi essenziali di tale atto sono:

— la portata individuale. Ciò significa che la decisione è riferibile ai singoli destinatari, sia

essi individui che Stati membri, designati dall’atto;

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— la motivazione. Secondo la Corte di Giustizia è sufficiente che la motivazione indichi le

ragioni sulle quali l’atto è fondato (sentenza 9 luglio 1969, Governo della Repubblica

italiana e Commissione): ciò al fine di evitare abusi da parte delle istituzioni;

— l’obbligatorietà in tutti i suoi elementi, sia in relazione al risultato che ai mezzi da

utilizzare per raggiungere l’obiettivo indicato.

Le decisioni sono normalmente emanate dalla Commissione, mentre il Consiglio, di regola,

emana solo le decisioni indirizzate agli Stati membri.

Le decisioni, come le direttive, vengono notificate ai destinatari ed acquistano efficacia dalla

data della notifica o da altra data successiva, espressamente indicata.

L’efficacia delle decisioni varia a seconda che l’atto è rivolto agli Stati membri o agli individui.

Nel primo caso di solito le disposizioni obbligano lo Stato destinatario ad avere un certo

comportamento, lasciando poi allo stesso libertà di scelta sulle modalità di attuazione della

decisione; qualora invece quest’ultima contenga anche forme e mezzi di esecuzione, essendo

obbligatoria in tutti i suoi elementi, allora si può parlare di efficacia diretta.

Se le decisioni sono rivolte ad individui, siano essi persone fisiche che giuridiche, allora senza

dubbio si può parlare di efficacia diretta anche perché spetta all’istituzione che ha emesso

l’atto, e non allo Stato membro di appartenenza del destinatario, il compito di garantirne

l’osservanza.

Le decisioni del Consiglio e della Commissione che comportano un obbligo pecuniario

costituiscono titolo esecutivo negli ordinamenti statali. Questo non vale per le decisioni rivolte

agli Stati membri: in caso di mancata esecuzione, la Commissione potrà esperire la procedura

di infrazione per violazione del trattato.

L’unica condizione richiesta affinché la decisione possa essere fatta valere come titolo

esecutivo è l’apposizione della formula di esecuzione da parte dell’autorità nazionale designata,

che procede ad una verifica dell’autenticità dell’atto e che in Italia è il Ministero degli Esteri.

Atti non vincolanti

artt. 226 e 249 Trattato CE

Oltre agli atti dotati di efficacia vincolante, le istituzioni comunitarie possono emanare due tipi

di atti non vincolanti: le raccomandazioni ed i pareri.

La raccomandazione ha il preciso scopo di obbligare il destinatario a tenere un determinato

comportamento considerato più rispondente alle esigenze comuni.

Il parere tende a fissare il punto di vista dell’istituzione che lo emette in ordine ad una specifica

questione.

Premesso che sia per le raccomandazioni che per i pareri le istituzioni comunitarie hanno una

competenza generale, entrambi gli atti non sono sottoposti ad alcuna forma particolare, fatta

eccezione per alcuni pareri per i quali il Trattato CE prevede una motivazione espressa: ad

esempio art. 226 del Trattato CE, in base al quale è richiesto il parere motivato della

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Commissione, qualora questa ritenga che uno Stato membro non abbia adempiuto agli obblighi

ad esso derivanti in base al Trattato istitutivo.

Sia le raccomandazioni che i pareri possono avere come destinatari gli Stati membri, ovvero le

altre istituzioni comunitarie o, ancora, i soggetti di diritto interno degli Stati membri.

Raccomandazione

art. 249 Trattato CE

È uno degli atti delle istituzioni comunitarie che non hanno efficacia vincolante, ad eccezione di

quanto previsto all’art. 14 del Trattato CECA.

Le raccomandazioni, che non sono sottoposte ad alcuna forma particolare, possono essere

emanate dal Parlamento europeo, dal Consiglio e dalla Commissione alle condizioni

contemplate dal Trattato. Possono essere rivolte sia agli Stati membri, come di solito avviene,

che alle istituzioni comunitarie o ancora ai soggetti di diritto interno degli Stati membri.

Di questo strumento, in realtà, si avvale di frequente la Commissione per puntualizzare la

propria posizione in merito agli sviluppi futuri della propria azione. La raccomandazione infatti,

a differenza del parere, ha il preciso scopo di sollecitare il destinatario a tenere un determinato

comportamento giudicato più rispondente agli interessi comuni.

L’efficacia non vincolante delle raccomandazioni non implica, però, che esse siano totalmente

sprovviste di alcun effetto giuridico. In dottrina si è, infatti, posto in evidenza come esse

producano un effetto di liceità, nel senso che è da considerarsi pienamente lecito un atto, di

per sé illecito, posto in essere per rispettare una raccomandazione di un’istituzione.

Anche la Corte di Giustizia (sentenza Grimaldi 1989) ha posto in evidenza come le

raccomandazioni non possono essere considerate del tutto prive di effetti giuridici, essendo

compito del giudice nazionale tenerne conto per procedere all’interpretazione degli altri atti

vincolanti emanati dalle istituzioni comunitarie e delle norme nazionali.

Parere

art. 249 Trattato CE

Si tratta di un atto non vincolante emanato dalla Commissione delle Comunità europee, dal

Consiglio, dal Parlamento europeo, dalla Corte di Giustizia (nell’ipotesi prevista dall’art. 300,

paragrafo 6, circa la compatibilità di un accordo previsto con le disposizioni del Trattato), dal

Comitato economico e sociale (art. 262) e dal Comitato delle Regioni (art. 265). Il parere

tende a fissare il punto di vista della istituzione che lo emette in ordine ad una specifica

questione.

Il parere va distinto dal:

— parere motivato, emesso dalla Commissione in base all’art. 226 del Trattato CE e

relativo alla mancata osservanza degli obblighi incombenti su uno Stato membro;

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— parere obbligatorio del Parlamento europeo, nell’ambito della procedura del parere

conforme.

Analogamente alle raccomandazioni, i pareri non sono sottoposti ad alcuna forma specifica

(tranne nel caso dei pareri motivati, per i quali è necessaria una motivazione espressa) e

possono essere indirizzati sia agli Stati che alle altre istituzioni comunitarie o a soggetti di

diritto interno degli Stati membri. La non vincolatività dei pareri non significa che gli stessi

siano privi di ogni rilevanza giuridica: infatti essi, nella misura in cui riflettono la posizione della

istituzione da cui promanano, determinano sempre una situazione di legittimo affidamento nei

destinatari, tutelabile davanti alla Corte di Giustizia.

Procedura di consultazione

artt. 81 e 82 Regolamento interno del Parlamento europeo

È uno dei procedimenti di formazione degli atti comunitari che prevede la consultazione del

Parlamento prima dell’adozione, da parte del Consiglio, di un atto normativo.

La consultazione parlamentare, già prevista dai Trattati istitutivi, può essere sia obbligatoria

che facoltativa, a seconda delle previsioni del Trattato. Essa comporta l’emanazione di un

parere da parte del Parlamento che non è mai vincolante né per la Commissione, che non è

obbligata ad adeguare la sua proposta alle osservazioni in esso contenute, né per il Consiglio

che può disattenderlo.

In realtà, alla procedura di consultazione è affidata la realizzazione di un equilibrio istituzionale

tra la Commissione (organo proponente), il Consiglio (organo decisionale) e il Parlamento. La

Commissione, infatti, sebbene abbia la facoltà di ignorare le osservazioni parlamentari, non

può restare indifferente alle opinioni dell’organo che esercita ampi poteri di controllo. A ciò

deve aggiungersi l’opera della Corte di Giustizia che, in diverse sentenze, ha sancito principi

che hanno integrato la scarna dizione utilizzata dai Trattati istitutivi. Essi sono:

— la consultazione del Parlamento è obbligatoria. La Corte ha infatti affermato che l’atto può

essere impugnato quando, potendo scegliere tra una base giuridica che non prevede la

consultazione del Parlamento e una che la prevede, si decide di utilizzare la prima;

— non è sufficiente che il Consiglio abbia chiesto al Parlamento il suo parere, ma è necessario

che l’organo esprima effettivamente la propria opinione. Se il Parlamento non adempie a tale

compito entro un ragionevole periodo di tempo, non potrà obiettare al Consiglio l’inosservanza

della procedura;

— il parere deve essere dato su di un testo che nella sostanza rispecchi quello

successivamente adottato dal Consiglio. Nell’ipotesi in cui quest’ultimo intende apportare

modifiche sostanziali all’atto, è necessaria una nuova consultazione del Parlamento.

Il regolamento interno del Parlamento disciplina inoltre il seguito da dare al parere di tale

organo. È prevista infatti la possibilità di sollecitare la Commissione ad esaminare gli

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emendamenti proposti dal Parlamento; qualora la Commissione rigetti la proposta, il

presidente del Parlamento invita il Consiglio a ritirarla.

Il Trattato sull’Unione europea ha ampliato i settori sottoposti alla procedura di consultazione

includendovi, tra le altre materie, le modalità di esercizio di voto dei cittadini dell’Unione, la

politica industriale, alcune misure relative all’unione economica e monetaria, la politica dei

visti.

Da ultimo, il Trattato di Amsterdam ha sottratto alla procedura di consultazione la disciplina

legislativa di diversi settori, prevedendo l’applicazione della procedura di codecisione, che

attribuisce al Parlamento un ruolo molto più incisivo nell’ambito dell’iter legislativo.

Procedura di cooperazione

art. 252 Trattato CE; artt. 63-80 Regolamento interno del Parlamento europeo

La procedura di cooperazione è stata introdotta dall’Atto unico europeo e confermata dal

Trattato sull’Unione europea. Essa è stata istituita per aumentare il potere del Parlamento che

può, in tal modo, apportare modifiche alle posizioni comuni del Consiglio, sebbene a

quest’ultimo compete comunque la decisione finale.

La procedura di cooperazione è stata quasi completamente abolita dal Trattato di Amsterdam

che ha ridotto il suo campo di applicazione alla sola politica monetaria, sottoponendo gli altri

settori alla procedura di codecisione.

La procedura di cooperazione prevede una doppia lettura del Parlamento in merito agli atti che

il Consiglio deve emanare. Durante la prima lettura, il Parlamento esamina una proposta della

Commissione ed esprime in proposito un parere, accompagnato da eventuali proposte di

modifica. La Commissione valuta tali modifiche e trasmette la proposta al Consiglio che,

deliberando a maggioranza qualificata, adotta una posizione comune. Successivamente

quest’ultima viene comunicata al Parlamento assieme alle motivazioni che hanno spinto il

Consiglio ad adottare tale atto e alla posizione che la Commissione ha assunto in merito alla

questione.

Il Parlamento in fase di seconda lettura può:

— approvare la posizione comune o non pronunciarsi entro il termine stabilito. In tal caso

il Consiglio adotta l’atto conformemente alla posizione comune a maggioranza

qualificata. Se l’atto si discosta dalla proposta originaria esso deve essere adottato

all’unanimità;

— rigettare il testo adottato dal Consiglio, a maggioranza assoluta dei suoi membri. Se

ciò si verifica, il Consiglio potrà adottare l’originaria posizione comune entro il termine

di tre mesi ma solo votando all’unanimità. Questa regola amplia notevolmente

l’influenza del Parlamento; è difficile, infatti, che il Consiglio riesca ad adottare

all’unanimità una proposta che inizialmente era stata votata a maggioranza qualificata

e che è stata anche respinta dal Parlamento;

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— apportare emendamenti, a maggioranza assoluta dei suoi membri, alla posizione

comune del Consiglio. Secondo quanto stabilito dall’art. 80 del regolamento interno del

Parlamento, l’obiettivo di queste modifiche mira al ripristino totale o parziale della

posizione approvata dal Parlamento in prima lettura, in modo da assicurare la coerenza

della sua posizione nelle due diverse fasi. In quest’ultimo caso, la Commissione

riesamina entro un mese la posizione comune e la ritrasmette al Consiglio, corredata

delle modifiche proposte dal Parlamento che ha ritenuto di accogliere. In merito a

quelle rigettate, la Commissione deve indicare i motivi di tale rifiuto.

Ricevuta la proposta riesaminata dalla Commissione, il Consiglio può, entro tre mesi:

— adottare la proposta riesaminata deliberando a maggioranza qualificata;

— adottare, deliberando all’unanimità, l’originaria posizione comune senza tener conto

degli emendamenti del Parlamento;

— modificare la proposta riesaminata ed adottare l’atto deliberando all’unanimità.

Qualora il Consiglio non decida nel termine fissato, la proposta riesaminata dalla Commissione

si intende rifiutata e deve ripetersi l’iter procedurale. Fino a quando il Consiglio non ha deciso,

la Commissione può modificare o ritirare la sua proposta.

Settori nei quali è prevista la procedura di cooperazione

• Armonizzazione delle denominazioni e delle caratteristiche delle monete (106)

• Divieto di assunzione di impegni presi da Stati membri (103)

• Divieto di facilitazioni creditizie (102)

• Procedure di sorveglianza multilaterale (99)

Procedura di codecisione

art. 251 Trattato CE; artt. 63-83 Regolamento interno del Parlamento europeo; Dichiarazione

comune 4 maggio 1999

La procedura di codecisione rappresenta un’assoluta novità in campo legislativo in quanto, per

la prima volta, il Parlamento europeo e il Consiglio sono posti sullo stesso piano. Introdotta dal

Trattato di Maastricht è stata notevolmente rafforzata con il Trattato di Amsterdam, che ha

trasferito nell’ambito di questa procedura quasi tutte le materie che prima ricadevano sotto

l’iter decisionale della cooperazione ed ha contribuito allo snellimento del procedimento

sopprimendo la cd. terza lettura.

Tale procedura si articola nelle seguenti fasi:

1a fase. Una delle novità del Trattato di Amsterdam riguarda proprio questa prima fase.

Secondo il nuovo articolo 251 la proposta legislativa della Commissione viene presentata al

Consiglio e al Parlamento europeo, che formula un proprio parere. Se il parere del Parlamento

non contiene emendamenti al testo iniziale o se il Consiglio accetta tutte le modifiche proposte,

allora l’atto può essere immediatamente adottato saltando tutte le successive fasi. Se ciò non

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avviene il Consiglio delibera a maggioranza qualificata una posizione comune che verrà

sottoposta all’esame del Parlamento. Questi può entro tre mesi:

— approvare o non pronunciarsi. In entrambi i casi il Consiglio adotterà l’atto in

conformità della posizione comune;

— emendare la posizione comune, a maggioranza assoluta dei suoi membri. Il Consiglio,

entro il termine di tre mesi dalla ricezione degli emendamenti, può sia approvare gli

stessi (a maggioranza qualificata se questi sono stati accettati dalla Commissione,

all’unanimità in caso contrario) ed adottare il testo così emendato, sia avviare una

procedura di conciliazione;

— respingere la posizione comune, a maggioranza assoluta dei suoi membri. Anche in

questo caso è previsto l’avvio di una procedura di conciliazione;

2a fase. In questa fase interviene il Comitato di conciliazione, composto dai membri del

Consiglio e dai rappresentanti del Parlamento europeo. Esso ha il compito di predisporre un

testo di compromesso, alla cui stesura partecipa anche la Commissione con funzioni di

mediatore. Se non è possibile raggiungere questo compromesso, allora il testo è

definitivamente abbandonato. Qualora, invece, sia predisposto un testo comune:

— può essere adottato dal Consiglio (a maggioranza qualificata) e dal Parlamento (a

maggioranza assoluta) nel termine di 6 settimane dalla scadenza del tempo concesso

al Comitato di conciliazione;

— non si riesce a raggiungere un accordo tra Parlamento e Consiglio: di conseguenza il

testo è abbandonato.

Nell’originaria formulazione del Trattato di Maastricht il Consiglio poteva (con la cd.

terza lettura) esperire un ultimo tentativo per l’adozione dell’atto: riprendendo, a

maggioranza qualificata, la sua posizione comune iniziale poteva inserirvi degli

emandamenti che tenessero conto delle osservazioni dal Parlamento e avviare

nuovamente la procedura ordinaria. Al termine di questo procedimento il testo era

approvato se si raggiungeva l’accordo con il Parlamento.

Con l’ampliamento delle materie che rientrano nell’ambito della procedura di codecisione si è

reso necessario snellire il già complesso iter; per questo motivo il Trattato di Amsterdam ha

soppresso la terza lettura.

Principio della cooperazione rafforzata

artt. 43-45 Trattato sull’Unione europea; art. 11 Trattato CE

Principio che attribuisce agli Stati membri che intendano perseguire determinate politiche

comuni, a procedere anche in assenza di una volontà comune. Le prime esperienze di

cooperazione al di fuori del quadro comunitario si sono avute nell’ambito della libera

circolazione delle persone, con la firma della convenzione di Schengen da parte di soli

cinque Stati, della politica sociale, con la deroga per il Regno Unito in merito all’accordo

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sociale e dell’unione economica e monetaria con l’esclusione della Grecia per il mancato

rispetto dei criteri di convergenza e con la deroga per Danimarca e Gran Bretagna.

Solo con il Trattato di Amsterdam si è proceduto però alla istituzionalizzazione della

cooperazione rafforzata, con l’inserimento del nuovo Titolo VII del Trattato sull’Unione

europea.

L’art. 43 prevede, infatti, che gli Stati membri possono liberamente instaurare tra di loro una

cooperazione rafforzata ricorrendo, se vogliono, alle istituzioni, alle procedure e ai meccanismi

previsti dal Trattato sull’Unione europea e dal Trattato CE (e quindi anche alla Corte di

Giustizia).

Qualora ciò avvenga, la cooperazione rafforzata deve rispettare una serie di condizioni:

— promuovere gli obiettivi dell’Unione e proteggere i suoi interessi;

— rispettare i principi dei trattati e il contesto istituzionale unico dell’Unione;

— perseguire obiettivi che non è possibile realizzare utilizzando le procedure comunitarie;

— riguardare almeno la maggioranza degli Stati membri;

— non pregiudicare le competenze, i diritti, gli obblighi e gli interessi degli Stati membri

non partecipanti;

— essere aperta agli Stati membri non partecipanti, qualora questi ultimi intendano

aderirvi;

— rispettare le specifiche norme riguardanti i singoli pilastri dell’Unione europea.

Per quel che riguarda il primo pilastro la disciplina è regolata dall’art. 11 del Trattato CE e

prevede la possibilità per gli Stati membri di instaurare tra di loro una cooperazione rafforzata

a condizione che:

— non riguardi settori di competenza esclusiva della Comunità;

— non interferisca con le politiche, le azioni e i programmi comunitari;

— non riguardi la cittadinanza dell’Unione né crei discriminazione tra i cittadini degli Stati

membri;

— rimanga entro i limiti delle competenze comunitarie;

— non pregiudichi le condizioni di concorrenza e gli scambi tra gli Stati membri.

Sul piano procedurale, la richiesta di autorizzazione deve essere presentata dagli Stati membri

interessati alla Commissione che elabora una proposta da sottoporre alla votazione in seno al

Consiglio.

Se un membro del Consiglio dichiara che intende opporsi alla concessione dell’autorizzazione

per gravi e specificati motivi di politica interna, non si procede alla votazione.

Per quel che riguarda la procedura di adesione, lo Stato membro che intende partecipare alla

cooperazione rafforzata instaurata deve notificare tale intenzione al Consiglio e alla

Commissione; quest’ultima deve trasmettere un parere al Consiglio entro tre mesi dalla data di

ricevimento della notifica ed, entro quattro mesi a partire dalla notifica, deve decidere sulla

richiesta e sulle eventuali misure specifiche che ritiene necessarie.

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La cooperazione rafforzata nel terzo pilastro deve attuarsi nel rispetto delle competenze della

Comunità europea e degli obiettivi di questo pilastro e deve avere come scopo quello di

consentire all’Unione di svilupparsi più rapidamente come spazio di libertà, di sicurezza e di

giustizia.

La procedura per il rilascio dell’autorizzazione è sostanzialmente la stessa di quella esaminata

per il pilastro comunitario: anche in questo caso l’autorizzazione è rilasciata dal Consiglio, ma

la Commissione è solo chiamata ad esprimere un parere.

Per quanto concerne infine la procedura di adesione di uno Stato membro alla cooperazione

rafforzata in atto, la richiesta anche in questo caso deve essere inoltrata al Consiglio e alla

Commissione ma è quest’ultima che decide sulla domanda e sulle eventuali misure specifiche

necessarie.

Teoria dei Poteri impliciti

art. 308 Trattato CE

Si tratta di una teoria inizialmente elaborata dalla Corte Suprema degli Stati Uniti e

successivamente accolta anche dalla Corte Internazionale di Giustizia e dalla Corte di Giustizia

delle Comunità.

Secondo tale teoria un organo internazionale può utilizzare tutti i mezzi a sua disposizione per

raggiungere gli scopi previsti dal trattato istitutivo dell’organizzazione stessa, anche quando

tali mezzi non sono espressamente previsti nel testo del trattato.

Nel Trattato istitutivo della Comunità europea è stato inserito un articolo, il 308 (ex 235), che

richiama la teoria dei poteri impliciti. Secondo tale norma “quando un’azione della Comunità

risulti necessaria per raggiungere, nel funzionamento del mercato comune, uno degli scopi

della Comunità, senza che il presente trattato abbia previsto i poteri d’azione a tal uopo

richiesti, il Consiglio, deliberando all’unanimità su proposta della Commissione e dopo aver

consultato il Parlamento europeo, prende le disposizioni del caso”.

In virtù della portata dell’articolo 308, le condizioni per l’esercizio del potere in esame sono

alquanto restrittive. Dal punto di vista sostanziale occorre che l’azione sia necessaria per il

raggiungimento degli scopi della Comunità e deve servire al funzionamento del mercato

comune. Dal punto di vista procedurale il Consiglio deve deliberare all’unanimità, previa

proposta della Commissione e dopo aver consultato il Parlamento europeo.

In realtà i poteri riconosciuti dalla norma in questione sono subordinati all’esistenza di due

condizioni indispensabili:

— l’azione deve essere necessaria per raggiungere uno degli scopi della Comunità;

— l’azione deve servire al funzionamento del mercato comune.

La Corte di Giustizia nella sua giurisprudenza, scavalcando il dettato dell’art. 308, nonché la

complessa procedura da questo presentata, ha portato al riconoscimento alle istituzioni della

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Comunità di poteri non espressamente conferiti, ma indispensabili per esercitare in modo

efficace ed appropriato le competenze loro attribuite.

Infatti, nella prassi tutte le volte che il Consiglio ha raggiunto l’unanimità, sono stati adottati

atti che non avevano alcun collegamento con gli scopi della Comunità od il funzionamento del

mercato, nonostante l’espressa menzione dell’articolo 308. Tant’è che, proprio attraverso

l’applicazione del suddetto articolo, è stata legittimata l’azione comunitaria in settori quali la

politica regionale, la politica ambientale, la politica industriale ed energetica e finanche la

politica economica e monetaria, prima ancora che questa rientrasse nei compiti della Comunità

previsti dall’articolo 2 del Trattato CE. È possibile quindi, per le istituzioni comunitarie,

intervenire in settori non menzionati dal Trattato, oppure adottare, in un settore di

competenza comunitaria, atti diversi da quelli previsti (es. regolamenti al posto di direttive).

Ciò che è precluso alle istituzioni è di derogare alle disposizioni del trattato: infatti, l’articolo

308 si riferisce ad azioni e non fa accenno alcuno, com’è ovvio, alla possibilità di modificare la

struttura istituzionale della Comunità, così come delineata dal trattato. Altra possibile

limitazione è rappresentata dal richiamo al principio di sussidiarietà da parte degli Stati

membri.

La Corte ha così avallato l’atteggiamento del Consiglio nell’uso di poteri impliciti quando nel

1973 (nella sentenza Massey/Ferguson) ha enunciato esplicitamente il principio per cui le

istituzioni comunitarie hanno il diritto di emanare atti in tutti quei settori nei quali il trattato

attribuisce loro una competenza legittimando in tal modo l’istituzione da parte del Consiglio di

vari Comitati di gestione e regolamentazione e il suo intervento in materia di pesca e

ambiente.

È bene sottolineare che negli ultimi anni la Corte ha mostrato un atteggiamento più restrittivo,

evidenziando il carattere residuale della norma ed escludendone l’uso ogni volta che, in base al

trattato, sia possibile disporre di una base giuridica alternativa.

Motivazione degli atti comunitari

art. 253 Trattato CE; art. 15 Trattato CECA

Requisito formale necessario per l’emanazione di tutti gli atti vincolanti comunitari. In

mancanza di tale requisito, l’atto sarebbe viziato e potrebbe essere dichiarato nullo in base

all’art. 231 Trattato CE.

La motivazione deve indicare la base giuridica dell’atto, cioè le norme comunitarie che ne

consentono l’emanazione: in questo modo si facilita l’individuazione di eventuali vizi di

legittimità, di cruciale importanza soprattutto per gli atti di portata individuale quali le

decisioni, e si permette alla Corte di Giustizia di esercitare il suo sindacato.

La Corte ha valutato con una certa larghezza questo requisito, nel senso che ha negato la

necessità di una motivazione espressa. Nella sentenza del 23 febbraio 1978, C. 92/77, An Bord

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Bainne Cooperative c. Ministro dell’agricultura, infatti, ha sancito l’ammissibilità della

motivazione implicita, cioè una motivazione che può risultare “… non soltanto dal suo testo, ma

altresì dall’insieme delle norme giuridiche che disciplinano la materia in questione”.

Clausola di salvaguardia

art. 134 Trattato CE

Clausola dei trattati commerciali internazionali che autorizza uno Stato contraente ad adottare

un regime tariffario più oneroso o limitazioni quantitative nei confronti di quei prodotti di altri

paesi la cui importazione potrebbe avere effetti negativi sulla produzione nazionale di merci

similari.

Una specifica clausola di salvaguardia è prevista dall’articolo 19 del trattato istitutivo del GATT

secondo il quale una nazione, in deroga al regime normalmente previsto, può introdurre

misure restrittive temporanee sulle importazioni nel caso in cui vi sia un eccessivo disavanzo

della bilancia dei pagamenti e tale disavanzo possa danneggiare la propria produzione

nazionale.

Analoga deroga è prevista dall’articolo 134 del Trattato CE, previo ottenimento della necessaria

autorizzazione da parte dei competenti organi comunitari. In tutti i casi è generalmente

richiesto un presupposto di necessità, che viene definito in relazione a particolari difficoltà

incontrate dal paese per quanto riguarda i movimenti di merci o di capitali o persistenti deficit

della bilancia dei pagamenti. L’autorizzazione ad adottare una clausola di salvaguardia è

normalmente richiesta per relazioni economiche con paesi terzi e, comunque, in quelle materie

in cui non esista una politica comune da parte della Comunità europea.

L’espressione è, inoltre, riferita a quelle clausole che conviene apporre nei contratti con

obbligazioni pecuniarie al fine di sfuggire la svalutazione monetaria del credito. Costituiscono

esempi di clausola di salvaguardia la clausola oro e la clausola di indicizzazione.

Clausola di sospensione

art. 309 Trattato CE; art. 7 Trattato sull’Unione europea

La clausola di sospensione prevede che, qualora si verifichi l’esistenza di una violazione grave

e persistente dei principi di libertà e democrazia e del rispetto dei diritti umani e dello Stato

di diritto da parte di uno Stato membro della Comunità europea, si può procedere alla

sospensione di alcuni suoi diritti in seno alla Comunità.

Tale verifica deve essere effettuata dal Consiglio europeo, il quale delibera a maggioranza

qualificata senza tener conto del voto del rappresentante dello Stato in questione.

La sospensione non riguarderà gli obblighi derivanti dal Trattato, che continueranno a vincolare

lo Stato trasgressore.

La disposizione è stata introdotta dal Trattato di Amsterdam allo scopo di rafforzare

ulteriormente gli strumenti comunitari a difesa dei diritti umani.

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Legge comunitaria

artt. 2-5 L. 9 marzo 1989, n. 86

Si tratta di un provvedimento normativo con il quale vengono disciplinate le modalità di

attuazione della normativa comunitaria nell’ordinamento italiano. La sua emanazione è stata

disposta dall’art. 2 della L. 86/89, meglio nota come legge La Pergola.

I ritardi accumulati dal nostro ordinamento nel recepimento delle direttive e delle decisioni

con lo strumento della delega legislativa, ha portato a gravi inadempienze dello Stato italiano

nei confronti della Comunità e alle conseguenti condanne della Corte di Giustizia.

Per accelerare il processo di adeguamento alla normativa comunitaria, la L. 86/89 ha previsto

che entro il 31 gennaio di ogni anno (termine originariamente fissato al 31 marzo) il governo

presenti un disegno di legge recante “Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti

dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee”.

Tale legge consente di dare attuazione nel nostro ordinamento alle disposizioni comunitarie

attraverso:

— la normazione diretta. In questo caso si abrogano o si modificano norme interne in contrasto

con quelle comunitarie direttamente attraverso la legge comunitaria. Questo metodo è

utilizzato soprattutto per il recepimento di disposizioni di non rilevante complessità;

— la delega al Governo. In questa ipotesi, dopo aver ricevuto le necessarie autorizzazioni,

l’esecutivo emana disposizioni di attuazione delle direttive comunitarie e delle

raccomandazioni CECA tramite decreto, regolamento o altro atto amministrativo, a seconda

della materia oggetto della norma comunitaria.

Tutte le direttive contenute nelle leggi comunitarie sono ripartite in diversi allegati in base al

tipo di provvedimento utilizzato per la loro adozione:

— in un primo allegato sono contenute le direttive da attuare con delega legislativa;

— in un secondo allegato sono contenute le direttive da attuare con delega legislativa

previo parere delle commissioni parlamentari competenti per materia;

— in un terzo allegato sono contenute le direttive da attuare in via regolamentare;

— in un quarto allegato sono contenute le direttive da attuare in via regolamentare previo

parere delle commissioni parlamentari competenti per materia;

— in un quinto allegato sono contenute le direttive da attuare in via amministrativa.

È prevista la presentazione al Parlamento da parte del Governo di una relazione semestrale,

nella quale viene esaminato lo stato di conformità dell’ordinamento interno a quello

comunitario e le eventuali procedure di infrazione.

Le leggi comunitarie

L. 29 dicembre 1990, n. 428 - Comunitaria 1990

L. 19 febbraio 1992, n. 142 - Comunitaria 1991

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L. 19 dicembre 1992, n. 489 - Mini-Comunitaria 1992 (1)

L. 22 febbraio 1994, n. 146 - Comunitaria 1993

L. 6 febbraio 1996, n. 52 - Comunitaria 1994

L. 24 aprile 1998, n. 128 - Comunitaria 1995/1997

L. 5 febbraio 1999, n. 25 - Comunitaria 1998

L. 21 dicembre 1999, n. 526 - Comunitaria 1999

(1) Promulgata per l’attuazione delle direttive più urgenti poiché l’iter della legge comunitaria

per l’anno 1992 (divenuta poi Comunitaria 1993) procedeva a rilento.

Legge La Pergola L. 9 marzo 1989, n. 86

È così denominata la L. 9 marzo 1989, n. 86, contenente “Norme generali sulla partecipazione

dell’Italia al processo normativo comunitario e sulle procedure di esecuzione degli obblighi

comunitari”, comunemente nota con il nome dell’allora Ministro per il coordinamento delle

politiche comunitarie che presentò il disegno di legge.

Questo atto normativo si rese necessario per accelerare le procedure di esecuzione, da parte

dell’Italia, degli obblighi derivanti dalla sua partecipazione alla Comunità, in particolare delle

numerose direttive emanate in vista della realizzazione del mercato interno.

In precedenza, infatti, il Parlamento italiano si era servito esclusivamente dello strumento della

legge-delega; ma l’eccessiva lentezza di questa misura di esecuzione aveva fatto accumulare

un grave ritardo allo Stato italiano nell’adeguamento dell’ordinamento interno a quello

comunitario e l’aveva esposto a diverse condanne della Corte di Giustizia.

È stata infatti abbandonata la pratica della delega al Governo per l’esecuzione degli obblighi

comunitari, stabilendo che tutta la normativa comunitaria da recepire venga esaminata

previamente dalle Camere, assolvendo in tal modo ad un duplice compito:

• garantire il periodico adeguamento dell’ordinamento nazionale all’ordinamento comunitario;

• garantire lo svolgimento di un vero e proprio dibattito politico effettuato nella sede più

idonea, ovvero il Parlamento, sia in ordine alle tematiche comunitarie sia sulla scelta

razionale dei mezzi atti all’adeguamento della legislazione nazionale.

La legge La Pergola istituisce, pertanto, per il Governo l’obbligo di presentazione al Parlamento

della legge comunitaria entro il 31 gennaio di ogni anno.

Il Governo, inoltre, presenta alle Camere, in allegato al disegno di legge comunitaria, un

elenco delle direttive per l’attuazione delle quali chiede l’autorizzazione citata. Ha altresì il

compito di presentare alle Camere una relazione semestrale circa la partecipazione dell’Italia al

processo normativo comunitario, in cui sono esposti i principi e le linee caratterizzanti della

politica italiana nei confronti degli atti normativi comunitari.

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La L. 86/89, prevede altresì una corretta ripartizione delle competenze delle regioni, e delle

province autonome, in ordine alle direttive comunitarie, alla legge comunitaria ed alla funzione

di indirizzo e coordinamento delle attività amministrative di queste ultime.

Iniziativa legislativa

artt. 250-253 Trattato CE

Potere di proporre l’adozione di atti giuridici; secondo quanto previsto dai trattati l’iniziativa

legislativa spetta alla Commissione delle Comunità europee.

A norma dell’art. 253 le proposte della Commissione devono contenere la motivazione nonché

menzionare tutti i pareri obbligatori o facoltativi richiesti per l’adozione di un atto in quel

determinato settore. Alla proposta è data ampia pubblicità attraverso la sua pubblicazione sulla

Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee.

La proposta della Commissione viene sottoposta, assieme ad una relazione introduttiva,

all’approvazione del Consiglio. Quest’ultimo accerta innanzitutto la necessità di sottoporre la

proposta all’esame di altre istituzioni comunitarie. La proposta della Commissione,

eventualmente modificata dai pareri delle istituzioni intervenute, viene discussa dal gruppo di

lavoro di esperti e dal COREPER. Infine, se il Consiglio concorda pienamente con la

Commissione l’atto è adottato con le modalità previste dal trattato.

Nel caso in cui intende respingerla ed elaborare un testo ex novo (non tenendo conto delle

osservazioni della Commissione) o intende apportarvi delle modifiche deve necessariamente

adottare l’atto all’unanimità.

La Commissione può modificare la propria proposta in qualunque momento, purché il Consiglio

non abbia ancora deliberato.

Da quanto detto risulta evidente che l’iniziativa della Commissione assume una diversa valenza

a seconda che il trattato prevede che l’atto sia adottato all’unanimità o a maggioranza.

Nel primo caso, infatti, la proposta è parzialmente vincolante per il Consiglio: se questi l’adotta

senza modificarla potrà votare a maggioranza semplice o a maggioranza qualificata

mentre in caso contrario dovrà giungersi ad un accordo tra tutti i membri. Se l’atto dev’essere

adottato comunque all’unanimità è indifferente per il Consiglio modificarlo o meno.

Alle sedute del Consiglio partecipa anche un membro (talvolta anche più di uno) della

Commissione, che può in alcuni casi (su richiesta del Consiglio) procedere a modifiche della

proposta. Nella prassi comunitaria, infatti, la Commissione non solo elabora il progetto di atto

normativo, ma accompagna spesso tale disegno con una serie di possibili modifiche che ritiene

accettabili.

Il rappresentante della Commissione in Consiglio è quindi al corrente dei propri margini di

manovra e può, anche in sede di riunione del Consiglio, modificare la proposta originaria: in

questo modo si evita di dover giungere ad una votazione all’unanimità poiché l’atto è stato

formalmente emendato dalla Commissione e non dal Consiglio.

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La Commissione può, in qualunque momento, ritirare la propria proposta, impedendo di fatto

la delibera del Consiglio, che non può deliberare (salvo rare eccezioni) senza una proposta

della Commissione.

Il Trattato di Maastricht ha attribuito al Parlamento europeo un cd. potere di iniziativa

dell’iniziativa, vale a dire la facoltà di richiedere alla Commissione la presentazione di

proposte legislative.

Gerarchia degli atti comunitari

I trattati istitutivi non introducono alcuna forma di gerarchia tra gli atti comunitari, né per

diversità di rango né di valore formale. Il Trattato CE, all’art. 249, indica i mezzi che le

istituzioni comunitarie devono adottare per svolgere la propria azione, strumenti differenziati in

ragione della natura, del livello di azione prescelta e delle finalità che si intendono perseguire.

Quando il trattato non indica il tipo di atto da adottare, la scelta è lasciata alla discrezionalità

delle istituzioni.

Nemmeno la diversa procedura di adozione degli atti comunitari può costituire una condizione

di differenziazione gerarchica, poiché essa cambia a seconda delle materie da trattare, non a

seconda del tipo di atto.

La questione della gerarchia degli atti comunitari è stata spesso oggetto di discussione, tanto

che la Dichiarazione n. 16 allegata al Trattato di Maastricht auspicava che la Conferenza

intergovernativa del 1996 esaminasse il problema riconsiderando la classificazione degli atti

comunitari “…per stabilire un’appropriata gerarchia tra le diverse categorie di norme…”. Il tema

era stato già affrontato in precedenza, durante i primi dibattiti del 1990 sulla possibilità di

inserire la procedura di codecisione nel trattato. L’idea era quella di far corrispondere ai vari

tipi di atti uno specifico processo decisionale, in modo da evitare che una procedura più

complicata potesse essere applicata ad atti d’importanza secondaria. In seguito la

Commissione, durante i negoziati sul Trattato di Maastricht, ha proposto una gerarchia ed una

nuova tipologia delle norme comunitarie, proposta che si è duramente scontrata con le diverse

tradizioni giuridiche degli Stati membri.

Il principale obiettivo della gerarchizzazione degli atti comunitari sarebbe di assoggettare quelli

di rango costituzionale, per i quali è previsto il voto all’unanimità in seno al Consiglio, a

procedure più complicate rispetto agli altri atti legislativi che dettano la normativa di principio

per settori e materie. Procedure ulteriormente semplificate dovrebbero, invece, applicarsi agli

atti di esecuzione, in genere di competenza della Commissione.

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Metodo comunitario

Espressione con la quale si indica il procedimento istituzionale che utilizza i meccanismi tipici

del primo pilastro dell’Unione europea, vale a dire le procedure proprie delle tre Comunità

istituite negli anni ’50.

A differenza del metodo intergovernativo sul quale poggiano gli altri due pilastri

dell’Unione europea, tale sistema è fondato sul criterio dell’integrazione fra gli Stati membri

e dispone degli strumenti legislativi e delle procedure definite dai trattati istitutivi della CECA,

della CE e dell’Euratom.

Le Comunità europee, infatti, sono delle organizzazioni alquanto peculiari nel panorama delle

organizzazioni internazionali, dal momento che sono tra le poche organizzazioni alle quali

gli Stati membri hanno effettivamente trasferito un fetta di sovranità, attribuendo

contestualmente a degli organismi autonomi il potere di disciplinare le materie trasferite;

questa caratteristica attribuisce alle Comunità il tipico carattere sovranazionale che le distingue

dalle normali organizzazioni internazionali.

In quest’ultimo caso, infatti, gli Stati membri restano sempre i depositari dei veri e propri

poteri decisionali. Difficilmente le organizzazioni internazionali sono dotate di poteri vincolanti

nei confronti degli Stati aderenti, in quanto la cooperazione riposa sul più classico degli

strumenti del diritto internazionale, vale a dire il trattato; è soltanto con quest’ultimo atto che i

vari paesi esplicitano la loro volontà di obbligarsi a tenere un determinato comportamento.

A differenza dei trattati, invece, gli atti comunitari si impongono agli Stati membri in virtù delle

disposizioni contenute nei trattati istitutivi; tale caratteristica è ulteriormente rafforzata dalla

progressiva affermazione del principio del primato del diritto comunitario.

I settori dove, tuttavia, gli Stati membri non hanno voluto trasferire completamente alle

istituzioni comunitarie i loro poteri sovrani sono quelli della politica estera e della cooperazione

giudiziaria in materia di affari interni. Per questi settori la cooperazione comunitaria continua a

svolgersi secondo il classico schema negoziale delle organizzazioni internazionali (pur con delle

peculiarità), riposando fondamentalmente sulla stipula di convenzioni internazionali che

dovranno essere successivamente ratificate da ciascuno degli Stati membri. Per questo motivo

in ambito comunitario si suole introdurre la distinzione tra settori in cui si applica il metodo

intergovernativo, vale a dire il secondo ed il terzo pilastro, e quelli in cui i meccanismi

decisionali sono quelli propri delle Comunità ed in cui si applica il metodo comunitario.

Metodo intergovernativo

Espressione con la quale si definisce il sistema di funzionamento istituzionale proprio del

secondo e del terzo pilastro dell’Unione europea.

La reticenza di molti Stati a delegare competenze da sempre considerate di esclusiva

competenza interna ad un organo sovranazionale ha difatti indotto gli estensori del Trattato di

Maastricht ad escludere la PESC e la CGAI dal quadro istituzionale della Comunità. Esse

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sono pertanto perseguite mediante una collaborazione a livello intergovernativo anche se la

loro gestione viene comunque affidata agli stessi organi comunitari.

Tutti i meccanismi istituzionali tipici delle Comunità europee e tutti gli atti giuridici previsti dai

trattati istitutivi non possono essere adottati per le materie disciplinate esclusivamente dalla

cooperazione intergovernativa; in sintesi ciò vuol dire che per questi settori non trova

applicazione il metodo comunitario. In questi casi lo strumento principale di cooperazione

rimane la convenzione internazionale, l’unico che effettivamente risulta vincolante per gli Stati

membri, vista anche la scarsa incidenza degli altri strumenti contemplati.

Tuttavia i trattati istitutivi prevedono anche la possibile comunitarizzazione delle materie

disciplinate nell’ambito della cooperazione intergovernativa. Con il meccanismo della cd.

passerella comunitaria settori attualmente disciplinati unicamente dalla cooperazione tra gli

Stati possono essere trasferiti al pilastro comunitario, applicandosi in tal caso le procedure

tipiche delle Comunità. Tale facoltà è stata già utilizzata nel corso della stesura del Trattato di

Amsterdam con il quale si è proceduto ad una comunitarizzazione delle politiche nel campo

dell’immigrazione, dell’asilo, dei visti e altre politiche connesse.

COREPER [Comitato dei Rappresentanti Permanenti]

art. 207 Trattato CE; artt. 17-18 Regolamento interno Consiglio dell’Unione europea

Istituito dal Trattato sulla fusione degli esecutivi del 1965, il Comitato dei rappresentanti

permanenti degli Stati membri è costituito da esponenti delle rappresentanze diplomatiche

degli Stati membri presso le Comunità.

Si tratta di un organo intergovernativo, i cui membri agiscono su istruzione dei rispettivi

governi ma, nel contempo, operando collegialmente come membri di un organo previsto dalla

normativa comunitaria, si collocano all’interno della struttura istituzionale della Comunità.

Più precisamente il COREPER si riunisce a due livelli:

— di ambasciatori rappresentanti permanenti (COREPER II) per trattare gli affari di rilievo

politico e quelli concernenti le relazioni esterne;

— di ministri plenipotenziari rappresentanti permanenti aggiunti (COREPER I) per trattare

gli affari correnti, di procedura o essenzialmente tecnici.

Esso provvede a:

— coordinare l’attività di una serie di gruppi di lavoro, formati da esperti dei governi

nazionali in relazione a materie specifiche;

— predisporre l’ordine del giorno delle riunioni del Consiglio dell’Unione europea;

— organizzare comitati permanenti o ad hoc per la trattazione sistematica di problemi

specifici;

— adottare decisioni di procedura nei casi previsti dal regolamento interno del Consiglio.

I gruppi di lavoro, permanenti o ad hoc a seconda dei casi, elaborano, in accordo con la

Commissione, gli atti su cui il Consiglio dovrà deliberare e li trasmettono al Comitato, cui

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spetta il compito di predisporre l’ordine del giorno delle riunioni inserendo in un primo elenco i

provvedimenti sui quali è stato già raggiunto l’accordo nel Comitato, ed in un secondo elenco

quelli sui quali ancora non vi è unanimità. I primi vengono semplicemente ratificati dal

Consiglio (senza discussione) mentre i secondi sono posti all’ordine del giorno.

Tali compiti non potrebbero essere svolti dal Consiglio (la cui attività è discontinua), né dalla

Commissione (che ha carattere d’indipendenza), mentre il COREPER è portatore degli interessi

degli Stati.

Va rilevato che il COREPER è la sede in cui si svolgono i negoziati tra gli Stati membri e dove

spesso vengono raggiunte soluzioni di compromesso tra i diversi interessi nazionali che

facilitano l’opera del Consiglio.

Ricorsi giurisdizionali comunitari

Sono appelli rivolti alla Corte di giustizia delle Comunità europee, allo scopo di accertare e far

cessare un comportamento in contrasto con l’ordinamento comunitario.

A differenza di ciò che avviene per gli altri organi di giustizia internazionale, possono adire la

Corte sia gli Stati membri che le istituzioni comunitarie e gli individui.

I ricorsi giurisdizionali comunitari si suddividono in:

— ricorso in carenza;

— ricorso per annullamento;

— ricorso per inadempimento;

— ricorso in via pregiudiziale.

Ricorso per inadempimento

artt. 226-227 Trattato CE

Si tratta del giudizio della Corte di Giustizia delle Comunità europee sulla violazione degli

obblighi degli Stati membri derivanti dai trattati e dagli atti vincolanti delle istituzioni.

La procedura è promossa dalla Commissione o da uno Stato membro:

— nel primo caso, quando la Commissione reputa che uno Stato membro abbia violato gli

obblighi derivanti dai trattati, dopo averlo posto in condizione di presentare le sue

osservazioni, emette un parere motivato. Dopo l’esaurimento di questa fase precontenziosa,

qualora lo Stato non si conformi al parere della Commissione, quest’ultima può adire la Corte

di Giustizia;

— nel secondo caso, lo Stato che intenda rivolgersi alla Corte, perché reputa che un altro Stato

membro abbia violato gli obblighi derivanti dai trattati, deve ugualmente rivolgersi prima alla

Commissione.

Si ha dunque anche in questo caso una fase precontenziosa in cui la Commissione istituisce un

vero e proprio contraddittorio tra le parti. Solo dopo l’emissione da parte della Commissione di

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un parere motivato (o qualora la Commissione nel termine di tre mesi non abbia formulato il

parere) lo Stato può adire la Corte.

La sentenza della Corte è di mero accertamento dell’esistenza o meno della violazione; dispone

infatti l’art. 228 che lo Stato “è tenuto a prendere i provvedimenti che l’esecuzione della

sentenza della Corte di Giustizia importa”.

La Corte, in altri termini, non può indicare le misure necessarie per far cessare

l’inadempimento o stabilire (almeno per questa prima fase) misure per il risarcimento di

eventuali danni.

L’art. 228 pone, però, a carico degli Stati membri un nuovo obbligo giuridico, avente ad

oggetto l’esecuzione della sentenza della Corte. Qualora lo Stato non si conformasse a tale

obbligo, sarebbe possibile l’instaurazione di un nuovo giudizio per far constatare una nuova

violazione del trattato.

Il secondo comma dell’art. 228 dispone una prosecuzione del giudizio nel caso in cui lo Stato si

sia reso inottemperante alla sentenza della Corte.

Distinguiamo al riguardo:

— una fase precontenziosa, in cui la Commissione, dopo aver dato allo Stato inadempiente

la possibilità di far conoscere il suo punto di vista, formula un parere motivato. In esso

precisa i punti sui quali lo Stato non si è conformato alla sentenza della Corte, come

pure stabilisce i termini entro cui lo Stato in questione deve adottare i provvedimenti

che l’esecuzione della sentenza comporta;

— una fase contenziosa, meramente eventuale, che si attiva nel caso in cui lo Stato

membro non abbia rispettato il termine impartitogli. In tal caso la Commissione ha la

facoltà di adire la Corte di Giustizia, precisando nel ricorso l’importo della somma

dovuta a titolo di penalità dallo Stato inadempiente.

L’innovazione di grande rilievo introdotta dal Trattato di Maastricht concerne il ruolo della Corte

di Giustizia. Quest’ultima, infatti, ove accolga il ricorso della Commissione, può comminare allo

Stato inadempiente il pagamento di una somma forfettaria o di una penalità.

Ricorso per annullamento

artt. 230-231 Trattato CE; art. 33 Trattato CECA; art. 146 Trattato CEEA

Ha per oggetto gli atti delle istituzioni comunitarie che presentano delle irregolarità.

I soggetti legittimati a presentare ricorso sono suddivisi in ricorrenti privilegiati, i quali possono

chiedere l’annullamento di qualsiasi atto, e ricorrenti non privilegiati che godono di un diritto di

ricorso limitato.

Secondo la disciplina prevista dal trattato CECA sono considerati ricorrenti privilegiati solo gli

Stati membri ed il Consiglio; per il trattato CE e CEEA sono gli Stati membri, il Consiglio e la

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Commissione, i quali possono chiedere l’annullamento di qualsiasi atto che non sia un parere

o una raccomandazione.

Secondo la formulazione dell’art. 230, tra i legittimati attivi e passivi del ricorso per

annullamento sono ricompresi anche il Parlamento europeo e la BCE e la Corte dei Conti,

limitatamente agli atti destinati a spiegare efficacia nei confronti dei terzi.

Sono ricorrenti non privilegiati le persone fisiche e giuridiche.

Il ricorso è sottoposto a un termine di decadenza di due mesi dalla pubblicazione o dalla

notificazione dell’atto (in mancanza della notificazione il termine decorre dal giorno in cui il

ricorrente ha avuto conoscenza dell’atto).

I vizi degli atti comunitari sono:

— incompetenza, che può essere relativa, quando l’istituzione che ha emanato l’atto non

aveva il potere di emanarlo, o assoluta, quando l’atto non era di competenza

comunitaria;

— violazione delle forme sostanziali, cioè mancanza di un requisito di forma essenziale per

la formulazione dell’atto;

— violazione del trattato e delle norme giuridiche relative alla sua applicazione, che deve

intendersi come un vizio residuale, a cui ricondurre la contrarietà dell’atto al trattato

fuori dei due casi già esaminati.

Notiamo che questo vizio si estende, oltre che alle norme contenute nel trattato e negli atti

derivati, anche ai principi generali di diritto comunitario non scritto e alle norme internazionali

vincolanti per le Comunità;

- sviamento di potere ossia esercizio del potere per un fine diverso da quello per il quale tale

facoltà era stata conferita.

Secondo quanto previsto dall’art. 242 del Trattato la Corte può sospendere, in via cautelare,

l’atto impugnato. La domanda di sospensione deve essere presentata dopo aver avviato la

procedura di ricorso o comunque contestualmente ad essa. La sospensione cautelare dell’atto è

di pertinenza del Presidente della Corte dopo una breve udienza in cui sono sentite le parti e gli

intervenuti.

Una volta constatata l’illegittimità dell’atto, la Corte ha il potere di annullarlo, con effetti erga

omnes, a partire dal momento dell’emanazione (annullamento ex tunc).

L’annullamento dell’atto comporta, per l’istituzione che lo ha emanato, l’obbligo di ripristinare

la situazione preesistente all’emanazione dell’atto, anche attraverso la revoca di atti collegati a

quello annullato, nonchè l’obbligo di risarcire i danni provocati dal suo comportamento qualora

questo sia anche illecito.

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Ricorso in via pregiudiziale

art. 234 Trattato CE

Nell’ambito della giurisdizione non contenziosa alla Corte di Giustizia delle Comunità europee

spetta la competenza esclusiva a titolo pregiudiziale sulla interpretazione dei trattati e la

validità degli atti delle istituzioni e dalla BCE.

Inoltre, il nuovo status di istituzione attribuito alla Corte dei Conti fa sì che il sindacato

giurisdizionale della Corte si estenda anche agli atti di questa istituzione.

Scopo di tale attribuzione è quello di assicurare l’uniforme interpretazione del diritto

comunitario.

Si noti che il rinvio pregiudiziale può riguardare:

— la corretta interpretazione da attribuire a disposizioni del Trattato o ad atti di diritto

comunitario derivato .

— Compito della Corte in questo caso è quello di chiarire e precisare “il significato e la

portata della norma, quale deve, o avrebbe dovuto, essere intesa e applicata dal

momento della sua entrata in vigore”;

— la validità di un atto di diritto comunitario derivato. La Corte, in questo caso, è tenuta a

verificare che l’atto in parola rispetti “tutte le regole giuridiche applicabili nel quadro

dell’ordinamento giuridico comunitario”.

L’art. 234 precisa che quando una questione di interpretazione e validità degli atti comunitari

“è sollevata davanti a una giurisdizione di uno degli Stati membri, tale giurisdizione può,

qualora reputi necessaria per emanare la sua sentenza una decisione su questo punto,

domandare alla Corte di Giustizia di pronunciarsi sulla questione”.

Qualora una questione del genere venga sollevata in un giudizio pendente davanti a una

giurisdizione nazionale (avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di

diritto interno) quest’ultima è tenuta a rivolgersi alla Corte di Giustizia.

Pertanto l’iniziativa del giudice interno è facoltativa, ovvero obbligatoria, a seconda che si tratti

di una istanza di primo grado o di un giudice di ultima istanza (ad es. in Italia la Cassazione).

Va rilevato che alla Corte spetta unicamente l’interpretazione dei trattati e degli atti

comunitari, mentre ai giudici nazionali spetta l’applicazione di questi ultimi.

Una volta avutasi l’interpretazione pregiudiziale della questione interpretativa, la causa ritorna

al giudice interno per la decisione sul caso.

Per quanto riguarda le pronunce pregiudiziali sulla validità degli atti emessi dalle istituzioni, pur

essendo questo accertamento diverso da quello condotto per l’annullamento, sia per i soggetti

legittimati a proporre il ricorso, sia per gli effetti della sentenza della Corte (che nel caso

dell’art. 234 sono limitati alla controversia in esame) in pratica le istituzioni, di fronte a una

pronuncia di invalidità nascente da una richiesta di un giudice nazionale, si comportano come

se fosse intervenuto l’annullamento dell’atto, e lo modificano o lo sostituiscono.

Si tratta, se vogliamo, di un mezzo dato al singolo per impugnare un atto comunitario, quando

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non ne sia investito direttamente ed individualmente da poter esperire il ricorso per

annullamento.

In alcuni casi la Corte ha rifiutato di rispondere al quesito pregiudiziale, e precisamente:

• in presenza di questioni puramente ipotetiche e di nessuna utilità per il giudice nazionale;

• in mancanza di indicazioni chiare e precise della base di fatto e di diritto nel quale si

inserivano le questioni sollevate;

• nel caso di controversie fittizie, nelle quali le parti erano già d’accordo sull’esito della

disputa.

È prevista, inoltre, dalla Corte la possibilità di accordare misure cautelari nel caso si

verificassero gli elementi del fumus boni iuris e del periculum in mora.

Per ciò che attiene agli effetti della sentenza pregiudiziale emanata dalla Corte, è opportuno

fare una distinzione. La sentenza interpretativa della Corte vincola il giudice nazionale, che

dovrà eventualmente disapplicare la norma nazionale confliggente con la norma comunitaria.

La sentenza avrà, però, la sua efficacia anche al di fuori del contesto che l’ha provocata, per

diventare vincolante nei confronti di altri giudici che saranno tenuti, in futuro, ad applicarla.

Viceversa, nel caso di una sentenza di validità emessa dalla Corte, l’effetto della stessa si

esplicherà limitatamente al caso di specie ed ai motivi del rinvio. Anche la formula utilizzata

dalla Corte (“dall’esame delle questioni sottoposte alla Corte non sono emersi elementi idonei

ad inficiare la validità dell’atto”), fa intendere che la legittimità dell’atto che si ritiene non

viziato potrebbe essere messa in discussione in un momento successivo e per motivi diversi.

Ricorso in carenza

artt. 232 e 233 Trattato CE

Nel caso in cui il comportamento delle istituzioni abbia rilievo sotto il profilo omissivo, si parla

di ricorso in carenza, che consiste nella constatazione, da parte della Corte di Giustizia, della

omissione di atti dovuti da parte delle istituzioni che a ciò erano tenute.

Sono soggetti legittimati a ricorrere: gli Stati membri, le istituzioni, diverse da quella imputata

di carenza, nonché le persone fisiche e giuridiche se l’atto le riguarda direttamente e se non si

tratti di raccomandazioni o pareri.

Nel novero dei legittimati attivi è inclusa anche la BCE, limitatamente ai ricorsi in settori che

rientrano nella sua competenza o siano stati proposti contro la stessa.

L’innovazione concerne anche i legittimati passivi, tra i quali è stato incluso formalmente il

Parlamento europeo, prima genericamente compreso tra le altre istituzioni della Comunità.

Prima di adire la Corte occorre che l’istituzione carente sia messa in mora e che per due mesi

non abbia preso posizione: entro i due mesi successivi il ricorrente può rivolgersi alla Corte.

Se la Corte dichiara contraria al trattato l’astensione dell’istituzione comunitaria, quest’ultima

ha l’obbligo di adottare i provvedimenti necessari per l’esecuzione della sentenza. Contro

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l’inosservanza di tale obbligo potrà solo esperirsi un nuovo ricorso ai sensi dell’art. 232 del

Trattato.

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Pilastri dell’Unione europea

art. 1 Trattato sull’Unione europea

Espressione comunemente usata nel gergo comunitario per descrivere la struttura tripolare

dell’Unione europea così come delineata dal Trattato di Maastricht.

I tre pilastri che compongono il figurato tempio dell’Unione sono:

— la dimensione comunitaria, disciplinata dalle disposizioni contenute nei trattati

istitutivi delle Comunità europee;

— la politica estera e di sicurezza comune disciplinata dal titolo V del Trattato

sull’Unione europea;

— la cooperazione nei settori della giustizia e degli affari interni contemplata dal

titolo VI del Trattato sull’Unione europea, divenuta, in seguito alle modifiche introdotte

dal Trattato di Amsterdam, cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale e che

costituisce attualmente il terzo pilastro dell’Unione.

La struttura a tempio è il risultato di un compromesso faticosamente raggiunto fra le volontà

contrapposte degli Stati membri al momento della firma del Trattato di Maastricht. In

quell’occasione alcuni Stati, temendo che una netta separazione potesse provocare la

disgregazione della costruzione europea, propendevano per l’inserimento delle tre colonne in

un testo giuridico unitario, assimilando di fatto le nuove politiche a quelle già previste dai

trattati originari. Altri sostenevano invece la necessità di salvaguardare il potere decisionale

degli Stati membri nei settori della politica estera nonché degli affari interni e della giustizia. Il

risultato finale fu questa anomala struttura che attribuisce alle diverse istituzioni ruoli diversi a

seconda del pilastro in cui operano.

La principale differenza tra i tre pilastri è data dal fatto che per le politiche avviate nell’ambito

del primo pilastro si applica il cd. metodo comunitario, che marginalizza il ruolo dei governi

nazionali a favore delle istituzioni comunitarie. I governi degli Stati membri infatti possono

intervenire soltanto nelle forme e secondo le procedure previste dai trattati, bilanciando il loro

ruolo con quello delle altre istituzioni; ciò vuol dire, ad esempio, che nessun atto può essere

adottato nell’ambito del primo pilastro dal Consiglio dell’Unione, istituzione che più

direttamente rappresenta gli interessi degli Stati membri, senza la preventiva iniziativa

legislativa della Commissione delle Comunità europee; com’è noto i trattati istitutivi riservano

l’iniziativa legislativa alla sola Commissione che esercita in tal modo una sorta di controllo a

priori sull’attività legislativa comunitaria.

La collaborazione nell’ambito degli altri due pilastri è, invece, di carattere tipicamente

intergovernativa, attribuendo tutto il potere decisionale agli Stati membri. Gli strumenti tipici

della cooperazione nell’ambito del secondo e del terzo pilastro sono i principi e gli

orientamenti generali, le strategie comuni, le azioni comuni, le posizioni comuni, la

cooperazione sistematica, le decisioni-quadro e le decisioni, tutti scarsamente vincolanti

per gli Stati membri e comunque quasi sempre adottabili soltanto all’unanimità. L’unico atto

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veramente vincolante, previsto soltanto nell’ambito della cooperazione del terzo pilastro, è la

convenzione internazionale che però impegna lo Stato soltanto nel momento in cui ha ricevuto

la ratifica; non a caso quasi tutte le convenzioni elaborate sulla base della cooperazione in

materia di giustizia e affari interni non sono ancora entrate in vigore.

Per quanto riguarda il terzo pilastro è da sottolineare che il Trattato di Maastricht ha anche

previsto la possibilità di trasferire alcune politiche avviate in questo settore nell’ambito del

primo pilastro, avvalendosi della cd. passerella comunitaria e procedendo ad una

comunitarizzazione7 della relativa disciplina. Tale facoltà è stata già sfruttata in occasione

della firma del Trattato di Amsterdam che ha provveduto alla comunitarizzazione delle

disposizioni in materia di asilo, visti, immigrazione e cooperazione doganale.

Primo pilastro

art. 1 Trattato sull’Unione europea

Nell’ambito dell’assetto istituzionale dell’Unione europea delineato dal Trattato di Maastricht,

con questa espressione si fa riferimento ai meccanismi e alle politiche che rientrano nel campo

di attività delle tre Comunità create negli anni ’50.

L’architettura istituzionale dell’Unione europea, sulla base di quanto disposto dall’articolo 1 del

Trattato di Maastricht, viene generalmente individuata come una struttura che poggia su tre

diversi pilastri, il primo dei quali è dato dalle tre Comunità già esistenti; a questo primo

pilastro vanno ad aggiungersi gli altri due relativi alla politica estera e di sicurezza comune e

alla cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale.

Il motivo di questa anomala costruzione va ricercato nella volontà degli Stati membri di non

abdicare del tutto alle proprie prerogative sovrane in settori da sempre considerati di

competenza interna. Nel primo e nel secondo pilastro, infatti, si attua una classica

cooperazione intergovernativa, mentre la cooperazione nei settori del primo pilastro si

avvale di procedure del tutto particolari, applicandosi il cd. metodo comunitario.

In pratica per le politiche intraprese nell’ambito del primo pilastro gli Stati membri hanno

rinunciato alla propria sovranità, attribuendo una competenza esclusiva in materia alle

istituzioni comunitarie. Ciò non vuol dire che gli Stati non hanno alcun potere nei settori

individuati, ma semplicemente che tali poteri vanno esercitati nei modi e secondo le procedure

proprie dei meccanismi comunitari. In particolare la volontà degli Stati si manifesta in seno al

7 Comunitarizzazione Con il termine comunitarizzazione si fa riferimento all’assorbimento in ambito comunitario di politiche in settori che prima erano svolte soltanto a livello di cooperazione tra i governi nazionali, con un coinvolgimento marginale delle istituzioni comunitarie. Con il trasferimento sotto l’ombrello comunitario le procedure cambiano radicalmente: in questo caso, infatti, sono ben definite le istituzioni alle quali compete l’approvazione degli atti (in pratica quelle comunitarie), la procedura di adozione degli stessi è compiutamente disciplinata dal Trattato CE, gli atti che possono essere adottati sono previsti dallo stesso trattato e la Corte di Giustizia è competente ad esercitare il proprio controllo giurisdizionale sulle disposizioni emanate. Tutte queste garanzie non sono invece presenti laddove si applicasse il cd. metodo intergovernativo, nell’ambito del quale i governi degli Stati membri sono i soli arbitri delle decisioni assunte. Con il Trattato di Amsterdam molte politiche condotte nell’ambito della cooperazione in materia di giustizia e affari interni sono state comunitarizzate, così come gli Accordi di Schengen che addirittura esulavano completamente dal quadro istituzionale dell’Unione.

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Consiglio, che tuttavia può deliberare anche senza raggiungere l’unanimità, diversamente da

quanto avviene negli altri due pilastri per i quali la regola è quella del consenso di tutti gli

Stati, regola parzialmente mitigata con l’introduzione del meccanismo dell’astensione

costruttiva .

Il Trattato di Maastricht contiene anche una disposizione, la cd. passerella comunitaria, che

consente il passaggio di determinate politiche dal terzo al primo pilastro; tale strumento è

stato già utilizzato in occasione della stesura del Trattato di Amsterdam con il quale si è

proceduto alla comunitarizzazione delle politiche in materia di immigrazione, asilo, visti e

tematiche connesse, provvedendo altresì alla ridenominazione del terzo pilastro che ora

riguarda la cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale.

Secondo pilastro

art. 1 Trattato sull’Unione europea

Termine che indica, nell’ambito della tipica struttura a tempio dell’Unione, la politica estera e di

sicurezza comune.

La politica relativa al secondo pilastro, seppur gestita ancora al di fuori delle strutture

istituzionali delle Comunità, con il Trattato di Maastricht è entrata a far parte a pieno titolo

degli obiettivi comunitari.

Terzo pilastro

artt. 29-41 Trattato sull’Unione europea

Con riferimento alla struttura istituzionale introdotta dal Trattato di Maastricht con

l’espressione terzo pilastro si indica l’attuale cooperazione di polizia e giudiziaria in

materia penale. Nell’originaria formulazione del Trattato di Maastricht (prima delle modifiche

introdotte dal Trattato di Amsterdam) il terzo pilastro riguardava la cooperazione nei settori

della giustizia e degli affari interni.

La caratteristica fondamentale del terzo pilastro è il metodo intergovernativo con cui

vengono adottati gli atti tutti scarsamente vincolanti ad eccezione delle convenzioni

internazionali.

In seguito alle modifiche apportate dal Trattato di Amsterdam, che ha proceduto alla

comunitarizzazione delle disposizioni in materia di asilo, visti, immigrazione e

cooperazione doganale, rientrano attualmente nel suddetto pilastro:

— la lotta contro il terrorismo;

— la tratta degli esseri umani;

— i reati contro i minori;

— il traffico di droga e armi;

— la lotta contro la corruzione e la lotta contro le frodi.

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Gli obiettivi sono attuati attraverso una più stretta cooperazione fra le forze di polizia, fra le

autorità giudiziarie in materia penale e attraverso un ravvicinamento delle normative nazionali

in materia penale.

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Quattro libertà

artt. 3 e 14 Trattato CE

Sono le quattro libertà fondamentali, simbolo dell’integrazione comunitaria, previste dal

Trattato di Roma per la completa realizzazione il mercato interno:

— la libera circolazione delle merci che prevede la soppressione delle barriere

doganali e il conseguente libero trasporto delle merci tra gli Stati membri;

— la libera circolazione delle persone che ha abolito tutte le formalità doganali tra gli

Stati membri a carico dei cittadini comunitari in transito e ha dato la possibilità ai

lavoratori, sia essi subordinati che autonomi, di svolgere un’attività lavorativa sul

territorio di qualunque Stato membro;

— la libera prestazione dei servizi che si riferisce alla possibilità di fornire prestazioni

retribuite in uno Stato membro diverso da quello di stabilimento;

— la libera circolazione dei capitali in virtù della quale si è avuta la completa

liberalizzazione valutaria e l’integrazione nel settore dei servizi finanziari.

Libera circolazione delle merci

artt. 23-31 Trattato CE; Regolamento CEE 12 ottobre 1992, n. 2193/92

Gli articoli 23-31 del Trattato CE disciplinano la libera circolazione delle merci, sulla premessa

che la Comunità è fondata sopra un’unione doganale. L’attuazione dell’unione doganale è

avvenuta progressivamente, con la soppressione non solo delle barriere fisiche, tecniche e

fiscali, ma anche e soprattutto degli ostacoli tariffari e non tariffari.

L’abolizione degli ostacoli tariffari si riferisce ai dazi doganali ed alle tasse di effetto

equivalente ed è avvenuta il 1° luglio 1968. Per ostacoli non tariffari si intendono, invece, le

restrizioni quantitative all’importazione e all’esportazione e le misure di effetto

equivalente. La differenza tra i due tipi di ostacoli sta non solo nella diversa natura dei dazi

doganali e delle tasse di effetto equivalente rispetto alle restrizioni, ma anche nella diversa

disciplina cui sono sottoposti. Queste ultime, infatti, godono della deroga prevista dall’articolo

30 del Trattato CE, mentre l’articolo 23 pone a carico dei dazi e delle tasse di effetto

equivalente un divieto di carattere assoluto. Ciononostante, sia per le tasse, che per le misure

di effetto equivalente, la Corte di Giustizia ha compiuto un notevole lavoro per ampliare il più

possibile la nozione e farvi rientrare anche quegli oneri o pratiche che solo apparentemente

non erano discriminanti. Va aggiunto, inoltre, che l’articolo 90 del Trattato CE fa divieto agli

Stati membri di applicare, direttamente o indirettamente, imposizioni interne discriminatorie o

protezionistiche rispetto ai prodotti nazionali.

Per quanto riguarda le barriere doganali, invece, dal 1° gennaio 1993 non esistono più

impedimenti al transito da uno Stato all’altro di merci: sono in tal modo scomparsi tutti i

controlli e le formalità doganali. L’attraversamento di una frontiera interna, pertanto, non è più

un evento che dà necessariamente luogo ad un controllo delle merci in transito: ciò non vuol

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dire che lo Stato non potrà più effettuare controlli sui beni viaggianti sul suo territorio, ma più

semplicemente implica un controllo non più sistematico alle frontiere ed attuato secondo

procedure non discriminatorie riguardo all’origine e al modo di trasporto delle merci.

L’intera materia è ora disciplinata dal regolamento n. 2913 del 12 ottobre 1992, il Codice

doganale comunitario, che ha raccolto e armonizzato l’intera normativa relativa al transito

delle merci in ambito comunitario e ricomprende gli scambi tra paesi membri attraverso paesi

terzi e gli scambi con paesi terzi.

Quando lo scambio di merci tra paesi comunitari comporta, per motivi di trasporto,

l’attraversamento di un paese terzo, è necessario porre in essere (tanto al momento dell’uscita

dalla Comunità, quanto al momento del reingresso in essa) un’operazione doganale, sia al fine

di provare lo status comunitario della merce al momento dei reingresso nel territorio della

Comunità, sia a garanzia che la merce stessa non venga immessa in consumo nello Stato

attraversato.

Le modalità di effettuazione di tale operazione doganale variano a seconda che il paese terzo

attraversato aderisca o meno all’EFTA.

Riguardo le merci esportate o importate da paesi terzi, la realizzazione del mercato interno ha

imposto necessariamente un regime uniforme.

Per ciò che concerne le esportazioni verso paesi terzi possono verificarsi due ipotesi:

a) le formalità di esportazione saranno espletate in un ufficio di frontiera della Comunità e

l’inoltro delle merci dallo Stato membro di esportazione fino all’ufficio di frontiera dovrà

avvenire senza alcuna formalità;

b) le formalità di esportazione avranno luogo in un ufficio doganale situato all’interno della

Comunità e l’inoltro delle merci fino all’ufficio doganale della frontiera comunitaria sarà

effettuato senza alcun controllo alle frontiere interne. Nell’ufficio doganale di frontiera dovrà

comunque essere presentato un esemplare della bolletta di esportazione per consentire di

attestare l’uscita delle merci dal territorio doganale della Comunità.

Relativamente alle importazioni di merci da paesi terzi saranno possibili tre soluzioni:

a) le formalità di importazione definitiva saranno espletate nel primo ufficio doganale di

ingresso nella Comunità e le merci potranno, quindi, circolare nel territorio comunitario

senza alcuna forma di controllo;

a) nel primo ufficio di ingresso nella Comunità le merci saranno immesse soltanto in libera

pratica mediante il pagamento dei dazi doganali e circoleranno vincolate al regime di

transito comunitario interno fino al luogo di immissione in consumo, presso la cui dogana

saranno versate le imposte interne;

b) si potrà procedere, contestualmente, alla immissione in libera pratica ed alla immissione in

consumo presso la dogana interna, nella cui competenza territoriale è compreso il luogo di

destinazione finale delle merci. In tale ipotesi le merci circoleranno nell’ambito del mercato

unico e fino al luogo di immissione in consumo vincolate al regime di transito comunitario

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esterno, e presso la dogana interna saranno corrisposti sia i dazi doganali che le imposte

interne.

Libera circolazione delle persone

artt. 3, 14, 17-21 Trattato CE

Con questa espressione si fa riferimento al diritto attribuito ai cittadini degli Stati membri

dell’Unione europea di circolare e soggiornare liberamente su tutto il territorio comunitario,

indipendentemente dall’esercizio di un’attività lavorativa.

Originariamente destinato dal Trattato di Roma ai soggetti economicamente attivi per la

realizzazione del mercato interno, questo diritto è stato successivamente esteso a tutti i

cittadini dell’Unione. Il primo ampliamento della libertà di circolazione dei lavoratori è

riconducibile alla risoluzione del 23 giugno 1981 con la quale venne istituito il passaporto

europeo. L’obiettivo era rafforzare nei cittadini degli Stati membri il sentimento di

appartenenza ad una stessa Comunità e facilitarne la circolazione sul territorio comunitario.

Progressi più significativi si sono avuti con tre direttive (v.) del 1990, recepite

dall’ordinamento italiano con il D.Lgs. 26 novembre 1992, n. 470:

— la direttiva n. 90/364 relativa al diritto generico di soggiorno. In virtù di questo atto, gli

Stati membri accordano il diritto di soggiorno ai cittadini comunitari che non

beneficiano di questo diritto sulla base di altre disposizioni del Trattato istitutivo delle

Comunità e dispongono il rilascio della carta di soggiorno di cittadino di uno Stato

membro, valida per cinque anni e automaticamente rinnovabile;

— la direttiva n. 90/365 relativa al diritto di soggiorno dei lavoratori salariati e non

salariati che hanno cessato la propria attività professionale, estendendo il diritto in

questione anche ai pensionati;

— la direttiva n. 90/366 (successivamente sostituita dalla direttiva n. 93/96) relativa al

diritto di soggiorno per gli studenti, cittadini di uno Stato membro. Il diritto di

soggiorno, constatato mediante la carta di soggiorno, è limitato alla durata della

formazione seguita o all’anno, se la durata della formazione è superiore a tale periodo:

in tal caso la carta di soggiorno è rinnovabile annualmente.

La disponibilità di propri mezzi di sussistenza, tali da evitare oneri per lo Stato

ospitante, è il requisito indispensabile per l’esercizio del diritto di soggiorno.

Strettamente collegato alla libera circolazione delle persone è la realizzazione di uno spazio

senza frontiere, con l’abbattimento dei controlli tra gli Stati membri e l’aumento di quelli alle

frontiere esterne. L’accordo di maggiore rilevanza in questo ambito è quello siglato a

Schengen il 14 giugno 1985 (successivamente integrato dalla Convenzione di applicazione del

19 giugno 1990), cui l’Italia ha aderito nel 1993 ed ha applicato dal 26 ottobre 1997. Il

notevole progresso compiuto dall’accordo è stato però limitato dal fatto che non tutti gli Stati

membri vi hanno aderito, creando in tal modo una frammentazione dello spazio di libera

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circolazione.

Importanti innovazioni nell’ambito della libera circolazione delle persone sono state introdotte

dal Trattato di Maastricht, che ha attribuito a tutti i cittadini degli Stati membri la

cittadinanza europea, che ha come corollari: il diritto per i cittadini degli Stati membri di

circolare e di soggiornare liberamente, fatta salva la competenza esclusiva di ciascuno Stato a

definire quali siano i soggetti che possono avere la propria nazionalità; il diritto di voto ed

eleggibilità alle elezioni comunali nello Stato membro in cui risiede, alle stesse condizioni dei

cittadini di detto Stato; il diritto di usufruire della tutela diplomatica e consolare dello Stato

terzo, al pari dei cittadini di quest’ultimo, qualora su tale territorio lo Stato membro di cui ha la

cittadinanza non è rappresentato; il diritto di presentare petizioni al Parlamento e denunce al

mediatore europeo.

Il Trattato prevede anche disposizioni per i cittadini dei paesi terzi, attribuendo alla Comunità

una competenza specifica in materia di visti (v.) e introducendo la cooperazione nel settore

della giustizia e degli affari interni. Quest’ultima può condurre all’adozione di misure in materia

di attraversamento delle frontiere esterne, di politica dell’immigrazione, di lotta contro il

terrorismo, stabilendo in tal modo un parallelismo tra la creazione di uno spazio di libertà

interno ed il rafforzamento delle politiche comunitarie verso l’esterno del territorio comunitario.

Con il Trattato di Amsterdam molte delle materie prima disciplinate dalle procedure

intergovernative nell’ambito della cooperazione in materia di giustizia e affari interni sono state

comunitarizzate con l’introduzione di un nuovo titolo nel Trattato CE in materia di “Visti, asilo,

immigrazione ed altre politiche connesse alla libera circolazione delle persone”. Inoltre, in virtù

della progressiva convergenza degli obiettivi di Schengen con quelli dell’Unione europea, e al

fine di rimuovere gli ostacoli derivanti dall’esistenza di due sistemi distinti, le disposizioni del

nuovo trattato hanno previsto la comunitarizzazione dell’acquis di Schengen. Tentativi in

proposito erano già stati effettuati negli anni precedenti ma diversi Stati membri si erano

tenacemente opposti, in primis la Gran Bretagna, che, temendo un afflusso incontrollato di

cittadini extracomunitari sul proprio territorio, non solo non aveva aderito alla Convenzione ma

si è anche opposta alla diretta applicabilità dell’art. 14 del Trattato CE relativo alla libera

circolazione delle persone. La comunitarizzazione della Convenzione ad opera del Trattato di

Amsterdam ha, dunque, dovuto tener conto delle posizioni della Gran Bretagna e dell’Irlanda:

l’art. 4 del protocollo sull’integrazione dell’acquis di Schengen ha pertanto previsto che questi

due Stati possano non applicare le disposizioni dell’accordo.

Libera prestazione di servizi

artt. 49-55 Trattato CE

Possibilità garantita ai cittadini comunitari di prestare la propria attività in un altro Stato della

Comunità alle stesse condizioni dei professionisti che vi risiedono, senza dover per questo

stabilirsi nello Stato in cui la prestazione è fornita.

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A differenza del diritto di stabilimento la libera prestazione di servizi non pone come

condizione essenziale del suo esercizio la residenza permanente in un altro Stato membro.

Come per il diritto di stabilimento, però, anche per la libera prestazione di servizi deve essere

applicato il principio della parità del trattamento nazionale: sono, quindi, nulle, non solo le

clausole di nazionalità, ma anche le clausole di residenza e di stabilimento, che operano una

discriminazione verso soggetti, che risiedono in uno Stato diverso da quello nel quale

effettuano la prestazione. È bene sottolineare che gli articoli 49 e 50 non impediscono ad uno

Stato membro di disciplinare l’esercizio, nel proprio territorio, di un’attività non salariata,

sottoponendolo eventualmente a determinate restrizioni e condizioni, ma queste devono

trovare applicazione anche nei confronti dei cittadini dello Stato membro (vedi sentenza CGCE,

Commissione c. Francia, del 26 febbraio 1991 in causa C-154/89).

Secondo il disposto dell’art. 50 del Trattato CE sono considerate come servizi le prestazioni

fornite normalmente dietro retribuzione, in quanto non siano regolate dalle disposizioni relative

alla libera circolazione delle merci, dei capitali e delle persone.

In particolare i servizi comprendono:

— attività di carattere industriale;

— attività di carattere commerciale;

— attività artigiane;

— attività delle libereprofessioni.

Gli artt. 45 e 46 del trattato CE stabiliscono due eccezioni:

— la prima esclude dalla liberalizzazione le attività che partecipino, sia pure

occasionalmente, all’esercizio di pubblici poteri;

— la seconda prevede l’applicazione di disposizioni legislative, regolamentari, ed

amministrative, che prevedono un regime particolare per i non residenti e che siano

giustificate da motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza e di sanità pubblica.

Libera circolazione dei capitali

artt. 56-60 Trattato CE

Secondo quanto disposto dall’art. 56, paragrafo 1, del Trattato CE “sono vietate tutte le

restrizioni ai movimenti di capitali tra Stati membri nonché tra Stati membri e Paesi terzi”. Il

paragrafo 2 dello stesso articolo prevede inoltre, che “sono vietate tutte le restrizioni sui

pagamenti tra Stati membri, nonché tra Stati membri e Paesi terzi”. Già dal dettato

dell’articolo possiamo tracciare una differenza tra i due commi, relativamente all’oggetto della

libertà esaminata: infatti, mentre i pagamenti sono “trasferimenti di valuta che costituiscono

una controprestazione nell’ambito di un negozio sottostante”, i movimenti di capitale sono

“operazioni finanziarie che riguardano essenzialmente la collocazione o l’investimento di cui

trattasi e non il corrispettivo di una prestazione” (vedi sentenza CGCE, Luisi, del 30 gennaio

1984, cause riunite 286/82 e 26/83).

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La precisazione ha una sua importanza per definire il campo di applicazione della libertà in

esame, in quanto per la libera circolazione dei capitali non fu attuata una liberalizzazione

assoluta ed incondizionata come per le altre libertà, ma solo “nella misura necessaria al buon

funzionamento del mercato comune”. Si tratta senza dubbio di una formulazione più prudente

e meno liberale, in virtù di un settore che andava ad investire la politica economica e

monetaria degli Stati membri: tutto ciò, fino all’inizio degli anni ’80, era guardato con molta

cautela, poiché si riteneva che una liberalizzazione assoluta dei movimenti di capitali, avrebbe

potuto provocare uno squilibrio nella bilancia dei pagamenti di uno o più Stati, pregiudicando il

buon funzionamento del mercato comune (vedi sentenza CGCE, Casati, in causa 203/80 dell’11

novembre 1981).

La liberalizzazione dei movimenti di capitali è stata attuata attraverso l’emanazione di tre

direttive (rispettivamente nel 1960, nel 1962 e nel 1986) che, tuttavia, non avevano rimosso

tutti i vincoli ancora esistenti.

Soltanto con la direttiva 88/361 del 24 giugno 1988 è stata introdotta in ambito comunitario la

completa liberalizzazione dei movimenti di capitali, con la soppressione di tutti i controlli e le

restrizioni in materia di cambi.

Il Trattato CE prevede comunque una clausola di salvaguardia, inserita nell’art. 60, laddove

recita che “uno Stato membro può, per gravi ragioni politiche e per motivi d’urgenza, adottare

misure unilaterali nei confronti di un paese terzo per quanto concerne i movimenti di capitali

ed i pagamenti”. L’adozione di tali misure è però subordinata ad alcune condizioni:

— il Consiglio non deve aver adottato alcuna misura;

— lo Stato deve informare la Commissione e gli altri partner comunitari;

— non deve essere intervenuta una delibera del Consiglio che imponga la revoca di tali

atti.

Per far fronte a circostanze eccezionali è, altresì, previsto che le misure di salvaguardia

possano essere adottate dal Consiglio, su proposta della Commissione, sentita la BCE e per un

periodo non superiore a sei mesi.

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Politiche comunitarie

artt. 3-5, 23-188 Trattato CE

Sono gli interventi determinati e diretti delle istituzioni comunitarie e quelli che integrano le

azioni degli Stati membri, realizzati in settori individuati dai trattati istitutivi e nei quali si è

proceduto ad un trasferimento di competenze dagli Stati membri alla Comunità. Le politiche

comunitarie sono disciplinate dalla parte IV del Trattato CE (articoli da 23 a 188).

In origine il Trattato istitutivo della Comunità contemplava esplicitamente soltanto i settori

strettamente connessi alla realizzazione della libera circolazione dei beni, dei servizi, delle

persone e dei capitali: agricoltura, concorrenza, trasporti e commercio. Ben presto, però, il

campo d’azione delle politiche comuni si estese anche ad altri settori, a mano a mano che

procedeva il processo di integrazione e si rendeva necessario operare anche in campi non

esplicitamente previsti dai trattati istitutivi. Attraverso una interpretazione estensiva dell’ex

art. 235 (ora 308), fondamento dei cd. poteri impliciti, furono ad esempio avviate azioni nel

campo dell’ambiente, della coesione economica e sociale o della ricerca e sviluppo tecnologico,

successivamente inserite a pieno titolo tra le politiche comunitarie con l’Atto unico europeo.

Tuttavia è soltanto con il Trattato di Maastricht che si è assistito ad un notevole ampliamento

dei settori di intervento della Comunità (istruzione, cultura, sanità pubblica, protezione dei

consumatori, reti transeuropee, industria, cooperazione allo sviluppo); tale estensione fu

parzialmente compensata dall’introduzione del principio di sussidiarietà.

Il Trattato di Amsterdam ha provveduto ad ampliare ulteriormente le politiche comuni,

introducendo nuove disposizioni in materia di occupazione, cooperazione doganale e politiche

connesse alla libera circolazione delle persone.

Politica sociale

Azioni e misure messe in atto dalla Comunità e dagli Stati membri che hanno come obiettivo la

promozione dell’occupazione, il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro e lo sviluppo

delle risorse umane.

Il Trattato firmato a Roma già prevedeva una serie di disposizioni relative alla politica sociale,

in particolare norme in materia di sicurezza sociale e relative al divieto di discriminazione tra

lavoratori e lavoratrici. Tuttavia i padri fondatori della Comunità non ritenevano necessario

introdurre disposizioni più specifiche, né tantomeno significativi strumenti di intervento;

fondamentalmente si pensava che il miglioramento delle condizioni sociali sarebbe stato una

logica e inevitabile conseguenza dell’integrazione economica.

Un primo impulso ad una più incisiva politica sociale è stato dato con l’approvazione dell’Atto

unico europeo, che prevedeva la procedura di cooperazione, e non più l’unanimità, per

l’adozione degli atti comunitari in questo campo.

Lo stesso trattato tentava per la prima volta di ampliare e sviluppare il dialogo tra le parti

sociali a livello europeo, prefigurando anche la stipula di contratti collettivi di lavoro applicabili

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su tutto il territorio comunitario. Nonostante queste novità la politica sociale europea stentava

a decollare. Per questo motivo durante i lavori preparatori del Trattato di Maastricht fu deciso

di ampliare notevolmente la dimensione sociale della Comunità, estendendo le sue competenze

anche a settori fino ad allora esclusi. Tale decisione incontrava, però, la netta opposizione del

Regno Unito, deciso a bloccare qualsiasi intervento comunitario in questo campo.

La contrapposizione fu superata solo facendo ricorso ad uno stratagemma, alcuni dicono

“pasticcio”, giuridico: il Trattato CE rimase sostanzialmente immutato per quanto riguarda gli

articoli sulle disposizioni sociali, ma ad esso fu aggiunto un protocollo sulla politica sociale,

sottoscritto da 11 Stati (con esclusione del Regno Unito), che in pratica riscriveva gli articoli

del trattato. In questo modo, tutti gli Stati firmatari si sono impegnati a considerarsi vincolati

da questa fonte più che dal Trattato CE, inclusi i nuovi Stati che hanno aderito nel 1995.

Soltanto con il Trattato di Amsterdam è stata superata questa anomalia, dal momento che il

Regno Unito (nel frattempo passato da un governo conservatore ad uno laburista) ha accettato

di aderire pienamente alle politiche comunitarie in questo settore. Nel procedere alla revisione

dei trattati si è provveuto a trasfondere il contenuto dell’accordo sulla politica sociale nei nuovi

articoli da 136 a 145 ed è stato contestualmente abrogato il protocollo n. 14 allegato al

Trattato sull’Unione che conteneva, appunto, le disposizioni adottate a Maastricht.

Attualmente per conseguire gli obiettivi comunitari in materia di politica sociale, tenendo

presente i diritti sociali fondamentali così come stabiliti nella Carta sociale europea e nella

Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori, la Comunità sostiene e

completa l’azione degli Stati membri nei seguenti settori:

— ambiente di lavoro, al fine di migliorarlo per proteggere la sicurezza e la salute dei

lavoratori. In questo campo può ricordarsi la direttiva 89/391, contenente una serie di

garanzie minime suscettibili di essere specificate, completata da altre 12 direttive che si

ispirano alla considerazione di base che “occorre adeguare il lavoro all’uomo”;

— formazione professionale. L’azione si è sviluppata sia attraverso l’impiego dei fondi

strutturali, in particolare il FSE, sia nella realizzazione di un quadro di riferimento

relativo a numerosi programmi. Da segnalare anche l’attività di ricerca e informazione

promossa dal CEDEFOP;

— parità uomo donna. Sebbene già il Trattato sull’Unione, nel richiamare nel preambolo la

Carta sociale europea e la Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei

lavoratori, faceva proprio il rispetto di uguaglianza tra uomini e donne, è solo con il

Trattato di Amsterdam che tale principio diventa uno degli obiettivi principali della

Comunità;

— armonizzazione dei rapporti di lavoro. La disciplina è tutta rivolta a porre garanzie

minime a tutela dei lavoratori. Si segnalano in questo settore numerose direttive e in

particolare la direttiva 94/45 che ha previsto l’istituzione del Comitato aziendale

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europeo formato di rappresentanti dei dipendenti e che ha il diritto di essere informato

e consultato su tutte le misure riguardante gli interessi dei lavoratori;

— dialogo sociale. Se già il Trattato di Roma prevedeva un Comitato economico e sociale

con funzioni consultive, formato dai rappresentanti delle parti sociali, è con il nuovo

articolo 139 del Trattato CE che si prevede una reale promozione del dialogo tra le parti

sociali.

Politica della concorrenza

Politica comunitaria volta a realizzare nel mercato comune una sana e corretta concorrenza tra

le imprese in esso operanti.

Il diritto della concorrenza ha costituito l’elemento principale dei progetti di unificazione

europea; dopo il fallimento della Comunità europea di difesa, infatti, gli Stati membri hanno

convenuto che, prima di poter realizzare una unione politica, era indispensabile creare una

vera unione economica, il cui nucleo centrale fosse rappresentato dalla disciplina dei

comportamenti concorrenziali delle imprese.

Nel porre il principio (all’articolo 3) che l’azione della Comunità comporta “la creazione di un

regime volto a garantire che la concorrenza non sia falsata nel mercato comune”, gli estensori

del Trattato si sono riferiti ai meccanismi tipici dell’economia di mercato.

Pertanto la politica di concorrenza comunitaria mira a tre obiettivi fondamentali:

— contribuire a realizzare l’unicità del mercato comune a vantaggio delle imprese e dei

consumatori. Ciò significa che, oltre ad eliminare gli ostacoli alle frontiere, occorre

applicare tutte quelle regole che impediscono alle imprese di creare artificiose barriere

economiche con accordi di cartello: il consumatore deve essere in condizione di poter

accedere a tutti i beni prodotti nella Comunità ai migliori prezzi, attraverso la piena

trasparenza e fluidità del mercato comunitario;

— impedire l’abuso di potere economico, cioè non consentire che eventuali imprese

sfruttino abusivamente la loro posizione economica dominante sul mercato per far

cadere la regola della “sana concorrenza”;

— mettere in condizione le imprese di razionalizzare la produzione e la distribuzione,

adeguandosi al progresso tecnico e scientifico. In tal modo si contribuisce ad una

migliore divisione professionale e tecnica nell’ambito delle attività economiche svolte nel

territorio comunitario e, di conseguenza, si creano le condizioni per realizzare una

maggiore competitività nel mondo delle imprese appartenenti alla Comunità.

A tal fine la disciplina prevede norme di carattere generale (art. 65 Trattato CECA e artt.85-90

Trattato CE) che enunciano i principi fondamentali della politica di concorrenza, seguiti da

un’elencazione di casi specifici che precisano il contenuto della normativa generale.

Le pratiche vietate, in quanto anticoncorrenziali, sono:

— le intese e le pratiche concordate tra imprese;

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— l’abuso di posizione dominante da parte di una o più imprese;

— l’emanazione o il mantenimento, nei confronti delle imprese pubbliche, di misure

nazionali contrarie al principio di non discriminazione ed alle regole di concorrenza;

— le pratiche di dumping;

— gli aiuti di Stato alle imprese nazionali.

Le disposizioni dei trattati istitutivi sono state nel corso degli anni integrate dalla normativa

derivata emanata dal Consiglio e dalla Commissione.

Tra gli atti più importanti del Consiglio volti all’applicazione delle norme del Trattato CE

figurano:

— il regolamento del 6 febbraio 1962, n.17. Esso dispone che gli accordi che possono

pregiudicare il corretto funzionamento della concorrenza all’interno del mercato comune e lo

sfruttamento abusivo della posizione dominante sono vietati, senza che vi sia la necessità di

un’apposita decisione. Il regolamento, inoltre, disciplina i poteri della Commissione

nell’applicazione delle sanzioni comunitarie volte a porre fine a comportamenti scorretti da

parte delle imprese. L’intervento della Commissione, oltre che d’ufficio, può essere sollecitato

dagli Stati membri o da persone fisiche o giuridiche che vi abbiano interesse (generalmente si

tratta di imprese danneggiate o concorrenti). È così che ha inizio la procedura di verifica,

attraverso la quale la Commissione avanzerà richieste di informazioni alle imprese, oppure si

potrà avvalere del diritto di accesso per effettuare delle verifiche in loco presso le sedi

dell’impresa.

Dopo la fase preliminare, e sulla base degli elementi raccolti, la Commissione può archiviare il

caso, inviando una lettera di archiviazione all’impresa, oppure può inviare a quest’ultima una

comunicazione di addebiti con la quale ha inizio la procedura formale. Quest’ultima può,

inoltre, concludersi con una decisione di infrazione, eventualmente comprensiva di

un’ammenda o di una penalità di mora, che sarà pubblicata sulla GUCE, oppure con una lettera

di archiviazione. Infine, è opportuno segnalare che la Commissione, oltre ad essere titolare di

un potere decisorio conferitogli dall’articolo 3 del regolamento n. 17 del 6 febbraio 1962, ha la

potestà di assumere provvedimenti provvisori. Tale potere le viene riconosciuto dalle pronunce

giurisprudenziali della Corte di Giustizia, al fine di rendere più incisivo il ruolo della

Commissione e per evitare che un pregiudizio grave ed attuale, possa arrecare un danno

irreparabile;

— il regolamento del 20 dicembre 1971, n. 2871. Con questo documento, il Consiglio autorizza

la Commissione ad esentare alcune categorie di accordi dai divieti comunitari;

— il regolamento del 21 dicembre 1989, n. 4064, in seguito più volte modificato, relativo al

controllo delle operazioni di concentrazione di imprese. Solo nelle ipotesi previste

espressamente da tale atto, gli Stati membri possono applicare la propria legislazione

nazionale alle operazioni di concentrazione che abbiano dimensione comunitaria. La sua

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applicazione è demandata alla competenza esclusiva della Commissione, sotto il controllo della

Corte di Giustizia.

La Commissione ha assunto un ruolo sempre più determinante nell’ambito della politica di

concorrenza. Essa, infatti, oltre al potere di istruttoria e di decisione nei casi di violazione della

normativa comunitaria può concedere esenzioni per categoria. La Commissione, inoltre,

pubblica ogni anno una Relazione generale sulla concorrenza. Redatta almeno un mese prima

della sessione del Parlamento europeo, la relazione contiene informazioni sulla politica della

concorrenza in generale e sull’attività della Commissione in tale ambito. Inizialmente questo

documento faceva parte integrante della relazione generale sull’attività della Comunità; a

partire dal 1971 il Parlamento europeo ha chiesto alla Commissione di pubblicare una relazione

autonoma.

Antitrust

artt. 3, 81, 82, 86 Trattato CE; artt. 65-66 Trattato CECA

La politica della concorrenza riveste un ruolo particolarmente importante anche ai fini del

conseguimento degli obiettivi posti dalla Comunità europea per il raggiungimento della

integrazione economico-politica dell’Europa.

L’art. 3 del Trattato CE, infatti, prevede “la creazione di un regime inteso a garantire che la

concorrenza non sia falsata nel mercato interno”.

I principi fondamentali della disciplina della concorrenza, posti dal Trattato di Roma, possono

così sintetizzarsi:

— divieto di intese pregiudizievoli al commercio tra gli Stati membri e restrittive della

concorrenza all’interno del mercato comune, disponendo la nullità delle intese

eventualmente concluse con efficacia retroattiva;

— divieto, alle imprese che hanno una posizione dominante nel mercato comune, di farne

un esercizio abusivo (art. 82);

— disciplina delle relazioni finanziarie tra i poteri pubblici e le imprese pubbliche, nonché

le imprese alle quali gli Stati affidano la gestione di servizi nell’interesse generale (art.

86);

— regolamentazione degli interventi degli Stati membri nell’economia, per impedire che

gli aiuti economici alle imprese generino limitazioni e modifiche al libero esplicarsi della

concorrenza (artt. 87-89).

Il Trattato non contiene, invece, una specifica normativa in relazione alle concentrazioni

d’imprese.

L’applicazione delle regole comunitarie della concorrenza è demandata alla Commissione, che

ha il compito generale di fare rispettare il Trattato CE ed il controllo finale è riservato, ad

istanza degli interessati, alla Corte di Giustizia.

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Un particolare procedimento è previsto, infine, per realizzare il ravvicinamento delle legislazioni

nazionali in materia. L’art. 96 del Trattato stabilisce, infatti, che la Commissione debba

consultarsi con gli Stati membri interessati qualora abbia a constatare “che una disparità

esistente nelle disposizioni legislative, regolamentari o amministrative degli Stati membri falsa

le condizioni di concorrenza sul mercato comune e provoca, per tale motivo, una distorsione

che deve essere eliminata”. Se attraverso tale consultazioni non si perviene ad un idoneo

accordo, spetta al Consiglio (su proposta della Commissione) stabilire le direttive necessarie

per eliminare la distorsione.

Anche il Trattato CECA, applicabile, ratione materiae, alle sole imprese produttrici di carbone

ed acciaio, vieta gli accordi e le attività miranti ad impedire, restringere o falsare il normale

esplicarsi della concorrenza nel mercato comune, nonché gli abusi di posizione dominante e le

concentrazioni finalizzate in vario modo ad alterarla od ostacolarla.

È prevista, peraltro, un’autorizzazione preventiva della Commissione per ogni operazione che

abbia di per se stessa, come effetto diretto o indiretto, una concentrazione tra imprese,

operata attraverso fusione, acquisto di azioni o di elementi dell’attivo, prestiti, contratti, o

qualunque altro mezzo di controllo.

Abuso di posizione dominante

art. 82 Trattato CE

Si intende la posizione di potenza economica di una o più imprese, che consente loro di

determinare unilateralmente il mercato, ostacolando di fatto il gioco della concorrenza, e di

tenere comportamenti indipendenti rispetto a concorrenti, clienti, consumatori (Sent. 13-2-

1979, in causa 85/76; Sent. 10-7-1991 in causa T-70/89).

La possibilità di fissare i prezzi a proprio piacimento è senz’altro l’indizio più sicuro

dell’esistenza di una posizione dominante.

Quest’ultima va inoltre misurata in rapporto al relevant market (cd. mercato rilevante) ossia il

territorio nel quale si producono gli effetti anticoncorrenziali, inteso sia in senso geografico, sia

rispetto alla natura del prodotto.

Non è necessaria, invece, l’esistenza di un vero e proprio monopolio di fatto: non occorre, cioè,

che sia stata effettivamente eliminata ogni concorrenza, bastando la possibilità per una o più

imprese di eliminare dal mercato, a proprio piacimento, le imprese concorrenti.

L’assunzione di una posizione dominante è dunque vietata solo quando viene sfruttata

abusivamente.

L’art. 82 del Trattato CE e la normativa italiana (L. 287/90) vietano l’abuso di posizione

dominante da parte di una o più imprese all’interno del mercato nazionale nella misura in cui

sia pregiudizievole al commercio tra gli Stati membri e specificano, con elencazione non

tassativa, che esso si realizza attraverso le seguenti pratiche:

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— imporre prezzi di acquisto, di vendita o altre condizioni contrattuali ingiustificatamente

gravose;

— impedire o limitare la produzione, gli sbocchi o gli accessi al mercato, lo sviluppo

tecnico o il processo tecnologico, a danno dei consumatori;

— applicare, nei rapporti commerciali con altri contraenti, condizioni oggettivamente

diverse per prestazioni equivalenti, così da determinare ingiustificati svantaggi per la

concorrenza;

— subordinare la conclusione dei contratti all’accettazione da parte degli altri contraenti di

prestazioni supplementari che, per loro natura e secondo gli usi commerciali, non

abbiano alcuna connessione con l’oggetto dei contratti stessi.

Concentrazione di imprese

Regolamento CEE 21 dicembre 1989, n. 4064/89; Regolamento CE 30 giugno 1997, n.

1310/97

Processo attraverso il quale le imprese si raggruppano allo scopo di indebolire la concorrenza

ed accrescere la quota di controllo del mercato.

Nel Trattato CE mancano esplicite previsioni normative volte a disciplinare le concentrazioni tra

imprese sotto il profilo della concorrenza. Ciò è dovuto al fatto che i redattori del trattato

ritenevano la creazione di un apposito strumento di controllo del fenomeno non necessario

poiché, negli anni cinquanta, sul mercato esistevano solo molte piccole e medie imprese. Di

conseguenza le concentrazioni tra imprese venivano addirittura favorite allo scopo di creare

organizzazioni di dimensioni adatte alla Comunità europea.

Nel corso degli anni, con il moltiplicarsi delle fusioni di imprese e delle acquisizioni tra

imprese, si è reso necessario tutelare la concorrenza anche dalle concentrazioni.

La Corte di Giustizia delle Comunità europee ha cercato di colmare la lacuna normativa

comunitaria a riguardo, attraverso un’interpretazione estensiva degli artt. 81, relativo al

controllo delle imprese, e 82, relativo alla repressione degli abusi di posizione dominante.

La Corte ha affermato inizialmente che “le concentrazioni cui partecipano imprese aventi una

posizione dominante possono, in talune circostanze, essere considerate casi di sfruttamento

abusivo di una posizione dominante, ai sensi dell’art. 86, e quindi vietati” (sentenza 21-2-

1973, nel caso Continental Can Company Inc. di New York).

In seguito è pervenuta ad una interpretazione ancor più evolutiva, affermando la possibilità di

applicazione cumulativa degli artt. 81 e 82 alla concentrazione (sentenza 17-11-1987, nel caso

Philip Morris Inc.).

L’interpretazione giurisprudenziale anzidetta ha improntato la formazione del regolamento n.

4064 sul controllo della concentrazione, adottato dal Consiglio il 21 dicembre 1989, la cui

applicazione è demandata alla competenza esclusiva della Commissione, sotto il controllo della

Corte di Giustizia.

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L’art. 3, paragrafo 1, del regolamento stabilisce che si ha un’operazione di concentrazione

quando due o più imprese procedono ad una fusione, oppure quando una o più persone che già

detengono il controllo di almeno un’impresa, o una o più imprese, acquistano direttamente od

indirettamente (sia tramite acquisto di partecipazioni nel capitale o di elementi del patrimonio,

sia tramite contratto o qualsiasi altro mezzo) il controllo dell’insieme o di parti di una o più

imprese.

Tutte le operazioni di concentrazione devono essere notificate alla Commissione, la quale dovrà

dichiarare (con una decisione) l’accertata compatibilità delle stesse con il mercato comune

ovvero ordinare (in ipotesi di incompatibilità) la separazione delle imprese o degli elementi

patrimoniali acquistati o incorporati, la cessazione del controllo comune, nonché ogni altra

misura idonea a ripristinare condizioni di concorrenza effettiva. L’incompatibilità, in particolare,

riguarda quelle operazioni che creano o rafforzano una posizione dominante, sì da ostacolare in

modo significativo il mantenimento o lo sviluppo della concorrenza effettiva nel mercato

comune o in una parte sostanziale di questo.

La procedura prevista dal suddetto regolamento è stata innovata dal regolamento del 30

giugno 1997, n. 1310. La nuova soluzione ha ampliato la competenza della Commissione,

finora limitata ai casi più rilevanti, abbassando la soglia del fatturato necessario per l’esame

delle operazioni di fusione e concentrazione da parte del Commissario Europeo.

Aiuti di Stato alle imprese

artt. 87-89 Trattato CE

Accanto alle regole applicabili alle imprese (private o pubbliche) e che mirano ad impedire che

le stesse tengano comportamenti anticoncorrenziali, il trattato CE prevede anche delle norme

in materia di concorrenza dirette più specificatamente agli Stati membri: si tratta degli artt. da

87 a 89, con i quali viene posto il principio della illegittimità degli aiuti pubblici alle imprese. In

realtà la decisione di uno Stato di concedere ad un’impresa un aiuto ha effetti

anticoncorrenziali, poichè pone l’impresa beneficiaria in una posizione di vantaggio rispetto ai

concorrenti .

In particolare le disposizioni in materia di aiuti degli Stati alle imprese da un lato rispecchiano

l’esigenza che la concorrenza non venga falsata da interventi statali, e dall’altro vengono

incontro a talune esigenze strutturali della politica economica interna. L’art. 87, di

conseguenza, al paragrafo 1 dispone che in linea di principio gli aiuti degli Stati sono

incompatibili col mercato comune. Ai paragrafi 2 e 3 prevede però che possano essere

erogate dagli Stati, previo accordo della Commissione, determinate categorie di aiuti. Esse

sono:

— gli aiuti sicuramente compatibili, come quelli destinati ad ovviare ai danni arrecati dalle

calamità naturali e quelli, a carattere sociale, concessi a singoli consumatori.

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— gli aiuti che possono essere considerati compatibili, come quelli destinati a favorire lo

sviluppo economico delle regioni meno sviluppate, o a promuovere lo sviluppo di un

importante progetto di interesse europeo.

Il controllo sugli aiuti degli Stati alle imprese spetta alla Commissione.

Per i regimi di aiuti esistenti, è istituito un controllo successivo e permanente, mentre per i

progetti è previsto un controllo preventivo.

In entrambi i casi, se lo Stato interessato non ottempera all’obbligo di stand still, la

Commissione o qualsiasi altro Stato interessato, può adire direttamente la Corte di Giustizia, in

deroga agli artt. 226 e 227 CE.

L’attività svolta dalla Commissione in questo settore è stata molto intensa, e si è basata su

alcuni principi che la stessa ha elaborato secondo i quali gli aiuti degli Stati devono:

a) essere inquadrati in una prospettiva comunitaria;

b) rispondere a determinati criteri economici: cioè, devono rendere le imprese capaci di

affrontare il mercato sulla base dei propri mezzi;

c) essere proporzionati alla gravità dei problemi da risolvere;

d) essere temporanei e cessare una volta raggiunto l’obiettivo.

In particolare, nell’applicazione pratica di tali principi, la Commissione ha individuato e

disciplinato tre principali tipi di aiuti degli Stati alle imprese, e precisamente:

— gli aiuti regionali, ossia quelli che gli Stati concedono sulla base di particolari problemi

relativi ad una determinata area geografica, caratterizzati dalla mancanza di specificità

settoriale (il che significa che ne possono usufruire tutte le imprese che operano in

quell’area, prescindendo dalle eventuali difficoltà del settore in cui operano);

— gli aiuti settoriali, ovvero quelli che gli Stati concedono in considerazione delle difficoltà

di un determinato settore economico;

— gli aiuti generali, cioè quelli che sono privi di una loro specificità regionale o settoriale e

che rispondono invece a necessità più generiche d’incentivazione, ovvero sono concessi

a imprese in crisi.

Quest’ultima categoria di aiuti è, ovviamente, quella più “sfuggente”; infatti la Commissione li

considera, in linea di principio, incompatibili col mercato comune. La Commissione ha tuttavia

ammesso che si possa presentare la necessità per gli Stati di erogare aiuti di tal genere; essi

possono di conseguenza essere autorizzati, ma a condizione che gli Stati ne rendano più

agevole il controllo, il che può avvenire, in generale, inserendo gli aiuti generali in programmi

regionali o settoriali.

Tutela dei consumatori

Sebbene il trattato istitutivo della Comunità europea non contemplasse alcuna specifica

disposizione in materia, è opinione corrente che essa abbia ricevuto notevole impulso ad opera

dell’ordinamento comunitario.

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Affinché alla politica dei consumatori fosse conferito uno specifico fondamento giuridico, fu

necessario attendere l’approvazione dell’Atto unico europeo, il quale dava mandato alla

Commissione di definire le proprie proposte di legislazione per la realizzazione del mercato

unico, in relazione a rigorosi criteri di tutela nei settori della salute, della sicurezza,

dell’ambiente e della protezione dei consumatori.

Ma è solo con il Trattato di Maastricht che viene segnata una tappa fondamentale per questo

settore. Con questo atto, infatti, è stato introdotto un apposito titolo dedicato alla tutela dei

consumatori (l’ex titolo XI, ora XIV), nel quale esplicitamente si affermava l’obiettivo di

garantire un “elevato livello di protezione dei consumatori”. Nello stesso titolo si precisava che

le iniziative dell’Unione europea, a protezione dei consumatori, dovevano tendere ad integrare

e a non sostituire le attività delle autorità nazionali regionali e locali, limitandosi a definire un

livello comune di tutela dei consumatori valevole per il mercato unico.

L’art. 129A (ora 153) del Trattato CE è stato successivamente riformulato con il Trattato di

Amsterdam. Dopo aver sottolineato l’esigenza di garantire una più adeguata promozione degli

interessi economici dei consumatori, del loro diritto all’informazione, all’educazione e

all’organizzazione per la salvaguardia dei propri interessi, l’art. 153 sottolinea che la Comunità

provvederà a garantire un alto livello di protezione dei consumatori nella definizione e

nell’attuazione di ogni sua politica.

Lo stesso articolo stabilisce che la Comunità contribuisce al conseguimento degli obiettivi sopra

citati mediante:

— misure relative al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e

amministrative;

— misure di sostegno, di integrazione e di controllo della politica svolta dagli Stati membri,

adottate dal Consiglio secondo la procedura di codecisione.

In attuazione degli obiettivi comunitari in materia di difesa dei consumatori sono state

emanate una serie di direttive riguardanti la sicurezza dei prodotti, l’etichettatura degli

alimenti, la pubblicità ingannevole, i diritti dei consumatori nelle vendite a domicilio.

Un’accelerazione nei tempi di produzione legislativa si ebbe nel 1992 con il varo del

programma per l’attuazione del mercato unico: tra il 1988 e il 1993 furono, infatti promulgate

una serie di direttive di portata settoriale che fissavano i requisiti di sicurezza per i giocattoli, i

mezzi e le attrezzature di protezione del personale e che disponevano nuovi controlli sanitari e

sistemi di etichettatura per gli alimenti e i prodotti agricoli.

Questa direttive furono completate nel 1992 con una direttiva ad indirizzo generale; essa

imponeva ai fabbricanti e ai distributori l’obbligo d’immettere sul mercato prodotti sicuri e

attribuiva la responsabilità agli Stati membri in merito all’utilizzo delle strutture di controllo per

verificarne l’applicazione.

Infine è da menzionare la decisione n. 283 del 25 gennaio 1999 che stabilisce un quadro

generale per le attività comunitarie a favore dei consumatori. Tale decisione è stata adottata al

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fine di contribuire alla realizzazione di un livello elevato di protezione dei consumatori, della

salute umana e di contribuire al rafforzamento della fiducia dei consumatori nei prodotti e nei

servizi.

Il quadro generale di attività per il periodo 1° gennaio 1999-31 dicembre 2000 identifica

quattro settori d’intervento della Comunità a tutela dei consumatori:

— la loro salute e sicurezza in relazione a prodotti e servizi;

— la protezione dei loro interessi economici e giuridici, compreso l’accesso ai mezzi di

risoluzione delle controversie;

— l’educazione e l’informazione sui mezzi di tutela e i diritti di cui essi godono;

— promozione e rappresentanza dei loro interessi.

La Commissione è l’organo preposto alla vigilanza sull’attuazione del quadro generale, valuta i

risultati delle azioni e dei progetti realizzati ed ha il compito di presentare al Parlamento e al

Consiglio una relazione sui primi tre anni di attuazione delle attività realizzate nell’ambito del

quadro generale.

Tutela della sanità pubblica

artt. 30, 39 e 46 Trattato CE

La protezione della sanità pubblica rientra tra le deroghe previste dal Trattato in materia di

libera circolazione delle merci e libera circolazione dei lavoratori dipendenti e

autonomi.

In relazione alle deroghe previste in tema di libera circolazione delle merci, l’articolo 30 del

Trattato CE fa riferimento alla tutela della salute pubblica, deroga più volte invocata dagli

importatori nazionali per impedire che fossero importati alcuni prodotti alimentari contenenti

additivi o conservanti ammessi dalla legislazione dello Stato di produzione, ma vietati nello

Stato di importazione. La Corte di Giustizia si è più volte pronunciata, adottando il criterio di

subordinare l’ammissibilità di una legislazione restrittiva solo in presenza di determinate

condizioni, quali la possibilità, da parte degli importatori dei prodotti in causa, di chiedere una

deroga al divieto di importazione, attraverso la prova che l’additivo non è pericoloso per la

salute e che il suo uso è reso necessario per ragioni tecniche, quali, ad esempio, le esigenze di

trasporto (sentenza CGCE del 12 marzo 1987, Commissione c. Germania, in causa 178/84;

sentenza CGCE del 4 giugno 1992, Debus, cause riunite C-13/91 e C-113/91; sentenza CGCE

del 16 luglio 1992, Commissione c. Italia, in causa C-95/89).

Per ciò che riguarda la tutela della sanità pubblica, come deroga alla libera circolazione dei

lavoratori, la direttiva 64/221 prevede (articolo 4) che solo le malattie o infermità contenute

nel suo allegato possono essere invocate nei confronti di un lavoratore, e sempreché le

patologie siano insorte prima del rilascio del primo permesso di soggiorno. Lo stesso dicasi

per la libera circolazione dei lavoratori autonomi, relativamente alle norme di cui all’articolo 46

del Trattato CE.

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Sanità pubblica

Politica comunitaria volta a garantire un elevato livello di protezione della salute umana.

L’azione della Comunità, che completa quelle degli Stati membri, è rivolta alla prevenzione

delle malattie e alla eliminazione delle fonti di pericolo per la salute umana, in particolare

attraverso la ricerca sulle cause, la propagazione e la prevenzione dei grandi flagelli, quali ad

esempio la droga, nonché l’informazione e l’educazione in materia sanitaria.

Gli obiettivi dell’attività dell’Unione nell’ambito della sanità pubblica sono raggiunti attraverso

l’operato del Consiglio, il quale, deliberando secondo la procedura di codecisione, previa

consultazione del Comitato economico e sociale e del Comitato delle Regioni, può adottare

misure:

— che fissano parametri elevati di qualità e sicurezza degli organi e delle sostanze di origine

umana, del sangue e degli emoderivati. In ogni caso, queste misure non pregiudicano le

disposizioni nazionali riguardanti la donazione e l’impiego medico di organi e sangue;

— nei settori veterinario e fitosanitario per la protezione della sanità pubblica;

— di incentivazione volte a proteggere e a migliorare la salute umana, escludendo qualsiasi

armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri.

Tutte queste azioni, però, rispettano le competenze degli Stati membri relative

all’organizzazione e alla fornitura dei servizi sanitari.

In particolare, nel settore farmaceutico, è stata istituita l’Agenzia europea per la valutazione

dei medicinali che pone in stretto collegamento le autorità sanitarie degli Stati membri.

Politica industriale

Politica comunitaria diretta a sostenere la competitività dell’industria europea sui mercati

internazionali.

A tal fine l’art. 157 del Trattato CE precisa che, in conformità al sistema dei mercati aperti e

concorrenziali, l’azione della Comunità in questo settore è tesa a perseguire i seguenti

obiettivi:

• sollecitare l’adattamento dell’industria ai mutamenti strutturali;

• creare le condizioni favorevoli ad incoraggiare lo sviluppo delle imprese, con particolare

riguardo alle PMI;

• stimolare la cooperazione fra le imprese;

• favorire lo sfruttamento del potenziale industriale delle politiche di ricerca e sviluppo

tecnologico.

Le azioni vengono decise dalla Comunità ed è prevista la possibilità che il Consiglio possa

deliberare misure di sostegno all’azione degli Stati membri. È inoltre contemplato il

coordinamento e la consultazione reciproca fra di essi in collegamento con la Commissione.

La necessità di procedere alla definizione di una politica industriale fu dettata dall’esigenza di

salvaguardare le industrie europee minacciate dalle importazioni, consentendo agli operatori

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economici di continuare ad ottenere dei profitti anche in uno spazio così esteso e competitivo

come il mercato unico.

La politica industriale non era tuttavia espressamente prevista dai Trattati istitutivi: il

fondamento giuridico dell’azione comunitaria in questo campo era costituito dagli obiettivi

generali contenuti nell’art. 308 del Trattato stesso.

Nel corso degli anni ’70 e ’80 tale politica è stata circoscritta ad interventi settoriali, intrapresi

per lo più attraverso l’elaborazione di programmi strutturali in settori specifici (industria tessile,

siderurgia etc.). Si era difatti disposti a bloccare temporaneamente il gioco della concorrenza

pur di favorire la diminuzione delle capacità di tutte le imprese del settore, ritenendo che l’uso

delle barriere commerciali e delle regole discriminatorie applicate per proteggere le imprese

fosse in grado apportare dei benefici economici all’industria comunitaria.

Fu solo a partire dagli anni ’90 che si cominciò a delineare un nuovo approccio in materia

industriale. In quell’anno la Commissione presentò un documento con il quale dettava nuove

linee direttrici, evidenziando l’importanza della concorrenza e dello sviluppo di politiche di

adattamento positive che favorissero la cooperazione fra PMI e grandi imprese. Il

miglioramento della competitività dell’industria non doveva pertanto essere più perseguito

attraverso il ricorso a misure settoriali di tipo protezionistico, bensì mediante provvedimenti

tesi alla creazione di un clima favorevole allo sviluppo di tale competitività che solo la

liberalizzazione dei mercati avrebbe potuto garantire.

L’affermazione di questi principi influenzò in larga misura la formulazione dell’art. 157,

introdotto con il Trattato di Maastricht, nonché i successivi interventi della Commissione in

materia industriale.

Nel settembre del 1994 quest’ultima stabilì infatti le seguenti quattro priorità sulla base delle

quali si sarebbe dovuta portare avanti la politica industriale comunitaria:

— promozione dell’investimento immateriale. Questa comprende la ricerca e lo sviluppo

tecnologico, il miglioramento della formazione professionale, l’introduzione di nuove forme

di organizzazione del lavoro, lo sviluppo di reti di informazione e l’apertura a nuovi mercati;

— sviluppo della cooperazione industriale. Tale priorità include il rafforzamento della posizione

delle imprese europee sui mercati in espansione geografica, il trasferimento di esperienze a

beneficio delle piccole e medie imprese e la promozione di investimenti nei paesi

dell’Europa centro orientale, nei paesi asiatici di nuova industrializzazione e in quelli

dell’America latina;

— mantenimento di condizioni di concorrenza eque. Si tratta di procedere al consolidamento

della libera concorrenza assoluta all’interno del mercato europeo e all’instaurazione di un

regime di concorrenza internazionale che superi i risultati raggiunti dal GATT e

dall’Uruguay Round attraverso l’eliminazione degli accordi bilaterali che creano disparità sul

mercato mondiale;

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— modernizzazione dell’intervento statale. L’obiettivo viene attuato tramite lo snellimento

delle procedure amministrative e il potenziamento della cooperazione amministrativa tra le

autorità comunitarie e quelle degli Stati membri.

Per sostenere la competitività dell’industria europea sui mercati internazionali la Comunità si

avvale di una serie di strumenti che vanno dall’erogazione di contributi finanziari all’adozione di

misure fiscali, dalla promozione della ricerca tecnologica alla concessione di appalti pubblici.

Fra gli strumenti più innovativi si ricordi inoltre la creazione di organismi di trasferimento delle

tecnologie e l’istituzione di un ente di consulenza tecnologica diretto a favorire lo scambio di

opinioni e di esperienze fra esperti nei settori delle scienze, della politica e dell’economia.

L’azione intrapresa dalla Comunità in questo campo coinvolge inevitabilmente settori di

competenza di altre politiche. E’ pertanto necessario che nell’attuazione della politica

industriale essa tenga conto anche di elementi che ineriscono la ricerca e lo sviluppo

tecnologico, la politica della concorrenza, la politica ambientale, la politica

dell’istruzione e la politica di formazione professionale.

Politica energetica

Politica finalizzata alla creazione di un mercato interno dell’energia.

Inizialmente l’intervento comunitario in questo settore era limitato ai campi d’azione tracciati

dalle disposizioni specifiche contenute nei Trattati CECA ed EURATOM, relative rispettivamente

al carbone e all’energia nucleare.

Fu soltanto in seguito alla crisi petrolifera del 1973, e alla conseguente necessità di ridurre la

forte dipendenza che i paesi europei avevano sviluppato nei confronti delle importazioni di

greggio, che cominciò a delinearsi una vera e propria strategia nel settore energetico, fondata

sulla diversificazione delle fonti energetiche e sulla riduzione dei consumi.

In seguito al Vertice europeo tenutosi a Copenaghen nel dicembre del 1973 fu deciso che la

Comunità avrebbe adottato una politica centralizzata in materia di accumulo e gestione delle

scorte, che sarebbero state gestite da un apposito organismo, il Comitato dell’energia.

Nel corso degli anni ’80 la Comunità arrivò pertanto a ridurre del 50% le sue importazioni di

greggio e del 20% i suoi consumi energetici; in questo periodo furono inoltre adottate le prime

misure dirette a ridurre i danni ambientali provocati dall’impiego di alcune fonti energetiche

altamente inquinanti. Fra queste, l’introduzione della benzina senza piombo, la diminuzione del

tasso di zolfo nei combustibili per il riscaldamento e la limitazione delle sostanze tossiche

emesse dai gas di scarico delle automobili.

All’inizio degli anni ’90 cominciò tuttavia a registrarsi una nuova crescita della dipendenza della

Comunità in materia di approvvigionamento energetico, accompagnata da una serie di

fenomeni piuttosto allarmanti, fra cui l’influenza sulle condizioni climatiche della presenza di

biossido di carbonio nell’atmosfera e i problemi concernenti l’energia nucleare e lo smaltimento

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delle scorie. Da qui la necessità che la Comunità si adoperasse affinché le azioni promosse

dagli Stati membri potessero convergere verso obiettivi comuni.

Un primo passo in questa direzione è stato compiuto con la pubblicazione del Libro verde nel

gennaio 1995, con il quale la Commissione ha provveduto a delineare le tre principali finalità

verso cui devono tendere gli Stati membri nell’elaborazione di una politica energetica comune:

assicurare la sicurezza dell’approvvigionamento, promuovere la tutela dell’ambiente e

garantire la sicurezza dei consumatori.

Il Libro bianco pubblicato dalla Commissione nel dicembre dello stesso anno ha poi

provveduto a tradurre questi obiettivi in veri e propri orientamenti per la politica energetica

degli anni a venire.

Il documento, intitolato “Una politica energetica per l’Unione europea ”, ha difatti proposto un

programma d’azione per una durata di cinque anni, da realizzarsi attraverso i seguenti

interventi strategici:

— l’integrazione del mercato energetico sulla base del principio dei mercati aperti e

concorrenziali, che comporta la fissazione un quadro politico generale che tenga conto

delle differenze strutturali del mercato dell’energia all’interno degli Stati membri;

— il sostegno dello sviluppo durevole, che si sostanzia nella necessità di rendere

compatibili gli obiettivi energetici e quelli ambientali. Tali interventi comportano

l’adozione di misure economiche e fiscali tese a limitare le emissioni di gas ad effetto

serra, l’utilizzo di un sistema più trasparente di fissazione del costo totale della

produzione e del consumo di energia e la sensibilizzazione dei cittadini europei nei

confronti dell’influenza che le scelte individuali in questo settore possono avere

sull’ambiente;

— la promozione della ricerca e delle tecnologie avanzate, allo scopo di contribuire alla

diffusione delle fonti energetiche alternative, allo sviluppo durevole e alla riduzione dei

consumi. Tale finalità può essere raggiunta mediante una maggiore integrazione fra le

esigenze del mercato dell’energia e le varie fasi della ricerca e dello sviluppo tecnologico

in questo campo;

— la gestione della dipendenza energetica, che consenta di garantire la sicurezza degli

approvvigionamenti attraverso la valutazione dell’aumento dei consumi energetici a

livello mondiale e della situazione politica dei principali paesi fornitori.

Approvvigionamenti più sicuri potrebbero inoltre essere favoriti dall’instaurazione di

relazioni più strette con i paesi terzi in campo energetico, in modo da poter rispondere

in maniera più flessibile ad eventuali interruzioni di forniture di energie fondamentali,

quali petrolio e gas.

L’impegno comunitario nel settore energetico è proseguito con l’adozione della comunicazione

della Commissione del 23 aprile 1997, in cui vengono individuate le sfide principali che la

Comunità sarà chiamata ad affrontare nei prossimi anni.

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Fra queste:

— la necessità di rendere i mercati energetici maggiormente rispondenti alle urgenze

ambientali, con particolare riferimento agli impegni presi dalla Comunità in tema di

cambiamenti climatici;

— l’aumento vertiginoso della dipendenza energetica dei paesi membri, che per il 2020

raggiungerà probabilmente il 70 % per il gas naturale, l’80 % per il carbone ed il 90%

per il petrolio;

— l’esigenza di assicurare prezzi energetici più competitivi, in grado di adeguarsi al

processo di globalizzazione dell’economia.

Fra gli strumenti più importanti elaborati nel corso degli anni ’90 nel quadro della politica

energetica, l’adozione della Carta europea dell’energia, firmata nel 1991 da 51 Stati e

contenente i principi fondamentali che i paesi firmatari dovrebbero osservare per consentire la

creazione di un libero mercato delle risorse energetiche.

Allo scopo di rendere vincolanti i principi enunciati dalla Carta sull’energia, gli Stati firmatari

hanno in seguito provveduto a concludere il Trattato sulla Carta europea dell’energia, che

contiene disposizioni relative alla tutela degli investimenti, allo scambio di materiali e prodotti

energetici, al transito e alla soluzione delle controversie.

Nel 1994 il Consiglio europeo ha inoltre stabilito un programma specifico relativo al

finanziamento delle reti transeuropee di trasporto dell’energia.

La Comunità contribuisce inoltre, a sostenere una serie di programmi diretti al progresso

tecnologico nel settore dell’approvvigionamento, dell’utilizzo delle risorse energetiche e della

conversione. Fra questi, Altener e SAVE per la riduzione del disossido di carbonio e lo

sviluppo delle energie rinnovabili e Energia, ambiente e sviluppo sostenibile, programma

di ricerca nel settore dell’energia non nucleare.

Infine è da menzionare il programma quadro nel settore dell’energia (v.) e misure

connesse per il periodo 1998-2002, adottato con decisione del Consiglio il 14 dicembre 1998 n.

1999/21/CE/Euratom.

Politica dell’ambiente

Politica comunitaria volta alla salvaguardia, alla tutela e al miglioramento dell’ambiente.

I Trattati istitutivi delle Comunità europee non prevedevano alcuna competenza specifica in

materia ambientale, sebbene nel preambolo del Trattato istitutivo della CEE fosse indicato tra

gli obiettivi degli Stati fondatori anche il “miglioramento costante delle condizioni di vita” dei

popoli. Nonostante ciò la Comunità ha avvertito sin dagli anni ’60 l’esigenza di adottare

provvedimenti specifici in materia di protezione ambientale: risalgono, infatti, al 1967 la prima

direttiva riguardante la classificazione, l’imballaggio e l’etichettatura di alcuni prodotti

pericolosi (direttiva n. 67/548/CEE) e al 1970 le direttive n. 70/157/CEE e n. 70/220/CEE

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riguardanti, rispettivamente, l’inquinamento da rumore e le emissioni inquinanti da veicoli a

motore. Contemporaneamente, la Commissione in un memorandum sottolineava la necessità

per gli Stati membri di adottare un programma d’azione a livello comunitario che riguardasse

la tutela dell’ambiente.

Tuttavia fu soltanto nel corso della Conferenza delle Nazioni Unite (v. ONU) di Stoccolma del

1972 che tale volontà riuscì a concretizzarsi in un preciso indirizzo comunitario,

successivamente ribadito in seno alla Conferenza dei Capi di Stato della Comunità tenutasi a

Parigi nel 1972.

La base giuridica per l’adozione degli atti comunitari era inizialmente costituita dagli artt. 94 e

308 del Trattato CE, riguardanti rispettivamente il ravvicinamento delle disposizioni

legislative, regolamentari e amministrative e i cd. poteri impliciti.

Nel 1987, con l’approvazione dell’Atto Unico Europeo, fu inserito un nuovo titolo

specificamente destinato alla tutela dell’ambiente e formato dagli artt. 174-176, nel quale

venivano per la prima volta definiti gli obiettivi, i principi e gli strumenti per la politica

comunitaria in questo settore, successivamente riconfermati dal Trattato sull’Unione europea,

seppure con alcune modifiche.

Con la firma del Trattato di Amsterdam la tutela dell’ambiente ha assunto una valenza

trasversale nell’ambito delle politiche comunitarie. Secondo quanto previsto dal nuovo articolo

6, infatti, tutte le politiche devono tener conto delle esigenze connesse alla salvaguardia

dell’ambiente, soprattutto nella prospettiva di promuovere lo sviluppo sostenibile, vale a

dire uno sviluppo economico che consenta di non alterare il delicato equilibrio ambientale.

Gli obiettivi principali dell’attività comunitaria in materia ambientale sono: la salvaguardia, la

tutela ed il miglioramento della qualità dell’ambiente, attraverso un uso razionale delle risorse

naturali; la protezione della salute umana; la promozione di azioni concertate a livello

internazionale.

I principi che informano l’azione comunitaria invece sono:

— il principio dell’azione preventiva, secondo il quale è necessario predisporre tutte le

misure volte ad evitare danni ambientali;

— il principio della correzione (soprattutto alla fonte) dei danni causati all’ambiente.

Questo principio impone un’immediata rimozione della fonte di inquinamento

ambientale;

— il principio chi inquina paga, in base al quale chi produce danni all’ambiente è tenuto al

risarcimento della collettività;

— il principio della precauzione. Esso impone a tutti coloro che svolgono attività

potenzialmente dannose per l’ambiente, la ricerca di rimedi atti a scongiurare un tale

evento.

Sebbene la normativa in materia di protezione ambientale abbia previsto il trasferimento di

competenze alle istutzioni comunitarie, gli Stati membri possono comunque applicare la

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normativa nazionale qualora questa risulti maggiormente efficace. Il Trattato CE, inoltre,

prevede che gli Stati membri e l’intera Comunità concludano accordi con Stati terzi e con le

organizzazioni internazionali nell’ambito di attuazione della politica ambientale.

I settori d’intervento dell’attività legislativa dell’Unione sono:

— l’inquinamento atmosferico. L’azione comunitaria è molto in ritardo rispetto al grave

inquinamento raggiunto dall’atmosfera, nonostante l’adozione di numerose direttive in merito

all’emissione di gas di scarico dei veicoli a motore e alle immissioni di rifiuti industriali.

La direttiva 84/360/CEE del 24 giugno 1984 ha introdotto la disciplina quadro relativa

all’inquinamento atmosferico provocato dalle emissioni industriali, prevedendo valori-limite di

emissioni.

Per quanto riguarda l’uso dei clorofluorocarburi (cfc), il regolamento 3952/92 del dicembre

1992, ha imposto la totale eliminazione dal 1° gennaio 1995 dei cfc utilizzati dalle industrie

degli espansi plastici, della refrigerazione e dei condizionatori.

All’esame del Consiglio c’è ancora la proposta di applicare la carbon tax (v.), per ridurre la

concentrazione di sostanze inquinanti nell’atmosfera e aumentare il rendimento energetico;

— l’inquinamento delle acque. La Comunità ha adottato numerose direttive che fissano i livelli

di qualità dell’acqua potabile, delle acque per la balneazione, dell’acqua dolce con presenza di

pesci e di quelle per l’acquacoltura. In particolare la direttiva 74/464/CEE riguarda

l’inquinamento provocato da sostanze dannose scaricate nell’ambiente idrico; essa è stata

successivamente integrata da provvedimenti contenenti misure più restrittive per la protezione

delle falde acquifere. Nell’ambito della cooperazione con i paesi terzi, la Comunità ha firmato

molteplici convenzioni volte alla riduzione dell’inquinamento nelle vie di navigazione

internazionali;

— l’inquinamento acustico. Alcune direttive comunitarie fissano i livelli massimi di rumore dei

veicoli a motore, dei motoveicoli, degli aerei subsonici, dei trattori, dei tosaerba e dei

macchinari per l’edilizia. Per quanto riguarda gli elettrodomestici il loro livello di rumorosità

deve essere indicato sull’imballaggio;

— lo smaltimento e il trattamento dei rifiuti. La direttiva quadro in tema di rifiuti e loro

smaltimento è la 75/442/CEE che fissa i criteri di base relativi a tutti i rifiuti in riferimento alla

raccolta, allo smaltimento, al riciclaggio e al trattamento. La disciplina in essa contenuta è

stata successivamente integrata dalla direttiva 78/319/CEE del 1978 sui rifiuti tossici e

pericolosi;

— la protezione della fauna e della flora. Nella direttiva 79/409/CEE relativa alla salvaguardia

degli uccelli selvatici sono contenute le norme generali per la loro protezione: vengono difatti

ridotte le specie per cui è consentita la caccia, sono elencati i mezzi per praticare la caccia,

vengono stabiliti limiti al commercio di alcune specie e sono fissati i criteri generali per la

protezione degli habitat naturali.

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Nel 1986, invece, è stata introdotta la disciplina concernente la protezione degli animali

utilizzati a scopi sperimentali o scientifici in particolare per quelle in via di estinzione.

Altre due direttive vietano l’uso di prodotti provenienti dalle balene e dai cuccioli di foca

destinati a fini commerciali;

— la valutazione di impatto ambientale. Con direttiva 85/337/CEE è stato previsto (a partire

dal 3 luglio 1988) che i principali interventi di sviluppo pubblici o privati concernenti

l’agricoltura, l’industria o le infrastrutture debbono essere soggetti ad una valutazione

dell’impatto ambientale che produrranno, da effettuare prima della realizzazione del progetto,

il cui responsabile è tenuto a fornire ragguagli circa i suoi potenziali effetti sull’ambiente.

Gli strumenti della politica ambientale comunitaria, oltre all’adozione di una normativa quadro

che tuteli l’ambiente nel rispetto delle norme di funzionamento del mercato interno,

prevedono: uno strumento finanziario di protezione e sostegno delle azioni in tale ambito

denominato LIFE; strumenti tecnici quali l’etichettatura ecologica, un sistema di gestione

ambientale e una procedura di valutazione del livello di compatibilità tra i procedimenti

produttivi industriali e la tutela dell’ambiente.

La Comunità, inoltre, ha emanato un programma quadro per l’ambiente e si è dotata

dell’Agenzia europea per l’ambiente il cui compito è attuare una rete comunitaria di

informazioni in materia e coordinare le azioni di monitoraggio ambientale.

Programma quadro per l’ambiente

art. 175 Trattato CE; Risoluzione 1° febbraio 1993

Si tratta del più importante documento adottato nel campo della politica dell’ambiente, volto

a definire i principi fondamentali e a coordinare in un unico testo tutte le azioni intraprese in

questo settore.

L’ultimo programma (il quinto) è stato adottato nel 1993 ed è valido fino al 2000. Rispetto a

quelli precedenti non mira più soltanto a punire i comportamenti nocivi per l’ambiente, ma

tenta una maggiore responsabilizzazione del mondo industriale e produttivo in relazione alle

problematiche ambientali, così da prevenire le attività che distruggono le risorse naturali e

danneggiano l’ambiente; a tal fine sono previste anche azioni premianti per quanti rispettano

determinati standard ambientali.

Le linee guida del programma sono:

— assicurare una gestione sostenibile delle risorse naturali (acqua, suolo, zone naturali e

zone costiere);

— avviare una politica di controllo integrato dell’inquinamento e prevenire la creazione dei

rifiuti;

— tendere ad una riduzione del consumo di fonti energetiche non rinnovabili;

— migliorare la gestione della mobilità (assetto territoriale e razionalizzazione dei

trasporti);

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— migliorare la qualità dell’ambiente, soprattutto nei grandi agglomerati urbani;

— rafforzare la tutela della sanità pubblica e della sicurezza.

Sviluppo sostenibile

art. 6 Trattato CE; Decisione 24 febbraio 1997, n. 97/150/CE

Espressione che indica un processo di crescita economica e sociale che non rechi danno

all’ambiente e alle risorse naturali, limitatamente disponibili, dalle quali dipende il futuro

dell’uomo e delle sue attività.

In pratica si tratta di predisporre le condizioni più idonee affinché lo sviluppo economico a

lungo termine avvenga nel rispetto dell’ambiente. A tal fine si rende necessario:

— prevedere un ciclo produttivo completo che minimizzi la produzione di rifiuti,

incoraggiando il loro riciclo, ed eviti il consumo eccessivo delle risorse naturali;

— porre un freno allo sfruttamento irrazionale delle risorse naturali;

— modificare il comportamento della collettività dinanzi al consumo.

A livello comunitario l’esigenza di assicurare all’uomo migliori condizioni di vita ha

portato alla necessità di affermare, con il Trattato di Amsterdam, che le politiche

comunitarie (v.) devono attuarsi tutte all’insegna della promozione dello sviluppo

sostenibile.

L’impegno comunitario in questo campo si può tuttavia far risalire al 1993, con l’adozione di un

programma a favore dell’ambiente e dello sviluppo sostenibile.

Il programma affronta diverse tematiche relative all’ambiente, quali il cambiamento climatico,

l’inquinamento, il deterioramento dell’ambiente urbano e delle zone costiere, i rifiuti etc.,

tentando di creare un’interrelazione tra i diversi soggetti interessati (governi, imprese,

collettività) e i principali settori interessati (trasporti, energia, industria, agricoltura, turismo),

in applicazione del principio di sussidiarietà.

Il programma, inoltre, prevede l’istituzione di gruppi di dialogo che, affiancando gli organismi

nazionali e comunitari già impegnati in questo ambito, contribuiscono a promuovere la

condivisione pratica delle responsabilità tra i soggetti interessati e l’applicazione dei

provvedimenti adottati. Essi sono:

— una rete di responsabili, composta dai rappresentanti delle amministrazioni locali e della

Commissione, che deve provvedere allo scambio di informazioni e di esperienze e allo

sviluppo di strategie comuni;

— un gruppo di analisi, formato dai rappresentanti della Commissione e degli Stati

membri, incaricato di procedere ad uno scambio di pareri sulla politica a tutela

dell’ambiente;

— un foro consultivo, formato dai rappresentanti delle imprese, dei consumatori, delle

associazioni di categoria e sindacali, degli organismi non governativi e delle

amministrazioni locali e regionali.

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L’esperienza positiva di quest’ultimo gruppo di dialogo ha portato la Commissione ad istituire

un Forum consultivo europeo per l’ambiente e lo sviluppo sostenibile. Al Forum partecipano

personalità provenienti dal settore degli affari e della produzione, dalle autorità regionali e

locali, dalle organizzazioni di difesa dei consumatori e dell’ambiente e dai sindacati.

Agenzia europea per l’ambiente

Regolamento CEE 7 maggio 1990, n. 1210/90

Organismo che ha il compito di coordinare al meglio l’attività delle istituzioni comunitarie nel

settore dell’ambiente. L’Agenzia è divenuta operativa solo a partire dal 1994, allorché è stata

individuata la sede atta ad ospitarla: Copenaghen.

L’Agenzia per l’ambiente deve sviluppare una rete di controllo ed informazioni sullo stato

dell’ambiente, al fine di permettere una maggiore efficacia delle azioni comunitarie e procedere

ad una più corretta valutazione delle iniziative da intraprendere.

L’Agenzia ha istituito e coordina una rete europea di informazione e osservazione (EIONET),

che ha il compio di raccogliere dati, identificare le problematiche più rilevanti dal punto di vista

ambientale e fornire informazioni aggiornate sullo stato dell’ambiente nei paesi aderenti.

Fanno parte dell’Agenzia, oltre agli Stati membri della Comunità, anche l’Islanda, il

Liechtenstein e la Norvegia.

Ecolabel [Marchio Ecologico]

Regolamento CEE 23 marzo 1992, n. 880/92

Marchio ecologico messo a punto dalla Comunità per spingere le imprese ad una maggiore

attenzione verso le problematiche ambientalistiche. Si tratta di un’etichetta (un fiore stilizzato

a dodici petali con all’interno la lettera E) volta a segnalare la rispondenza del prodotto alle

esigenze di tutela dell’ambiente.

Non è possibile utilizzare il marchio per prodotti alimentari, per le bevande e per i farmaci.

Natura 2000

Direttiva 2 aprile 1979, n. 79/409/CEE; Direttiva 21 maggio 1992, n. 92/43/CEE; Decisione 18

dicembre 1996, n. 97/266/CE

Nell'ambito della politica dell'ambiente comunitaria, si tratta di una rete europea di siti protetti,

volta in modo particolare alla tutela degli ambienti naturali e alla conservazione della flora e

della fauna.

Il progetto di costituire la rete Natura 2000 nasce con l'approvazione della cd. direttiva habitat

(dir. 92/43/CEE), che fornisce una definizione dei siti da tutelare, vale a dire quei tipi di habitat

la cui area di distribuzione naturale è molto ridotta o gravemente diminuita sul territorio

comunitario come torbiere, brughiere, dune, habitat costieri o di acque dolci. La stessa

direttiva individua più di 200 specie animali e circa 500 specie vegetali il cui ambiente di vita

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occorre tutelare (allegati I e II della citata direttiva). Al progetto di Natura 2000 è stata

associata anche la speciale tutela accordata dalla cd. direttiva uccelli (dir.79/409/CEE) alle

specie volatili.

La procedura per l'individuazione dei siti da includere nella rete si articola in tre fasi:

— ciascuno Stato membro procede ad un'accurata valutazione scientifica e propone una

lista di siti che provvede a trasmettere alla Commissione;

— quest'ultima, avvalendosi anche della consulenza dell'Agenzia europea per l'ambiente e

in collaborazione con gli Stati membri, provvede all'individuazione dei siti di rilevante

interesse comunitario. Nell'elenco possono essere inseriti anche siti inizialmente non

indicati dai singoli Stati. La decisione finale sull'inclusione nella rete spetta al Consiglio;

— dopo la decisione finale gli Stati membri sono tenuti a designare (entro un termine di

sei anni o comunque entro il 2004) il sito come zona speciale di conservazione (ZSC) e

provvedere ad adottare tutte le misure necessarie per la protezione e la gestione

dell'area designata.

I siti per la tutela degli habitat delle specie di uccelli sono, invece, direttamente scelti dagli

Stati membri e immessi automaticamente nella rete Natura 2000.

Le spese per le misure adottate per la conservazione e la tutela dei siti che fanno parte della

rete possono essere cofinanziate dalla Comunità europea, in particolare nell'ambito del

programma LIFE (v.), sottosezione natura.

Politica monetaria

artt. 105-111 Trattato CE

Si definisce politica monetaria quell’insieme di interventi che le autorità monetarie adottano

per raggiungere determinati obiettivi di politica economica.

In quanto parte della più generale politica economica, la politica monetaria deve tener conto di

obiettivi ugualmente desiderabili ma, spesso, fra loro contrastanti:

— la crescita dell’attività economica ed il contenimento delle sue fluttuazioni. Ciò si

sostanzia, in pratica, nel sostegno alla produzione per limitare la disoccupazione;

— la stabilità monetaria, ovvero la difesa del potere d’acquisto della moneta ed il

contenimento della crescita dei prezzi;

— l’equilibrio nei conti con l’estero, soprattutto per quanto riguarda la stabilità del cambio.

Oltre a questi obiettivi, comuni anche alla più generale politica economica, la politica monetaria

può perseguire altri obiettivi più specifici, quali una migliore efficienza dei mercati e degli

intermediari finanziari, uno sviluppo della struttura creditizia capace di assicurare stabilità al

sistema e prevenire crisi bancarie, un’ottimale allocazione del risparmio.

Quando fu istituita nel 1957 la Comunità europea (allora Comunità economica europea) il

problema della cooperazione monetaria tra i paesi membri era del tutto marginale e poteva

essere completamente ignorato, concentrandosi invece sulla creazione dell’unione doganale.

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Il primo passo verso l’attuazione di un sistema monetario integrato risale alla fine degli anni

’70, quando fu creato il sistema monetario europeo al fine di stabilire tra le economie dei paesi

membri non soltanto delle relazioni di cambio più stabili, ma anche una disciplina comune nel

campo della politica economica e monetaria. Lo SME si poneva, infatti, come obiettivo la

creazione di una zona di stabilità monetaria in Europa grazie all’attuazione di determinate

politiche in materia di cambi, crediti e trasferimenti di risorse, per evitare che il disordine

monetario ostacolasse il processo di integrazione a livello comunitario.

Con l’Atto unico europeo fu inserito, all’art. 102A (ora 98), un obbligo di coordinamento delle

politiche economiche degli Stati membri. Con il nuovo capo dedicato alla “Cooperazione in

materia di politica economica e monetaria”, l’Atto unico si limitava, dopo aver riconosciuto la

necessità di operare una convergenza delle politiche economiche e monetarie degli Stati, a

disporre che questi ultimi, nel rispetto delle competenze esistenti, “tengono conto delle

esperienze acquisite grazie alla cooperazione nell’ambito del sistema monetario europeo e allo

sviluppo dell’ECU ”.

In realtà con questa disposizione venne solo rafforzata la competenza comunitaria in tale

materia; bisogna attendere il Rapporto Delors per avere una programmazione del processo

di integrazione monetaria ed economica. Tale processo era articolato in tre fasi temporali:

— nella prima fase era prevista la completa liberalizzazione dei movimenti di capitale e

una maggiore convergenza economica tra gli Stati membri;

— nella seconda fase si doveva procedere all’istituzione di un organismo capace di

coordinare e monitorare il livello di convergenza e valutare la possibilità di passare ad

una politica monetaria comune;

— nella terza fase era previsto, invece, il definitivo passaggio agli organismi comunitari

della politica economica e monetaria degli Stati membri. In particolare il passaggio

all’ultima fase avrebbe comportato la creazione di una moneta unica.

Il Trattato di Maastricht, modificando il Trattato CEE, riprende in sostanza, agli artt. 98-124 e

in alcuni protocolli allegati, i contenuti del Rapporto Delors: vengono, infatti, stabilite le tre

tappe per giungere alla moneta unica, fissando anche le relative scadenze.

La prima tappa era già stata avviata nel 1990, la seconda sarebbe cominciata nel 1994 mentre

per la terza si ponevano due alternative: il 1997, se almeno 7 Stati erano pronti, oppure il

1999, come in realtà è accaduto.

Il Trattato, inoltre, stabiliva una serie di criteri di convergenza economici e monetari che

tutti gli Stati membri si impegnavano a rispettare per poter consentire un graduale ed

equilibrato passaggio alla moneta unica europea.

Da ultimo il Trattato delineava il quadro istituzionale per il passaggio alla moneta unica, con la

creazione di quegli organismi che avrebbero dovuto seguire la politica monetaria nella seconda

e nella terza fase. A partire dal 1994 sarebbe stato operante l’Istituto Monetario Europeo che

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nella terza fase avrebbe lasciato il posto al Sistema Europeo delle Banche Centrali e alla Banca

centrale europea.

Il controllo del rispetto dei parametri stabiliti dal Trattato è stato affidato all’IME, che il 25

marzo 1998 ha pubblicato un rapporto sullo stato di convergenza fra i paesi dell’Unione.

Sulla base di questo documento, unitamente alla relazione della Commissione europea che ha

raccomandato al Consiglio i paesi che a suo giudizio hanno soddisfatto i criteri di convergenza,

durante il vertice dei capi di Stato e di governo tenutosi a Bruxelles dall’1 al 2 maggio 1998

sono stati scelti gli Stati che potevano adottare la moneta unica sin dall’inizio della terza fase.

Nella stessa sede si è proceduto anche alla nomina del Presidente della BCE e alla fissazione

dei tassi di cambio bilaterali tra le monete degli Stati partecipanti.

La terza fase dell’UEM è iniziata il 1° gennaio 1999 con la fissazione dei tassi di conversione

irrevocabili tra l’euro e le valute partecipanti. Da quella data è partita una lunga fase di

transizione che si concluderà nel 2002 quando la nuova moneta unica entrerà materialmente in

circolazione.

Autorità monetaria

Organo a cui è demandata la definizione della politica monetaria europea.

L’autorità in questione manovra gli strumenti finanziari sotto il suo diretto controllo per il

raggiungimento degli obiettivi dell’azione monetaria. Tali strumenti sono in genere costituiti

da:

— aumento (o riduzione) della riserva obbligatoria;

— aumento (o riduzione) del saggio d’interesse;

— operazioni di mercato aperto.

In ambito europeo, con l’avvio della terza fase dell’unione economica e monetaria che ha

previsto l’introduzione della nuova moneta unica, l’euro, la definizione della politica monetaria

è demandata al Sistema europeo di banche centrali composto dalla Banca centrale europea e

dalle Banche centrali nazionali.