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numero uno Intervista alla comunicazione

Cultura intellettuale e identità della comunicazione Intervista a Tullio De Mauroa cura di Rosanna Consolo e Leonardo Romei1

Abstract Il percorso parte dalle caratteristiche del linguaggio verbale, uniche nell’universo della comunicazione, attraversa i temi della peculiare stabilità della lingua italiana e dell’impatto dei media digitali sulla lingua, per poi dedicarsi ampiamente alla tipicità della cultura intellettuale degli italiani. Il dialogo, denso di spunti interdisciplinari e affresco vivace sulla ricchezza delle diverse forme comunicative, tocca importanti questioni di metodo e il rapporto degli studi linguistici con le altre discipline. La reale accessibilità alla conoscenza e agli strumenti tecnologici, considerata come un’autentica questione democratica, costituisce, infine, uno degli orizzonti di senso dell’intervista.

Parole chiave Media e patrimonio linguistico, Cultura intellettuale, Formazione, Comportamenti culturali, Linguistica, Metalinguisticità

Abstract The interview moves from the characteristics of verbal language, unique in the universe of communication; it then touches the themes of the particular stability of the Italian language and of the impact of digital media on the language; finally it discusses widely the typicalness of Italian’s intellectual culture. The dialogue is full of multidisciplinary elements, it is a vivid view on many expressive communication forms. It touches important methodological issues and the relationship between linguistic studies and other disciplines. To explain the access to knowledge and technological tools, considered as an authentic democratic issue, is one of the aims of the interview.

Keywords Media and Linguistic Heritage, Intellectual Culture, Education, Cultural behaviours, Linguistics, Metalinguistics

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numero uno Intervista alla comunicazione

Intervista a Tullio De Mauro

Introduzione all’intervista

Nel corso dell’intervista si colgono in modo straordinario gli elementi pedagogici e di impegno civile del professore, del linguista, dello studioso, dell’ex Ministro della Pubblica Istruzione Tullio De Mauro. Incontrarlo è stata l’occasione di confrontarci con chi sa raccontare con maestria i protagonisti – grandi nomi e gente comune – di un’Italia che nei decenni scorsi, e fino ad oggi, si è destreggiata tra fasi alterne che hanno inciso sulla sue performance e competenze culturali come, naturalmente, su quelle economico-produttive.

L’intervista si sviluppa intorno a tre nodi tematici: la riflessione tecnica sulla lingua e sul rapporto tra la lingua verbale, le altre forme di comunicazione e i media; la cultura intellettuale degli italiani e il suo rapporto con l’educazione linguistica e la lettura; la linguistica e gli studi di comunicazione in una prospettiva interdisciplinare.

Con la scelta di questi tre nodi tematici l’intervista non si propone di offrire una sintesi del pensiero e della vasta bibliografia di De Mauro, ma solo di far emergere alcune trame e linee del suo pensiero: quelle che ci

sono sembrate le più pertinenti e attuali rispetto agli studi di comunicazione e ai nostri personali percorsi di ricerca.

Su ognuno dei tre nodi, la produzione di De Mauro è molto vasta, in questa sede ricordiamo solo alcuni dei suoi lavori, in particolare quelli che più ci hanno guidato nella formulazione dei quesiti.

Riguardo la riflessione storica sulla lingua italiana, il primo riferimento è alla celebre Storia linguistica dell’Italia unita (De Mauro 1963). In La fabbrica delle parole (De Mauro 2005) troviamo dati di straordinario interesse sulle aree di innovazione della lingua italiana. Sia ne La fabbrica delle parole che nell’Introduzione al Gradit (De Mauro 1999) sono invece presenti in forma sintetica distinzioni concettuali fondamentali per comprendere una lingua: lessico, dizionario, vocabolario di base, vocabolario fondamentale.

Sul rapporto tra educazione linguistica, lettura e cultura intellettuale degli italiani il riferimento è al recente La cultura degli italiani (De Mauro 2004).

Riguardo la riflessione teorica su linguistica e semantica sono invece da considerare almeno Introduzione

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Cultura intellettuale e identità della comunicazione

alla semantica (De Mauro 1965), l’Introduzione e commento al Corso di linguistica generale di F. de Saussure (De Mauro 1967), Minisemantica (De Mauro 1982).

La necessità di un dialogo tra la cultura scientifica e quella umanistica-matematica è al centro di Contare e raccontare (Bernardini, De Mauro 2003).

Il tema dell’utilizzo appropriato del patrimonio linguistico è invece presente in Guida all’uso delle parole (De Mauro 1980) e Capire le parole (De Mauro 1994).

Infine di grande interesse sul rapporto tra lingua, media, nuove tecnologie sono i sintetici interventi di De Mauro sulla rivista Telèma; uno spunto singolare è costituito anche dalla rubrica settimanale da lui stesso firmata, sulla rivista Internazionale, in cui presenta i più interessanti neologismi.

Non ci soffermiamo a introdurre concetti o guide alla lettura, perché la perizia di De Mauro rende le sue risposte autosufficienti, per quanto il tono della conversazione sia volutamente informale e discorsivo.

L’intervista appare dunque anche come l’ennesima prova di colui che per molti di noi è un maestro

nella capacità di rendere chiaro il proprio pensiero e modulare la comunicazione rispetto ai diversi contesti. Allo stesso De Mauro è piaciuto sottolineare questa dimensione metacomunicativa della stessa intervista quando afferma: “In questo momento, noi stiamo parlando molto informalmente, quindi io sto badando poco a questo, ma se questa conversazione non fosse affidata alle vostre cure redazionali e all’informalità che vogliamo dare al tutto, forse dovrei stare molto più attento alle parole che uso, alle frasi che dico, alla brevità delle frasi, alla nitidezza e trasparenza delle parole. Se vado davanti a un grande pubblico televisivo indifferenziato così non si può fare, è un errore gravissimo e allora bisogna anche sapere, sperimentare e verificare questo nel processo di formazione delle competenze di un buon corso di comunicazione”.

Incontrare la sapiente poliedricità di Tullio De Mauro, che generosamente ci ha ospitato per oltre due ore nella sua casa, ci conduce fra le altre cose a riflettere su quel grande potenziale di impatto democratico che sono in grado di sprigionare tutte le scienze e la ricerca, in ogni ambito siano praticate e realizzate; un

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Intervista a Tullio De Mauro

potenziale acuito dall’attenzione ai dettagli rivolta ad una società che rischia di fabbricare parole ma talvolta non la loro diffusa competenza d’uso, di produrre innovazione ma non un sedimentato know how; una società la cui tipica creatività made in Italy rischia di poggiarsi sulle basi di una cultura intellettuale povera.

Dimensioni di analisi critica, talvolta severe, non lasciate cadere, però, come moniti senza speranza poiché proprio le direttrici per il superamento di alcune empasse dell’identità culturale italiana costituiscono un importante elemento che, nell’intervista, emerge nitidamente.

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Professor De Mauro, lei ha evidenziato la stabilità quasi straordinaria del vocabolario fondamentale dell’italiano (De Mauro 2005). Televisione, scuola e servizio militare, insieme ad altri fattori, hanno creato una lingua italiana media, diffusa (De Mauro 1963). Ritiene che oggi i media digitali giochino un ruolo rilevante nell’innovazione linguistica del lessico e più specificamente del vocabolario fondamentale e del vocabolario di base?

In tutte le lingue è possibile osservare un insieme di parole di più alta frequenza e diffusione. Esse costituiscono il vocabolario fondamentale che possiamo definire proprio in termini statistici: è un insieme di circa duemila parole che sono ripetute tante volte nel parlare e nello scrivere da coprire mediamente il 90% di tutto ciò che diciamo. Rispetto all’immenso patrimonio lessicale delle lingue di cultura, che dobbiamo far ascendere a milioni di parole che appaiono non occasionalmente nei testi e nei discorsi di una lingua, il vocabolario fondamentale è la parte più stabile nel tempo, questo succede in qualsiasi lingua. Nel caso dell’italiano la stabilità è ancora maggiore, se possibile, per condizioni particolari in cui ha vissuto nei secoli come lingua che, fuori della Toscana e di Roma, era usata soltanto da una piccolissima élite intellettuale e, fondamentalmente, solo nello scrivere. Questo ha dato alla nostra lingua, rispetto alle altre lingue europee, un carattere che è stato individuato, definito da Graziadio Ascoli – grande linguista italiano dell’Ottocento – come una staticità che rasenta l’immobilità. In questo quadro di grande staticità complessiva, grammaticale, fonologica, sintattica, il vocabolario fondamentale, più che in altre lingue, ha conservato i suoi elementi e gran parte dei suoi significati, dal Trecento a oggi, dalla Divina Commedia ai nostri giorni, in una misura sconosciuta al tedesco, francese, inglese che hanno avuto delle rivoluzioni linguistiche e delle evoluzioni molto più forti. Quindi, nella stabilità complessiva che in tutte le lingue riconosciamo al vocabolario fondamentale, c’è una misura particolare per quanto riguarda l’italiano.

Io ho cercato di fornire altrove delle indicazioni quantitative

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Intervista a Tullio De Mauro

di questo fatto: circa 80% del vocabolario fondamentale si è costituito ed è già reperibile nei testi del tardo Duecento e del Trecento, e d’altra parte l’80% delle parole della Divina Commedia, siano o no parole del vocabolario fondamentale, è fatto da parole che sono tuttora largamente in uso. Il testo della Commedia ci mette dinanzi ad alcune parole che oggi non useremmo più, o non più in quel senso, ma sono una piccola percentuale, il 20% all’incirca nel complesso, per il resto noi possiamo dire, per il bene e per il male, che parliamo come Dante, parliamo con le parole di Dante, specie se cerchiamo di parlare con chiarezza e ricorrendo alle parole che sono più largamente in uso.

Nel 2005 (De Mauro 2005) lei mostra le differenti aree di innovazione del lessico della lingua italiana dal 1999 al 2003 e individua la maggiore introduzione di nuovi vocaboli nell’area lessicale delle tecnologie della comunicazione. In che modo questi nuovi vocaboli entrano poi nel vocabolario di largo uso? In altri termini queste innovazioni di lessico diventano poi un’innovazione anche nel vocabolario fondamentale o di base, oppure no?

È molto difficile che qualsiasi area particolare intacchi il vocabolario fondamentale, intacchi quelle duemila parole, certamente intacca aree di quello che chiamiamo vocabolario di base.

Il vocabolario di base è un insieme più vasto rispetto al vocabolario fondamentale, è fatto di parole di frequenza alta rispetto alle altre parole del lessico ma è fatto anche di quelle parole che chiamiamo di alta disponibilità, parole che, anche se appaiono con una bassa frequenza nei testi, in realtà hanno una altissima presenza psicologico-culturale. Sono le parole a cui pensiamo inevitabilmente sempre, perché sono legate alla nostra quotidianità, allora è in queste aree, oltre che nel vocabolario comune, che troviamo l’incidenza di elementi salienti delle nuove tecnologie, se nuove ancora

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sono, della comunicazione. Parole come “computer”, per esempio, o “pc”, o “cliccare”, non dico “bannare”, non dico tecnicismi o gergalismi più specifici, ma per esempio, appunto “cliccare”. Questi sono sostantivi, verbi, che sono entrati nel vocabolario di base attraverso la porta non tanto dell’alta frequenza, perché poi, a conti fatti, ci accorgiamo che non hanno un’enorme frequenza ma hanno certamente una grande presenza nel vocabolario di alta disponibilità.

Nel 1980, quando abbiamo fatto le prime liste di vocaboli di alta disponibilità – che è un’operazione un po’ difficile da fare, con dei risultati, credo, abbastanza interessanti, perché si fotografa bene la vita culturale profonda, la vita quotidiana di una popolazione – queste parole che ho appena citato erano assolutamente estranee, marginali, e oggi fanno parte di pieno diritto del vocabolario di base della lingua, qui dunque si registrano queste incidenze oltre che, naturalmente, nel vocabolario comune e nel vocabolario tecnico-specialistico.

Insomma quello che sto tentando di dirvi e di dire è che le cose della lingua cambiano con enorme lentezza e bisogna stare attenti agli entusiasmi o alle visioni catastrofiche: “è nato l’italiano”, “è morto l’italiano”, “non parliamo più italiano”, “parleremo un’altra lingua”. Le lingue sono fatte, diceva Ferdinand de Saussure, per stare nel tempo e sono organizzate in modo da garantire la comunicazione attraverso le generazioni e cambiano con enorme lentezza, esasperante per chi desidera cambiamenti tumultuosi o forse rassicurante per chi la vede altrimenti, comunque di fatto cambiano molto lentamente e sono sopravvissute a catastrofi ben più grandi che non l’apparizione di questa o quella tecnologia della comunicazione.

Spostando l’attenzione sul versante educazione e comunicazione, può darci una definizione di comunicazione che possa sigillare la sua visione?

Io sono affezionato a cercare un quadro molto generale in cui

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inserire le considerazioni sulla comunicazione linguistica, verbale, attraverso parole, e quindi risponderei in termini molto generali alla sua domanda. Potrei rispondere, come mi è accaduto di rispondere insieme ad altri, ricordando che comunicare vuol dire, in generale, con un segnale di qualche tipo, riuscire a trasmettere un contenuto, qualcosa che si vuole dire, ma dire non necessariamente con le parole: dire con uno dei tanti codici possibili di comunicazione che come esseri viventi e, più specificamente come esseri umani, abbiamo creato attraverso le centinaia di migliaia, anzi di milioni di anni. Questa trasmissione attraverso segnali di contenuti, questa messa in comune di contenuti tra sorgenti (produttori diciamo) e ricettori del segnale, che comprendono il segnale e comprendono il contenuto, avviene appunto su tanti canali. Per molto tempo sono stato un po’ freddo, lo confesso – l’ho confessato anche in sede più tecnica – dinnanzi a chi come gli psicologi di Palo Alto o Roland Barthes in Europa, per esempio, vedevano dappertutto comunicazione, per così dire; però invecchiando sono diventato più tenero verso questa prospettiva soprattutto grazie a tante considerazioni che abbiamo fatto in comune con Anna Maria Testa che è una pubblicitaria – ma forse è riduttivo dire pubblicitaria, sì, è anche questo – che ha scritto molto sulla comunicazione e sulla comunicazione pubblicitaria con grande intelligenza. Devo a lei di essermi un po’ alla volta convinto che effettivamente si dà comunicazione con la semplice, per adoperare una parola difficile, astanza. Con lo stesso essere – indipendentemente dal volere o no comunicare qualche cosa – comunichiamo inevitabilmente, per dir così.

A me però, e a chi si occupa di semiologia e ancora di più a chi si occupa di linguistica, interessano le forme più consapevolmente organizzate di comunicazione e che si avvalgono quindi di segnali riconducibili a codici più o meno complessi: questi sono i canali e anche così strutturati sono tanti. Il linguaggio verbale non è che uno dei tanti mezzi possibili, dei tanti canali possibili, con caratteristiche ovviamente particolari legate a un combinarsi, nel caso

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del linguaggio, di tratti che in altri canali troviamo, invece, separati. Per esempio, nel linguaggio dei gesti che chiamiamo “napoletano” – ma in realtà è un linguaggio mediterraneo poiché si ritrova in un’area molto vasta – i gesti hanno una caratteristica presente nelle parole, nelle frasi che noi diciamo, una caratteristica che chiamiamo “indeterminatezza del significato”: ciascuno ha un suo significato molto generale che poi si determina nel contesto particolare. Se in un’aula ci sono un po’ di napoletani si riesce a documentare appunto questa varietà di segni napoletani e si vede che uno stesso gesto (per esempio quello del portare la mano verso la bocca con le dita unite a punta) vuole dire di volta in volta “sto mangiando, vorrei mangiare, ho mangiato, ho fame, perché non mangi”: cioè questo significato, che ha al centro la fame e il mangiare, poi si determina in modi molto vari a seconda dei contesti. E questo è vero anche per i segni del linguaggio verbale, con due grandi differenze, per lo meno due (ve ne sono anche altre, non voglio farmi saltare addosso dai colleghi linguisti). Una prima differenza è la sintatticità: le frasi – anche il significato delle frasi, non solo delle singole parole, naturalmente, ma delle stesse frasi del linguaggio verbale – possono avere questa stessa indefinitezza che poi si determina in modo diverso di volta in volta; però hanno una struttura, sono fatte di pezzi che hanno una propria autonomia e che tornano in diversa combinazione, in altri segni; e quindi hanno delle relazioni riconoscibili, parte per parte, della frase con altre frasi, con altri segni della lingua.

Questo non accade nel linguaggio napoletano dei gesti in cui ogni gesto fa parte a sé, è un’entità globale che si può anche spezzettare ma i pezzetti che ci troviamo poi tra le mani non hanno di per sé un significato, mentre i pezzetti delle frasi, cioè le parole singole, hanno una loro stabilità di significato. Questa è una prima differenza, questa complessità di articolazione del significato che nel linguaggio dei gesti napoletano, pur simpaticissimo, potentissimo ed efficacissimo in tante circostanze, non troviamo. L’altra è una differenza un po’ più nascosta, su cui io insisto molto, ed è il fatto che le lingue, e

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soltanto le lingue ivi compreso la lingua dei segni, la lingua dei sordomuti2 – che è altra cosa dal linguaggio napoletano dei gesti, poiché ha una struttura sintattica come quella delle lingue – ecco, le lingue, e dunque non solo quelle orali, hanno una proprietà che ha un nome difficile ma per una qualità assolutamente corrente: con le parole della lingua parliamo delle parole, delle frasi, del significato, del valore, del senso delle frasi della stessa lingua. Non abbiamo bisogno di “uscire fuori” da una lingua per parlare di una lingua; la descriviamo, la analizziamo, sia a livello scientifico, scrivendone una grammatica, scrivendo un vocabolario, ma sia soprattutto nell’uso quotidiano: se non ci capiamo ci interrompiamo, ci chiediamo “che stai dicendo, che volevi dire, cosa intendi con questa parola”, oppure spieghiamo meglio che cosa cerchiamo di voler dire con una parola o con una frase, cioè ci commentiamo e ci analizziamo con le parole della stessa lingua.

Questo fatto, così banale che non ci si pensa quasi, ha un nome d’arte un po’ complicato, si chiama metalinguisticità riflessiva ed è una proprietà che nell’universo immenso delle semiotiche non riusciamo a trovare fuori delle lingue: per parlare di un codice abbiamo bisogno di un altro codice che sia più potente di quello in questione ma che sia altro, che abbia un livello superiore di complessità, cioè che faccia da metalinguaggio del codice di cui vogliamo parlare. Nel caso delle lingue ogni lingua è metalinguaggio di se stesso e ogni essere umano è in grado di fare il metalinguista della lingua che viene adoperando nella conversazione più comune e più banale, oltre che nelle sedi più solenni in cui costruiamo definizioni, terminologie speciali, regole, linguaggi specialistici che hanno la loro radice proprio in questa proprietà.

Ora questa proprietà, ripeto, il povero linguaggio napoletano dei gesti non ce l’ha: per parlare del valore del gesti napoletani dobbiamo ricorrere alla nostra lingua, al dialetto napoletano, all’italiano, a quello che si vuole per descriverne bene il significato. I gesti da soli non sono in grado di darci questo e quindi, è vero che ci sono tanti canali ma è vero anche che le

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lingue hanno delle proprietà particolari, sia la sintatticità, sia la metalinguisticità riflessiva, che altri linguaggi non hanno e che non hanno i grandi linguaggi scientifici, che non hanno i linguaggi matematici o il linguaggio della chimica, che pure hanno un’enorme potenza semantica. Quello della chimica con i suoi simboli riesce a cogliere ogni angolo dell’universo, non c’è cosa nell’universo, non c’è cosa materiale per lo meno, che non sia identificabile, in modo appropriato, dalla simbologia chimica: però poi non riesce a parlare di se stesso, naturalmente, poi non riesce a dire tante altre cose, cioè deve la sua potenza alla limitatezza del suo campo. Non riesce a dire “questi cioccolatini sono buoni però non mi piacciono, però sono a dieta, non li posso mangiare”: ci può aiutare a formulare meglio queste frasi ma non riesce a dire quello che leggiamo, per fare un altro esempio, sui muri; questo è fuori dal linguaggio della chimica e della matematica, altro complesso di grandi linguaggi potentissimi che però lo sono perché parlano solo di quantità, di relazioni tra quantità e non d’altro.

Questo tema della metalinguisticità è molto interessante, viene da chiedersi, però, se un’immagine, in alcuni casi, non possa riuscire a parlare di un’altra immagine. Si può dire che i pittori dialogano tra di loro attraverso dei dipinti, si parlano attraverso i dipinti?

Sì, si può andare anche oltre, però è una cosa un po’ diversa, qui a casa per esempio ho una raccolta di opere di Bruno Caruso Mitografia dell’arte contemporanea. Che cosa fa Caruso? Prende Toulouse Lautrec, lo ritrae, allude, oppure De Chirico, è chiaro che non c’è solo il ritratto di De Chirico, ma il ritratto artistico, cioè in qualche modo, si ha la tentazione di dire che è un discorso che Caruso fa sull’arte di De Chirico, tirando fuori alcuni elementi della sua pittura metafisica3. Questo lo stiamo dicendo con le parole però.

Dunque secondo lei l’immagine può causare un impatto che poi

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va argomentato e spiegato…

…con le parole della nostra povera lingua, ecco, e questo è Salvador Dalì, con tutte queste stampelle; qui probabilmente c’è un elemento di critica un po’ cattiva di Dalì. Quindi, in qualche modo, è chiaro che un’immagine si può riferire ad un’altra, o che un tema musicale può riprenderne un altro. È come dire: io riprendo le tue parole, le riuso, ma questo non è ancora metalinguisticità riflessiva, questo è citazione, è parola riportata, nell’uso metalinguistico riflessivo riporto la parola ma ne parlo, la spiego, la analizzo.

Restando in qualche modo su questo tema, come si è sviluppata l’interazione tra gli studi di linguistica e di comunicazione? Qual è stata l’evoluzione di questo rapporto?

A me sembra che, per andare alle istituzioni, nei corsi di comunicazione non si dia abbastanza rilievo, non tanto alla linguistica, ma alla lingua e all’addestramento, all’uso appropriato del patrimonio linguistico in contesti diversi come oggi, ancora più di ieri, dobbiamo fare. Mi pare che, dando un’impressione dall’esterno, ci sia poca esperienza delle possibilità e delle esigenze di un uso diversificato del patrimonio linguistico a seconda dei vari mezzi e dei vari contesti in cui lo si adopera e ci siano invece molti nobili discorsi sul comunicare e sui diversi canali del comunicare. Però sarei lieto di essere smentito, qua e là sono smentito, difatti; per esempio mi è capitato di vedere, un po’ più da vicino, un master di comunicazione e giornalismo a Salerno, dove la preoccupazione maggiore è, già dal primo anno del master, quella di dare la conoscenza e la pratica della diversità di strumenti e di tecnologie che oggi adoperiamo per fissare la comunicazione e trasmetterla e anche di dare la sensibilità a ciò che di diverso, nell’uso delle parole, viene richiesto dai diversi mezzi. Per fare un esempio, in questo momento noi stiamo parlando molto informalmente, quindi io sto badando poco a questo, ma se questa conversazione non fosse affidata

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alle vostre cure redazionali e all’informalità che vogliamo dare al tutto, forse dovrei stare molto più attento alle parole che uso, alle frasi che dico, alla brevità delle frasi, alla nitidezza e trasparenza delle parole. Se parlo a un grande pubblico televisivo indifferenziato così non si può fare, è un errore, gravissimo, e allora bisogna anche sapere, sperimentare e verificare questo nel processo di formazione delle competenze di un buon corso di comunicazione e non sono sicuro che questo venga fatto con sufficiente cura.

Quanto alla linguistica, alla riflessione tecnica linguistica, è una componente, una componente tra tante, che penso poi in qualche misura sia presente negli statuti del corso di laurea.

Lei ha sempre insistito sull’importanza degli approcci interdisciplinari, del dialogo tra le discipline: quali sono i dialoghi tra discipline che non sono ancora avvenuti? Qual è una possibile interazione disciplinare che andrebbe praticata?

Per quanto riguarda il linguaggio verbale e, penso di poter dire, più in generale la comunicazione, negli stessi accenni che facevo ad una definizione larga di comunicazione, è chiaro che abbiamo bisogno di strumenti che derivino da tante fonti scientifiche e epistemologiche diverse.

Non riusciamo ad affrontare, a descrivere le condizioni, le situazioni di comunicazione senza ricorrere, da una parte, a indicazioni sulle basi e possibilità biologiche dei soggetti che comunicano e di cui studiamo i modi di comunicazione in generale e, dall’altra, alle basi antropologico-culturali, per quanto riguarda i soggetti umani o, possiamo dire, le basi etologiche per quanto riguarda gli esseri viventi in generale.

Ma questo è solo un aspetto di interazioni tra tradizionali modi di studio filologico-umanistico delle lingue e dei fatti di comunicazione e altre discipline. Credo che questa sia una via utile, feconda, e l’altra via indispensabile a diversi livelli e in diversi sensi, è quella tra gli studi di tipo qualitativo

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Intervista a Tullio De Mauro

filologico dei fenomeni della comunicazione e del linguaggio, da un lato, e le matematiche, dall’altro. Questo è valido sia per quel che riguarda la strumentazione statistica (l’aspetto computazionale, il fare i conti) che, quando si tratta di parole, a me pare sempre molto produttiva per dare corpo e per dare determinatezza alle analisi storico-qualitative; sia per quanto riguarda i concetti di base della teoria matematica della comunicazione e della teoria dei fondamenti della matematica. Concetti come funzione, relazione e calcolo sono indispensabili per capire come funzionano i codici di comunicazione delle lingue e sono nozioni la cui precisazione è avvenuta in ambito matematico e logico-matematico, ivi compresa la stessa nozione di metalinguisticità riflessiva: la dobbiamo ad una lunga tradizione di studi logici che poi si è precisata negli anni Trenta del Novecento, non siamo stati noi linguisti a inventarcela.

Per più motivi si parla spesso di “caso italiano”. Anche lei ha individuato una peculiarità in alcuni elementi della nostra cultura nazionale (De Mauro 2004) e una tale specificità emerge anche negli studi (Forgacs 2000) dell’industria culturale italiana in cui Mario Morcellini giunge a parlare di socializzazione culturale debole degli italiani (Morcellini, Roberti 2001) e di un radicamento storico dei grandi mezzi di comunicazione che ha preceduto addirittura la scolarizzazione e ha poi contribuito a questa giocando un ruolo di modernizzazione (Morcellini 2005). Può indicarci la sua prospettiva in merito, visto che un suo interesse è quello della disparità della cultura italiana rispetto alle altre culture europee, e quali ritiene siano i percorsi di recupero e sviluppo migliorativo di una tale situazione?

Se confrontiamo l’Italia del 2007 e l’Italia del 1957, vediamo che c’è stato un grande salto nella capacità di controllo di strumenti della cultura intellettuale. L’Italia del 1957 era un’Italia in cui la media di anni di scuola a testa era di 3,2 anni: ovvero, sommando gli anni di scuola frequentati da tutti

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e ridividendoli per il numero di persone della popolazione adulta si tirava fuori, si tira fuori, quello che chiamiamo “indice di scolarità”; era come se, mediamente, tutti quanti avessimo fatto fino alla terza elementare e poi lasciato la scuola. Quindi era un’Italia con un bassissimo livello di scolarità e con poca capacità di lettura e di scrittura. Nel censimento del 1951 – ma il dato vale anche per qualche anno dopo – il 59,2%, diciamo arrotondando il 60%, della popolazione non aveva neanche i tre anni di scuola, era totalmente privo di scuola e più della metà di questo 60%, quasi due terzi, si dichiarava onestamente (alla data del censimento) analfabeta. Questo dato era stato presente nella tradizione intellettuale italiana fino al conflitto mondiale, fino all’avvento del fascismo: lo sapevano bene i grandi intellettuali che le cose stavano così, lavoravano per cambiare questo stato di cose. Il fascismo congela questa situazione per esempio cassando, nel censimento del 1931, la domanda su “sai leggere e scrivere”: non si doveva neanche ammettere la possibilità che qualcuno non lo sapesse fare. In realtà, appunto, il primo censimento dopo la guerra rivela che quasi i due terzi della popolazione non hanno rapporto con la cultura scritta e questo fa corpo con una società in cui la produzione era, fondamentalmente, a base agricola tradizionale e lo era anche il reddito: sia, infatti, se si guarda al numero di addetti alle varie attività, sia se si guarda alle fonti del reddito del prodotto interno lordo, l’agricoltura, l’attività agricola, era quella fondante di questa società; era una agricoltura molto tradizionale e diciamo che leggere, scrivere e far di conto serviva relativamente a poco.

Questa Italia è profondamente cambiata, è cambiata perché abbiamo adottato prima una cultura industriale, una struttura industriale della produzione, e poi ci siamo lanciati sulla via della trasformazione e dei servizi e siamo diventati, per molti aspetti, quella che negli anni Novanta del Novecento chiamiamo, pomposamente, la società della conoscenza, la società dell’informazione e questo occulta ciò che tuttavia abbiamo fatto. Perché, cosa è successo? È accaduto che

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Intervista a Tullio De Mauro

abbiamo fatto una grande corsa verso l’appropriazione degli strumenti della cultura intellettuale, una corsa enorme guidata fondamentalmente dalle scuole, che hanno fatto miracoli per trasformare i figli degli analfabeti in ragazzi che prendevano la licenza media, poi in ragazzi che sono andati al liceo e poi sono andati all’università. Ma questo lavoro fatto solo sul canale scolastico, sostanzialmente, non è bastato e non basta a colmare il dislivello rispetto alle esigenze. È vero che oggi non ci sono più le masse di analfabeti primari che c’erano negli anni Cinquanta ma è vero anche che ci sono masse enormi di analfabeti di ritorno che ci pesano addosso.

Che queste masse ci fossero si intuiva fino a pochi anni fa: alcuni di noi, chi voleva riflettere su queste cose, si rendeva conto che in uscita dalla scuola media inferiore dell’obbligo e in uscita dalla scuola media superiore le cose non stavano come i livelli formali raggiunti potevano suggerire. Per la scuola media erano state ripetute indagini, anche comparative a livello internazionale, che rilevavano che il 25% circa delle ragazze e dei ragazzi ne usciva, e ne esce, senza sapere leggere, scrivere e far di conto, una percentuale piuttosto alta nel confronto internazionale. Questo lo si sapeva dagli anni Novanta, infatti queste percentuali di mancata, reale alfabetizzazione si sono cumulate negli anni e qualcosa del genere, già negli anni Novanta l’aveva registrato Giancarlo Gasperoni che è autore di un libro sconosciuto che dovrebbe invece stare sui nostri tavoli: si chiama Diplomati e istruiti (Gasperoni 1996). Il libro contiene indagini dell’Istituto Cattaneo di Bologna sulle condizioni culturali reali di ragazze e ragazzi che stanno per uscire dai licei, dalla scuola secondaria superiore. Questi libri avrebbero dovuto essere preoccupanti per tutti e non lo sono stati; a distanza di pochi mesi potevano verificare il rapporto tra i livelli di competenze effettivi verificati attraverso il testing e i voti presi, ottimi voti dietro cui c’era il vuoto o deficienze molto gravi, pittoresche in alcuni casi, e su percentuali enormi. Non direi che questo libro ha avuto il successo che meritava ed è stato uno dei primi segnalatori di queste fratture. Naturalmente non il 100% delle

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ragazze e dei ragazzi era nelle condizioni peggiori, il 50% soltanto. Il 50% in condizioni ottimali è un enorme progresso rispetto agli anni Cinquanta: dentro questo 50% ci sono aree del paese che tengono bene il passo con i livelli dei paesi europei in cui si studia, in cui circola più cultura e più lettura. L’altro 50%, però, è rimasto in una condizione che non è più quella dell’Italia contadina ma quella di una ignoranza di nuova fattura, drammatica perché, intanto, non ci rendiamo conto che esiste questa massa e poi perché l’organizzazione che abbiamo dato e che diamo alla vita sociale presuppone invece la capacità di, lo dico bonariamente, leggere, scrivere e far di conto a livello abbastanza alto. Ci rendiamo, dunque, poco conto di questa massa. Abbiamo avuto due indagini osservative internazionali che scavalcano, quindi, i dati Istat; perché l’Istat continua a darci, per chi ha titoli scolastici, le percentuali di quelli che hanno un certo livello d’istruzione e per chi non ha nessun titolo scolastico ci dà le autocertificazioni da sempre, da prima che le autocertificazioni venissero varate; per l’analfabetismo, però, si era analfabeti se si dichiarava all’ufficiale del censimento: sono analfabeta, ed è analfabeta mia zia, mia moglie, mio cognato...

In molti Paesi, non solo in Italia, questi dati formali parevano non sufficienti; quindi, a partire dall’ufficio statistico del Canada – molto preoccupato della qualità effettiva culturale dei suoi abitanti – e poi con l’aggregazione degli Stati Uniti e un po’ alla volta di altri Paesi dell’OCSE, o comunque di paesi europei e asiatici, si sono create indagini di tipo osservativo condotte attraverso questionari (sono questionari graduati, cinque tipi di livelli di questionari) svolti non solo raccogliendo le risposte ma osservando l’intervistato mentre risponde, e quindi con un’attendibilità molto forte dei dati che ne ricaviamo. Da questi dati, pubblici – cioè pubblicati ma non pubblici (commenta ironicamente, ndr) – emerge che sulla popolazione adulta italiana scremata fra i 15 anni e i 65 anni4, e dunque sulla popolazione in età da lavoro, il 5% non riesce a accedere neanche alla lettura del primo questionario, del più semplice, perché è totalmente tagliato fuori: non sa decifrare,

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non sa né leggere né scrivere, è totalmente analfabeta anche se ha titoli scolastici. Emerge dai dati, inoltre, che il 33% della popolazione risponde al primo questionario ma non riesce a andare oltre, a passare al secondo un po’ più complesso, e un altro 33% risponde al secondo questionario ma non riesce a proseguire: siamo, quindi, al 71% della popolazione, che equivale a dire che solo il 29% della popolazione italiana arriva al terzo livello dei questionari o ai superiori, agli ultimi due.

Su questo punto c’è una grande discussione, tra gli esperti internazionali, su dove cade il confine tra ciò che bisognerebbe sapere, in una società contemporanea, e ciò che poi si sa effettivamente: secondo alcuni il confine cade tra il secondo e il terzo livello e quindi potremmo dire, ottimisticamente, che il 29% della popolazione italiana ha un livello sufficiente di competenza, ma il 29% è ben poco, nel confronto internazionale. Altri più rigorosi, più sofistici, dicono che il confine, il grado zero, il minimo indispensabile di competenze per orientarsi in una società moderna, cade tra il terzo e il quarto questionario e dunque ha strumenti per orientarsi solo chi è al quarto o quinto livello e in tal caso siamo al di sotto, un po’ al di sotto del 20% della popolazione.

Ora va notato che sacche di analfabetismo di ritorno sembrano fisiologiche in tutte le società consumistico-industriali, però sono sacche non del 70-80% ma del 15-20%, e dunque questa massa enorme è un dato tutto italiano. Da molti anni alcuni di noi, due–tre (precisa sorridendo, ndr) si dedicano a ricordare tediosamente queste cose che sono antipatiche, lo capisco. C’è chi sostiene che il nostro è un Paese creativo: va bene, è creativo ma è ignorante. Ovvero, considerando freddamente le cose, ci sono questi cumuli molto gravi che hanno effetti devastanti in più direzioni. Io ne cito solo due: una è quella di cui si sono accorti finalmente alcuni economisti come Daniele Checchi, Tito Boeri, Luigi Spaventa che, confrontando dati, macrostatistiche internazionali, e riflettendo sui dati italiani, ritengono che il basso livello di competenze intellettuali, di cultura intellettuale – come vedete non dico di cultura, dico di cultura intellettuale – sia responsabile di quella che ritengono

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e chiamano la stagnazione di lungo periodo del sistema economico-produttivo e finanziario italiano che va avanti dagli anni Novanta e da cui non riusciamo a liberarci, tutt’altro.

Quindi, questo è un primo effetto, una prima direzione in cui si manifestano gli effetti negativi. Una seconda direzione è quella che riguarda le bambine e i bambini, la scuola ordinaria: anche qui abbiamo non solo queste ultime indagini osservative che ho citato ma, dagli anni Ottanta e Novanta, abbiamo l’evidenza statistica documentale di qualcosa che è intuitivo e cioè che a bassi livelli di scolarità e di cultura intellettuale dell’ambiente familiare corrisponde un basso livello di successo scolastico; per quanto, in generale, le scuole, e anche la scuola italiana, rimontano in parte questi deficit dell’ambiente familiare ma possono farlo solo in parte e lo fanno solo in parte.

Ho tentato in tante sedi di cercare di far capire la condizione in cui si trova l’insegnante che deve parlare di Emanuele Kant ad una ragazza che viene da un ambiente in cui da generazioni non è mai entrato un giornale o un libro: l’insegnante può essere brava, la ragazza può essere geniale ma è un miracolo se l’insegnante riesce a comunicare – torniamo a questo tema, comunicare qualcosa su un terreno difficile – che cos’è una derivata ma anche cose più semplici, anche un’algebra più semplice. Ciò richiede una fatica improba che gli insegnanti fanno senza ben saperlo, senza essere pagati per quello che riescono a realizzare, e riescono a farlo solo in parte, è inevitabile: se c’è questa massa dell’80% delle famiglie sotto i livelli minimi, la scuola per quanti miracoli faccia non riesce a produrre granché di meglio attraverso il tempo. Questa è la seconda direzione negativa, in realtà ce ne sono tante altre.

Adesso spero, credo di poter dire che i sindacati confederali, la CGIL in particolare, sono andati acquistando sensibilità nei confronti di questo tema; ad esempio verso il fatto che certamente una parte degli infortuni è legata a deficienze di informazione e a deficienze di informazione è legata l’infortunistica domestica: sono costi enormi che sopportiamo.

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Bisognerebbe tentare di uscire da questo stato di cose. Le vie sembrano vie obbligate: sono quelle che percorrono altri Paesi europei, da decenni, in modo fisiologico, anche se ne hanno meno bisogno. Le due vie sono le seguenti: il disporre di un sistema di educazione ricorrente degli adulti che noi non abbiamo (ci sono percentuali ridicole di frequenza a corsi di formazione per adulti, peraltro non sempre ben fatti); negli altri paesi europei siamo a percentuali del 70-80-85% con delle autorità che sovrintendono a questo tipo di attività libera, stimolante, dove si studia di tutto. La cosa importante non è tanto, secondo gli esperti, la materia che si studia, anche quella naturalmente, ma il fatto che si studi qualche cosa, questo è riattivatore di capacità intellettuali complessive e tiene attive queste capacità. L’ingegnere Roberto Vacca dice “bisognerebbe imparare due cose al giorno” sempre, finché si può, per tenersi in esercizio, due cose nuove al giorno. Ecco, un corso per adulti è questo, fondamentalmente: reimparare e imparare una serie di cose, quali che siano: la topografia, l’astronomia, l’inglese, il cinese, il turco, l’italiano antico, la storia romana… quasi non importa, direi, il contenuto. Questa è una prima via.

La seconda via è quella di avere un sistema diffuso, come a New York, a Parigi, a Londra, di centri di lettura. L’Associazione Internazionale dei Bibliotecari dice che lo standard dovrebbe essere che entro i seicento metri da casa ci sia un centro di lettura. I Comuni italiani sono ottomila circa, le biblioteche comunali vere (che abbiano alcune migliaia di volumi e siano aperte effettivamente) sono circa duemila secondo una stima, quindi ci sono seimila comuni, a dir poco, senza neanche una struttura del genere. Questa è l’altra via. Parlo di strumenti perché, poi, la via principale è volere uscire, volere tutti, “sortirne insieme” diceva don Lorenzo Milani5, la via principale è la voglia di sortirne. C’è? In parte sì, in parte ci sono gli indizi che dicono che quando l’offerta c’è vi è anche una risposta. Per un paio d’anni, tra il Ministero della Pubblica Istruzione di Luigi Berlinguer e quello che mi è toccato avere subito dopo, avevamo cominciato ad attivare un sistema nazionale di educazione degli adulti: era appena

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avviato e la risposta è stata enorme, le richieste di iscrizione, di frequenza ai corsi erano state enormi. Poi tutto si è congelato, vediamo se si riuscirà a ripartire, ma intendo dire che l’offerta coglie una domanda latente. Se l’offerta non c’è, la gente non sa che potrebbe avere diritto ad un centro di lettura e, quindi, non ha neppure l’idea di cosa siano queste cose e che al loro interno troverebbe i libri, i film ben catalogati, le cassette, le audiocassette, le videocassette, le mediateche, i collegamenti Internet, qualcuno che insegni a navigare in Internet.

L’accesso a Internet, in questo momento, è un altro deficit; ci siamo fermati nella corsa, per fortuna non si sono fermate le imprese che, vedendo gli ultimi dati, al 98% hanno il collegamento a banda larga, ma i privati, i singoli, sono messi male perché siamo fermi dal 2003 con meno del 50% di famiglie con un computer di cui non sanno, in buona parte, che cosa farsene (se non i giochi); accedono a Internet soltanto poco più del 35% delle persone, dunque i due terzi sono tagliati fuori.

Non devo dire a voi com’è drammatico in prospettiva questo taglio, è un neo-alfabetismo non meno grave dell’analfabetismo dinanzi alle lettere e ai numeri tradizionali e naturalmente si riflettono, in questo nuovo analfabetismo, le condizioni dell’analfabetismo primario.

Alcuni elementi di riflessione a partire proprio da don Milani che, in un periodo di prima industrializzazione e di una cultura contadina, arrivò a Barbiana con un potere rivoluzionario: dare ai ragazzi la forza della conoscenza delle parole e dei mezzi che le veicolano, tanto da trovare lì la sua “esperienza pastorale”. Lo spunto tratto qui da don Milani, ma anche da Gianni Rodari, che si può invece collegare ad oggi è il seguente: ritiene sia una questione democratica il fatto di avere strumenti accessibili a tutti, e per tutti s’intendono le categorie cosiddette deboli6 (e quindi dalle persone con disabilità alle persone con un potere culturale non raggiunto

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pienamente) e se ritiene che questo sia un percorso attuabile o solo un’utopia.

No, non credo che sia un’utopia. Lei ha fatto bene a citare Esperienze Pastorali perché è lì che nasce don Lorenzo Milani, nasce nel sobborgo operaio fiorentino già minacciato dalle ondate consumistiche, quindi a metà anni Cinquanta; è là che si rende conto che neanche la predicazione è possibile perché la gente non sa e non può sapere.

Inevitabilmente, quindi, si sviluppano le sezioni comuniste che non fanno più lavoro di crescita culturale ma mettono i flipper e l’osteria dentro la sezione e le parrocchie che fanno altrettanto, sostanzialmente, per tentare di non perdere il contatto con la gente. Don Milani fa questo enorme lavoro di ricerca che nessuno aveva realizzato fino ad allora con tale precisione e che affida poi a questo primo libro, Esperienze pastorali, condannato appunto – ogni tanto qualcuno chiede che sia revocata la condanna del Sant’Uffizio, che è una delle vergogne maggiori, secondo me, della struttura ecclesiastica italiana – poi viene cacciato a Barbiana e lì fa esplodere la bomba, con questi ragazzi molto bravi.

Sì, io credo, sono convinto che hanno ragione quelli che ci hanno insegnato a riflettere su questo punto: queste sono cose non di scuola o di linguaggio ma sono questioni democratiche, di organizzazione democratica. Benedetto Croce non amava l’aggettivo democratico, per il suo orientamento liberale, per il suo pensiero: è interessante che adoperi “democratico” in senso positivo soltanto riferendosi proprio all’assetto linguistico e culturale italiano dei primi del Novecento, dicendo che non erano questioni di stile ma era una questione democratica quella dell’unificazione delle capacità linguistiche della popolazione, posizione che è poi, si può dire, l’inizio consapevole delle riflessioni di Antonio Gramsci su questo tema, e poi di don Lorenzo Milani, di Gianni Rodari e vorrei dire di tanti altri. Purtroppo, in realtà, nel ceto intellettuale italiano si stenta a trovare una sensibilità su questi temi, spesso c’è piuttosto il rifiuto, oppure gli equivoci, insomma

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cose bizzarre e credo che sia così in tutti i paesi, naturalmente. L’accesso paritario e diffuso agli strumenti della cultura intellettuale è una questione democratica, è una precondizione, purtroppo non più che una precondizione: è una condizione necessaria ma non sufficiente. Cerco di ricordarlo sempre: i paesi con più elevato livello culturale intellettuale del Novecento, Germania e Giappone, seguiti da Unione Sovietica e Stati Uniti, ne hanno combinate di cotte e di crude, di mostruose. Dobbiamo tenerlo presente: lo sviluppo della cultura intellettuale è una condizione necessaria ma non sufficiente, però senza questo, soprattutto nelle società contemporanee – non più società contadine, non più società industriali, non più la catena di montaggio soltanto – è impensabile una società dignitosamente fondata sulla parità effettiva tra cittadine e cittadini.

In una recente intervista Umberto Eco (2006) è tornato sul problema di Internet, dell’accumulo di informazioni, della gestione delle informazioni, un tema di cui ha parlato anche lei già negli anni Novanta. Si può legare questo a quello che diceva Aleida Assman (1999) riguardo al rapporto tra i grandi archivi e la memoria vivente. È necessario, in qualche modo, tenere un equilibrio sistematico tra la massa generale di informazioni e quelle che realmente rientrano nella vita quotidiana, tra la memoria deposito/archivio e la memoria vivente. La lingua che ruolo gioca in questo? Anche la lingua ha bisogno di un rapporto equilibrato tra il database di tutti i vocaboli e le parole effettivamente usate?

Sì, credo di sì. Certamente è chiaro che il patrimonio linguistico complessivo è un enorme deposito di saperi, conoscenze e memorie, che il singolo può attivare solo in piccola parte, di volta in volta, per fortuna. Quello che importa non è tanto sapere tutte le parole, questo non è neanche pensabile: per i dati che in parte io ho tirato fuori si tratta di milioni di parole e noi abbiamo questo limite di settanta-ottantamila parole se siamo molto bravi, ma in realtà anche

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più basso, anche per persone di alto livello culturale. Allora quello che è importante non è tanto sapere parole, ma sono importanti due cose: una, sapersi orientare su quelle che non si sanno, cioè sviluppare gli strumenti di consultazione che danno corpo oggi alla capacità metalinguistica riflessiva, cioè saper cercare significati e valori delle parole, questa è una direzione, piuttosto che conoscerne qualche migliaio in più, che non serve a niente. E naturalmente l’importante è che questa capacità sia diffusa, che sia diffusa la capacità di consultare il vocabolario o di consultare Wikipedia e Internet. L’altra direzione è quella del proverbio napoletano, per dire di una persona che non funziona a pieno regime si dice: “ ‘e pparol’ ‘e sap’ ma nunn’e sap’ accucchià”, cioè le parole le conosce, ma quando è al dunque per metterle insieme...

Allora sono queste due abilità, saper cercare il senso di parole che non si conoscono e acquisirne altre e poi sapere usare in modo appropriato quelle che si conoscono, questa è una seconda direzione, e insomma speriamo che tutte e due siano coltivate e credo che nei corsi di comunicazione sarebbe importante sviluppare sia l’una sia l’altra, come dicevo all’inizio in definitiva.

C’è chi dice che lettori si nasce e chi dice, invece, che lettori si può diventare. Lei a metà degli anni Ottanta ha scritto un saggio sulla peculiarità degli adulti italiani che non leggono (De Mauro 1985): secondo lei quali sono i motivi per cui non si è stabilizzato ancora un nucleo forte di lettori, anche della stampa quotidiana? È un’osservazione che nasce anche dalle ricerche fatte dalla Facoltà di Scienze della Comunicazione della Sapienza sulle culture giovanili nelle quali, dai dati, emerge che i giovani manifestano un comportamento culturale diversificato, anche molto ampio: rifacendoci, fra l’altro, alla citazione di tali dati contenuta anche in un suo libro (De Mauro 2004), può fornirci una valutazione?

Separerei stampa e libri, perché l’indice di lettura dei libri

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lentamente è andato crescendo in Italia, dagli anni Cinquanta e Sessanta. I lettori effettivi – quelli che leggono davvero qualche libro nell’anno – non vanno troppo oltre il 35-38% e questo indicatore è basso nel confronto europeo ma è molto migliore di quello di un tempo. Il secondo indicatore, quello della lettura dei quotidiani, invece è come la staticità che rasenta l’immobilità di cui parlava Graziadio Ascoli per la lingua italiana. Ignazio Weiss trovò nel 1955, nella prima indagine sulla diffusione dei quotidiani, che ne compravamo una copia ogni dieci abitanti – già allora in Europa l’indice era molto più alto – e una copia ogni dieci abitanti continuiamo a comprare o a procurarci. Un piccolo ampliamento di lettura effettiva è legato alla free press che si è sviluppata in questi ultimi anni: non abbiamo ancora dati sicurissimi, ma ci sono alcuni milioni di persone che non compravano il giornale e non leggevano il giornale comprato e che ora se lo procurano, questo senza danno, almeno sembra, per la vendita dei quotidiani. Comunque questo indicatore è rimasto sostanzialmente statico per cinquant’anni il che, secondo me, pone un problema a chi fa giornali sul modo in cui li fanno, o almeno dovrebbe porlo. Lo dico qui, l’ho detto a intere platee di giornalisti suscitando sdegno: la qualità della nostra informazione, non solo quella stampata, è molto cattiva e non ci sono grandi organi di stampa che facciano da calmiere e da riferimento, da benchmark per il resto della stampa popolare. Bene, che cosa si può fare? L’ho detto prima, credo sia importante creare degli strumenti, creare i corsi per adulti, creare i centri di lettura. In definitiva, la questione si riduce a una disputa che abbiamo avuto con Armando Petrucci che è un paleografo – un paleografo bravo che si occupa non solo di come si scriveva nel terzo secolo d.C. ma di come si scrive, o non si scrive, e si legge oggi – che ha insegnato alla Normale di Pisa fino a questi anni e che scrisse un libro memorabile sulle biblioteche in Italia negli anni Settanta, che era intitolato “Primo: non leggere” (Barone, Petrucci 1976), tanto per dare una chiave anche del suo impegno. Lui, una volta, mi ha rimproverato in pubblico dicendo: “Ma tu dici che bisogna leggere per cambiare, io

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dico che bisogna cambiare per leggere” e io lì per lì mi sono arrabbiato dicendo: “Queste sono chiacchiere ideologiche”. Anche in questo caso, con la vecchiaia comincio a credere che avesse ragione lui e avessi torto io. Certo, credo che l’offerta sia importante ma se non c’è la voglia di acquisire livelli più alti di informazione, questi strumenti rischiano di restare inerti e questa voglia di avere strumenti più alti di informazione nasce se uno vuole capire com’è fatto il mondo in cui viviamo, altrimenti perché fare questa fatica?

E allora bisogna sapere che o si accende questa scintilla e divampa questo “incendio collettivo” oppure gli strumenti di settore forse servono a poco.

Forse i giovani hanno poca scintilla?

Ma non solo i giovani e perché gli anziani?

Nella ricerca veniva rilevata proprio una vivacità nei comportamenti culturali dei giovani…

Mi auguro, lo spero, ne sono convinto. Ma è l’annuario Istat che ci dice che i giovani hanno livelli di istruzione quadrupli rispetto alla generazione dei nonni e doppi rispetto ai padri e alle madri; quindi, insomma, certamente ne sanno di più e poi hanno una diffusa conoscenza del mondo internazionale, della comunicazione, dello spettacolo che le vecchie generazioni non avevano.

Fra le cose che nel tempo mi hanno fatto più rabbia ci sono questi titoli dei giornali come “I giovani non leggono più”: ma perché non leggono più? Di chi si sta parlando? Perché i giovani di trent’anni fa, cioè gli anziani di oggi, o di cinquant’anni fa, leggevano? Leggevano molto di meno. Insomma, questa è una curiosa ottica, rientra nel far male l’informazione e qui un’informazione fatta male oscura la percezione delle cose. In questo quadro, di classe anagrafica in classe anagrafica, i giovani vanno avanti meglio degli anziani però con i deficit complessivi della popolazione, non si capisce per quale miracolo dovrebbero essere indenni da questi.

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Una domanda sulle parole chiave, visto che lei ha una rubrica su Internazionale sui neologismi. Ci sono parole che sono state di moda e non sono più in uso. Qual è una parola che non ci sarà più nel futuro e che adesso è di moda...

È imprevedibile, non mi azzarderei a fare previsioni. No. Le parole sono tante, anche qui c’è un lavoro che forse ora si potrebbe fare, cioè cercare di ricostruire quando man mano sono entrate in uso certe parole chiave, come lei dice, ma insomma è una cosa di cui bisogna parlare studiando.

Potrebbe scegliere “la parola” che racchiuda i suoi cinquant’anni di attività scientifica e didattica cui ha brindato di recente con la comunità scientifica della Sapienza?

Zavattini ha scritto delle bellissime poesie dialettali e il titolo era “Stricar in una parola” cioè “rannicchiarmi in una parola”, però lui era un grande poeta geniale, scrittore e artista, io non sono capace di un’operazione del genere.

E una sensazione?

Ma sono tante sensazioni, ho visto cambiare tante facce, tipi, tipologie di facce di studenti e di colleghi; gli studenti… ho visto le ragazzine timidissime, per benino poi diventare un po’ alla volta più mobili, più capaci di movimento autonomo, in Sicilia, a Napoli. Dovrei anche qui parlare molto a lungo. Una prossima volta vi posso raccontare la memoria delle impressioni visive, dai seminari a Roma nel 1957, all’Istituto Orientale subito dopo, fino ai nostri giorni. La cosa che a me pare interessante è il cambiamento, la memoria del cambiamento, totale, fortissimo. Anche allora, nella stessa città, si trovavano disparità drammatiche.

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Note

1 Le domande 3, 7, 8, 10, 12 sono a cura di Rosanna Consolo. Le domande 1, 2, 4, 5, 6, 9, 11 sono a cura di Leonardo Romei. Abstract e introduzione sono stati condivisi.2 Tullio De Mauro è, dal 2002, rappresentante delle università nel comitato scientifico dell’ENS, Ente Nazionale dei Sordomuti. 3 Il riferimento di De Mauro è, ovviamente, ad una serie di disegni e dipinti – che ci ha mostrato durante l’intervista – in cui i protagonisti dell’arte contemporanea vengono ritratti in forma caricaturale. 4 Popolazione dal cui totale sono stati tolti i bambini che possono avere ancora ritardi nella scolarizzazione e gli anziani che possono comunque appartenere a strati in cui la società italiana era più marcatamente, più vistosamente analfabeta.5 Il riferimento riconduce anche al documento Per sortirne insieme, in De Mauro Tullio, Toschi Massimo, Gesualdi Michele, 2004, pp. 14-23.6 A riguardo di questa domanda va considerato che Tullio De Mauro è Presidente della Fondazione Mondo Digitale che si occupa di promuovere e realizzare progetti per l’uso delle ICT nei processi di integrazione sociale.

Riferimenti delle opere citate nel testo e bibliografia d’interesse

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