con questi occhi

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Manuela Priolo, mystery

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Manuela Priolo

CON QUESTI OCCHI

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www.ilclubdeilettori.com

CON QUESTI OCCHI Copyright © 2011 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2011 Manuela Priolo ISBN: 978-88-6307-357-7

In copertina: Immagine Shutterstock.com

Finito di stampare nel mese di Maggio 2011 da Logo srl

Borgoricco - Padova

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A Tommaso, per la sua instancabile opera di dattilografo.

A Giulia,

per l’ispirazione nei sogni.

A Francesco,

per i suoi sorrisi e la sua innocenza.

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INTRODUZIONE

Sogna, perché nel sonno puoi trovare quello che il giorno non ti può dare.

Jim Morrison

È così. È sempre stato così, almeno fin da quando conservo memoria. È naturale. Sono una persona normale con una vita normale. I miei giorni scorrono monotoni e simili a quelli di molti altri, scanditi da banali orari, appuntamenti e piccole manie. Ho un lavoro come segretaria in uno stu-dio di ingegneri associati, trascorro le mie mattinate in un ampio stanzo-ne con grandi vetrate che si affacciano sul corso principale in centro, as-sieme a due colleghe ed un factotum, ho due figli ormai grandi che vivo-no per conto loro, abito in una grande casa, forse troppo grande per me sola, dopo che Fausto è andato via. Una esistenza comune, perfettamente sovrapponibile a tanti altri abitanti del globo terrestre. Tutto cambia però la sera, quando, stanca per la giornata appena trascorsa, spengo la piccola lampada posta sul mio comodino e do un’ultima occhiata furtiva al wind chime che mi fa compagnia a lato della testata del mio letto. È un attimo, e praticamente avviene in maniera quasi automatica; da quel momento io rivivo l’intera giornata appena trascorsa, la sogno completamente dacca-po. Rivivo gli stessi momenti, ascolto le stesse parole, percepisco gli stessi odori. Nel sogno tutto ricomincia un’altra volta, dandomi la possi-bilità di rivalutare situazioni, percepire sfumature, interpretare silenzi e sguardi, afferrare al volo tutto ciò che in presa diretta non sono riuscita a cogliere. È una capacità non comune, la mia. Tutti noi sogniamo, è un’esigenza fondamentale: sognare è necessario. Serve per poter rielaborare tutte le nostre esperienze, per poter identifica-re nuove prospettive e per proporre nuovi modi di affrontare le difficoltà quotidiane. Il sogno ci dà la possibilità di esprimere in maniera sicura i desideri e le paure che sarebbero normalmente soppresse da svegli, man-tenendoci così in armonia con il nostro lato oscuro. Passiamo circa sei

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anni della vita a sognare, più o meno cinquantamila ore. Tuttavia, molti non ricordano ciò che sognano, o addirittura non ricordano persino di a-ver sognato; invece io ricordo tutto: ogni minimo particolare è vivida-mente impresso nella mia mente e in modo talmente preciso da indurmi svariate volte, appena sveglia al mattino seguente, a prendere la penna e un taccuino in mano per riscriverli in modo particolareggiato e minuzio-so. All’inizio questa capacità mi ha impaurita. Da bambina, non riuscivo a gestire la folla di mostri e loschi personaggi che continuava a popolare i miei sogni, non riuscivo a comprendere il fatto di dovermi ritrovare se-duta nuovamente al banco di scuola e ricominciare la stessa giornata ap-pena trascorsa, non sopportavo l’idea di dover rivivere situazioni, rim-proveri, punizioni spesso umilianti e imbarazzanti. Poi, un giorno, ho scoperto una cosa sorprendente. Potevo gestire il mio sogno e indirizzar-lo, trasformandomi da semplice spettatrice a vigile e attenta regista della mia seconda vita. Rivedere la giornata appena trascorsa e poter interveni-re su di essa è diventata presto una piacevole abitudine. Posso rivivere una determinata situazione più e più volte, riavvolgendo un invisibile na-stro di registrazione, esattamente come se mi trovassi all’interno di una sala di montaggio a scorrere più e più volte una sequenza, indecisa se ta-gliare o meno la scena. Modificare la stessa poi, correggendo gli errori, è stato il passo definitivo verso la regia assoluta. Il film della mia giornata risulta così perfetto. Non importa quanto possa essere stata sporca, scor-retta e imprecisa in presa diretta; di notte ho la possibilità di rivedere il tutto con calma e di cambiare ogni mio comportamento. Posso diventare tutto ciò che durante la mia prima vita non sono o non posso permettermi di essere; posso diventare migliore, la donna che ho sempre desiderato. Tutti noi in fondo abbiamo sperato, almeno una volta nella nostra vita, di avere una seconda possibilità; poter tornare indietro su una strada percor-sa, cancellare una frase e sostituirla con un’altra, cogliere al volo un’occasione che sembrava sfumata. Io, semplicemente, ho scoperto co-me fare e ogni sera mi concedo questo piccolo lusso: ad occhi chiusi.

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I

UN COLTELLO ALLA GOLA 15 maggio 1966, ore 21:00. «Mamma, non voglio andare a dormire, ho paura!» «Non dire sciocchezze, ogni sera c’è una novità diversa e una scusa buo-na per non stare nel tuo letto. Sei grande Gabriella, devi dormire nella tua stanza.» La signora Mancini era irremovibile. Gabriella aveva passato i primi sei anni a dormire nel lettone con i suoi genitori, perché tutte le sue notti e-rano tormentate da frequenti risvegli nel corso dei quali si ritrovava ad urlare seduta sul materasso, madida di sudore e con gli occhi spalancati e fissi sul muro di fronte. I suoi sogni erano sempre stati popolati da mostri e gente strana, individui che venivano a farle compagnia, sedendosi ai piedi del letto e stuzzicando le sue piante facendole il solletico anche so-lo per svegliarla con un sobbalzo. A volte si avvicinano alle orecchie e vi soffiano dentro, con un ronzio fastidioso come un insetto impertinente; lei apriva improvvisamente gli occhi e li vedeva lì, chini su di lei, con un sorriso beffardo stampato in faccia come a dirle: “Te l’ho fatta anche stavolta”. Sì, gliela facevano sempre sotto il naso, tutte le notti, pratica-mente; ci provava tutte le sere a non lasciarsi andare nel sonno, ma non poteva fare a meno di dormire, quindi, non appena socchiudeva gli occhi e i suoi muscoli stavano per rilassarsi, ecco che arrivava qualcuno a tor-mentarla con un urlo o un ululato. Mostri, sì, ma anche gente normale che si intrufolava nella sua stanza a ripetere le stesse azioni accadute du-rante il giorno appena trascorso, come quella volta in cui la maestra ave-va tenuto per la seconda volta la lezione di scuola seduta ai piedi del letto dandole le spalle e rivolgendosi alla sua classe che la stava seguendo at-tenta e disciplinata. Lei pareva non accorgersi di Gabriella, mentre tutti i suoi compagni l’avevano vista e continuavano a salutarla dai banchi di sottecchi e la maestra si alzava per scrivere alla lavagna l’alfabeto in cor-

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sivo e dava loro le spalle. Poi ad un certo punto l’aveva sentita dire: «Ma Gabriella non c’è? Sapete se per caso è malata?» Aveva dato un’occhiata al suo banco che era vuoto proprio nell’istante in cui tutti, soffocando le risa, indicavano il suo letto alla maestra che, e-sterrefatta, si voltava e la fissava negli occhi… Quella volta si era sve-gliata alzando il busto con tale velocità da risentirne con un dolore al fianco per due giorni. «Prendi esempio da Marco, che se ne sta tranquillo tutta la notte e non si sveglia mai!» Probabilmente sua madre pensava che portandole come esempio suo fra-tello Marco, di tre anni più grande, lei potesse più facilmente accettare il fatto di dover dormire da sola nella sua stanzetta. Marco era un bambino sereno, si addormentava la sera per svegliarsi, praticamente nella stessa posizione, il mattino dopo. Era un ragazzo gio-ioso, sempre pronto a regalare sorrisi e il buonumore a tutti coloro che gli passavano accanto. L’esatto opposto di Gabriella, piccola peste con le sopracciglia corrugate, sempre pronta ad una imminente e fantomatica lotta. Sua madre non tollerava quel lato del carattere e tentava in tutti i modi di smorzarlo, cercando senza successo di convincerla ad accettare di buon grado piccole imposizioni e regole e forzandola ad essere conci-liante e gentile con gli altri. Gabriella sapeva che quello era un grande desiderio della sua mamma, ma anche con tutta la buona volontà non riu-sciva proprio a fare breccia dentro quella corazza che da sempre la rico-priva, impaurita a che si potesse capire la sua vera fragilità, quella di bambina che non aspetta altro che essere coccolata tra le braccia dei pro-pri cari. Quello scafandro probabilmente se lo era costruito anche grazie ai suoi sogni, abituata come era a combattere tutte le notti con animali e bestiac-ce di ogni genere. Una piccola guerriera non può permettersi il lusso di piangere, che diamine! Ma, nonostante tutto, era ancora una bambina, e chiudere gli occhi per dormire era da sempre stato un momento traumatico. Lo viveva come un distacco forzato da una realtà che poteva ad ogni buon conto controllare, per immergersi in un limbo dove immagini, suo-ni e sensazioni si avvicendavano senza che lei potesse esercitare la ben che minima azione. Non le piaceva subire qualcosa, non le era mai pia-ciuto. Ecco che quindi il momento del sonno trasformava un piccolo pia-cere in una tortura che sarebbe durata per tutta la notte. Anche se aveva

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ancora sette anni, aveva già ben chiaro cosa le sarebbe successo appena si fosse lasciata andare nel riposo notturno; non voleva quindi cedere al sonno e lo combatteva fino a che, esausta, non crollava sul materasso tra le lacrime, già consapevole di un’altra battaglia da affrontare. La sua camera si trovava all’estremità di un budello di corridoio, attra-verso il quale si accedeva ad un altro disimpegno lungo e stretto. Tutta l’attività famigliare le arrivava filtrata da questa doppia strettoia, come il collo di una clessidra che faceva passare solo un numero distinto di gra-nelli, regolando in modo matematico il loro passaggio nelle due bolle. Le luci soffuse del resto della casa arrivavano a malapena ai piedi del suo letto che si trovava in fondo alla stanza coperto nel buio più totale. A niente valeva, poi, che lasciasse gli occhielli della serranda della finestra socchiusi. La luce che vi penetrava rendeva ancora più spettrale la stan-za, allungandosi sulla sua coperta e sul pavimento antistante con pro-gressione geometrica e innaturale. Anche i suoni del resto della casa ar-rivavano ovattati alle sue orecchie e non le davano alcuna sicurezza in più. Quella sera la mamma le aveva rimboccato le coperte come al solito, a-veva acceso la piccola luce sul suo comodino, le aveva dato un bacio e sperato che quella notte sarebbe potuta essere diversa da tutte le altre. «Mamma, non riesco a dormire, ti prego, non mi mandare a letto da so-la!» cercò di piagnucolare dal fondo delle coperte. «Gabriella, è una cosa necessaria: devi abituarti a dormire da sola.» Immancabilmente quelle erano le parole che sentiva pronunciare alla mamma tutte le sere, prima che lei si alzasse dal suo letto, la salutasse con un sorriso e spegnesse la luce della plafoniera gialla posta sul soffitto della sua camera, lasciandole l’unico spicchio di viso ancora non sepolto sotto le lenzuola illuminato dalla luce azzurra della sua minuscola abat-jour. Ogni sera Gabriella si diceva che doveva riuscirci, che poteva farcela, che quella volta non sarebbe stata come tutte le altre in cui veniva tor-mentata da strani individui, ma non riusciva a calmarsi. I minuti passa-vano e si ritrovava a contarli; presto i minuti si trasformavano in ore, scandite dai quarti del campanile che, sadico e impietoso, non faceva al-tro che ricordarle puntualmente della sua insonnia. Cominciava allora ad agitarsi, a maggior ragione quando si accorgeva che era proprio tardi, che Marco stava già serenamente dormendo nella sua stanza e che i suoi genitori stavano per andare a letto a loro volta.

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Era inutile, si diceva, chiedere di passare a dormire nel lettone con loro, tanto i suoi amici notturni arrivavano anche là e si insinuavano tra mamma e papà, portandola via nel loro mondo maledetto. Rimaneva così immobile nel buio, ormai immersa nella calma notturna casalinga, ad a-scoltare i rumori della strada sottostante, ad inseguire sulla parete i fasci di luce dei fari delle rare macchine che frettolosamente rientravano a ca-sa e a contare il suo stesso respiro e i suoi stessi battiti. Fino a che la stanchezza non la prendeva e la portava ancora una volta via nel suo mondo a farle rivivere la stessa giornata appena trascorsa e scegliendo per lei le immagini più crude e più tristi, quelle che avrebbe voluto di-menticare e che invece si ritrovava là, puntuali, ogni notte. L’unica sua consolazione era il wind chime che le aveva regalato la zia Giusy di ritorno dal suo viaggio di nozze a Lampedusa. Era una bimba di appena un anno, ma ricordava benissimo il suo tintinnio che lo aveva svelato ancor prima di scartarlo dal pacco. I suoi genitori lo avevano ap-peso accanto alla testata del suo letto, proprio lì, sopra al comodino, e lì era sempre rimasto. Una grande tartaruga verde con le pinne blu e due vispi occhietti accanto alla bocca appena accennata tratteneva sotto la sua pancia una grande base circolare dalla quale si dipartivano cinque canne musicali in metallo tenute insieme da minuscoli fili rossi. Al cen-tro della base, poi, un lunghissimo filo correva giù imperlando a metà strada un nocciolino di legno che aveva il compito di percuotere le canne ad ogni minimo movimento e terminando in basso con un’altra tartaruga, più piccola, ma con gli stessi colori e gli stessi occhietti. Erano loro, le due tartarughe, ad accompagnarla ogni notte nella sua seconda vita; ba-stava che si muovessero appena per generare il dolce trillare che segnava l’inizio di ogni suo sogno. Ma quella notte era diversa da tutte le altre; prima di andare a letto Mar-co le aveva raccontato dei briganti che si intrufolavano di notte nelle case e sgozzavano i loro abitanti. Quella notte uno di loro era andato a trovar-la. Un losco figuro, tutto sudicio e con pochi capelli spelacchiati lucidi di grasso, con un alito fetido e pochi denti in bocca che era riuscita a vedere bene non appena si era avvicinato al volto e le aveva sghignazzato bef-fardo; poi aveva preso il suo coltellaccio da macellaio e lentamente lo aveva avvicinato al collo di Gabriella. Lei vide il rosso porpora delle gocce bagnare il lenzuolo candido e si svegliò con un grido che costrinse tutti, Marco compreso, a precipitarsi in camera sua, per verificare cosa fosse successo. Suo padre la prese in braccio e continuò a sussurrarle

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dolcemente che non era nulla, di calmarsi e di non singhiozzare più. L’accompagnò nel lettone, ma Gabriella non era per nulla tranquillizzata. Aveva gli occhi spalancati dal terrore e aveva la sensazione che quel lo-sco figuro non l’avrebbe abbandonata più. Sarebbe stato vero, quel col-tello alla gola l’avrebbe accompagnata per sempre; la veniva a trovare spesso e ogni volta rinnovava sul suo collo la stessa ferita. Da quel gior-no aveva preso l’abitudine, che non avrebbe lasciato più, di dormire con un braccio avvolto intorno al collo, nell’infantile tentativo di proteggere la giugulare da quel coltellaccio, ma era tutto vano: il brigante arrivava e lentamente le scostava il braccio senza che lei se ne accorgesse, salvo poi svegliarsi nel momento stesso in cui vedeva le gocce di sangue bagnare ancora una volta il lenzuolo bianco e alzare gli occhi per l’ennesima vol-ta sul suo sorriso beffardo e ironico. 20 settembre 1966, ore 19:00. La scuola era già cominciata quell’anno e Gabriella frequentava la se-conda elementare. Era molto contenta. Si trovava bene con tutti; con la maestra, invece, non riusciva proprio ad andare d’accordo. Lei non vole-va che raccontasse dei suoi sogni perché “facevano spaventare gli altri bambini”. Quel giorno alla chiusura della scuola le aveva viste parlare dentro la classe, nascoste dietro la porta semiaperta, senza poter sentire cosa dicessero. La sua maestra gesticolava in modo sgraziato e portava continuamente le mani agli occhiali come per sottolineare un disappunto in merito alla sua condotta; nel frattempo raccontava a sua madre l’ultima sua performance dell’orrore nel corso del quale aveva terrorizza-to due sue compagne raccontando loro del brigante che tagliava le gole di ignari bambini nel sonno. Ad un certo punto aveva visto sua madre crollare su di una seggiola, piccola, fatta solo per loro bimbi, che a stento aveva retto il colpo, e lei pensava che si sarebbe schiantata. C’era stato un po’ di silenzio, poi sua madre aveva preso il suo fazzoletto dalla bor-setta, aveva asciugato la fronte ed biascicato qualcosa di incomprensibile alla maestra, salutandola frettolosamente. «Gabriella, la maestra mi dice che tu continui a raccontare cose strane ai tuoi compagni. Devi smetterla con queste fantasie! È tutto frutto della tua immaginazione!»

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Gabriella avrebbe tanto voluto che la sua mamma le chiedesse qualcosa di più su quei sogni che la agitavano, ma lei non lo fece, d’altronde non lo aveva mai fatto, limitandosi a catalogare frettolosamente i suoi risve-gli come i capricci di una bimba molto fantasiosa. Avrebbe tanto voluto che lei smettesse di portarle ad esempio suo fratello Marco che “è un bravissimo bambino, va bene a scuola, non mi ha mai dato alcun tipo di problema”, anche perché lei era l’esatto opposto, sempre in lotta con qualcosa o qualcuno. La sua mamma soffriva per questa situazione e anche lei ci soffriva. Non stava bene, avrebbe voluto diventare tutto quello che lei desiderava, ma si rendeva conto che per poterlo fare doveva cominciare a fingere… fare finta di non ricordare assolutamente nulla al mattino successivo e di co-minciare la giornata come tutti gli altri bambini, con un sorriso e un ab-braccio piuttosto che con un broncio e una lacrima impastata sulla guan-cia. Ma come si faceva a dimenticare? Come si faceva a fare finta che tutto il mondo che l’agitava di notte non esisteva? 20 settembre 1966, ore 21:00. La mamma l’aveva messa a letto dopo cena ed era stata particolarmente dolce con Gabriella; l’aveva abbracciata e sussurrato tante frasi carine all’orecchio mentre l’aiutava a svestirsi e a mettere su il pigiamino con gli orsetti che le piaceva tanto. Avevano giocato un po’ insieme e letto una storia; le piaceva molto: sentirsi coccolata da sua madre era una sen-sazione bellissima, sarebbe rimasta ore a giocare con lei, affamata come era di carezze. Poi era arrivato il momento della nanna; Gabriella l’aveva salutata con un certo dispiacere, certa di cosa avrebbe sognato quella not-te: la sua odiosa maestra che parlava con la sua mamma e la faceva pian-gere. Lei si era limitata a sussurrarle: «Gabriella, quello che tu sogni non è ve-ro. È questa la realtà, tu ed io che giochiamo su questo letto e non esiste niente altro: spero tanto che tu stanotte faccia sogni d’oro e d’argento.» La luce si era spenta e il rituale si era ripetuto; Gabriella aveva aspettato che passassero i minuti, le ore, poi la stanchezza l’aveva presa…

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21 settembre 1966, ore 2:00. La mattinata a scuola era appena trascorsa e la campanella stava suonan-do. Fra un po’ sarebbe arrivata la mamma per prenderla e portarla a casa. La maestra l’aveva rimproverata quella mattina per aver fatto spaventare due sue compagne con la storia del brigante che sgozza i bambini mentre dormono. Ecco, stava arrivando la sua mamma, sentiva i suoi passi nel corridoio, passi frettolosi, era in ritardo e doveva ancora preparare il pranzo per papà. Gabriella l’aspettava seduta sulla panca del corridoio con la cartella sulle spalle e sperava che la maestra non si accorgesse del suo arrivo così non poteva raccontarle dello spavento che aveva fatto prendere ad Elisa e Francesca. Invece anche la maestra aveva sentito i suoi passi nel corridoio e si era affacciata dalla porta della classe un at-timo prima che lei potesse saltare giù dalla panca per correrle incontro. L’aveva fatta accomodare in aula e aveva cominciato a raccontarle tutto, socchiudendo la porta e lasciandola fuori nel corridoio a spiare dalla feri-toia rimasta aperta solamente il labiale e i loro gesti. Mentre parlava, la sua maestra gesticolava in modo sgraziato e portava continuamente le mani agli occhiali come per sottolineare un disappunto in merito alla sua condotta e al suo comportamento strano. Ad un certo punto Gabriella aveva visto sua madre crollare su di una seggiola picco-la, fatta solo per loro bimbi, che a stento aveva retto il colpo e lei penso che si sarebbe schiantata. C’era stato un po’ di silenzio, poi sua madre aveva preso il suo fazzoletto dalla borsetta, aveva asciugato la fronte e biascicato qualcosa di incomprensibile alla maestra, salutandola frettolo-samente. «Gabriella, la maestra mi dice che tu continui a raccontare cose strane ai tuoi compagni, devi smetterla con queste fantasie, è tutto frutto della tua immaginazione!» Questo le aveva detto mentre ritornavano a casa e lei sentiva una gran-dissima tristezza dentro. «Lo sapevo, lo sapevo che mi toccava rivivere tutto daccapo. Non è giu-sto, non è giusto, come vorrei che questo non fosse mai successo…» E in effetti accadde di nuovo: si ritrovava seduta sulla panca del corrido-io con la cartella sulle spalle, mentre i passi frettolosi di sua madre si av-vicinavano e la maestra si sporgeva dalla porta dell’aula quel tanto che bastava per individuarla e invitarla a entrare. Tutto ricominciava. La ma-

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estra che gesticolava, sua madre che si accasciava sulla seggiola picco-lissima che anche questa volta non si sfasciava per un miracolo. «Basta con questa tortura, non ce la faccio più!» mentre pensava così, stringeva i pugni tanto forte da sentire le unghie dentro i palmi della ma-ni: da lontano sentì il tintinnare del suo wind chime e successe quello che non avrebbe mai creduto. Improvvisamente la scena ricominciava: la mamma si avvicinava con il suo passo affrettato e lei alzava lo sguardo alla porta dell’aula convinta di vedere la maestra affacciarsi. Non succes-se alcunché, l’aula era deserta. Non ci fu alcun colloquio con la sua mamma, lei le sorrise e le disse: «Presto, Gabriella, devo ancora preparare il pranzo per papà!» e insieme si avviarono verso l’uscita. Gabriella continuò a voltarsi indietro con gli occhi spalancati e la bocca semiaperta a fissare la porta dell’aula per verificare se la maestra si fosse sporta lievemente in ritardo, ma non accadde: tutta la scena che le era toccato di rivivere così tante volte venne completamente cancellata, ri-mossa dal sogno che continuò sereno. Gabriella si era svegliata per la prima volta nella sua vita con una alle-gria nuova. Aveva scoperto il segreto per controllare i suoi sogni; poteva tagliare le scene che non le piacevano, alterare quello che sarebbe acca-duto a suo piacimento. Aveva fatto veramente sogni d’oro e d’argento come diceva la sua mamma e finalmente poteva diventare nel sogno tutto quello che la sua mamma aveva sempre sognato per lei. Era talmente contenta che solo dopo essere andata in bagno si era accorta che sulle sue mani erano ancora chiaramente impressi i segni delle sue unghie affon-date nei palmi…

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II

L’UOMO SOGNA DI VOLARE 2 Gennaio 1969, ore 21:00. Gabriella pensava che tutti avessero sognato, almeno una volta nella vita, di volare. Era un’esperienza bellissima. Forse non se ne ricordavano, al-trimenti ella era sicura che ogni sera sarebbero andati a letto sperando di volare la notte. Lei sognava spesso di volare, soprattutto quando era par-ticolarmente serena. Un sogno semplice, infantile, come lo avrebbero a-nalizzato sbrigativamente molti psicoterapeuti; ma lei era una bambina di dieci anni e si riteneva già fortunata di poter esattamente ricordare ogni suo singolo volo notturno, la sorpresa sempre nuova del distacco dei pie-di dal terreno, la sensazione dell’aria sotto la pancia che la sosteneva come una mano invisibile, lo stupore di visitare luoghi sempre nuovi. Le piaceva volare, le faceva provare una ubriachezza che le saliva alla testa come le bollicine dello spumante a Natale e la stordiva in un arcobaleno di sensazioni sempre contrastanti: la paura e il desiderio, la nostalgia e la curiosità, l’allegrezza e la malinconia. Da quando Gabriella e la sua mamma avevano scoperto il segreto per fa-re solo “sogni d’oro e d’argento” , riusciva (quasi) sempre a ritagliare tutti gli eventi spiacevoli e negativi della giornata con un sapiente e mi-nuzioso lavoro di montaggio; la sua “forbice” era proprio il suono del wind chime. 18 Febbraio 1969, ore 21:30. La mamma l’aveva salutata come ogni sera: «Spero tanto che tu faccia sogni d’oro e d’argento… Mi dispiace per quanto è accaduto con Marco, vorrei che andaste un po’ più d’accordo voi due.»

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«Buonanotte, mamma», le aveva sussurrato Gabriella mentre la mamma passava delicatamente le dita sul wind chime. Il suo scampanellare era veramente un suono d’argento, proprio come i sogni che la mamma le augurava ogni notte. Era un suono fresco, pulito, che le ricordava quello delle onde del mare infrante sulla ghiaia e risucchiate velocemente dalla risacca, il rompersi della prima goccia d’acqua sul vetro che annunciava un temporale improvviso, il vibrare dei bicchieri di cristallo portati sul vassoio dalla nonna nei giorni di festa. Il suo tintinnare l’accompagnava ormai nei sogni da un bel po’ e le dava modo di tagliare i ricordi spiace-voli per rendere meno dura la notte. Ma quando lo sentiva trillare alla fi-ne di un sogno, allora sapeva che stava per cominciare a volare. Era un attimo, poi la scena che aveva intorno cambiava improvvisamente e si ritrovava ogni volta in un posto sempre nuovo, a viaggiare. 19 Febbraio 1969, ore 1:20. Gabriella aveva appena terminato di litigare con Marco dopo aver sco-perto che le aveva rubato le figurine del suo album preferito per regalarle alla fidanzatina. Lui le aveva dato uno spintone e lei era caduta in malo modo a terra sbattendo con il sedere e rimediando un bel livido sulla na-tica. Non ci aveva visto più dalla rabbia; nonostante fosse più esile di suo fratello, si era alzata come una furia con gli occhi colmi di una grossa la-crima che le avevano quasi impedito la completa visuale, proprio come un bacile ricolmo d’acqua che espone in alto il suo menisco traboccante, pronto a tracimare da un momento all’altro. L’aveva afferrato per un braccio e sbattuto a sua volta in terra procurandogli una sbucciatura al ginocchio che si sarebbe portato dietro per diversi giorni. «Sei una serpe», le aveva sibilato dal pavimento mentre vedeva il suo sangue sporcare i calzettoni strappati. In quel momento Marco le era sembrato come una serpe battuta nella polvere che si dimenava nel tentativo di trovare un riparo e sibilava schioccando la lingua biforcuta… Anzi, Marco si era trasformato proprio in una serpe e lei l’aveva sentito a poco a poco perdere l’usuale tono di voce per acquisire il sibilo acuto del rettile, mentre lo vedeva contorcersi tra le sue stesse spire e lamentarsi per il colpo… Inconsciamente si era ritrovata un sorriso di vittoria stampato sulle labbra.

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In quel momento era arrivata la mamma, la quale, valutando frettolosa-mente la scena, l’aveva inviata in camera in punizione per concentrare la sua attenzione su Marco e la sua insulsa ferita. La sua natica dolorante non poteva essere certo balzata immediatamente ai suoi occhi, nascosta com’era dalla gonnellina di velluto a coste rossa che la nonna le aveva regalato per Natale. Durante la “presa diretta” di quel pomeriggio, ci sa-rebbe voluto un’ora abbondante perché la mamma venisse in camera sua, le spiegasse di aver ricostruito l’accaduto con Marco e confessasse di a-ver compreso la reale sequenza dei fatti… Mentre stava chiusa nella sua stanza, sdraiata sul suo letto a pancia in giù per evitare di martoriare ancora il suo sedere e costringendosi ad ingoiare le lacrime che si trovavano ancora in bilico sulle sue ciglia, continuava a ripetersi che non era giusto, che il torto l’aveva subito lei e affondò le unghie nel palmo delle mani. Poi sentì il suono del wind chime e si ritro-vò per terra, appena spintonata da Marco e con un dolore acuto alla nati-ca. Questa volta non si mosse, non si rialzò, ma aspettò semplicemente che arrivasse la mamma, richiamata dalle loro grida. Eccola, si avvicina-va, la vide in terra, si chinava su di lei: «Dove ti fa male?» «Qui, sul sedere!» piagnucolò indicando la sua natica rossa. «È stato Marco!» sfogò così tutta la sua rabbia in quelle tre parole. Quella notte sarebbe stato Marco ad andare in punizione nella sua stanza, mentre lei avrebbe meritato un extra di coccole e un bacio di papà, al momento della nanna, che raramente si affacciava alle porte della sua camera. Tutto era perfetto, proprio come aveva sempre desiderato, quando… ec-co di nuovo il wind chime. Non era più nel suo letto, i muri della sua stanza si sgretolavano. Si ritrovò sollevata da terra in un lampo, appena aiutata da un soffio di vento. Non c’era più nessuno intorno a lei, solo la sensazione di respirare aria gelida che le riempiva di colpo i polmoni. Faceva male, ma era lo scotto da pagare per salire in quota così veloce-mente. Riusciva a indirizzare il volo come se nuotasse e in effetti sentiva che l’aria sotto il ventre la sosteneva esattamente come un flusso d’acqua costante. Vedeva altra gente che, stupita, la osservava da terra e la indi-cava agli altri, mentre lei si sentiva orgogliosa della sua sicurezza e pa-dronanza. Uscì velocemente dalla città e si ritrovò a sorvolare, percorrendolo dall’alto, un lungo viadotto dell’autostrada. Scorreva come un’enorme lingua di cemento attraverso gole strette e penetrava le montagne come

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una lama nel burro, aprendo squarci nei loro fianchi. Seguì la striscia grigiastra dall’alto e sorvolò le montagne fino a che non le si aprì dinanzi lo spettacolo del mare che all’orizzonte brillava come una gigantesca di-stesa di cristalli. In fondo alla strada, una piccola baia. Ci aveva impiega-to poco a raggiungere il mare, quando si era accorta che lì in basso c’era la sua mamma, incatenata dalle spire di una serpe. Allora era scesa a pic-co e la aveva strattonata verso l’alto. Poi tutto era finito con un sorriso di sua madre che le diceva «grazie». Si era svegliata con una nuova certezza: quella era la vita che voleva vi-vere, quella era la Gabriella che voleva essere. Di notte riusciva a diven-tare tutto ciò che aveva sempre desiderato; era finalmente amata e ap-prezzata dai suoi genitori, poteva spostare, anche solo per un po’, la loro attenzione su di lei. Era nei suoi sogni che finalmente poteva realizzarsi e dare libero sfogo ai suoi veri pensieri. Non se ne era mai accorta prima, ma di notte il suo volto non era mai corrugato, i suoi occhi non erano mai stretti ad una minuscola fessura, era serena, era, paradossalmente, se stessa. Allora, si disse, che importanza aveva ciò che succedeva nel corso della sua vita reale? Chi se ne importava se risultava rozza, scontrosa, acida e insopportabile? Di notte Gabriella aveva una chance in più che tutti gli altri non avevano, poteva cambiare ciò che era successo, poteva eliminare la sue scorrettezze, i suoi errori, i contrasti e vivere una secon-da vita come la voleva lei, un mondo nel quale veniva compresa, deside-rata, amata, accettata e nel quale dare libero spazio alla sua intima essen-za, quella di bambina affamata di amore, incapace di aprire la diga che serrava la sua anima. Sì, era di notte che voleva vivere veramente, lì do-ve era la Gabriella perfetta per mamma e papà. 23 Aprile 1975, ore 18:00. «Ti ho detto, Gabriella, che non puoi uscire tutte le sere alla tua età, e quando ti parlo pretendo che tu mi guardi! … Gabriella … non ti permet-to di voltare le spalle… Gabriella…» Non aveva nemmeno perso il tempo ad ascoltare la fine della frase che si era infranta contro la porta di casa appena sbattuta alle sue spalle. Ga-briella quella sera usciva, non le interessava ciò che sua madre avrebbe detto, doveva incontrare Fausto. Lui era un compagno di scuola di suo

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fratello. L’aveva visto per la prima volta in casa in occasione di una sua rara visita a Marco. Lei era in camera sua con la porta socchiusa dopo l’ennesima litigata con sua madre. Fausto era passato dinanzi alla sua stanza, passaggio obbligato se si voleva arrivare alla stanza di Marco. L’aveva visto dare una occhiata furtiva attraverso lo spazio lasciato tra il battente e la porta, poi nulla più. La sera a cena Marco aveva esordito con una delle sue frasi inopportune. «Ehi, Gabriella, hai fatto colpo. Fausto mi ha chiesto di te oggi pomerig-gio» e mentre lo diceva addentava con un fare naturalmente sgraziato un filone di pane, «comunque caschi male, sorellina, l’unico sei di Fausto è in Educazione fisica, è uno che te lo raccomando proprio!» «Allora va bene per me, visti i miei quattro!» aveva ribattuto beffarda, ma non aveva fatto in tempo a terminare la frase che aveva avvertito suo padre seduto accanto a lei alzarsi di scatto. «Non dimenticarlo, Gabriella, tu non sei da buttare; tu vali molto si più di qualsiasi quattro a scuola, non svenderti così. Marco ha ragione: Fau-sto non va bene per te!» La sentenza di suo padre era stata emessa. Sua madre nel frattempo assi-steva pallida alla scena senza dire una parola. Ma la reazione di suo pa-dre non aveva fatto altro che confermare in Gabriella l’idea di dover co-noscere Fausto. A maggior ragione se non piaceva ai suoi, la cosa era ancora più eccitante. Si era alzata lentamente dal tavolo lasciando a metà la cotoletta con le patatine che le piaceva tanto e aveva sbattuto la porta di camera sua, per riaprirla al mattino dopo andandosene a scuola senza parlare con nessu-no. Quella notte nel sonno si erano ritrovati nuovamente seduti a tavola e Marco aveva cominciato a parlare addentando in modo quasi animalesco lo stesso filone di pane: «Ehi, Gabriella, hai fatto colpo. Fausto mi ha chiesto di te oggi pomeriggio.» Gabriella aveva istintivamente stretto i pugni e il wind chime in camera sua aveva cominciato a trillare. Si era guardata intorno stupita e non era accaduto nulla di particolare. La cena era continuata serena tra uno scherzo e l’altro. Aveva finito la cotoletta con le patatine, poi qualcuno aveva suonato al campanello di casa. «È Fausto, gli ho detto lei di passare per salutarti», le aveva anticipato Marco prima di alzarsi per aprire all’amico. Fausto era entrato in casa, aveva salutato i suoi genitori, si era seduto con loro al tavolo rotondo

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della sala da pranzo e l’aveva guardata negli occhi. Che occhi stupendi aveva Fausto! Nocciola, percorsi da una fitta ragnatela più scura che sembrava volerla catturare e portarla via. E in effetti, dopo un po’, si era alzato, l’aveva presa per mano e l’aveva portata via. Prima di uscire di casa, ancora esterrefatta, lei si era voltata indietro a guardare i suoi geni-tori che era rimasti seduti a tavola e le sorridevano. Quella sera suo padre aveva solo avuto il tempo di dirle a mezza voce salutandola: «Sono molto contento di te.» Ora, ad ogni buon conto, tutto passava in secondo piano; stava correndo da Fausto che l’aspettava a qualche isolato da casa con il suo motorino per portarla da qualche parte, finalmente soli. Al diavolo sua madre, suo padre, quel rompiscatole di suo fratello. Quello che contava era Fausto e il suo odore di buono, la sua camicia appena sbottonata sul petto che si appiccicava al dorso e respirava con lui, il suo volto che si chinava sul suo per baciarla appena si avvicinava. Le sue mani che la sollevavano con decisione per aiutarla a smontare di sella, il suo corpo che premeva contro il suo e le faceva provare la prima fame di baci, i loro respiri che si confondevano per diventare sempre più rumorosi all’unisono. La pas-sione li divorava e insieme si divoravano con gli occhi e con le mani, come due belve affamate mentre sbranano una preda per poi accasciarsi, esausti e ubriachi. Stava con Fausto, tutto quello che i suoi genitori ave-vano allontanato dalla mente come la peggiore delle sventure si era avve-rato, ma non gliene importava nulla. Quella notte, a casa, avrebbe avuto la possibilità di correggere il tiro e di far sorridere sua madre a Fausto che saliva a prenderla in casa e sorseggiava tranquillamente il caffè che lei stessa gli aveva preparato nel frattempo che aspettavano che le si a-sciugasse lo smalto sulle unghie. 6 Agosto 1978, ore 23.00. «Cosa? Parla più forte! Non ti sento con tutto questo casino!» L’estate della maturità! Da quanto tempo la sognava. Si era finalmente liberata di un macigno, strappando con i denti un faticoso 42; la scuola era stata da sempre il terreno di scontro principale con i suoi genitori che non avevano mai mancato di evidenziare ai suoi occhi la cocente ed umi-liante differenza con suo fratello, brillante studente ormai avviato ad una

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altrettanto brillante carriera universitaria. Mentre Gabriella, Calimero ri-belle di famiglia, si doveva accontentare di un modesto diploma di segre-taria aziendale. Ma basta, non ci voleva pensare. Quell’estate era solo sua e se la voleva godere. La musica pompava al massimo al Kalima, la nuova discoteca inaugurata poche settimane prima. Ci stavano tutti quelli che contavano e lei era lì, ancora una volta con Fausto. Aveva voglia di ballare, di scatenarsi, di sudare come una matta: prima di uscire aveva nascosto in borsa gli om-bretti più stravaganti che possedeva e una minuscola minigonna; poi, nei bagni della discoteca, si era velocemente cambiata e poco dopo era là, al centro della pista a saltare e a bere una birra gelata. «Ho voglia di fare l’amore con te», le aveva sussurrato Fausto soffiando nell’orecchio e lei gli aveva creduto. Fausto aveva sempre voglia di fare l’amore con lei e quella sera anche Gabriella sentiva che era il modo giusto per festeggiare: oltretutto l’effetto del Negroni ingurgitato a stomaco vuoto prima di entrare al Ka-lima stava per farsi sentire. Si allontanarono un poco dalla bolgia di assatanati che continuava a sal-tare come in un rito orgiastico collettivo e uscirono all’aria aperta, ebbri di alcool e di desiderio. Salirono frettolosamente in macchina di Fausto, una Punto di seconda mano e altrettanto frettolosamente e con una voglia rinnovata cominciarono a baciarsi e a spogliarsi. Fausto era una furia, le sbavava tutto il rossetto mentre il caldo faceva la sua parte: il rimmel tanto sapientemente strisciato sulle ciglia cominciava a sciogliersi. «Finalmente ti ho trovato, è tutta la sera che ti cerco in giro!» La portiera della macchina si spalancò improvvisamente e la testa riccio-luta di suo fratello sbucò dentro la loro intimità. «Ma dove cavolo sei andata a nasconderti? E poi ti avevo detto chiaro che con Fausto non ci dovevi uscire!» gli occhi di Marco erano fuori dal-le orbite, aveva il respiro corto ed era agitato. «Ma che vuoi?! Vattene e lasciami in pace!» Gabriella si liberò bruscamente della stretta al polso con cui Marco stava cercando di tirarla fuori dalla macchina. «Appunto, cosa vuoi? Lascia stare tua sorella, signorino», gli sibilò da lato Fausto che nella fretta si era scostato da lei e stava cercando di rive-stirsi. «Senti, carino, non ho tempo da perdere. Ma porca miseria, Gabriella, sai da quant’è che ti cerco! Il nonno sta male, sta morendo.»

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Il nonno stava male… il suo nonnino, l’unico in tutta la famiglia che la capiva, che la chiamava la sua piccola patatina anche ora che era quasi una donna. «Il nonno… oddio… Fausto, devo andare, ti chiamo io.» Scese in un lampo dalla macchina, sistemandomi alla bell’e meglio e se-guendo come un cagnolino bastonato Marco che ormai era già corso alla fine del parcheggio, dove lo aspettava la sua macchina lasciata in secon-da fila con le quattro frecce lampeggianti. «Vi ho visti da lontano uscire dal Kalima, appena arrivato; vi ho rincorso ma voi eravate già dentro l’auto…» le aveva dichiarato balbettando dopo un po’ in macchina, quasi a volersi scusare. «… E poi, cos’è questa storia che ti vedi con Fausto. Non mi piace, mamma e papà te lo avevano detto: lui non va bene per te. Uno che, fini-ta la scuola, lavora senza nemmeno tentare l’università… Si vede che è uno senza spina dorsale e preferisce i soldi facili al sacrificio.» «Che ne sai tu di come è Fausto se non gli hai mai parlato, dico seria-mente, in vita tua!» gli ringhiò in faccia. «Fausto ed io stiamo insieme da tre anni ormai e ci vogliamo bene. Lui è uno a posto, ha trovato subito un lavoro, ci vogliamo bene!» «Gabriella, tu puoi avere di meglio di Fausto, appena lo saprà mam-ma…» «Ti odio. Tu non dirai nulla a mamma. Io non sono un bambolina da spostare a vostro piacimento. Ti sei mai preoccupato di cosa penso io? Qualcuno se ne è mai preoccupato? Bene, ora ti dico quello che penso io: io sto bene con Fausto e voglio stare con lui, non mi interessano i tuoi commenti, i tuoi giudizi, né tanto meno quelli di mamma e papà.» Vomitò addosso questo fiume di parole tra le lacrime e il dolore di essere sul punto di perdere qualcosa di raro e prezioso. «Vedremo, aspetta che lo dica a mamma e papà!» Marco sembrava tutt’altro che intimorito dalle sue parole. Era, al contra-rio, irremovibile. Lui non capiva, non poteva capire. Aveva trascorso l’intera sua vita perfettamente conformato, di sua iniziativa o per uno strano volere del destino, ai desideri e alle aspettative dei loro genitori. Mai una opinione divergente, mai uno screzio, mai un dispiacere provo-cato seppur inconsapevolmente, mai niente. Non poteva sapere come ci si sentiva ad avere un fuoco dentro che faceva ribollire il sangue. Non poteva capire cosa si provava a vivere una immagine di sé stessi comple-tamente diversa rispetto a ciò che percepivano gli altri. Non sapeva

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nemmeno lontanamente immaginare quale dolore potesse provocare il frustrare quotidianamente i propri desideri, le proprie idee. A chi interessava il suo parere? A nessuno. Sicuramente non ai suoi ge-nitori, che non avevano mai buttato dieci minuti del loro preziosissimo tempo a chiederle come stava, cosa provava, cosa pensava. Allora tanto valeva non sbattersi a gridarlo al resto del mondo, tanto valeva rimanere buona, rinchiusa in un bozzolo di seta e vivere una realtà parallela in un altro mondo, dove almeno lì c’era qualcuno che l’ascoltava. Gabriella si ritrovò rannicchiata sul sedile anteriore della macchina di Marco, con il rimmel che colava e il rossetto sbavato, un grosso nodo al-la gola per quel senso di impotenza e di incapacità e una gran voglia di piangere. Il nonno stava andando via, lui che era l’unico a capirla senza parlare, semplicemente guardandola negli occhi. «Lascia che ti veda la mamma, conciata così e vedrai che succede.» «Sei un bastardo, spero che tu muoia!» ma subito dopo si era pentita di ciò che aveva detto. Aggiungere odio e violenza all’incomprensione e alla intransigenza non poteva fare altro che alimentare altro odio e altra violenza. «Vedremo chi avrà ragione», e già lo vedeva pregustare una sadica vitto-ria sul volto. Era notte fonda quando arrivarono a casa del nonno. Tutto intorno era buio, ma le finestre di casa erano rischiarate da numerose luci accese, se-gno di una veglia ormai cominciata. Il cancello di accesso al vialetto era spalancato, così come la porta di casa, un via vai di gente intralciava il loro passaggio. Sulla porta di casa, suo padre “gestiva” il passaggio u-mano con calma e maestria. Li vide arrivare da lontano e il suo volto si irrigidì nell’individuarla. Non ebbe la minima reazione; solo al suo pas-saggio le aveva mormorato: «Sembri una sgualdrina, va’ in bagno a pu-lirti, dopo facciamo i conti.» Non ci pensava nemmeno a pulirsi, doveva trovare la mamma che sicu-ramente era distrutta, in lacrime vicino al suo papà. Gabriella salì al piano superiore, dove le luci si facevano più soffuse, per arrivare nella stanza del nonno. Lì, coricato e con lo sguardo completa-mente assente, ci stava lui, ormai agonizzante. Il medico aveva attaccato una inutile flebo che sicuramente era più di impiccio che di reale suppor-to. Il nonno stava morendo e i suoi figli gli erano attorno. C’era lo zio Carlo, un omone cinquantenne che piangeva come un bambino seduto sulla

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sponda del letto; la zia Mariella, che continuava a tergere la fronte im-perlata di sudore del nonno il cui respiro era talmente superficiale e de-bole da restare sospeso nell’aria intorno. E poi c’era la mamma, che te-neva la testa tra le mani china sulle ginocchia; poi aveva preso un fazzo-letto e, tirato su di naso, aveva alzato il volto e scoperto due occhi gonfi di pianto, ormai troppo stanchi per bagnarsi ancora. Era stato un attimo, l’aveva vista accanto allo stipite della porta e si era alzata. L’espressione era cambiata improvvisamente. «Che ci fai conciata così? Vatti a lavare il viso, disgraziata!» la spintonò verso il bagno e la spinse dentro. Dentro l’angusto servizio Gabriella si era guardata allo specchio; era sa-lita di corsa, pensando di trovarla disperata e desiderosa solamente di ab-bracciare qualcuno che potesse capire il suo dolore, aveva sperato che anche lei lenisse la sua stessa pena solamente con il calore del suo corpo, aveva desiderato di poterle dire “mamma mi dispiace”, e questo era il trattamento che le veniva riservato? Rinchiusa in una stanza per rendersi presentabile? Ma cosa era lei allora, Dio mio, un soprammobile da esibi-re ad amici e conoscenti? Si era struccata come meglio poteva mentre ascoltava il cicalio della stanza accanto dove era stata stipata la gente non direttamente imparenta-ta, accorsa non appena la notizia del nonno si era sparsa nel piccolo pae-se. Spettatori più o meno consapevoli di una piccola tragedia, si riuniva-no chi per dovere, chi per aberrante curiosità, chi, ma erano rari, per rea-le affetto. Li sentiva parlare di mille argomenti: pochi erano quelli diret-tamente riferiti al nonno. «Tu come l’hai saputo», «ma come può essere successo», «ma era malato da molto tempo»… La maggior parte di loro parlava di fatti propri o, peggio ancora, lanciava commenti velenosi ri-volti a questo o quello giunto in casa in quel determinato momento. Le sarebbe venuta voglia di fare come Gesù nel Tempio di Gerusalemme e di spazzare via tutte quelle lingue taglienti che infestavano la stanza atti-gua a quella del nonno, ma un commento su tutti le arrivò all’orecchio: «Chi é quella?» Una vecchietta la indicava con un cenno del capo alla sua vicina. «È la figlia di Rosalba, una sbandata», le bisbigliò nell’orecchio l’altra coprendo le labbra con una mano solcata da profonde rughe. Una sbandata, ecco cosa era per tutti. Un masso le aveva oppresso il pet-to, facendole mancare il respiro.

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Si diresse verso la cucina e si sedette intorno al tavolo, vicino alle per-siane lasciate aperte per il gran caldo. Da lì si vedeva bene il resto del paese addormentato sotto la luna piena che, scandalosa, ostentava la sua bellezza; soprattutto, un palazzo abbandonato di fronte casa del nonno alto cinque piani e con tutte le ringhiere ormai arrugginite le rimase im-presso prima di scivolare nel sonno, proprio mentre al piano superiore qualcuno cominciava a sgranare la litania del rosario. 7 Agosto 1978, ore 2:30. Si era affacciata alla finestra della cucina e si era ritrovata il nonno su di uno dei balconi del palazzo disabitato di fronte con la sua maglietta a ri-ghe rosse e blu preferita il quale, con entrambi i gomiti appoggiati alla ringhiera arrugginita, la guardava e le sorrideva con quello sguardo dolce e sornione che lo aveva sempre accompagnato per tutta la vita. Poi, con estrema decisione, si era portato la mano tesa a visiera sul capo e l’aveva onorata del saluto militare di commiato, in memoria del suo passato di soldato e di partigiano. Lo vide infine voltare le spalle a lei e alla sua ca-sa, comodamente appoggiato con le braccia alla stessa ringhiera e non muoversi più. Gabriella allora diede un’occhiata all’interno. Non c’era più nessuno, tutto era silenzioso e buio; in fondo alla casa sentì il tintin-nio del suo wind chime e poi un lamento sommesso. Era sua madre che ritrovò seduta mentre teneva la testa tra le mani china sulle ginocchia; poi prese un fazzoletto e tirò su di naso, alzò il volto e scoprì due occhi gonfi di pianto, ormai troppo stanchi per bagnarsi ancora. Lei la vide ac-canto allo stipite della porta e si alzò. La abbracciò forte e si sciolse in un pianto liberatorio e scoraggiato insieme, mentre continuava a ripeterle che il nonno non c’era più, che erano rimaste sole e che la ringraziava per essere lì con lei in quel momento. Gabriella sentì ogni sua lacrima bagnare la sua spalla e le sembrò che ciascuna di esse andassero infine a calmare la sua sete d’amore nei suoi confronti. Si sentì persino felice di trovarsi lì, ad abbracciare la sua mamma disperata. La mattina dopo, al suo risveglio, il nonno era già morto.

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8 Agosto 1978, ore 18:00. Al funerale Gabriella non riuscì nemmeno ad avvicinare sua madre che non la degnò di una parola per tutto il viaggio di ritorno a casa. Lo stesso spettrale silenzio la accompagnò per tutta la serata, quasi ci fosse una congiura nei suoi confronti e si fosse deciso di non interloquire più con lei, vista la sua ostinazione a percorrere strade sempre sbagliate. Si aspet-tava una reazione, un gesto, un rimprovero, una reazione qualunque in-somma, invece niente, l’indifferenza totale la circondava. Era come se non esistesse all’interno della famiglia, come se vagasse per casa limi-tandosi a sopravvivere. Quella esclusione la uccideva più di mille discus-sioni e la metteva dinanzi all’evidenza che per tutti ormai era veramente una sbandata, la cui presenza veniva al massimo tollerata nei pochi spazi e tempi in comune. L’insofferenza di suo padre, gli sguardi di sua madre, l’alterigia di Marco avevano distrutto ogni minuscolo granello della sua idea di appartenenza ad un gruppo. Si sentiva diversa, d’altronde lo era sempre stata, e ogni giorno che passava si accorgeva sempre più di una frattura tra loro, accentuata da silenzi e dolorose disattenzioni. 12 Settembre 1978, ore 15:15. Una pioggia monotona riempiva l’aria. Gabriella si affacciò triste alla finestra della sua camera in quel pomeriggio senza colori per dare uno sguardo su quell’ angolo di umanità che cercava la sua fetta di pace e ar-rancava dietro a dolori e incomprensioni. Sentiva le gocce scontrare il fragile vetro che la separava dall’esterno ed esplodere contro di esso con un suono sordo e penetrante. La pioggia cadeva fitta sui terrazzi di fron-te, sui balconi delle case vicine e arrivava giù sul marciapiedi, a formare tanti rivoli ai lati dei grandi lastroni che lo componevano, per insinuarsi infine lungo le canalette di scolo laterali alla strada asfaltata. Le sembra-va che la pioggia si portasse via con sé anche la sua vitalità, il suo sorri-so, la sua gioia di vivere. Il cielo aveva perso l’azzurro abituale e il gri-gio stava già contagiando tutte le cose intorno a lei, inglobandole in una vecchia pellicola di un film muto. Le mancava la vita dentro, come se le fosse stata estratta a forza; allungò lo sguardo alla strada che strisciava in

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basso noncurante della gente che passava, ristretta nei propri impermea-bili e nei propri pensieri. Cadeva la pioggia e cambiavano le prospettive; tutto si era appiattito su di un unico sfondo come un grande cartellone pubblicitario sul quale scolavano, incessanti, milioni di piccole gocce a lavare tutti i colori ed a sfumare le immagini. Mentre pioveva, si ritrovò a piangere senza un rea-le motivo, presa dalla malinconia e, piano piano, le lacrime si mischiaro-no alla pioggia e si impastarono con mille pensieri. In alto vide passare le nuvole cariche delle stesse sue lacrime e si sorpre-se ad osservarle e a chiedersi dove sarebbero andate fra un po’ a scarica-re la stessa tristezza appena svuotata su di lei. Pioveva intorno e dentro la sua stanza; pioveva sugli alberi in fondo al viale; pioveva sulle colline che circondavano la città e che sembravano sporgere verso di essa, quasi a volerla proteggere con un abbraccio da quella inquietudine che scendeva dall’alto. Pioveva e Gabriella sentiva freddo, un freddo che le penetrava le ossa e le asciugava le energie come una folata improvvisa, lasciandola, spossata e stanca, ad osservare un pezzetto della sua vita che passava. Appoggiò la testa al vetro e ci respirò contro rendendolo opaco. Presto, alcune minute goccioline cominciarono a formarsi tutto intorno riunen-dosi in gocciole sempre più grandi e infine formando un grosso rivolo che scese giù dalla superficie liscia e lucida come una grossa lacrima. Per un istante un fulmine rischiarò il cielo e si vide riflessa dentro allo stesso rivolo che scorreva lungo il vetro, la sua immagine moltiplicata in esso. Il cuore segnò a vuoto un battito e venne sostituito dal tuono che seguì il bagliore improvviso di un momento prima. Si alzò dal davanzale e strinse i pugni per raccogliere tutta la sua forza ed impedire che questa scivolasse via ancora e si perdesse per sempre. Ten-tò di ricacciare in gola le ultime lacrime rimaste e se sorprese del loro gusto amaro e della fitta che esse provocavano scivolando giù fino allo stomaco. Era una fitta che faceva mancare il respiro, ma trovò il coraggio di resisterle e di muovere alcuni passi verso lo specchio. Mentre alzava lo sguardo verso la sua persona, si accorse che fuori era cessato di piovere e che un timido raggio di sole stava cominciando a ri-colorare il mondo.

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III

QUELLO CHE NON TI HO MAI DETTO 19 Ottobre 1980, ore 13:30. «… E mi raccomando, Gabriella, il fax lo invii entro il pomeriggio, poi c’è tutta la corrispondenza da smaltire.» «Non si preoccupi, ingegnere.» Anche se strappato a fatica, il diploma di segretaria di azienda le aveva regalato un posto di lavoro dignitoso presso uno studio di ingegneri edili associati. Era un impiego come tanti altri, ma le dava finalmente la pos-sibilità di essere indipendente e di realizzare un’idea che le era balenata per la prima volta la notte che il nonno era morto: andare via da casa. “Io basto a me stessa, non ho bisogno di nessuno e posso dimostrarlo”. La bambina impaurita ed affamata d’amore aveva dato definitivamente il posto ad un’altra Gabriella: una donna forte, indipendente, determinata. Forse fin troppo, alla disperata conquista di un autocontrollo che nel cor-so degli anni l’avevano trasformata in una persona intransigente, legata a rigide regole di vita adottate per poter in qualche modo sopperire al vuo-to che le si creato intorno in quegli anni. Gabriella era sempre perfetta, l’immagine speculare della sbandata di pochi anni prima, emozionalmente stabile, professionalmente impeccabi-le: mai una stonatura, un’imprecisione, un momento di incertezza. Non era possibile ammettere errori, i suoi per primi, si diceva ogni mattina. Il muro di ghiaccio che le cresceva intorno era utilissimo per migliorare la qualità delle sue prestazioni, ma la allontanava definitivamente da qua-lunque possibile relazione interpersonale. «Fausto come sta?» le domandò Gianna, la sua collega di lavoro. «Bene, ora con il lavoro ha proprio ingranato.» Fausto era stato da poco assunto come rappresentante commerciale di una grossa azienda di componenti elettronici e sembrava proprio che tut-to stesse girando per il verso giusto.

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«Devo ricordarmi di passare in farmacia stasera per ritirare le pillole per la mamma.» Alcuni mesi dopo il funerale del nonno, la mamma aveva cominciato a stare male. Non usciva più di casa, non aveva più voglia di parlare e la cosa aveva preso una tale brutta piega da costringere il papà, seppur con la solita riluttanza, a portarla a visita da uno specialista che aveva pre-scritto una cura antidepressiva. Lei aveva accolto questa notizia con ap-parente indifferenza, ma dentro sentiva un grosso chiodo piantato in mezzo al cuore nel timore di aver potuto far precipitare con il suo atteg-giamento una seppur inevitabile malattia della mamma. «Tanto, super Gabriella riesce sempre a fare tutto», le rispose senza per-dere un secondo Gianna, con un sorriso tra il compiaciuto e la stizza. Non piaceva a nessuno: era odiosa, antipatica, rinchiusa in un’algida confezione. La sua perfezione sul posto di lavoro, la sua apparente tran-quillità sentimentale, la sua totale dedizione alla sua famiglia turbava la serenità di chi, invece, viveva una vita normale, facendo perennemente i conti con la fallibilità dell’essere umano. Se solo avessero saputo… se solo avessero immaginato lo strazio e la fatica per raggiungere quella in-vidiata perfezione, se solo avessero visto tutte le lacrime versate, tutti i silenzi sopportati. La giornata era finita presto e si ritrovò in fila in farmacia per ritirare le medicine della mamma. Il trucco era impeccabile nonostante le nove ore di lavoro massacrante, così come il tacco 8, squadrato, ma pur sempre un tacco 8 dal quale non si separava mai. Un bimbo continuava a piagnucolare dinanzi a lei perché stanco e si at-taccava alla gonna di una madre anch’essa sfinita dalla giornata appena terminata. Si sentì lo schioccare di uno schiaffo, poi il bimbo impallidì, tranne per la zona dove la mamma aveva appena posato la sua pesante mano che, invece, era rosso fuoco. Gabriella non sapeva chi dei due a-vesse iniziato a piangere per primo, per un momento comunque aveva distintamente intravisto due grosse lacrime rigare entrambe le guance dei due, poi la mamma aveva distolto lo sguardo, mentre il bimbo aveva continuato a trotterellare intorno a lei, chiedendo con insistenza una con-fezione di Zigulì alla fragola. «In cosa posso servirla?» le chiese la commessa, gentile. «Dovrebbe esserci una ricetta a nome Mancini», rispose come risvegliata dai suoi pensieri.

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«Attenda, la prego, vado ad informarmi.» La commessa svanì inghiottita dalla porta di servizio dietro al bancone e la lasciò sola a divertirsi con il resto della povera umanità, in fila, alla ricerca di una soluzione alle loro disgrazie. La farmacia era sempre un luogo di speranze, un’oasi nella quale si spe-rava di trovare la panacea di tutti i mali, solo per il fatto di esserci entrati. La sua atmosfera era già rilassante, asetticamente neutra, con le sue luci innaturali che cancellavano in un colpo tutto lo stress e la fatica che ti portavi addosso; era la negazione della realtà che aspettava oltre la porta a vetri. «Desidera altro?» le aveva chiesto gentile porgendole una confezione già incartata con cura. «Sì, questo», e Gabriella aveva allungato un test di gravidanza che dal lato del bancone le sorrideva attraverso una signorina serena che agitava un bastoncino bianco. Non sapeva perché l’aveva comprato, forse per colpa di quella settimana di ritardo che si stava portando dietro e che continuava a negare a se stessa (cosa vuoi che sia, è praticamente impossibile che sia incinta) for-se perché non si sentiva proprio in forma ultimamente; l’aveva comprato e basta, poi l’aveva gettato con noncuranza sul fondo della sua borsa, sperando già di dimenticarmene. Invece non era così, la sua immagine le era rimasta stampata dinanzi agli occhi per tutto il viaggio di ritorno, immersa nel traffico delle sei di sera. Nel momento in cui aveva frugato dentro la stessa borsa alla ricerca delle chiavi di casa, poi, se lo era ritro-vata proprio lì davanti, borioso, con lo stesso osceno sorriso che la guar-dava dal fondo nascosto in parte dal borsellino. «Chi è?» le gridò dal fondo della cucina una voce femminile. «Sono io, mamma», le rispose Gabriella. La madre non l’aveva degnata nemmeno di una risposta, quella risposta che lei sperava le rivolgesse ogni sera di ritorno a casa, ma che non sentiva mai. La sua mamma non la guardava più dal giorno del funerale, non le rivolgeva la parola, se non per lo stretto necessario dettato dall’educazione e dalla convivenza forza-ta. L’aveva esclusa dalla sua vita e, in generale, da quella del resto della famiglia. A nulla era valso il suo tentativo di cambiamento, di diventare un’altra, di mettere la testa a posto. Qualunque cosa facesse, leggeva sempre nei suoi occhi lo stesso messaggio: “Mi hai delusa”.

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Si chiuse in camera, come ogni sera d’altronde, a smaltire l’ennesimo dolore per non essere stata all’altezza delle aspettative di sua madre, a-spettando che arrivasse l’ora di cena. Nonostante i suoi ventuno anni, era sempre rimasta una fanciulla, cresciuta esteriormente, in grado di fron-teggiare il mondo; ma Gabriella dentro era ancora piccola, una bimba mai cresciuta affannosamente attaccata alle gonne della sua mamma, e-sattamente come il bimbo di quel pomeriggio, piagnucoloso e noioso, alla continua ricerca di una Zigulì di amore che nessuno le voleva (o po-teva) più dare. La cena era stata silenziosa, come tutte le altre che ricordava, con il cibo sbattuto in tavola senza alcun rispetto, senza alcuna voglia, senza un sor-riso, somministrato con il solo intento di sfamare e non di nutrire. Si alzò da tavola per rigovernare con più fame di prima; era una fame dell’anima, una sete della mente, che la portava a cercare con gli occhi una reazione nei suoi familiari, un gesto, uno sguardo che puntualmente non ritrovava mai. Ogni sera ciascuno di loro si riuniva nello spazio del desco perché obbligato, come in un fantomatico ostello al momento della refezione. Nessuno però aveva mai voglia di parlare, di condividere, di prendersi cura dell’altro, impegnati com’erano a guardarsi oltre e a vo-mitare sull’altro le responsabilità del proprio malessere. Gabriella si ritrovò nuovamente in stanza con il test in mano senza sape-re perché e una gran voglia di fare pipì. Il bagno era lì vicino, doveva so-lo decidere se portare con sé lo stick. Alla fine si convinse: avrebbe fatto il test. I pochi minuti di attesa per la risposta le erano sembrati un’eternità. Mentre aspettava, seduta sul sedile del water con in mano il bastoncino bianco le erano passati per la mente tante cose, tante possibilità, tante i-potesi. Era proprio pazza a pensare di essere incinta, era praticamente impossibile: Fausto e lei ci avevano messo tutta la cura possibile, e poi lei, soprattutto, non sbagliava mai. Alla fine di quegli interminabili minuti il risultato c’era ed era inconfuta-bile: era incinta. Aveva commesso un errore, lei, che non li ammetteva, ne portava uno dentro. La realtà le venne sbattuta in faccia con violenza, così come era sempre violenta quando hai passato tanto tempo a negarla e dominarla e lei poi ritorna a farsi sentire con tutta la sua forza e consi-stenza. No, non poteva accettare di avere commesso un errore, non pote-va accettare di essere imperfetta, non poteva accettare quel bambino.

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La testa le si svuotò in un momento, il respiro si fece corto, la vista le si annebbiò. Spense la luce del bagno con lo stesso impegno con cui cercò di spegnere i suoi pensieri e si sedette sulla sponda del letto con le mani abbandonate sui fianchi senza reagire per diversi minuti. La gola le bru-ciava e sentiva un dolore allo stomaco che non aveva mai provato prima. Poi si disse che quella era la giusta punizione per chi cerca di controllare la propria vita. Non si poteva prevedere l’imprevedibile, non si poteva parare tutti i colpi, si diceva; l’unico modo per sopravvivere era lasciarsi andare e accettare più o meno serenamente quello che la vita stessa stava proponendo. Aveva sbagliato, aveva fallito anche così, la Gabriella che si era costruita era crollata alla prima reale difficoltà. Meritava quel fina-le amaro. Senza pensarci su un momento, si era alzata dal letto e si era diretta ver-so il soggiorno, dove i suoi genitori stavano svogliatamente seguendo un programma in televisione. «Sono incinta, Fausto ed io ci sposiamo.» Pronunciò quelle parole senza nemmeno realizzare il loro senso. Fausto non sapeva nulla di quella no-vità e persino lei non aveva mai pensato di sposarsi prima di quel mo-mento. Eppure sostenne quelle parole con una sicurezza innaturale, come a voler giustificare la sua condizione; in fondo godeva per il dolore che stava provocando a entrambi, per la vergogna di una figlia fuori dai loro schemi. In quell’atto di masochismo infliggeva a loro un dolore per per-mettersi di espiarne la colpa. Suo padre si alzò dal divano per spegnere la televisione che, incurante delle loro reazioni, continua a trasmettere una parodia della realtà. Sua madre la guardava fisso negli occhi per la prima volta dopo tanto tempo. I suoi lineamenti erano ancora più induriti, i suoi occhi erano sempre gli stessi: spietati, feroci, algidi. «Ne riparliamo domani, assieme a Fausto», suo padre riuscì solamente a pronunciare quelle parole. «No, non ne voglio parlare domani, voglio parlarne oggi, stasera, qui. Voglio sapere cosa state provando ora, cosa vi passa per la mente, voglio guardarvi in faccia io da sola, non voglio aspettare domani e Fausto. Cri-sto Santo, voglio saperlo ora!» Si mise dinanzi a lui con le mani in faccia e la gola strozzata dal pianto. «Vuoi proprio saperlo? Sto provando questo ora!» e nel mentre lo diceva le diede una sberla, una delle rare volte nella sua vita.

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Involontariamente si fissarono negli occhi: entrambi li avevano pieni di lacrime, ma non tracimavano, orgogliosamente ricacciate dentro per scomparire in fondo alla bocca. Dentro gli occhi di suo padre Gabriella vide la sua rabbia e la sua impotenza, lo sconforto dinanzi al fallimento, la consapevolezza amara dei suoi errori accumulati in questi anni. A sua volta, lui vide dentro gli occhi della figlia la sua fragilità, il suo senso di inadeguatezza, la sua paura. Si dissero più cose in quei secondi che in tutti i precedenti venti anni trascorsi insieme. Sua madre, invece, non parlò; si alzò dal divano e sbatté alle sue spalle la porta della camera da letto, chiudendola a chiave. Quella sera suo padre avrebbe dormito sul divano di casa, utilizzando una vecchia coperta ri-spolverata dall’armadio del corridoio. 20 Ottobre 1980, ore 3:45. «… E mi raccomando, Gabriella, il fax lo invii entro il pomeriggio, poi c’è tutta la corrispondenza da smaltire.» «Non si preoccupi, ingegnere.» «Fausto come sta?» le domandò Gianna, la sua collega di lavoro. «Bene, ora con il lavoro ha proprio ingranato.» Un tram passò proprio in quel momento giù in strada con il suo sferragliare assordante e a Gabriel-la sembrò che nella stanza tutto si immobilizzasse per un attimo, come in una scena bloccata in pausa: solo lei riusciva a muoversi e a guardarsi intorno, indecisa se far riprendere o meno l’azione. Sentì un telefono squillare e poi trasformarsi velocemente nello scampanellare del suo wind chime. «Devo ricordarmi di passare in farmacia stasera per ritirare le pillole per la mamma». La mamma da un po’ di tempo aveva la pressione alta ed il medico le aveva prescritto la cura più adeguata. «Tanto, super Gabriella riesce sempre a fare tutto», le rispose senza per-dere un secondo Gianna con un sorriso tra il compiaciuto e la complicità. «Comunque, se hai bisogno di una mano, fammelo sapere, se vuoi posso passare io dalla farmacia per te.» Gianna era la sua migliore confidente, non c’erano praticamente segreti tra loro, rappresentava per Gabriella la sorella che non aveva mai avuto.

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La giornata finì presto e lei si ritrovò in fila in farmacia per ritirare le medicine della mamma. Il trucco era impeccabile nonostante le nove ore di lavoro massacrante, così come il tacco 8, squadrato, ma pur sempre un tacco 8 dal quale non si separava mai. «In cosa posso servirla?» le chiese la commessa, gentile. «Dovrebbe esserci una ricetta a nome Mancini», rispose come risvegliata dai suoi pensieri. «Attenda, la prego, vado ad informarmi», la commessa svanì inghiottita dalla porta di servizio dietro al bancone. «Desidera altro?» le chiese gentile porgendole una confezione già incar-tata con cura. «Sì, questo», e allungò un test di gravidanza che dal lato del bancone le sorrideva attraverso una signorina che agitava serena un bastoncino bianco. «Chi è?» le gridò dal fondo della cucina una voce femminile. «Sono io, mamma», le rispose. «Ah, sei tu, Gabriella. Vieni qui in cucina a darmi una mano, non ce la faccio più a spignattare tutto il giorno. Oggi è una serata speciale e vo-glio che sia tutto perfetto. Fausto e i suoi genitori vengono a cena da noi e sono così agitata. Ma come fai, figlia, ad essere così tranquilla?» Gabriella aiutò sua madre in cucina e nei preparativi della tavola che quella sera avrebbe ospitato tre posti in più, quelli di Fausto e dei suoi genitori, che di lì a poco sarebbero arrivati a casa portando una vistosa pianta in regalo per sua madre. Fausto era particolarmente contento quel-la sera e anche lei lo era; avevano finalmente ufficializzato la loro rela-zione e tutti si aspettavano che da un momento all’altro si convolasse a prevedibili nozze. Lasciarono i loro genitori a chiacchierare in sala, men-tre si ritirarono nella sua stanza a godere di un po’ di intimità. «Ho comprato questo, ho un ritardo e voglio essere sicura.» Fausto guardò silenzioso il test di gravidanza nelle sue mani. Poi aspettò pazientemente in camera il suo ritorno dal bagno. Mentre stava seduta sul sedile del water con in mano il bastoncino bianco a Gabriella passa-rono per la mente tante cose, tante possibilità, tante ipotesi. Era proprio pazza a pensare di essere incinta, si diceva; era impossibile, Fausto e lei ci avevano messo tutta la cura possibile, e poi lei soprattutto non sba-

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gliava mai. Alla fine di quegli interminabili minuti il risultato c’era ed era inconfutabile: era incinta. «È positivo», disse a Fausto con voce tremante. «Tesoro, è fantastico, diciamolo subito!» «No, aspetta, terminiamo la cena», propose nel timore di rovinare anche di un poco la bella atmosfera che si era creata. La cena era stata allegra, spensierata, carica di risate. Si era alzata da ta-vola per rigovernare con un misto tra l’emozione e la soddisfazione, che la portava a cercare con gli occhi una reazione nei suoi familiari, un ge-sto, uno sguardo che potesse confermare anche in loro gli stessi suoi sen-timenti. Poi, mentre tutti erano seduti in sala a chiacchierare e a sorseggiare un amaro tirato fuori da suo padre all’ultimo momento, Gabriella sentì la sua stessa voce pronunciare: «Sono incinta, Fausto ed io ci sposiamo.» L’allegro cicalio che aveva animato la stanza si smorzò per un attimo. Suo padre si alzò dal divano per posare sul tavolo di fronte il bicchiere vuotato di un colpo. Sua madre la guardava fisso negli occhi. I suoi line-amenti erano severi, ma nello stesso tempo carichi di dolcezza. «Gabriella, tu ci spiazzi come sempre. Che novità è questa?» disse men-tre le si avvicinava e le dava l’impressione di volerla abbracciare. Gabriella distolse lo sguardo e si rivolse a sua madre che si era alzata improvvisamente dal divano e le veniva incontro, abbracciandola con tutte le sue forze. Suo padre si avvicinò a Fausto che attendeva immobile dietro di lei e lo abbracciò a sua volta. «Siete due avventati, ma ormai è fatta, speriamo che tutto vada per il meglio.» «Dobbiamo darci da fare per trovare una casa decente per questi due ra-gazzi», sentì da lontano commentare il suo futuro suocero. Quella sera nessuno avrebbe dormito in casa e sua madre a notte fonda avrebbe portato in camera di Gabriella il suo vecchio abito da sposa ri-spolverato dall’armadio del corridoio. 12 Dicembre 1980, ore 12:30. «E sbrigati con quel velo, ché siamo già abbastanza in ritardo.»

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Sbattendo i pugni contro la porta della sua camera, Marco era come sempre odioso, persino il giorno del suo matrimonio. Aveva anticipato le ferie del periodo natalizio perché forzato dalla data scelta da Fausto e Gabriella, borbottando mille scuse e alla fine costretto dai suoi genitori con l’allettante prospettiva di fare da testimone di nozze. Sua madre la stava aiutando silenziosamente; le sistemò alcuni fiori sul capo e conti-nuava a guardare sconsolata lo scollo del vestito, ormai traboccante di un seno che tradiva la sua attesa. Anche il punto vita stava lentamente scomparendo, anche se quest’ultimo era stato sapientemente nascosto sotto un impero che scivolava addosso dolcemente ed esaltava la sua se-rena pienezza. Ma Gabriella era triste, persino in un giorno come quello del suo matrimonio. Mentre sua madre dava l’ultima sistemata al retro del suo abito, pensò che era proprio arrivato il momento per dire qualco-sa, ora che stava per andare via da quella casa. «Mamma, sai, era tanto tempo che volevo dirtelo. Ti vedo sempre triste, non parli mai, cerchi sempre di evitarmi…» «Gabriella, su andiamo, è molto tardi, tuo padre sta già aspettando giù nel portone.» Con quelle semplici e sbrigative parole sua madre tranciò qualunque suo tentativo di aprire una breccia nel suo cuore di granito, le porse i guanti bianchi e aprì con decisione la porta della sua camera, a definitivo segno di una conversazione mai iniziata e già troncata sul na-scere. Un nuovo gelo le colò tutto intorno, più freddo e più bianco dell’abito che stava indossando e che in quel momento le sembrava persino insul-so. Il suo primo impulso fu quello di stracciarselo di dosso dopo averlo scelto con così tanta cura, misurato e rimisurato fino alla nausea, con il terrore di non starci più dentro. A che valeva coprirsi di una maschera, ingoiare l’ennesimo boccone amaro e uscire da quella porta? Perché a-vrebbe dovuto nuovamente accettare quel vuoto, quel senso di inutilità che la pervadeva e dare il braccio a suo padre che, visibilmente in imba-razzo, l’aspettava in fondo alle scale di casa? Poi sentì qualcosa, o me-glio qualcuno, dentro di lei e si disse che doveva andare avanti. Mentre varcava la soglia della sua camera, sua madre continuava a distogliere lo sguardo, ma gli occhi di Gabriella erano fissi su di lei. Stava aspettando che lei li alzasse per almeno un secondo, che incrociasse i suoi perché aveva da dirle in un momento tutto ciò che a parole non era mai stata ca-pace di gridarle.

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Per un istante, forse un piccolo istante di lucidità, la vide lentamente sol-levare il capo e scorrere il suo seno, salire su per il collo, soffermarsi sul-le labbra e infine agganciare le sue pupille. Si fermarono a guardarsi; Gabriella le disse che stava per uscire dalla sua vita, che stava per diven-tare madre come lei, che il fatto di non essere tutto ciò che lei aveva sempre desiderato era un dolore insopportabile; nello stesso tempo le giurò che mai sarebbe stata come lei. Suo figlio non avrebbe sofferto come aveva fatto lei, non avrebbe vissuto nel silenzio e nella rassegna-zione, non lo avrebbe permesso. Mentre le passava accanto, Gabriella ebbe la certezza di averle comunicato quel preciso messaggio poiché riu-scì perfettamente a distinguere con la coda dell’occhio una macchia di colore nero che scendeva lentamente a rigarle la guancia di sinistra. 13 Dicembre 1980, ore 2:15. «E sbrigati con quel velo, ché siamo già abbastanza in ritardo.» Sbattendo i pungi contro la porta della sua camera, Marco fece inavverti-tamente sobbalzare il wind chime posto accanto alla testata del letto. «Scherzavo, sorella, fa’ con comodo, ché Fausto può aspettare ancora un po’.» Appoggiandosi alla porta con le spalle mancò poco che andasse a finire capitomboli a terra, visto che questa non era chiusa a chiave e per-tanto si era spalancata senza il minimo sforzo. Sua madre la stava aiutando silenziosamente a prepararsi: le sistemò al-cuni fiori sul capo e continuava a guardare lo scollo del vestito, ormai traboccante di un seno che tradiva la sua attesa. «Sei bellissima», Marco ebbe la lucidità di mormorare dopo essersi mal-destramente rimesso in piedi. «Eh, sì, Gabriella è proprio bella, oggi.» Sua madre era radiosa, loquace, incredibilmente attiva e indaffarata. Mentre stava dando l’ultima sistemata al retro del suo abito, Gabriella pensò che era proprio arrivato il momento per dire qualcosa, ora che sta-va per andare via da quella casa. «Mamma, sai, era tanto tempo che volevo dirtelo. Volevo solo ringra-ziarti…» «Sssh… Gabriella, non c’è bisogno di dire tante parole. Tu mi stai dando una grande gioia oggi: stai per sposarti, hai un buon lavoro, un uomo che

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ti ama, un figlio in arrivo. Sì, abbiamo avuto dei momenti in cui le cose non sono proprio filate nel verso giusto, ma credo che sia normale per qualunque famiglia. Spero solo che oggi significhi una nuova vita per tutti, per chi c’era già e per chi sta scalciando per venire al mondo. Su, andiamo, è molto tardi, tuo padre sta già aspettando giù nel portone.» Sua madre aveva una voce argentina, solo a tratti incrinata da un velo di emozione. A Gabriella sembrò che tutti quegli anni fossero stati cancellati di un colpo e che si aprisse dinanzi un periodo più sereno e disteso. Lei le porse i guanti bianchi e aprì con decisione la porta della sua camera che suo fratello aveva provveduto a richiudere dietro di sé una volta entrato. Mentre varcava la soglia della sua camera, sua madre continuava a tenere fisso il suo sguardo su di lei; anche Gabriella la guardava. Si stavano di-cendo mille cose mentre si avvicinava alla porta. Lei le parlava del suo affetto, delle sue pene nel vederla crescere diversa, delle sue paure di fronte alle sue difficoltà; Gabriella le stava raccontan-do che stava per uscire dalla sua vita, che stava per diventare madre co-me lei e nel frattempo le giurava che avrebbe mutuato quel suo amore ai suoi figli. Mentre le passava accanto ebbe la certezza di averle comuni-cato quel preciso messaggio poiché riuscì perfettamente a distinguere con la coda dell’occhio una macchia di colore nero che scendeva lenta-mente a rigarle la guancia di sinistra. Poi si guardò allo specchio del lun-go corridoio di casa, esattamente un istante prima di uscire, e si accorse di avere la stessa riga scura di rimmel sulla stessa guancia.

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IV

RITRATTO DI SIGNORA 18 Gennaio 1992, ore 17:20. «Sono molto stanca, Fausto. Stare dietro a Silvia mi impegna moltissi-mo, soprattutto ora che ha iniziato la scuola media. Giorgio è un vulcano sempre in attività e in studio c’è un’ondata di superlavoro che sta massa-crando tutti.» Gabriella si accasciò sulla sedia della cucina con ancora le borse della spesa in mano. «Non mi interessano le tue scuse, Gabriella. La verità è che sei insoppor-tabile e ti comporti in casa come un’educatrice acida.» Erano trascorsi undici anni dal giorno del loro matrimonio e le cose non andavano per niente bene. «Scusa, cosa intendi dire? Io qui mi faccio il mazzo in due per fare anda-re avanti in modo decente questa famiglia e se chiedo una mano a cia-scuno di voi, non mi sembra la fine del mondo.» «Sei intransigente, Gabriella, sei soffocante. Soprattutto sei troppo seve-ra nei confronti dei bambini. Prendi Silvia, ad esempio: ti detesta, siete sempre in contrasto voi due, qualunque cosa la bambina proponga viene immediatamente bocciata da te che la classifichi come una stupidaggine o un’inutile perdita di tempo…» «Basta!» lo zittì violentemente alzando un braccio con decisione e lan-ciandolo a pochi centimetri dalla sua faccia. Fausto rimase impassibile e fermo, in piedi dinanzi a lei; sapeva di aver toccato un nervo scoperto. Silvia no, proprio non la poteva portare ad esempio. Silvia era la loro primogenita, il suo più grande errore, come la chiamava prima di veder-la, il suo più grande amore, come la chiamava dal giorno della sua nasci-ta. La vita con Silvia non era mai stata facile. Quando ancora era un fa-giolino e lei se la portava in giro custodita nel suo ventre aveva provato a odiarla, a rifiutarla. Ma era stato tutto inutile: la sua vitalità la svegliava di notte e le imponeva di pensare a lei come un individuo già presente.

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Ricordava di una notte in cui sognò una sua vecchia zia bussare alla por-ta di casa, entrare in salotto, aprire le ante della credenza e tirarne fuori un minuscolo completo rosa dicendole: «È femmina!» Non sapeva perché desiderasse una femmina. Forse per riproporre lo stesso parallelo fra lei e sua madre e dimostrare che si poteva essere di-versi, si poteva essere normali, si poteva vivere un rapporto genitoriale basandosi sulla fiducia, sull’incoraggiamento, sul reale affetto regalato all’altro senza alcuna aspettativa. Tutto sembrava facile, nella sua idea semplicistica di madre, carico di una sua naturale logicità per cui ognuno era dotato di una innata inclinazione a comprendere le esigenze dell’altro e agiva nel suo interesse suggerendo, indirizzando e gestendo il suo futu-ro. Attraverso Silvia e la “gestione” perfetta del suo avvenire, Gabriella desiderava dare una lezione a sua madre, ai suoi vuoti lasciati dentro la sua infanzia, alle sue distrazioni che avevano costellato tutte le sue pau-re, al suo totale disinteresse nei confronti di ciò che avveniva nel suo mondo, alla sua incapacità ad instaurare una qualunque forma di dialogo. «No, io non sarò mai come te», le aveva detto guardandola fissa negli occhi il giorno del suo matrimonio. «Io non farò i tuoi stessi sbagli. La mia presenza nella vita dei miei figli sarà costante e non li abbandonerò mai.» Tutto era perciò pronto per l’arrivo di Silvia, organizzato nei suoi minimi dettagli dalla nascita fino all’età adulta. Ma la sua folle idea di maternità era andata miseramente in frantumi la sera stessa in cui Silvia era nata, quando aveva realizzato che a nulla va-leva programmare la vita di un altro essere umano senza aver considerato la sua essenza. Silvia non era una bambina facile, per nulla; Silvia era come lei: testarda, orgogliosa, determinata, ma anche piena di vitalità, di idee, di una ener-gia che spiazzava chiunque avesse intorno. E anche se era ancora poco più che una ragazzina, aveva quasi sempre le idee molto chiare su ciò che desiderava e su come intendeva vivere la propria vita. Gabriella non riusciva a confrontarsi in maniera adeguata con lei. Non poteva accettare che commettesse un errore, pertanto imponeva il suo punto di vista im-pedendole di esprimere la propria opinione. Fintanto che Silvia era una bimba, zittita facilmente con un rimprovero e un castigo, quel metodo educativo era stato vincente, trasformandola, suo malgrado, in una picco-la riproduzione di una perfetta adulta, sempre opportuna, sempre educa-ta, sempre al posto giusto nel momento giusto. Ma il ruolo di silenziosa

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comprimaria era ben presto andato stretto a Silvia che aveva cominciato a dare segni di insofferenza per la vita preconfezionata che Gabriella si accingeva ad offrirle. La sua intromissione nella vita e nelle decisioni della figlia era stata sempre più soffocante, fino ad arrivare a sindacare non solamente sulle sue amicizie, sul suo modo di vestire, sulla sua edu-cazione in generale, ma anche sui suoi gusti alimentari, sulle sue scelte nel tempo libero, sulle sue attività extrascolastiche. Il suo intento era sempre stato quello di preservarla da ogni genere di errore o passo falso, per costruirle una realtà priva del dolore del fallimento, rischiarato dalla serenità di una mano protettiva a sua difesa. Ma i cuccioli di uomo sono per natura ribelli e scalciano per entrare nel mondo con le proprie gambe, anche a rischio di cadere e farsi molto male. Silvia, poi, racchiudeva den-tro di sé una forza misteriosa che la inquietava e la faceva smaniare, do-nandole una curiosa ansia di proporre, sperimentare e realizzare, un fuo-co sacro che le faceva nettamente prediligere un’esperienza rischiosa ad una tranquilla strada segnata. Una madre equilibrata si sarebbe presto o tardi rassegnata a quella figlia particolare e avrebbe finito con amarla maggiormente proprio in virtù di quella sua vitalità. Ma lei no, non poteva permettere che sua figlia gettas-se via tante opportunità. Iniziò così la sua crociata verso la redenzione di Silvia. Una presenza soffocante, che scandiva i ritmi dell’intero nucleo familiare con regole ed imposizioni. Gabriella era una signora di ferro, dunque, che costruiva sapientemente la sua famiglia perfetta anche a di-scapito della felicità e della libertà di chi le stava accanto, ma che in ogni caso agiva per il bene comune dell’intero nucleo. “Io ti salverò”, questo si ripeteva ogni giorno, come un medico pronto a curare i mali che mi-nacciavano ciascun componente. “Ti salverò dagli errori, perché io so cosa è bene per te; ti salverò dalla noia, perché riempirò sapientemente ogni momento della tua giornata con qualcosa di proficuo per il tuo futu-ro; ti salverò dalla banalità e dall’egoismo, perché ti insegnerò il sacrifi-cio e la dedizione; ti salverò dal senso di irresponsabilità che caratterizza la tua generazione, perché ti imporrò regole e compiti da portare a termi-ne.” Quel suo atteggiamento non era minimamente variato anche dopo l’arrivo di Giorgio, che ora aveva nove anni, il quale, tuttavia, aveva un carattere più remissivo, più facilmente plasmabile ai suoi desideri e alle sue aspettative. FINE ANTEPRIMACONTINUA...

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