contrada giustizia e veritac3a0 finale
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Contrada Giustizia e Veritac3a0 FinaleTRANSCRIPT
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Avv. Giuseppe Lipera Patrocinante in Corte Suprema di Cassazione
Avv. Grazia Coco Avv. Claudia Branciforti Avv. Pietro Lipera Avv. Salvatore Cavallaro Avv. Salvatore Ficarra Avv. Antonella Di Giovanni Avv. Grazia Saitta Dr. Marco Lipera Psicologo Dr. Patr. Leg. Laura Salice Dr. Patr. Leg. Nicola Cossari Dr. Patr. Leg. Elisa Di Maggio Dr. Floriana Cucuzza Dr. Luca Tancredi Lipera
ECC.MA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
ATTO RICORSO
Qual difensore e procuratore speciale di
Dott. CONTRADA Bruno, nato a Napoli il 2/9/1931, in atto ristretto in
regime di detenzione domiciliare in…propone formale
RICORSO
avverso
la sentenza n. 784/11 Reg. Sent. emessa dalla Corte di Appello di Caltanissetta
- Sezione II Penale - in data 08.11.2011, depositata il 19.01.2012, nell’ambito
del giudizio di revisione n. 73/11 Reg. Gen. App. Caltanissetta, con cui è stata
dichiarata inammissibile la istanza di revisione della sentenza di condanna n.
338/96 Reg. Sent. emessa dal Tribunale di Palermo in data 05.04.1996
confermata all’esito di giudizio di rinvio con sentenza emessa dalla Corte di
Appello di Palermo in data 25.02.2006 e divenuta irrevocabile il 10.05.2007.
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2
RITENUTO IN FATTO
In data 31 gennaio 2011, il dott. Bruno Contrada presentava alla Corte di
Appello di Caltanissetta domanda di revisione della nota sentenza di condanna
a suo carico, avanti specificata, deducendo quanto segue:
RAGIONI
1. SONO EMERSE PROVE, AI SENSI DELL’ART. 630 LETT. C)
C.P.P., CHE SOLE E/O UNITE A QUELLE GIA’ VALUTATE,
DIMOSTRANO CHE IL CONDANNATO DEVE ESSERE
PROSCIOLTO A NORMA DELL’ART. 631 C.P.P..
BREVI PREMESSE IN DIRITTO
Prima dell’esposizione dei fatti, anche per chiarire l’animus che ha
ispirato la presente, si ricorda che le Sezioni Unite hanno più volte
ribadito il consolidato principio di diritto che "fine primario ed
ineludibile del processo penale, anche di revisione, è quello della
ricerca della verità" (Corte Costituzionale, 26 marzo 1993 n. 111),
attraverso un processo equo, pervenendo all'accertamento dell'effettiva
verità storica dei fatti, rimovendo il contrasto tra "verità storica" e
"verità processuale", anche prescindendo da eventuali decadenze
(Cass. pen. SS. UU., sent. n. 17, 6.11.92, Martin, in La Giustizia
Penale, 1993, fasc. 3, III, pag. 129).
3
Questo è il fine che ci prefiggiamo, l’obiettivo che riteniamo
doveroso perseguire nella vicenda che ha visto coinvolto un Dirigente
Generale della Polizia di Stato, Dott. CONTRADA Bruno, atteso che
le risultanze processuali sono in netto contrasto con le motivazioni
della sentenza di condanna, sia con riferimento agli elementi probatori
a carico del Dott. CONTRADA e sia in considerazione della
personalità dello stesso, assolutamente inconciliabile con i fatti
ingiustamente addebitati.
Contrariamente a quanto è stato deciso nella sentenza per cui si
chiede la revisione, sono molteplici, in effetti, gli elementi probatori
dai quali si potrà trarre, senza dubbio alcuno, la certezza
dell’estraneità del Dott. Contrada alle accuse che, ingiustamente ed
ingiustificatamente, gli sono state mosse, anche attraverso la
valutazione di “fatti nuovi e/o sopravvenuti” che non furono
conosciute o apprezzate dal giudice di cognizione.
Queste le ragioni per cui si chiede a questa Ecc.ma Corte di far
luce e giustizia sui fatti di causa, sulla base delle indicazioni
specifiche e sulle prove che, qui di seguito illustrate, giustificano a
pieno questa richiesta di revisione.
Non riteniamo superfluo chiarirci un attimo le idee sulle c.d.
“nuove prove”ex art. 630 comma 1 lett. c) c.p.p..
Sul concetto di “nuovo” la dottrina ha costantemente incluso non
solo la prova preesistente e conosciuta ma non introdotta, ma anche
quella acquisita al processo ma pretermessa dal giudice.
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La giurisprudenza al contrario mentre è costante nell'affermare che
deve considerarsi prova nuova anche quella che, pur esistendo al
tempo del giudizio, non sia stata portata a conoscenza del giudice,
prescindendosi dall'imputabilità di questo fatto ad eventuale
negligenza della parte, risultava divisa in relazione alla riconducibilità
nel novum della prova introdotta, ma non valutata dal giudice.
Inizialmente la Corte di Cassazione si era espressa in termini
positivi ma in seguito tale orientamento era stato disatteso dalle
Sezioni Unite, le quali, invece, avevano escluso che mediante la
revisione potessero dedursi elementi di prova già acquisiti ma non
valutati dal giudice prima del giudicato.
L’intervento delle Sezioni Unite non è stato risolutivo e per molto
tempo la giurisprudenza ha continuato ad oscillare tra le due posizioni;
e ciò fino al 2001 quando le Sezioni Unite non si erano ancora
pronunciate.
In quest’ultima decisione la Corte Suprema ha affermato che, ai
fini della revisione, per prove nuove debbono intendersi, non solo le
prove sopravvenute alla sentenza definitiva di condanna e quelle
scoperte successivamente ad essa, ma anche quelle non acquisite nel
precedente giudizio ovvero le prove acquisite, ma non valutate
neanche implicitamente, sempre che non si tratti di prove dichiarate
inammissibili o ritenute superflue dal giudice.
La novità quindi attiene al momento valutativo e non a quello
acquisitivo della prova.
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Inoltre, come osservato dalla SS.UU., eventuali prove non
tempestivamente dedotte, nell’ambito del giudizio di cognizione, per
negligenza del condannato o del suo difensore, ben potranno essere
poste a fondamento di una richiesta di revisione ed esaminate per la
prima volta dal giudice della revisione.
Alla luce della sentenza del 2001 delle Sezioni Unite, in tema di
nuove prove si è stabilito che “la testimonianza quale prova nuova ai
fini del giudizio di revisione deve essere ammessa purché non appaia
manifestamente inidonea a dimostrare che il condannato deve essere
prosciolto o sia palesemente inutilizzabile, dove peraltro fra i requisiti
di idoneità e utilizzabilità della testimonianza dedotta non rientrano
quelli di preventiva acquisizione della stessa tramite attività di
indagine difensiva ai sensi dell'art. 327 bis c.p.p.” (Cassazione penale ,
sez. I, 21 marzo 2007, n. 18010).
La citata sentenza afferma inoltre che “affinché una prova possa
ritenersi nuova ai fini della richiesta di revisione di sentenza passata
in giudicato è necessario che la stessa non sia stata acquisita nel
precedente giudizio, ovvero sia stata acquisita ma non valutata
neanche implicitamente e non sia stata ritenuta inammissibile o
superflua dal Giudice. Irrilevante invece è la valutazione della
deducibilità della prova nel precedente giudizio e dunque della sua
tardiva richiesta imputabile ad un comportamento negligente o
addirittura doloso del condannato”.
Tanto vale a ritenere che “in fase di delibazione preliminare in
tema di ammissibilità della richiesta di revisione, l'apprezzamento
logico e critico del grado di idoneità dimostrativa degli elementi
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addotti dal richiedente a ribaltare l'originario costrutto accusatorio,
per gli aspetti di congruenza e di non manifesta infondatezza, si
atteggia in funzione del probabile esito positivo della revisione e del
conseguente proscioglimento, anche mediante l'introduzione di un
dubbio ragionevole sulla colpevolezza del condannato.”
Inoltre, si evidenzia come si stia affermando il principio del
“favor revisionis” in seguito alla fondamentale sentenza del 2001
delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.
Le SS.UU. hanno, infatti, ribadito che "una richiesta di revisione
può essere dichiarata inammissibile, per infondatezza, solo nel caso
in cui detta infondatezza sia manifesta, rilevabile ictu oculi,
percepibile ad un semplice, primo e sommario esame delibativo,
mancando anche il fumus della sua apprezzabilità" (Cassazione
penale , sez. un., 26 settembre 2001, n. 624).
La Suprema Corte, dopo avere giustamente avvalorato
l’orientamento secondo cui l’istituto della revisione è finalizzato alla
correzione di errori di fatto e non di diritto, ha statuito il principio del
“favor revisionis”, ricavandolo dal contesto complessivo dell’articolo
630 lettera c) c.p.p., che ha ampliato la portata della revisione
processuale, ritenendola ammissibile, diversamente dal previgente
codice di rito, anche nel caso in cui la prognosi sia quella di
assoluzione per insufficienza o contraddittorietà delle prove.
NELLO SPECIFICO DEL CASO CONTRADA
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Accogliendo la presente istanza di revisione, la Ecc.ma Corte
consentirà di tramutare i nuovi elementi di prova presentati da questa
difesa in prove certe, le quali dimostreranno la totale estraneità del
Dott. Bruno CONTRADA ai fatti che hanno portato ad un’ingiusta ed
errata condanna nei confronti del medesimo.
In tal senso appare molto interessante l’interpretazione estensiva di
“nuove prove”, infatti sul punto il Supremo Collegio della Cassazione
ha anche avuto modo di statuire che “ai fini dell'ammissibilità della
richiesta di revisione, il condannato debba limitarsi a prospettare dei
nuovi "elementi di prova" e non delle nuove "prove" proprio perché
l'articolo 631 c.p.p., a proposito dei limiti posti dal vigente codice di
rito all'istituto della revisione, parla espressamente di nuovi
"elementi" di prova astrattamente idonei, "se accertati, a dimostrare
che il condannato deve essere prosciolto" con una delle formule di
rito.”.
Ora, ripercorrendo l’intera vicenda giudiziaria che ha portato alla
condanna del Dott. Bruno CONTRADA, emergono elementi nuovi e
significativi ed addirittura certi che contrastano nettamente con la
personalità del prevenuto e con le prove valutate dal giudice di
cognizione.
*********
Ecco gli ELEMENTI DI PROVA che l’Ecc.ma Corte adita dovrà
valutare, attraverso cui si giungerà all’inevitabile ribaltamento del
giudicato.
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Sul punto, innanzitutto, è giusto e sacrosanto fare chiarezza e
colmare tutte quelle contraddizioni che sono state il fulcro di quel
processo, che non si può dire annoverato nell’ambito di quella
giustizia che ha il compito di accertare con la massima rigorosità se gli
elementi probatori raccolti possano avere la dignità di essere assurti a
prova e che certifichi la responsabilità indiscutibile di un soggetto
incensurato, soprattutto quando quelle prove servono per condannare
alla pena di tredici e mesi due di reclusione.
Solo quando si è espletato con estrema rigorosità ogni mezzo
possibile ed immaginabile messo a disposizione della Legge nella
valutazione delle prove e degli indizi si può dire che si è fatta
giustizia, altrimenti non ci si arrende nella ricerca della verità con tutti
i mezzi messi a disposizione dal legislatore, il quale ha ritenuto che in
caso di sentenza passata in giudicato è possibile riaprire il processo,
anche quando vi sono fatti nuovi sopravvenuti, tali da cambiare le
sorti di un processo.
Ma andiamo per ordine ed analizziamo l’iter processuale nonché le
emergenze probatorie che hanno portato il Dott. CONTRADA ha
subire un’ingiusta ed immeritata condanna.
LA VICENDA
Bruno Contrada è stato ritenuto colpevole di concorso esterno in
associazione mafiosa (per fatti risalenti all’anno 1982) e condannato
alla pena di anni dieci di reclusione.
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E d’obbligo premettere che il Dott. CONTRADA per la condotta
tenuta, nella qualità di, brillante ed esemplare, Funzionario della
Polizia di Stato, si sarebbe aspettato, cosa che comunque è avvenuto,
innumerevoli plausi ed encomi, giammai un processo penale che lo ha
visto per ben quindici anni nel banco degli imputati per subire
inaspettatamente una condanna ad anni dieci di reclusione:
1) Il Dott. CONTRADA veniva arrestato, per il reato di concorso
esterno in associazione mafiosa, con ordinanza del G.I.P. di Palermo
del 24/12/1992 (che accoglieva una richiesta del P.M. in sede del
22/12/1992);
2) veniva condannato il 5/4/1996 alla pena di anni dieci di
reclusione dalla V^ Sezione Penale del Tribunale di Palermo;
3) la sentenza di primo grado veniva ribaltata dalla Corte di
Appello di Palermo, che ebbe ad assolvere il Dott. CONTRADA con
la formula più ampia con sentenza del 4/5/2001, successivamente,
purtroppo, annullata dalla Corte di Cassazione e poi confermata il
25/2/2006 da altra Sezione della Corte di Appello di Palermo;
4) quest’ultima sentenza veniva definitivamente confermata il
10/5/2007 dalla Corte Suprema di Cassazione.
Le accuse a carico del Dott. CONTRADA, ritenuti erroneamente
sufficienti per sostenere una condanna ad anni dieci di reclusione (ad
eccezione della Corte di Appello di Palermo che con sentenza del
4/5/2001 lo ebbe ad assolvere) sono esclusivamente le propalazioni
riferite alla Pubblica Accusa di alcuni collaboratori di giustizia.
Elenchiamo per facilitare il compito dei Giudici chi furono gli
accusatori del Dott. Contrada: Giovanni Brusca, Tommaso Buscetta,
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Salvatore Cancemi, Gaetano Costa, Francesco Di Carlo,
Francesco Marino Mannoia, Gaspare Mutolo, Gioacchino
Pennino, Angelo Siino.
Sono tutti uomini con un “curriculum-vitae” (meglio sarebbe dire
“curriculum-mortis”) da far invidia ai protagonisti dei più sanguinari e
impressionanti film dell’orrore. Gente che, come il Mutolo, dichiarava
seraficamente davanti al Tribunale, nel corso di una testimonianza
resa al processo Contrada, di aver ammazzato per strangolamento oltre
trenta persone, senza mostrare alcun segno di rimorso o di
ravvedimento per gesti compiuti con il più alto spregio della vita
altrui.
Pertanto, si ritiene con forte convinzione che il Dott.
CONTRADA è stato condannato solo per delle accuse generiche (ed
infamanti) provenienti dagli stessi soggetti che per anni sono stati
perseguitati ed arrestati dall’Ex Dirigente della Polizia di Stato.
In particolare le accuse mosse sono assolutamente inconciliabili
con la personalità del Dott. CONTRADA, in quanto la corretta e
lodevole indole emerge incontrovertibilmente che dalle operazioni
condotte e dagli incarichi, importanti e delicati, affidategli durante la
sua lunghissima carriera che vale la pena ripercorrere, onde
evidenziare, altresì, il contrasto tra la condanna subita e la persona del
Dott. CONTRADA:
il Dott. CONTRADA entra in Polizia nel 1958 e frequenta a
Roma il corso di istruzione presso l’Istituto superiore di Polizia, al
termine viene assegnato prima alla Questura di Latina e,
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successivamente al Commissariato di Sezze Romano, dal quale chiede
ben presto di essere trasferito, in quanto desideroso di operare
concretamente in una città di frontiera.
Viene subito accontentato e trasferito a Palermo, nella città più
“calda” d’Italia, dove già era cominciata la mattanza per la prima
guerra di mafia.
In questa città lavora alacremente e scala tutti i gradini della
carriera:
- nel 1973 diviene il capo della Squadra Mobile;
- nel 1976 passa a dirigere il Centro Interprovinciale della
Criminalpol per la Sicilia Occidentale (dal 1979 al primo febbraio
1980 dirige interinalmente anche la Squadra Mobile) e ricopre tale
incarico fino a gennaio del 1982;
- nel gennaio del 1982 transita nei ruoli del SISDE (Servizi per l’
Informazione e la Sicurezza Democratica) con l’incarico di coordinare
i centri SISDE della Sicilia e della Sardegna;
- nel settembre del 1982 viene nominato dal Prefetto De
Francesco Capo di Gabinetto dell’Alto Commissario per la lotta
contro la mafia, incarico che ricopre fino al dicembre del 1985;
- nel 1986, per la grossa professionalità maturata nel campo della
lotta alla mafia, viene chiamato a Roma presso il Reparto Operativo
della Direzione del SISDE.
Ed ancora le operazioni coordinate da Bruno
Contrada nel periodo immediatamente precedente il suo
arresto:
- Il 2 novembre 1991 a Roma veniva sventato il tentativo di
sequestro del figlio dell’imprenditore edile Silvano Franconetti e gli
ideatori del sequestro venivano arrestati;
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- Il 27 gennaio 1992 venivano sequestrati a Roma 56 Kg. di
eroina “Brown Sugar”, giunta in Italia attraverso la cosiddetta “rotta
balcanica” e proveniente dal Medio Oriente. I trafficanti di narcotici
vennero tutti arrestati;
- Il 9 aprile 1992 veniva scoperta ad Aprilia una pericolosa banda
che assaliva, anche servendosi di esplosivi, furgoni blindati. I
componenti la banda, cinque pregiudicati, vennero tutti arrestati;
- Il 14 giugno 1992 venivano rinvenuti oltre 4.000 Kg.di hashish,
in buona parte nascosti in un natante affondato al largo di Fiumicino;
Vennero arrestati sette pregiudicati, compreso un ex brigatista
rosso;
- L’11 settembre 1992 venivano sequestrati a Ponza 3.000 Kg. di
hashish ed arrestati otto trafficanti di droga, che avevano posto in
essere un traffico di droga proveniente dal Marocco;
- Il 17 ottobre 1992 a Firenze ed a Milano, dopo un’articolata
attività investigativa, veniva compiuta una vasta operazione contro
un’organizzazione mafiosa che faceva capo alle famiglie dei Cursoti,
dei Madonia e dei Corleonesi. Tale organizzazione aveva come base
operativa l’autoparco di Milano;
- Il 3 luglio 1993 (quindi sette mesi dopo l’arresto di Bruno
Contrada) l’attività informativa da lui coordinata ed avviata portava al
sequestro di beni mobili ed immobili, titoli di credito ed azioni che
facevano capo a Totò Riina e Bernardo Provengano. Questa
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operazione, impostata dal dott. Contrada dopo l’attentato del 19 luglio
1992, nel quale perse la vita il giudice Borsellino, fu il frutto di una
paziente ricerca sui legami di parentela esistenti tra i vari appartenenti
alle cosche mafiose vincenti.
Ci si chiede: come è possibile che un uomo con le suddette
caratteristiche, che ha una gloriosa ed ineccepibile carriera, venga
condannato ad una pena di anni dieci di reclusione per il reato di
concorso esterno in associazione mafiosa?
La risposta a questa domanda, che sorge spontanea, proviene da
una consulenza psicologica su Bruno CONTRADA, già versata agli
atti del procedimento pendente avanti il Tribunale di Sorveglianza di
Palermo, che ha reiteramente concesso il beneficio della detenzione
domiciliare al condannato definitivo.
Lo psicologo di parte, dopo avere somministrato al Dott. Bruno
CONTRADA una batteria di test, ha così concluso: “In merito al 4°
ed ultimo quesito (riferisca infine, ove possibile, il C.T., sulla
inconciliabilità o meno tra l’ accusa di concorso esterno in
associazione mafiosa e la collusione del soggetto, ovvero se è
possibile che un soggetto (Bruno Contrada) con quella struttura
mentale, con quella storia professionale, personale e familiare possa
essere stato colluso con la criminalità organizzata meglio nota come
mafia) si conclude che: In particolare si rileva che le caratteristiche
personologiche rivelano un soggetto sostanzialmente convenzionale,
formale, osservatore delle regole e delle convenzioni sociali, con una
disposizione caratteriale solida e irremovibile. Si evince una
personalità volitiva, dotata di estrema fermezza e determinazione che
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in certe occasioni possono dar luogo a mancanza di riflessione,
tendenza a imporre la propria volontà in modo imperioso e poca
elasticità. Inoltre faccio presente che durante le fasi del colloquio il
soggetto ha manifestato un forte senso di appartenenza alle Forze
dell’Ordine. Infine concludo che, tenendo conto degli elementi emersi
dall’indagine psicodiagnostica l’accusa che gli viene rivolta cioè
quella di aver colluso con un sistema “nemico” rispetto a quello a cui
appartiene e che per tutta la sua carriera “ha perseguitato"
risulterebbe non conciliabile con la sua disposizione caratteriale”.
ET HOC SATIS!!!
Emblematica e di particolare pregio assumono poi le parole
espresse nei confronti del Dott. CONTRDA Bruno dal fu Prof. Avv.
Senatore Francesco Cossiga, Presidente Emerito della Repubblica, che
ha inviato con lettera del 7 novembre 2007 all’Avvocato Giuseppe
Lipera, che vale la pena di riportare integralmente, onde significare la
grande personalità del ricorrente:
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Ecco chi era il Dott. Bruno CONTRADA, un uomo di cui si
“conseva il miglior ricordo”.
Verità è che difendersi concretamente dall’accusa di
“CONCORSO ESTERNO IN ASSOCIAZIONE MAFIOSA”
risulta una impresa veramente difficile e ardua (MA NON
IMPOSSIBILE)!!!
Bruno Contrada, infatti, non è stato condannato per una
condotta in particolare, non gli è stata contestata la commissione di un
solo reato-fine, ad es. per favoreggiamento, omissione d’atti di ufficio,
abuso d’ufficio; ed è stato condannato per “quid” che è previsto come
reato dal nostro ordinamento.
Infatti, il concorso esterno in associazione mafiosa è il frutto
della creatività della giurisprudenza, del tentativo di punire condotte
non riconducibili a singole e tipizzate fattispecie di reato.
Anche se possiamo arrivare a comprendere la ratio di un
intervento tanto invasivo della giurisprudenza in quello che sarebbe
dovuto restare il campo di azione di Organi istituzionali (come il
Parlamento o semmai il Governo), avvenuto nell’immediatezza delle
efferate stragi palermitane e quindi sotto una fortissima onda emotiva,
in ogni caso il risultato ottenuto è inaccettabile in uno Stato di Diritto
nel concorso esterno in associazione mafiosa non è tipizzato
l’elemento oggettivo, né l’elemento soggettivo richiesto, insomma il
concorso esterno può diventare una sorta di fattispecie in cui far
rientrare tutto ed il contrario di tutto.
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Non possiamo tollerarlo!
Peraltro, nel caso del Dott. Contrada l’accusa di concorso esterno
è ancora più vaga e quindi inaccettabile, proprio perché non ha trovato
nemmeno una minima concretizzazione in un qualsivoglia
collegamento con reati fine.
Avrebbe avuto forse più senso l’accusa di aver favorito
l’associazione mafiosa commettendo un reato in particolare, in un
determinato momento, contesto, per agevolare una determinata
persona.
E’ evidente che individuare una o più specifiche condotte
rappresentative di una collusione con la mafia avrebbe reso le
fantasmagoriche storie dei pentiti forse più attendibili.
Ma non è successo!
Purtroppo, la realtà è che in giudizio non esistevano fatti!!!
Pertanto, si sostiene fermamente, nonostante la sentenza definitiva,
che il Giudice di cognizione con il materiale a sua disposizione non
poteva giungere ad una sentenza di condanna.
Tutto ciò comunque non basta, perché come preannunciato, vi
sono anche i
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FATTI NUOVI
È anche vero che il giudice in sede di condanna sconosceva
determinati fatti e/o comunque non li ha presi in considerazione,
perché non presenti nel fascicolo del dibattimento e perché non portati
a sua conoscenza dall’accusa o dal condannato, che uniti a quelli già
contestati avrebbe dimostrato ancor di più l’assoluta estraneità del
Dott. CONTRADA.
Quali sono i fatti nuovi e/o sopravvenuti, di cui si è già accennato
prima, utili per revisionare la sentenza di condanna?
Eccoli!!!
Ebbene questa difesa è venuta a conoscenza di fatti che
contrastano nettamente con le accuse che sono state mosse al Dott.
CONTRADA Bruno e per cui ha subito una condanna, oggi definitiva
e che dimostrano la sua assoluta innocenza.
Gli elementi nuovi e sopravvenuti mettono in luce inoltre una
personalità del ricorrente che, come già accennato, è assolutamente
inconciliabile e totalmente incompatibile con quanto descritto e
affermato in sede di sentenza dal giudice di cognizione, nel senso che
il Dott. CONTRADA, con la sua condotta, non poteva apportare un
contributo ad un’associazione a delinquere, rilevato che lo stesso ha
servito con la massima abnegazione e dedizione esclusivamente le
Istituzioni.
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Pertanto, è incomprensibile come un uomo, che ha collaborato per
la verità, la correttezza e l’onestà, abbia potuto subire una condanna di
anni dieci di reclusione.
Come detto sopra la sentenza che si impugna (in via straordinaria)
non è già di per sé affatto convincente, in quanto si è giunti ad un
verdetto di condanna senza che vi fossero uno straccio di prove a
carico del Dott. CONTRADA.
LA PROVA NUOVA
Il dato che il Dott. CONTRDA fosse una persona che seriamente
contrastava e fattivamente osteggiava la malavita si rileva da un
recente esposto-denuncia presentato alla Procura della Repubblica di
Caltanissetta in data 17/1/2011 (nonché al Ministro della Giustizia e al
Procuratore Generale presso la Corte Suprema di Cassazione), dopo che il
ricorrente ha appreso fatti e circostanze particolarmente importanti,
che se portati a conoscenza del giudice di cognizione avrebbero
certamente potuto cambiare le sue sorti.
DAL CONCORSO ESTERNO AL COMPLOTTO
INTERNO:
LE PROVE DELLA CONGIUSRA
Ebbene il Dott. CONTRADA Bruno in data 11/1/2011 apprende,
per averlo letto, nel libro “Nel labirinto degli Dei” (Storie di mafia e
di antimafia), autore il Dott. Antonio IGROIA (in atto Procuratore
Aggiunto della Repubblica della Direzione Distrettuale Antimafia
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presso il Tribunale di Palermo), edito da “il Saggiatore” e stampato
nel novembre 2010 a Cesano Boscone (MI), che a pagina 81 di detto
libro il citato Dott. Antonio IGROIA scrive:
“Ho conosciuto tanti collaboratori che sapevano sia il progetto di
eliminare Paolo a Marsala, poi abbandonato, sia dell’attentato, poi
realizzato, a Palermo. Mai però avevo interrogato qualcuno degli
esecutori materiali della strage di via D’Amelio.
Avevo interrogato – per la verità – Vincenzo Scarantino, che si era
autoaccusato di avere organizzato il furto della fiat 126 usata come
autobomba in via D’Amelio. Indagini più recenti della Procura di
Caltanissetta sembrano, comunque, aver definitivamente smascherato
Scarantino come depistatore e falso pentito. Già allora, Scarantino mi
lasciava perplesso, perché c’era qualcosa in lui che <<a pelle>> non
mi convinceva. Lo interrogai una sola volta, ricevendone una
sensazione sgradevole. La attribuivo al disagio di trovarmi di fronte
un probabile complice dell’omicidio di Paolo. Ma forse percepivo
qualcos’altro. Era stato Scarantino a reclamare la presenza della
Procura di Palermo, mettendo sul piatto due temi di prova
apparentemente <<appetitosi>>: nuove accuse a carico di Bruno
Contrada, alto Funzionario dei Servizi di Sicurezza, all’epoca già
inquisito e in custodia cautelare per concorso esterno in
associazione mafiosa; e, addirittura, dichiarazioni che coinvolgevano
il già allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi in oscure
vicende di traffico di stupefacenti. Le dichiarazioni a carico di
Contrada erano minuziose e precise, apparentemente riscontrabili;
quelle che riguardavano Berlusconi, invece, erano generiche e
sostanzialmente indimostrabili.
Rimasi perplesso. Osservavo con attenzione Scarantino, lo fissavo
negli occhi, ma il suo sguardo era sfuggente, elusivo. Non mi piaceva.
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Non mi convinse. Né mi sembrava plausibile il personaggio nel suo
complesso. Era evidente che si trattava di un criminale di infimo
livello. Possibile che sapesse cose tanto rilevanti? Possibile che Cosa
Nostra avesse affidato a un tale personaggio la delicatissima fase di
preparazione e organizzazione della strage di via D’Amelio?
Tuttavia, era mio dovere cercare di riscontrare il riscontrabile, e così
feci. Diedi incarico alla Polizia Giudiziaria di svolgere gli
approfondimenti sulle vicende citate da Scarantino, riguardanti la
competenza della Procura di Palermo: l’esito fu sconfortante. Le
dichiarazioni accusatorie in merito a Contrada erano riscontrate,
ma solo in apparenza. Nel senso che, in realtà, i fatti riferiti da
Scarantino erano accaduti, e presentavano delle anomalie, ma non
era stato acquisito alcun riscontro che si potesse considerare
individualizzante a carico di Contrada. Nulla, cioè, era emerso che
potesse collegare quelle anomalie con Contrada, a parte le
dichiarazioni stesse di Scarantino.
Si trattava, dunque, di <<riscontri apparenti>>. Che fare? Mi
consultai con Alfredo Morvillo, contitolare con me del processo
Contrada, e ci trovammo d’accordo. Quelle dichiarazioni non erano
convincenti, come non lo era il teste. Dopo averne parlato con Gian
Carlo Caselli, all’epoca procuratore a Palermo, decidemmo di non
servirci delle sue dichiarazioni accusatorie. Esse pertanto non
furono mai utilizzate dalla Procura di Palermo né per il processo
Contrada, né (figuriamoci!) nei confronti di Berlusconi, e neppure in
altro procedimento penale di competenza del nostro ufficio. Questo
episodio, insieme a tanti altri che evito qui di accennare, dimostra
l’infondatezza di un’accusa che, qua e là ci viene rivolta. I magistrati
della Procura di Palermo non saprebbero prendere le distanze dalle
proprie fonti, e accetterebbero sempre per buone le dichiarazioni di
22
qualunque pentito purchè accusatorie nei confronti dei propri
inquisiti. Bene, anche in questo caso, credo che si possa arrivare alla
stessa conclusione: fatti i dovuti riscontri, l’accusa non è convincente
come non lo è chi la sostiene ”.
È chiaro che quanto letto nel libro del Dott. INGROIA (pagg. 81,
82 e 83) ha destato in Bruno CONTRADA (ma non solo nei confronti
del Dott. CONTRADA) sommo stupore, sbigottimento e turbamento,
poiché nel noto processo in cui l’ex Dirigente della Polizia di Stato è
stato imputato (PP.MM. nel giudizio di primo grado il medesimo Dott.
Antonio INGROIA nonché il Dott. Alfredo MORVILLO) non si parlò
mai di accuse che il sedicente pentito Vincenzo SCARANTINO
avrebbe rivolto nei suoi confronti, né mai il giudice di cognizione fu
portato a conoscenza di questa circostanza.
Infatti, è certo che nel fascicolo del Pubblico Ministero non
vi fossero atti riguardanti un interrogatorio fatto dal Dott.
INGROIA allo SCARANTINO, né dei successivi accertamenti,
con esito negativo, a quanto pare, effettuati dalla Polizia
Giudiziaria.
La circostanza rivelata solo adesso dal Dott. INGROIA si ritiene
che sia alquanto grave, considerato che lo stesso P.M., scrive oggi nel
suo libro, ritenne che le dichiarazioni dello SCARANTINO a suo
carico “erano minuziose e precise, apparentemente riscontrabili”,
mentre “quelle che riguardavano Berlusconi, invece, erano
generiche e sostanzialmente indimostrabili”.
23
Aggiunge il Dott. INGROIA che egli “diede incarico alla Polizia
Giudiziaria di fare indagini su quanto narrato dal collaboratore di
giustizia, ma l’esito delle stesse fu sconfortante” e pertanto dopo
averne parlato con l’allora sostituto Alfredo Morvillo, con il quale
svolgeva indagini nei suoi confronti, e il Procuratore Capo Gian
Carlo Caselli, egli (INGROIA) e il suo collega Morvillo decisero di
non servirsi delle dichiarazioni di SCARANTINO e che in effetti non
furono mai utilizzate nel processo pendente nei suoi confronti e ciò in
quanto, si badi bene, “QUELLE DICHIARAZIONI NON ERANO
CONVINCENTI, COME NON LO ERA IL TESTE
(COLLABORATORE DI GIUSTIZIA)”.
La domanda sorge spontanea: perché non si indagò per capire le
ragioni per cui Vincenzo SCARANTINO si determinò a fare quelle
false propalazioni accusatorie nei confronti del Dott. CONTRADA?
Ed ancora: non doveva essere consequenziale quantomeno
cercare di sapere chi ebbe prima a suggerire quelle bugie e poi
convincere lo SCARANTINO medesimo a riferirle all’Autorità
Giudiziaria?
Non poteva essere questa la prova del tarlo che ha sconvolto la
mente del Dotto CONTRADA da oltre 18 anni e cioè che rimasta
vittima innocente di un crudele complotto ordito da menti diaboliche e
criminali?
E a quando risalgono queste dichiarazioni di SCARANTINO e
cosa dichiarò in concreto al Dott. INGROIA di “apparentemente
riscontrabile”?
24
Non solo questo non fu fatto (eppure sarebbe stato un tassello
assai importante e forse determinante per scoprire chi erano coloro che
complottavano nei confronti del Dott. CONTRDA), ma il mancato
versamento nel fascicolo del P.M. dell’atto istruttorio (interrogatorio
dello SCARANTINO) e dei consequenziali accertamenti negativi
(“sconfortanti” dice INGROIA) di Polizia Giudiziaria (tanto da
dimostrare la falsità delle dichiarazioni in parola), ha impedito alla
difesa nel processo Contrada di esercitare tutte quelle azioni che
avrebbero potuto chiarire il contesto in cui si andava maturando
tutta la vicenda giudiziaria e di usare ogni strumento utile per
fare emergere la verità.
Ci si domanda ancora: se le accuse lanciante dal pentito
SCARANTINO nei suoi confronti non hanno avuto riscontro, come
mai nei confronti di SCARANTINO, “criminale di infimo livello”
(come lo ha definito lo stesso INGROIA), non fu promossa azione
penale (obbligatoria) per il reato di calunnia in suo danno?
Ed infine, se i Giudici del processo CONTRADA avessero avuto
conoscenza di tutto questo, ci si chiede con profonda e drammatica
angoscia: si sarebbe concluso in maniera diversa il lungo calvario
processuale, considerato che la sentenza di condanna di primo grado,
V^ sez. penale del Tribunale di Palermo del 5/4/1996, venne prima
ribaltata dalla Corte di Appello di Palermo, che ebbe ad assolvere il
Dott. CONTRADA con la formula più ampia (sentenza del 4/5/2001
successivamente, purtroppo, annullata dalla Corte di Cassazione), e
poi confermata il 25/2/2006 da altra Sezione della Corte di Appello di
Palermo, se fosse stata acquisita e utilizzata quella fantomatica
25
indagine di Polizia Giudiziaria che ebbe l’esito, definito
“sconfortante” dal Dott. INGROIA, in quanto non riuscì a
“riscontrare il riscontrabile” delle dichiarazioni accusatorie in suo
danno propalate da Vincenzo SCARANTINO?
Tutto questo se portato a conoscenza dei giudici sarebbe stato
certamente un elemento in più a favore, che comunque andava
doverosamente posato sul piatto della bilancia della Giustizia,
fondamentale per accertare la Verità.
Quanto sin qui rappresentato contrasta nettamente con la sentenza
di condanna a carico del Dott. CONTRADA, il quale viene ritenuto
responsabile, nonostante l’assenza di prove certe, del reato di
concorso esterno in associazione mafiosa.
I fatti nuovi elencati ai fini dell’accoglimento della presente
domanda dimostrano, incontrovertibilmente e con riscontri oggettivi
alla mano, che il Dott. CONTRADA non poteva essere condannato
per i reati di cui sopra, atteso che la personalità dello stesso e il
contributo fattivo che ha dato alle Forze dell’Ordine per contrastare e
combattere la criminalità organizzata, fanno presupporre l’assoluta
estraneità e il coinvolgimento dello stesso con soggetti criminali.
La prova e/o fatto nuovo è emersa dal raccontato del Dott.
INGROIA Antonio contenuto a pag. 81,82 e 83 del suo libro “Nel
Labirinto degli Dei”.
26
È certo che altro criminale reo confesso ha provato ad accusare il
Dott. CONTRADA, calunniandolo, così come tutti gli altri pentiti, che
ingiustamente sono stati ritenuti attendibili.
In conclusione si ritiene di aver seriamente prospettato nuovi
elementi di prova, che, se oggetto di valutazione in un giudizio di
merito, condurranno ad una conclusione diametralmente opposta a
quella della sentenza passata in giudicato.
Inoltre, è fondamentale, in quanto citati dal Dott. Antonio
INGROIA nel suo libro, sentire quest’ultimo unitamente al Dott.
Alfredo Morvillo e Dott. Gian Carlo Caselli, i quali (come riferisce
il Dott. INGROIA) di comune accordo decisero di non utilizzare le
dichiarazioni del pentito SCARANTINO nei confronti del Dott.
CONTRADA, ritenendo più giusto sottrarre al fascicolo del P.M. la
presenza di quanto dichiarato dal pentito e delle successive indagini di
P.G..
La difesa, inoltre, ribadendo quanto già detto sopra, a supporto
della presente istanza di revisione, richiama l’attenzione sulla
fondamentale sentenza del Supremo Organo della Cassazione, la quale
a Sezioni Unite ha avuto modo di precisare che “per prove nuove
rilevanti, a norma dell'art. 630, lett. c), c.p.p., ai fini dell'ammissibilità
dell'istanza di revisione, devono intendersi non solo le prove
sopravvenute alla sentenza definitiva di condanna e quelle scoperte
successivamente ad essa, ma anche quelle non acquisite nel
precedente giudizio ovvero acquisite, ma non valutate neppure
implicitamente, purché non si tratti di prove dichiarate inammissibili
o ritenute superflue dal giudice, e indipendentemente dalla
27
circostanza che l'omessa conoscenza da parte di questi sia imputabile
a comportamento processuale negligente o addirittura doloso del
condannato, rilevante solo ai fini del diritto alla riparazione
dell'errore giudiziario.” (Cassazione penale, Sez. Un., 26 settembre 2001, n.
624).
Or non vi è chi non possa vedere che gli elementi, prospettati in
seno alla presente istanza, se fossero stati oggetto di valutazione
all’epoca dei precedenti giudizi, avrebbero sicuramente indirizzato gli
organi decidenti ad emettere una sentenza ampiamente assolutoria nei
confronti del Dott. CONTRADA.
Quello che ci auguriamo oggi è che tutti gli elementi di prova
prodotti, indicati e dedotti in seno al presente scritto, che smentiscono
le assurde accuse a carico del predetto, adesso soppesate
adeguatamente, vengano vagliati ed utilizzati con obiettività per
ristabilire la Verità, per restituire l’onore e la dignità ad un soggetto
che ha servito, con la massima onestà, esclusivamente le Istituzioni.
Quello che auspichiamo è che i Giudici della Corte di Appello di
Caltanissetta valutino gli elementi indicati sotto una nuova luce,
possibilmente senza utilizzare la figura del concorso esterno in
associazione a delinquere come grimaldello per forzare il Codice
Penale vigente e per attribuire una qualche responsabilità a chi, come
per un terribile incantesimo, doveva essere a tutti i costi coinvolto.
I documenti allegati alla presente istanza nonché le eventuali
ulteriori indagini di P.G. che la Ecc.ma Corte riterrà di dover disporre,
per riscontrare quanto sin qui dedotto, dimostrano che la odierna
28
domanda di revisione è fondata e meritevole di accoglimento e non
potranno non confermare l’assoluta innocenza di CONTRADA Bruno
ed acclarare l’errore giudiziario commesso.
Intervenuta requisitoria del P.G. presso la citata Corte di Appello
territoriale, che chiedeva emettersi ordinanza di inammissibilità della
domanda di revisione, la difesa del CONTRADA, che nel frattempo
aveva anche svolto indagini difensive, interveniva ritualmente e
tempestivamente producendo memoria del seguente tenore.
“Puntuale (anche questa volta) il parere del P.G. che chiede alla
Corte di Appello in sede di dichiarare inammissibile l’ennesima
istanza di revisione (la terza per l’esattezza) avanzata nell’interesse di
Bruno Contrada.
Questa volta però le cose sono … un tantino diverse, ed è
innegabile, nonostante lo sforzo che fa il P.G., che tuttavia con
estrema onestà intellettuale e processuale dà precisa contezza di tutte
le emergenze nuove e le rilevazioni degli atti, non solo dell’istanza di
revisione, tanto da concludere chiedendo la “previa integrazione del
contraddittorio con la difesa”.
È proprio il caso di dirlo, anche perché raramente capita, che si
può apprezzare anche se non condividono le idee.
Onore quindi all’Illustre contraddittore, P.G. che ha elaborato e
firmato il parere che ci accingiamo a contestare chiedendo che venga
disatteso.
29
A nostro avviso l’istanza di revisione, oggi più che mai, appare
fondata, proprio anche alla luce delle argomentazioni dedotte dal
Procuratore Generale, e quindi meritevole di accoglimento, anche se
in questa fase, obbligatoriamente sommaria, ci basta che ne venga
dichiarata la sua ammissibilità.
Vero è che l’ufficio del P.M. presso il Tribunale di
Caltanissetta, in relazione all’esposto presentato mesi or sono dal dr.
Bruno Contrada, ha emesso decreto di trasmissione degli atti in
archivio, tuttavia, quel che più rileva e che interessa in questa sede, e
che i fatti in esso riportati sono stati riscontrati attraverso
l’acquisizione, disposta dal diligente P.M. assegnatario del proc.
n.113/2011 R.G. mod.45 (Proc. Rep. Caltanissetta), “delle
dichiarazioni di Vincenzo SCARANTINO nonché gli esiti delle
indagini delegate alla P.G.” (V. decreto P.M. dott. O. Odero 16/5/11),
anche se – ad onor del vero – nessuno poteva mai e poi mai dubitare
di quanto scritto dal dott. Antonio Ingroia nel suo libro ormai famoso
“Nel Labirinto degli Dei”.
Nondimeno, si obbietterà forse che una cosa sono le circostanze
scritte in un libro, ancorché autorevole e onesto sia l’autore medesimo,
altro sono quelle verità acquisite in modo classico e che vengono
consacrate in un fascicolo dell’Autorità Giudiziaria.
Del resto l’interesse del dr. Bruno Contrada (e della sua Difesa
che crede fermamente e risolutamente nella sua innocenza) era
soltanto questo: acquisire questo dato nuovo, questo elemento mai
usato nel processo, di cui oggi si continua ( e si continuerà sempre) a
30
chiedere la revisione della sentenza di condanna e che oggettivamente
si sconosceva fino al gennaio scorso.
L’obbiettivo, pertanto, è stato raggiunto (nè è questa la sede per
disquisire sulla legittimità o meno del decreto di trasmissione in
archivio del P.M., considerata peraltro la vastità delle problematiche
che si rilevano anche da una sommaria lettura della Circolare, inviata
ai Sigg. Procuratori Generali presso le Corti di Appello, 21 aprile
2011 - Utilizzazione del registro degli atti non costituenti notizie di
reato (modello 45) - del Dipartimento per gli Affari di Giustizia
della Direzione generale della Giustizia Penale del Ministero della
Giustizia a firma del Presidente dott. Luigi Frunzio).
La rilevanza e la conducenza delle nuove acquisizioni è sin
troppo ovvia e forse vale la pena evidenziarla.
RICORDIAMO:
Il dott. Contrada viene processato per il famigerato “concorso
esterno mafioso” negli anni (tutto inizia nel funesto ’92) dove ancora
non esisteva né la sentenza “Dimitry” (che ne consacra la “ideazione”)
né tantomeno la celeberrima sentenza “Mannino” delle Sez. Unite
(che ne ha recentemente ridotto la portata) e, se è vero quanto afferma
oggi Giuseppe Ayala, fu lui addirittura ad “inventarlo” (il “concorso
esterno mafioso”) anche se adesso (Ayala sempre) ne sarebbe
addirittura pentito di averlo fatto, per la degenerazione che c’è stata
nel tempo sull’uso e abuso di questa norma incriminatrice, emanata
dalla giurisprudenza di merito e incautamente avallata da quella di
legittimità.
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Reato fumogeno, pertanto (non previsto dal codice secondo
alcuni – e noi fra questi - ), da un lato (se al chiacchiericcio di certi
“pentiti”, e alle suggestioni epidermiche di altri, vi fossero stati
accadimenti certi ed univoci di illeciti penali, non vi è chi non sappia
che al dott. Contrada avrebbero contestato anche reati fine tipo
favoreggiamento, corruzione, interesse privato etc. etc.) e iter
travagliatissimo dall’altro (dall’arresto del 24/12/1992 al passaggio in
giudicato della condanna – 10/5/2007 – trascorrono quindici anni e nel
mezzo ci sta, e pesa come un macigno, la sentenza assolutoria
4/5/2001 della Corte di Appello di Palermo “perché il fatto non
sussiste”), fanno sì di immaginare una bilancia, simbolo imperituro
della Giustizia, … molto ma molto “sensibile”, o addirittura in
equilibrio precario.
Or il fatto nuovo in parola, questo in definitiva è il quesito che
pone questa difesa, e cioè le dichiarazioni accusatorie di un altro
criminale, il o l’ex “pentito” SCARANTINO, in uno con le indagini di
P.G. che non le hanno riscontrate positivamente (“esito sconfortante”
per dirla come il dott. Ingroia) spostano o no i piatti di questa
bilancia, già precaria, del processo subito da Contrada e della
relativa sentenza?
In un processo come il processo Contrada noi riteniamo che
– dato il tipo di imputazione e il suo iter lungo e inframezzato da
una sentenza assolutoria ancorchè poi cassata – sinanco una
piuma avrebbe potuto (e può ancora farlo) spostare i piatti della
bilancia.
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Perché quindi negare la revisione del
processo?
È meglio correre il rischio di salvare un colpevole piuttosto
che condannare un innocente, diceva Voltaire.
Solo un nuovo processo consentirà di sapere se SCARANTINO
mentì dolosamente diciassette anni fa oppure fu imbeccato (l’unico
elemento certo – come riferisce il dott. Ingroia nel suo libro e
accertato adesso dal P.M. di Caltanissetta che ha acquisito gli atti – e
che le sue dichiarazioni non trovarono riscontro nelle indagini di
P.G.), ma non può e non deve rimanere il dubbio. Questo è il punto!
La Giustizia Italiana cosa ha da temere da
un vecchio ottantenne?
Comunque vadano le cose, la Giustizia ne trarrà certamente
benefici di immagine: se verrà assolto in sede di revisione Bruno
Contrada dovrà dire grazie alla Giustizia, se invece, ottenuto un nuovo
processo, continuerà ad essere condannato vorrà dire che la Giustizia
aveva operato bene anche prima.
Si parla sui giornali che forse, questione di tempo, verrà
revisionata in buona parte sinanco la sentenza di condanna della
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efferata strage di Via D’Amelio, con imputati che, anche se
condannati ingiustamente per quel fatto, certo non sono stati dei Santi.
Bene, anzi benissimo!
E con quale animo allora si può negare la revisione di un
processo ad un uomo, pluri decorato, destinatario di infiniti encomi e
riconoscimenti, già servitore dello Stato, che sta per abbandonare la
vita terrena e che non ne trarrà alcun pratico beneficio?
Le circostanze che legittimano l’ammissibilità della chiesta
revisione della condanna ci sono, sta a Voi, Ecc.mi Giudici, decidere:
decretare peraltro non ancora se Bruno Contrada è colpevole o
innocente, è ovvio, ma se dargli o meno questa possibilità di
dimostrarlo, qualunque siano le probabilità di riuscita, bastano le
possibilità, e quelle incontrovertibilmente sussistono.
Non si riesce davvero ad immaginare come gli si possa negare
ancora questo diritto, questa speranza.
Vincenzo Scarantino, da noi ascoltato in sede di indagini
difensive, è apparso quanto mai stralunato, ma è certo quanto ha
riferito tra le righe del suo “interrogatorio”: c’era chi parlava male di
CONTRADA tra gli uomini della polizia, gli stessi a cui
(SCARANTINO) avrebbe raccontato le falsità sulla strage di Via
D’Amelio.
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E’ o no un tema da approfondire questo?
Le invidie, i “siluri concorrenziali” non sono nati ieri, sono
insiti nella natura dell’uomo purtroppo.
Per migliore scienza, pertanto, alleghiamo alla presente la video
registrazione dell’interrogatorio integrale di SCARANTINO,
avvenuto in carcere, alla presenza del suo difensore d’ufficio,
regolarmente nominato dal competente Magistrato di Sorveglianza,
avanti al sottoscritto Avv. Giuseppe Lipera, coadiuvato da altri due
legali presenti, nonché del verbale sommario redatto in quella sede e
della integrale trascrizione (allegato 1: trascrizione integrale e
videoregistrazione dell’interrogatorio reso da SCARANTINO in sede
di indagini difensive il giorno 9/6/2011).
Si vuole approfondire la ricerca della verità oppure
no?
Questo è il punto, ed a nostro avviso gli spunti per farlo ci sono
tutti, eccome se ci sono.
Lo spunto che offre la vicenda SCARANTINO del resto è sin
troppo evidente: si teme da parte della Difesa, a ragion veduta, che il
criminale, allora sedicente “pentito”, abbia ricevuto una spinta da
qualcuno, se non fu addirittura imbeccato a farlo, per sproloquiare
impunemente contro Bruno Contrada.
Or non è detto, e questo è il punto focale, se ciò non sia
avvenuto anche per gli altri “pentiti”, dubbio e sospetto avvalorato dal
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fatto che col chiacchiericcio degli ex criminali reo confessi, così li
chiamiamo noi i c.d. “pentiti”, non si sia mai andato oltre la
“convergenza del molteplice”, cioè quell’altra discutibile creazione
giurisprudenziale, processuale e non sostanziale, che sulla base del
nulla di concreto riesce a far lievitare a rango di prova le infamie e le
calunnie.
Se così non fosse stato non solo il concorso esterno avrebbero
contestato al CONTRADA, ma anche qualche reato meno fumoso e
più tangibile e sostanzioso come la corruzione o il favoreggiamento.
Si vadano a rileggere allora le dichiarazioni che fecero i
“criminali reo confessi” come MUTOLO Gaspare, MARCHESE
Giuseppe, BUSCETTA Tommaso, SPATOLA Rosario, in sede di
indagini preliminari e poi in primo grado Francesco MARINO
MANNOIA, CANGEMI Salvatore, SCAVUZZO Pietro COSTA
Gaetano e PENNINO Gioacchino PIRRONE Maurizio e in appello
SIINO Angelo, BRUSCA Giovanni, DI CARLO Francesco e
COCUZZA Salvatore FERRANTE Giovan Battisa, ONORATO
Francesco e addirittura GIUFFRE’ Antonino nel secondo appello,
quello dopo che la Corte Suprema aveva cassato la sentenza
assolutoria.
Rimane il fumo, il vapore senza nulla di concreto.
Afferma l’art. 630 lett. C) del c.p.p., che se “sono sopravvenute
o si scoprono nuove prove che, SOLE O UNITE A QUELLE GIA’
VALUTATE, dimostrano …” ecc., ecc..
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È su questo che dobbiamo ragionare: le sopravvenienze vanno
unite e poi valutate alle altre emergenze processuali già acclarate nel
corso del lungo iter del processo.
Orbene lo stesso Procuratore Generale nel parere 30/5/2011 non
può fare a meno di rilevare che la difesa, in rispetto al dettato
normativo, ha fornito “l’indicazione di un elemento nuovo o meglio
una vicenda nuova che all’epoca del processo non era conosciuta
dall’imputato e dai suoi difensori e che quindi mai formò oggetto di
valutazione da parte dei decidenti di primo, secondo grado e di
legittimità che nell’amplissimo arco di tempo in cui si svolsero le
varie fasi del processo fino ad arrivare alla sentenza definitiva di
condanna, ebbero, appunto, a pronunciarsi sulla grave imputazione
per artt. 110-416 bis C.P. pendente a carico del dr. Bruno Contrada”.
Quindi: “elemento nuovo”, “vicenda nuova” che “mai formò
oggetto di valutazione”, e queste sono parole usate dal Sostituto
Procuratore Generale che dimostra ampiamente di ben conoscere il
lessico e il suo significato, parole che hanno chiaro ed univoco senso e
non vengono usate a caso.
Vale la pena a questo punto rivedere sommariamente queste
“varie fasi del processo” e nessuno meglio di Lui, Bruno Contrada,
potrà farlo.
Quando nel gennaio 2008 il Quirinale sembrò disponibile a
concedere la Grazia a Bruno Contrada, a condizione che lui la
richiedesse (mentre a dicembre del 2007 il Presidente della
Repubblica Giorgio Napolitano la stava concedendo sua sponte, salvo
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a fare marcia indietro dopo l’insorgere di taluni giustizialisti), l’ex
Dirigente Generale della Polizia di Stato veniva intervistato mentre si
trovava nel Carcere Militare di Santa Maria Capua Vetere: “mi
aspettavo un grazie da questo Stato, io la grazia non la chiederò
mai!”, disse con estrema dignità alla giornalista di SKY TG24 e nel
corso di quella intervista rivide tutta la sua storia giudiziaria.
Ecco il testo delle dichiarazioni rese da Bruno Contrada nel
gennaio 2008 e ci siamo permessi anche di allegare, tramite DVD,
copia del video filmato, che, per chi ha sensibilità giuridica e umana,
rappresenta un documento di estremo valore, posto che con le sterili
carte non è facile a volte rendere perfettamente l’idea del personaggio
di cui stiamo parlando.
Questo, ed è ancora valido, il contenuto del documento avanti
citato:
CONTRADA: E’ vero che io sono oramai condannato con una sentenza definitiva, una sentenza confermata in Corte di Cassazione, ma sono convinto che la mia vicenda giudiziaria non si chiude con questa sentenza, perché non è possibile che una storia del genere rimanga sepolta in atti giudiziari, per cui io sono convinto dalla necessità di una verità storica, oltre che di una verità giudiziaria. Sono convinto che sarebbe opportuno che una Commissione Parlamentare svolgesse un lavoro approfondito, svolgesse degli accertamenti approfonditi. Siccome so che ci sono delle proposte da parte di Parlamentari di creare una Commissione che tratti non soltanto della mia questione, ma addirittura della questione più generale della gestione dei pentiti, di come sono stati gestiti i pentiti, di come sono stati arruolati e poi gestiti e talvolta anche manovrati e allora penso che sia una cosa veramente opportuna. Possibile? CONTRADA: Io credo che sia molto difficile che ciò avvenga perché ci sono molti interessi in contrario e credo che principalmente la Magistratura sarebbe contraria. Perché?
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CONTRADA: Perché sono sicuro che verrebbero fuori dei fatti non edificanti. Ma i pentiti sono come delle armi; un’arma può essere utilizzata per fini buoni, per la difesa della Patria, per la difesa della propria vita o della vita degli altri, ma la stessa arma può essere utilizzata anche per compiere omicidi, crimini efferati, per rapinare, per commettere delitti. Quindi non è il pentito in sé e per sé che costituisce pericolo, è il modo come viene utilizzato o gestito il pentito. E’ li è il pericolo. Perché Contrada di lei hanno dubitato anche Giuliano, Falcone, Borsellino? CONTRADA: Ma questo veramente non, non risulta, che abbiano dubitato … Risulta spesso dalla dichiarazione di questi stessi pentiti, Contrada … CONTRADA: Io, io, tra i miei amici fraterni ho avuto Boris Giuliano, abbiamo lavorato 16 anni insieme, sempre insieme, giorno e notte, gomito a gomito. Io sono stato quello che si è occupato delle indagini per fare luce sull’omicidio di Giuliano, io ho scritto il rapporto a carico dei responsabili dell’omicidio del mio collega Boris Giuliano; rapporto che porta un numero ed una data, 7 febbraio 1981. Tutti sapevano di questo meraviglioso rapporto che io avevo con Giuliano, tutti hanno testimoniato. Quindi, mi scusi, mi scusi, alcune operazioni Giuliano le tenesse nascoste, riservate anche a lei, non è vero? CONTRADA: Non è vero assolutamente; abbiamo lavorato sempre insieme in perfetta intesa. Ci può essere stato un problema di metodo, intendo dire, un momento in cui, siccome, un metro legale per trattare con un delinquente non c’è, lei forse è andato oltre, ha concesso troppo a qualcuno, troppo poco a qualcun’altro? CONTRADA: Ma su questo argomento ci sono delle, delle valutazioni completamente errate. Io in Sicilia ho fatto l’investigatore in funzione di Polizia, sono stato 14 anni alla Squadra Mobile e 6 anni alla Criminalpol, 20 anni, 1962-1982, questa è stata la mia attività di Polizia in Sicilia, essenzialmente contro il crimine organizzato, cioè contro la mafia. Poi sono stato altri 3 o 4 anni a Palermo, ma quale Capo di Gabinetto dell’Alto Commissario per la lotta contro la mafia, cioè con compiti esclusivamente burocratici non di investigazione, perché ero già passato al SISDE. Facciamo tre nomi: Rosario Riccobono, Stefano Bontade e Arturo Cassina. CONTRADA: Due persone appartengono ad una categoria ed il terzo appartiene a ben altra categoria. Stabiliamo le categorie. CONTRADA: Rosario Riccobono è stato uno dei mafiosi che io nella mia ventennale attività investigativa a Palermo contro il crimine, contro la
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mafia, è stato uno dei criminali mafiosi che più ho perseguito che poi la Corte di Assise lo abbia assolto e la sentenza di assoluzione di Rosario Riccobono e di Gaspare Mutolo, per l’omicidio Cappello, è stata scritta dallo stesso Giudice che poi mi ha condannato, in I° grado, addebitandomi il mio rapporto di amicizia con Riccobono. Buscetta nell’84 dice: “ Ho saputo da Rosario Riccobono che Contrada gli passava informazioni sull’operazione della Polizia”. CONTRADA: Non è vero che ha detto questo … Buscetta quanto … Mutolo, mi scusi, mi scusi, Mutolo, l’altro pentito che lei ha citato e prima di accusarla dice Riccobono mi disse che Contrada era a disposizione, per questa ragione le aveva regalato una macchina e messo a disposizione un appartamento. CONTRADA: La stessa sentenza della Corte di Appello che mi ha condannato, la stessa sentenza, parlo di quella del 25 Febbraio del 2006, confermata poi in Cassazione, ha stabilito che queste due accuse non erano vere, erano infondate, però avevano raggiunto il loro scopo, perché la calunnia, la calunnia, specialmente se è ben congegnata, raggiunge sempre il suo fine no? Calunnia, calunnia, che qualcosa sempre rimane. La calunnia può diventare anche quella che si chiama, chiamate plurime di correità? CONTRADA: Le chiamate plurime di correità sono un, un effetto perverso, è veramente terribile una norma del codice di procedura penale, del nuovo codice, l’art. 192, per cui l’accusa enunciata da un pentito e confermata da un altro ed ancora confermata da un altro pentito, da indizio, e da spunto d’indagine diventa prova, per cui non c’è nessuna possibilità di difesa. Ecco perché i pentiti escono fuori a scaglioni. Sono tutte accuse de relato, cioè Riccobono mi ha detto, Mutolo dice Riccobono mi ha detto, Riccobono non può confermare, perché nel frattempo è stato ucciso, morto, Buscetta dice Bontade mi ha detto, Bontade non può confermare perché è stato ucciso, quindi non solo sono tutte accuse. Cangemi dice me l’ha detto quell’altro, Marino Mannoia dice me l’ha detto Stefano Giacoria. Tutta gente morta. Tutto quello che io potevo fare da poliziotto contro Stefano Bontade l’ho fatto. Cassina per un periodo di tempo è stato il Luogotenente Generale dell’Ordine Equestre del Santo Sepolcro per Palermo, per la Sicilia, non ricordo bene. Un’altra ragnatela nella quale lei però potrebbe essere rimasto impigliato potrebbe essere quella delle intercettazioni telefoniche con Nino Salvo o no? CONTRADA: Ma questo argomento è stato cancellato completamente dalla sentenza, ma non dalla sentenza di assoluzione, non solo dalla sentenza della Corte di Appello di assoluzione, ma dalla sentenza della Corte di Appello di condanna. Vorrei mettere in luce una cosa che in tutta la mia vicenda processuale, dall’inizio, io mi sono ripromesso e questa promessa fatta a me stesso, e quest’impegno preso con me stesso di difendermi e di non accusare mai nessuno l’ho mantenuto.
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Ecco l’attacco da dove è arrivato? CONTRADA: Da una parte che non mi aspettavo che mi arrivasse. Qual è questa parte? Lo Stato? CONTRADA: Le istituzioni. Contrada, ma lei mi dice cosa ha fatto? CONTRADA: Io ho avuto il torto di, naturalmente contro la mia volontà, di diventare il simbolo della Polizia Giudiziaria a Palermo, di un trentennio di attività contro la mafia, un periodo in cui lo Stato veniva accusato di avere avuto rapporti collusivi con la mafia o con certi rettori della mafia. Che poi era anche vero, ma non riguardava certo il settore della Polizia. Non accetterà mai la grazia? Non chiederà mai la grazia? CONTRADA: Non la chiederò mai! E perché ha lasciato l’ospedale? CONTRADA: Perché sono stato offeso, trattato come un volgare delinquente comune. Qual è la cosa in cui crede di più? CONTRADA: La cosa in cui credo di più? E’ nella coscienza di non avere nulla da rimproverarsi, di aver fatto sempre i doveri, il proprio dovere. Quale sarà la prima cosa che farà, se tornerà a casa? CONTRADA: La prima cosa che desidero fare è vedere i miei nipotini perché ce ne è uno che si chiama come me che è il primo figlio del primo figlio maschio mio e quindi è quello a cui speravo di poter lasciare in eredità non solo la bandiera ma anche un nome onorato. Chi pensa che sia suo nonno il suo nipotino? CONTRADA: E’ questo dipenderà da mio figlio, quello che gli dirà mio figlio, quello che gli racconterà. Suo figlio da quello che leggerà sui giornali? CONTRADA: Io non farò in tempo a raccontargli niente perché lui ha due anni e mezzo soltanto ed io ne ho 77. Ma secondo lei quale sarà la verità che arriverà a suo nipote? Sarà di un Contrada condannato per concorso esterno in associazione mafiosa o sarà di un Contrada innocente?
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CONTRADA: La seconda ipotesi. (segue a questo punto nel DVD che produciamo un’intervista rilasciata dal Dott. Ingroia, che non siamo riusciti a separare, che rappresenta comunque un documento che omettiamo volutamente di commentare:
Dott. Ingroia nella lotta alla mafia l’utilizzo dei pentiti resta un’arma fondamentale? Un’arma indispensabile perché consente di acquisire notizie dall’interno e nei confronti di associazioni segrete come Cosa Nostra se non si hanno notizie dell’interno non si riescono a scoprire le trame, le organizzazioni interne, i crimini, a prevenire molti delitti come hanno consentito di fare tanti collaboratori di giustizia, a scoprire arsenali d’armi, a scoprire traffici di armi, traffici di droga, ed a scoprire anche collusioni con la mafia da parte di uomini dello Stato. Questo può essere il caso di Bruno Contrada? Questo dice, dicono ormai più di una sentenza definitiva, la sentenza di condanna di I° grado, una sentenza di appello che ha confermato in questo senso, due sentenza della Cassazione ed un’ultima sentenza di appello. C’è soltanto, fra queste, si parla di un caso contraddittorio, in realtà, c’è una sola sentenza di appello in mezzo a sei sentenze che si è pronunciata invece favorevolmente all’imputato. Sia l’imputato, ma anche il condannato, ha diritto a protestare la propria innocenza sino in fondo, per carità. Rimane il fatto che vi sono delle sentenze definitive, confermate anche in Cassazione, che dicono il contrario, che hanno valutato questa linea difensiva dell’imputato, hanno ritenuto non fondata questa tesi e hanno ritenuto invece fondate e riscontrate le accuse nei confronti del Dott. Contrada, che peraltro non si fondano affatto soltanto su dichiarazioni dei collaboratori di giustizia ma che sono sorrette anche da dichiarazioni di testimoni).
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Animati da puro spirito di verità e giustizia, avendo appreso dal
libro di INGROIA “che l’Ufficio requirente si formò una convinzione
sulla scarsa attendibilità del collaboratore, tale da indurlo,
addirittura, alla decisione di non avvalersene nel processo”, come
ben rilevato dal P.G. nel corso del parere, non potevamo fare altro che,
così come peraltro indicatoci dalla Corte Suprema, attivarci con gli
unici strumenti che la Difesa può utilizzare: le indagini difensive.
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Per sapere come erano andate effettivamente le cose (tale da
indurlo, addirittura, alla decisione di non avvalersene …), per capire
il meglio possibile più che altro, abbiamo citato per comparire nel
nostro Studio l’Ufficio requirente in parola, e cioè i Magistrati
Giancarlo Caselli, Alfredo Morvillo e Antonio Ingroia, i quali però
hanno ritenuto non solo di non comparire ma nemmeno di farci sapere
che non intendevano farlo.
Scelte loro!
L’unica cosa che ci rimaneva da fare era allora sentire
personalmente il povero (definito da Ingroia “di infimo livello”)
SCARANTINO, cosa che abbiamo fatto, previa autorizzazione del
Ministero della Giustizia, del Magistrato di Sorveglianza di Roma e
della disponibilità a rispondere alle nostre domande da parte del
medesimo.
Oltre al verbale sommario, che doverosamente si allega, per
migliore scienza e cognizione riportiamo qui la trascrizione integrale
del suo interrogatorio (nonché copia del DVD contenente la video
registrazione, omessa la visione del volto del detenuto per sua
espressa volontà).
Questo l’atto di indagine:
TRASCRIZIONE DI NR. 1 CD CONTENENTE LA VIDEOREGISTRAZIONE DEL VERBALE DI ASSUNZIONE DI DICHIARAZIONI RESE EX ART.391 BIS CPP DA SCARANTINO Vincenzo IN DATA 9 GIUGNO 2011 Avvocato Lipera:
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Andiamo? Allora sono le 10 e 30 del 9 giugno 2011 siamo in carcere, nella casa circondariale di Velletri, e diamo atto che è presente davanti a noi il Sig. Vincenzo Scarantino assistito dal difensore d’ufficio nominato dal Magistrato di Sorveglianza di Roma, Avv. Antonio Poli, sostituito dalla collega Dott.ssa Patrocinatore Legale, Silvia Boccafogli. Avvocato Lipera: Sig. Scarantino, io sono l’Avv. Giuseppe Lipera del Foro di Catania, i miei assistenti sono l’Avv. Graziella Coco del Foro di Catania ed il Dott. Patrocinatore Legale Nicola Cossari del Foro di Roma, sono tutti e due miei assistenti, perché lavorano nel mio Studio. Io intendo conferire con lei perché sono difensore del Dott. Bruno Contrada. E’ venuto fuori un libro fatto dal Dott. Antonio Ingroia che tanti anni fa lo interrogò, parla di lei, e su queste circostanze noi intendiamo sentirlo. Lei ha manifestato la sua volontà di rispondere alle nostre domande, allora innanzitutto alcune cose importanti che esulano dall’interrogatorio. Vincenzo Scarantino nato a? SCARANTINO: a Palermo il 21/10/1965. Avvocato Lipera: tutto questo l’abbiamo scritto. Lei è sottoposto ancora a procedimenti o è solo un detenuto definitivo? SCARANTINO: No, sono definitivo, più sottoposto a procedimento per calunnia. Avvocato Lipera: Allora intendo rendere dichiarazione, preciso di essere a conoscenza di essere sottoposto a processi penali, più di uno? SCARANTINO:No, per il momento uno per calunnia. Avvocato Lipera: Di essere sottoposto a procedimento penale … SCARANTINO:Per depistaggio. Avvocato Lipera: Procedimento penale per calunnia e depistaggio e questo processo pende, sa dove pende? Davanti a quale Autorità Giudiziaria pende? SCARANTINO:All’Autorità Giudiziaria di Caltanissetta. Avvocato Lipera: Pendente avanti l’Autorità Giudiziaria di Caltanissetta, riguardante i fatti di cui alla strage di Via D’Amelio. Scendiamo, andiamo avanti, preciso inoltre di essere detenuto definitivo, no? SCARANTINO:Sì, sì. Avvocato Lipera: Detenuto definitivo sempre per la strage di Via D’Amelio? SCARANTINO:Sì, per la strage di Via D’Amelio, ma per calunnia e per droga. AVVOCATO LIPERA Di essere detenuto definitivo sempre per la strage di Via D’Amelio, per calunnia e per droga. SCARANTINO: Io, ho detto la verità, che io non so niente della strage, l’ho detto che non so niente della strage. AVVOCATO LIPERA: Questo dopo lo disse, prima aveva detto… SCARANTINO: Sì, sì. AVVOCATO LIPERA: Basta … AVVOCATO LIPERA: Allora Sig. Scarantino, cosa succede? A gennaio esce questo libro, ora io glielo leggo, sono due pagine, lei ha letto questo libro? SCARANTINO: No.
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AVVOCATO LIPERA: ora io glielo leggo con calma. Se qualcosa non la capisce me lo dice, dopo di chè … COSSARI: Gli avvisi. AVVOCATO LIPERA: Gli avvisi li abbiamo fatti?Ah, ecco facciamo gli avvisi. Allora Sig. Scarantino questo l’abbiamo già fatto ma glielo leggo … Lei ha l’obbligo di dichiarare se è sottoposto ad indagini, dire se è imputato nello stesso procedimento, di un procedimento connesso, collegato , ha facoltà di non rispondere, lei invece ha detto “intendo rispondere” … SCARANTINO: Sì. AVVOCATO LIPERA: Nessun quesito sarà rivolto in ordine al contenuto della domande eventualmente già in precedenza formulate dalla Polizia Giudiziaria o dal Pubblico Ministero, risposte … la responsabilità penale conseguente a false dichiarazioni e lei ha detto “intendo rispondere”, ok, allora le leggo il contenuto di questo libro da cui poi usciranno le domande. Chi scrive è il Dott. Ingroia, lei l’ha conosciuto il Dott. Ingroia? SCARANTINO: Sì, sì. AVVOCATO LIPERA: “Ho conosciuto tanti collaboratori che sapevano sia del progetto di eliminare Paolo a Marsala, poi abbandonato, sia dell’attentato poi realizzato a Palermo, mai però avevo interrogato qualcuno degli esecutori materiali di Via D’Amelio. Avevo interrogato per la verità Vincenzo Scarantino che si era autoaccusato di aver organizzato il furto della FIAT 126 usata come autobomba in Via D’Amelio. Indagini più recenti della Procura di Caltanissetta sembrano comunque aver definitivamente smascherato Scarantino come depistatore e falso pentito. Già allora Scarantino mi lasciava perplesso perché c’era qualcosa in lui che a pelle non mi convinceva. Lo interrogai una sola volta ricevendone una sensazione sgradevole, l’attribuivo al disagio di trovarmi di fronte un probabile complice dell’omicidio di di Paolo, ma forse percepivo qualcos’altro. Era stato Scarantino a reclamare la presenza della Procura di Palermo mettendo sul piatto due temi di prova apparentemente appetitosi, nuove accuse a carico di Bruno Contrada, Alto Funzionario dei Servizi di Sicurezza, all’epoca già inquisito in custodia cautelare per concorso esterno in associazione mafiosa ed addirittura dichiarazioni che coinvolgevano il già allora Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi in oscure vicende di traffico di stupefacenti. Le dichiarazioni a carico di Contrada erano minuziose e precise, apparentemente riscontrabili. Quelle che riguardavano Berlusconi invece erano generiche e sostanzialmente indimostrabili. Rimasi perplesso, osservavo con attenzione Scarantino, lo fissavo negli occhi, ma il suo sguardo era sfuggente, elusivo, non mi piaceva, non mi convinse né mi sembrava plausibile il personaggio nel suo complesso. Era evidente che si trattava di un criminale di infimo livello. Possibile che sapesse cose tanto rilevanti? Possibile che Cosa Nostra avesse affidato ad un tale personaggio la delicatissima fase di preparazione ed organizzazione della strage di Via D’Amelio? Tuttavia era mio dovere di cercare di riscontrare il riscontrabile e così feci. Diedi incarico alla Polizia Giudiziaria di svolgere gli approfondimenti sulle vicende citate da Scarantino riguardanti la competenza della Procura di Palermo. L’esito fu sconfortante. Le dichiarazioni accusatorie in merito a Contrada erano riscontrate ma solo in apparenza, nel senso che in realtà i fatti riferiti da Scarantino erano accaduti e presentavano delle anomalie, ma non era stato acquisito alcun riscontro che si potesse considerare individualizzante a carico di Contrada. Nulla cioè era emerso che potesse
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collegare quelle anomalie con Contrada a parte le dichiarazioni stesse di Scarantino. Si trattava dunque di riscontri apparenti”. Finisce qua, poi quello che ne fanno loro è un altro argomento. Detto questo, lei ha conosciuto il Dott. Contrada? SCARANTINO: No. AVVOCATO LIPERA: Quindi non ha mai avuto rapporti di nessun genere. Lei sa quali incarichi istituzionali ha ricoperto il Dott. Contrada? SCARANTINO: No. AVVOCATO LIPERA: Lei quando ha sentito parlare per la prima volta del Dott. Contrada? SCARANTINO: Ma io … prima voglio precisare una cosa. AVVOCATO LIPERA: Prego a lei. SCARANTINO: In parte il Dott. Ingroia dice la verità, in parte, infatti io non sono, non lo ero e non lo sono, uomo d’onore o mafioso, ero un piccolo … AVVOCATO LIPERA: Scusi un attimo, comincia a scrivere tutto quello che dice. SCARANTINO: In parte, io non sono stato un mafioso e non lo sono stato mai, è vero che io avevo, vendevo le sigarette e certe volte vendevo la droga per coprire le spese delle sigarette perché mi sequestravano tutte queste cose e come si sa io ho detto la verità, ho già detto la verità, per quanto riguarda la strage del Dott. Borsellino però non è che io avevo tutto questo interesse di depistare o di dire una bugia sulla strage di Borsellino. Perché io sono stato sia a Busto Arsizio sia a Pianosa a 41 bis senza televisione, senza completamente, vegetativo, purtroppo dopo è cominciata a depressione, ho cominciato a perdere u cervellu, e dopo diciamo, forti pressioni psicologiche, tutte queste cose dovevo diventare il clono di Buscetta, dovevo essere io Buscetta nuovo, dopo si vede che, io non è che avevo nessuna intenzione di depistare, io si è vero che ho fatto delle dichiarazioni su dott. Contrada però non è che diciamo oggi potrei dire no ho letto nel giornale, m’inventavo tutte cose, però non è vero, penso che non è giusto perché io onestamente nel 92 – 93 non ho mai letto niente del Dott. Contrada, del Dott. Contrada cominciai a leggere nel 94 in poi, nel 94 in poi, diciamo dopo a collaborazione che sono uscito cominciai qualche volta a sentire qualcosa nel telegiornale perché io era senza televisione a Pianosa sono stato 11 mesi proprio in una cella senza niente, senza giornali, senza televisione, senza radio, niente, neanche il Vangelo mi volevano dare, però per quanto riguarda queste cose io mi ricordo perché sono ricordi molto lontani, si parla forse di 30 anni fa, non è che io mi ricordo tante cose bene, però il discorso del Dott. Contrada è entrato così che quando mio fratello Domenico si è sposato e hanno, abbiamo fatto una festicciola nella casa del suocero di mio fratello e dove che è arrivato mio fratello che Pietro Aglieri accompagna mio fratello Rosario in questo matrimonio dell’altro mio fratello. Pietro Aglieri non è che era quello di oggi, Pietro Aglieri era un ragazzo di 20 anni, 22-23 anni, dopo anni è stato arrestato mio fratello Domenico, è stato arrestato dalla Polizia, mio fratello Domenico che gli hanno sequestrato dei soldi e questo filmino. AVVOCATO LIPERA: Mi scusi se la interrompo un attimo, io non voglio sapere tutta la storia, perché non mi interessa in realtà. Volevo focalizzare la sua attenzione su questa cosa. SCARANTINO: Si è questa cosa. AVVOCATO LIPERA: Nel libro leggo che lei rese dichiarazioni contro Bruno Contrada …
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SCARANTINO: Sì, sì. AVVOCATO LIPERA: E contro Silvio Berlusconi. SCARANTINO: Sì, sì. AVVOCATO LIPERA: La domanda è questa, non so se lei l’ha saputo, ora glielo dico perché c’è scritto nel libro, gliel’ho letto poco fa “feci un’attività di riscontro attraverso la Polizia Giudiziaria e l’esito di queste accuse fu negativo …” SCARANTINO: Sì, sì. AVVOCATO LIPERA: Anzi il Dott. Ingroia lo definisce “sconfortante”. SCARANTINO: Sì, sì. AVVOCATO LIPERA: A me difensore di Bruno Contrada, perché ho un ruolo ben preciso, mi è venuta spontanea la domanda di pensare se queste accuse che fece Scarantino erano accuse non vere, non fondate, non vorrei, questa è la domanda che io le faccio, che qualcuno le abbia suggerito di accusare il Dott. Contrada? SCARANTINO: Qualcuno mi ha detto di non farlo, che perché era giorni prima dell’interrogatorio dei Magistrati il Dott. La Barbera mi aveva detto non dire queste cose ai Magistrati, non li dire, perché io ho affrontato questo discorso col Dott. La Barbera prima dell’interrogatorio dai Magistrati, giorni prima qualche giorno prima. AVVOCATO LIPERA: Lei lo vedeva spesso La Barbera? SCARANTINO: Sì, sì, lo vedevo spesso perché dovevamo … ed io gli ho detto questo fatto che come io stavo dicendo però io non è che posso dire che ho conosciuto al Dott. Contrada, ho detto per me, per me, erano lui … la verità per me. AVVOCATO LIPERA: La mia domanda è più specifica, sapere se qualcuno, lei ha detto poc’anzi, io per la strage di Via D’Amelio mi era accusato ma ero innocente. SCARANTINO: Sì, sì. AVVOCATO LIPERA: L’ha detto lei? SCARANTINO: Sì, sì. AVVOCATO LIPERA: Benissimo! La domanda è, non lo voglio sapere, perché non è il processo che mi riguarda, posso immaginare qualsiasi cosa, probabilmente qualcuno le ha suggerito di autoaccusarsi o, non mi interessa. SCARANTINO: Questo è scontato. AVVOCATO LIPERA: Parliamo ora di Contrada. Siccome lei dice, si legge nel libro, lo ha accusato il Dott. Contrada, come accusa anche Silvio Berlusconi, qualcuno gli suggerì di accusare a Berlusconi? Gli suggerì di accusare Bruno Contrada? SCARANTINO: No, no. Queste due cosa no, no , queste due cose no. Diciamo tutto il resto, il fatto della strage, gli omicidi, cose, perché io lo dicevo al Dott. La Barbera ca io non sugnu, non ero mafioso, vedi che io … l’Avvocato, l’Avvocato Petroni lo sa che io ca capa stavo fuori … e lui mi rispose che se l’Avv. Petroni aveva partecipato pure a strage, avevano arrestato i miei fratelli, avevano arrestato mio cognato, il Dott. La Barbera mi faceva capire ca arrestavano a mia madre, a mio padre, mio padre è morto. AVVOCATO LIPERA: Le faceva capire, vuol dire lo minacciava? SCARANTINO: No, io siccome comu è statu stu fattu ca io innocente, che quello Andreotti mi ha accusato ingiustamente .. AVVOCATO LIPERA: Chi? SCARANTINO: Andreotti mi ha accusato ingiustamente.
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AVVOCATO LIPERA: Andreotti? SCARANTINO: … Manduca mi accusavano ingiustamente perché io non sapevo niente dopo hanno cominciato ad arrestare i miei fratelli, a cominciare a parlare di, di ricettazione, pu fattu, il fratello di Scarantino ricettazione, pu fattu da stragi di Borsellino. Tutte queste cose e quando è stato che io ho parlato con il Dott. La Barbera io gli ho detto che vedi che io non c’entro niente ca strage … AVVOCATO LIPERA: E lui che diceva? SCARANTINO: Ci dissi, vidi che Andreotti mi ha detto che ero implicato. AVVOCATO LIPERA: Ma lei La Barbera quante volte lo incontrò? SCARANTINO: Io non mi ricordo bene, 6,7 volte. AVVOCATO LIPERA: 6,7 volte? SCARANTINO: Diciamo dopo ca l’interrogatorio con la Dott.ssa Boccassini, qualche giorno prima è venuto che io ho detto questo fatto, però … AVVOCATO LIPERA: Lei quando fu a Pianosa? SCARANTINO: Io sono stato trasferito da Busto Arsizio a Pianosa nel settembre del 93. AVVOCATO LIPERA: Fu a Pianosa da settembre del 93 fino al? SCARANTINO: Fino al giugno del 94. AVVOCATO LIPERA: Aveva il 41 bis? SCARANTINO: Sì, sì, 41 bis però particolare. AVVOCATO LIPERA: Isolatissimo quindi. SCARANTINO: Sì, isolato eh … AVVOCATO LIPERA: Riceveva soltanto i poliziotti? SCARANTINO: Sì, sì, diciamo il Dott. La Barbera ed un altro, un commissario, non mi ricordo. AVVOCATO LIPERA: Come si chiamava non se lo ricorda? SCARANTINO: Non mi ricordo, era un bell’uomo, occhi azzurri, alto, ma non mi ricordo. AVVOCATO LIPERA: Ma se lei poco fa ha detto “non l’ho mai conosciuto il Dott. Contrada, mai avuto rapporti col Dott. Contrada” da dove gli è venuto di accusarlo al Dott. Ingroia? SCARANTINO: E’ questo, stavo arrivando a questo diciamo, quando è stato che hanno sequestrato questo filmino a Polizia, che hanno arrestato mio fratello, mio fratello Rosario, si è attivato a cercare a Pietro Aglieri che l’ha incontrato a la Guadagna. Che gli ha detto questo fattu do filminu e Pietro Aglieri gli ha detto vabbè non ti preoccupare che ora me la sbrigo io, ne parlo con, non mi ricordo, dopo che diciamo ne ho commentato con mio fratello, perchè diciamo con mio fratello è uscito u fattu do funzionario, stu Dott. Contrada però io non l’ho mai conosciuto, prima del mio arresto sapevo solo questo Contrada che a me, che è un nome … AVVOCATO LIPERA: Senta qualche funzionario di Polizia o qualcuno dell’Arma dei Carabinieri, lei ha avuto contatti solo con la Polizia o anche con i Carabinieri? SCARANTINO: Solo con la Polizia. AVVOCATO LIPERA: Qualche funzionario della Polizia gli ha mai parlato di Contrada? SCARANTINO: No, gli ho parlato a Pianosa, e mi ha detto, dici, non dire questa cosa ai Magistrati, parliamo solo delle indagini che abbiamo. AVVOCATO LIPERA: Lei ha mai avuto colloqui investigativi che non sono stati verbalizzati con i funzionari di Polizia?
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SCARANTINO: Sì, sì, tutti. AVVOCATO LIPERA: Ha conosciuto quindi Arnaldo La Barbera? SCARANTINO: Sì, sì. AVVOCATO LIPERA: Lei ha conosciuto Arnaldo La Barbera? SCARANTINO: Sì, sì. AVVOCATO LIPERA: Vincenzo Licciardi? SCARANTINO: Sì, sì. AVVOCATO LIPERA: Salvatore La Barbera? SCARANTINO: Sì. AVVOCATO LIPERA: Roberto Di Ligami? SCARANTINO: No. AVVOCATO LIPERA: Non le dice niente. E lei ricorda di avere parlato con questi del Dott. Contrada? SCARANTINO: Col dott. La Barbera. AVVOCATO LIPERA: Solo con La Barbera? Senta lei ha conosciuto Buscetta Tommaso? SCARANTINO: No, no. AVVOCATO LIPERA: Gaspare Mutolo? SCARANTINO: No. AVVOCATO LIPERA: Rosario Spatola? SCARANTINO: No. AVVOCATO LIPERA: Pino Marchese? SCARANTINO: No. AVVOCATO LIPERA: Salvatore Gangemi? SCARANTINO: No. AVVOCATO LIPERA: Francesco Marino Mannoia? SCARANTINO: Sì, qualche volta l’ho visto alla Guadagna. AVVOCATO LIPERA: L’ha visto, ha avuto rapporti? SCARANTINO: Una volta ci siamo, ci siamo andati a comprare le sigarette. AVVOCATO LIPERA: Francesco Onorato? SCARANTINO: No, mai. AVVOCATO LIPERA: Giovanbattista Ferrante? SCARANTINO: No. AVVOCATO LIPERA: Angelo Siino? SCARANTINO: No. AVVOCATO LIPERA: Giovanni Brusca? SCARANTINO: No. AVVOCATO LIPERA: Antonino Giuffrè? SCARANTINO: Non lo conosco. AVVOCATO LIPERA: Gaetano Costa? SCARANTINO: Non lo conosco. AVVOCATO LIPERA: Salvatore Cocuzza? SCARANTINO: Non lo conosco. AVVOCATO LIPERA: Francesco Di Carlo di Altofonte? SCARANTINO: No. AVVOCATO LIPERA: Quindi non li ha mai conosciuti. E’ vero che Salvatore Profeta e Pietro Aglieri ritenevano che il Dott. Contrada fosse uno spione che dava notizie alla mafia? SCARANTINO: Io, non è che con me ne parlavano come fosse, io diciamo, dopo ne commentavo con mio fratello, mio fratello era più aperto, non è che
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mio fratello parlava con un estraneo parlava con suo fratello commentavano stu fattu, ma non lo so, non mi ricordo di stu fattu … AVVOCATO LIPERA: Lei ha mai chiesto a qualche magistrato di voler andare a testimoniare al processo Contrada? SCARANTINO: No. AVVOCATO LIPERA: Con altri detenuti a Pianosa non ha mai parlato di Contrada? SCARANTINO: No, io ero sempre isolato, io era tutto particolare, il mio 41 bis per motivi di sicurezza … AVVOCATO LIPERA: Nella valigetta 24 ore sequestrata dalla Polizia in casa di suo fratello Domenico nell’85 c’erano fotografie di Carlo Greco? E’ una domanda. SCARANTINO: Non mi ricordo, non mi ricordo. AVVOCATO LIPERA: Lei non le ha mai viste queste foto? SCARANTINO: No. AVVOCATO LIPERA: Né sa perché erano ritenute compromettenti queste foto? SCARANTINO: Non lo so. AVVOCATO LIPERA: Non lo sa. SCARANTINO: Non ho idea. AVVOCATO LIPERA: Le faccio una domanda specifica, la prego di prestare molta attenzione: “conosce qualcuno che aveva motivi di odio o risentimento nei confronti del Dott. Bruno Contrada? Per torti, ingiustizie subite, per qualsiasi altro motivo? SCARANTINO: No, questo no. AVVOCATO LIPERA: Ma negli ambienti carcerari, quelli che lei ha avuto modo di frequentare, cosa si diceva del Dott. Contrada? SCARANTINO: Io, sempre isolato sono stato, nel 92, tra il 92 al 94, sono stato sempre isolato, sorveglianza 24 ore. AVVOCATO LIPERA: Gliela posso fare una domanda? Lei che idea si è fatta del processo Contrada? A suo parere è colpevole o innocente? SCARANTINO: Non lo so, per me, io sono già quasi 20 anni che sono in carcere e non è sicuro che a 20 anni che è stato in carcere per causa mia. AVVOCATO LIPERA: No, nessuno, no assolutamente! Questo no! SCARANTINO: Io purtroppo ero una persona, sono diventato una persona fragile, dopo mi vinni a depressione. AVVOCATO LIPERA: Ora come sta? SCARANTINO: Sono tranquillo ormai. AVVOCATO LIPERA: Ora quanti anni ha lei? SCARANTINO: 46. AVVOCATO LIPERA: Era giovane allora? SCARANTINO: Giovane. AVVOCATO LIPERA: Senza fare nomi, senza fare assolutamente nomi, qualcuno l’ha spinto o sollecitato ad accusare Contrada? SCARANTINO: No, gliel’ho detto Avvocato! L’unico che io ne ho parlato è … ma sicuramente qualcuno c’era che non l’aveva a simpatia, però diciamo per quanto riguarda io ne ho parlato col Dott. La Barbera, lui mi ha detto di non ne parlare di questo ma dobbiamo parlare di quello che abbiamo fatto vedere.
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AVVOCATO LIPERA: Ma, quindi, personalmente a lei, per cognizione diretta, che non gliel’abbiano detto gli altri, a lei personalmente, per averlo visto o sentito personalmente, a carico del Dott. Contrada risulta qualcosa? SCARANTINO: Per me, che io, che mi fosse detto a me direttamente a me. AVVOCATO LIPERA: Direttamente a lei. SCARANTINO: In presenza a me non mi hanno detto niente. AVVOCATO LIPERA: Niente. Lei ha da dire qualcosa a favore o contro il Dott. Contrada? SCARANTINO: Io, non lo conosco anzi quando qualche volta, mi ricordo nel 95, nel 95 che si parlava na parrucchieria si eran sentiti commenti su nel negozio di parrucchieria, però io non lo conosco, anzi, spero che si faccia luce supra stu cristianu una persona, però io non avevo … AVVOCATO LIPERA: Ma allora, mi perdoni, lei all’epoca perché fece queste dichiarazioni al Dott. Ingroia? SCARANTINO: Mah, io quello che, il fatto era che avevo detto, mi ho accusato, non sempre per volontà mia, ingiustamente, mi hanno coinvolto in questa situazione, per me era diciamo erano tutte bugie e l’unica cosa che io avevo sentito erano … AVVOCATO LIPERA: Quindi lei lo sapeva che erano bugie? Voleva conquistarsi un ruolo particolare? SCARANTINO: No, loro mi volevano fare sentire importante, AVVOCATO LIPERA: Lei accusò anche Berlusconi. SCARANTINO: Si. AVVOCATO LIPERA: E lo sapeva che erano bugie o no? SCARANTINO: No, questo no, non sono bugie. AVVOCATO LIPERA: Non sono bugie? SCARANTINO: No, non sono bugie, io ho detto quello che ho sentito, poi se sono bugie non lo so. Qua si parla di anni del 79, i tempi di Luciano Liggio. AVVOCATO LIPERA: Che? SCARANTINO: I sequestri, Milano. AVVOCATO LIPERA: Beh, ma lei nel 79 era un ragazzino. SCARANTINO: Io ero un bambino ma li ho sentiti nell’86, però io non … AVVOCATO LIPERA: Ma lei è nato a Palermo no? SCARANTINO: Sì, sì. AVVOCATO LIPERA: E’ vissuto a Palermo, sempre a Palermo? SCARANTINO: Alla Guadagna. AVVOCATO LIPERA: Beh, Palermo, insomma, Palermo non è New York, in una città, si ci conosce tutti, nell’ambiente, lei lo sa che il Dott. Contrada fu Capo della Squadra Mobile, insomma, penso che era conosciuto negli ambienti. SCARANTINO: Oggi, diciamo so chi è, chi era, prima, all’epoca ho sentito dire di stu fattu però, io non è che dico no, il Dott. Contrada ha fatto questo, questo e questo. AVVOCATO LIPERA: Insomma, ma se nell’ambiente c’era un poliziotto corrotto, quindi amico dei picciotti, sta cosa all’orecchio sarebbe venuta fuori no? SCARANTINO: Sì, sì. AVVOCATO LIPERA: E’ una mia deduzione questa, non la voglio assolutamente impressionare o comunque … SCARANTINO: Come infatti c’è stato un episodio che venne la Polizia, non voglio dire il Dott. Contrada, quello che ho detto ho detto del Dott. Contrada.
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AVVOCATO LIPERA: Cosa disse del Dott. Contrada? Cosa disse del Dott. Contrada, se lo ricorda? SCARANTINO: Che ho sentito solo il nome, un funzionario è Contrada, solo questo, non è che ho sentito altre cose, però diciamo che nell’86 ricordo che a causa di, poi è scappato Ignazio Pullarà, che abitava, diciamo dormiva, diciamo stava u po’ da mio fratello, c’è stata a soffiata da Polizia, lo ha fatto scappare, però diciamo che quello perché l’ho detto? Che tutti sti bugie, che non era vero niente, dopo ho detto, dissi vabbè io dico, io lo dico ai Magistrati e ho detto ai Magistrati questo fatto qua, però non posso dire che io sono andato a trovare il Dott. Contrada, Dott, Contrada mi ha dato una cosa, c’ho dato una cosa niente, so che ho sentito il nome. AVVOCATO LIPERA: Vuole, ha qualcosa da dire ancora? SCARANTINO: No. AVVOCATO LIPERA: Le interessa dichiarare qualcosa? Non lo so. Lei sta ricordando col senno del poi, oggi siamo nel 2011, lei queste dichiarazioni le fece quasi 20 anni fa. SCARANTINO: Quasi 20 anni fa. AVVOCATO LIPERA: Lei sapeva che le dichiarazioni che lei aveva fatto contro Bruno Contrada erano state sottoposte al vaglio di indagini di Polizia Giudiziari? SCARANTINO: No AVVOCATO LIPERA: Non l’ha saputo mai? SCARANTINO: No, almeno che mi ricordi, no. AVVOCATO LIPERA: Lei era collaborante all’epoca, era pentito ufficiale all’epoca no? AVVOCATO LIPERA: C’è stato un momento della sua vita carceraria che lei era pentito no? SCARANTINO: No, dopo quell’operazione sono uscito. AVVOCATO LIPERA: Lei, fece la collaborazione e poi uscì dal carcere? SCARANTINO: Sì, dopo qualche mese. AVVOCATO LIPERA: Come? SCARANTINO: Arresti extracarcerari.. AVVOCATO LIPERA: Questo quando avvenne? Questo? SCARANTINO: No, era nel luglio, fine agosto. AVVOCATO LIPERA: Di che anno? SCARANTINO: Nel 94 AVVOCATO LIPERA: Nel 94? SCARANTINO: Dopo nel 95 ho telefonato ai giornalisti che ho detto che non era vero niente, di quello, per quanto riguarda a strage di Via D’Amelio. Che ho telefonato all’Italia Uno, dopo diciamo si sono aggiustate di nuovo le cose, però diciamo io quando, quando loro mi portavano a processo i magistrati mi facevano sentire tipo ca era una persona importante, quando io parlo con il magistrato, pu pu pu … che i magistrati erano gentili, persone perbene, dopo che me ne andavo, finito l’interrogatorio andavo a casa tutto quello che facevo piangevo come un neonato perché avevo dei rimorsi. Tante persone sono state, oggi lo capisco, perché sono state persone che ho accusato ingiustamente, almeno tutte quello che ho accusato, sono state accusate da me ingiustamente e penso che non ho avuto quella gioia di vedere crescere i figli, ma io il perché lo so perché non sto vedendo crescere i miei figli ed i miei figli AVVOCATO LIPERA: Quanti figli ha lei?
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SCARANTINO: Tre. Però ed è brutto non vedere crescere, propri figli per un’infamità AVVOCATO LIPERA: Certo. Senta queste dichiarazioni contro il Dott. Contrada lei le fece che era ancora detenuto o era già, o aveva già ottenuto, aveva già ottenuto questa libertà, diciamo? SCARANTINO: Ero ancora detenuto. Mi sembra che feci interrogatorio. AVVOCATO LIPERA: E dove lo fece quest’interrogatorio? SCARANTINO: A Pianosa. AVVOCATO LIPERA: A Pianosa? SCARANTINO: In che anno non mi ricordo bene. AVVOCATO LIPERA: (Vuoi fare qualche domanda tu?) L’Avv. Difensore vuol fare qualche domanda? AVVOCATO DIFENSORE: No. AVVOCATO LIPERA: Tu hai qualche idea? (Mi pare che ha risposto a tutto quello che …). Mi scusi le ho fatto tante volte questa domanda, gliela ripeto per l’ennesima volta. E’ sicuro che nessuno lo spinse mai a parlare male di Contrada? E’ sicuro di questo? Oppure c’è stato un momento della sua vita dell’epoca che lei viveva tutti questi drammi di accusare sapendo che era innocente, in cui pensò: “accuso un po’ di gente così riacquisto la libertà? Fra questi ci metto anche il Dott. Contrada? SCARANTINO: No, io l’unica cosa che, diciamo, mi ha spinto questo fatto nonostante il terrorismo psicologico che hanno fatto nei miei confronti. AVVOCATO LIPERA: Chi gliel’ha fatto? SCARANTINO: La Polizia, o carcere di Pianosa si sa cos’è, ti pisciamu nda pasta, ti mittivanu i pila nda pasta, non mangiava, pesava 110 chili quando mi hanno arrestato, pesavo 110 chili quando sono andato a Termini Imerese pesavo 58 chili. AVVOCATO LIPERA: Madonna mia! SCARANTINO: Forse l’unica cosa di positivo che ho buttato tutti questi chili non ne dovevo buttare, l’unica cosa che a me mi ha spinto questa parte, di accettare, a prestarmi di dire queste cose per andare via da Pianosa avrei fatto arrestare pure mia madre! AVVOCATO LIPERA: Si stava proprio male a Pianosa? SCARANTINO: Certamente perché purtroppo su di me avevano carta bianca e potevano fare, m’ammazzavano, mi mettevano nu cungelaturi, poi mi scioglievano, i cosi, i graffi, cosi, tutte queste cose, diciamo Busto Arsizio un detenuto però diciamo dopo che ero andato a Pianosa cominciai a pensare tutte queste cose che c’è stato pure qualcuno ca ha detto che mi stavo impiccando quasi che non era vero niente chianceva quando voleva parlare con Dott. La Barbera mi facevano le dopo, e la cena mi facevano le punture che io pareu u zombi, quannu camminavu avevu persu ogni minimo di dignità, aveva persu tutta a dignità che un essere umano poteva aviri, non avea nessuna cosa, docu propria se n’è andato quando poi a Dott.ssa Boccassini subito ho detto ca valeva andare via do carcere di Pianosa senza televisione, senza … una stanzetta così. AVVOCATO LIPERA: Ma non vedeva i parenti? La moglie? I figli? Non incontrava i parenti? SCARANTINO: Sì, ma li incontrai dopo settembre, ottobre, novembre, sono stato due mesi sembravo un sequestrato, sembravo un sequestrato e non mi
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arrivava posta, non mi arrivavano telegramma, niente, dopo ho saputo dopo tre anni che hanno arrestato a mio cognato e che … AVVOCATO LIPERA: Suo cognato chi era? SCARANTINO: Profeta, che avevano detto che Scarantino ha svuotato il sacco, è venuto mio cognato a corrompermi, mio cognato, il fratello di mia moglie che mi ha detto … dai … chi è arristano a Totò … a Toto? Io sono rimasto, subito io ho detto a mè cognato, pronto, vattenni, vattinni, ca pure a tia arrestunu, ci dicono a mè cugnatu perché avevano carta bianca, avevano carta bianca ed io dovevo essere Buscetta perché me l’aveva detto La Barbera, Buscetta, i picciuli, tantu, si però io me nevoglio andare da qua, non è che u fattu, po’ dopo u fattu da possibilità di andare da extracarcerario diciamo potevo godermi a vita, stare tranquillo, poi apriri un’attività, a casa pè fatti miei, apriri macari albergu qualsiasi cosa però pensavu sta genti in galera ed io ero una persona propria fragile, facilmente influenzabile e quando io diceva a Polizia, perché c’era a Polizia con me, qualcuno mi diceva i tò figli, to mugghieri, tu sei un bell’uomo e tua moglie è una bella donna e tutte queste cose che ritornavano sempre le bugie. AVVOCATO LIPERA: Carabinieri mai, solo Polizia? SCARANTINO: No Carabinieri, ho avuto i Carabinieri sotto protezione però diciamo sempre extracarcerato. AVVOCATO LIPERA: Colloqui investigativi solo, chiamiamoli così, solo con la Polizia? SCARANTINO: Sì, sì. AVVOCATO LIPERA: Ma il sentore che qualcuno avesse invidia nei confronti di Contrada, odio nei confronti di Contrada. SCARANTINO: Qualcuno ne parlava pure male. AVVOCATO LIPERA: Della Polizia? SCARANTINO: Sì, perché io sempre era ca Polizia, sicuramente. AVVOCATO LIPERA: E lei il più alto vertice che ha incontrato della Polizia è stato La Barbera? SCARANTINO: Sì, Sì. AVVOCATO LIPERA: Sopra alla Barbera nessuno? Nessun’altro? SCARANTINO: Di questo è alto, un bell’uomo, occhi azzurri, non mi ricordo come si chiama e dopo che sono uscito, diciamo, dopo che sono uscito, diciamo, da extra carcerato, vedevo al Dott. Licciardi, al Dott. Salvatore La Barbera, venivano nella casa là, tutte queste cose, però io non avevo nessun motivo di depistare. AVVOCATO LIPERA: Ora lei è in carcere ininterrottamente da quanto tempo? SCARANTINO: Io dal 98. AVVOCATO LIPERA: Dal 98 ininterrottamente? SCARANTINO: Ininterrottamente, più diciamo u fattu ca sono uscito dopo 3 anni e 4 mesi da Pianosa, siamo quasi 18 anni che sono ca’. AVVOCATO LIPERA: Va bene, poi lo correggiamo. E’ tutto registrato quindi non può … però lo leggiamo tanto per … AVVOCATO LIPERA: Diamo atto che alle ore 11 e 12 si interrompono le registrazioni, passiamo a stampare il verbale sommario … Possiamo chiudere la registrazione? Non deve dire nient’altro? SCARANTINO: No. AVVOCATO LIPERA: Ok.
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Sin qui la “riesumazione” fedele di SCARANTINO, che,
considerato che è ancora in vita, è cosa diversa della riesumazione
della salma del “mitico” bandito Salvatore Giuliano.
Ad un attento osservatore tante cose non dovrebbero sfuggire e
certamente non sfuggono.
È ovvio che, data la inaffidabilità del personaggio, tante verifiche
andrebbero fatte e ancora si possono fare.
Non ultimo cercare di sapere con chi ebbe questi colloqui
investigativi, non verbalizzati, e in che periodo (PIANOSA è stato
chiuso, ma da qualche parte ci saranno dei registri dove venivano
annotati i nominativi di chi entrava ed usciva dal supercarcere).
Super impegnato SCARANTINO alle propalazioni sulla strage di
Via D’Amelio, poi rinnegate, chi glielo porta a parlare di Bruno
Contrada e sinanco di Silvio Berlusconi?
Sostiene erroneamente l’ottimo Sostituto Procuratore Generale
che “appare problematico poter sostenere che la conoscenza di queste
dichiarazioni dello SCARANTINO e della conseguente attività di
riscontro con esito negativo, potesse giovare alla difesa del Contrada,
considerato che all’epoca non si avevano notizie che consentissero di
delinearne o di dimostrarne in processo la scarsa attendibilità”.
È chiaro che non è condivisibile l’assunto del P.G.: innanzitutto
la dimostrazione della scarsa attendibilità era già in re ipsa,
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considerato l’esito sconfortante delle indagini di Polizia,
secondariamente si ha prova, quantomeno significativo sospetto oggi
valido più che mai, che talune volte le carceri italiane, ove venivano
custoditi i “pentiti” o gli aspiranti tali, all’insaputa della stessa
Magistratura inquirente si trasformavano in veri e propri pentitifici di
Stato.
Non può il P.G. sostenere addirittura che se l’Ufficio requirente
del processo Contrada avesse versato in atti le dichiarazioni
accusatorie di SCARANTINO, ciò avrebbe “potuto paradossalmente,
persino incidere negativamente sulla detta posizione”, stesso P.G. che
non considera affatto “minuziose e precise (come invece si afferma nel
libro)” le dette dichiarazioni.
Insomma questo passaggio, con tutto il rispetto che nutriamo
verso il P.G. che ha formulato il parere a noi pare illogico e
contraddittorio e non è mera questione di principio.
Senza parlare poi del fatto che si sarebbe dovuto indagare
approfonditamente, cosa che non si è fatta, per cercare di sapere e di
capire chi aveva suggerito quelle bugie allo SCARANTINO, le cui
propalazioni – e su questo siamo d’accordo con il P.G. – “oltreché
infondate, erano piuttosto maldestre”.
Chi ci dice ad esempio che oltre a SCARANTINO anche altri,
che hanno contribuito a montare il chiacchiericcio, non siano stati
avvicinati o quantomeno psicologicamente indirizzati?
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Per questo la vicenda SCARANTINO è inquietante e dobbiamo
ringraziare il Padre Eterno che per puro caso ci ha fatto imbattere nella
lettura del “Il Labirinto degli Dei”.
Per il resto il parere del Procuratore Generale non ha bisogno di
lunghi commenti.
Il requirente ha liquidato con estrema semplicità gli altri elementi
nuovi offerti dalla Difesa con la domanda di revisione.
Ci riferiamo all’indagine psicodiagnostica e alla lettera del
Presidente Emerito della Repubblica Francesco Cossiga, due atti che il
P.G. liquida definendoli meri “giudizi, per quanto rispettabilissimi ”.
Andiamo con calma.
Francesco Cossiga non era quisque de populo (già Ministro
dell’Interno, già Presidente del Senato, già Presidente del Consiglio
dei Ministri), né una comare di quartiere.
Se il 7 novembre del 2007, dopo che la condanna contro Bruno
Contrada è res iudicata, e mentre il vecchio Generale si trova
rinchiuso dentro le patrie militari galere, Francesco Cossiga in un
documento scritto dichiara “conservo il miglior ricordo” di Bruno
Contrada ed ancora “Le sono grato se vorrà far pervenire al Dott.
Contrada i miei immutati sentimenti di amicizia e di solidarietà”, sta a
significare molto e anche qui il dubbio deve assalire le coscienze.
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Non è un giudizio rispettabile, bensì una testimonianza di chi sa e
di chi conosce uomini e cose, facile a dirsi è un giudizio.
La perizia psicodiagnostica deve essere confutata da studiosi del
livello di Paolo Crepet o di Francesco Bruno, i quali potranno dire,
avendone i titoli se quell’accertamento è una castroneria oppure una
novità scientifica che può offrire spunti di riflessione, li sì per un
eventuale giudizio.
Né dobbiamo dimenticare quale fu l’oggetto di imputazione, il
famigerato concorso esterno che ha già mietuto tante vittime
innocenti, che si può contrastare solo con una probatio diabolica,
come si sa espressione usata nel linguaggio processuale in tutte le
ipotesi in cui l'accertamento di un diritto o la dimostrazione di uno o
più fatti dipende da ricostruzioni probatorie estremamente complesse
o da procedimenti di derivazione logica basati su calcoli probabilistici.
Che non abbia ancora una volta ad aver ragione Alessandro
Manzoni quando scrisse: “Effetto comunissimo, a que’ tempi, dello
spirito di corpo, per il quale, ognuno, piuttosto che concedere che i
suoi predecessori avessero fallato, faceva suoi anche gli spropositi
che non aveva fatti” (Storia della Colonna Infame, Cap. VII, libro la
cui copia si trova nel cimitero monumentale di Milano, dentro la
stessa teca che contiene le ceneri del corpo cremato di Enzo
Tortora).”
Contestualmente si produceva e allegava: 1. Verbale di dichiarazioni rese da SCARANTINO Vincenzo il 9/6/11;
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2. DVD contenente video registrazione intergale delle dichiarazioni rese da
SCARANTINO Vincenzo il 9/6/11;
3. Trascrizione integrale della video registrazione;
4. DVD contente video registrazione intervista Bruno Contrada all’emittente
SKY, gennaio 2008, Carcere Militare.
A seguito di tutto questo, la Corte di Appello emetteva decreto di
citazione per il giudizio fissando l’udienza dell’8 novembre 2011 e l’imputato
CONTRADA Bruno veniva citato regolarmente a comparire.
Indi, così cosi come consente la Legge, nei termini previsti prima
dell’inizio del processo, la difesa depositava la seguente
LISTA TESTIMONIALE E CAPITOLI DI PROVA
(artt. 468 c.p.p.)
Il sottoscritto difensore del dott. BRUNO CONTRADA, in relazione al processo in epigrafe, chiede l’autorizzazione alla citazione dei testimoni di lista sotto indicati, in relazione ai capitoli di prova accanto a ciascuno di essi.
n. Nominativo teste Capitolo di prova Novità della
prova Rilevanza della prova
1. dr. Francesco Cirillo, in atto Vice capo della Polizia di Stato dr. Giovanni De Gennaro, Direttore del Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza, all’epoca dei fatti prima Vice Direttore e poi Direttore della DIA Generale dei Carabinieri Giuseppe Tavormina, già Capo della DIA
sui contatti avuti tra di loro, mentre si trovavano ristretti, tutti i collaboratori di giustizia che hanno accusato il dr. Bruno Contrada.
testimoni mai esaminati nel giudizio di cognizione
dimostrare che, in violazione del comma 14 dell’articolo 13 D.L. 15.01.1991, n. 8, conv. In L. 15.03.1991, n. 82, che statuisce espressamente il “divieto di un collaboratore di incontri con altre persone che collaborano con la giustizia”, i collaboratori di giustizia che hanno accusato il dr. Contrada ebbero “contatti” tra di loro e potettero scambiarsi informazioni, così compromettendosi irreversibilmente la genuinità e l’affidabilità, anche ai fini del reciproco riscontro, dei predetti c.d.g.
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n. Nominativo teste Capitolo di prova Novità della prova
Rilevanza della prova
Giovanni Mutolo, fratello di Gaspare MUTOLO Generale dei Carabinieri Francesco Valentini
2. Baladassarre DI MAGGIO REDA, già appartenente alla cosca di Giovanni BRUSCA LO CICERO Nicola LAZIO, figlio di Salvatore detto “chicchirllo” Tenente Colonnello di C.C. Sergio DE CAPRIO
tutti, per riferire sul fatto che il dr. Bruno CONTRADA NON favorì la latitanza di Salvatore RIINA
testimoni mai esaminati nel giudizio di cognizione
dimostrare che il dr. Bruno Contrada non attuò condotte di favoritismo a vantaggio di soggetti mafiosi in tema di rilascio di patenti e porto d’armi (favorito rinnovo di porto di pistola ad Alessandro Vanni Calvello), né condotte di agevolazione della latitanza di mafiosi (né in favore del capocosca di Partanna Mondello, Rosario Riccobono, né dello stesso Salvatore Riina, allorquando, “verosimilmente”, si sarebbe allontanato da Borgo Molara)
3. Ing. Luciano CASSINA Prefetto Piero Giulio MARCELLINO
entrambi, sull’assenza di rapporti e/o di frequentazioni del dr. Bruno Contrada sia con Stefano Bontade, sia con l’«intermediario» Cassina
testimoni mai esaminati nel giudizio di cognizione
dimostrare che il dr. Bruno Contrada non ebbe frequentazioni né con Stefano Bontade, né con il “sottocapo” Giovanni Teresi, né con l’«intermediario» Cassina
4. Avv. Michele COSTA del Foro di Palermo, figlio del magistrato Gaetano COSTA, Procuratore della Repubblica di Palermo
sui rapporti tra il dr. Bruno Contrada nei riguardi di familiari di magistrati, componenti delle FF.OO. e funzionari di Polizia
testimone mai esaminato nel giudizio di cognizione
dimostrare che il dr. Bruno Contrada non ebbe un ruolo “ambiguo” né nei riguardi di componenti delle Forze dell’Ordine, né di mogli di funzionari di polizia, né tenne condotte tali indurre “sospetti” e “diffidenze” nei suoi confronti
5. La vedova del pregiudicato Salvatore INZERILLO ucciso nel 1981
sulla condotta tenuta dal dr. Bruno Contrada in relazione alla “vicenda Gentile”, in particolare con riferimento alla perquisizione eseguita il 12.04.1980 presso l’abitazione del latitante Salvatore Inzerillo
testimone mai esaminato nel giudizio di cognizione
dimostrare che, in relazione alla cd. "vicenda Gentile", per la perquisizione diretta dal funzionario della Squadra Mobile di Palermo Renato Gentile, ed eseguita in data 12.4.1980 presso l'abitazione del latitante Salvatore Inzerillo, il dr. Contrada non manifestò alcun “monito” per la perquisizione eseguita
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n. Nominativo teste Capitolo di prova Novità della prova
Rilevanza della prova
6. L’ex magistrato Ferdinando IMPOSIMATO
perché venga posto a confronto con il dott. Bruno CONTRADA
Atto istruttorio MAI eseguito nel processo di cognizione
dimostrare che il dr. Bruno Contrada non agevolò l'allontanamento dall'Italia del mafioso americano John. Gambino
7. Dott. Alessandro GIULIANO, figlio del dr. Boris GIULIANO, in atto Capo della Squadra Mobile di Milano Dott. Salvatore PRESENTI, ex Questore di Genova Prefetto Francesco BERARDINO, già Capo della Segreteria Particolare del Capo della Polizia di Stato Parisi Magistrati dr. Gherardo COLOMBO e Giuliano TURONE
sui rapporti tra il dr. Bruno Contrada ed il compianto dr. Boris Giuliano, all’epoca in cui era in servizio presso la Squadra Mobile di Palermo
In particolare, i dott.ri COLOMBO e TURONE dovranno riferire sul fatto che Boris GIULIANO non ha avuto mai rapporti con AMBROSOLI
testimoni mai esaminati nel giudizio di cognizione
dimostrare che il dr. Bruno Contrada non ebbe rapporti critici e conflittuali con il dott. Boris Giuliano della Squadra Mobile di Palermo, poco prima della morte dello stesso, neppure con riferimento ad un incontro che il dr. Giuliano avrebbe avuto con l'Avv. Ambrosoli poco prima di essere ucciso
8. Luciano CASSARA’, fratello del compianto funzionario di P.S. Ninni CASSARA’
sui rapporti tra il dr. Bruno Contrada ed il dr. Ninni Cassarà, all’epoca dei fatti funzionario in servizio presso la Questura di Palermo
Testimoni mai esaminati nel giudizio di cognizione
dimostrare che il dr. Bruno Contrada non ebbe contrasti interpersonali, per ragioni di «contiguità» mafiosa, con i funzionari di Polizia Cassarà (riferiti dalla vedova Laura lacovoni in ordine ai sospetti sull'operato di Bruno Contrada e del dott. Ignazio D'Antone, collaboratore ed amico dell'imputato, condannato per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa con sentenza passata in giudicato), né con i dott.ri Montalbano e Montano
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n. Nominativo teste Capitolo di prova Novità della prova
Rilevanza della prova
9. Dott. Vincenzo
GERACI, in atto Sostituto Procuratore Generale presso la Corte Suprema di Cassazione Il padre di Oliviero TOGNOLI
sulla fuga da Palermo di Oliviero Tognoli
Testimoni mai esaminati nel giudizio di cognizione
dimostrare che il dr. Bruno Contrada non agevolò il 12.4.1984 la fuga da Palermo di Oliviero Tognoli, indagato per fatti di riciclaggio di capitali di origine mafiosa
10. dott. Aldo ZIINO, fratello di Gilda
sui rapporti tra il dr. Bruno Contrada e la famiglia Parisi, prima e dopo l’uccisione dell’ing. Parisi
Testimone mai esaminato nel giudizio di cognizione
dimostrare che gli “incontri” che il dr. Bruno Contrada ebbe con la signora Gilda Ziino vedova Parisi, il primo, il 23.2.1985, il giorno stesso dell'uccisione mafiosa dell'Ing. Parisi ed il secondo, il 7.2.1988, il giorno successivo alla deposizione resa dalla donna davanti al Giudice Istruttore dott. Giovanni Falcone non erano relativi a “contiguità” con la criminalità organizzata
11. Gustavo RAFFI, Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia – Palazzo Giustiniani, Via San Pancrazio 8, 00152 Roma Licio GELLI
entrambi sulla estraneità del dr. Bruno Contrada alla massoneria
testi mai esaminati nel giudizio di cognizione
dimostrare che il dr. Bruno Contrada non ha avuto rapporti con soggetti affiliati alla massoneria
12. Dott. Marco LIPERA, Psicologo Prof. Alessandro MELUZZI, Psichiatra Prof. Francesco BRUNO, Criminologo
TUTTI, sulla consulenza psicodiagnostica effettuata sulla persona del dott. Bruno CONTRADA, già versata in atti
testi MAI esaminati nel giudizio di cognizione
Dimostrare che la personalità del Dott. Bruno CONTRADA è inconciliabile con le accuse per cui è stato condannato.
13. dott. Antonio INGROIA Procuratore Aggiunto presso il Tribunale di Palermo
Dimostrare che vi furono collaboratori di giustizia che accusarono falsamente il dr. Bruno Contrada
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Tutto inutile perché poi all’udienza dibattimentale la Corte ha deciso con la
sentenza che con questo atto si impugna perché illegittima per come si cercherà di
dimostrare in avanti.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Prima di procedere alla compiuta trattazione delle ragioni su cui è fondata la
presente impugnazione, sembra opportuno svolgere alcune osservazioni che potranno
essere utili al corretto inquadramento dei vizi da cui è inficiata la pronuncia; perché
nel caso in esame si è spettatori non già -e non solo- di una statuizione difforme dalle
aspettative di chi attende instancabile una pronuncia di Giustizia, ma, prima ancora,
della creazione di un vero e proprio mostro giuridico che neanche un notevole sforzo
logico, prima ancora che giuridico, può riempire di significato.
Il provvedimento impugnato costituisce palese espressione di una spasmodica
ricerca -invero mal riuscita- di raccattare un qualsivoglia appiglio per “liquidare” al
più presto l’istanza promossa, sorvolando sulla (pur necessaria) valutazione della
resistenza del giudicato di fronte al compendio probatorio nuovo ed al suo innestarsi
sulle prove in precedenza assunte; e nel far questo, la pronuncia non solo non è stata
in grado di enucleare le ragioni giuridiche sulle quali ha inteso fondare la declaratoria
di inammissibilità ma, prima ancora, ha dato atto di non avere inteso assicurare
neanche il rispetto delle garanzie minime di Difesa del condannato. Provocando, in
tal modo, il netto capovolgimento delle norme processuali che presiedono al giudizio
di revisione.
Così, la Corte di merito:
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- ha dapprima espresso una valutazione favorevole, seppure implicita, circa
l’ammissibilità del mezzo, tanto che si perveniva in data 22.09.2011 alla emissione
del decreto di citazione ex art. 636 comma 1 c.p.p.;
- ha pertanto incardinato il giudizio di revisione in pubblica udienza fino alla
fase immediatamente precedente alla dichiarazione di apertura del dibattimento,
facendo presupporre -come vuole il codice di rito- che il vaglio preliminare di
ammissibilità fosse stato già ampiamente affrontato e superato;
- in via diametralmente opposta (e contraddicendo le medesime premesse
procedurali che avevano portato non solo alla pubblica udienza ma, in essa, ad
interloquire sulla novità della prova da assumere) ha poi operato una autentica
retromarcia processuale, decidendo -e in appena 25 minuti!- che il giudizio già
incardinato e pronto per la fase istruttoria fosse invece ..inammissibile;
-e ha infine espresso il proprio giudizio passando per la lesione ripetuta dei
diritti del condannato: adottando per il decisum …lo schema tipico della sentenza
(con ciò “dimenticando” che il disposto normativo non contempla un siffatto
provvedimento per le pronunce di inammissibilità ante-dibattimento); omettendo di
valutare (ma prima ancora di acquisire) l’intero compendio probatorio nuovo che il
ricorrente aveva offerto a sostegno dell’esito assolutorio; e ritenendo finanche inutile
disporre della prova assunta nel giudizio definitivo, accontentandosi invece della
valutazione di essa che era stata fatta propria dalla sentenza di condanna. La stessa
sentenza -si badi- della quale il condannato lamentava l’ingiustizia!
Certamente un merito alla pronuncia impugnata va riconosciuto: quello di aver
riscritto per l’occasione gli artt. 629 e seguenti del codice di rito in assenza di
intervento del Legislatore. Ed invero essa ha in un sol colpo travolto tutte le norme
procedurali in materia di revisione e, nel far questo, ha mostrato di disconoscere le
esigenze sottese al giudizio comprimendolo fino a contraddire la stessa ratio del
mezzo straordinario.
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Tutto ciò premesso, la sentenza impugnata merita di essere annullata per i
seguenti
M O T I V I
1. Violazione ex art. 606 comma 1 lett. b), c) ed e) c.p.p. in relazione agli artt.
631, 634, 636, 637 c.p.p., 3, 24, 111 Costituzione, 6 CEDU
Anzitutto la Corte di merito ha espresso il giudizio di inammissibilità fuori dal
momento processuale naturalmente destinato a tale decisione e in assenza dei
presupposti all’uopo fissati dal codice di rito.
Statuisce l’art. 634 c.p.p. che “quando la richiesta è proposta fuori dalle
ipotesi previste dagli artt. 629 e 630 o senza l’osservanza delle disposizioni previste
dagli artt. 631, 632, 633, 641 ovvero risulta manifestamente infondata, la corte di
appello anche di ufficio dichiara con ordinanza l’inammissibilità”.
La previsione codicistica è chiara nel fissare i limiti ai quali il Giudice della
revisione è sottoposto in sede di vaglio preliminare di inammissibilità; e nel
contempo costituisce norma di chiusura rispetto ai presupposti per dichiarare
inammissibile la richiesta di revisione, atteso che in essa sono contemplati tutti i
possibili casi produttivi di tale esito.
Al fine di verificare il rispetto della norma contenuta nell’art. 634 cp.p., deve
premettersi una considerazione: escluse le ipotesi di inosservanza delle norme
procedurali -che nel caso in esame non ricorrono- i casi residui che consentono di
giungere alla declaratoria (preliminare) di inammissibilità sono ivi tassativamente
indicati e consistono: 1) nel riferimento all’art. 631 c.p.p. (inidoneità della prova a
65
condurre all’esito proscioglitivo); 2) nella circostanza che la richiesta risulti
manifestamente infondata.
Pertanto, ricorrendo prima facie le ipotesi ivi descritte, la Corte sarebbe stata
legittimata a valutare negativamente l’ammissibilità della domanda; ma ciò avrebbe
dovuto estrinsecarsi -logicamente e giuridicamente- in un momento processuale
antecedente al decreto di citazione a giudizio, risultando in tal caso ultroneo ogni
possibile accertamento condotto in sede istruttoria e, dunque, superflua la stessa
opportunità di “citare” in giudizio il condannato.
Invece la Corte emittente ha contraddetto i principi sottesi al disposto
normativo, omettendo di rispettare le cadenze processuali -e prima ancora la logica-
che il rito impone. Tanto più che le valutazioni esplicitate in sentenza costituiscono
espressione di un giudizio sostanziale di manifesta infondatezza (che per definizione
non richiede approfondimento istruttorio alcuno) in ordine alla prognosi di
proscioglimento di cui all’art. 631 c.p.p..
E’ stata la stessa pronuncia, del resto, a dare atto di non aver superato la
verifica preliminare di un possibile raggiungimento dell’esito proscioglitivo,
ritenendo di “decisivo e assorbente rilievo” la questione definita de “l’in sé del
dedotto “novum”, relativa alla “sua intrinseca attitudine dimostrativa rispetto al
risultato finale del proscioglimento” (cfr. sent. imp., p. 14); in altre parole, la Corte
stessa ha enunciato la manifesta infondatezza della richiesta, posto che ha ritenuto
non necessario dover procedere alla verifica della prova nuova.
Ma un siffatto giudizio, a ben vedere, per essere conforme all’art. 634 c.p.p. (e
ai presupposti ivi illustrati) avrebbe dovuto essere espresso nella fase preliminare che
gli era propria e, dunque, nell’ambito di una valutazione formulata “anche di ufficio”
o -a tutto voler concedere- all’esito di un procedimento in camera di consiglio;
66
dovendosi invece, una volta superata la scansione procedimentale inaugurata dal
decreto di citazione ex art. 636 coma 1 c.p.p., procedere ad assicurare (non solo il
contraddittorio delle parti ma anche, e soprattutto) la fase dibattimentale propria del
“nuovo” giudizio.
In definitiva, nel caso in esame una pronuncia di inammissibilità nel rispetto
dell’art. 634 c.p.p. avrebbe potuto esser ritenuta legittima soltanto nel caso in cui non
fosse stata già in atto la fase successiva al decreto emesso ex art. 636 c.p.p.
(momento, questo, che nel caso in esame deve essere considerato una vera e propria
preclusione); solo prima della emissione del decreto di citazione, infatti, l’istanza di
revisione avrebbe potuto utilmente giudicarsi “inammissibile” con giudizio
prodromico effettuato de plano (o anche in contraddittorio) e in assenza di
valutazione della prova nuova.
In definitiva, dall’esame dei presupposti indicati nell’art. 634 c.p.p. non può
che ricavarsi che il vaglio preliminare di ammissibilità della richiesta di revisione, per
essere conforme al dettato normativo deve snodarsi -ed esaurirsi- entro l’ambito
procedimentale che gli è proprio e, in ogni caso, prima della emissione del decreto di
citazione. Se da un lato infatti può riconoscersi (non senza riserve) che nell'attuale
sistema il giudizio di revisione non sia stato strutturato in maniera da distinguere
nettamente una fase rescindente e una fase rescissoria, d’altro canto la mancata
previsione di due distinti momenti giammai può significare che le Corti d’appello
chiamate a giudicare in sede di revisione siano legittimate a produrre un
“minestrone” processuale, in cui tutto è possibile in ogni momento.
Ed infatti costituisce punto fermo che la valutazione preliminare di
ammissibilità della richiesta, pacificamente assimilabile alla usuale valutazione
preliminare sull'ammissibilità dell'atto introduttivo del procedimento d'impugnazione
(art. 591 comma 2 c.p.p.,), incontri nel momento processuale scandito dal decreto di
67
citazione una evidente preclusione della possibilità di decidere de plano sulla
richiesta di revisione (ex multis, Sez. I Penale, 30 marzo 2005, n. 26967; Sez. V
Penale, 8 aprile 2010, n. 21296); ove il termine de plano, ai fini della presente
impugnazione, deve essere inteso non solo quale modalità di un giudizio reso in
assenza di contraddittorio, ma si estende ad includere tutte le ipotesi di
inammissibilità che appaiono manifeste e debbano pertanto essere valutate senza
necessità alcuna di procedere alla istruttoria.
Ciò peraltro si ricava a contrario dalla costante interpretazione
giurisprudenziale delle norme sottese all’istituto; ed invero, costituisce principio
pacificamente recepito che la valutazione preliminare di inammissibilità della
richiesta possa essere compiuta: 1) d’ufficio; 2) mediante “l'adozione del rito
camerale con la garanzia del contraddittorio per i casi di inammissibilità che non
siano di evidente ed immediato accertamento” (cfr. Cass. Pen. Sezione V, 8.04.2010
n. 21296). Dal che consegue che la fase dibattimentale sia decisamente impropria e
inadatta rispetto ad un modello concepito “normalmente” quale verifica evidente e
immediata tanto da rendere opportuno il contraddittorio nei soli casi in cui ci si
discosti da tale modello.
Pertanto, una volta superato il momento processuale scandito dall’art. 636
comma 1 c.p.p., una pronuncia di inammissibilità non può essere legittimata se non
dalla sopravvenienza di elementi -nuovi e diversi da quelli già verificati in sede di
vaglio preliminare- contrari alla prognosi dell’esito proscioglitivo; dovendosi di
contro ritenere illegittima una valutazione ibrida quale quella oggi in esame, che, in
ultima istanza, non può sortire altro effetto se non quello di deprivare il giudizio della
necessaria fase istruttoria e, prima ancora, della stessa possibilità di offrire al Giudice
la completa rappresentazione della domanda di revisione; attività, questa, che avrebbe
dovuto esplicitarsi nella presentazione delle richieste istruttorie rimasta (per
l’appunto) preclusa alla Difesa del dott. Contrada.
68
In definitiva, la Corte di Appello si è “arrestata” al momento del vaglio di
inammissibilità (che, lo si ribadisce, è prodromico e preliminare al rito che apre il
giudizio di revisione) sotto il profilo della verifica del merito della questione; ma dal
punto di vista processuale tale vaglio si è estrinsecato in un momento in cui era già
stata raggiunta la fase dibattimentale. Momento in cui, lungi dal poter tornare sulla
infondatezza della richiesta allo stato degli atti facendo così retroagire il
procedimento, la Corte avrebbe dovuto senz’altro procedere all’apertura del
dibattimento e attivare le norme processuali di cui agli artt. 492 ss. c.p.p. (richiamati
dall’art. 636 comma 2 c.p.p.), al fine di addivenire alla disamina della prova nuova
su cui si è fondata l’istanza di revisione.
Alla luce di quanto esposto appare chiaro che il percorso procedimentale
intrapreso dalla Corte emittente si sia contraddistinto da evidenti violazioni delle
norme processuali preposte al giudizio di revisione, produttive della gravissima
lesione dei diritti del ricorrente.
Ed invero delle due l’una: o si afferma che la richiesta di revisione presentata
dal dott. Contrada fosse tanto inconsistente da precludere la stessa instaurazione del
giudizio -e se la Corte non lo ha affermato “prima” nel momento a ciò destinato,
proprio non si comprende il perché della scelta di approdare alle soglie del
dibattimento per ivi giungere alla stessa conclusione; oppure si ammette che la
valutazione della istanza avrebbe necessitato di un approfondimento probatorio volto
alla verifica di resistenza della prova assunta nel giudizio definitivo rispetto alle
nuove emergenze, ma in tal caso avrebbe dovuto pervenirsi ad una “vera” sentenza
(di accoglimento o di rigetto) resa all’esito della istruttoria volta alla acquisizione dei
dati sui quali operare un siffatto raffronto.
69
Tertium non datur; è la stessa logica processuale sottesa al giudizio di revisione
che avrebbe imposto una chiara presa di posizione tra le due differenti opzioni.
Invece la Corte nissena ha dato atto di avere accolto entrambe le ipotesi testé
enunciate, seppure opposte e tra loro inconciliabili. E così, da un lato ha espresso un
giudizio prognostico che essa stessa ha fondato sulla lettura epidermica degli atti che
aveva a disposizione, giungendo all’esito oggi impugnato; dall’altro -e ciò malgrado-
ha ritenuto implicitamente necessario l’approfondimento delle prove poste a sostegno
della domanda di revisione.
Tale impostazione risulta confermata dalle stesse valutazioni contenute nel corpo
motivo del provvedimento: affermazioni quali “non si vede, dunque, in che termini
concreti il dedotto “novum” quale risultante unicamente dalle circostanze riportate
nel suddetto libro possa prestarsi a scalfire … la capacità di resistenza degli
accertamenti compiuti e delle valutazioni espresse” (cfr. sent. imp., p. 15); “il
dedotto “novum”, anche a volerlo valorizzare nelle sue massime potenzialità
favorevoli all’istante, è invece rimasto apprezzabile soltanto a livello esplorativo”
(ibidem); “la proposizione probatoria difensiva del presunto complotto (…) non ha
oltrepassato la soglia dell’ipotetico e del congetturale (…) per l’intrinseca inidoneità
di tale sola scelta (quella a suo tempo operata dalla Procura della Repubblica di
Palermo, n. d.r.) a influire minimamente sulla valutazione del quadro probatorio
emerso a carico dell’odierno istante nel processo conclusosi con la condanna
irrevocabile” (ibidem); “dal contenuto di tale verbale (riferito alle dichiarazioni
rese ex artt. 391 bis ss. c.p.p. dallo Scarantino, n.d.r.) … non è però possibile
evincere nulla di concreto e, prima ancora, di astrattamente decisivo”.
Affermazioni, tutte, che costituiscono da un lato espressione di un giudizio esauritosi
nella valutazione astratta della -altrettanto astratta- idoneità della prova a condurre al
proscioglimento del condannato; ma nel contempo, nella misura in cui esse hanno
“fotografato” la prova quale appariva al Giudice in quel momento, esprimono
70
l’esigenza che il compendio probatorio nuovo pervenisse alla fase della istruttoria,
all’esito della quale soltanto avrebbe potuto essere verificato ”il superamento della
soglia dell’ipotetico e del congetturale” tanto agognato dal provvedimento.
Infatti nel caso in esame la “prova nuova” contenuta agli atti appariva
inscindibilmente connessa alla prova in divenire che solo nella fase dibattimentale
avrebbe potuto manifestarsi in tutta la sua efficacia ai fini del proscioglimento del
condannato; a titolo esemplificativo basti considerare che lo stesso dott. Ingroia
autore del libro alligato alla richiesta di revisione, citato e non comparso in sede di
investigazioni difensive, ove chiamato in giudizio, avrebbe potuto apportare un
chiaro contributo probatorio alla ricostruzione delle circostanze di fatto e delle
dinamiche investigative che si snodarono nel procedimento a carico del dott. Bruno
Contrada.
La tematica relativa alla omessa assunzione della prova decisiva a discarico
sarà affrontata nel prosieguo; per il momento è sufficiente rilevare che la scelta
processuale espressa dalla Corte di merito, oltre che inficiata da evidentissime
violazioni della legge processuale e sostanziale, si è altresì tradotta sul piano della
legittimità della motivazione in un palese vizio di contraddittorietà della pronuncia
censurabile a norma dell’art. 606 comma 1 lett. e) c.p.p..
Infine, sul piano degli effetti che le plurime violazioni di legge hanno prodotto,
deve rilevarsi che la procedura oggi censurata ha realizzato la produzione di una
gravissima lesione dei diritti del ricorrente, al quale fuori dai casi di
inammissibilità “manifesta” è stata impedita una effettiva partecipazione al
giudizio e, in ultima istanza, la stessa estrinsecazione del diritto alla Difesa
proclamato dagli artt. 24 e 111 della Costituzione, oltre che dall’art. 6 CEDU.
71
2. Violazione ex art. 606 comma 1 lett. b) ed e) c.p.p. in relazione agli artt.
634, 636, 637, 641, 591 c.p.p.
La gravità delle violazioni di legge da cui è affetto il dictum oggetto di
impugnazione emerge anche sotto il diverso profilo della forma utilizzata per la
stesura del provvedimento.
Invero, (ulteriore) argomento decisivo da cui ricavarsi che nel caso in esame
non si verteva in tema di manifesta inammissibilità (ove per manifesta non può che
intendersi la inammissibilità emersa dalla sola lettura degli atti e senza ulteriori
necessità istruttorie) è costituito dal seguente dato: l’art. 634 comma 1 c.p.p.
dispone, nel disciplinare il preliminare vaglio di ammissibilità del ricorso
derivante dai presupposti sopra illustrati, che «la corte di appello anche di
ufficio dichiara con ordinanza l'inammissibilità». Il che significa che laddove vi
sia un vaglio preliminare che conduca a rilevare una macroscopica causa di
inammissibilità del ricorso, il provvedimento emesso all’esito di tale giudizio deve
assumere la forma dell’ordinanza, coerentemente alla snellezza delle forme
procedurali che caratterizza un siffatto risultato.
Invece nel caso in esame la richiesta di revisione promossa dal dott.
Contrada è stata definita con sentenza; con ciò contraddicendo la stessa natura del
provvedimento emesso.
L’adozione di tale forma anzitutto stride con il contenuto della pronuncia,
questo limitato (e ciò si è detto ampiamente) alla valutazione prodromica ed astratta
del raggiungimento dell’esito proscioglitivo, ed esauritosi in una pronuncia di
sostanziale manifesta infondatezza che avrebbe richiesto la forma della ordinanza; e
in secondo luogo appare contraddetta dalle disposizioni vigenti in materia di
revisione.
72
In favore di tale conclusione milita lo stesso testo normativo: oltre al disposto
dell’art. 634 c.p.p. -di cui si è trattato ampiamente- i riferimenti che rendono
illegittimo il modus procedendi adottato sono numerosi e consentono -tutti- di
pervenire alla medesima conclusione.
Un chiaro riferimento alla necessità che fosse utilizzata nel caso in esame la
forma della ordinanza si ricava a contrario dal testo dell’art. 637 c.p.p., che nel
disciplinare la “sentenza” emessa all’esito del giudizio di revisione indica tra i suoi
possibili esiti soltanto “l’accoglimento della richiesta di revisione” (comma 2)
ovvero il suo “rigetto” (comma 4) ma non fa menzione alcuna della sentenza di
inammissibilità che pertanto rimane una ipotesi sicuramente non tipicizzata.
Ancora, l’art. 641 c.p.p. opera un netto distinguo tra “l’ordinanza che dichiara
inammissibile la richiesta” e “la sentenza che la rigetta”; così fornendo all’interprete
un -ulteriore- riferimento normativo idoneo ad escludere che il Legislatore abbia mai
previsto (e forse, pensato) una inammissibilità pronunciata con sentenza.
Altro dato normativo che permette di escludere ogni residua apertura verso la
legittimità allo strumento utilizzato dalla Corte nel caso oggi osservato si rinviene
nell’art. 591 comma 4 c.p.p.; la stessa norma -si badi- posta a sostegno del percorso
argomentativo intrapreso dalla Corte di merito onde giustificare l’esito del giudizio
(cfr. sent. imp., p. 5 ss.).
A ben vedere il disposto normativo dell’art. 591 c.p.p. consente invece di
ricavare un ulteriore argomento in favore della ordinanza quale forma che deve
contraddistinguere la pronuncia di inammissibilità, atteso che proprio tale forma è ivi
contemplata espressamente al comma 2; il successivo comma 4, dal suo canto, nulla
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aggiunge se non la possibilità di pervenire ad analoga pronuncia (e pertanto ad
ordinanza) “in ogni stato e grado del procedimento”.
Per altro verso, la declaratoria di inammissibilità prevista in via generale per le
impugnazioni dall’art. 591 c.p.p. non contempla altre ipotesi (se non quelle relative
alla carenza dei presupposti formali) e, pertanto, solo una notevole forzatura
ermeneutica consentirebbe di adattare tale previsione al giudizio sul merito della
revisione; tanto più che i criteri per la inammissibilità sono espressamente indicati nel
disposto specifico che l’art. 634 c.p.p. detta per la revisione e, pertanto, il richiamo
alla norma generale deve ritenersi comunque superato dalla presenza di specifiche
disposizioni appositamente dettate per il mezzo straordinario.
Infine, anche a voler dare credito a quanto sostenuto in sentenza che ha
inteso ricorrere alla norma generale per legittimare il proprio modus operandi,
occorre sottolineare la inesattezza delle premesse dalle quali la Corte ha preso le
mosse. Infatti l’indirizzo giurisprudenziale riportato nel provvedimento oggi in
esame, che in taluni casi ha legittimato una pronuncia di inammissibilità resa con
sentenza emessa nella fase successiva al decreto di citazione ex art. 636 c.p.p. (ma in
situazioni del tutto dissimili da quella odierna), seppure richiamato dalla Corte di
Appello con una certa enfasi è stato del tutto travisato dai giudici del merito e risulta,
anzi, del tutto inconferente rispetto alla domanda di revisione promossa dal dott.
Contrada.
Ed è la stessa sentenza che paradossalmente ne ha dato conto, riportando
testualmente il predetto orientamento nei seguenti termini: “una volta che nel
dibattimento si sia svolto il contraddittorio sul punto relativo alla sussistenza del
requisito della novità della prova – imprescindibile perché si debba procedere
all’assunzione delle prove dedotte ed alla valutazione dei risultati delle stesse – alla
corte che escluda la sussistenza del requisito della novità non resta che adottare una
74
pronuncia di inammissibilità della richiesta, non residuando alcun ulteriore
accertamento che giustifichi il prosieguo del dibattimento e lo spiegamento di
ulteriori attività difensive, tanto da escludere ogni violazione della legge
processuale, per il mancato svolgimento della fase dibattimentale, “troncata” subito
dopo l’inizio” (cfr. Cass., sez. V, n. 2258/1996, Bagedda)” (cfr. sent. imp., p. 6-7).
Solo offendendo l’altrui intelligenza può sostenersi che tale interpretazione
possa essere adattata all’odierno giudizio; ed invero in nessun caso può farsi credere
al lettore che l’orientamento della Corte Suprema testé richiamato possa giustificare
l’odierna pronuncia, posto che nel caso deciso in quella sede (differentemente da
quello oggi preso in esame): 1) vi era già un dibattimento; 2) nel corso di esso -e non
prima- era sorta la questione del difetto di novità della prova da assumere; 3)
pertanto, come espresso dalla Corte Suprema, atteso che non erano apprezzabili altre
prospettive ai fini del proscioglimento, non restava che pronunciare l’inammissibilità
del mezzo. Ma a tale conclusione si perveniva -ed è fondamentale- per ragioni
sopravvenute al decreto di citazione che conducevano a negare la novità della
prova da assumere.
Per quanto detto, la mera trasposizione dell’insegnamento della Corte al caso in
esame appare destituita di qualsivoglia valenza giuridica e, anzi, aggrava la già palese
illegittimità della sentenza sotto l’ulteriore profilo della illogicità della motivazione
ricavabile dalla stessa lettura del provvedimento.
Ed invero nel caso in esame:
1. nessun dibattimento è stato instaurato; e di ciò non può dubitarsi -checché
ne dica la Corte di merito nell’utilizzare il termine dibattimentale- non
essendosi proceduto ad assumere le prove (art. 496 c.p.p.), a rivolgere le
richieste di prova (art. 493 c.p.p.), né, prima ancora, a dichiarare l’apertura del
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dibattimento ex art. 492 c.p.p. (norme tutte contenute nel titolo II del libro VII
del codice di rito e pertanto anch’esse richiamate dall’art. 636 comma 2
c.p.p.);
2. non si è posto alcun problema sopravvenuto circa il requisito della novità
della prova e, se si è posto per intervento del P.G., non è stato superato
disconoscendone la sussistenza. Tutt’altro! E’ stata la stessa sentenza, a fronte
della produzione documentale offerta dal Procuratore per confutare il requisito
in parola, a dare atto della sua ricorrenza nel caso in esame: “non c’è dubbio
che, ai fini in esame, non ha alcun rilievo decisivo l’imputabilità o no
all’odierno istante della mancata emersione giudiziale del dato probatorio a
lui apparentemente favorevole, atteso che … è da intendersi nuova anche la
prova conosciuta e preesistente al processo, risultante o no dagli atti, purchè
non valutata neanche implicitamente dal giudice di cognizione” (cfr. sent.
imp., p. 14);
3. non è dato rinvenire, nell’ambito dell’unica udienza, alcun dato
sopravvenuto al decreto di citazione tale da legittimare la pronuncia di
inammissibilità con la forma della sentenza.
In definitiva, una volta sgomberato il campo da ogni possibile equivoco in
ordine alla applicabilità dell’art. 591 c.p.p. (che comunque -si insiste- non menziona
la forma della sentenza per le pronunce di inammissibilità) non sussistono argomenti
di carattere normativo e/o giurisprudenziale -se non di segno opposto- idonei a
legittimare la forma data alla pronuncia.
Del resto, la stessa circostanza che il giudizio di inammissibilità sulla istanza di
revisione si sia concluso con sentenza appare indicativo della correttezza delle
odierne osservazioni: che la domanda fosse inammissibile in realtà non sembra
essersi persuasa neanche la Corte territoriale, ove si consideri che la pronuncia è
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scesa nel merito della valutazione probatoria, risultando disseminata di riferimenti ai
fatti oggetto del giudicato ed alla possibile incidenza su di esso della prova nuova.
A ben vedere la forma prescelta per il provvedimento indica che la Corte
ha implicitamente ammesso di aver dovuto esaminare le ragioni sottese alla
domanda di revisione e, prima ancora, le valutazioni espresse nella pronuncia
irrevocabile; così riconoscendo che il vaglio preliminare fosse del tutto inadatto a
reggere il peso delle valutazioni da effettuarsi in ordine alla resistenza del
giudicato.
Come emerge a chiare lettere dalla analisi della ratio sottesa all’istituto della
revisione, la valutazione della sussistenza di una prova nuova, e la correlata
operazione volta a verificare l’attitudine di detta prova a scalfire il giudicato,
afferiscono non già al vaglio preliminare di ammissibilità bensì alla trattazione
propria del mezzo straordinario d’impugnazione.
In definitiva, l’analisi che la Corte avrebbe dovuto effettuare in sede di
impugnazione straordinaria era ben lungi dal potersi estrinsecare frettolosamente
nell’ambito di una valutazione preliminare di ammissibilità, richiedendo invece una
compiuta e approfondita disamina della presenza di una prova nuova da
ammettere / acquisire / valutare; sulla scorta della quale effettuare un compiuto
esame circa la resistenza della prova assunta nel processo pre-giudicato.
Anche sotto tale profilo, pertanto, risulta confermata la correttezza delle
considerazioni esposte in ordine alle gravissime violazioni che inficiano la sentenza;
nonché la produzione di gravissime lesioni dei diritti del ricorrente, già rilevata
nell’ambito del motivo d’impugnazione indicato sub 1.
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3. Violazione ex art. 606 comma 1 lett. b), c), d) ed e) c.p.p. in relazione agli
artt. 178 lett. c), 190, 192, 495, 629, 630 lett. c), 637 c.p.p., 3, 24, 111
Costituzione, 6 CEDU
Insuperabili ragioni di censura muovono dalla autonoma constatazione che la
pronuncia ha omesso qualsivoglia valutazione della prova nuova indicata nella
istanza promossa dal condannato. In realtà, essa non solo non è stata valutata nella
sua effettiva portata -né sola né unitamente alle prove già valutate- ma non è stato
concesso alla Difesa dell’odierno ricorrente neanche di richiedere la sua ammissione.
In ciò la Corte di merito ha operato un vero e proprio salto logico-giuridico,
tentando di giungere al momento valutativo della prova senza tuttavia introdurre la
preliminare fase acquisitiva e, anzi, stroncando del tutto il primo ineludibile
momento; e ciò è stato realizzato malgrado l’art. 636 comma 2 c.p.p. -strettamente
consequenziale al disposto del primo comma- richiami espressamente le disposizioni
processuali che disciplinano il dibattimento di primo grado.
Al fine di intendere appieno la portata delle censure in questa sede espresse si
premette quanto segue:
-l’art. 187 c.p.p. statuisce che “sono oggetto di prova i fatti che si riferiscono
all’imputazione (…)”;
-l’art. 190 nel disciplinare il diritto alla prova afferma che “le prove sono
ammesse a richiesta di parte” e che il giudice può escludere (solo) “le prove vietate
dalla legge e quelle che manifestamente sono superflue o irrilevanti”;
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-l’art. 493 c.p.p. statuisce che le parti “indicano i fatti che intendono provare e
chiedono l’ammissione delle prove”;
-l’art. 495 comma 2 c.p.p. proclama il diritto dell’imputato “all’ammissione
delle prove indicate a discarico sui fatti costituenti l’oggetto delle prove a carico”;
-la prova è assunta a norma dell’art.. 496 c.p.p.;
-infine (e solo infine), la prova è valutata; e l’art. 192 c.p.p. prevede che tale
valutazione avvenga “dando conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei
criteri adottati”.
Il percorso brevemente tracciato consente di affermare la centralità della prova
nell’ambito del giudizio dibattimentale. E l’ultima norma considerata costituisce
chiave di lettura dei principi che presiedono alla acquisizione probatoria ed alla loro
verifica in sede di decisione, fissando non già una mera facoltà del giudice (la norma
non dice può valutare ma valuta) bensì un vero e proprio obbligo di rendere una
pronuncia conforme ai risultati probatori assunti in giudizio.
Ma se in questo giudizio non vi sono stati elementi assunti, e se la Corte
stessa ha dato conto di non conoscere la prova nuova (né, invero, quella vecchia),
ci si chiede su quali dati essa ha potuto esprimere il proprio giudizio, posto che il
momento valutativo presuppone sempre -anche nel giudizio di revisione!- un
preliminare, necessario momento acquisitivo.
Al fine di intendere la portata della censura in questa sede esposta è sufficiente
la lettura del verbale di udienza dell’08.11.2012: da esso emerge a chiare lettere che
nessun dibattimento è stato mai instaurato, seppure la sentenza impugnata in più
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punti -si è detto- abbia utilizzato il termine dibattimentale per riferirsi al momento
della pubblica udienza.
La fase dibattimentale di cui dà conto la pronuncia, in realtà, si è esaurita nel
contraddittorio delle parti, inteso come simultanea presenza fisica delle parti dinanzi
la Corte di merito; ma se contraddittorio vi è stato, esso si è esaurito nella occasione
data alla Difesa dell’imputato di interloquire sulla novità della prova,
conseguentemente alla richiesta del PG di acquisire documentazione atta a confutare
detta novità; e nelle spontanee dichiarazioni del condannato che sotto il profilo
processuale-probatorio nulla hanno apportato se non, nel merito, l’ennesima richiesta
di giustizia di un innocente che ha ormai scontato la pena inflittagli.
Ciò posto non v’è traccia a verbale di richieste istruttorie; né di
acquisizione della prova nuova; né della acquisizione della prova già assunta nel
precedente giudizio, seppure essa avrebbe dovuto valutarsi unitamente a quella
nuova.
In definitiva, nel giudizio di revisione non è apprezzabile alcuna attività di
natura dibattimentale; eppure tale attività avrebbe dovuto essere strettamente
consequenziale alla emissione del decreto di citazione a giudizio, perché connaturata
al disposto dell’art. 636 comma 2 c.p.p..
Può giungersi, allora, ad una prima conclusione.
Solo all’esito della valutazione della prova nuova così come sarebbe emersa
all’esito della fase dibattimentale -e giammai prima- avrebbe potuto eventualmente
concludersi, all’esito di un giudizio emesso in concreto sulla resistenza del
giudicato alla luce delle nuove risultanze, dichiarandosi la permanenza delle
ragioni giustificatrici la condanna; laddove invece l’esame della prova nuova
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condotto nella pronuncia -ripugna chiamarlo valutazione- rivela una disamina solo
superficiale degli atti, effettuata in assenza di qualsivoglia assunzione probatoria e
pertanto inidonea a consentire il giudizio sulla domanda.
Pertanto, anche sotto il profilo della presunta valutazione della prova - alla
quale la sentenza ha dedicato intere pagine – il provvedimento non appare meritevole
di encomio e sembra invece affannosamente teso a giustificare l’esito raggiunto
facendo ricorso a verifiche mai effettuate, perché mancanti (appunto!) del substrato
probatorio su cui potersi innestare.
Appare evidente invece che la prognosi del proscioglimento avrebbe potuto
utilmente estrinsecarsi soltanto una volta ammesso, assunto, acquisito il
compendio probatorio nella sua interezza; in caso contrario dovendosi concludere
per l’avvenuta restrizione ad opera della pronuncia dello stesso campo di
applicazione degli artt. 629 e 630 lett. c) c.p.p..
Ad intendere diversamente operanti gli istituti di riferimento, si stravolgerebbe
il senso stesso del mezzo promosso che -giova ribadirlo- fondato esclusivamente sulla
prova nuova e non già su eventuali preventive valutazioni di essa (o peggio dell’idea
che di essa il giudice si è fatto); si escluderebbe pertanto la stessa incontestabile
centralità della prova nuova, sulla quale soltanto può essere incentrato il
giudizio di revisione.
D’altra parte, quanto detto trova conferma nello spirito delle norme poste a
fondamento dell’istituto; apparirebbe davvero insensato che il Legislatore abbia
predisposto un mezzo volto fisiologicamente alla rimozione della ingiustizia subita
dal condannato in via definitiva, se poi fosse affidata alla discrezionalità del giudice -
o peggio al suo libero arbitrio- la stessa estensione dell’ambito entro il quale le prove
nuove devono essere prese in esame. Ne conseguirebbe, infatti, lo svilimento della
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norma e, prima ancora, delle esigenze di giustizia ad essa sottese, poiché risulterebbe
preclusa al condannato, in presenza di una prova nuova ritenuta erroneamente
inidonea ad incidere sulla sentenza da sottoporre a revisione, la possibilità di provare
la sua assoluta estraneità ai fatti su cui la sentenza originaria si era espressa.
Alla luce di quanto detto, l’interpretazione data dalla Corte di merito collide
con i principi sui quali si fonda l’istituto della revisione, nonché con le linee di
tendenza che possono ricavarsi dalla evoluzione legislativa del mezzo. In proposito
basti considerare la progressiva estensione del concetto di prova nuova atta a
ricomprendere, ai fini della ammissibilità, gli elementi di prova.
Non solo.
La sentenza oggi impugnata dà atto di avere ignorato le ragioni che, in
ossequio al principio del favor revisionis, hanno mosso il legislatore ad ampliare il
campo d’applicazione della disciplina relativa all’istituto. Ed invero,
l’accantonamento della esigibilità della prova evidente che il condannato deve essere
assolto (art. 554 n. 3 del codice abrogato), e la correlativa estensione degli esiti
proscioglitivi al disposto dell’art. 530, comma 2 c.p.p., indicano una volontà
legislativa intesa alla priorità accordata alle esigenze di giustizia sostanziale sottese al
gravame. Con la conseguenza che la restrizione dell’ambito applicativo dell’art. 630,
lett. c) c.p.p., determinerebbe una incoerente, quanto anacronistica, applicazione
dell’istituto.
Tali conclusioni ben si adattano al caso osservato, se solo si considera che,
ove idealmente trasposte nel procedimento originario, le prove offerte sarebbero
state certamente idonee a porre in crisi l’assetto accusatorio a carico del dott.
Contrada, conducendo con ogni probabilità alla sua assoluzione. Ma la stessa
possibilità di pervenire a tale affermazione è stata a monte esclusa attraverso la
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preconcetta affermazione -condotta con quali strumenti non è dato sapere, in
assenza delle stesse richieste istruttorie- della resistenza “a tutti i costi” del
giudicato.
In definitiva, la prova nuova avrebbe dovuto -per poter essere confutata-
anzitutto essere acquisita; confrontata con la prova già acquisita nel giudizio
definitivo; valutata unitamente a quest’ultima. E solo all’esito di tale processo,
attraverso un esame attento e puntuale delle risultanze probatorie (una per una
e complessivamente), avrebbe potuto affermarsi la inidoneità degli elementi
probatori a condurre al proscioglimento.
La lettura delle norme che ne è risultata, tesa a restringere l’ambito della
revisione a valutazioni dei Giudici apodittiche e del tutto avulse dalla effettiva
verifica della prova posta a fondamento della richiesta (intesa quale prova contenuta
già agli atti offerti e, insieme, prova in divenire nell’instaurando giudizio), costituisce
espressione della falsa interpretazione delle norme sottese alle esigenze di giustizia
alle quali è preposto lo strumento della revisione e, pertanto, stride con il principio di
ragionevolezza, nonché con il diritto di Difesa, in palese violazione degli artt. 3 e 24
della Carta costituzionale.
La eventuale conferma della legittimità di un siffatto modus operandi si
tradurrebbe nella ingiusta preclusione al condannato di ciò che è pacificamente
riconosciuto nel giudizio ordinario all’imputato (il quale -è univoco- ha diritto alla
prova a discarico).
In definitiva, seppure la revisione costituisca mezzo straordinario di
impugnazione e debba pertanto confrontarsi con la intangibilità del giudicato, nel
relativo giudizio non può essere negata al condannato la opportunità di dimostrare la
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propria innocenza attraverso la produzione di elementi a suo discarico, che devono
pertanto essere acquisiti e valutati ai fini del proscioglimento.
Ne consegue, anche alla luce di tali considerazioni, la necessità che il giudizio
sulla revisione sia espresso nel rispetto del principio di non contraddizione
dell’ordinamento; principio che risulta invece gravemente violato nel momento in cui
è prevalsa una interpretazione delle norme del tutto avulsa dalle finalità dell’istituto
nel caso concreto, nonché di segno contrario rispetto alle preminenti esigenze di
giustizia sostanziale.
La chiave di lettura fornita dalla sentenza di inammissibilità finisce col
rinnegare, fino ad annullarlo, lo stesso valore dell’istituto della revisione. Non ha
senso, infatti, parlare di una disciplina normativa preposta alla rimozione di una
ingiustizia subita, se lo strumento a tal fine predisposto non appare idoneo a
garantire il benché minimo diritto alla difesa del condannato. Una lettura siffatta,
in definitiva, finisce con il porsi in assoluto contrasto con le disposizioni codicistiche
e, prima ancora, coi principi costituzionali ad esse sottesi.
D’altro canto, alla violazione di tali diritti la sentenza sembra essersi orientata
sotto molteplici profili.
La Corte di Appello -la stessa che avrebbe dovuto giudicare sulla ingiustizia
patita dal condannato- per non smentire l’atteggiamento sin qui dimostrato per le
legittime istanze dell’odierno ricorrente, si è spinta a precludere alla Difesa del
dott. Contrada la presentazione delle richieste istruttorie e la stessa possibilità di
esporre i risultati della prova nuova; incorrendo pertanto nella ulteriore palese
illegittimità dovuta alla violazione del contraddittorio e produttiva di nullità a norma
dell’art. 178 lett. c) c.p.p..
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Anche tale opzione procedurale è risultata infatti gravemente lesiva. Ed invero,
seppure la fase del procedimento nel cui ambito si sono consumate tante e tali
violazioni mal si presti -e sembri anzi strutturalmente inidonea- alla lesione del
contraddittorio, lo stesso intervento difensivo sulla scelta processuale che si
andava a compiere è risultato precluso a monte alla Difesa dell’imputato;
determinando la evidentissima nullità insita nella preclusione predetta e producendo
la ulteriore lesione dei diritti costituzionalmente garantiti e dello stesso
contraddittorio.
4. Violazione ex art. 606 comma 1 lett. b), c) ed e) c.p.p. in relazione agli artt.
178 lett. c), 190, 192, 630 lett. c), 637 c.p.p.
Sulla mancata ammissione (e assunzione) della prova a discarico nell’odierno
giudizio si è ampiamente esposto.
Analoghe considerazioni possono essere svolte rispetto alla assunzione della
prova che già preesisteva essendo stata valutata nel giudizio irrevocabile a carico del
ricorrente.
Occorre infatti precisare che la Corte di merito ha commesso un (altro)
gravissimo errore procedurale, riverberatosi immediatamente sulla legittimità della
pronuncia e consistito nella omessa acquisizione delle prove poste a sostegno della
pronuncia di condanna gravata da revisione.
E ciò perché il materiale su cui la Corte di Appello ha espresso il proprio
giudizio avrebbe dovuto essere composto non solo degli elementi nuovi ma anche e
soprattutto di quelli posti a fondamento della prima pronuncia di condanna;
dovendosi in caso contrario affermare, anche sotto tale profilo, l’avvenuta lesione
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delle ineludibili garanzie del condannato che invoca la rimozione dell’ingiustizia
subita.
In tal senso la giurisprudenza di legittimità ha più volte rilevato che “in tema di
revisione, con riguardo alla specifica previsione di cui all'art. 630, lett. c) c.p.p.,
quando le nuove prove offerte dal condannato (…), abbiano natura speculare e
contraria rispetto a quelle già acquisite e consacrate nel giudicato penale, il giudice
della revisione può e deve saggiare mediante comparazione la resistenza di queste
ultime rispetto alle prime” (cfr. Cass. Pen. Sez. IV, 07.04.2005 n. 24291; cfr. anche
Cass. Pen. Sez. I, 02.12.2007, CED 208943). Il che presuppone che il Giudice della
revisione abbia di fronte la prova come assunta nel giudizio irrevocabile.
Pertanto, i Giudici del merito avrebbero dovuto avere cognizione degli
elementi probatori, su cui si era fondato il giudicato, nella loro essenza, non
potendosi limitare alla analisi dei dati del procedimento filtrati attraverso la
valutazione espressa all’esito del giudizio.
Se fosse legittimato un tale modus procedendi, non sarebbero possibili tutti i
momenti successivi del processo valutativo di cui al giudizio rescissorio; procedere
alla re-visione, infatti, non può non significare che la Corte di merito sia chiamata ad
effettuare una ri-lettura dei vecchi elementi alla luce di quelli sopravvenuti, anche
operandone se del caso una diversa valutazione, al fine di evitare di stendere una
motivazione che - proprio perché finalizzata a rimuovere l’errore giudiziario -
non può certamente ritenere intangibilmente coperti e sepolti dal giudicato gli
indizi erroneamente ritenuti sussistenti dai primi giudici!
In definitiva, posto che non vi è stata acquisizione alcuna del materiale
probatorio di cui al giudizio irrevocabile (né, invero, è stato possibile alla Difesa del
dott. Contrada chiedere l’ammissione delle prove e pertanto interloquire sul punto,
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atteso che a dire dei Giudici nel corso della udienza (sic!) il tema delle prove
sarebbe stato affrontato “dopo”), ulteriori censure devono essere opposte alla
sentenza impugnata nella parte in cui ha valutato i fatti per i quali il ricorrente ha
riportato condanna senza avere cognizione del materiale probatorio assunto -e
valutato- nel corso del giudizio definitivo.
In assenza di tale operazione, la Corte ha giustificato il proprio operato
attraverso mere asserzioni, apodittiche e autolegittimantesi, secondo cui
….risulterebbero acclarati all’esito del giudizio (ma quale?) i dati probatori che
legittimarono la condanna (cfr. sent. imp., p. 1 - 4).
In parte de qua la pronuncia è caratterizzata da carenza assoluta di
motivazione che appare anzi meramente apparente. Né potrebbe essere altrimenti:
l’aver ritenuto incontrovertibili e non scalfiti dalla prova nuova gli elementi assunti a
carico del dott. Contrada nel giudizio irrevocabile -gli stessi elementi che hanno
condotto ora alla condanna, ora all’assoluzione dell’odierno ricorrente!- fornisce
la misura della violazione lamentata.
L’assoluta carenza motivazionale che sorregge il percorso argomentativo testé
enunciato è inquietante. Sostanzialmente la Corte di merito ha pensato bene, rispetto
alla interpretazione che andava a compiere delle prove acquisite nel giudizio
definitivo, di affidarsi alla valutazione già espressa con la sentenza irrevocabile,
senza dover compiere l’ineludibile verifica dei dati che già furono a disposizione
dei primi giudici; verifica invece necessaria al fine di operare -come richiedono
le norme in materia di revisione- la nuova valutazione di quei dati alla luce della
prova nuova.
Ed il tutto, “dimenticando” che l’oggetto del giudizio era costituito -appunto!-
dalla imprescindibile verifica della ipotesi di proscioglimento derivante dalla
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sopravvenuta invalidazione delle prove precedentemente acquisite; e dimenticando
ancora che la necessità di avere a disposizione la prova già valutata risultava
connaturata alla natura e alla ratio del giudizio stesso, quale imprescindibile
garanzia del condannato che invoca la rimozione dell’ingiustizia subita.
Ed invero non è pensabile che il Giudice della revisione ometta di
compiere la rivisitazione proprio dei dati oggetto del giudizio definitivo,
accontentandosi di quanto già valutato dalla sentenza ritenuta ingiusta.
Ed invece, nel compiere l’operazione di verifica dei dati a loro disposizione, i
Giudici hanno escluso di dovere avere cognizione dei dati processuali esistenti nella
loro essenza, limitandosi alla analisi di quei dati per come filtrati attraverso la
valutazione espressa all’esito del giudizio definitivo.
Peraltro, che una nuova e diversa valutazione delle prove ab origine assunte (e
la loro preventiva acquisizione in tale giudizio) non fosse preclusa, ma anzi
necessaria ai fini della revisione, risulta a chiare lettere dalla disciplina codicistica
dell’istituto. Anzitutto, l’art. 630 lett. c) c.p.p. si fonda testualmente sulla sussistenza
di “prove nuove che, sole o unite a quelle già valutate, dimostrano che il condannato
deve essere prosciolto”, rendendo così evidente la rilevanza assegnata dal legislatore
al materiale raccolto nel processo originario. A tale proposito è sufficiente rilevare
che la dizione letterale della norma fa riferimento alle “prove” già valutate (e non già
alla valutazione della prova), con ciò intendendosi che il processo valutativo della
prova deve necessariamente estrinsecarsi nella verifica della prova così come
acquisita (e non come valutata); ove il Legislatore avesse inteso affermare che è
sufficiente una rilettura della prova per come confluita nella sentenza giudicata, la
stessa formulazione del disposto sarebbe risultata differente.
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Ulteriore conferma della illegittimità della sentenza in parte de qua si rinviene
nell’art. 637 c.p.p. nella parte in cui afferma che il giudice non può pronunciare il
proscioglimento esclusivamente sulla base di una diversa valutazione delle prove
assunte nel precedente giudizio: la norma ammette implicitamente che una diversa
valutazione di tali dati è non solo possibile ma è essa stessa connaturata all’istituto,
rimanendo vietato il solo caso limite di una pronuncia che sia fondata
“esclusivamente” sul quadro probatorio già emerso.
Ed invero il giudizio di revisione, se da un lato non può trarre origine dal mero
riesame critico delle identiche risultanze probatorie, dovendo sorgere “da una
ricostruzione che muove da ciò che il giudice non aveva inizialmente valutato.” (cfr.
SS.UU.PP. sent. n. 624/2001 Pisano), dall’altro “postula comunque l’utilizzazione di
un procedimento logico, che -proprio perché teso ad accertare l’esistenza degli
astratti presupposti per sostituire una pronuncia del tutto contrastante con la
precedente- richiede, almeno di norma, una concomitante opera di verifica e
falsificazione” (ibidem, § 19). Ciò che si verifica quando, come nel caso in esame, le
prove nuove acquistano valore ai fini del giudizio non già da sole, ma unite a quelle
già valutate, “nel senso che dal complessivo contesto probatorio e non dalla sola
prova nuova può emergere l’asserzione dimostrativa dell’innocenza del
condannato” (ibidem).
La problematica ha dunque trovato conferma nella giurisprudenza più
autorevole espressa in materia che, sulla scorta di tali considerazioni, così ha
concluso: “in tal caso, allora, il procedimento logico è – secondo i canoni
rigorosamente espressi dall’art. 630, lettera c - estremamente più complesso, perché
esso si traduce, da un lato, nella verifica della effettiva novità della prova e,
dall’altro lato, in una opera di vera e propria falsificazione – nell’ambito dei
modelli riservati dalla legge al controllo di ammissibilità - dei dati valutati dal
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giudice della cognizione, ma attraverso indiretti processi di inferenza, in grado di
dimostrare, appunto, la capacità falsificante della prova nuova (…)” (ibidem).
Ben si vede, allora, come il quadro probatorio presuntivamente esaminato dalla
Corte avrebbe dovuto includere non solo il compendio probatorio nuovo ma gli stessi
dati risultanti dal giudizio definitivo, sì da rendere possibile la valutazione completa
della prova nuova unita alla prova già assunta e in tal modo pervenire ad una
pronuncia idonea a rispondere alle esigenze di giustizia sottese al mezzo esperito.
5.
ULTIM’ORA
Violazione ex art. 606 comma 1 lett. b) c.p.p. in relazione agli artt. 1 e 2 del
Codice Penale
Non può sottacersi rispetto ai notissimi accadimenti di questi giorni, e ci
riferiamo segnatamente alla decisione di pochi giorni fa con cui la V^ Sezione Penale
della Corte Suprema di Cassazione, pronunciandosi sulle sorti dell’imputato Senatore
Marcello Dell’Utri, imputato anch’egli di concorso esterno in associazione mafiosa,
ha ritenuto di annullarne la condanna.
Nulla ovviamente possiamo commentare sulla sentenza che dovrà ancora
essere depositata.
Quel che rileva invece è l’orientamento assunto (finalmente) dall’Ufficio della
Procura Generale presso la Corte Suprema di Cassazione.
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Non ci riferiamo alle notizie giornalistiche che possono essere fallaci, bensì al
documento a firma del Sostituto Procuratore Generale Francesco Mauro Iacoviello -
Roma, 9/03/2012 - Schema di requisitoria.
Illuminante l’intervento giurisdizionale del P.G., consulente della Corte, che
riferendosi appunto al concorso esterno, senza mezzi termini, osserva come “l’accusa
diventa fluida, sfuggente” e che conseguentemente la “motivazione diventa
assertoria, non indica neppure i fatti, sovrappone i piani della condotta, dell’evento e
del dolo, copre i vuoti logici con slittamenti semantici” monotonamente.
Se questi principi valgono per Dell’Utri, condannato in Primo ed in Secondo grado,
non potranno non valere per Bruno Contrada che invece fù assolto in secondo
Grado.
E’ encomiabile il passaggio con cui il P.G. Iacoviello sottolinea e ricorda che il
concorso esterno è “un reato autonomo creato dalla Giurisprudenza” (perdonateci:
cose che noi diciamo da anni), mentre lapidario risulta l’inciso finale del requirente:
“dall’entusiasmo allo scetticismo. ORMAI NON CI SI CREDE PIU”.
Finalmente un po’ di luce dopo un lungo buio tenebroso durato quasi
vent’anni.
Non è poi per voler fare polemica, ma per mero amore della Verità, che
vorremmo qui confutare le critiche mosse incautamente dal noto P.M. di Palermo,
Antonino Ingroia, per altri versi già “protagonista” importante, come si è visto
sopra, di questo procedimento di revisione, che nasce proprio per “merito” suo.
Ha detto in questi giorni il Magistrato palermitano che la Cassazione ha
demolito gli insegnamenti di Falcone e Borsellino dimenticandosi, peraltro, di
ricordare che il compianto Falcone non credeva ciecamente ai pentiti, tant’è che ebbe
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anche il coraggio di arrestarli e farli processare per calunnia (v. il caso Giuseppe
Pellegriti che calunniò l’On.le Salvo Lima).
Ma non è questo il punto.
Da una ricerca sul web, chi si vanta già nel 2009, quindi in epoca non sospetta,
di aver inventato il concorso esterno mafioso è un altro Magistrato, il Dott. Giuseppe
Ayala, in una nota diffusa dall’agenzia di stampa “Il Velino”.
Giuseppe Ayala, che fu P.M. a Palermo ai tempi proprio con Falcone e
Borsellino, aggiunge però – tre anni prima che lo dicesse il P.G. Francesco Mauro
Iacoviello – “ma oggi non lo rifarei”.
E così, come giustamente commentò il giornalista dell’agenzia “il creatore
(Ayala) oggi prende le distanze dalla sua creatura” per “tutte le incertezze … questa
cosa è diventata di moda … mi pare che in alcuni casi ci sono state delle
contestazioni generosamente messe in piedi”.
Ciò detto, farebbe bene Ingroia ad insorgere, prima che contro la Suprema
Corte, prima che contro il P.G. Francesco Mauro Iacoviello, contro il Dott. Giuseppe
Ayala, Magistrato che fu sul campo a Palermo, facendo parte del pool antimafia
insieme ai giudici Falcone, Borsellino, Caponnetto e altri.
*** Per i tutti motivi sopra esposti, riservando la proposizione di eventuali motivi
nuovi
CHIEDE
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che l’Ecc.ma Corte Suprema di Cassazione voglia annullare la sentenza
impugnata ordinando conseguentemente la trasmissione degli atti alla Corte di
Appello di Catania, competente ex Lege.
Caltanissetta 13 marzo 2012
Avv. Giuseppe Lipera