conversazioni in esilio

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La Cultura 769

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Page 1: Conversazioni in esilio

La Cultura

769

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Norman Manea, Hannes Stein

Conversazioni in esilio

Traduzione e cura di Agnese Grieco

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www.saggiatore.it (sito & eStore) Twitter @ilSaggiatoreEd Facebook il Saggiatore editore

© MSB Matthes & Seitz, Berlin 2011

© il Saggiatore S.p.A., Milano 2012

Titolo originale: Gespräche im Exil

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Sommario

Nota all’edizione italiana 7

Una premessa 11

I CONVERSAZIONE. Disordine e sofferenza precoce 13

II CONVERSAZIONE. Il momento della liberazione 19

III CONVERSAZIONE. Della felicità 25

IV CONVERSAZIONE. Il compagno Stalin 30

V CONVERSAZIONE. Il monopolio ebraico 43

VI CONVERSAZIONE. Sulle donne 50

VII CONVERSAZIONE. Nel lager senza occhiali 61

VIII CONVERSAZIONE. Il lungo addio 67

IX CONVERSAZIONE. Su Israele 75

X CONVERSAZIONE. Un pedone in America 81

XI CONVERSAZIONE. Il rabbino 89

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XII CONVERSAZIONE. Il diritto alla stupidità 95

XIII CONVERSAZIONE. Lo scandalo 104

XIV CONVERSAZIONE. Su Celan, Fondane e Cioran 115

XV CONVERSAZIONE. Una lettera a nessuno 124

XVI CONVERSAZIONE. Nabokov 133

XVII CONVERSAZIONE. Il Proust dell’Est 138

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Nota all’edizione italiana

Gespräche im Exil è apparso nel 2011 presso la casa editrice berlinese Matthes & Seitz. Il libro raccoglie alcuni temi emer-si dalle conversazioni, in lingua inglese, tra Norman Manea e Hannes Stein, avvenute nell’inverno del 2009.

In occasione della sua traduzione in romeno e della pubbli-cazione presso l’editore Polirom di Bucarest, nel dicembre del 2011, Norman Manea ha ritenuto opportuno apportare alcuni cambiamenti al testo tedesco.

Con la collaborazione di Alina Quast Cojocaru, che desidero qui ringraziare, è stato possibile un puntuale lavoro di confron-to tra l’originale tedesco e la versione romena. L’edizione ita-liana tiene quindi conto di varianti, aggiunte e tagli voluti dallo scrittore.

Agnese Grieco

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Conversazioni in esilio

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L’esilio inizia con l’uscita dalla placenta.

Il ritorno dell’huligano

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Una premessa

Nell’inverno del 2009 presi il treno alla Penn Station, a Man-hattan. Per quasi due ore viaggiai verso nord. Attraversando la Hudson Valley innevata, raggiunsi la stazione di Rhinecliff e mi feci portare da un taxi fino al Bard College.

Il Bard College, che si trova in una posizione idilliaca, isolato in mezzo a un bosco, è una piccola e raffinata università priva-ta americana, in cui si attribuisce grande valore alla letteratura e alle arti. Lo scrittore ebreo romeno Norman Manea vi inse-gna da più di venti anni in qualità di professore di letteratura e cultura europea. Quando non si trova nel suo appartamento a Manhattan, abita qui, in una casa nel campus dell’università.

Incontrai Norman Manea nel 2000, quando era ospite dell’American Academy a Berlino. I suoi libri però li conosce-vo già da tempo. La casa editrice Steidl aveva pubblicato di lui «Biografia robot» e la raccolta Training fürs Paradies.

Entrambi i libri, purtroppo da tempo esauriti, mi avevano profondamente colpito. Ricordo vagamente anche un reading a cui Norman Manea aveva partecipato alla Literaturhaus di Am-

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burgo. Doveva essere poco dopo la caduta del muro di Berlino – oppure era successo prima? A ogni modo, in quell’occasione, la timidezza mi impedì di andare a parlare con lui.

Ci incontrammo di nuovo a New York. E un bel giorno de-cidemmo, Norman Manea e io, di fare una lunga intervista. Mi-si quindi in valigia il mio registratore e mi recai da lui.

Abbiamo passato insieme tre giorni al Bard. Cominciavamo le nostre conversazioni al mattino, subito dopo colazione, per poi continuare nel pomeriggio, dopo esserci concessi una bel-la siesta romena. Durante il nostro incontro visitammo, sotto una leggera pioggia, la tomba di Hannah Arendt, che è sepol-ta, accanto al suo consorte Heinrich Blücher, nel campus del college. Nonostante tutta la buona volontà e la fantasia di en-trambi, un muro rimase insormontabile: la lingua di Eugène Ionesco e Mircea Eliade, di Nicolae Ceaușescu e Ion Luca Ca-ragiale, di Ion Antonescu ed Emil Cioran rappresenta per me un libro chiuso da sette sigilli. Parlammo quindi in inglese, la lingua di tutti coloro che non hanno patria. Cella Manea – mo-glie di Norman – cucinò divinamente per noi e fece in modo che la conversazione non ci sfuggisse troppo di mano. Alla fine mi ritrovai ad avere quindici ore registrate.

Il libro riporta i passaggi più rilevanti e di maggiore inte-resse contenuti in questa nostra intervista, racconta della vita e dell’opera di uno scrittore, senza il quale alla letteratura con-temporanea mancherebbe qualcosa.

Hannes SteinNew York, agosto 2010

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I CONVERSAZIONE

Disordine e sofferenza precoce

HANNES STEIN Qual è il suo primo ricordo d’infanzia?NORMAN MANEA Forse è il caso di premettere che io non ho al-

cun ricordo chiaro del periodo precedente la deportazio-ne. Quando fummo deportati, era il 1941, avevo cinque anni. La mia memoria è sfocata, direi. Mi è però rima-sta un’immagine: un giorno di sole davanti alla libreria di mio nonno. La porta è aperta. Ecco, l’immagine è que-sta: una giornata piena di sole e la porta della libreria aperta.

HS Questo ricordo risale a prima della deportazione?NM Sì, a prima della deportazione. Dopo, il nonno non esiste-

va più, non c’era più nemmeno la libreria. Molte cose non c’erano più.

HS È un ricordo felice.NM Un ricordo molto felice. Questa immagine è rimasta dentro

di me. Non so darmene una spiegazione, non riesco a rico-struire con che cosa avesse a che fare. Io so di essere stato un bambino viziato – viziato dalla mia famiglia, probabil-

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mente anche da mio nonno. Era un uomo particolare, pie-no di ironia, saggio. Morì molto presto, durante il primo rigido inverno, dopo che arrivammo a destinazione.

HS Nella Transnistria.NM Sì. Quello fu il mio primo grande trauma: l’incontro con la

morte. Io non sapevo che cosa fosse la morte. E quando il nonno scomparve provai un grande spavento.

HS Ha dei ricordi di quando è stato deportato?NM Ho impresse nella mente immagini chiare, alle quali non cor-

risponde però un’altrettanto chiara cronologia degli eventi. Le immagini sono legate a sensazioni psichiche: paura, fame, freddo, malattia. Sì, ho dei ricordi. Mi ricordo della prima notte, dopo il nostro arrivo. Fu un arrivo da incubo, poiché dopo che ebbero aperto le porte del vagone…

HS … del vagone bestiame…NM … cominciarono una scarica folle di botte, una serie di

furti. La sera prima della deportazione, mio padre era sta-to avvertito da un ufficiale romeno che provava simpatia per lui. L’ufficiale sapeva di quella data. Mise in guardia mio padre. Stai attento, gli disse, non prendere con te molta roba, perché dovrai andare molto lontano e hai due bambini piccoli. Porta solo vestiti pesanti, e soldi o ogget-ti di valore, che laggiù ti serviranno per salvarti la pelle. Non prendere troppa roba però, ti sarebbe solo d’impac-cio.Ricordo quella prima notte. Nella mia memoria sono ri-maste impresse alcune scene avvenute lì, dove ci aveva-no riunito. Un sacco di famiglie stipate in un’unica stanza. Caos e panico.

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HS Se non sbaglio, erano i romeni a organizzare e gestire i la-ger nella Transnistria?

NM La maggior parte dei lager era gestita dai romeni. Soprat-tutto nel Sud del paese. Più a nord, invece, alcuni lager erano amministrati dai tedeschi. Da lì era pressoché im-possibile scappare. Trovare scampo. Con i romeni, inve-ce, la corruzione funzionava e, a volte, poteva portare dei vantaggi. Il pericolo che incombeva su di noi era invece di natura caotica, meno prevedibile. I tedeschi – diciamo co-sì – erano razionali nella loro irrazionalità. I romeni no. La brutalità, i momenti di rabbia estrema, la violenza sangui-naria erano fenomeni del tutto improvvisi. I tedeschi era-no più disciplinati. Se si ordinava loro di non uccidere, non uccidevano, se invece si ordinava loro di uccidere, uccide-vano in modo molto ordinato ed efficiente. Noi eravamo sotto il controllo dei romeni.

HS La mortalità nei lager della Transnistria era del cinquanta per cento.

NM Sì. E la maggioranza dei decessi avvenne nei primi tempi dei lager, durante il primo e il secondo inverno. Poi – tra il ’42 e il ’43 – le sorti della guerra divennero ambigue. Fu dopo la battaglia di Stalingrado. I romeni, come sempre pronti a adeguarsi e opportunisti, compresero che forse i tedeschi non avrebbero vinto la guerra, che il risultato, al-la fine, non sarebbe stato chiaro. E la faccenda degli ebrei, dei campi di concentramento, dopo la guerra sarebbe po-tuta diventare un problema, un capo d’accusa. Di conse-guenza ci trattarono leggermente meglio. Ci fu permesso di lavorare in fabbrica. Grazie al fatto che mio padre la-

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vorava, noi avevamo qualcosa da mangiare. Edgar Hilsen-rath descrive molto bene questo tipo di lager nel suo libro Notte. Non ci mettevano nei forni crematori. Non venivi necessariamente ucciso. Morivi per le malattie, morivi di fame…

HS … perché un guardiano non ti poteva soffrire e si metteva a sparare…

NM Già. Oppure perché qualcuno decideva di volersi diverti-re: oggi si organizza un massacro e lo spasso è assicurato! Gli assassini, come sappiamo, erano sempre di buon umo-re e provavano piacere a umiliare le loro vittime. A parte questi episodi sinistri, non esisteva nessuna certezza. Tut-to rimaneva nel caos. Nei lager prosperava il mercato ne-ro, come testimonia anche Hilsenrath. Per avere una mela si dava via un anello, o un paio di scarpe o quello che an-cora si possedeva.

HS Suo padre aveva con sé del denaro. I risparmi fatti per l’ac-quisto di una casa.

NM Sì. Mio padre e mia madre erano una giovane coppia che aveva messo da parte un poco di denaro. Il primo shock li attendeva al fiume Nistro, al confine tra la Romania e l’Ucraina. Lì c’era infatti un ufficio nel quale era possibi-le cambiare la valuta romena in una specie di marco te-desco. Non si trattava però del marco in circolazione in Germania, questa valuta esisteva solo nei nostri territori. E la prima catastrofe fu che, con il cambio, il valore del lo-ro capitale si dimezzò immediatamente. In seguito chiesi a mia madre di parlarmi di quel periodo, e mia madre mi raccontò che un ufficiale romeno era andato da lei dicen-

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dole di non cambiare nemmeno un centesimo del denaro in suo possesso lì in Romania, altrimenti avrebbe perso tut-to. Dall’altra parte del Nistro il cambio era molto più favo-revole, le disse. Il tipico caos dei tempi di guerra.Dunque, mio padre possedeva una piccola somma di de-naro e mia madre spese molti di quei soldi per affittare un carro. Per via dei nonni. Non potevano camminare. Erano vecchi – avevano l’età che adesso ho io.

HS Sta parlando dei genitori di sua madre…NM Morirono molto presto, subito dopo l’arrivo al campo.

Sebbene avessero anche altri figli, mio zio e le mie zie, mia madre era la più affezionata a loro. Lei era la figlia più cara, la più giovane. E così i nonni vennero con noi. Nonostan-te gli enormi sforzi che mia madre fece per salvarli, mori-rono. Di tifo.

HS Che cosa successe alla famiglia di suo padre?NM La maggior parte dei membri della famiglia paterna non

fu deportata. A subire la deportazione furono piuttosto gli ebrei della Bucovina e della Bessarabia. Nella Valacchia e in Moldavia erano in vigore le leggi razziali. Leggi mol-to dure. Nella parte occidentale del paese, in Transilvania, che all’epoca – dopo il secondo arbitrato di Vienna – era amministrata dagli ungheresi, a partire dal 1944 gli ebrei invece vennero deportati ad Auschwitz.

HS E questo accadde dopo il successo del colpo di stato organizzato dai nazionalsocialisti delle Croci frecciate1

1 Il Partito delle Croci frecciate fu un raggruppamento nazionalsocialista ungherese, che nacque ufficialmente nel 1937, come evoluzione del Partito della Volontà nazionale, fondato nel 1935 da Ferenc Szálasi. Vicino all’ideo-

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contro l’ammiraglio Horthy, che nel 1944 garantì loro il potere.

NM Sì. Tra quei deportati c’era Elie Wiesel. Anche gli ebrei che vivevano nel centro del paese – nella Valacchia e nel-la Moldavia – soffrirono molto, possiamo rendercene con-to leggendo i diari di Mihail Sebastian da Bucarest. Però non vennero deportati. Per loro la deportazione era piut-tosto il pericolo sempre incombente. Alcuni vennero chiu-si in campi di lavoro, ma non deportati nella Transnistria.

HS Quanto tempo rimase nel lager, lei?NM A partire dall’ottobre 1941. Di fatto tornammo indietro,

in Romania, nell’aprile del 1945. L’ultimo anno però, lo passammo sotto il comando russo. A liberarci fu l’esercito sovietico. Rimanemmo dove eravamo, fino a che non ci fu permesso il ritorno.

logia nazista, il gruppo univa al nazionalismo – l’ungarismo – l’accettazio-ne della «teoria delle razze». Nell’ottobre del 1944, con l’appoggio esplici-to della Germania nazista, le Croci frecciate presero il potere in Ungheria, deponendo l’ammiraglio Miklós Horthy. Nei pochi mesi di governo delle Croci frecciate guidato da Szálasi vennero organizzate deportazioni in massa di cittadini di religione ebraica. [N.d.C.]

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II CONVERSAZIONE

Il momento della liberazione

HS Si ricorda dell’Armata sovietica?NM Molto bene. All’epoca non ero più bambino – ero già

un vecchio di otto anni, quasi nove. Quando arrivarono i russi noi ci trovavamo a Mogilev-Podolsky, una famo-sa città ucraina.

HS Eravate ancora nel lager, oppure già fuori?NM I lager non erano per forza dei veri e propri lager. Ci

disposero nei villaggi abbandonati dagli ucraini, in case senza porte e finestre. Tutt’intorno, i soldati romeni. Lo-ro non si mettevano certo a costruire dei nuovi lager per noi.

HS C’era il filo spinato?NM In alcuni campi sì, in altri no. Nel nostro, per esempio,

non c’era. C’è un fatto piuttosto interessante: all’epoca in Transnistria vivevano tre bambini, che in seguito diven-nero scrittori. Io – che allora avevo cinque anni –, Aharon Appelfeld – di otto – ed Edgar Hilsenrath – di quattordi-ci o quindici anni. E l’età fa un’enorme differenza! Hilsen-

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rath ha un’immagine coerente della situazione, Appelfeld già meno – comunque più coerente della mia.

HS Come visse il momento della liberazione? NM I russi arrivarono nella notte. I tedeschi si erano ritirati in

preda al panico.HS E i romeni?NM Non so. Credo che se ne fossero già andati prima. Quando

arrivarono i russi, a ogni modo, i romeni non c’erano più. E i tedeschi, come ho detto, erano completamente in pre-da al panico. Noi stavamo vicino al ponte. Sul fiume Nistro c’erano due ponti: uno di legno e uno di ferro, per i tre-ni. Poco prima di mezzanotte udimmo all’improvviso una fanfara, della musica. Una specie di marcia funebre. Ave-vamo paura che i tedeschi – oppure gli ucraini – all’ultimo decidessero di liquidarci tutti. All’epoca giravano piccoli gruppi di volontari ucraini, che potevano essere ancora più pericolosi dei tedeschi.Il nostro timore era grande e non sapevamo che cosa si-gnificasse quella musica. Dopo un paio di minuti la musi-ca finì e ci fu una grande esplosione. I ponti saltarono in aria. Uno dopo l’altro. Noi guardammo fuori dalla finestra e ai nostri occhi si presentò un paesaggio da incubo. Tut-te le automobili, i carri armati e gli altri mezzi di traspor-to erano in acqua oppure sui tronconi dei ponti squarciati. Una parte dei tedeschi stava su una riva, l’altra sulla riva opposta. Poi cominciò uno scambio di fuochi di artiglie-ria. Quella fu, come dire, una notte convulsa. E al mattino dopo, quando tutti aspettavano i carri armati russi, la vit-toriosa Armata sovietica, chi si fece vedere?

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HS Me lo dica lei!NM Un gruppo di giovani partigiani a cavallo. Erano l’avan-

guardia dell’Armata, che arrivò dopo due, tre giorni. Quel-lo che vedemmo furono quindi questi ragazzi – ed era quasi comico che i tedeschi fossero scappati davanti a lo-ro. Davanti a dei giovani dilettanti! D’accordo, forse non erano poi così dilettanti.In città, comunque, rimaneva ancora qualche tedesco. Era molto pericoloso uscire per strada, c’erano continui scon-tri a fuoco. Trovavi carri abbandonati, automobili. Dentro gli automezzi c’erano pacchi pieni di cioccolato, provviste alimentari, tutto quello che aveva a disposizione l’esercito. In molti pacchi c’era però anche dell’esplosivo. Le perso-ne correvano per sfamarsi e morivano.

HS Quale era la divisa dei giovani partigiani?NM Avevano un abbigliamento decisamente disinvolto. Le pi-

stole automatiche erano la loro unica uniforme. Intendo dire quelle armi con i caricatori a tamburo: i kalašnikov. A farci molta impressione furono anche i missili katjuša. Nel-lo scontro con i tedeschi dall’altra parte del fiume avevano provocato effetti devastanti.

HS C’erano degli ebrei tra i partigiani?NM Probabilmente sì. Nell’Armata sovietica c’erano molti

ebrei, sia ufficiali che soldati semplici.HS Come vi hanno trattato i russi? Ci furono degli stupri? NM Non riesco a ricordarmi. È possibile. Tenga però presente

che non stiamo parlando dell’occupazione della Germania. Si trattava della liberazione dell’Ucraina, che era territo-rio sovietico. E i russi, lì, chi dovevano violentare, le donne

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ucraine? In ogni caso non era la stessa cosa che entrare nel territorio del nemico provando l’impulso della vendetta.

HS Per lei l’arrivo dell’Armata sovietica fu quindi un enorme sollievo. La paura era scomparsa. Non c’erano più ragioni di temere.

NM La paura non c’era più. I russi però arruolarono subito gli uomini, compreso mio padre, per inviarli al fronte, in pri-ma linea. Mio padre divenne quindi un soldato.

HS Ne fu contento? Le faccio questa domanda perché un mio amico a cui gli americani, dopo averlo liberato da un cam-po di concentramento, misero in mano un fucile, dandogli finalmente la possibilità, indossata l’uniforme dell’esercito degli Stati Uniti, di opporsi al nemico, ritenne questo mo-mento il più felice della sua vita. Va detto che lui all’epoca era giovane, non aveva ancora compiuto vent’anni.

NM Mio padre non ne fu particolarmente contento. Gli uomi-ni, indeboliti dagli anni passati nei lager, erano del tutto impreparati. Furono inviati al fronte per morire. Era asso-lutamente chiaro. Mio padre aveva trentasei anni, una mo-glie e due bambini, era depresso e senza forze…

HS E la sua età interiore non era quella di un uomo di trenta-sei anni, piuttosto di uno di sessantatré.

NM Infatti. Così cercò di sottrarsi all’arruolamento. HS In che modo?NM Scappò insieme a un compagno, approfittando di un mo-

mento di distrazione dei russi. I due rimasero nascosti nei boschi per giorni. Mia madre nel frattempo aveva seguito il suo impulso di trasferirsi al Sud, in Bessarabia, per essere più vicina a casa. Il caso volle che ci riunissimo lì con mio

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padre, scappato attraverso i boschi. In Bessarabia lui an-dò a lavorare in una banca sovietica. Imparò velocemente il russo e l’ucraino. E io cominciai a frequentare la scuola. La prima e, mi pare, anche la seconda classe, le feci in una scuola russa.

HS C’era un ritratto di Stalin appeso alla parete?NM Probabile. I miei ricordi di questa scuola però non riguar-

dano Stalin. Del periodo russo mi sono rimasti impressi nel-la memoria due dettagli: la cravatta rossa che ci diedero in quanto Giovani pionieri e il fatto che la mia compagna di scuola Maja – una ragazzina bionda e molto bella, figlia di un importante ufficiale – ricoprisse i libri di scuola, al con-trario di noi altri, gente comune, con una stupenda carta colorata e lucente, rossa o gialla. La scuola mi piaceva.

HS Quanti eravate in classe?NM Venticinque o trenta bambini. Maschi e femmine. HS Quanti di loro erano ebrei?NM Un paio.HS La sua famiglia era ebrea osservante? Rispettavate il digiu-

no per Yom Kippur? Festeggiavate Pesach? Mangiavate kasher?

NM Digiunavamo per Yom Kippur. Intendo dire: i miei geni-tori digiunavano. Io andavo a scuola anche quel giorno, poiché nel frattempo ero diventato uno zelante comunista. Ricordo che mio nonno era religioso osservante. Mia ma-dre restò una donna ebrea tradizionale. Certo, era anche una madre molto ebrea, ma non più così osservante. La ca-sa non era kasher, tuttavia ogni anno prima di Pesach si fa-cevano le grandi pulizie. La mamma non mangiava latticini

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insieme alla carne e non mangiava neppure il maiale, non era però contraria al fatto che noi non mangiassimo kasher. Lei diceva sempre che la carne di maiale non riusciva a di-gerirla, che la faceva stare male. Con il tempo, l’avversio-ne era evidentemente diventata un fatto biologico. Io sono cresciuto in una famiglia ebrea tradizionale, ma non di ri-gida osservanza religiosa, e questo sia prima sia dopo il pe-riodo nel lager, e perfino durante il comunismo.

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III CONVERSAZIONE

Della felicità

HS Nell’aprile del 1945 lei ritorna in Romania. Nel luogo del-la sua infanzia?

NM No. Nel paese da dove venivamo non c’era più niente. Tor-nammo in una città nelle vicinanze, Fălticeni, non nella Buco-vina, ma un poco più a sud. Lì vivevano i miei nonni paterni, il fratello di mio padre e altri parenti. Loro non erano stati de-portati. Restammo lì tre mesi, poi ci trasferimmo a Rădăuți.

HS La città che diede i natali a Dan Pagis. Il grande poeta liri-co israeliano.

NM Mio padre lavorava come contabile. Rimanemmo lì due an-ni. E io ero un bambino felice!

HS Perché?NM Avevo tutto: la scuola, i compagni… Rădăuți era una città

piacevole. Molto verde. L’atmosfera, appena dopo la fine della guerra, era molto vivace. Ci sentivamo come rinati. A scuola ero un allievo eccellente.

HS Le piaceva andare a scuola?NM Molto. Ricordo ancora la mia maestra. Il suo nome ucrai-

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no era Vera Juraschok. A casa sua ho passato la mia prima festa di Natale. Ero il suo alunno preferito. Avevo i capel-li rasati…

HS Per via dei pidocchi?NM No, era la regola a scuola. Tutti gli scolari avevano la testa

rasata. Nella mia memoria sono rimasti molti particolari di quella serata natalizia. Soprattutto, però, ricordo anco-ra con precisione il mio imbarazzo. In quella casa regna-va un’atmosfera di festa, mistica, che io non comprendevo. Mi trattavano tutti particolarmente bene, perché piacevo alla mia maestra. Credo anche che lei avesse raccontato agli ospiti che ero un bravo allievo, un ragazzino ebreo, so-pravvissuto ai campi di concentramento. Non so. A ogni modo tutti erano eccezionalmente gentili con me. Allegri, premurosi. Come se io fossi stato di vetro e bisognasse sta-re attenti a non rompermi. Era qualcosa di stupendo, che al tempo stesso, però, mi intimidiva. Per la prima volta partecipavo a una festa di Natale tradizionale, con i tipici addobbi natalizi. Quando i miei genitori, dopo, mi doman-darono come fosse andata, non riuscivo a rispondere. Mi sentivo un poco colpevole: io, un ragazzo ebreo, ero stato in quel luogo straniero e particolare, avevo partecipato a tutte quelle festività bizzarre e mistiche, senza sapere nul-la di Gesù e tutto il resto. Allora avevo dieci anni, e la ma-estra era davvero incantevole, meravigliosa.

HS Parliamo un poco di Dan Pagis.NM A Rădăuți non l’ho mai visto. Quando io avevo tredici anni,

tornammo a vivere a Suceava, il nostro paese di origine. Lì incontrammo di nuovo la cameriera che aveva lavorato da

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Della felicità 27

noi, un membro particolarmente fedele della nostra famiglia. Una persona leale, di grande onestà, estremamente devota. Quella donna ci voleva bene e noi volevamo bene a lei. Ci aveva raggiunto nel lager portandoci cibo e vestiti. Riuscì a farlo perché conosceva alcuni nostri parenti che non furono deportati. Scrisse loro chiedendo del denaro per poterci aiu-tare. Una cosa proibita. La arrestarono e venne processata. Ebbe molti problemi per averci aiutato. Era una cristiana di origini contadine, orfana. Era stato mio nonno ad accoglier-la in casa nostra. Una donna stupenda. Molto bella, anche. Un’eroina che non ha ricevuto onorificenze e che in segui-to è diventata a sua volta una vittima del comunismo. Prima della deportazione era lei a occuparsi di me, non la mamma. Il nostro era un legame del tutto particolare, io l’amavo mol-to. E anche lei mi amava, io ero il suo principe.Quando nel 1947 tornammo nella nostra città, lei era diven-tata la prima signora in società. E questo perché era la mo-glie del Primo segretario del Partito comunista di Suceava. Immagini il nostro stupore! Suo marito, il grande comunista, invitò mio padre per un colloquio. Io so tutto su di lei, da mia moglie, gli disse. So che lei è un uomo buono e onesto, che si è dimostrato generoso. So che cosa ha fatto per mia moglie. So che mia moglie era considerata e trattata come un membro della famiglia e non come una cameriera. Pen-so quindi che lei dovrebbe stare con noi. Stiamo costruendo una nuova società e il suo posto è qui, al nostro fianco. Mio padre, che non si era mai interessato di politica, si fe-ce convincere e divenne membro del Partito comunista. In seguito divenne anche direttore di una fabbrica e rivestì al-

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cuni ruoli di rilievo, ma solo per breve tempo. Poi finì in carcere, ma questa è un’altra storia.In ogni caso io, tredicenne, ero alquanto conquistato dal-la favola comunista. Voglio però specificare che prima, a Rădăuți, ero stato anche «betarista», un giovane simpatiz-zante di Ze’ev Jabotinskij, il fondatore della corrente di de-stra, «revisionista», del sionismo, nato nel 1880 a Odessa e morto nel 1940 in America. Allora ero convinto che dovessi-mo lasciarci alle spalle la mentalità del ghetto e abbandonare le abitudini della diaspora. Dovevamo tornare «a casa» nel-la «Terra santa» e costruire il nostro paese, per dimostrare che non eravamo più dei vigliacchi, sempre umiliati dagli al-tri. All’epoca aderivo in modo entusiastico a simili idee. Era un’altra bella favola per un giovane sopravvissuto.

HS Come era entrato in contatto con tutto ciò?NM La componente ebraica nella popolazione di Rădăuți era

rilevante. Esistevano organizzazioni sioniste che andava-no dall’estrema destra all’estrema sinistra. Ci furono di-battiti furiosi tra le fazioni opposte, veri e propri scontri. Non mancava nulla di tutto quello che la follia ebraica è in grado di inventarsi. Lo scontro, dopo la fine della guerra, con l’emergere della questione dell’atteggiamen-to da tenere nell’immediato, divenne particolarmente ac-ceso. Bisognava rimanere? Bisognava emigrare? Alcuni credevano che in Romania tutto sarebbe cambiato per il meglio, altri invece non vedevano alcun futuro nel pae-se. Mi ricordo di tutte le organizzazioni sioniste: Hanoar Hatzioni, Gordonia, Hashomer Hatzair e, per l’appun-to, Betar, la mia. Perché facevo parte di Betar? Perché a

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Rădăuți era l’organizzazione sionista più potente, quella che aveva un programma convincente per il futuro.

HS Di che gruppo faceva parte Dan Pagis?NM Non lo so. Dan Pagis rimase lì solo per poco tempo. Io non

l’ho mai conosciuto.HS Non è curioso? Lei che era un ragazzino betarista rimase

in Romania, mentre Dan Pagis – che forse non faceva par-te di nessuna organizzazione sionista – emigrò davvero in Israele e divenne un kibbutznik.

NM In queste nostre conversazioni emergeranno di sicuro molti paradossi simili. La differenza tra Dan Pagis e me è che lui era orfano, mentre io no. Io ero tornato in Romania insieme alla mia famiglia, decidere se emigrare o meno non dipen-deva da me. Mio padre e mia madre stavano a sentire i miei infiammati discorsi pro emigrazione, sorridevano e poi di-cevano: aspettiamo, vediamo, non abbiamo fretta. La giova-ne sorella di mio padre, anche lei una betarista convinta, un giorno venne da noi portando dei biglietti per un passaggio in nave. Era il 1946. Mio padre disse: sono troppo stanco, ho appena disfatto le valigie, non posso rifarle di nuovo.

HS Se suo padre avesse preso una decisione diversa, oggi lei sarebbe israeliano. Riesce a immaginarselo?

NM Sì. Alcuni miei compagni di scuola di Rădăuți, ma anche di Suceava, sono già da tempo israeliani. Cittadini di Israele.

HS In uno dei suoi libri, lei racconta una barzelletta su quat-tro amici. Uno vive a Tel Aviv, l’altro a New York, e uno a Buenos Aires. E il quarto? È uno che ama l’avventura. Abi-ta a Bucarest. Lei è…

NM … quello che ama l’avventura, sì.