coproespertiperesperienza.files.wordpress.com · web viewuniversitÀ cattolica del sacro cuore....
TRANSCRIPT
UNIVERSITÀ CATTOLICA DEL SACRO CUORE
Facoltà di Scienze Politiche e Sociali
Corso di Laurea Magistrale Politiche e servizi sociali per famiglie,
minori e le comunità
LA PARTECIPAZIONE DEGLI ESPERTI PER
ESPERIENZA ALLA FORMAZIONE IN
SERVIZIO DEGLI OPERATORI.
Un’esperienza nella salute mentale
Relatore:
Chiar.ma Prof.ssa Raineri Maria Luisa
Candidata:
Marta Castro Cambòn
Matricola N. 4503026
ANNO ACCADEMICO 2016/2017
1
Indice Ringraziamenti
Presentazione 5
Capitolo primo
1. La PERSONA che ha una malattia mentale
1.1 Prima di tutto PERSONA 7
1.2 “La svolta” con la legge Basaglia 10
1.3 Proposta di Legge 2233/2014 15
1.4 Care e curing 20
1.5 Oltre il curing, c’è la care: La Recovery Star 25
Capitolo secondo
2. Partecipazione di utenti e famigliari nella salute mentale
2.1 Partecipazione 29
2.1.1 Le origini
2.1.2 Il valore aggiunto della partecipazione di utenti e famigliari nei servizi
2.2 La partecipazione di utenti e famigliari nella salute mentale 40
2.2.1 Le difficoltà da parte dei servizi nel coinvolgimento degli utenti
2.3 Modelli di partecipazione 49
2.3.1 Scala della relazionalità (Folgheraiter,2011)
2.3.2 Scala di Hart (1992) adattamendo da Arnstein 1969
2.3.3 Seconda scala intensità della partecipazione, Wilcox (1994)
2.3.4 Livelli di rilevanza nei contenuti della partecipazione
2.3.5 Il modello olistico (Warren, 2007, p.51)
2.3.6 La libertà di scegliere di non partecipare, è comunque partecipazione
2.4 Ostacoli alla partecipazione 61
2.4.1 Coinvolgimento solo “di facciata”
2.4.2 Limiti nei meccanismi di rappresentanza
2.4.3 Gli operatori non aiutano le persone a partecipare
2.4.4 Assenza di risultati a breve e medio termine
2.4.5 La cultura della relazione operatori e utenti non cambia
2.4.6 Gli utenti che partecipano non sono autonomi nei confronti del servizio
2.5 La partecipazione come empowerment 68
2.6 Favorire la partecipazione nei servizi e cultura organizzativa 72
2.7 Le figure degli Utenti e Famigliari Esperti 76
2
Capitolo terzo
3. Il coinvolgimento di esperti per esperienza nella formazione 85
3.1 Il perché del coinvolgere gli esperti per esperienza nella formazione di base: uno sguardo
sulla letteratura nazionale e internazionale
3.2 Incrocio tra sapere tecnico e sapere esperienziale 95
Capitolo quarto
4. Una ricerca valutativa su un progetto di formazione in servizio di operatori con la
partecipazione di utenti e famigliari
4.1 Il contesto della ricerca 101
4.1.1 I protagonisti del progetto CO.PRO
4.1.2 Le quattro lezioni di formazione
4.1.3 Uno sguardo osservativo sul progetto
4.1.4 La prosecuzione di CO.PRO
4.2 Una ricerca valutativa su CO.PRO
114
4.2.1 Domande di ricerca
4.2.2 Strumenti
4.2.3 Campione
4.3 Analisi informazioni
117
4.4 Risultati
4.4.1 Le risposte degli operatori
4.4.2 Le risposte degli esperti per esperienza
4.5 Conclusioni 125
Conclusione 129
Bibliografia 131
Allegato n.1 – Questionario somministrato agli operatori 137
Allegato n.2 – Questionario somministrato agli esperti per esperienza 139
Allegato n. 3 – Documento formazione in servizio degli operatori, “Pillole di Recovery” 141
3
Un grazie speciale
Questo mio lavoro di tesi lo dedico a tutti i famigliari, utenti e operatori che ho
incontrato lungo il mio percorso e che hanno reso possibile il progetto CO.PRO. In
modo particolare ringrazio Anna, Maria, Giancarlo, Stefano, Oscar, Tiziano, Fulvia,
Delfo, Baldo, Claudio, Giuliana, Grazia, Alessia e Nicoletta perché senza di loro
questo lavoro di tesi non sarebbe stato possibile.
Alle fondamenta della mia vita, Manuel e Mery che rappresentano il mio tutto e mi
hanno sempre accompagnata e sostenuta in ogni mia scelta.
A Nicolas, che in questo percorso chiamato vita mi accompagna come solo lui sa fare.
A tutti i miei amici, per avermi sopportata e supportata nei momenti difficili e faticosi
di questi cinque anni di Università, in particolare grazie a Giulia, mia sorella non di
sangue ma per scelta e David che mi ha sempre spronato a dare il meglio di me.
Alle mie compagne di corso, in particolare Martina, Giulia, Alice, Darika e Ingrid per
aver condiviso con me questo viaggio meraviglioso condividendo con me gioie e
difficoltà.
A tutti i miei docenti, per avermi trasmesso con passione e dedizione il loro sapere e
farne tesoro. Un grazie in particolare a Maria Luisa Raineri per avermi insegnato il
valore della parola “partecipazione”, a Nicoletta Pavesi per aver seguito fin dall’inizio
il mio piccolo lavoro di ricerca e Matteo Secchi per aver sopportato le mie paure e
perplessità durante il mio percorso di stage.
In ultimo, un ringraziamento a me stessa per la mia tenacia e testa dura che mi hanno
permesso di non mollare mai.
Marta
4
Presentazione
La partecipazione di utenti e famigliari può avvenire in diversi modi all’interno dei
servizi e secondo diverse logiche. Può avvenire nella progettazione, nella gestione e
nella valutazione dei servizi, consentendo di migliorarli, coinvolgendo i veri esperti del
problema, coloro che conoscono sia la malattia mentale e i suoi effetti, sia cosa significa
rivolgersi ai servizi.
La partecipazione permette inoltre di far valere gli interessi e la prospettiva degli
stakeholders che spesso vengono messi in secondo piano nei processi decisionali perché
vengono riconosciuti dal servizio solo come ricettori e destinatari.
Questo lavoro di tesi nasce con l’intento di analizzare le diverse interpretazioni date al
termine partecipazione, valorizzandone il significato e comprendendone l’essenza delle
azioni che la promuovono.
Nel primo capitolo verrà affrontato quello che a mio parere è il punto di partenza per
favorire una buona partecipazione all’interno dei servizi di salute mentale. È
fondamentale considerare prima di tutto l’essere persona, prima di qualunque
problematicità o patologia.
Il secondo capitolo analizza in maniera dettagliata la partecipazione, secondo diversi
modelli riscontrati nella letteratura che ne approfondiscono il significato, i benefici e le
difficoltà. Il coinvolgimento di utenti e famigliari può essere ostacolato da diverse
azioni, che a volte inconsapevolmente gli operatori fanno e che possono diminuire lo
spazio, la capacità e la possibilità di partecipazione all’interno del servizio. È molto
importante identificare questi ostacoli, evitandoli e promuovendo delle pratiche
partecipative. Durante la mia formazione e nelle varie esperienze di stage mi sono
accorta che vengono attribuiti significati diversi al termine “partecipazione”,
scambiandolo a volte con una mera consultazione o informazione. Questo è stato uno
dei motivi principali che mi ha spinta a studiarne maggiormente il significato attraverso
le varie definizioni, scale e modelli.
La partecipazione di utenti e famigliari all’interno del servizio può avvenire in diversi
modi e può riguardare diversi ambiti. Il coinvolgimento può avvenire in primis nel
percorso di cura, nella programmazione e realizzazione di prestazioni e servizi o di
iniziative comunitarie (Warren,2007). Oltre a queste può esserci partecipazione nelle 5
iniziative portate avanti autonomamente, nella ricerca (Bell, 2013), nella valutazione dei
servizi e nella formazione. Quest’ultimo punto ha rappresentato il fulcro del terzo
capitolo, nel quale ho raccontato varie esperienze nazionali e internazionali che
testimoniano la partecipazione di utenti e famigliari alla formazione di operatori o di
studenti.
In ultimo, nel quarto capitolo ho affrontato l’esperienza del mio progetto di stage svolto
in questi due anni di magistrale. Un progetto che vede la partecipazione di esperti per
esperienza alla formazione in servizio degli operatori attraverso delle lezioni
accreditate. Questo capitolo è composto da due parti, una prima parte che descrive il
contesto nel quale è avvenuto il progetto, una seconda parte invece che riporta una
ricerca qualitativa avente due domande di ricerca, una rivolta agli operatori e l’altra ai
formatori (in questo caso utenti e famigliari).
Concludendo, “la partecipazione riveste un valore importante per la crisi del welfare che
investe i servizi sociosanitari. In questo contesto di incertezza, carenza di risorse e
necessità di nuove politiche tutte da definire, la messa in valore delle energie e delle
competenze dei diretti interessati diventa la via principale per uscire dalla crisi, meglio,
per sfruttare l’occasione della crisi mettendo in campo energie umane prima schiacciate
da un sistema di welfare centrato sulla tecnicità.” (Stanchina, 2014, p.9).
Partendo dall’idea che la partecipazione di utenti e famigliari sia una possibilità per i
servizi di crescere e migliorare, riprendo una frase scritta da un operatore destinatario
della formazione nel mio progetto di stage, il quale in riferimento alla partecipazione
sostiene che questo è un “modo di poter attingere a risorse preziose sia nei momenti di
benessere che nelle acuzie. Credo fermamente che sia fondamentale lavorare insieme
nel perseguire un obbiettivo comune e che un buon risultato dipenda da condividere e
non dividere”. (Operatore DSM Como, 2017).
“La partecipazione è un’idea attorno alla quale è possibile rilanciare e potenziale
l’umanità e la razionalità dei malati mentali, contrastando le dinamiche disumanizzanti
che agiscono ancora dentro molte istituzioni socio-sanitarie convenzionali, anche se non
si tratta più di “istituzioni totali”. (Folgheraiter, 2007b, p. 185).
6
CAPITOLO PRIMO
La persona che ha una malattia mentale
1.1 Prima di tutto persona
Questo lavoro ha l’obbiettivo di sottolineare l’importanza dell’essere, inteso come
persona prima di qualsiasi altro disturbo che questa persona possa avere.
Nelle fasi iniziali di una sofferenza come quella di una patologia psichiatrica, la
diagnosi assume una centralità assoluta, finendo per portare alle persone a identificarsi
quasi completamente con la definizione psichiatrica di sé. Questo appiattimento
dell’umore della persona provoca un abbassamento della stima di sé, il quale è marcato
maggiormente nelle istituzioni psichiatriche dove questa si mescola alla drammatica
perdita di potere (empowerment) decisionale nei confronti degli operatori.
Scoprire che la sofferenza è solo una parte della propria vita e non necessariamente il
fulcro centrale consente di ridimensionare l’importanza della diagnosi e di ciò che essa
si porta dietro.
Questo ridimensionamento del ruolo e della “parte malata” corrisponde -spesso- a una
accettazione e comprensione, come nucleo di vulnerabilità individuale; quando si
accetta quello che si può fare o non riusciamo a essere, è proprio in quel momento che
la persona comincia a scoprire chi è e quello che è in grado di fare. (Deegan, 1988).
È importante considerare ogni persona non come un disturbo psichiatrico da curare ma
persona con una vita da vivere, alcuni aspetti della quale possono richiedere assistenza.
L’obbiettivo principale dell’assistenza psichiatrica dovrebbe essere quella di permettere
alle persone con un disturbo mentale di vivere la vita nel modo in cui desiderano.
L’assistenza alla persona deve essere intesa come un mezzo per raggiungere un fine,
non un fine in sé. Il senso deve essere quello di costruire una vita attorno alla patologia,
e questo richiede coraggio, perseveranza e creatività.
Nelle fasi di isolamento sociale, e in quelle di istituzionalizzazione prolungata, la vita
scorre lenta come una sequenza informe di giorni e notti senza significato e il futuro
cessa di esistere (Mainetti, 2012). Lo stigma interiore e esteriore domina sovrano. Per
uscire da questa dimensione senza tempo è fondamentale tornare a contatto con le
7
proprie capacità e punti di forza, far sì che si raggiunga una percezione di sé stessi che
va oltre a quella della patologia psichiatrica.
Per far questo è importante considerarsi persona prima di tutto, per dirla meglio
riprendo una frase di Maone e D’Avanzo (2015, p.28): “non sei il disturbo. Sei una
persona, un essere umano che per qualche ragione deve avere a che fare con
un’immensa sofferenza.”
Quando si viene a conoscenza di una patologia, soprattutto nel caso questa fosse
psichiatrica, capita che la persona perda la percezione di sé stessa in una forma più
olistica, vedendo la patologia al centro, come fulcro della sua vita diventando così non
una parte della propria vita ma bensì tutta. Questo processo lo si può considerare una
sorte di auto stigmatizzazione che avviene interiormente nelle persone che soffrono di
un disturbo mentale, al tempo stesso però anche i servizi possono favorire o meno
questa situazione, riconoscendo nelle persone non solo le difficoltà ma bensì le risorse
presenti, e soprattutto cercando di avere una visione della “la malattia come esperienza
del tutto umana” (a cura Maone e D’Avanzo, 2015, pp. 64-66).
Storicamente, il campo della salute mentale è stato in gran parte dominato dal modello
medico, incentrato sull’osservazione clinica, basata sulla diagnosi e trovando a questa
un trattamento. Per quanto questo sia stato essenziale per la comprensione di una serie
di condizioni difficili, non sempre esso si è tradotto in modo proficuo nell’ambito della
salute mentale (Maone e D’avanzo, 2015).
Lavorare con gli utenti rimanendo focalizzati primariamente sulla malattia, plasma il
modo di percepire le persone e il più delle volte ottiene il risultato di farle adattare alla
propria disabilità piuttosto che aiutarle nel loro percorso di cura. Le persone fanno
esperienza di sintomi disturbanti e disabilitanti e si confrontano continuamente con
ostacoli e difficoltà nella quotidianità. Allo stesso tempo però ogni persona possiede
delle risorse e una combinazione unica di punti di forza ambientali e personali che
devono essere riconosciuti ed essere messi in gioco per favorire i processi evolutivi.
“Il tipico processo di valutazione mina alla base la motivazione a causa dell’assillo dei
problemi, le fragilità, i deficit. È un effetto a cui le persone con disabilità psichiatrica
sono esposte ogni volta che interagiscono con i servizi di salute mentale. È all’interno di
questa interazione che esse vengono continuamente messe di fronte ai limiti insiti nella
loro vita ed è lì che spesso viene ribadito “il problema” che alberga dentro l’individuo.”
(Maone e D’Avanzo, 2015, p.106). Questo reprime la sensazione di speranza nelle
persone, crea demoralizzazione, sfiducia e rinuncia.
8
Focalizzandosi invece sul punto di forza si tende a rinforzare la motivazione e
l’individualità delle persone. L’idea di poter essere di aiuto solo se abbiamo compreso la
persona nella sua unicità è da sempre un principio fondamentale in psicologia, nel
lavoro sociale, nel campo della salute mentale, a prescindere dalla specificità delle
teorie e tecniche. Considerare i punti di forza enfatizza il valore connesso al considerare
gli esseri umani “come organismi orientati ad uno scopo.” (Maone e D’Avanzo, 2015, p
116)
Quando le persone fanno esperienza dei sintomi e delle reazioni delle società nei loro
confronti, le vite di queste persone si segnano di dolore e delusioni. Un aiuto
professionale basato sulla valutazione e sulla definizione dei problemi dell’utente, può
portare a restringere ulteriormente la definizione degli obbiettivi.
“Quando nelle routine socio-sanitarie si arriva a considerare il soggetto umano come un
oggetto plasmabile, un essere che non sa badare alla propria sopravvivenza e alla
propria salute, si crea il paradosso estremo: l’uomo curato è ridotto a un non-uomo.”
(Folgheraiter, 2007b, p.192) Un intervento di terapia classica, ad esempio nella
medicina il senso comune dà per scontato che il è potere di sanare è del terapeuta,
attribuendo a lui totalmente il potere dato dalla sua mente esperta e qualificata. In
questo modo però, considerando l’utente solo come destinatario delle scelte del
professionista, enfatizzando i meriti dei terapeuti è un modo ovvio di pensare alla
terapia in un modo non umano e neanche sussidiario (Folgheraiter, 2009b).
“Il sistema istituzionale di protezione sociale si apre al sociale quando stende un ponte
verso le capacità degli umani in società di essere cittadini motivati nel fronteggiare
problemi comuni cui il sistema stesso è preposto.” (Folgheraiter, 2009b, p.19).
Una vera rete di welfare non si costituisce da ruoli, ma bensì da persone spinti dalla
speranza per cercare di fronteggiare i propri problemi. Una rete come questa ci permette
di vedere l’uomo anche sotto il ruolo, qualora i suoi membri siano professionisti. Ci
permette di vedere l’uomo dentro l’uomo perché riconosce alle persone il sapere dato
dalla loro sofferenza nell’affrontare il problema che si trovano a fronteggiare. Attraverso
questa visione l’umanità è allo stesso tempo elemento costitutivo della rete e allo stesso
tempo la finalità, perché permette alle persone di migliorare le capacità e al tempo
stesso superare i loro limiti attraverso il relazionarsi con l’altro. (Folgheraiter, 2009b)
Attribuendo il valore giusto all’uomo sofferente, dobbiamo considerare dapprima il suo
diritto umano e insopprimibile a dirigere la propria vita, anche nel caso in cui essa risulti
fallita, o quasi. “Per quanto grave sia la difficoltà oggettiva in cui una persona si trova,
9
fuoriuscire da questa difficoltà è per definizione un processo umano ad alto tenore di
soggettività, non un fatto tecnico, perché il soggetto cambia mentre vive la sua vita, cioè
mentre esercita l’arte di essere l’uomo quale è pur volendo diventare altro.”
(Folgheraiter, 2009b, p. 19).
Il lavoro sociale ha a che fare, per definizione, con la persona, il particolare, se non con
il caso in senso stretto; ha infatti a che fare con i fatti sociali personalizzabili, con i fatti
riconducibili all’agire diretto delle persone interessate. “Le soluzioni dei problemi
sociali (intese come miglioramenti possibili di disagi, sofferenze, fragilità del vivere)
sono processi di azione congiunta che si sviluppano a partire dagli interessati diretti,
cioè da persone che li soffrono, le quali si trovano così ad essere soggetti a pieno titolo.
Per quanto possano essere, bisognose di aiuti, piene di limiti e disagi, le persone
coinvolte nelle soluzioni, ci appaiono come essere umani in quanto appunto agenti per
essenza.” (Folgheraiter, 2009b, p.29).
Concludendo, prima del ruolo che il servizio attribuisce alla persona (utente) oppure
quello che lei si attribuisce a sé stessa all’interno della sua vita, è importante ricordare
che prima di tutto è una persona che si trova a superare un periodo della sua vita
caratterizzato da una grande sofferenza ma al tempo stesso ricordare le risorse che
possiede, facendo di queste il punto di partenza sul quale lavorare.
Diciamo, quindi che il Lavoro sociale ha a che fare con una “sociologia delle persone”
(Folgheraiter, 2009b, p.31) perché non potrebbe concepirsi se non come stimolatore
dell’apporto delle persone a costruire una società sana e solidale che non appartiene solo
ed esclusivamente a coloro che detengono il sapere professionale. Senza il contribuito
che ogni singola persona può dare e il suo riconoscimento pieno dell’umano che
appartiene ad ogni persona, il Lavoro sociale decade in un tecnicismo che immiserisce e
disumanizza. (Folgheraiter, 2009b).
1.2 “La svolta” con la legge Basaglia
La legge n. 180 del 19781, di seguito “legge 180” ha introdotto in Italia una
“rivoluzione” nel campo della salute mentale perché ha permesso la chiusura dei
manicomi, ha sancito che di norma i trattamenti per malattia mentale fossero volontari,
limitandone la obbligatorietà a poche e definite situazioni. Ha inoltre istituito che gli
1 Legge 180 del 13 maggio 1978, "Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori"10
interventi di prevenzione, cura e riabilitazione relative alle malattie mentali fossero
attuati di norma dai servizi e presidi extra ospedalieri.
La legge 180/1978 è la colei che sancisce la chiusura dei manicomi e regolamenta
l’assistenza psichiatrica in Italia. Con questa legge cambia la visione stessa del malato
mentale che fino ad allora era considerato come colui che doveva essere “normalizzato”
per conformarsi al resto della società.
Per raggiungere questa “normalità”, alle persone venivano somministrate delle cure
altamente invasive e lesive della dignità umana (elettroshock, docce fredde…). Queste
azioni rappresentavano un ulteriore violenza sulle persone che si trovavano in una
condizione di estrema fragilità.
È proprio su una condizione come questa che nasce la legge 180, finalizzata alla tutela
di queste persone e con l’obbiettivo di restituire a loro la dignità umana. Franco
Basaglia sosteneva infatti che la conquista della libertà del malato deve coincidere con
la conquista delle libertà dell’intera comunità. (Basaglia, 1968).
Sotto la spinta dei movimenti di contestazione e attraverso la riflessione della società
civile e scientifica, venne rivista la tesi della pericolosità che spesso rappresentava la
causa di stigma per i malati mentali. Tale innovazione legislativa si fondava sul
superamento di quella concezione secondo cui la malattia mentale rende l’individuo non
responsabile delle proprie azioni, con alterazioni della capacità morale e perversione
della volontà, secondo cui i disturbi mentali sono da considerarsi devianti, ovvero
socialmente indesiderabili.
Franco Basaglia riteneva che la psichiatria tradizionale fosse responsabile della
creazione dei manicomi, essendo concentrata soltanto su base organiche della malattia e
trascurando l’origine sociale dei disturbi psichiatrici. Lo scopo di tale norma infatti è da
una parte il superamento e la negazione del manicomio, ma nello stesso tempo la
costruzione di una rete di servizi sociali in grado di soddisfare le esigenze primarie dei
pazienti e delle loro famiglie e ricercare nuove e più avanzate modalità di cura basate
sulla relazione e sul rapporto umano, partendo dal presupposto anti-riduzionista che la
malattia mentale è il prodotto di un interazione tra vari fattori (relazionali, culturali,
sociali e ambientali) in sintonia con il modello bio-psico-sociale ormai affermato in
ambito scientifico. Si parte così da presupposto che l’integrazione sociale nella
comunità della persona con disagio psichico è di fatto, di per sé, un’azione terapeutica
che restituisce dignità alla persona avendo importanti conseguenze sul piano clinico.
11
A partire da questo concetto la legge Basaglia si basa su due principi fondamentali: la
prevenzione e la riabilitazione.
Fino a quel momento in ambito psichiatrico non si era mai parlato di prevenzione e non
esistevano centri dove un paziente potesse rivolgersi alla comparsa dei primi sintomi.
Inoltre questa nuova legge andava oltre alla concezione di paziente come singolo, ma
coinvolgeva anche le famiglie del paziente, le condizioni ambientali e sociali.
Soprattutto per quanto riguarda le patologie croniche, comincia a farsi largo il concetto
di riabilitazione, cioè la messa in opera di una serie di accorgimenti che facciano sì che
il paziente, nonostante la gravità della sua malattia non peggiori.
L’approvazione della legge è stato un atto di umanizzazione, come risposta civile a uno
Stato democratico che ammette gli orrori di un’istituzione e che ha fretta di restituire il
diritto alla salute e alla dignità della persona.
La legge 180 nasce con l’intento di garantire un trattamento umano al disturbo
psichiatrico.
Fino al 1978 la legislazione italiana in tema di psichiatria rispecchiava una delle realtà
più arretrate in Europa. Antecedentemente, nel 1904 ci fu la legge 362, la quale
introdusse il ricovero volontario in ospedale psichiatrico, il mantenimento dei diritti
civili, l’abrogazione dell’inscrizione nel casellario giudiziario e soprattutto colui che
veniva definito “ come persona pericolosa per sé e per gli altri e di pubblico scandalo”
continuava a essere soggetto a un ricovero coatto, ordinato dal pretore ed effettuato
dalle forze di pubblica sicurezza, e in seguito veniva affidato in “cura” e custodia”
all’istituzione manicomiale (L.36/1904).
La legge 180 nasce principalmente dall’osservazione della realtà, una realtà di pena e
senza cura e dai tentativi di superarla. Una realtà che imprigiona la follia in una
questione di ordine pubblico. “I principi di questa legge, come ho già detto, hanno
origine da una pratica reale. Il lavoro di quindici anni ha dimostrato che si può vivere
senza manicomio, ed è a partire da esperienze pratiche che i legislatori hanno elaborato
la legge.” (Basaglia, 2000, p. 31).
Un altro elemento importante messo in rilievo con questa legge è quello inerente al
Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO); viene sottolineato quanto sia fondamentale
che questo si realizzi nel rispetto della dignità della persona e dei suoi diritti civili e
2 Legge n. 36 del 1904 “Disposizioni sui manicomi e sugli alienati. Custodia e cura degli alienati”12
politici garantiti dalla Costituzione. Inoltre che questo venga accompagnato da iniziative
volte ad assicurare il consenso e la partecipazione da parte dell’individuo obbligato.
La legge 180 si focalizza su vari punti essenziali e che rappresentano una chiave di
svolta all’interno dei servizi di salute mentale di quell’epoca. L’articolo uno sostiene
infatti che gli accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori sono volontari
sottolineando l’importanza che questi “devono essere accompagnati da iniziative rivolte
ad assicurare il consenso e la partecipazione da parte di chi vi è obbligato.” (Art. 1
L.180/1978).
Inoltre viene introdotta la possibilità di revoca del provvedimento di trattamento
sanitario e obbligatorio sostenendo che “chiunque può rivolgere al sindaco richiesta di
revoca o modifica del provvedimento con il quale è stato disposto o prolungato il
trattamento sanitario obbligatorio.” (art. 4 L.180/1978).
Tra i vari cambiamenti che la legge 180 ha portato, uno dei più importanti è stata la
chiusura dei manicomi e ha vietato la costruzione di nuovi ospedali psichiatrici.
L’attuazione e la ricezione della 180 del 1978 già nella sua denominazione “Norme per
gli accertamenti ed i trattamenti sanitari e obbligatori” indica un radicale mutamento del
punto di vista, perché sposa l’attenzione dalla malattia alla risposta istituzionale messa
in atto, cioè al servizio, alle sue risorse, al modo con cui si identifica la malattia.
Un altro aspetto rivoluzionario è che l’accertamento e il trattamento delle malattie
mentali diventa volontario. “Soltanto in alcune situazioni particolari la persona può
essere sottoposta a una procedura obbligatoria, sempre nel rispetto della dignità della
persona e dei diritti civili e politici, compreso per quanto possibile il diritto di scelta del
medico e del luogo di cura.” (Art.33 L.833/78).
La procedura del trattamento sanitario obbligatorio mostra chiaramente i tre punti di
svolta su cui si basa la legge; questo infatti può essere adottato “solo se esistano
alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, se gli stessi non
vengono accettati dall’infermo e se non vi siano le condizioni e le circostanze che
consentano di adottare tempestivamente ed idonee misure sanitarie extra ospedaliere.”
(art.34 L.833/78).
Il primo punto affrontato dalla legge 180 riguarda la malattia, o meglio l’attenzione alla
malattia, sottolineando l’importanza del ruolo del medico nel farsi carico della salute
psichica della persona, invece che della difesa della società.
13
Il secondo aspetto riguarda il consenso, ossia il dovere del medico di farsi carico della
libertà della persona, adottando tutte le iniziative opportune volte ad assicurare il suo
consenso nel caso di un trattamento sanitario obbligatorio. Attraverso questo aspetto la
legge si interroga sul punto centrale e delicato che concerne al rapporto tra libertà e
malattia mentale.
Il terzo punto riguarda la risposta del servizio psichiatrico. Non c’è solo la persona con
il disagio ma anche il servizio psichiatrico con la sua risposta, sottolineando che il
ricovero ci deve essere solo e unicamente quando non si è potuto rispondere
diversamente.
Deve essere garantita la strutturazione del territorio di una risposta adeguata ai bisogni
della persona e organizzata su una misura terapeutica efficace che eviti il ricorso a un
trattamento obbligatorio in regime di degenza ospedaliera.
La legge 180 ha permesso la nascita della psichiatria italiana di comunità, basata su tre
principi fondamentali: “l’inclusione sociale, l’integrazione di tutti gli interventi e la
continuità nella presa in carico” (De Stefani, 2012, p.11)
La prima, intesa che la cura e l’integrazione della persona con una patologia psichiatrica
deve avvenire quanto più possibile nel luogo dove vive e lavora. L’integrazione di tutti
gli interventi intesa come ad un unico sistema che eroga tutte le prestazioni di cura che
fa capo al Dipartimento di Salute Mentale ed infine l’utente e la sua famiglia
mantengono un riferimento costante nel tempo.
La psichiatria di comunità nasce da principi come la buona informazione, la rete con la
comunità, le azioni contro il pregiudizio e lo stigma, l’applicazione delle evidenze
scientifiche nell’erogazione delle cure, un’accoglienza “calda e in ogni luogo per tutti”
(De Stefani, 2012, p.11), maggiore collaborazione con le famiglie, condivisione del
percorso di cura insieme ad una forte attenzione all’abitare, lavoro e alla socialità. (De
Stefani, 2012).
Tuttavia, trent’anni dopo, le cose sono andate diversamente. L’anello debole
nell’applicazione della legge Basaglia sono stati quei servizi sul territorio che avrebbero
dovuto fare prevenzione, cura e riabilitazione e che invece non sono mai stati
adeguatamente potenziati. Questa legge non fu di facile ricezione. Uno dei primi quesiti
fu da parte dei famigliari che subito si domandarono cosa fare. Subito dopo
l’approvazione della legge, vi fu grande confusione per il fatto che i nuovi malati non
sarebbero più stati accolti in manicomio. Gli ospedali psichiatrici e gli ospedali generali
14
non sapevano cosa fare. Ci furono vari attacchi da parte di diverse voci: primari,
psichiatri, famiglie e politici.
Si ebbe l’impressione che la legge 180 fosse una legge libertaria, che abbandonava a sé
stessi i malati o, al meglio, li affidava alle famiglie, impreparate, incapaci di affrontare
le imprevedibili mosse di quella malattia.
Anche Basaglia stesso che si interrogò sulla bontà della Legge e si rese conto di una
debolezza, Trieste restava un luogo di sperimentazione e la normativa non offrì modelli
sui quali costruire gli interventi successivi alla legge.
1.3 Proposta di Legge n. 2233/2014
13 maggio 2012
“Il desiderio si sta avverando. Ebbene sì: a 34 anni la Signora 180 aspetta un figlio. Vi
lascio alcune ecografie del pargolo, della sua storia. Ho la sensazione che abbia vissuto
sempre dentro di me. Come se fosse sempre stato lì e ora si senta pronto per uscire, per
guardare il mondo con i suoi occhi.” (De Stefani, 2012, p. 115)
L’unico atto legislativo dello Stato, dal 1978 ad oggi, che si è occupato di normare i
principi della legge 180 è stato il progetto “Tutela salute mentale 1998 - 2000”. Un testo
sicuramente condivisibile, ma privo per sua propria natura della “forza” giuridica
necessaria e ormai ampiamente datato.
La maggior parte delle regioni italiane hanno emanato leggi, ma spesso scollegate tra
loro.
L’Italia da ormai più di trent’anni discute sulla legge 180, tra chi la considera una legge
sbagliata e perciò da cambiare e soprattutto responsabile di tutto quanto non funziona
nella gestione della salute mentale italiana e chi la considera un’icona immodificabile.
La legge 180 è un atto di grande valore etico e politico a cui dobbiamo la chiusura di
luoghi dove centinaia di migliaia di cittadini italiani malati di mente hanno subito la
violenza della reclusione.
Negli ultimi venti anni sono stati presentati alle Camere numerosi progetti di legge volti
a modificare la legge 180, ma sono stati in larga misura, e in molti casi in via esclusiva,
concentrati sull’obbiettivo di prolungare nel tempo i TSO. La Proposta di Legge3 che
3 Proposta di Legge 27 marzo 2014, n. 2233 “Norme per la valorizzazione, in continuità con la legge 13 maggio 15
presenterò in questo paragrafo ha l’intento di garantire equità e appropriatezza di
trattamenti a tutti avendo cinque obbiettivi principali: il primo è quello di essere in
continuità con lo spirito e con i principi che hanno animato la legge 180 e riprendere i
contenuti che stanno alla base del progetto “Tutela salute mentale 1998-2000” citato
sopra.
Il secondo punto è quello di definire alcuni principi generali che sono oggi ineludibili
per dare “gambe robuste ad una buona salute mentale di comunità, quale quella attesa
da più di trenta anni in tutto il Paese” (P.D.L n.2233/2014)
Il terzo aspetto è quello di garantire la declinazione di alcuni degli aspetti più importanti
dal principio “cosa, dove, come, quando e perché” per garantire uniformità di
prestazioni e di diritti ai cittadini italiani. (P.D.L n.2233/2014)
Il quarto è garantire il massimo coinvolgimento possibile degli utenti dei servizi di
salute mentale e dei loro familiari nei percorsi di cura, valorizzandone al meglio il
sapere esperienziale.
L’ultimo aspetto trattato è quello di garantire nelle prestazioni un’attenzione continua ai
processi di miglioramento della qualità.
Questa proposta di legge nasce dalla collaborazione con il movimento “Le Parole
Ritrovate” e dal suo motto “fare assieme” che vede il più possibile l’impegno condiviso
di utenti, familiari, operatori e cittadini.
“Ciascuno con le sue difficoltà ma ciascuno anche con le sue risorse e con il suo sapere.
Impegnati non tanto a combattere contro qualcosa o qualcuno, ma a costruire una casa
comune, aperta e colorata, dove ciascuno trova il suo posto e contribuisce a migliorare
quello del vicino. Menti e cuori che si intrecciano, si scambiano esperienze e saperi e
diventano reciprocamente compagni di strada, di scuola e di vita” (P.D.L
n.2233/2014,p.3) Questa proposta di legge parte dal presupposto che chi ha incontrato la
malattia e ne ha fatto esperienza impara che, da una parte c’è la speranza della
guarigione dall’altro c’è il ritorno della patologia che finisce prima o poi per ritornare,
per stravolgere il quotidiano lasciando spesso le persone senza fiato e speranza.
Quello che avveniva prima della Legge Basaglia era una risposta che andava verso la
cancellazione della persona e “consegnava ai parenti una sorta di oblio nebbioso, come
quello che accompagna il migrante in terre lontane da cui si intuisce non esserci
biglietto di ritorno.” ((P.D.L n.2233/2014,p.4).
1978, n.180, della partecipazione attiva di utenti, familiari, operatori e cittadini nei servizi di salute mentale e per promuovere equità di cure nel territorio nazionale”
16
La legge 180 però ha lasciato un impegno e cioè di riuscire ad accompagnare la persona
e la sua famiglia attraverso la malattia mettendoci scienza, coscienza e passione. È
importante tenere presente questo aspetto soprattutto quando non è possibile guarire
dalla patologia. È giusto e doveroso poter garantire una qualità di vita almeno decorosa,
caratterizzato dal prendersi cura della persona ravvicinandola ai luoghi di vita, alla
gente e alla vita.
Questa nuova proposta di legge nasce dal bisogno di rendere equi i servizi dal Nord al
Sud dell’Italia e le loro offerte, ma comprendere l’importanza del prendersi cura,
prendersi a cuore la persona con la sua famiglia, e cioè la care.
Questo è stato possibile attraverso la raccolta di dieci azioni che secondo la legge sono
obbligatoriamente necessarie da offrire alle persone e alle loro famiglie. Il movimento
“Le Parole ritrovate” ha permesso di mischiare, conoscere e apprendere dalle buone
pratiche presenti in tutta Italia nei vari servizi di salute mentale ma è servito anche per
conoscere tante cattive pratiche raccontate da utenti e familiari troppo spesso angosciati
e disperati.
Partendo dal primo articolo si sottolinea l’importanza della fiducia e della speranza per
le persone e per la loro famiglia. Quando le persone e i loro famigliari intraprendono un
percorso nella malattia, si ritrovano spesso ad avere poca fiducia e speranza verso il
percorso che stanno intraprendendo. È sicuramente un aspetto essenziale, poco presente
oggi all’interno dei servizi di salute mentale ma che rappresenta un punto iniziale e
fondamentale per fare il modo che il percorso sia efficace. “Se chiediamo a 100 utenti
dell’Italia psichiatrica siamo fortunati se ne troviamo 50 che pensano di avere con chi li
cura un rapporto che cresce all’insegna della fiducia e della speranza. Che poi vuol dire
ovviamente capacità di accoglienza, sorriso, positività e tutto che fa dei rapporti umani
un’esperienza che merita di essere vissuta.” (P.D.L n.2233/2014, art.1).
Questa Proposta di legge ha l’intento di considerare fiducia e speranza al primo posto
per sottolineare l’importanza di prendersi cura della persona e della sua famiglia.
Un’attenzione particolare della proposta di legge n.2233/2014 è data ai luoghi, nel senso
fisico. L’importanza di fare in modo che i luoghi non vengano mortificati ulteriormente.
Attraverso l’articolo due c’è il desiderio che i luoghi che ospitano la sofferenza mentale
alleggeriscano il peso della sofferenza che tante persone devono già superare solo per
essere in quel luogo. “Perché colori pastello e belle piante fanno la vita un po’ migliore,
sempre” (P.D.L n.2233/2014 art.2).
17
Uno dei punti salienti del testo è rappresentato dall’articolo 3, il quale sottolinea
l’importanza dell’incrocio tra il sapere tecnico e il sapere esperienziale. “Che un medico
sia esperto di malattie è cosa risaputa e condivisa, che lo sia il cosiddetto paziente lo è
molto meno e, a volte, per niente.”
È doveroso riconoscere questo sapere che è dato dall’esperienza data dal convivere con
una patologia, attraverso questo riconoscimento e valorizzandolo, il sapere di entrambe
aumenta attraverso l’incrocio. Per far sì che questo avvenga, la P.D.L n.2233/2014
mette dentro il sistema sanitario, dentro i servizi di salute mentale la figura degli utenti e
famigliari esperti, i quali hanno raggiunto una consapevolezza della loro patologia e del
valore che possono avere per gli altri utenti, famigliari che ancora si trovano nel disagio
e per gli operatori che lavorano nei servizi. Inoltre esplicitamente nel testo viene
sottolineata l’importanza di remunerazione degli Utenti e Famigliari Esperti (UFE).
Spesso però nelle persone affette da patologie psichiatriche con fatica si riconoscono le
risorse, piuttosto si tende a focalizzarsi su quali sono i punti deboli, avendo un
atteggiamento caratterizzato da stigma e pregiudizio. Per questo motivo la P.D.L
n.2233/2014 vuole che su questi due punti si lavori sul serio. È importante prendersi
cura della persona prima di tutto ma al tempo stesso bisogna raccontare la verità sulla
follia, nelle scuole e con la voce di coloro che vivono la patologia. Fare in modo che
anche i media non facciano passare l’idea che la follia sia solo cronaca nera.
Un altro aspetto importante è la capacità di fare squadra che sia composta sia da esperti
per esperienza che tecnici. Al tempo stesso però viene introdotta anche la figura del
garante (utente e famigliare esperto che rappresenta una garanzia del patto che avviene
tra le parti) il quale contribuisce a favorire un clima e una pratica di condivisione; la
contrattualizzazione di alcune aree di percorso di cura e naturalmente con la sua
presenza una garanzia di terziarietà. In questo articolo si sottolinea l’importanza di tre
aspetti chiave: avere strumenti chiari che tengono conto di quello che la squadra sta
facendo e farà; avere un diario di bordo condiviso da tutti i membri e non solo il
comandante; e infine la figura del garante, una persona esterna al gruppo che lo aiuta a
dare voce a tutte le persone presenti, a prendere accordi chiari e trascriverli e a
impegnarsi a fare in modo che tutta la squadra si ritrovi periodicamente.
L’articolo 7 tratta il tema del dramma della crisi, nel corso della malattia mentale, sia
all’esordio che nel decorso, possono manifestarsi episodi di criticità durante i quali
l’utente esprime il suo disagio in forme che possono portarlo a confliggere con il suo
18
ambiente, reti sociali, secondo modalità che si possono rivelare problematiche. In questo
caso la P.D.L n.2233/2014 stabilisce che i servizi di salute mentale non possono
escludersi da questo problema, devono essere presenti garantendo all’utente e alla sua
famiglia una risposta in giornata, con strumenti che favoriscono l’accompagnamento e il
supporto.
Nel caso in cui la crisi non si risolve, nei servizi ci sono i reparti ospedalieri, i servizi
psichiatrici di diagnosi e cura, troppo spesso sono vissuti come luoghi di mero
contenimento murario dove l’unica soluzione è il farmaco.
La P.D.L n.2233/2014 sottolinea l’importanza di come questi posti debbano
rappresentare luoghi dove la persona viene accolta con calore e dove da subito si lavora
perché la crisi sia occasione di crescita e di ritorno il più possibile alla quotidianità.
La famiglia in tutte le storie di vita delle singole persone rappresentano un ruolo
centrale. È importante che questa venga considerata come risorsa oltre a trovare il modo
di come poterla aiutare, partendo dall’informazione. Per questo P.D.L
n.2233/2014sottolinea l’importanza dei cicli di informazione, psico-educazione, per far
in modo che le famiglie sappiano il più possibile della malattia, dei farmaci, delle cose
che il servizio di salute mentale può e deve offrire ai loro cari. Questi incontri sono
finalizzati allo scambio di saperi tra operatori e famigliari. Oltre a questo poi anche altri
momenti come i gruppi AMA dove i famigliari possono comprendere di non essere da
soli e poter condividere il loro vissuto e la loro storia. Questo ha come finalità il
comprendere che le famiglie che all’inizio del percorso nella malattia erano sole e
disperate ora sono diventate una straordinaria risorsa non solo per il loro famigliare, ma
anche per tanti altri che vivono una situazione simile.
Altri due aspetti sottolineati nella legge P.D.L n.2233/2014 sono i benefici di ricevere
un’accoglienza calda caratterizzata da un ascolto empatico e che permetta di alleggerire
il peso del dolore delle persone che giungono al servizio. Questa rappresenta una delle
criticità riscontrate maggiormente nei servizi di salute mentale, insieme alla difficoltà di
comprendere i ruoli e a chi rivolgersi. Per questo motivo questa nuova proposta di legge
sottolinea l’importanza della presa in carico nel tempo è tale come valore di qualità
nella misura in cui gli operatori che la esercitano rimangono il più possibile gli stessi,
inoltre è stata introdotta la psicocard finalizzata a favorire al meglio la conoscenza dei
propri referenti e di altre informazioni essenziali sul funzionamento del Dipartimento
viene fornito a ogni utente un tesserino plastificato, tipo bancomat, che le contiene tutte.
19
L’articolo susseguente spiega la questione dell’abitare, del lavoro e della socialità
facendo emergere l’importanza del riuscire a comprendere meglio come poter aiutare le
persone su questi tre aspetti favorendo la loro partecipazione attiva sia all’interno dei
servizi ma soprattutto nei loro luoghi di vita, permettendo loro di riacquisire potere
(empowerment).
Gli articoli successivi trattano le varie funzioni del Dipartimento, i finanziamenti, la
formazione e la composizione delle consulte di salute mentale.
Questa Proposta di legge rappresenta sicuramente una chiave di svolta, dove
indirettamente vengono affrontati temi come quello del prendersi cura, l’importanza di
un lavoro incentrato nell’ottica della community care, dove l’obbiettivo è quello di far in
modo che la persona venga inserita di nuovo nella comunità di appartenenza e
quest’ultima sia pronta per riaccogliere la persona e la sua famiglia.
Altro tema ricorrente in molti articoli della presente Proposta di legge è l’incrocio di
saperi, di come la condivisione di storie di vita, esperienze legate al proprio vissuto con
la patologia insieme ad una conoscenza data dallo studio di diverse discipline possa
permettere un sapere superiore. L’importanza di saper riconoscere e valorizzare il
sapere dato dal convivere con la patologia nella propria quotidianità, che appartiene agli
utenti e ai famigliari.
Concludendo questi punti non possono esaurire quanto può essere fatto per migliorare la
qualità delle cure che i servizi di salute mentale italiani sono chiamati a fare. Sono però
un contributo consistente per garantire una base e cornice solida nei servizi di salute
mentale, al tempo stesso permettono di avere degli spunti positivi e innovativi su cui
costruire delle buone pratiche, sviluppando anche il fare assieme, dove la distinzione di
ruoli non è presente e dove gli attori in gioco sono considerati alla pari, grazie alle
conoscenze date sia dallo studio che dal proprio vissuto di vita.
L’intento è anche quello di prestare attenzione ad ogni elemento che può contribuire a
fare la differenza in positivo, cercando di rendere eque in tutta Italia le basi sulle quali
lavorare per avere dei servizi di salute mentale più attenti alla persona, seguendo la
concezione non solo della cura della patologia, ma anche del prendersi cura della
persona.
1.4 Care e curing
20
Il quadro della psichiatria risulta complicato perché il malessere non si riduce solo alla
patologia e quindi all’aspetto terapeutico, ma bensì anche al prendersi cura intesa come
gestire il vivere (Folgheraiter, 2009b) la cosiddetta care.
È importante però tenere presente che i servizi psichiatrici sono i più complessi dentro
l’intero sistema sociosanitario nazionale; per loro natura essi debbono offrire
contemporaneamente prestazione di cure e di care, cioè inoltre che cercare di guarire
devono cercare di intervenire sul “vivere” delle persone.
Nonostante un modello con questa struttura sarebbe l’ideale per una buona integrazione
tra i diversi servizi e quindi un maggiore benessere della persona, non è sempre facile,
perché nonostante il passare degli anni, in ambito psichiatrico si tende a dare più
rilevanza a curare piuttosto che al prendersi cura. La capacità di guarire spesso è
percepita come la capacità del professionista di intercettare mentalmente un complicato
meccanismo psicofisico altrui e dominarlo a fin di bene. Il terapeuta deve riconoscere il
disfunzionamento e le cause (diagnosi), quindi saper porre gli standard ottimali che
presuppongono la guarigione e infine essere capace di raggiungerli.
“Ogni terapia efficace deve garantire un rapporto umano adeguato: il terapeuta si
atteggerà nei confronti del suo interlocutore malato secondo le comuni regole di
umanità e cortesia, addirittura forse mettendo in atto precise tecniche di human
relations.”(Folgheraiter, 2009, p. 14).
Care non vuol dire solo imparare a gestire il vivere, ma bensì “avere cuore, mettere
attenzione, impegno, coinvolgimento personale e diretto per raggiungere un qualche
scopo positivo e buono. Significa essere spinti da motivazione interiori e volere
fortissimamente che le cose riescano bene, senza accontentarsi del tanto per fare. Care
vuol dire desiderare il buono, e anche il bello senza tornaconti funzionali o altri secondi
fini, voler migliorare gratuitamente. È importante però sottolineare che la care non è
solo cuore ma bensì prendersi a cuore, cioè sforzarsi per fare la cosa più opportuna in
quella circostanza.” (Folgheraiter, 2009b, p.88)
In medicina, se consideriamo la cura di molte malattie complesse la partecipazione degli
interessati è indifferibile e sempre presente anche qualora, come avviene spesso il
terapeuta non la concettualizzi. Molto del benessere o malessere legato alla patologia è
legata allo stile di vita, vale a dire al modo con cui il destinatario delle cure e dei
21
consigli sanitari organizza il proprio vivere. “Quando introduciamo il concetto di che
cosa faccia un essere umano malato nella sua vita, la logica sanitaria incontra quella
sociale. Vale anche il contrario: vivere meglio aiuta l’efficienza psico-fisica (vivere
bene è un farmaco, forse il migliore oggi esistente). In nessuna specialità medica come
in psichiatria questo intreccio di sociale e sanitario è così profondo e indissolubile. Tale
integrazione costitutiva è il bello (e anche l’estremamente difficile di questa
disciplina).” (Folgheraiter, 2007b pag.189)
La differenza tra il curing e caring nasce dagli anglosassoni i quali hanno identificato
questi due modi di curare. Da un lato il curing sanitario stretto, finalizzato a modificare
la struttura organica o psichica del corpo umano, la parte strettamente terapeutica.
Dall’altra parte invece caring sociale (Folgheraiter 2007b) il prendersi a cuore la
situazione di difficoltà di una persona, famiglia o di una collettività, entrando in
relazione con gli interessati. Questo sottolinea come la vita prevale sui trattamenti e
idealmente li finalizza. Una vita rispettata nella sua assenza può poi retroagire sui
trattamenti facendo in modo di rendersi sensati e favorire la loro efficacia.
Prendiamo ad esempio i casi di cronicità, per cercare di comprendere meglio la
superiorità del vivere rispetto alle terapie. Quando ad esempio i trattamenti non hanno
più alcun effetto e di conseguenza portano a diminuire la speranza, la persona vive
comunque. Il diritto umano di ogni persona a vivere la propria vita tale per come è
proviene dall’etica del sociale, la volontà invece di cambiare l’essere umano per
portarlo alla norma proviene dall’etica sanitaria (Folgheraiter, 2007b, p. 190).
Per le persone che giungono ai servizi di cura psichiatrica è importante poter trovare il
modo di aiutarli nel loro vivere. Ad oggi per il sistema psichiatrico sembra invece che
risulti più importante capire scientificamente il loro male e combatterlo affidandosi alla
scienza.
È fondamentale partire dal presupposto di quanto sia importante la partecipazione del
paziente all’interno del processo di cambiamento che riguarda la sua vita. “Se non c’è
partecipazione del vivente, la vita non cambia volontariamente (Folgheraiter, 2007b,
p.191). Guardando le cose psichiatriche dall’ottica sociale, dovremmo discutere non se
l’utente possa partecipare al processo di aiuto, essendo ovvio che alla vita sua non può
che partecipare, bensì quanto e in che modo e con quali accortezze possano partecipare i
professionisti estranei.” (Folgheraiter,2007b, p.191)
22
Nell’aspetto sociale, il sistema psichiatrico deve cercare di compiere atti di cura che
permettano alla persona di riappropriarsi delle capacità decisioni e delle potenzialità
autorealizzative della persona. Un altro aspetto importante è che la territorializzazione
della cura deve contemplare una molteplicità di opportunità e di offerte da declinare nel
Piano di Trattamento Individuale come ad esempio la continuità di cura con
accompagnamento, assistenza e visite domiciliari per soggetti e per i loro famigliari, una
casa, l’inserimento lavorativo che incontri le possibilità del soggetto, il sostegno
psicologico, la continuità relazionale con i servizi e con il tessuto sociale, la
partecipazione di famigliari e utenti nei percorsi di cura e di controllo della qualità dei
Servizi, le attività di prevenzione e di superamento dello stigma nelle scuole e con la
cittadinanza.
“La dimensione relazionale in cui al cuore sta la capacità d’ascolto è centrale in un
qualsiasi rapporto di vita e lo è maggiormente nel campo della Salute Mentale.
L’ascolto non solo qualifica il valore della “prestazione”, ma è prerequisito affinché la
prestazione abbia efficacia riabilitativa per la persona. Senza l’elemento relazionale tra
curante e soggetto, o molteplicità di curanti che intervengono nella “assunzione in cura”
o nella “presa in carico”, e senza il necessario sostegno della famiglia, non vi può essere
il passaggio al “prendersi cura”. (a cura di Scorza e Kauffmann, 2015, p.108)
L’aspetto sociale della psichiatria e quindi la care permette alla persona di visualizzare
e progettare il proprio cambiamento possibile. Intraprendendo questo percorso la
persona incrocia la sanità, “egli diviene terapeuta di sé stesso, posto che, come abbiamo
detto, un cambiamento “buono” non solo migliora la vita…a volte fa persino sparire, la
malattia.” (Folgheraiter, 2007b, p.191)
Nella visione clinica, incentrata sull’aspetto del curing, si ritiene che la cura debba
avere come fine l’eliminazione dei sintomi della malattia, la normalizzazione dei
comportamenti, e che si debbano estirpare allucinazione e deliri. C’è una visione di
presa di consapevolezza verso la malattia non tanto per consentire alla persona di
partecipare al processo di guarigione, ma piuttosto come accettazione passiva delle
pratiche di somministrazione necessarie per affrontare la patologia.
Nella seconda visione invece, quella incentrata sulla care l’équipe mette al centro la
persona, dove non tutto è riconducibile agli aspetti medicali, bensì alla sua condizione
umana “normale”. Le parole citate da Basaglia “mettiamo tra parentesi la malattia”
hanno qui la loro valenza. L’équipe, pur consapevole della patologia e dell’aspetto
23
terapeutico, accoglie la persona nella sua condizione di particolare difficoltà del
momento senza schematizzarla in categorie disfunzionali, o di deficit.
All’accoglienza della persona segue l’accompagnamento per il tempo necessario al
soggetto a recuperare il suo mondo, con l’ascolto anche nella fase delirante, consapevoli
che il delirio è una forma di pensiero normale all’interno di un’esperienza particolare.
L’importanza di coinvolgere l’interessato stesso è che lui più degli altri conosce ciò che
lo angustia, nonché la famiglia e la rete attorno. “Nel tentativo di restituire la
cittadinanza o di aiutarlo a costruire via via il suo modo di diventare cittadino nel e del
mondo.” (Scorza e Kauffmann, 2015, p.112).
Le relazioni sociali di welfare sono di “qualità” quando esprimono care. La qualità
emerge dalla sollecitudine a “a fare bene le cose” (Folgheraiter, 2009b) che i coinvolti
nei problemi sociali, pur nei loro limiti riescono di volta in volta a esprimere. Non si
tratta di una ingenua concezione volontaristica: la care costituisce il fondamento delle
politiche pubbliche in tutti i tempi, non solo in quelli di precarietà.
Nella bibliografia da me analizzata questo tema viene anche affrontato seguendo due
paradigmi: malattia e persona, sostenendo che questi rappresentano due modi diversi di
operare, e nei servizi di salute mentale oggi, il paradigma basato sulla malattia è quello
che prevale. Questo per evidenziare il cambio di prospettiva dalla cura al “prendersi
cura”. In un certo senso vi è una cultura da cambiare che vede e percepisce nella
persona con disturbo mentale una persona pericolosa, benché le statistiche lo
smentiscano, ma questo è nell’immaginario collettivo, per primi gli operatori, i cittadini
e la politica che corre dietro agli umori dei cittadini (a cura di Scorza e Kauffmann,
2015).
È importante sottolineare che è importante considerare l’aspetto relazionale dei servizi,
la qualità delle relazioni sulle quali le prestazioni, quando ci sono, impattano.
Importante davvero è la care, cioè la disposizione umana al reciproco bene, a inventare
il bene comune desiderando di prenderselo a cuore. (Folgheraiter, 2009b).
Concludendo l’obbiettivo è quello di cercare di realizzare il cambiamento tanto
desiderato e ricercato nella 180, che in questi anni non è avvenuto. È un passaggio
questo, che richiede non pochi cambiamenti da attuare; ci deve essere un organico
sufficiente, appropriatamente formato, motivazioni e sensibilità personali,
24
sensibilizzazione del contesto, il coinvolgimento degli attori coinvolti disponibili a
lavorare alla pari, sanitari, sociali, comuni, cittadini e scuole.
1.5Oltre il curing, c’è la care: La Recovery Star
La Recovery Star (Burns & MacKeith, 2008), è uno strumento elaborato da Triangle
Consulting nel 2011 su mandato del Mental Health Providers Forum, è il risultato di una
ricerca condotta con la partecipazione di operatori ed utenti di diversi servizi psichiatrici
di area londinese utilizzando metodi di ricerca sia qualitativi che quantitativi.
L'obbiettivo è quello di sostenere l’utente ed il professionista di riferimento nella
definizione, monitoraggio e nella valutazione dei percorsi di cura e riabilitazione basati
sui principi delle pratiche orientate alla guaribilità.
Un altro obbiettivo sta nello stimolare la partecipazione attiva e maggiore responsabilità
degli utenti e della loro rete naturale nell’individuazione e nel raggiungimento degli
obbiettivi del piano di trattamento individuale.
Il quadro teorico della Recovery Star fa riferimento a vari aspetti come l'empowerment,
alla valorizzazione dell'esperienza degli utenti dei servizi e alla facilitazione degli
operatori rispetto ad un percorso di cambiamento personale.
A differenza di altri strumenti infatti la Recovery Star fa proprio un modello di
cambiamento che nasce da ricerche sulle esperienze di malattia e di guarigione descritte
da più persone soprattutto nei paesi anglosassoni (ma non solo) : la “scala di
cambiamento” che ne deriva costituisce il motore concettuale dello strumento e offre
all’utente e all’operatore indicazioni non solo per la valutazione del punto a cui un
percorso individuale è arrivato, ma anche un supporto nell’identificare gli interventi più
adatti nelle diverse fasi della scala del cambiamento. Si tratta di uno strumento che può
essere presentato sia dagli operatori ai propri utenti, che dagli stessi utenti formati ad
altri utenti.
La Recovery Star viene attualmente utilizzata con un'alta frequenza e in modo
sperimentale in più servizi sia pubblici che privati, sia della provincia di Brescia che di
altri luoghi in Lombardia, nei quali si sono tenuti dei corsi di formazione per il suo
25
utilizzo.
Questo strumento prende in considerazione dieci aree della vita del paziente: la gestione
della propria salute, la cura di sé, l’abilità per la vita quotidiana, le reti sociali, il lavoro,
le relazioni personali, le dipendenze, la responsabilità, l’identità e l'autostima, la fiducia
e la speranza.
Per ciascuna di queste aree è disponibile una scala che aiuta ad individuare il punto in
cui la persona di colloca nel suo percorso di cambiamento.
Le scale hanno una struttura caratterizzata da cinque stadi (“blocco”, all’accettazione
dell’aiuto, crederci, apprendere, basarsi sulle proprie forze).
- Blocco: caratterizzato dalla sensazione di non sentirsi in grado di fare fronte al
problema e di non essere nelle condizioni di accettare un aiuto.
- L’accettazione dell’aiuto: in questa fase si sente la necessità di allontanarsi dal
problema e si spera che qualcuno possa intervenire e risolverlo al posto nostro.
- Crederci: in questa fase però a differenza di quella prima si inizia a credere che è la
persona stessa che sta attraversando il dolore possa fare la differenza all’interno della
propria vita; la persona cerca quindi di avvicinarsi a ciò che vuole allontanandosi da ciò
che non vuole, si inizia a fare qualcosa in autonomia per raggiungere gli obbiettivi
accettando però l’aiuto da parte degli altri.
- Apprendimento: in questa fase si impara a rendere concreto il percorso di recovery,
essendo consapevoli che è un percorso che si sviluppa con tentativi e errori. Alcune
delle cose che si compiono funzionano ed altre no, per questo motivo il sostegno è
importante.
- Una volta acquisite le competenze, le persone diventano capaci di basarsi sulle proprie
forze fino ad arrivare al loro obbiettivo senza l'aiuto di un servizio o di un progetto.
La Recovery Star, è suddivisa in più aree che fanno parte della vita e della cura del
singolo verso sé stesso e il suo miglioramento:
- La gestione della salute mentale: questa area fa riferimento a come ogni persona
gestisce la sua salute mentale, non per forza comprende non avere più nessuna patologia
(anche se questo può avvenire), ma piuttosto l’apprendere come ci si prende cura di sé
stessi, come organizzare la propria vita in modo soddisfacente, senza che i sintomi la
condizionino o la limitino.
- Salute fisica e cura di sé: questa area fa riferimento a come prendersi cura di sé stesso,
con particolare riferimento alla propria salute fisica, a come si è in grado di gestire lo
26
stress, a come la persona si presenta e come è in grado di mantenersi in uno stato di
benessere.
- Abilità per la vita quotidiana: comprende gli aspetti pratici dell’essere in grado di
vivere autonomamente e come si gestiscono le piccole faccende quotidiane.
- Reti sociali: riferito alle reti sociali e all’essere parte di una comunità, include la
capacità di partecipare ad attività organizzate da servizi e anche, nel momento in cui il
percorso di recovery va avanti, ad attività fuori dai servizi (fare volontariato, partecipare
a corsi, alla vita nel proprio quartiere, alle attività organizzare dalla Chiesa, dalla
scuola…).
- Lavoro: il rapporto tra la persona e il lavoro, se c’è il desiderio di lavorare, cercare di
capire cosa si vorrebbe fare, possedere le qualifiche per avere il titolo di lavoro che si
desidera, trovare e mantenere un lavoro.
- Relazioni personali: importanza alle relazioni significative che la persona ha,
solitamente si sceglie una relazione significativa che può essere familiare o meno e si
cerca di comprendere a che punto ci si colloca sulla scala rispetto a questo aspetto.
- Comportamento legato alle dipendenze e all’uso di sostanze: correlato a qualsiasi
comportamento legato all’uso di sostanze come alcool, droghe o altre forme di
dipendenza (gioco d’azzardo, cibo e shopping). Prende in considerazione la
consapevolezza che l’utente ha di sé stesso relativa a questo tipo di problema e al suo
eventuale impegno per ridurre i danni che possono causare a sé stessi e agli altri. Nel
caso in cui non ci sia una dipendenza non è necessario affrontare questo tema.
- Responsabilità: si riferisce alla responsabilità che una persona ha verso il posto in cui
vive. Come pagare l’affitto, andare d’accordo con i vicini ecc..; nel caso in cui si abita
da solo, assumersi le responsabilità nei confronti di chi ti viene a trovare;
- Identità e autostima: riguarda il senso di identità personale; le cose che piacciono e
quelle no, le cose che riescono bene o meno alla persona, compreso l’accettazione di sé
ed il piacere per come si è.
- Fiducia e aspettative positive: comprende il fidarsi degli altri, credere in sé stessi e
nella vita.
Questo strumento all'interno del processo di recovery è molto apprezzato dagli utenti, i
quali spesso, richiedono in prima persona di sottoporsi a questo chiamandola la stella
(intervista A.S Ivana Ferrazoli) data la sua forma e che riporta ad un rimando visivo
facile da ricordare.
27
La particolarità è che ogni paziente ha un operatore di riferimento e viene compilata
assieme.
Nel momento che viene compilata per la prima volta, professionalmente parlando ci
troviamo al T0, i momenti successivi verranno indicati come T1, T2...
Il tempo dedicato alla compilazione è variabile in base al paziente, in alcuni casi può
avvenire in un'ora, in altri richiede più tempo; altre volte addirittura gli utenti partono
motivati per poi non riuscire a completare la stella, perché non la trovano interessante.
È importante sottolineare che la Recovery Star non è assolutamente uno strumento di
valutazione, ma bensì di riflessione su sé stessi e sulla percezione che si ha delle proprie
capacità e risorse.
Nonostante la compilazione avvenga con l'operatore, dalle varie Recovery Star emerge
che i pazienti spesso si vedono in modo più negativo e con meno risorse confronto a
quella che è la realtà. Hanno una percezione di sé stessi e delle proprie capacità inferiore
a quelle reali, spesso caratterizzata da una fase di auto stigmatizzazione personale (ESP
al Convegno “Supporto tra pari e salute mentale: il ruolo attivo degli utenti”, tenuto a
Milano il 6 novembre 2015). Esempio di una Recovery Star già compilata in due diversi momenti (TO, T1).
Gli operatori che hanno utilizzato questo strumento all'interno dei servizi, pensano che
sia uno strumento molto utile ed efficace, perché permette alla persona di riflettere
28
davvero in modo profondo sulle proprie risorse, e di quanto a volte è diversa la
percezione che si ha di sé stessi confronto a quella che la realtà è. Questo strumento è
utile anche per definire un successivo progetto individualizzato attraverso però un
coinvolgimento diretto.
Infine permette quindi uno rinforzo maggiore su quelle che sono le risorse
dell'individuo ma che spesso sono latenti e poco condivise, attraverso un metodo che
permette di poterle vedere attraverso l'utilizzo di un'immagine e la successiva riflessione
su quest'ultima.
(Elementi emersi durante l'intervista fatta all'assistente sociale Ivana Ferrazzoli).
CAPITOLO SECONDO
Partecipazione di utenti e famigliari nella salute mentale
2.1Partecipazione
Il coinvolgimento di utenti e famigliari nei servizi di salute mentale è importante per
svariate ragioni, pratiche e etiche.
“La partecipazione intesa come inclusione di utenti e familiari nelle pratiche di lavoro
sociale. Gli utenti e i familiari non sono solo i destinatari delle pratiche ma sono anche
agenti delle pratiche stesse.” (Warren,2007, p.6)
Quando parliamo di partecipazione all’interno dei servizi non possiamo fare a meno di
parlare dei diversi approcci che stanno alla base. Un tipo di partecipazione che vede
l’inclusione di utenti e famigliari all’interno delle pratiche di lavoro sociale, è una
prospettiva che si basa sulle risorse, sui punti di forza.
Attraverso una serie di passaggi è possibile passare da un modo di vedere e di
considerare gli utenti e famigliari come persone che hanno prima di tutto dei problemi
ad un modo che ci permette di comprendere che è difficile poter aiutare le persone se
siamo in grado di vedere solo i problemi; dobbiamo essere in grado di vederli come
depositari di risorse e potenzialità. Considerarli anche come depositari di conoscenze
esperienziali. Questo permette a utenti e famigliari di qualificarsi come collaboratori
degli operatori sociali.
29
Questo concetto di collaborazione attraversa come un filo rosso un passaggio tra gli
approcci che, in letteratura vengono indicati come service-led, need-led e users-led.
(Warren,2007)
Il primo di questi approcci vede i servizi che come finalità hanno l’erogazione di
prestazioni alle persone che hanno necessità. Le intenzioni dei servizi sono percepite in
termini di prestazioni da erogare. Non che questo sia sbagliato, assolutamente però
rimanda a un’idea di approccio di servizio centrato sulla prestazione. L’obbiettivo del
servizio è quello di erogare, vendere all’ente pubblico (se sono un soggetto privato di
Terzo Settore) o vendere all’utente direttamente se sono un servizio privato. Cioè far
arrivare a qualcuno un determinato servizio.
L’aspetto limitante di questo approccio è che preoccupandomi troppo della prestazione
si rischia che questa sia svincolata dal bisogno. Io policy maker, assistente sociale o
coordinatore prendo in considerazione il bisogno della persona o famiglia solo dal punto
di vista dell’accessibilità alla prestazione. I problemi di vita rimangono così in disparte,
prendo in considerazione quelli a cui io come servizio posso dare una risposta. Un altro
aspetto limitante di questo approccio è che quei bisogni ai quali non posso dare una
risposta, rimangono senza.
Il secondo approccio è quello centrato sui bisogni, needs-led è stato individuato nella
letteratura internazionale già a partire dagli anni ’90, con il Community Care Act. A
differenza di quello precedente dove la finalità era far arrivare le prestazioni alle
persone che sono esigibili per quella prestazione, in questo approccio la finalità è quella
di dare una risposta ai bisogni insoddisfatti delle persone e delle famiglie. Il servizio o
l’operatore non diventa un “distributore” di prestazioni, ma bensì queste rappresentano
alcuni dei possibili mezzi per rispondere ai bisogni. Se ci sono dei bisogni che non
corrispondono alle prestazioni, affrontarli rientra comunque mandato professionale
degli operatori o nel mio mandato istituzionale.
Dagli anni ’90 in poi, c’è uno spostamento abbastanza consistente dall’approccio
centrato sui servizi all’approccio centrato sui bisogni.
Il tema della partecipazione però ci sollecita a fare un passaggio ulteriore, un approccio
come quello sui bisogni, sicuramente tende a offrire una risposta più adeguata in
risposta alle necessità riportate dalle persone, con anche l’obbiettivo a differenza del
primo di crearla anche dove una risposta apparente non c’è; al tempo stesso però è un
approccio che si basa ancora una volta sui bisogni, le carenze, le problematicità
30
piuttosto che sulle risorse e quello che la persona, famiglia ha da offrire al servizio. Gli
interlocutori dei servizi è vero che si rivolgono ai servizi perché hanno bisogno, ma il
loro contributo al lavoro che c’è da fare per risolvere questo bisogno non è solo un
contributo di qualcuno che porta la domanda, ma è di qualcuno che ha anche in sé
risorse e potenzialità per contribuire a costruire delle risposte.
È proprio da questo aspetto che nasce l’approccio users-led centrato sugli utenti, è un
approccio in cui si possono erogare prestazioni, ma avendo considerazione dei bisogni
della persona, anche quelli che non hanno una risposta immediata con le prestazioni che
io ho a disposizione, e considero la persona non solo come portatrice di bisogni, ma
anche come portatrice di risorse, come collaboratore degli operatori per risolvere i suoi
stessi problemi.
C’è poi un passaggio dal focus sui fallimenti e sui problemi al focus sui bisogni e sulle
risorse, quindi la relazione diventa collaborativa. Partecipazione vuol dire questo,
includere gli utenti e famigliari nel lavoro sociale.
La partecipazione degli utenti e dei famigliari sta divenendo la chiave di svolta per le
politiche del social work. La partecipazione sta prendendo piede in differenti forme:
nella pianificazione dell’assistenza individuale, nei servizi dedicati alla valutazione e in
quelli che erogano servizi. Inoltre l’inclusione degli esperti per esperienza può avvenire
nella progettazione e nello sviluppo di un servizio, nell’organizzazione e nel gestire il
lavoro sociale, nello sviluppo di iniziative da parte di utenti e famigliari e nella
formazione del personale e degli studenti in ambito sociale. (Warren, 2007)
Negli ultimi anni, la partecipazione degli utenti e dei famigliari è stato un tema centrale
nella formazione e nello sviluppo di servizi sanitari e di assistenza sociale in tutta
Inghilterra e Galles, è stato inserito nel programma di modernizzazione del Governo.
Questo è accaduto poiché fin dall’inizio si è pensato che introducendo la partecipazione,
si possa elevare gli standard di erogazioni dei servizi nel campo dell’assistenza sociale e
sanitaria. Infatti ora si può sentire lo spirito della partecipazione nei servizi per bambini
e famiglie, nei servizi per disabili, per persone anziane e con patologie psichiatriche.
Per partecipazione non ci si riferisce solo a lavorare insieme a diversi professionisti
provenienti da differenti campi di specializzazione e da altre realtà, si riferisce anche
alla necessità per gli operatori sociali di lavorare insieme a utenti e famigliari,
coinvolgendoli in qualità di partner per pianificare congiuntamente servizi e valutare
31
insieme le situazioni, non dimenticando che questo comporta la condivisione del potere
e eguaglianza. (Warren, 2007).
Gli utenti e famigliari possono partecipare organizzando servizi per terzi, ma anche
organizzando servizi per sé stessi. Se alla parola “servizi” sostituiamo la dizione più
larga “modalità di aiuto”, anche i gruppi di supporto e i gruppi ama fanno parte della
categoria dei prosumer, e cioè utenti che sono anche provider/users di prestazioni, cioè
che producono e contemporaneamente usufruiscono di servizi e prestazioni. La dizione
prosumer ha un accento consumeristico perché fa riferimento alla produzione ed
erogazione di prestazioni. Se sostituiamo il termine “prestazione” con il termine “aiuto”,
i componenti di un gruppo ama sono sia destinatari che produttori/realizzatori di questo
aiuto.
Il coinvolgimento di utenti e famigliari può realizzarsi attraverso l’implementazione di
iniziative di auto/mutuo aiuto, di gruppi di supporto, questi rientrano nella categoria
partecipazione finalizzata per realizzare in proprio iniziative, servizi e prestazioni.
Altre due categorie di partecipazione sono la ricerca, in particolare le ricerche
finalizzate alla valutazione dei servizi. La valutazione può essere fatta semplicemente
consultando le persone oppure si possono impostare vere e proprie ricerche valutative.
Tradizionalmente, il punto di vista degli utenti e dei famigliari entra nelle ricerche come
oggetto di ricerca, il punto di vista loro viene rilevato dalla ricerca in vari modi, viene
considerato un dato da analizzare. C’è però un filone della ricerca, ormai ben
documentato dalla letteratura internazionale, che viene definito research users o anche
carers led intesa come ricerca guidata da utenti e famigliari.
Può esserci una ricerca co-costruita. Lavorano quindi con l’équipe di ricerca per dare
indicazioni, per ragionare insieme ai ricercatori su temi e su ad esempio le modalità di
rilevazione dei dati secondo loro più opportune. Da un lato ci sono le competenze
esperienziali degli utenti, dall’altro c’è la competenza tecnica del ricercatore. Questo
tipo di lavoro segue l’approccio partecipativo.
La ricerca può anche essere guidata interamente da utenti e famigliari. In questo caso
sono le persone direttamente interessate a diventare non oggetti, ma soggetti della
ricerca. Decidono l’ambito, le tematiche, la domanda di ricerca inizia sulla base del loro
interesse, delle loro preoccupazione di vita. I ricercatori fungono da consulenti tecnici,
aiutano a tradurre l’interesse delle persone in un disegno di ricerca che abbiamo
caratteristiche di scientificità.
32
Il ruolo degli utenti in questi due approcci (soprattutto nel secondo) e di identificare i
temi di ricerca, dando un ordine di priorità. Ci sono esperienze in cui rappresentanti di
utenti e di famigliari vengono inclusi nei comitati che devono allocare i finanziamenti
della ricerca. Quando una fondazione decide di finanziare dei progetti di ricerca che
riguardano l’ambito socioassistenziale, nello stabilire quali progetti finanziare e come
distribuire i finanziamenti, nel comitato decisionale potrebbero essere inclusi anche
rappresentanti di utenti e famigliari.
Un altro versante della partecipazione può essere quella che vede coinvolti utenti e
famigliari partecipare attivamente alle riunioni di équipe in cui si parla di loro o alle
visite domiciliari in cui sono loro gli oggetti (diventando così soggetti) di osservazione.
Questo significa partecipare in maniera attiva all’assessment, alla scelta delle strategie
di intervento e alle verifiche.
La partecipazione di utenti e famigliari dà l’opportunità di capire il reale valore che il
loro contributo può dare, il reale beneficio della partecipazione. Oltre a questo permette
anche di conoscere la particolare competenza, idea e esperienza degli utenti e dei
famigliari.
Conoscere la partecipazione degli utenti e dei famigliari, come coinvolgerli nella
collaborazione e come sviluppare in loro la competenza della collaborazione è
fondamentale nello sviluppo come operatori sociali.
“Il linguaggio della partecipazione è complesso: lo stesso termine indica cose differenti
per diverse persone, e lo stesso concetto può essere espresso da differenti
termini.”(Warren,2007, p.6)
Il termine partecipazione, coinvolgimento, lavorare assieme, fare assieme: essi sono
spesso utilizzati per incapsulare una vasta gamme di idee e attività, possono essere usati
in modo interscambiabile o avere un significato diverso per persone diverse. Qualsiasi
termine si decida di usare, la sfida sta nell’individuare come mettere in pratica le idee in
base a queste parole, che sempre e comunque indicano l’inclusione di utenti e famigliari
nelle pratiche di lavoro sociale.
Il processo decisionale e di costruzione di assistenza e di supporto per i bambini, i
giovani e gli adulti deve comprendere il fatto che abbiano voce in capitolo rispetto ai
servizi in cui sono coinvolti, e che possano esercitare controllo su questi servizi. Il
trucco per implementare la partecipazione è quella di creare un ventaglio di opportunità,
facendoli partecipare anzitutto all’interno del proprio servizio, essendo attori della
33
costruzione del proprio percorso di aiuto. Ad esempio nella fase di assessment permette
loro di partecipare alla progettazione del loro percorso di aiuto; nella fase di
programmazione e di acquisto delle prestazioni di aiuto, inseriti così nel contesto di
organizzazione di welfare pubblici o di Terzo Settore e infine nella revisione dei piani di
assistenza.
Gli utenti e i famigliari possono contribuire allo sviluppo a livello di pianificazione
strategica attraverso riunioni di pianificazione, gruppi consultivi, comitati di gestione,
gruppi di sviluppo strategico e riunioni tra le parti interessate. (Warren, 2007).
Ci sono molti esempi soprattutto nella realtà anglosassone che hanno dimostrato
l’ottima riuscita della partecipazione alle strategie di pianificazione e di sviluppo del
servizio da parte di utenti e famigliari. Molte autorità locali, hanno individuato una serie
di metodi che promuovono e consentono la partecipazione; favorire un regolare spazio
di incontro tra utenti e famigliari, invitare gli utenti dei servizi a incontrarsi in un forum
o in gruppi di lavoro per cercare di migliorare o sviluppare altre parti di un servizio,
stabilire focus group di utenti e famigliari, coinvolgere utenti e famigliari in comitati di
gestione e avviare conferenze.
La partecipazione però può avvenire anche attraverso lo sviluppo di servizi gestiti
proprio da coloro che rappresentano solitamente i fruitori e destinatari dei medesimi
sevizi. Dal 1960 si è registrata una crescita constante delle organizzazioni di servizi
gestiti dagli utenti a livello nazionale, regionale e locale. Le organizzazioni gestite dagli
utenti, che sono indipendenti dalle autorità locali, hanno spesso dato risposte più
soddisfacenti a utenti che ricevevano prestazioni da servizi di welfare tradizionali
(Warren,2007).
Inoltre la legislazione sulla Community Care prevede l’opportunità per gli utenti e
famigliari di essere coinvolti, sia individualmente sia collettivamente, all’erogazione e
alla valutazione dei servizi. Negli ultimi anni c’è stata una redistribuzione del potere tra
chi conduce la ricerca e chi invece ne è stato l’oggetto, questo ha portato ad un elevato
coinvolgimento degli utenti e ha iniziato a radicare un approccio della partecipazione.
Questi approcci partecipativi e di emancipazione hanno portato gli utenti del servizio e i
famigliari ad essere coinvolti in ogni fase del processo di ricerca, in particolare
nell’identificare e selezionare tematiche prioritarie di ricerca, nell’avviare le ricerche e
nell’influenzare i finanziamenti per la ricerca, nello sviluppo e nella scrittura del
progetto, nella sua gestione e nell’interpretazione dei risultati.
34
Costruire e sostenere la partecipazione racchiude al suo interno delle variabili (Warren,
2007). Prima di tutto deve esserci la costruzione di una cultura organizzativa e di
un’infrastruttura che supporti la partecipazione. È importante sviluppare strutture che
forniscano il significato di supportare il cambiamento e di promuovere la
partecipazione; una volta che il principio della partecipazione è stato adottato dentro
un’organizzazione, è essenziale sviluppare le infrastrutture necessarie per coinvolgere
utenti e famigliari e per supportare il loro coinvolgimento nell’effettuare il cambiamento
dell’organizzazione.
Un altro aspetto molto importante riportato dalla Warren (2007) è lo sviluppo di una
forte e positiva relazione tra utenti, professionisti e famigliari; l’impegno dei
professionisti alla pratica di partecipazione è importante. La partecipazione è un modo
di lavorare che dipende dallo sviluppo di relazioni positive tra professionisti, utenti e
famigliari, mentre le caratteristiche professionali individuali e le qualità sono importanti
nell’influenzare sia la nature che la portata del coinvolgimento. Una genuina
partecipazione dipende dallo sviluppo del coinvolgimento supportivo basato sulla verità,
il mutuo rispetto, equità ed una buona comunicazione. Le ricerche inoltre dimostrano
l’importanza di lasciare tempo sufficiente e di supporto per un dialogo costruttivo e di
costruire fiducia per migliorare il lavoro in partnership. È importante dimostrare un
genuino interesse verso di loro come persone, evitare di applicare stereotipi ed etichette
e sospendere giudizi così che gli operatori possano ascoltare efficacemente priorità e
problemi di utenti e famigliari. Stabilire un dialogo costruttivo nel quale ascoltare gli
esperti per esperienza e imparare da loro, capire le loro prospettive e pensare a come
includere i loro diversi punti di vista, capire come preferiscono essere coinvolti e creare
modi di lavoro e di comunicazione alternativi. Oltre a questo anche dare chiarezza agli
utenti circa i limiti del loro coinvolgimento, aiutare utenti e famigliari a definire i loro
criteri di partecipazione e mostrare qualcosa di noi inclusi i nostri punti di vista
mantenendo i confini professionali, condividere le informazioni, fornire feedback su
come il coinvolgimento si ripercuote sui risultati.
La partecipazione richiede tempo per costruire una relazione rispettabile, propositiva e
per dare attenzione agli aspetti pratici. La partecipazione rappresenta un processo, non
un unico evento.
Un terzo aspetto importante è che la partecipazione può creare molta pressione e
domande alle persone coinvolte. Per questo motivo è necessario fornire da parte dei
servizi una pratica effettiva e un meccanismo di supporto emotivo. Il supporto è stato 35
identificato come uno dei mezzi affinché funzioni la partecipazione di utenti e
famigliari.
Certamente, prima di essere coinvolti utenti e famigliari hanno bisogno di sapere che
ogni bisogno particolare che essi hanno sarà preso in considerazione. Una chiara
informazione, inoltre, è richiesta circa la portata del supporto che sarà loro dato, come
verrà fornito e da chi. Due componenti sono essenziali per assicurare un’effettiva
partecipazione: accesso e supporto. Quest’ultimo può avere forme diverse, può essere
inteso a livello pratico, il principio di pagare utenti e famigliari per il loro tempo e la
loro esperienza, il rimborso viaggi e altre spese; di garantire che il luogo di ritrovo sia
accessibile e unanimemente accettato.
Ad esempio quando le persone vengono invitate a partecipare ad un evento, invece di
provare ad immaginare basandoci su dati o tabelle che ci vengono date dall’esterno,
sarebbe bello e costruttivo chiederlo ai diretti interessati. La partecipazione richiede
tempo ed energia emotiva. Gli utenti possono richiedere l’aiuto di un assistente
personale, mentre i famigliari possono avere bisogno di trovare qualcuno che li
sostituisca nella cura quando sono impegnati.
La partecipazione è un modo di lavorare che necessita di diventare completamente
integrato nella pratica di tutti i giorni, di tutte le organizzazioni sanitarie e sociali. Non
esiste un approccio o un metodo migliore per garantire l’effettivo coinvolgimento di
utenti e famigliari; questi preferiscono impegnarsi nei processi ai quali hanno
partecipato con le loro idee e nei quali sono stati coinvolti con metodi inclusivi e che
vanno incontro ai loro bisogni e alle loro preferenze (Warren, 2007).
Oltre a questi punti, ha un ruolo importante l’inclusione di utenti e famigliari nel fornire
sostegno e formazione ai loro pari oppure agli operatori in servizio o studenti in
formazione. Questo aspetto verrà approfondito nel capitolo successivo in maniera più
specifica essendo il fulcro di questa tesi.
2.1.1 Le origini
Nella storia le conoscenze esperienziali degli utenti spesso sono state marginalizzate, in
particolare se ci si riferisce a persone anziane, con disabilità, con patologie
psichiatriche, persone con difficoltà di apprendimento e bambini.
36
Il lavoro sociale in realtà ha molto da imparare dai movimenti di utenti e famigliari,
tanto che negli ultimi due decenni questi movimenti hanno introdotto innovazioni e
nuovi modi di vedere e rispondere ai problemi individuali.
Negli ultimi due decenni avvengono dei cambiamenti e la voce degli utenti e dei
famigliari sta iniziando a prendere piede nelle politiche sociali e nella pratica. In alcune
realtà come ad esempio l’Inghilterra è proprio lo stesso governo a richiedere il punto di
vista degli utenti e dei famigliari su questionari nazionali, gli erogatori dei servizi sono
interessati a consultare gli utenti e i famigliari a prendere decisioni attraverso processi di
tipo partecipativo (Warren, 2007).
La partecipazione ha preso piede grazie ai cambiamenti sociali e politici che si sono
verificati durante gli ultimi anni sessanta che hanno portato allo sviluppo di nuove
filosofie che sottolineano il diritto e la partecipazione dei cittadini, lo sviluppo dei
movimenti civili, del welfare e l’emergere di gruppi di auto-mutuo-aiuto basati sulla
centralità dell’esperienza personale.
L’inclusione di esperti per esperienza nei servizi è avvenuta anche come risposta alla
mancanza di responsabilità dei servizi tradizionali di welfare, insoddisfazione per la
scarsa qualità, la mancanza di reattività e responsabilità del welfare. Tutto questo ha
portato all’emergere di movimenti di utenti e famigliari che possano dare una risposta a
queste carenze. Questo ha permesso la creazione di nuovi modi di collaborare e di
lavorare, che esaltano l’uguaglianza e la condivisione.
È attraverso la storia che si sono sviluppati e fortificati i movimenti di utenti e famigliari
e i benefici sono notevoli; prima di tutto documentano uno sviluppo significativo dei
movimenti che hanno permesso anche una mappatura dei cambiamenti politici, sociali
ed economici dati dai movimenti, permettendo di cambiare l’opinione pubblica riguardo
i gruppi di utenti e famigliari. Questo ha dato modo anche di tracciare i diversi tipi di
problemi e conflitti dei quali i diversi movimenti hanno fatto esperienza. Le storie dei
movimenti evidenziano anche le forze trainanti e le preoccupazioni del governo sul
coinvolgimento e la partecipazione degli utenti, in particolare all’interno della pratica
del servizio sociale.
I principali movimenti riconosciuti e presenti sono quelli che vedono come protagonisti
le persone con disabilità, patologie psichiatriche oppure anziani.
C’è stato un riconoscimento ufficiale delle organizzazioni negli ultimi vent’anni che
sono nate da una spinta individuale trasformata poi in un’azione collettiva generando in
alcuni casi un forte impatto sul programma legislativo del governo (Warren, 2007).37
Questi movimenti hanno vari ruoli e hanno permesso di creare varie attività come
consultazioni, consigli sul servizio e sulle pratiche, creazione dei servizi che
comprendano l’auto-aiuto, advocacy collettiva e individuale e altre realtà che abbiamo
visto precedentemente.
2.1.2 Il valore aggiunto della partecipazione di utenti e famigliari nei
servizi
Lo sviluppo della partecipazione degli utenti e dei famigliari nei servizi e di assistenza è
diventato un tema centrale nel programma di riforme del governo. Braye (1995) ha
identificato le tre forze guida che stanno alla base dello sviluppo della partecipazione.
Prima di tutto il mandato giuridico e politico, il quale sottolinea l’importanza del
principio della partecipazione che è alla base di gran parte della legislazione attuale e
degli orientamenti politici inglese che si occupano di salute e assistenza.
Secondo aspetto è il mandato professionale, Braye (1995) ha distinto due tipi di
mandato professionale che nascono all’interno del lavoro sociale e delle professioni
sociali. Il primo guidato dal principio “The code of Practice for Social Care Workers”
(General Social Care Council, 2002), il secondo è guidato dal senso di efficacia. In
primo luogo, il codice di condotta per i social care workers, pone un mandato per il
personale, di trattare ogni persona come individuo, per sostenere i diritti delle persone di
controllare la propria vita e di fare scelte informate sui servizi che ricevono.
Inoltre è richiesto che il personale promuova l’indipendenza degli utenti del servizio, ad
esempio, aiutandoli a fare reclami. Questo approccio si basa su valori tradizionali di
assistenza sociale, sulla base dei principi di accettazione, di rispetto per le persone e
autodeterminazione. Accanto a questo, c’è poi un mandato professionale per
promuovere le pari opportunità per gli utenti dei servizi e i famigliari, per quanto
riguarda la diversità, le diverse culture e valori.
Mentre vi è una generale mancanza di ricerca e di valutazione dell’impatto e dei risultati
della partecipazione degli utenti del servizio, alcuni studi hanno dimostrato che il
coinvolgimento degli utenti dei servizi non solo ha un influsso positivo sulle opinioni e
le esperienze dei servizi degli utenti di servizi, ma aiuta a promuovere la pratica di
opinioni e condivisione delle varie esperienze favorendo una pratica più efficace e
efficiente. Questo sottolinea la necessità di partecipazione per l’utente del servizio e dei
famigliari (Warren, 2007).
38
Inoltre il mandato degli stessi utenti, i quali si sono sentiti marginalizzati rispetto ai
propri problemi e non minimamente coinvolti, è emersa proprio dagli stessi la richiesta
di essere coinvolti sulle decisioni che influiscono le proprie vite.
La partecipazione di utenti e famigliari ha vari vantaggi, in questo paragrafo cercherò di
far emergere gli aspetti positivi della partecipazione sia per chi partecipa che per il
servizio.
Prima di tutto bisogna partire dal presupposto che c’è un intrinseco ed importante valore
per le persone nel prendere decisioni che riguardano la propria vita. Questo permette di
accrescere la fiducia e l’autostima della persona, permette di creare un’occasione per
sperimentare qualcosa di terapeutico; infatti il progetto nel quale l’utente o famigliari è
coinvolto si riflette in modo positivo anche sulla vita personale di questa persona.
Questo è sicuramente positivo e perseguibile ma non deve essere l’unico obbiettivo
della partecipazione; questa non deve essere pensata solo sul valore terapeutico, perché
rischia di essere non più vera partecipazione ma un’esperienza animativa-educativa.
L’obbiettivo principale dovrebbe essere la percezione di essere un aiuto per gli altri e
per i professionisti oltre che per sé stessi.
Ma questo non l’unico beneficio che si può riscontrare dalla partecipazione. Questa
permette infatti di sviluppare capacità di auto-mutuo e reciprocità, gli utenti e i
famigliari sono molto più sensibili verso gli utenti che hanno vissuto esperienze
similari. Genera empowerment attraverso il reciproco aiuto in situazione condivise e
crea occasioni di apprendimento in quanto la partecipazione accresce la conoscenza e
migliora le competenze.
Partecipare per coloro che detengono il sapere esperienziale promuove la peer
advocacy, il loro coinvolgimento permette alle persone di assistere e sostenere gli altri
utenti della comunità nell’accesso ai servizi sanitari e sociali.
In questo modo si creano anche delle occasioni per sviluppare fra pari varie iniziative,
incoraggiando lo sviluppo di iniziative che sono user-centred, cioè incentrate sugli
utenti.
La partecipazione permette inoltre la messa in discussione delle proprie idee e dei propri
sentimenti, favorendo anche la possibilità di rielaborare la propria storia di vita e il
proprio percorso.
39
Il coinvolgimento delle persone le porta ad aumentare la propria percezione di potere
(empowerment) nel prendere le scelte che riguardano la propria vita, contesto sociale e
ambientale ma al tempo stesso permette alle persone di autodeterminarsi
(Warren,2007).
La partecipazione di utenti e famigliari ha dei benefici anche per quanto riguarda gli
operatori. Questi hanno a disposizione conoscenze esperienziali che vanno oltre a quelle
acquisite negli anni di studio, permettendo ad utenti e famigliari di partecipare.
Apprendono dall’esperienza legata alla vita, al convivere con una patologia e
comprendere che effetto ha su ogni singola persona.
Gli operatori che favoriscono la partecipazione e ne traggono il bello,
contemporaneamente mettono in discussione assunti dati per scontati, perché utenti e
famigliari sono la vera fonte di conoscenza che può essere usata per istruire gli operatori
di lavoro sociale (Warren,2007).
Utenti e famigliari spesso hanno una modalità di comunicazione efficacemente e con
una sensibilità diversa rispetto agli operatori, perché “l’hanno vissuta”. Grazie a questo
il servizio può rendere più consolidato il rapporto tra utente e servizio.
Favorire l’inclusione all’interno dei servizi di esperti per esperienza favorisce inoltre la
collaborazione e permette al servizio di costruire prestazioni su misura che partono però
dall’incrocio tra diversi saperi, quello tecnico e quello esperienziale.
In ultimo, facilitare la riappropriazione condivisa di progetti di vita comune è un’arte
sopraffina sia in campo sanitario sia in campo sociale. Consentire alle persone immerse
in problemi percepiti di affrontarli assieme, ragionando e riflettendo dialogicamente,
facilitando lo stare assieme e l’intraprendere assieme, apre gli scenari di una tipica
“terapia sociale” che chiamiamo “lavoro di rete.” (Folgheraiter, 1998; 2007)
Le persone connettono in queste reti “il fare per sé con il fare per altri”, sia altri con cui
sono a diretto contatto, sia con conosciuti, arrivando al livello di un agire “politico” per
l’affermazione della giustizia sociale, della convivenza pacifica o di altri valori. La
partecipazione così intesa permette alle persone di fare esperienza del relazionarsi e
della efficacia sia funzionale, sia psicologica che civica.
Questo “agire” inteso in senso fiduciario nei confronti degli altri rappresenta capitale
sociale; questo termine è inteso per designare un indefinito “bene” incorporato nelle
relazioni sociali e sul quale i soggetti interessati possono investire in vista di un qualche
“ritorno” che può consistere sia in vantaggi diretti sia in una cumulazione di quel bene
40
stesso. Pensare alle relazioni sociali in termini di un bene durevole e autocumulantesi,
da cui i soggetti possono attingere in vari modi, è da sempre nella cultura delle
professioni sociali. (Folgheraiter, 2004b, p.133)
2.2 La partecipazione di utenti e famigliari nella salute mentale
La partecipazione, valutazione e gestione dei servizi di salute mentale, consento il
primo luogo, di migliorare la qualità dei servizi coinvolgendo i veri esperti del
problema, che conoscono la malattia mentale, i suoi effetti e cosa significa essere utenti
del servizio.
In secondo luogo, permette di far valere gli interessi e la prospettiva dei testimoni
privilegiati (stakeholders) spesso messi in secondo piano durante i processi decisionali
perché sono ritenuti destinatari di prestazioni definite da altri dove loro ricevono e basta.
Il coinvolgimento di esperti per esperienza porta anche a effetti di indiretti: primo tra
tutti, il miglioramento della situazione di vita delle persone coinvolte attraverso
l’aumento della fiducia in sé e negli operatori, dell’autoefficacia, dell’empowerment e
dell’assunzione di responsabilità rispetto alla propria vita (Stanchina,2014).
Questo coinvolgimento oltre ad avere benefici a livello micro, può avere effetto sulla
comunità territoriale, mettendo in discussione i pregiudizi legati alla mattina mentale e
portando a un aumento del capitale sociale.
Ad oggi la partecipazione inoltre ricopre un ruolo molto importante sia per la crisi del
welfare che per i servizi sociosanitari. La messa in valore delle energie e delle
competenze dei diretti interessati diventa la via principale per uscire dalla crisi, o
meglio, per sfruttare l’occasione della crisi economica per mettere in campo energie
umane che fino a quel momento sono state schiacciate da un sistema di welfare centrato
sulla tecnicità.
Nonostante l’entrata in vigore della legge di riforma psichiatrica in Italia, la legge 180
citata nel capitolo precedente, le spinte sociali, scientifiche e culturali alla salute
mentale sono ancora piuttosto contrastanti e in continuo aumento. La legge 180 da una
parte ha permesso la chiusura dei manicomi dall’altra arte però esistono ancora realtà di
forte istituzionalizzazione che hanno preso nomi diversi ma che, di fatto, ricalcano le
41
orme dei vecchi manicomi. Tuttavia, una situazione tanto pericolosa quanto
l’istituzionalizzazione vera e propria è rappresentata da un subdolo riprodursi della
logica istituzionale all’interno dei servizi territoriali, ad esempio seguendo un approccio
basato sul paternalismo, controllo sociale capillare e sull’assistenzialismo. Tuttavia però
già da qualche tempo nello stesso contesto sembra rinascere una psichiatria alternativa,
che trova spazio soprattutto all’interno di best practices che partono dalle iniziative
operative dei singoli servizi e gruppi di operatori. Queste pratiche si basano sul
coinvolgimento di utenti e famigliari ma non incentrata sul bisogno (che potrebbe
portare il servizio ad avere più potere) ma bensì si tratta di una collaborazione vera e
propria che riconosce le competenze di tutti ed è volta a una finalità comune, vale a dire
il benessere delle persone all’interno dei servizi di salute menale (Stanchina, 2014).
“Quando parliamo di partecipazione in psichiatria intendiamo di solito quelle prassi in
cui la società, vale a dire l’ambiente e il target delle strutture e dei presidi psichiatrici, è
chiamata a collaborare con quelle strutture stesse.” (Folgheraiter, 2007b, p. 186).
Prima di tutto è importante distinguere tra interessati a partecipare in quanto utilizzatori
diretti dei servizi (pazienti e famigliari) e invece quando parliamo di collaboratori civici
per una migliore realizzazione dei servizi. Una cosa non esclude l’altra, ed è proprio
tramite la partecipazione che avviene una importante intersezione. “Anche in
psichiatria, gli utilizzatori possono essere collaboratori per la realizzazione/gestione dei
servizi, o di certi servizi.” (Barnes,1999). Se pensiamo alla partecipazione di un utente o
famigliari nella sua funzione di utilizzatore può essere descritta come ancillare, preziosa
solo in due momenti, come prerequisito alle operazioni tecniche oppure nel dare un
feedback in itinere o alla fine.
Se invece si pensa alla persona come collaboratore, partner per la realizzazione
dell’intervento, si entra in una dimensione più profonda, dove non si è solo utenti ma
bensì produttori e co-produttori di ciò che ricevono dal sistema; questo doppio valore
prende il termine prosumer. Nel momento in cui la persona con una patologia
psichiatrica o la sua famiglia viene riconosciuta come partner, si consegna loro un
potere effettivo (empowerment).
La partecipazione del paziente o del familiare alla decisione riguardo all’assunzione di
un farmaco o comunque all’aspetto terapeutico un farmaco può essere minima, invece,
la loro partecipazione alla decisione di che cosa dare per riorganizzare la propria vita
può non essere che totale. (Folghetaiter, 2007b)
42
Tra gli attori che si possono occupare del funzionamento dei servizi, oltre agli operatori,
ci sono anche gli utilizzatori dei servizi. In questo caso specifico sono utenti e famigliari
che indipendentemente da loro si trovano ad affrontare una condizione di vita segnata
dalla malattia mentale che li porta a relazionarsi con il contesto dei servizi di salute
mentale.
Secondo una prima tradizionale prospettiva, utenti e famigliari sono riconosciuti come
meri ricettori di prestazioni tecniche, diventando così i destinatari di un intervento
tecnico di esclusiva competenza dei professionisti. Come si può notare in questa
concezione, la partecipazione è molto limitata, si limita alla compliance al trattamento e
ha un rimando da parte della persona di come sta proseguendo la terapia. Questo spesso
avviene perché gli apporti degli esperti per esperienza possono essere visti come
“pericolosi” da parte dei servizi, l’organizzazione di questi infatti può perseguire come
principale obbiettivo l’auto- mantenimento, difendendosi da ciò che secondo loro può
minacciare la loro stabilità, dimenticando così gli scopi per cui è nata (Stanchina, 2014).
Un servizio che coinvolge gli esperti per esperienza solo perché ci sono delle direttive
che impongono di farlo, lo farà nei modi e rispetto alle aree che ritiene più opportune
(spesso le meno rilevanti) rappresenta una partecipazione più simbolica che effettiva.
Un’altra prospettiva può essere quella che vede gli utenti come produttori o co-
produttori di ciò che l’organizzazione fa. Questo permette di considerare utenti e
famigliari come interlocutori validi, importanti per migliorare il lavoro
dell’organizzazione.
C’è una visione che coloro che hanno affrontato in modo costruttivo la loro situazione
di vita caratterizzata da sofferenza e di un percorso all’interno dei servizi possano
aiutare questi a organizzarsi in modo più proficuo, ad abbandonare la tendenza
all’autorefenzialità, predisponendo interventi migliori con creatività e capacità di
innovazione (Folgheraiter, 2009b).
In merito a questo aspetto è importante però sottolineare la questione della motivazione
e della libertà del singolo a partecipare; questa deve rappresentare un’opportunità per la
persona, favorita da contesti in cui è presente fiducia. Per far sì che la partecipazione
diventi un processo positivo e costruttivo per chi è coinvolto, chi partecipa deve essere
il più possibile libero di decidere come e rispetto a cosa partecipare. L’azione si deve
rivolgere a una finalità che la persona propria, alla quale sente di appartenere e non
imposta dall’esterno (Folgheraiter, 2009b).
43
La stessa azione partecipativa può rispondere a una finalità diversa, che si può definire
“democratica” (Barnes e Bowl, 2001) o “relazionale” (Folgheraiter, 2011). In
quest’ottica, la partecipazione è diretta a produrre azioni congiunte in vista di finalità
condivise. “Essa consente agli attori di incidere direttamente anche su quella piccola
porzione di mondo sociale che riguarda i servizi. L’empowerment, così inteso, permette
di elaborare anche cambiamenti sociali e politici, oltre a influenzare la realtà concreta
vissuta dalle singole persone.” (Stanchina 2014, p. 36)
Una forma di partecipazione può essere quella dei movimenti degli utenti. Questo è un
fenomeno emerso negli ultimi decenni del Novecento, soprattutto nel contesto
britannico, riguarda la nascita di organizzazioni autonome di utenti dei servizi di
welfare, compresi quelli nell’area della salute mentale. Questo tipo di esperienze fanno
parte dei movimenti degli utenti e sono legate dall’esperienza comune di aver
sperimentato il disturbo mentale e l’utilizzo dei servizi psichiatrici. Ogni esperienza
viene ritenuta preziosa perché rappresenta una manifestazione di un’expertise
insostituibile (Stanchina,2014). Uno degli scopi dei movimenti è proprio quello di
svolgere un’azione di pressione nei confronti di servizi, in modo tale che questo sapere
esperienziale venga tenuto in considerazione. Un altro scopo è svolgere una funzione di
advocacy, fare in modo che la voce degli utenti venga ascoltata principalmente da
coloro che detengono il potere della “cura”.
Altro scopo dei movimenti può essere quello di fornire sostegno, informazione e aiuto.
Qui la partecipazione da parte di utenti e famigliari è molto presente, al tempo stesso
però non vede l’interazione, la co-progettazione e co-produzione con il servizio, ma
nasce dal basso, da un bisogno comune di una collettività che si ritrova insieme e cerca
di dare una risposta autonomamente.
Come detto precedentemente il coinvolgimento degli utenti e dei famigliari nei servizi
di salute mentale è importante per diverse ragioni, pratiche e etiche.
Prima di tutto coinvolgere queste persone significa entrare in relazione con dei veri
esperti del problema, che hanno una conoscenza profonda sia della malattia mentale, dei
suoi effetti sia di cosa significa rivolgersi ai servizi. Queste persone sono esperti per
esperienza dalle quali gli operatori possono apprendere per lavorare in modo più
efficace.
44
Un secondo motivo è rappresentato dalla ricchezza che si può ottenere dall’incrocio di
due saperi, quello esperienziale e quello tecnico. Perkins (2001) sottolinea come i
diversi stakeholders possano avere prospettive divergenti, che corrispondono ad
altrettante aspettative rispetto agli obbiettivi da ottenere. Ad esempio per gli operatori e
i medici può essere importante e prioritario ridurre i sintomi di una patologia, per la
persona invece trovare delle strategie per continuare a vivere una vita dignitosa
nonostante la presenza di questa.
Altro motivo importante del perché far partecipare gli utenti e i famigliari all’interno dei
servizi di salute mentale è che il loro coinvolgimento permette di riempire le lacune
rispetto alle conoscenze attuali della malattia mentale, che continua a essere un campo
da esplorare. “In particolare, deve essere riconosciuto appieno il valore della cosiddetta
“esperienza aneddotica” (o meglio,” testimonianza umana”), che deve entrate a tutti gli
effetti tra le evidenze che permettono di valutare l’efficacia delle pratiche nei servizi di
salute mentale.” (Stanchina, 2014, pag.24)
Partecipare di per sé crea già un beneficio nella persona, che si manifesta attraverso
l’accrescimento di empowerment, l’autostima, lo sviluppo di nuove abilità e capacità
relazionali.
Inoltre il coinvolgimento può avere effetto anche sulla promozione dell’inclusione
sociale (Tait e Lester, 2014). La partecipazione di utenti e famigliari facilita inoltre la
creatività, mettendo in discussione la prospettiva dei professionisti e obbligandoli a
pensare a nuovi approcci. Allo stesso tempo, questo aiuta loro a maturare fiducia nei
confronti degli operatori. (Stanchina, 2014).
Nonostante utenti e famigliari siano entrambi esperti per esperienza è importante
ricordare che i bisogni possono essere molto diversi tra loro, ognuno ha un proprio
“bagaglio esperienziale”, è però importante comprendere che nonostante entrambi
abbiano fatto esperienza di cosa significa vivere con una malattia mentale, è importante
comprendere i diversi bisogni e non darli per scontato.
Quando gli operatori fanno riferimento alla prospettiva dei caregiver sostenendo che
questo racchiude anche il punto di vista degli utenti, rischiano di commettere un errore:
utenti e caregiver sono stakeholders diversi, portatori di interessi particolari non
omogenei. Quello che gli operatori possono fare, invece, è aiutare utenti e familiari a
riconoscere ed esplicitare i diversi bisogni e, successivamente, a metterli in relazione
per costruire azioni condivise. (Folgheraiter,2011; Barnes e Cotterell,2012)
45
Gli operatori sociali hanno un ruolo fondamentale per facilitare e supportare la
partecipazione degli utenti e famigliari fin dall’inizio. È necessario pensare attentamente
a chi e quanti utenti coinvolgere nella pianificazione e implementazione di un’iniziativa,
assicurando un equilibrio tra le persone. È importante anche fornire livelli appropriati di
supporto per consentire la partecipazione di utenti e famigliari attraverso delle sedi
accessibili, trasporti idonei, servizi di advocacy, l’uso di interpreti se necessario.
Inoltre è importante informare gli utenti e i famigliari circa i livelli di coinvolgimento ed
essere onesti riguardo i vincoli di tempo e risorse, che potrebbero rendere difficile il
percorso. Il punto fondamentale della partecipazione, tuttavia, è senz’altro lavorare con
loro per sviluppare un piano d’azione che possa affrontare il problema in un’ottica di
azione congiunta.
La partecipazione è anche un mezzo di insegnamento per il servizio: ascoltare e
“utilizzare” l’esperienza degli utenti o famigliari non li fa sentire solo considerati e
coinvolti, ma implementa la formazione e le capacità dei professionisti e
dell’organizzazione (Warren, 2007).
Per sviluppare la partecipazione, le organizzazioni necessariamente hanno bisogno di un
cambiamento, anzitutto creando dei momenti di ascolto per utenti e famigliari che
risultino davvero significativi e costruttivi.
È importante che i servizi adottino un “sistema integrato” per effettuare un
cambiamento e un miglioramento nei propri servizi; questo modello è composto da
elementi semplici ma indispensabili per favorire la cultura della partecipazione creata
non solo da operatori ma anche da utenti e famigliari.
I servizi inoltre devono supportare concretamente la partecipazione (ad esempio tramite
strategie di partecipazione e lavori di gruppo), devono stimolare la partecipazione ad
esempio attraverso un buon ambiente e utilizzando approcci creativi e creare un
effettivo sistema che permetta di rivedere e valutare la partecipazione, attraverso sistemi
di monitoraggio e valutazione dei risultati.
Un approccio come questo richiede che le organizzazioni si trasformino in servizi
incentrati sulle persone (users-need), dove gli operatori siano formati a favorire la
partecipazione e in grado di realizzarla e metterla in pratica concretamente. Non solo,
ma le organizzazioni dovrebbero mettere in discussione e cambiare le attitudini
esistenti, i modelli di comportamento, le norme, i processi tradizionali che
caratterizzano il lavoro sociale tradizionale. Sviluppare una cultura di partecipazione
46
con un’organizzazione è un processo complesso ma dinamico e creativo, ma una delle
chiavi per realizzarla è l’ascolto attivo di utenti e famigliari.
Per potenziare la partecipazione di utenti e famigliari è necessario un cambiamento
nell’equilibrio di potere, per far sì di aumentare il controllo e nello stesso tempo ridurre
la dipendenza, aumentare l’autonomia e far crescere il potenziale degli utenti.
Storicamente il lavoro sociale era fondato su uno squilibrio di potere tra professionisti,
utenti e famigliari; i professionisti esercitano un potere considerevole in virtù della loro
formazione professionale e del loro ruolo come rappresentanti di enti con poteri statuari
e detenenti delle risorse. È importante riuscire a mettere in moto un radicale
cambiamento di prospettiva, coinvolgendo gli utenti e famigliari nella pianificazione dei
cambiamenti e nell’erogazione dei servizi e nella programmazione dei pacchetti di care.
Gli operatori sociali devono considerare le persone come pari e promuovere l’inclusione
sociale di tutti: l’empowerment non è un intervento o una strategia, ma piuttosto un
fondamentale modo di pensare. Per una buona pratica di lavoro sociale è essenziale
essere consapevoli di quanto le nostre sensazioni e la nostra sensibilità come operatori
possano influenzare la nostra pratica e modella le nostre azioni. Gli utenti e i famigliari
possono insegnare agli operatori molto ma sicuramente l’apprendimento di questi
dipenderà, in parte, da come e quanto questi ultimi accolgono queste nuove opportunità
di apprendimento. (Warren,2007)
Promuovere la partecipazione di utenti e famigliari richiede un impegno genuino da
parte dei professionisti, di riconoscerli come esperti delle proprie vite. È necessaria che
la decisione riguardo la cura sia presa con il paziente e non sul paziente. Il paternalismo
degli ultimi anni è aggravato dal credere che gli utenti non siano in grado di prendere
parte al processo di presa di decisione sulle proprie vite, nonché considerare l’infanzia
come un qualcosa che sta per accadere piuttosto che come qualcosa che esiste ora. È
importante che i professionisti non impongano il proprio punto di vista. Per creare
partecipazione occorre creare contesti e ambienti in cui gli utenti possano esercitare
controllo e potere nella presa di decisioni, per gli utenti, i quali si sentono esclusi ed
emarginati. Anche l’uso del linguaggio tecnico può rendere difficile l’ascolto della loro
voce.
Attenzione però, se in teoria ci si auspica la partecipazione degli utenti, spesso nella
realtà i professionisti continuano a mantenere il potere ed il controllo; per coinvolgere
gli utenti è necessario che gli operatori sociali siano disposti a spostare l’equilibrio del
potere verso utenti e famigliari. La sfida chiave per i professionisti è quella di creare un
47
contesto di accettazione che permetta all’inclusione di diventare realtà. Molti utenti
basandosi su esperienza passate, sanno esattamente come vorrebbero che fossero i
professionisti e presentano speranze ed aspettative.
Il lavoro sociale si fonda sul rispetto della privacy e della riservatezza, sulla promozione
dell’indipendenza e la considerazione delle persone come individui. Tradizionalmente,
invece la base del lavoro sociale era fondata sull’assioma dei professionisti quali figure
esperte, i quali imponevano il proprio sistema di conoscenza e i propri modi di
intervento su utenti e famigliari. Si può ritenere che uno dei risultati maggiori raggiunti
nel lavoro sociale sia stato il modo in cui la professione ha rivisto i propri valori base
attingendo nuove idee provenienti da altri ambiti. (Warren,2007).
Concludendo, la partecipazione degli utenti e famigliari tuttavia deve andare al di là
della semplice espressione di un’opinione in merito ai servizi esistenti, che solitamente
viene raccolta tramite questionari di gradimento o indagini rispetto alla soddisfazione
degli utenti. Per fare in modo che utenti e familiari partecipino davvero alle decisioni
che riguardano loro e i servizi a cui si rivolgono, è necessario andare al di là di tali
modalità di raccolta della soddisfazione (Simpson e House, 1994).
2.2.1 Le difficoltà da parte dei servizi nel coinvolgimento degli utenti
Partendo dal presupposto che nonostante l’esperienza di vita accomuna utenti e
famigliari, ciò non significa che i bisogni siano gli stessi. Le iniziative di
coinvolgimento dei famigliari nelle decisioni riguardanti i servizi (a livello di policy e
management) o i tentativi da parte degli operatori di confrontarsi con i famigliari per
migliorare i servizi presenti sono evidentemente più numerosi delle azioni che vengono
fatte verso gli utenti sia per quanto riguarda i servizi di salute mentale, ma non solo.
Questa difficoltà a coinvolgere gli utenti rispetto ai famigliari può esserci in primo
luogo perché la partecipazione dei primi richiede anche agli operatori abilità particolari
rispetto alle modalità di contatto, comunicazione, incontro e progettazione. Per gli utenti
può rivelarsi complicato aderire a un linguaggio formale e inerenti ai tempi, luoghi e
modi tradizionali dei servizi. È importante infatti creare soluzioni creative e flessibili
per aiutare le persone a esprimere il loro punto di vista, a ragionare sulle situazioni che
vivono e sul rapporto con i servizi. 48
Coinvolgere invece i famigliari, può rilevarsi molto più semplice su questo versante,
soprattutto se fanno già parte di associazioni all’interno delle quali sono già abituati ad
esprimere il loro pensiero (Stanchina,2014).
Un secondo motivo può essere dovuto al fatto che è più semplice che gli operatori si
immedesimino nei famigliari, perché hanno un ruolo per certi versi simili, assistono la
persona in difficoltà. La prospettiva di trovarsi, in un futuro, nel ruolo di chi aiuta un
familiare in difficoltà può essere molto meno minacciosa rispetto a quella di essere una
persona che si trova a soffrire di un disturbo mentale. Questa percezione da parte degli
operatori può aumentare la distanza tra loro e gli utenti, rispetto ai famigliari.
Una terza questione che può farci intuire il motivo per cui i famigliari vengono coinvolti
più facilmente riguarda l’autorità professionale degli operatori. Gli operatori non si
sentono minacciati il loro potere e sapere dai famigliari, mentre gli utenti possono
metterli in discussione non solo in merito ad aspetti particolari del trattamento ricevuto
ma anche a un livello più complessivo, rispetto al senso della loro professione e della
loro relazione di aiuto. In merito a questo aspetto Barnes e Wistow hanno riscontrato
che “gran parte di ciò che è stato detto dagli utenti coinvolti in questi comitati ha
attaccato alle fondamenta due aspetti della professione psichiatrica: l’efficacia degli
interventi medici e la responsabilità dei medici coinvolti.” (Barnes e Wistow 1994,
p.532).
Questo problema purtroppo è dovuto anche dal fatto che spesso coloro che si esprimono
(inteso gli utenti) sono gli stessi che solitamente vengono giudicate “incapaci” di
prendere decisioni in merito al loro percorso (Stanchina, 2014). L’operatore vive così
l’osservazione come una “minaccia” al suo ruolo professionale, ma non solo, anche
rispetto alla sua autorità che consente di diagnosticare il problema e trovare gli
interventi per risolverlo.
Concludendo, il fatto che l’utente da ruolo passivo, di semplice ricettore passi ad essere
un interlocutore in grado di esprimere insostituibili capacità esperienziale, di dire cosa
favorisce il suo benessere e cosa invece no, per evidenziare le criticità dei servizi e
rendersi responsabile per aiutare portando ad una sorta di “ribaltamento dei ruoli tra
“chi aiuta” e “chi è aiutato” obbliga gli operatori ad adottare un nuovo approccio nei
confronti dei loro interlocutori.” (Stanchina,2014, p.28).
49
Per tutti questi aspetti è importante fare attenzione a trovare la modalità, linguaggio per
coinvolgere gli utenti, facendo in modo di creare contesti adeguati e che favoriscono la
loro partecipazione.
2.3 Modelli di partecipazione
Per comprendere completamente la partecipazione è bene andare a osservare i diversi
gradi di intensità e non solo in cui essa può manifestarsi. Per comprendere meglio
questo concetto sono state elaborate diverse “scale della partecipazione”. In questo
capitolo prenderò in considerazione diverse tipi di scale, analizzando i vari livelli di
intensità di relazionalità della partecipazione di utenti e famigliari nelle pratiche del
lavoro sociale.
Nelle scale che illustrerò in questo capitolo si farà riferimento non solo alla
partecipazione all’interno dei servizi, ma anche a livello di comunità.
Sono scale che analizzano aspetti diversi della partecipazione, sia a livello di intensità
che di relazionalità, cercando di comprendere le differenze tra i diversi livelli,
analizzando al meglio i diversi significati che la partecipazione può avere secondo i
diversi autori. Un altro aspetto interessante è capire che un livello alto di una scala non
per forza può risultare altrettanto alto in un'altra scala, questo è dovuto ai diversi
significati che vengono attribuiti alla partecipazione e cosa questa rappresenta per
l’autore.
Inoltre è importante considerare che partecipazione significa anche avere la libertà di
non partecipare (Warren,2007) nel momento in cui una persona sente il bisogno o la
volontà di non farlo, questo tema è affrontato in modo più dettagliato all’interno di un
paragrafo riportato successivamente.
2.3.1 Scala di Folgheraiter (2011)
50
L’intento di questa scala formulata da Folgheraiter è comprendere e misurare i diversi
gradi di relazionalità presente nella partecipazione:
Possiamo collocare i diversi gradi di relazionalità su una sorta di gradiente (il tratteggio
sulla retta sta a significare che non c’è una distanza precisa). In questa scala l’obbiettivo
è quantificare la relazionalità presente nella partecipazione, intesa come quanto utenti,
famigliari e operatori collaborano e condividono nel pianificare e realizzare le varie
finalità stabilite insieme. Nel momento in cui questo avviene si ottiene la massima
relazionalità, nel caso in cui gli operatori decidono e utenti e famigliari usufruiscono o
erogano la relazionalità è bassa.
Analizziamo più nel dettaglio questa scala:
Parliamo di bassa relazionalità della partecipazione quando, da una parte, ci sono
esperti o providers (intesi come produttori di servizi, termine appartenente al linguaggio
consumerista), che decidono quali servizi realizzare e dall’altra parte ci sono utenti e
famigliari che possono usufruire o meno di questa possibilità. Nel welfare mix, nel
quasi-mercato, gli esperti hanno l’interesse a catturare la fiducia dei consumatori per
aumentare il proprio fatturato. Nel welfare state istituzionale, invece questo interesse
non c’è però la relazione non cambia, ci sono degli operatori dei servizi istituzionali
organizzati dallo Stato che, per mandato istituzionale, hanno il compito di predisporre
dei servizi da erogare alla popolazione; le persone hanno bisogno, possono decidere di
diventare utenti, cioè che usufruiscono di servizi o meno.51
Nel welfare mix agli operatori dei servizi interessa coinvolgere gli utenti perché questi
utenti comprano i servizi da coloro che creano una maggiore soddisfazione al bisogno
che l’utente ha. Questo tipo di partecipazione è di stampo consumerista.
In questo primo livello della scala, c’è una bassa relazionalità.
Possiamo trovare questa bassa relazionalità sia nel welfare state che nel welfare mix:
non importa lo scenario di fondo, tutte le volte che sono gli esperti che decidono e
realizzano, utenti e famigliari usufruiscono o comprano, in entrambi i casi non c’è una
relazionalità, non c’è il lavoro fatto insieme, c’è infatti una parte che riceve e l’altra che
usufruisce.
Ad un livello superiore, rimanendo però ancora nella bassa relazionalità (intesa come
poco intreccio tra le competenze esperte e quelle esperienziali) possiamo collocare un
tipo di situazione come la seguente: gli esperti decidono e realizzano, gli utenti e i
famigliari vengono consultati rispetto al gradimento delle iniziative, dei servizi e delle
prestazioni.
Quest’ottica è una configurazione del complesso consumerista, dell’ottica
managerialista. Dato che l’interesse è quello di migliorare i servizi e i prodotti che si
vendono.
La maggior parte dei nostri servizi socioassistenziali ha un impianto fortemente da
welfare istituzionale; per questo motivo, il fatto di sentire cosa ne pensano gli utenti
viene percepito come abbastanza innovativo, anche in un’ottica meramente
consumerista. Una serie di iniziative, come ad esempio la carta dei servizi, i questionari
di gradimento, i fogli che indicano le segnalazioni su ciò che non funziona sono di
stampo consumerista/managerialista.
L’ottica consumerista è comunque qualcosa che favorisce la partecipazione, ma è
pensata nell’ottica di conquistare la fiducia del consumatore, non in un’ottica
relazionale. In certi contesti, può rivelarsi utile un questionario di gradimento rispetto ai
servizi però questo non aiuta a fare lavoro di rete. Le relazioni e opinioni dei
consumatori nell’ottica managerialista non è la strada migliore per costruire
partecipazione in senso democratico, inteso come promuovere l’empowerment delle
persone e fare lavoro di rete. Questo tipo di approccio si può rivelare utile quando si ha
a che fare con problemi che hanno una forte componente tecnica, quando non serve uno
spessore di competenze esperienziali particolarmente significativo, in questi casi i
questionari di gradimento, i sondaggi, funzionano bene. Quando invece ho bisogno di
raccogliere competenze e conoscenze esperienziali, i questionari e i sondaggi possono
52
servire, ma non sono sufficienti per raccogliere le informazioni necessarie, possono
servire da stimolo per far nascere altre riflessioni, ma non sono sufficienti.
Si ha un livello intermedio di relazionalità quando incontriamo questi due gradienti: gli
esperti decidono, utenti e famigliari contribuiscono a realizzare oppure quando utenti e
famigliari vengono consultati per decidere cosa fare e gli esperti programmano e
realizzano.
In questo livello la relazionalità è maggiore rispetto ai due livelli precedenti, perché le
persone direttamente interessate non vengono sentite ex post e, nel primo dei due casi
riportati sopra, viene data loro la possibilità di costruire in maniera attiva alla
realizzazione delle prestazioni. In entrambe quelle ipotesi, chi ragiona sulla
programmazione e tiene in mano le redini del processo sono gli esperti. Nel primo caso,
sono comunque gli esperti a diagnosticare i problemi e a decidere cosa fare, utilizzando
poi gli utenti e famigliari per la messa in azione. Questo ad esempio avviene spesso con
i volontari, dove gli esperti danno le indicazioni e spiegano ai volontari che cosa devono
fare. Il volontariato ha una funzione di mera esecuzione di indicazioni fornite dagli
esperti. Quando la persona non contribuisce anche a livello direttivo, è difficile che la
sua motivazione si mantenga alta nel tempo. Il rischio di utilizzare le persone in maniera
meramente esecutiva fa calare la motivazione in tempi abbastanza brevi.
Utenti e famiglia devono apportare il loro sapere esperienziale per la costruzione fin
dall’inizio di iniziative e interventi, in questo livello invece il potere appartiene agli
operatori, i quali hanno l’iniziativa e grazie all’aiuto di utenti e famigliari mettono in
azione (nel primo caso), oppure questi, vengono consultati dagli operatori per
comprendere cosa fare e gli operatori mettono in atto.
Concepire la partecipazione in questi termini è pericoloso perché è difficile che utenti e
famigliari desiderino qualcosa che sarà poi fatto da operatori. In questa visione non c’è
relazionalità, non si lavora insieme. Quando si condivide il processo decisionali e il
processo realizzativo dell’aiuto, tutte le persone sono considerate alla pari, cioè sono
nelle condizioni di ragionare insieme all’operatore su quali sono i problemi, ostacoli,
criticità che si incontrano nel cercare di raggiungere un determinato obbiettivo. Questo
permette di ridimensionare le aspettative.
In questo livello c’è un minimo di interazione tra le due parti, ma le azioni non sono co-
costruite insieme. Avviene così una deresponsabilizzazione della persona e una
eccessiva responsabilizzazione dell’operatore, ottenendo così un fallimento della
53
partecipazione e scarso empowerment, perché utenti e famigliari non hanno il controllo
della propria vita.
Infine abbiamo alta relazionalità quando utenti, famigliari ed esperti lavorano insieme
sia per definire le finalità, sia per realizzare la concezione relazionale della metodologia
di rete, applicabile sia a livello di caso (cioè sulle singole situazioni), sia a livello
comunitario che a livello di programmazione dei servizi. In questo ultimo livello la
collaborazione, il lavoro in partnership è ben visibile in quanto entrambe le parti
collaborano sia per definire le finalità sia per realizzare iniziative concrete atte a
perseguire le finalità. Vi è quindi l’aspetto del “fare assieme”.
Un servizio relazionale si pone intenzionalmente come obbiettivo quello di favorire il
libero relazionarsi di operatori, utenti, famigliari e altri cittadini all’interno e all’esterno
di esso. Inoltre sostiene progetti in rete, vale a dire quelli in cui sono coinvolte con piena
autonomia persone incardinate nel servizio (operatori) e persone della comunità (utenti,
famigliari e cittadini) (Folgheraiter, 2005).
Per far sì che questo avvenga ci sono delle azioni che favoriscono lo sviluppo della
relazionalità all’interno dei servizi.
In primo luogo, l’organizzazione può introdurre in modo direttivo procedure strutture
che favoriscono la relazionalità. Le procedure rispettano il fatto che l’organizzazione
debba darsi delle strutture. Ma in esse possono trovare una risposta anche le necessità
dei processi partecipativi.
In secondo luogo, l’organizzazione può costruire tavoli di concertazione in cui
prevedere la presenza di operatori, utenti e famigliari incoraggiandoli a confrontarsi
rispetto alle criticità del servizio e alle possibilità di miglioramento.
In terzo luogo, l’organizzazione può facilitare la realizzazione di contesti relazionali, in
cui le persone possano sperimentare una dinamica di aiuto/mutuo aiuto.
Sicuramente l’organizzazione può favorire la partecipazione e la relazionalità in modi
più o meno direttivi. In ogni caso, anche quando la partecipazione viene imposta
attraverso procedure formalizzate a cui gli operatori sono costretti ad attenersi, non si
può automaticamente assicurare che i processi siano caratterizzati necessariamente da
una piena partecipazione o da un alto grado di relazionalità. I diversi punti di vista
rendono più probabile l’emergere di nuovi circoli virtuosi, in cui la motivazione,
coinvolgimento, empowerment, fiducia nei processi condivisi si rigenerano in modo
incrementale. (Stanchina,2014)
54
“Fornire alle persone (operatori, utenti, famigliari e dirigenti stessi) la possibilità di
trovarsi in contesti relazionali, le aiuta a maturare fiducia negli altri, a scorgere
l’efficacia del ragionare assieme su una medesima preoccupazione, a sviluppare
empowerment e capitale sociale. Inoltre l’apertura ai diretti interessati consente al
servizio di migliorare rispecchiando in modo più efficace i bisogni delle persone con
problemi di salute mentale.” (Stanchina,2014, p.230)
2.3.2 Scala di Hart (1992) adattamendo da Arnstein 1969
La prima scala che affronta il tema dell’intensità è quella creata da Hart nel 1992
(adattamento da Arnstein, 1969):
Quando parliamo di partecipazione è importante tenere in considerazione anche quello
che partecipazione non è. Nel primo livello abbiamo la manipolazione: gli operatori
ascoltano quello che utenti e famigliari hanno da dire, con l’intento però di sentirsi dire
quello che gli operatori ritengano sia meglio per loro o che avevano già intenzione di
fare.
Nel secondo punto della scala troviamo la retorica di facciata nella quale si hanno
intenti negativi fin dall’inizio, dove si creano dei meccanismi di rappresentanza dove
però chi ha effettivamente il potere decisionale non ha intenzione di metterlo in
55
discussione. Si chiede il parere di utenti e famigliari non tenendolo però in
considerazione per le azioni future.
In terzo livello, non ancora partecipativo è il coinvolgimento formale (mero consenso);
in questo caso la partecipazione avviene solo perché ci sono delle linee guida
ministeriali che impongono l’ascolto degli esperti per esperienza, ma in realtà non c’è
una reale reciprocità, non c’è un reale interesse nel voler sapere cosa pensano, dicono e
vorrebbero fare gli interlocutori. Questi tre livelli non rappresentano la partecipazione,
ma bensì sono delle modalità con le quali si chiede il parere delle persone ma poi non se
ne tiene conto una volta che si entra in azione.
Se saliamo ai livelli superiori troviamo forme di intensità crescente di partecipazione
vera e propria. La prima che incontriamo, che corrisponde al livello quattro è il
consenso informato, nel caso della salute mentale, nello specifico gli operatori
informano in maniera dettagliata ed esaustiva utenti e famigliari rispetto a quello che
proporrebbero per lui e per la sua famiglia, o ad esempio che tipo di trattamento
sanitario secondo loro sarebbe più opportuno per la persona, spiegando quali sono i pro
e contro di una situazione, facendo anche chiarezza sulle criticità e i punti forti di quello
che ti sto proponendo. L’utente e i famigliari manifestano la loro approvazione o meno
verso ciò che gli è stato proposto. Nel consenso informato l’operatore spiega alla
persona la situazione e cosa farebbe, cercando di capire se dall’altra parte c’è un
consenso effettivo oppure no.
Il quinto punto vede la partecipazione come consultazione. Questo rappresenta un
tassello in più rispetto al livello precedente perché l’operatore chiede il punto di vista
della persona su quello che sta dicendo, cercando di comprendere anche il suo punto di
vista.
Il sesto livello vede come partecipazione le decisioni degli esperti che vengono
condivise con gli utenti; qui emerge un verbo importante che sottolinea che la
partecipazione non avviene sono da una parte, ma da entrambe: condividere infatti
sottolinea l’importanza di dividere con, in questo caso con utenti e famigliari che
rappresentano non solo i destinatari ma anche persone con le quali appunto costruire
un’idea di percorso che si è pensata, essendo loro i protagonisti di questo. È importante
sottolineare però che nonostante ci sia condivisione, le iniziative nascono dagli operatori
che inseguito le condividono con utenti e famigliari per avere anche un loro riscontro.
56
In settimo livello sono le iniziative dirette dagli utenti, in questo livello c’è un alto
grado di partecipazione, gli utenti infatti si uniscono per riuscire a dare una risposta ai
propri bisogni. In questo caso il livello di partecipazione è alto perché le persone si
attivano per in autonomia; a livello di relazionalità (Folgheraiter,2011) tra utenti e
operatori però avviene poca interazione e collaborazione.
In questo modello rivisto da Hart (1992) si considera quanta partecipazione c’è da parte
di utenti e famigliari e quanto questi concretamente incidono nelle decisioni che
vengono prese, più c’è la possibilità di incidere, più avviene la partecipazione.
L’ultimo livello della scala è quella che vede la partecipazione come decisione degli
utenti condivise con gli esperti, in questo caso la decisione viene presa dagli utenti e
famigliari; è una decisione più influente del livello precedente perché qui le azioni
successive a questa decisioni vengono realizzate con l’aiuto anche dei professionisti. Il
grado di relazionalità rispetto al livello prima è molto più alto, perché le azioni vengono
portate avanti insieme, collaborando.
In questa scala di Hart l’innalzamento del livello di partecipazione corrisponde a quanto
utenti e famigliari partecipano e quanto riescono ad incidere grazie al loro contributo
sulle decisioni che riguardano la loro vita e il mondo intorno a loro.
2.3.3 Seconda scala intensità della partecipazione, Wilcox (1994)
57
Wilcox usa una retta per indicare il livello di intensità nella partecipazione e
l’atteggiamento che gli operatori hanno della partecipazione.
Il primo livello è quello dell’informazione intenso come ad esempio volantini,
manifesti, dépliant, conferenze, siti web, sono tutti strumenti attraverso cui le pubbliche
amministrazione cercando di comunicare con i cittadini. I contenuti di questi flussi di
comunicazione riguardano le decisioni e iniziative già assunte da parte di un’istituzione
o di un servizio. In genere si tratta di informazione unidirezionale, non strutturata quindi
per ricevere un feedback dai destinatari. “Questo livello minimo di partecipazione è
funzionale laddove non esiste uno spazio d’azione per gli eventuali interlocutori o non
vi sono ricadute significative sugli attori sociali: in quel caso una comunicazione chiara
e tempestiva è la scelta più adatta. Inoltre l’informazione è il primo passo quando si
mira a livelli di partecipazione superiori.” (Stanchina, 2014 p. 37)
Il secondo livello è la “consultazione, vale a dire una forma di interazione su un tema
ben individuato che prevede la gestione di un processo di comunicazione bidirezionale
tra decision makers e cittadini.” (Stanchina, 2014, p. 37) È una modalità che viene
utilizzata quando si ha la necessita di un feedback dalla parte degli interlocutori. In
questo livello nonostante utenti e famigliari vengano ascoltati, spesso non possiedono
comunque il controllo sulla decisione finale, in questo livello il potere decisionale su
cosa fare e anche di come consultare le persone è in mano agli operatori.
58
In terzo livello della scala di Wicox è decidere insieme, in cui utenti e famigliari sono
chiamati a dire la loro nella presa di decisione, cercando il più possibile di farla
condivisa. È importante sottolineare però che in questo livello la presa di decisione
viene presa insieme, ciò non comporta per forza che le azioni susseguenti alla fase di
decisione vengano portate avanti insieme. Il livello dopo nella scala è appunto agire
insieme, cioè non si esaurisce nella costruzione di consenso e in una presa di decisione
allargata, ma entra nel piano della realizzazione attraverso la costruzione di una
partnership dove i soggetti svolgono un ruolo di attori delle trasformazioni sociali in
collaborazione con le amministrazioni pubbliche. È importante che coloro che
partecipino possano rappresentare il vero punto di vista degli utenti e dei famigliari.
In ultimo il quinto livello individuato da Wilcox è sostenere l’azione altrui, dove
secondo questa scala è racchiusa la massima partecipazione, che corrisponde anche al
gradino più alto in grado di controllo da parte di utenti e famigliari nei confronti di un
programma di intervento, attraverso la piena responsabilità di ideazione, progettazione e
attuazione di un processo di cambiamento sociale. L’idea è che “capacitando” la
comunità di possa arrivare anche a una diminuzione del ricorso ai servizi.
(Stanchina,2014)
L’idea è che la risposta nasca da coloro che portano il bisogno, con la collaborazione
però degli operatori che sostengono l’azione di coloro che non rappresentano solo dei
destinatari delle prestazioni ma contribuiscono a crearle. È una risposta che viene
seguendo un pensiero sussidiario, cioè coloro che sono più vicini al bisogno sono coloro
che devono cercare di rispondere a questo, con l’aiuto però degli operatori. In questo
ultimo livello la partecipazione da parte di utenti e famigliari è molto alta sia a livello
dell’intensità che a livello di relazionalità perché esperti tecnici e esperienziali
collaborano nell’attuazione delle iniziative nate da coloro che percepiscono il bisogno.
2.3.4 Livelli di rilevanza nei contenuti della partecipazione
Un altro aspetto importante da rilevare è la rilevanza rispetto ai contenuti della
partecipazione. Oltre a dire “quanto incide la mia partecipazione” nelle decisioni che
poi vengono prese, andare a vedere quanto questa partecipazione è significativa, non
devo considerare solo quanto decido, ma anche a che livello della mia vita o di
comunità la mia partecipazione influisce.
59
Cercherò di spiegare meglio questo aspetto con delle esemplificazioni: un gruppo di
utenti può avere un alto livello di partecipazione, quindi può avere un’incidenza molto
elevata sulle decisioni che riguardano che cosa fare la domenica, ma può avere un
livello di intensità di partecipazione pari a zero rispetto al decidere ad esempio qualcosa
che riguarda l’organizzazione del servizio oppure le prestazioni da erogare.
Per valutare la partecipazione, è utile misurare il livello di relazionalità e di livello
intensità, ma anche il livello di rilevanza nei contenuti della partecipazione.
Per valutare la partecipazione ci sono due tipi di contenuti, il primo quanto ciò a cui si
collabora e si partecipa è rilevante per la vita della singola persona o della famiglia. Se
la decisione di cui parliamo è molto rilevante per la vita della persona, il fatto di
partecipare o meno ha un peso maggiore. Se invece la decisione riguarda un aspetto
marginale della mia vita allora la partecipazione, avrà una rilevanza diversa nella sua
vita.
Diverso è quanto ciò a cui si collabora e partecipa è rilevante a livello di sistema, cioè
nell’organizzazione dei servizi, nella comunità locale, comunità e società.
60
Ad esempio facendo riferimento al grafico sopra per l’utente poter partecipare alla
costruzione del suo percorso di aiuto sicuramente avrà un rilevanza notevole a livello
della sua persona e della sua famiglia, sarà meno rispetto al sistema (inteso come
servizi, istituzioni..).
Altro esempio è quando l’utente o famigliari appoggiano un’iniziativa di pressione,
questa può non avere particolarmente rilevanza in quel momento per la sua vita, rispetto
al caso prima però avrà rilevanza a livello di sistema.
Il terzo caso rappresentato nel grafico è il ruolo dell’UFE all’interno del servizio
psichiatrico di diagnosi e cura (SPDC) dove questa esperienza può avere rilevanza in
entrambe le parti. Sia a livello della vita della persona che appunto sostiene che il suo
ruolo di UFE ha cambiato la sua vita, sia a livello di sistema perché l’inserimento della
figura dell’UFE in reparto ha innescato un grande cambiamento nella mentalità degli
operatori, sia a livello dell’organizzazione dei servizi che nella percezione che questi
hanno della figura dell’utente e del famigliare. Infatti, la visione dei famigliari e utente
esperto inserito all’interno di un servizio permette di percepire la persona con problemi
di salute mentale come risorsa per gli operatori ma non solo, anche per il servizio e la
comunità di appartenenza. Questa funzione ha quindi una forte rilevanza per la singola
persona e famiglia ma anche un’incidenza forte a livello di comunità locale, culturale e
dei servizi (e quindi di sistema).
2.3.5 Il modello olistico (Warren, 2007, p.51)
Questo modello olistico di partecipazione e non a livelli, pone al centro del processo
decisionale utenti e famigliari. Poiché i diversi livelli di partecipazione sono posti sullo
stesso piano, la negoziazione dei livelli, il livello di partecipazione che l’utente o che i
famigliari scelgono di utilizzare dipende dai tempi differenti per ognuno, dalle diverse
circostanze in cui versano e dalla natura del compito.
Nel cerchio gli elementi essenziali della partecipazione, fuori dal cerchio le cose alle
quali si può partecipare. Secondo questo modello i quattro principali significati della
partecipazione sono:
- Informare: intenso come dare e ricevere informazioni;
- Consultazione: esprimere pareri che vengono tenuti in conto
- Partecipazione: decidere assieme, in una posizione alla pari rispetto agli altri
Empowerment: intenso come il controllo sui processi decisionali
61
Di seguito la rappresentazione del modello:
Chiaramente è importante che ci sia un clima che incoraggi il coinvolgimento di utenti e
famigliari e contribuisca ad aumentare la loro percezione di potere sulle decisioni che
riguardano la propria vita, ma non solo. Gli operatori devono essere in grado di capire e
distinguere i diversi livelli di empowerment all’interno delle loro organizzazioni ed
essere in grado di supportare la partecipazione e il coinvolgimento di utenti e dei
famigliari.
Per fare in modo che la partecipazione sia effettiva e reale, è necessario quindi che il
livello di attività e di coinvolgimento vengano negoziati tra utenti e famigliari, in modo
tale che essi si sentano a proprio agio con il processo e che sentano di possederlo.
(Warren,2007).
2.3.6 La libertà di scegliere di non partecipare, è comunque partecipazione
Quanto detto finora può indurre a pensare che quanto più intensa è la partecipazione,
quanto più relazionale e quanto più rilevante sul piano dei contenuti, tanto meglio è. Il
fatto di partecipare a livello massimo non sempre è la cosa migliore per qualsiasi
62
persona. Warren (2007) sottolinea che libertà di partecipazione può significare anche
dire di non voler partecipare. Partecipazione significa poter dire la propria, esporre il
proprio punto di vista può essere anche che la persona in un determinato momento non
sente la volontà di farlo. È bene dunque avere di fronte tante e diverse forme di
partecipazione senza necessariamente gerarchizzarle. Questi modelli servono per
ragionare sulle proposte che si possono fare in un servizio o in un progetto di aiuto, nel
lavoro sul caso, ma bisogna anche essere pronti ad accogliere la disponibilità di
partecipazione cosi come viene dalle persone interessate.
2.4 Ostacoli alla partecipazione
Negli ultimi anni è aumentata l’enfasi sui processi partecipativi in maniera
esponenziale.
Il coinvolgimento degli utenti e dei famigliari nelle politiche sanitaria e nella
pianificazione, erogazione e pianificazione è indicato come principio trasversale nel
Mental Health Action Plan del 2012 dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.
Spesso però questa richiesta di partecipazione non è stata concretizzata in indicazioni
operative chiare e inequivocabili. Il coinvolgimento degli utenti è diventato una
condizione imprescindibile, condivisa a livello culturale, ma poco ragionata nella sua
trasmutazione pratica.
In molti casi la partecipazione è applicata secondo un approccio managerialista,
orientato a tenere informazioni dagli utenti, e non secondo una finalità democratica
legate più a prospettive emancipatorie e all’esercizio dei diritti di cittadinanza.
Esiste quindi una retorica della bontà legata alla partecipazione, che però la può mettere
in pericolo. La bontà “a prescindere” dalla situazione, non permette di riflettere sulle
pratiche partecipative rischiando così di nascondere la necessità di ragionare sul senso
del coinvolgimento, su quali utenti o famigliari vengono coinvolti e sui temi.
Spesso questa situazione fa sì che si arrivi alla conclusione che “la partecipazione non
funziona”, attribuendo la colpa a utenti e famigliari, ritenendoli non all’altezza o non in
grado.
La frustrazione colpisce anche gli utenti e i familiari stessi, che perdono la fiducia
nell’importanza del loro punto di vista, nelle loro punto di vista, nelle loro risorse e
nella possibilità di lavorare insieme per cambiare le cose.
63
Inoltre è importante tenere presente che non è facile per manager e operatori dei servizi
sviluppare delle pratiche partecipative autentiche. Un prerequisito essenziale è
comprendere che il coinvolgimento di utenti e famigliari porterà ad un punto di vista
diverso che potrebbe condizionare in modo inaspettato i processi decisionali nei servizi.
(Stanchina, 2014).
La disponibilità dei manager e degli operatori a “perdere il controllo” e a lasciarsi
guardare da ciò che emergerà nel processo partecipativo è davvero importante per la
buona riuscita della partecipazione, ma anche estremamente faticosa per chi
tradizionalmente la vede pendere dalla sua parte la bilancia del potere. (Barnes,2006;
Folgheraiter, 2011)
Nei seguenti paragrafi illustrerò gli ostacoli alla partecipazione, che apparentemente
possono portare a considerare la partecipazione come impossibile quando in realtà è una
questione di facilitare questo processo evitando di compiere delle piccole azioni che
possono ostacolarla invece che favorirla. (Warren, 2007)
2.4.1 Coinvolgimento solo “di facciata”
Una prima trappola che può ostacolare la partecipazione consiste nel predisporre
iniziative volte al coinvolgimento degli utenti e famigliari con l’obiettivo di trasmettere
all’esterno la percezione che si sta lavorando favorendo la partecipazione, quando in
realtà non c’è una propensione verso l’ascolto verso quello che hanno da dire gli esperti
per esperienza.
Risulta così un coinvolgimento solo di facciata (Warren,2007), dove si propone di
ascoltare il punto di vista, idee e riflessioni di utenti e famigliari ma in realtà le persone
“coinvolte” vanno incontro a pesanti frustrazioni, perdendo la motivazione a partecipare
ulteriormente.
L’attuazione di questa trappola può avvenire ad esempio coinvolgendo utenti e
famigliari su aspetti poco rilevanti all’interno del servizio oppure su aspetti che si sono
già scelti a priori dove loro hanno poche possibilità di influenzare effettivamente sul
piano concreto. Un altro modo in cui si realizza un finto coinvolgimento è la selezione
da parte degli operatori, delle idee e prospettive che emergono da utenti e familiari, in
questo modo gli operatori prendono in considerazione le idee alle quali sono anche loro
d’accordo. Una sorta di relazione selettiva, cioè gli operatori considerano quello che va
bene anche a loro, il resto non lo tengo in considerazione. (Stanchina,2014)
64
Attuando questa trappola, si fornisce a chi partecipa una parvenza di potere, anche se di
fatto resta intatto il potere degli operatori di decidere rispetto a tutte le “questioni
importanti” e di definire e mantenere l’assetto e la struttura dell’organizzazione (Bowl.
1996).
“Anche a essere consultati per dare il proprio parere in merito a iniziative, progetti o
cambiamenti già pensati e realizzati dagli operatori, può essere molto frustante per
utenti e famigliari che si sentono coinvolti solo a giochi fatti.” (Stanchina, 2014, p. 57).
2.4.2 Limiti nei meccanismi di rappresentanzaUn secondo ostacolo alla partecipazione è quello legato alla rappresentanza. Quando si
tratta di partecipare alla vita delle istituzioni (enti e servizi), può succedere che gli
operatori e i funzionari estendano le logiche istituzionali ai mondi della vita delle
persone. Le istituzioni e gli enti funzionano attraverso determinati organi, che sono
stabiliti dai regolamenti, dalle leggi ecc.. il funzionamento delle istituzioni è molto
diverso dalla vita quotidiana delle persone. Se voglio far incrociare il mondo delle
istituzioni e il mondo della vita delle persone devo fare attenzione a non estendere le
logiche istituzionali anche al di fuori delle istituzioni.
La trappola dei limiti di rappresentanza avviene quando ad esempio gli operatori
coinvolgono sempre le stesse persone o le stesse categorie, che spesso vengono visti
come i più esperti e i più capaci tralasciando così persone che possono rappresentare il
punto di vista della comunità in questione.
Se necessario, andrebbero predisposte modalità diverse per coinvolgere gruppi di utenti
diversi; si può anche pensare di lavorare con i familiari in un modo e di predisporre
iniziative di altro tipo per facilitare l’espressione del punto di vista degli utenti.
(Stanchina, 2014) Come riportato in un paragrafo precedente, il punto di vista degli
utenti e dei famigliari può essere diverso, per favorire la partecipazione è importante
dare la possibilità ad entrambi di esprimersi per poi metterli in relazione.
Un altro aspetto legato ai limiti di rappresentanza è quello di riuscire a coinvolgere
anche le categorie che possono rilevarsi svantaggiate, facendo attenzione alle modalità
con le quali ci si relaziona, facendo in modo che emerga il loro punto di vista (Barnes,
2012).
Un’ulteriore questione si riferisce al fatto che man mano che si maturano esperienze di
coinvolgimento, possono emergere obbiettivi specifici da parte di gruppi diversi di
utenti, operatori e manager dei servizi, che vanno esplicitati e negoziati (Barnes, 1997).
65
In ultimo un aspetto critico relativo sempre a questo ostacolo può esserci quando gli
operatori coinvolgono un utente o un famigliare, aspettando quindi che agisca come un
rappresentante della sua categoria. Questa presunta rappresentatività può bloccare la
partecipazione in quanto il rappresentante non è stato scelto dai suoi pari e quindi non è
riconosciuto come tale da loro, e dall’altra non si sente in grado di rappresentare un
numero ampio di persone e non ha la percezione di conoscere il pensiero di tutti.
2.4.3 Gli operatori non aiutano le persone a partecipare
Nonostante la possibilità di partecipazione gli utenti e i famigliari possono essere in
difficoltà ad esprimere il loro punto di vista. Questo terzo ostacolo riguarda proprio il
fatto che gli operatori non aiutano le persone a partecipare, ponendo degli ostacoli che
compromettono a utenti e famigliari la possibilità di esprimere il proprio punto di vista.
Uno di questi è ad esempio legato agli aspetti logistici (luoghi, orari degli incontri e
delle occasioni di incontro). Spesso infatti gli incontri vengono fissati in base alle
possibilità e alle preferenze degli operatori. A questo si collega anche il fatto che
l’espressione del punto di vista può essere ostacolata dalla formalità degli incontri dove
utenti e famigliari possono ritrovarsi in un setting a loro sconosciuto o dove viene
utilizzato un linguaggio caratterizzato da tecnicismi.
Inoltre spesso, quando utenti e famigliari vengono chiamati a partecipare in un contesto
in cui ci sono solo operatori, si trovano di fronte a rapporti formali già in essere tra gli
operatori, dai quali sono esclusi; questo può rivelarsi molto faticoso per le persone.
Altro aspetto faticoso per le persone può essere imporre loro la continuità nella loro
partecipazione, a volte insostenibili. Le persone per motivi vari legati alla loro
situazione fanno fatica a partecipare con continuità. È importante organizzarsi per fare
in modo che ci sia partecipazione anche senza continuità, quest’ultima non deve essere
uno sbarramento alla partecipazione, se necessario dobbiamo pensare a forme di
partecipazione a bassa soglia.
Per favorire la partecipazione è importante che utenti e famigliari vengano formati e
accompagnati a partecipare. L’accompagnamento deve essere anche finalizzato a far
esprimere alle singole persone il proprio punto di vista. L’advocacy di caso, ad esempio,
è una modalità per accompagnare e aiutare la persona a esprimere il suo punto di vista, a
far sentire la voce della persona.
In ultimo per favorire la partecipazione è essenziale creare delle modalità che
permettano a tutti di esprimersi e dire la loro; ognuno ha le sue potenzialità, 66
disponibilità, possibilità rispetto alla partecipazione. Quindi è opportuno offrire diverse
azioni e modalità di partecipazione. L’ideale sarebbe costruire una partecipazione su
misura per la persona.
2.4.4 Assenza di risultati a breve e medio termine
La partecipazione solleva aspettative di cambiamento nelle persone, per questo è
importante che i processi portino a un reale miglioramento sia nell’erogazione sei
servizi, sia nelle opportunità di coinvolgimento degli utenti.
In questo modo, infatti, gli utenti, oltre ad apprezzare il coinvolgimento in sé, possono
percepire l’utilità della loro partecipazione. (Stanchina, 2014)
Se la partecipazione non porta a nulla di concreto, restando fine a sé stessa, le persone
perdono la motivazione a partecipare.
Facendo riferimento alla concezione terapeutica dell’empowerment, le esperienze
partecipative, volte ad aumentare la percezione di potere, sono concepite come tecniche
(come metodo di cura) finalizzare a far sentire meglio, in maniera contingente l’utente o
il famigliare non avendo però dei riscontri sul servizio, non cambiando minimamente la
cultura del servizio. Quando la partecipazione e l’empowerment diventano semplici
tecniche di cura, il rapporto di potere tra l’operatore e le persone che si rivolgono a lui
non viene messo in discussione.
C’è una mancanza di risultati a medio e lungo termine quando i ragionamenti e le varie
proposte presentate da utenti e famigliari restano scritte senza nessuna attuazione in
seguito.
“Dato che la partecipazione solleva aspettative di cambiamento nelle persone, è
importante che i processi portino a un reale miglioramento sia nell’erogazione dei
servizi sia nelle opportunità di coinvolgimento degli utenti. In questo modo, infatti, gli
utenti, oltre ad apprezzare il coinvolgimento in sé, possono percepire l’utilità della loro
partecipazione. Purtroppo la partecipazione spesso viene vista come utile di per sé,
quasi come se l’empowerment fosse una tecnica di intervento fine a sé stessa.”
(Stanchina, 2014, p. 59)
Il rischio però è che gli utenti e i famigliari possano così sentirsi frustrati da esperienze
di consultazione che però in realtà non creano risultati. (Lewis,2014)
2.4.5 La cultura della relazione operatori e utenti non cambia
67
Un altro aspetto importante da tenere in considerazione appartiene alla sfera relativa alla
cultura dei servizi.
“Per far sì che il punto di vista degli utenti venga tenuto davvero in considerazione e
porti a cambiamenti efficaci, è importante trasformare la relazione tra chi usufruisce
degli interventi e chi li eroga, in particolare i field workers (gli operatori che si trovano
in prima linea, a diretto contatto con l’utenza)”. (Stanchina,2014, p.60).
Il cambiamento culturale rispetto alla relazione tra operatori e utenti avviene su due
fronti (Stanchina,2014), il primo è quello che vede come protagonisti gli utenti che da
delegare il servizio, diventano i protagonisti del loro percorso di cura. L’altro è quello
che vede protagonisti gli operatori, che dovrebbero sapere riconoscere negli utenti dei
portatori di esperienze e riflessioni utili al miglioramento dei servizi.
Hitchen e al. (2011), nei risultati della loro ricerca hanno messo in evidenza che la
relazione “tradizionale” tra operatori e utenti può mettere in discussione la
partecipazione in particolare su tre elementi; il primo è l’utilizzo da parte degli operatori
di un linguaggio che esclude le persone, in questo modo gli utenti talvolta non
comprendono ciò che i professionisti dicono loro e non ricevono sufficienti
informazioni sentendosi quindi poco riconosciuti e non una risorsa dagli operatori.
Il secondo punto è quando gli operatori non tengono in considerazione le conseguenze
emotive del coinvolgimento; ad esempio non accolgono la difficoltà che gli utenti
possono provare trovandosi in situazioni di gruppo. Inoltre un atteggiamento
paternalistico da parte degli operatori, come ad esempio non condividere informazioni
per proteggere, oppure presumere di sapere cosa pensano gli utenti o i famigliari senza
chiedere il parere agli utenti e famigliari può non gioire alla promozione e lo sviluppo di
una partecipazione sostanziale.
A tutto questo, va aggiunto il fatto che gli operatori, anche su spinta dei servizi di
appartenenza, sono portati ad orientarsi più su ciò che il servizio può offrire anziché su
ciò di cui ha bisogno l’utente (Barnes,2012; Folgheraiter, 2011).
Gli operatori definiscono i bisogni sulla base delle prestazioni che possono erogare
(valutazione service-led) senza soffermarsi sul bisogno della persona, quanto piuttosto a
capire se le prestazioni che può erogare possono corrispondere a che la persona ha
bisogno.
“Come conseguenza, per gli utenti è difficile fare richieste, perché non sanno quale
aiuto possono aspettarsi. Inoltre, gli utenti si sentono frustrati perché non trovano un
contesto in cui esplorare in modo significativo i problemi. Possono anche avere la
68
sensazione di dover sempre lottare per ottenere una risposta a un loro bisogno e che i
servizi non vogliano davvero aiutarli.” (Stanchina, 2014, p. 61).
2.4.6 Gli utenti che partecipano non sono autonomi nei confronti del servizio
È importante che utenti e famigliari quando iniziano ad avere un ruolo nel processo
decisionale, trovino l’appoggio di organizzazioni controllate e guidate da loro pari, in
modo che le iniziative possano collocarsi in un contesto più libero e articolarsi in una
prospettiva temporale più estesa. (Barnes,1997).
Il rischio si presenta quando il servizio può decidere di far partecipare le persone e
decidere di farlo dentro i canali e i binari che dal servizio sono stati previsti
precedentemente. I servizi in questo caso non accompagnano o facilitano la creazione di
organizzazioni controllate da utenti e familiari; la partecipazione è possibile solo negli
spazi, dentro strutture che gli operatori decidono.
Le strutture di per sé non sono errate, ma per un servizio che vuole autenticamente
sviluppare la partecipazione, la cosa migliore è cercare di accompagnare utenti e i
familiari affinché costruiscano delle organizzazioni autonome dal servizio. Tutto questo
rispettando la loro volontà e i loro tempi.
Un’organizzazione autonoma ha più forza come interlocutore di un servizio, può essere
più libera di far sentire la sua voce e può farlo in maniera più consistente.
Autonomizzare le forme di partecipazione, consente con più probabilità di farle durare
nel tempo, anche indipendentemente dall’orientamento degli operatori in servizio che
può anche cambiare.
Se gli operatori sono autenticamente interessati alla partecipazione, nel medio e lungo
periodo, dovrebbero cercare, nei limiti del possibile, di accompagnare le persone verso
l’autonomia dai servizi istituzionali, permettendo così alle persone di costruire e
aumentare il loro empowerment.
Diversamente, se la partecipazione rischia di essere incanalata in aree predefinite dagli
operatori, se l’orientamento del servizio cambia, rischia di venire meno ogni aspirazione
partecipativa.
La base fondamentale per promuovere la partecipazione, è modificare/lavorare sul
modo in cui gli operatori concepiscono il loro rapporto con le persone.
69
2.5 Partecipazione come empowerment
È ormai assodato che la partecipazione di utenti e familiari sia un fattore desiderabile
all’interno dei servi di salute mentale, ma spesso questa convinzione viene riproposta in
modo acritico, generando così ambiguità rispetto al senso delle iniziative di
consultazione e partecipazione. (Forbes e Sashidharan,1997)
Come abbiamo visto precedentemente, la partecipazione crea empowerment nelle
persone, non essendo considerati più come meri ricettori ma come interlocutori. Lo
squilibro di potere (a favore degli operatori) può rendere difficile che venga dato il
giusto rilievo all’apporto di utenti e famigliari. Le organizzazioni che si occupano di
salute mentale, tendono, forse inconsapevolmente a rimarcare le differenze di potere
esistenti tra operatori e utenti. Questo può avvenire anche nel momento in cui
l’organizzazione si apre alla collaborazione di utenti e famigliari, creando degli ostacoli
alla partecipazione, attribuendo però la mancanza di presenza a utenti e famigliari. In
questo modo gli esperti per esperienza “anziché essere aiutati a esprimere il loro punto
di vista, si trovano automaticamente e oggettivamente svantaggiati, costretti a decifrare
codici di comportamento specifici del servizio e ad adattarvisi.” (Stanchina,2014, p.40).
Queste situazioni non permettono alle persone di acquisire potere rispetto alla loro
situazione di vita, in particolare per quel che riguarda il servizio, ma possono creare così
l’effetto contrario (disempowerment), proprio Folgheraiter in merito a questo dice:
“quando le cure sono dispensate in modo unilaterale e inibente una partecipazione
paritaria, non per questo in genere i pazienti se ne possono andare. […] Essi non
possono far altro che rimanere, ma si ritirano in sé stessi e deprimono la loro umanità.”
(Folgheraiter, 2009b, p.75).
Il concetto empowerment viene ormai usato da tempo in molti contesti con connotazione
un po’ diverse tra loro. Una delle definizioni conosciute maggiormente è quella di
Rapparport (1987) il quale sostiene che consiste nel processo attraverso cui le persone,
le organizzazioni e le comunità acquisiscono il controllo rispetto alle questioni che le
preoccupano. In particolare lui dice che “i processi di empowering sono quelli in cui le
persone (ma anche le organizzazioni e le comunità) creano o ricevono opportunità di
controllare il loro destino e di influenzare le decisioni che riguardano la loro vita”
(Rappaport, 1987, p.583).
70
Nel campo delle politiche sociali e nel lavoro degli operatori sociali e sanitari,
l’empowerment è per lo più inteso come una trasformazione del tipo di rapporti tra chi
eroga e chi riceve i servizi (Barnes e Bowl,2001, trad.it.2003). Nella visione del potere,
l’empowerment di qualcuno che non aveva potere comporta, in una qualche misura il
disempowerment di qualcun altro, questo però non è un semplice scambio di ruoli tra
chi ha il potere e chi lo “subisce”, in questo modo non si andrebbe molto lontano.
Piuttosto che parlare di uno scambio di ruoli, è più utile ricorrere a concetti come
partnership, processi decisionali condivisi o negoziazione. Un modello incentrato sulla
collaborazione e che quindi valorizzi le conoscenze e le esperienze sia degli operatori
che degli utenti per l’elaborazione di strategie di problem solving, non solo darà vita a
risultati migliori a favore dei secondi, ma al tempo stesso offrirà anche preziose
opportunità di apprendimento per i primi (Marsh e Fisher, 1992); in questo modo
entrambe le parti ne potranno trarre un beneficio. In quest’ottica l’empowerment non
significa soltanto potere “su” qualcosa o qualcuno, ma anche potere “per” fare qualcosa
“con” qualcuno. Si tratta di manifestazioni di potere che non sono a somma zero; anzi
quanto più le si esercita, tanto più il potere aumenterà. (Rowmands, 1998).
L’empowerment affrontato in questo capitolo parte dal presupposto che nemmeno i
soggetti più deboli sono privi di potere, essi anche solo hanno il potere di non credere,
di aggregarsi come gruppo per agire in funzione di uno scopo comune, di organizzarsi
in vista di un’azione. Anche la resistenza verso strutture di tipo oppressivo può essere
vista come una forma di potere, comprata con il disempowerment che scaturisce dalla
mancanza di resistenza e iniziativa; il fatto cioè di arrendersi alla realtà così com’è.
Davey (1999) inoltre affronta la differenza tra empowerment reattivo e proattivo. Il
primo si riferisce alla classica situazione in cui gli utenti di un servizio decidono di
reagire al modo insoddisfacente in cui vengono erogate le prestazioni, il secondo invece
presuppone un’articolazione di bisogni e desideri degli utenti che indipendentemente dal
ruolo degli operatori. Da questi possono nascere forme di azione finalizzate a istituire
servizi innovativi o a sviluppare nuove forme organizzative che rispondo ad aspetti della
vita delle persone che per i servizi tradizionali rivestono scarso interesse (Barnes e
Bowl,2001, trad.it.2003).
Un altro aspetto importante riscontrato nella letteratura che ho analizzato è la
correlazione tra empowerment e salute. La percezione di acquisire maggior potere, in
71
altri termini è considerato il requisito per mettere le persone nelle condizioni di
controllare e migliorar il proprio stato di salute (Barnes e Bowl,2001, trad.it.2003).
Quando associamo l’idea di partecipazione come promozione di un maggior
empowerment, questo avviene in quanto permette una maggiore crescita, l’acquisizione
di un più ampio controllo sulle proprie scelte di vita, maggiore influenza sulle
prestazioni che si ricevono come singoli utenti, una maggiore influenza nel determinare
gli aspetti dei Servizi insieme a far sentire la propria voce all’interno di quel sistema
politico da cui viene emarginato. La partecipazione inoltre rappresenta un processo di
sviluppo e di valorizzazione di conoscenze diverse, provenienti anche dall’esperienza
diretta delle persone interessate che siano strettamente collegate alla pratica.
Un ruolo importante in tutto questo ce l’hanno i servizi di salute mentale che rivestono
un ruolo assai significativo per le persone che soffrono di un disagio psichico. I servizi
condizionano il corso di vita delle persone, anzitutto per la considerazione e le risposte
che forniscono ai problemi di salute mentale, e in secondo luogo per l’orientamento che
danno all’opinione pubblica rispetto a questo tema e quindi per la possibilità di queste
persone di partecipare alla “sfera pubblica” (Barnes e Bowl,2001,trad.it 2003).
“Le potenzialità delle strategie di empowerment sul piano dello sviluppo individuale e
non solo consentono di guardare al futuro con un certo ottimismo. Un ruolo
fondamentale, come si è visto, lo esercitano gli operatori professionisti,
nell’incoraggiare e sostenere l’azione degli utenti che cercano di realizzare, nella
massima autonomia possibile, il proprio empowerment.” (Barnes e
Bowl,2001,trad.it.2003,p.147).
Perché queste strategie siano realmente efficaci è necessario che l’atteggiamento degli
operatori cambi, soprattutto di coloro che intervengono in “prima linea” a diretto
contatto con l’utenza. Occorre prima di tutto sottolineare come una questione delicata
come quella del coinvolgimento degli utenti venga riconosciuta per i benefici che può
portare a tutti, e non solo agli utenti. Questi ultimi si trovano talvolta a partecipare a
tavoli o a gruppi di discussione in cui non è chiaro né che cosa ci si aspetti da loro, né
quale utilità ne possano trarre. Molti di coloro che partecipano ai “forum degli utenti”
previsti nei servizi pubblici, in effetti, rivelano idee confuse circa lo scopo della loro
presenza e un atteggiamento di puro cinismo riguardo alla loro efficacia; questo crea
riluttanza a “esporsi” nuovamente alla partecipazione e scarsa fiducia nei servizi.
Per certi versi questo riflette la visione tradizionale della partecipazione come pratica
terapeutica, più che come strumento per mettere gli utenti nelle condizioni di “incidere” 72
sulle prestazioni che dovrebbero alleviare il loro disagio psichico; per questo motivo è
importante che comprendano davvero il senso e lo scopo della partecipazione degli
utenti, e sappiano delegare ai comitati formati da questi ultimi una certa misura di poteri
e di responsabilità (Barnes e Bowl,2001 trad.it 2003).
L’empowerment si distingue in base al contesto storico, culturale e alle persone
coinvolte, per questo motivo, soluzioni specifiche sono maggiormente empowering
rispetto a soluzioni preconfezionate applicate con criteri generali. Questo porta con sé
una determinata concezione dell’uomo e della realtà. Nei servizi sociali e sociosanitari
l’empowerment è inteso come una trasformazione dei rapporti di potere tra chi eroga e
chi riceve i servizi (Stanchina,2014).
L’empowerment non significa per la persona aver una maggiore possibilità di scelta
della persona ma bensì ha ricadute più ampie. Barnes e Bowl sostengono che “i
cambiamenti perseguiti dalle strategie di empowerment hanno focus assai più ampi e
articolati, giacché interessano non meno di tre livelli complementari: la qualità della vita
delle persone con disagio psichico grave; la natura e l’organizzazione del sistema dei
servizi per la salute mentale che dovrebbe essere più confacente ai loro bisogni e infine
più in generale, la società di cui, come cittadini sono parte attiva.” (Barnes e Bowl,
2001, trad.it 2003, p.54).
Inoltre Rogers et al. (1997) hanno illustrato un lavoro di ricerca che ha portato un
gruppo di utenti con disturbi mentali a costruire una scala di misurazione
dell’empowerment, poi testata sul campo e validata. Ci sono degli elementi che possono
accrescere il senso di potere che la persona ha, ad esempio la possibilità di scegliere tra
un insieme di opzioni e apportare un cambiamento nella propria vita e nella comunità
rappresenta uno di questi; un aspetto interessante è la correlazione che gli utenti fanno
tra empowerment e la percezione che loro stessi possono fare la differenza, essere di
aiuto agli altri riuscendo anche a cambiare la percezione degli altri rispetto alla propria
competenza e capacità di agire. Un maggiore empowerment nella persona permette
anche di far crescere un’immagine di sé positiva e il superamento dello stigma, è la
persona prima di tutto ad avere questa percezione. Imparare a pensare in modo critico
permette anche di vedere le cose in modo diverso, ad esempio imparando a ridefinire sé
stessi, riflettere su quello che si può fare e ridefinire sé stessi, su quello che si può fare e
rivedere la propria relazione con i servizi. Tutti questi item individuati dagli utenti,
permette di comprendere come le persone con disturbi mentali possono dare delle
indicazioni importanti rispetto alla loro esperienza di empowerment, collaborando alla
73
costruzione di strumenti efficaci e rispettosi di chi è coinvolto nei problemi (Stanchina,
2014).
2.6 Favorire la partecipazione nei servizi e cultura organizzativa
Quando si parla di partecipazione non si può fare a meno di guardare ai servizi come
culture, cioè osservare i modi in cui valori, assunti e schemi mentali intervengono nelle
rappresentazioni e interpretazione del compito organizzativo e nelle azioni intraprese
per effettuarlo. Queste componenti vengono riprese e introdotte nelle pratiche del
proprio lavoro sociale, ma non solo, anche nell’utilizzo del linguaggio e nelle procedure
di intervento per far fronte ai propri compiti.
La cultura può essere definita come “un sistema di significati accettati pubblicamente e
collettivamente che operano per un certo gruppo in un certo momento. Questo sistema
di termini, forme, categorie, immagini aiuta le persone a interpretare le situazioni in cui
si trovano a essere.” (Pettigrew, 1979, cit. in Hatch, 1997, trad.it. 1999, p.199)
All’interno dei servizi di salute mentale, le azioni degli operatori nella quotidianità e
nelle pratiche operative non possono fare a meno di quella che è la loro considerazione
verso gli utenti e famigliari. La percezione e la visione che loro hanno degli utenti e
famigliari condiziona il loro modo di lavorare e di agire.
Per fare in modo che la partecipazione ci sia, c’è bisogno anzitutto di un cambiamento
di prospettiva, questo richiede però un notevole sforzo da parte degli operatori e una
messa in discussione notevole. Weick (1995) sostiene ad esempio che alcune persone
dotate di potere possono aiutare ad attivare degli ambienti particolari, sollecitando i
membri dell’organizzazione ad accettarli e farli propri. Oppure può avvenire che il
coinvolgimento all’interno dei servizi di nuovi membri possa portare ad un processo di
adattamento della cultura organizzativa.
L’esito però di questo processo è anche come verranno interpretate le novità introdotte
nel servizio; nel far questo c’è anche il rischio che invece di portare un’apertura da parte
del servizio si creino delle sotto-culture. Per rispondere a questo possibile problema,
secondo l’approccio dialettico del cambiamento organizzativo del caos e della
complessità individuato da Morgan nel 1997, il quale sostiene che il ruolo fondamentale
dei dirigenti sarebbe creare e dar forma a contesti favorevoli allo sviluppo adeguate di
auto-organizzazione.
74
Se proviamo a trasporre questo approccio nella dimensione culturale, possiamo vedere
come le indicazioni di Morgan suggeriscano precise strategie di azioni per i manager
che desiderano cambiare il servizio in cui operano. La prima impone di sfruttare piccoli
cambiamenti per dar luogo a cambiamenti di grande respiro, così da innescare un effetto
leva che sproni gli attori a dirigersi verso l’utilizzo di un nuovo approccio. La seconda
strategia implica la creazione di frontiere che proteggano le nuove pratiche (e il nuovo
approccio) dalla forza d’inerzia dello status quo, ad esempio facendo attenzione a
espandere le pratiche solo nel momento in cui i primi esperimenti si sono consolidati.
Un altro aspetto sul quale è importante riflettere è che ai servizi di salute mentale
arrivano persone che “manifestano problemi di vita, inteso come […] fatti primari (o
realtà di fatto) percepiti come irricevibili o sgraditi da una certa cerchia di persone in
quanto ostacolano o scardinano il loro vivere e ne richiedono un rilevante
riorganizzazione.”(Folgheraiter,2011, p.54) Questi problemi non ammettono soluzioni
predefinire perché riguardano la complessità del vivere, a differenza dei problemi
tecnici. I servizi di salute mentale si trovano così a lavorare con un intreccio complesso
di problemi di vita e di problemi tecnici; nonostante la presenza di trattamenti sanitari
che rappresenta un intervento tecnico, la malattia mentale non può essere solo quello.
Approfondendo questo ragionamento con Seedhouse (2009) importante studioso
dell’etica sanitaria, si potrebbe andare anche oltre. Secondo lui infatti l’elemento tecnico
dei problemi sanitari, che solitamente all’interno dei servizi sanitari rappresenta un
tassello primario, per lui assume una posizione assolutamente secondaria. Secondo lo
studioso infatti, l’assistenza sanitaria è prima di tutto una questione etica e morale, che
ha a che fare con problemi più complessi, che implicano il coinvolgimento di più
persone. Qualsiasi intervento ha implicazioni etiche e morali. Ogni problematica
riportata dall’individuo per quanto apparentemente possa sembrare un problema tecnico,
porta con sé tutto un aspetto legato alla vita, alla sua quotidianità, relazioni e aspetti
emotivi per il quali è importante una risposta che non sia standardizzata.
La valutazione della qualità di un servizio non può fare a meno di tenere in
considerazione questo passaggio importante, in quanto, ogni persona attribuisce un
significato e dei connotati diversi al termine qualità.
Ad esempio secondo l’Organizzazione Mondiali della Sanità la qualità è basata su
alcune dimensioni come la sicurezza clinica delle prestazioni, efficacia e efficienza,
equità e centralità dell’utente. “In particolare la valutazione e il miglioramento di tutti
gli elementi indicati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità possono derivare da un
75
intervento univoco da parte degli operatori, oppure un confronto tra utenti e famigliari.
Il fatto che tali fattori vengano affrontati in questo secondo modo costituisce esso stesso
un indicatore di qualità.” (Stanchina, 2014, p. 48).
Funk e al. (2009) sottolineano inoltre che la questione della qualità è un fattore
soggettivo in quanto ogni persona può avere un punto diverso. Per una persona con
problemi di salute mentale, la qualità si riconduce alla riduzione dei sintomi, alla
possibilità di condurre una vita “normale” e di essere trattata con rispetto e di essere
riconosciuta come capace di prendere decisioni sulla propria vita.
Per un familiare, la qualità può corrispondere ad esempio ricevere supporto per il
fronteggiamento di un aspetto emotivo dell’assistenza al proprio caro e ricevere
informazioni e formazione per riuscire ad affiancare il proprio famigliare nella
reintegrazione all’interno della comunità.
Dall’altra parte per un operatore, qualità significa assicurarsi che il paziente riceva il
miglior trattamento e la migliore assistenza possibile.
Sono tutte prospettive importanti, ma spesso quella degli utenti e dei famigliari sono
messe in secondo piano. Per questo motivo un concetto che può aiutare a fare chiarezza
in merito a tutte le precedenti considerazioni è quello di “qualità relazionale
(Folgheraiter,2005,p.137) inteso come la capacità dell’organizzazione di facilitare il
relazionarsi di utenti, famigliari e operatori, in modo che si incontrino, si sostengano e
riflettano assieme per decidere le azioni utili al loro bene, al bene comune. Il servizio
che agisce in questo modo, come un’organizzazione aperta alle relazioni societarie.”
È importante tenere presente che anche queste organizzazioni agiscono tramite
protocolli e regolamenti, che però non hanno una finalità di controllo ma di facilitare il
relazionarsi di tutte le parti coinvolte.
I servizi socio-sanitari condotti con spirito relazionale, quindi basati su una
partecipazione degli interessati alla costruzione del proprio destino, sollecitano la
produzione di capitale sociale (Donati e Colozzi, 2006). Essi perciò formano cittadini,
nello stesso tempo in cui li curano. “Formano persone che, dopo aver parlato e detto la
loro, con forza e con garbo, per riorientare la loro vita colpita dalla malattia, sanno
parlare e dire la loro con forza e con garbo anche nella società civile, fuori dai circuiti
della psichiatria.” (Folgheraiter, 2007b, p.194).
I servizi che agiscono in senso relazionale, restituiscono alla società non solo persone
forse risanate a livello medico, ma anche persone più consapevoli del bene comune e
motivate e farsene carico per quello che riescono e possono. (Folgheraiter, 2007b)
76
L’incardinamento delle pratiche partecipative si legano ad una progettazione aperta,
libera, che catalizza la motivazione e la riflessione spontanea delle persone coinvolte e
non risponde a tempistiche predefinibili (Barnes, 2006; Folgheraiter, 2011).
L’incardinamento delle pratiche partecipative dei servizi di salute mentale permette di
condividere le pratiche all’interno del servizio portando così tutti coloro che vi operano
a conoscerle e utilizzarle. Un altro passaggio importante è definire cosa va fatto, da chi
deve essere fatto e in quali tempi. Per fare in modo che la partecipazione venga
incardinata all’interno dei servizi è importante inserire nelle routine operative le
pratiche che riguardano la partecipazione di utenti e famigliari, con la conseguenza che
il coinvolgimento degli interessati diventa una normalità. (Stanchina,2014)
La partecipazione deve essere continua, facendo in modo che non sia solamente un
desiderio o un’azione messa in atto da operatori particolarmente sensibili, ma che
diventi una procedura del servizio, indipendente dalla persona che in quel momento di
trova a ricoprire un certo ruolo operativo. La partecipazione per essere davvero
incardinata deve non essere messa in discussione ogni volta e deve essere comunicata
chiaramente all’interno e all’esterno del servizio l’approccio culturale e operativo
utilizzato.
Far diventare però la partecipazione una prassi del servizio, può avere a sua volta dei
rischi (Stanchina, 2014) come ad esempio ingabbiare le pratiche partecipative nelle
strutture del servizio, mettendo in discussione libertà e dinamicità. La partecipazione
richiede anche un monitoraggio perché c’è il rischio che creando una sorta di abitudine
a utilizzare determinate pratiche si rischia di perdere di vista in senso, forzando a volte
anche degli operatori senza che però questi ce l’abbiano come valore e come assunto di
fondo.
La prospettiva relazionale, presuppone l’intenzionalità della persona “assistita” per
rendere possibile l’assistenza, ha anche fare profondamente con il principio della
sussidiarietà e dell’empowerment. Con la sussidiarietà intesa come la capacità
dell’istanza esterna di osservare un’azione “altra” e di interagire con essa per un
reciproco rinforzo nella sinergia.
Quando il professionista cede potere di intervento alla persona e allo stesso tempo
rafforza la relazione, l’operatore accresce il potere reciproco, suo e delle persone agenti.
(Folgheraiter, 2009b)
77
Per tutti questi motivi è importante fare in modo che la partecipazione sia un processo
graduale e crescente dove tutti gli attori coinvolti condividano i valori base,
l’importanza e il valore aggiunto che questa può portare all’interno dei servizi.
2.7 Le figure degli Utenti e Famigliari Esperti
In questo paragrafo affronterò una pratica particolare innovativa consolidata soprattutto
nel servizio di salute mentale di Trento dov’è avvenuto il coinvolgimento degli utenti e
dei famigliari esperti (cosiddetti UFE). Questi esperti per esperienza sono stati introdotti
su base regolare e retribuiti nel servizio trentino a partire dal 2006. L’idea alla base di
questa figura è che le persone con disturbi mentali possano essere meglio sostenute da
chi ha fatto esperienza diretta di malattia e di utilizzo dei servizi, attraverso un supporto
alla pari.
La capacità che possiede una persona che ha avuto esperienza diretta di disturbo
mentale di cogliere aspetti di sofferenza non esclusivamente legati ai sintomi, la
possibilità di mettere in campo delle strategie di autogestione della malattia e della
sofferenza non appartengono tanto al sapere tecnico, quanto piuttosto al sapere
esperienziale. Come riportato da Sherey Mead, utente e ricercatrice attiva nel supporto
tra pari, ha definito questo rapporto come un “sistema di dare e ricevere aiuto fondato
sui principi chiave del rispetto, della responsabilità condivisa e sull’accordo su ciò che
può essere di aiuto e di supporto, attraverso l’aiuto offerto da una persona con
esperienza diretta di problemi mentali”. (Citazione ripresa dalla ricerca D’Avanzo, De
Stefani e al. 2015).
L’esperienza degli UFE è nata nel contesto che dal 2000 caratterizza il Servizio di salute
mentale di Trento e che mette al centro le attività condotto congiuntamente da operatori,
famigliari e utenti. Questo movimento condiviso si chiama fareassieme, che non è da
intendersi come corpo unitario di attività che si aggiunge all’attività clinica, ma
piuttosto come ciò che vuole caratterizzare la modalità specifica di affrontare il disturbo
mentale nella psichiatria di comunità. Questo modello è centrato sulla valorizzazione
del sapere e dell’esperienza di utenti e famigliari e sul loro coinvolgimento quanto più
possibile alla pari nel percorso di cura e in tutte le attività, gruppi e aree di lavoro. Gli
UFE sono riconosciuti dall’Azienda Provinciale per i Servizi Sanitari di Trento e
vengono pagati mensilmente in base alle ore che lavorano.
Gli UFE sono coinvolti in diverse aree e tipologie di iniziative: (Stanchina,2014)
78
- Nella prima accoglienza
- Nell’accompagnamento nelle situazioni di crisi
- Hanno ruolo di garante dei percorsi di cura condivisi
- Presenza amicale e di accompagnamento e notturna alla “Casa del Sole” una comunità
per persone con patologie psichiatriche al primo piano, mentre nei piani superiori ci
sono delle stanze che sono disponibili per turisti che decidono di alloggiarci.
- Nell’accompagnamento nelle situazioni di difficoltà domiciliare
- Nell’organizzazione e partecipazione con testimonianze personali in campagne contro
lo stigma e il pregiudizio nelle scuole e nelle comunità locali
- Hanno ruoli di facilitatori nei cicli di incontro con le famiglie
- Partecipano alle équipe territoriali per contribuire all’aggiornamento e alla riflessione
sui casi, in particolare per quanto riguarda situazioni complesse
- Presenza in reparto finalizzata al sostegno delle persone ricoverate (Servizio
Psichiatrico di Diagnosi e Cura – SPDC)
- Nelle attività legate alle procedure di valutazione del Servizio
- Nelle testimonianze nelle formazioni / sensibilizzazioni
Un elemento che emerge è l’evidente maggioranza di attività in cui la partecipazione è
finalizzata all’affiancamento degli operatori nell’erogazione dei servizi. Sono invece
meno occasionali le situazioni in cui utenti e famigliari esperti sono coinvolti nella
progettazione e nella valutazione dei servizi offerti.
Emerge chiaramente come il gruppo riconosciuto formalmente come quello degli UFE
sia in realtà coinvolto soprattutto in attività erogative. Sicuramente la modalità con la
quale queste persone erogano i servizi e permettono di renderli più a misura di utente, di
comunicare fin da subito che ognuno “può farcela”.
“Nell’ottica partecipativa, invece, gli UFE sono “esperti” proprio per aver vissuto una
determinata situazione sulla propria e non necessario di formazione aggiuntiva.
L’obiettivo del loro impiego, infatti, non “è coprire il servizio” o erogare più prestazioni
grazie al coinvolgimento di più persone, ma migliorare la qualità del Servizio
introducendo un punto di vista unico, insostituibile e non paragonabile con quello degli
operatori.” (Stanchina, 2014, p. 216).
La “portata relazionale” del coinvolgimento degli UFE dipende quindi da vari fattori: le
attività concretamente svolte dagli UFE; l’autonomia che utenti e famigliari hanno nel
79
definire le loro azioni; la possibilità che viene data la loro di partecipare a riflessioni
libere e condivise; il tipo di motivazione che li spinge (Stanchina, 2014).
Questa esperienza degli UFE è nata da un gruppo di frequentatori delle prime attività de
Fareassieme, movimento trentino composto da utenti, famigliari e operatori che crea
iniziative insieme. In particolare queste utenti e famigliari che poi hanno preso il nome
di UFE, erano persone che avevano espresso una specifica voglia di coinvolgersi in
modo più sistematico all’interno del Servizio e che avevano già un dialogo aperto con
gli operatori. In seguito questa figura si è formalizzata e si è cercato di capire e definire
bene come e in che modo si potesse entrare a far parte del gruppo degli UFE. Infatti non
tutti coloro che aderivano alle iniziative del Fareassieme poteva poi diventare Utenti e
Famigliari Esperti.
Con il passare del tempo, vista la consistente richiesta da parte di alcuni aspiranti UFE,
il servizio ha definito un percorso preciso. La prima possibile strada da intraprendere è
quella che vede l’utente interessato a diventare UFE presentarsi agli operatori del
Fareassieme, la seconda invece è quella che parte da una segnalazione di un operatore il
quale propone alla persona di coinvolgersi in quel ruolo le sue caratteristiche e il suo
percorso di cura la rendono particolarmente adatta.
Il passaggio successivo è l’affiancamento di un UFE per comprendere meglio il proprio
ruolo futuro. Questa fase racchiude tre obbiettivi importanti; il primo è quello di aiutare
l’aspirante UFE a comprendere se l’attività è effettivamente di suo interesse; il secondo
aspetto è che attraverso la valutazione degli UFE e degli operatori che già operano
nell’area osservata, si comprende se l’aspirante UFE è in grado di svolgere l’attività
richiesta in modo sufficientemente efficace; il terzo obbiettivo è quello di consentire
all’aspirante UFE di conoscere il contesto in cui opererà e di allenarsi a svolgere le
attività richieste. Finito il periodo di prova, nel quale la persona si mette in gioco e
capisce se è quello che davvero vuole fare, o viene inserita a tutti gli effetti nell’area
prescelta oppure viene invitato a prolungare per qualche tempo il periodo di prova; nel
caso in cui gli operatori osservano che un’altra area potrebbe essere più consona alla
persona, possono valutare insieme all’aspirante UFE come procedere.
È importante sottolineare come il Servizio di Salute Mentale di Trento ha scelto di non
prevedere momenti di formazione strutturata a partire dal presupposto che l’UFE non
deve ricevere nessun tipo di formazione perché questa è già stata data dalla sua
esperienza. È stato invece previsto per loro dei momenti di confronto tra UFE e
80
operatori di ciascuna area, in modo da offrire a tutti la possibilità di esplicitare eventuali
criticità e trovare delle soluzioni in merito.
Le motivazioni che spingono utenti e famigliari a coinvolgersi come UFE sono
molteplici. Prima di tutto c’è un desiderio da parte loro di contribuire al miglioramento
dei servizi mettendo a disposizione le loro conoscenza esperienziali. Accanto però a
questa motivazione altruistica che rimanda all’idea di aiutare chi si trova in difficoltà,
molti di loro hanno sottolineato il beneficio che ricevono nello svolgere questo ruolo.
Molti UFE sono perfettamente consapevoli e dichiarano di svolgere questo ruolo
soprattutto perché fa bene a loro, perché permette di contrastare la solitudine che spesso
caratterizza la malattia mentale. Questo tipo di aiuto non è quindi unidirezionale, ma
bensì mutualistico. Nel momento in cui l’UFE aiuta la persona, è quest’ultima ad aiutare
l’UFE. Questo permette di istaurare una relazione di fiducia caratterizzata anche da
reciprocità.
Il Servizio di salute mentale di Trento ha voluto fortemente e ottenuto che venisse
riconosciuto un contributo economico agli UFE. In questo modo, l’Azienda ha
formalizzato la condivisione dell’approccio del Fareassieme e ha attribuito un valore
monetario all’apporto degli UFE, nella stessa logica per cui viene retribuito il lavoro
degli operatori. (Stanchina, 2014).
Il riconoscimento di questa figura ha permesso di sottolineare l’importanza della
conoscenza che queste persone hanno, data dal convivere con la patologia e che ha
permesso loro di sviluppare delle strategie soggettive, che condivise con gli altri
possono rivelarsi un grande aiuto per l’utente che arriva al servizio.
Circa due anni fa ho avuto la possibilità di visitare il Centro di Salute di Trento, durante
la mia permanenza ho conosciuto fari UFE che hanno condiviso con me la loro
esperienza. Uno degli aspetti che mi ha colpito particolarmente è stata la loro felicità nel
raccontarmi come questa esperienza di aiuto verso gli altri abbia permesso loro di
“sentirsi utili” per qualcuno e di avere la percezione di fare la differenza per le altre
persone, detto nel gergo tecnico del lavoro sociale, la loro percezione di avere potere
(empowerment) è aumentata. Un altro elemento che era emerso dai racconti era come la
loro presenza durante i colloqui, oppure durante le visite domiciliari permetteva alla
persona di sperare ancora, di avere la percezione di riuscire a trasmettere positività e
voglia di “riscattarsi” nelle persone che gli UFE incontravano. Questo aspetto è stato
percepito anche da vari operatori con i quali avevo parlato, i quali sostenevano quanto
fosse importante la figura dell’UFE, soprattutto perché riesce ad entrare in empatia con
81
una maggiore facilità con la persona che sta soffrendo e perché appunto trasmette quel
senso di speranza che in alcuni momenti sembra smarrita.
In merito a questo c’è un articolo che parla di una ricerca che ho analizzato fatta
Petronio e al (2014) i quali hanno voluto analizzare alcuni valori e sentimenti che gli
UFE riescono a trasmettere agli utenti che giungono al servizio.
L’articolo in questione è Il sapere esperienziale di Utenti e familiari, risorsa per la
promozione del benessere: l’esperienza del Servizio di salute mentale di Trento.
L’esperienza di intervento degli UFE ha caratteristiche peculiari che la caratterizzano e
la identificano rispetto agli interventi di altre figure canoniche che operano nei servizi di
salute mentale. Una delle caratteristiche teoricamente attribuite agli UFE viene definita
sapere esperienziale, quel tipo di competenza che deriva dall’aver sperimentato
direttamente una condizione di sofferenza e un percorso verso il miglioramento o
l’uscita da quella condizione. Il ruolo e la funzione degli UFE potrebbero essere duplici,
da un lato modelli e testimoni credibili di cambiamento positivo e desiderabile, da un
altro soggetti in grado di riconoscere profondamente i caratteri, sia espressi che non
espressi, dei vari momenti delle condizioni di sofferenza attraverso il confronto con la
propria personale esperienza. Questa ricerca ha avuto l’intento di analizzare alcuni
sentimenti e valori emergono nella relazione tra UFE e utenti. L’universo della
rilevazione è costituito da circa 800 utenti presenti nel database del DSM e il campione
selezionato con procedura totalmente casuale è di 208. La rilevazione è avvenuta
telefonicamente ed è stata condotta da un’operatrice istruita specificamente per
effettuare le interviste. Le prime rilevazioni di test sono avvenute direttamente con la
presenza fisica della persona, quindi sono state effettuate 18 interviste telefoniche di
prova, in seguito si è avviata la rilevazione effettiva. Tutte le interviste sono state
documentate in forma cartacea e registrare in modo identificabile, tranne che per i dati
personali della persona intervistata.
La prima parte dell’intervista conteneva domande riguardanti elementi di base e di
conoscenza sugli UFE come offerta di servizio, la seconda parte era invece orientata
direttamente alla raccolta di dati sulle dimensioni emotive e affettive come ad esempio
l’empatia, la fiducia, confidenza, parità (la percezione di essere considerati alla pari”),
compliance e speranza.
Il 74% degli intervistati è a conoscenza del fatto che nel Servizio di salute mentale di
Trento esistono gli UFE, il 51% degli intervistati ha avuto esperienze di contatto con gli
UFE e ben il 97% di coloro che ha avuto contatto con gli UFE accetta di rispondere al
82
questionario; questo dato ha una connotazione positiva in termini di misura indiretta di
reputazione del Servizio agli occhi degli intervistati. Il fatto che 104 intervistati su 106
dimostrino di essere collaboranti è un indice sicuramente positivo.
In questa prima tabella riportata qui sotto vengono trascritte le percentuali di frequenza
di dove gli utenti hanno incontrato gli UFE, e hanno avuto un contatto con loro.
Tab. 1 In quali occasioni ha incontrato gli UFE nella sua esperienza (N. 208)
Cicli d’incontro con i familiari 0Percorsi di cura condivisi 20Servizio Diagnosi e Cura 54Domicilio 13Front-Office del Servizio 76Appartamenti protetti 3Casa del sole – residenza 11Momenti di crisi 34Guida all’interno del servizio, trasmissione di informazioni
16
Nel complesso i dati della prima sezione di questionario sono rilevanti per un fatto
specifico, la quasi totale adesione alla rilevazione (97%), che ha un valore in termini di
misura indiretta di soddisfazione percepita e di reputazione, che ha un altro valore
importante, consente di assumere informazioni dalla quasi totalità degli utenti che hanno
avuto contatti con gli UFE.
La seconda sezione del questionario telefonico conteneva le trappole verbali per
catturare tracce emotive lasciate dalle esperienze di contatto con gli UFE. Come già
visto in precedenza, la formula della domanda comprende l’invito a rievocare tutte le
esperienze di relazione con gli UFE e provare a individuare se si sono vissuti momenti
nei quali emergevano emozioni o sentimenti.
La tabella riportata qui sotto indica quanti degli intervistati, in percentuale, hanno
sperimentato le dimensioni emotive descritte precedentemente.
Tab.2 Percentuale di intervistati che hanno o non hanno vissuto le emozioni e i sentimenti Esplorati (N.102)
83
Questa tabella rende
chiaramente idea del beneficio
che hanno gli utenti nel
relazionarsi con gli UFE.
Per quanto riguarda l’empatia
ricevuta intesa come la
sensazione di essere compresi
nei propri sentimenti è molto
alta (97%) dei casi, valore molto
alto anche nella sensazione di
essere trattati alla pari (89%).
Altri due elementi che ho ripreso da questo articolo, aventi un ruolo importante sono la
fiducia e speranza, frequenti in maniera consistente in quasi tutte le interviste.
Per ciò che invece riguarda l’immagine che gli UFE hanno generato, ovvero empatia
espressa (intesa come la sensazione da parte degli utenti di comprendere le emozioni
espresse degli UFE) e parità espressa (l’aver percepito negli UFE l’espressione di
caratteristiche simili a se stessi) hanno ottenuto rispettivamente il 76% e il 79% degli
intervistati, questo dato non è indifferente, perché in sostanza non esiste uno standard di
UFE e malgrado ciò la percezione da parte degli intervistati è simile in modo
consistente.
La compliance intesa come “adesione al trattamento” con l’aiuto dell’UFE ha una
percentuale che supera la metà mentre la confidenza (intesa come il raccontare eventi in
modo privilegiato agli UFE) è la dimensione comparsa in modo meno frequente (32%).
La maggior parte degli utenti intervistati non hanno dato informazioni confidenziali che
nemmeno agli operatori avevano detto.
Questa ricerca tende a sottolineare come il vissuto di una persona e il suo racconto
attraverso la manifestazione delle proprie emozioni può essere facilitato dalla relazione
significativa con un’altra persona che porta con sé le testimonianze riconoscibili del
sapere esperenziale, come fanno gli UFE. (Petronio e al., 2014) Questa figura
all’interno dei Servizi di Salute Mentale di Trento è riconosciuta ormai da diverso
tempo grazie anche ad una cultura del servizio che ormai da parecchi anni c’è e si è
sviluppata anche sul territorio. Nelle altre regioni si sta cercando di sviluppare delle
figure come ad esempio in Lombardia, l’Esperto in Supporto tra Pari (ESP), con
84
Si No
Empatia ricevuta 97 3
Empatia espressa 76 24
Fiducia 87 13
Confidenza 32 68
Parità espressa 79 21
Parità ricevuta 89 11
Speranza 86 14
Compliance 63 37
l’intento di inserire queste persone poi all’interno dei servizi di salute mentale. È una
sfida ardua che richiede tempo, ma soprattutto un cambiamento della cultura dei servizi,
che devono essere disposti a mettersi in discussione e favorire lo scambio e la
collaborazione con coloro che detengono il sapere esperienziale.
85
CAPITOLO TERZO
Il coinvolgimento di esperti per esperienza nella formazione
86
In questo capitolo riporterò alcune riflessioni nate dalla letteratura analizzata che tratta
alcune esperienze di formazione di operatori in servizio dove utenti e famigliari esperti
hanno avuto un ruolo importante attraverso una partecipazione attiva. La letteratura
ricercata parla di realtà sia nazionali che internazionali. Spesso vengono descritte
esperienze di apprendimento durante la formazione di studenti, futuri operatori sociali
che entreranno in un futuro a lavorare all’interno dei servizi sociali.
Per quanto riguarda invece la formazione di operatori che già lavorano e che vengono
formati da utenti e famigliari, la bibliografia che descrive le varie esperienze non è
molta. Nonostante ciò però molti degli aspetti coincidono in entrambe le esperienze che
riporterò in seguito.
Nel paragrafo successivo, cercherò di analizzare i punti salienti del perché può rivelarsi
positivo il coinvolgimento di esperti per esperienza nella formazione degli operatori, o
di studenti in formazione.
3.1 Il perché del coinvolgere gli esperti per esperienza nella formazione di
base: uno sguardo sulla letteratura nazionale e internazionale
La partecipazione di utenti e famigliari nella formazione degli operatori rappresenta
sicuramente uno dei punti salienti che permette di vedere un ruolo ben diverso e che va
oltre a quello di un semplice destinatari di prestazioni.
La formazione degli operari può essere un elemento chiave sul quale intervenire per
promuovere un approccio partecipativo nei servizi. Questo permette di avere una
visione della persona prima di tutto come esperta e può insegnare agli operatori che si
prendono cura di lei o di un loro famigliare. Il coinvolgimento di utenti e famigliari
nella formazione permette al tempo stesso di riconoscere a questi un sapere che gli
appartiene dato dal loro convivere con la patologia, riguardanti sia l’effetto della terapia
su sé stessi che al tempo stesso anche per gestire il loro vivere.
Un esempio si trova all’interno del programma britannico Developing manager for
community care (Stanchina, 2014, p. 46) con l’obbiettivo di sviluppare delle iniziative
di formazione con in coinvolgimento di utenti e famigliari. In particolare, in questa
esperienza si agì su due versanti, uno relativo alle modalità di formazione dove utenti e
famigliari fecero da formatori; e l’altro relativo ai contenuti. La formazione riguardò
anche i modi in cui i manager potevano interagire efficacemente con gli utenti e i
famigliari per aiutarli a sviluppare servizi vicini ai loro bisogni. In merito a questo
uscirono da parte dei manager delle riflessioni che il coinvolgimento formale degli 87
utenti nei corsi di formazione rappresentava per loro una sfida rispetto all’idea
tradizionale della relazione tra professionista e utenti molto più di quanto potevano fare
delle lezioni riguardanti la partecipazione di utenti e famigliari nei servizi di salute
mentale. Avviene inoltre un’inversione di ruoli, dove l’esperto è l’utente e il manager
l’allievo.
La formazione consentì inoltre ai dirigenti dei servizi di sperimentarsi nel lavoro a
diretto contatto con gli utenti, confrontandosi sulle modalità di realizzazione di servizi
più sensibili ai bisogni degli utenti, le esperienze che le persone avevano dei servizi e
l’impatto che questa partecipazione aveva sia sui dirigenti che sugli utenti.
Nella letteratura nazionale e internazionale da me rivisitata ho trovato alcune esperienze
riguardanti la formazione di operatori fatta da utenti e famigliari.
Una di queste esperienze è descritta da Jonathan Coles e Peter Connors (2009) i quali
descrivono un’esperienza avvenuta nell’ambito della disabilità, dove utenti sono stati
coinvolti nella creazione di un video partendo dall’esperienza di alcuni utenti. Il video
prodotto viene attualmente usato come strumento per la formazione di varie figure di
operatori sociali.
“È stato riscontrato che la voce dei partecipanti, che hanno il potere di mettere in
discussione, illuminare e anche dare fastidio, rappresentano il cuore del progetto.”
(Jones e Cooper,2009, p. 218). Questa esperienza nasce da un approccio aperto e
criticamente interlocutorio al coinvolgimento degli utenti nello sviluppo dei servizi e al
tempo stesso un approccio che si oppone attivamente all’identificazione della persona
con il servizio che essa riceve. I manager e i formatori interni erano particolarmente
interessati a far sì che gli utenti avessero voce in capitolo nel mese di tirocinio previsto
per i nuovi assunti. L’ideale sarebbe stato coinvolgere gli utenti in ogni ciclo di
formazione per i neo assunti; si è presentata però la difficolta di riuscire ad includere
persone che potesse rappresentare il bisogno di tutti gli utenti. Da questa riflessione è
infatti emersa l’idea di produrre un video composto da diverse esperienze.
Dalla descrizione di queste esperienza emerge la difficoltà degli operatori nel far fronte
alla tentazione “di guidare” i partecipanti e di “aggiustare” in fase di redazione il
messaggio che volevano trasmettere. (Jones e Cooper,2009)
Per far fronte a questa difficoltà era essenziale avere una visione come quella descritta
da Salleby (2006) in quale parlando da operatore dice “dobbiamo essere aperti alla
negoziazione e apprezzate l’autenticità delle opinioni e delle aspirazioni di coloro con
cui collaboriamo. Le nostre voci forse dovranno tacere, per lasciare spazio a quelle dei
88
nostri utenti. Siccome stiamo comodi nel nostro ruolo di esperti, possiamo trovarci in
difficoltà nell’assumere un atteggiamento di collaborazione paritaria.” (Salleby, 2006,
pp. 14-15)
Questa riflessione fa intendere come spesso per gli operatori sia difficile cedere un po’
del loro potere in mano agli utenti e riuscire quindi a essere criticamente consapevoli del
loro potere come professionisti cercando di rimanere concentrati sulle competenze,
esperienze e risorse degli utenti. Un altro elemento emerso da questa esperienza è
l’importanza da parte degli operatori di riconoscersi come alleati, favorendo così un
lavoro in partnership. (Jones e Cooper,2009).
Questo lavoro ha inoltre permesso di modificare la percezione dell’indipendenza, della
libertà di scelta ma al tempo stesso anche dell’autonomia che gli utenti hanno e
acquisiscono oltre che la visione che gli operatori hanno di loro. In genere si pensa che
le persone con difficoltà di apprendimento siano estremamente dipendenti dagli altri,
questo tipo di formazione, con la creazione del video ha permesso di dare la possibilità a
molte persone di mettere l’accento sul fatto di sentirsi persone utili e capaci di dare
validi contributi.
Quando un servizio dichiara di lavorare bene, significa essere disposti ad ascoltare
attentamente le storie degli utenti e a mettere in dubbio i propri preconcetti personali e
professionale. Solo sulla base di questo impegno profondo e autentico l’intervento
professionale può agevolare l’empowerment, senza perdere autorevolezza.
Infine si sostiene che la possibilità di creare questo video abbia rappresentato uno sforzo
critico e una forma di empowerment, poiché esso racchiude messaggi fondamentali per
la pratica del lavoro sociale rivolto alle persone con difficoltà di apprendimento.
È un esempio di come lavorare sui punti di forza richiede agli operatori un interesse
rispettoso e impegno per sapere ascoltare la voce autentica dell’utente; “l’operatore
sociale deve essere sinceramente interessato e rispettoso delle narrazione degli utenti,
oltre che dell’interpretazione che essi forniscono delle proprie esperienze[… ] Gli utenti
riescono ad “essere visti” quando gli operatori partono dal presupposto che possiedano
un bagaglio di conoscenze che abbiano tratto insegnamenti dall’esperienza, che nutrano
speranze, che coltivino interessi e che possiedano specifiche competenze.” (Saleeby,
2006, p.16).
Un’altra esperienza interessante è quella avvenuta nei servizi di Hong Kong, descritta
nell’articolo The uncut jade: differing views of the potential of expert users on staff
training and rehabilitation programmes for service users in Hong Kong (Roger e
89
al.,2013), dove si è cercato di seguire un elemento chiave della recovery e cioè
coinvolgere gli utenti esperti nella formazione del personale dei servizi di salute mentale
e nei programmi di riabilitazione degli utenti del servizio. Questo studio aveva come
obbiettivo quello di studiare e comprendere meglio il punto di vista degli utenti e dei
professionisti nel coinvolgimento degli utenti nella partecipazione al processo di
recovery. Vari studi dimostrano infatti che un servizio orientato alla recovery che è in
grado di riconoscere i benefici e le risorse che gli utenti hanno da offrire al servizio
permette un miglior rapporto tra i due. (Roger e al.,2013). Questo studio ha cercato
inoltre di individuare le diverse aspettative presenti tra gli operatori e gli utenti esperti,
attraverso le varie interviste fatte inizialmente alcuni operatori vedevano gli utenti in
grado di fare azioni molto semplici come ad esempio cucinare ecc.. altri invece
vedevano il loro la possibilità di poter aiutare, monitorare e guidare altri pari nel
percorso di cura.
Alcuni utenti invece avevano una percezione di loro stessi come esperti per la loro
esperienza e in grado di poter apportare un aiuto ad altri utenti in difficoltà. È emerso
infatti come gli utenti possano offrire una visione dall’interno dell’esperienza della
malattia e nell’utilizzo dei psicofarmaci. Un utente sostiene inoltre come gli operatori
siano sicuramente dei professionisti ma di come gli utenti esperti riescono a guardare le
cose da un punto di vista globale e di come possiedono un sapere esperienziale che li
contraddistingue.
All’inizio gli operatori si sono rivelati scettici rispetto all’abilità degli utenti di poter
dare un’effettiva formazione, erano preoccupati per la mancanza di formazione degli
utenti e di come potessero insegnare partendo dal caso singolo, dalla propria esperienza
che spesso non può rappresentare un valore assoluto e generale valido per tutti.
Entrambi i gruppi (operatori e utenti esperti) erano preoccupati riguardo alle possibili
fonti di stress degli utenti in merito alla formazione. Le fonti però erano diverse dal
punto di vista degli utenti e operatori. I primi ritenevano che uno dei motivi che creava
loro più paura era quello di “essere mandato a casa” in quanto ritenuti incompetenti da
parte degli operatori. I secondi invece erano preoccupati rispetto al fatto che una
responsabilità come quella della formazione potesse portare un carico di stress notevole
per gli utenti.
In merito a questo però nessuno dei pazienti ha menzionato che fosse stressato dalla
preparazione della lezione. Alcuni operatori si sono rivelati un po’ scettici in quanto
ritenevano che la partecipazione dei pazienti potesse destabilizzare l’equilibrio di potere
90
e la saggezza legata al sapere tecnico. (Roger e al.,2013). Gli utenti hanno dimostrato
una maggiore apertura verso gli operatori, per quanto riguarda soprattutto l’abbattere le
barriere e superare le vecchie maniere.
Questo studio ha sottolineato inoltre l’importanza per gli utenti esperti di poter dare
qualcosa agli altri in risposta ad una situazione che loro capivano molto bene. In
generale però gli operatori avevano difficoltà ad andare oltre ai possibili rischi nel
coinvolgere utenti e famigliari, tendevano spesso a focalizzarsi sulla perdita di controllo
e autorità da parte del servizio.
Inoltre nello studio si è cercato di comprendere il vero senso del coinvolgimento e della
partecipazione nel servizio da parte degli utenti. È stato apprezzato il termine
condividere, da entrambi i gruppi, nonostante però da parte degli utenti è stato percepito
come una limitazione. Dal punto di vista degli operatori la condivisione permetteva di
salvaguardare l’equilibrio di potere importante per il servizio. Questa formazione infatti
ha permesso agli utenti di ritenersi esperti per il loro vissuto, ma al tempo stesso dalle
varie interviste emerge che non hanno ricevuto uno stesso riconoscimento da parte degli
operatori.
Questa possibilità ha pero favorito una maggiore tolleranza del servizio nei confronti
degli utenti esperti, avendo infatti vissuto un confronto, ha permesso anche una
possibilità di socializzare, andando oltre al ruolo.
Concludendo questo sottolinea come gli utenti esperti possano contribuire
positivamente nei servizi di salute mentale e nel supporto dell’altro, sia come formatori,
ricercatori sia nella promozione del proprio benessere e percorso di cura. Questo aspetto
è stato supportato da vari risultati ottenuti da studi coordinati e controllati (Livingston &
Cooper, 2004) che hanno confrontato i servizi che avevano al loro interno utenti esperti
in supporto tra pari e servizi che non li avevano (Chinman et al., 2008). Inoltre la
presenza di esperti in supporto tra pari nei servizi incoraggia la creazione di una
maggiore collaborazione tra utenti e operatori, garantendo così maggiori opportunità di
migliorare i servizi. La riluttanza degli operatori di accettare gli utenti esperti è data
soprattutto dalla difficoltà di cambiare, di acquisire nuove capacità e da una loro messa
in discussione. Questo può essere più facile se entrambe le parti non riconoscono le
risorse dell’altro.
Gli operatori piano piano avranno bisogno di utenti esperti che offrono un punto di vista
diverso rispetto a come vivono la loro patologia e della cura. Questa rappresenta una
visione complementare e non sostitutiva a quella dei professionisti. Per far sì che tutto
91
questo sia possibile deve esserci un contesto che mantenga il delicato equilibrio di
potere, rispettando gli utenti esperti, considerandoli come propri partner, aumentando
così la loro percezione di potere e permettendogli di raggiugere le loro aspirazioni,
andando oltre alla patologia. Questo sicuramente rappresenta un obbiettivo difficile e
che richiede tempo, il cambiamento non si può ottenere unilateralmente ma bensì con un
lavoro in partnership che possa portare un cambio di atteggiamento da entrambe le parti.
La logica alla base è che gli operatori devono essere disposti a condividere il potere con
gli esperti per esperienza, dando un riconoscimento a questa nello stesso modo che
avviene con il sapere tecnico.
Un'altra esperienza riscontrata nella letteratura è quella descritta da Hayward e al.,
Service user involvement in traning. Case study (2005). In questo articolo vengono
affrontate diverse buone prassi rispetto al coinvolgimento di utenti e famigliari nella
ricerca e nella formazione. All’inizio l’articolo accenna anche ad una difficoltà di
considerare da parte di tutti il coinvolgimento di utenti e famigliari allo stesso modo.
Gli obbiettivi di questa ricerca sono due, il primo è quello di cercare di rendere evidenti
e dare delle prove riguardanti il beneficio dato dal coinvolgimento di utenti e famigliari
nella formazione, il secondo è quello di chiarificare, far sì che questo venga promosso e
sviluppato all’interno dei servizi.
I formatori che sono esperti per esperienza possono rappresentare un’esperienza molto
“potente” perché permette loro di poter dire cosa loro hanno vissuto, di comprendere la
patologia più da vicino.
Più volte viene riportata l’importanza del coinvolgimento di utenti nella formazione che
permette di acquisire maggiore potere (empowerment) e al tempo stesso una maggiore
autodeterminazione grazie ad una maggiore partecipazione all’interno dei servizi.
Gli operatori riportano che le loro aspettative erano diverse, in quanto si aspettavano di
giocare un ruolo che fosse di protezione nei confronti degli utenti. All’interno del testo
infatti, alcuni operatori riportano il loro sbaglio nel sottovalutare le loro risorse e
potenzialità, in quanto gli utenti non solo hanno dimostrato di potersi prendere cura di
sé stessi e al tempo stesso partecipare attivamente all’interno del servizio.
Il coinvolgimento degli utenti nel workshop ha enfatizzato quanta importanza può avere
la loro partecipazione sugli operatori della salute mentale, inoltre si è cercato di capire
come rendere il coinvolgimento di utenti sicuro e credibile nel percorso di formazione.
Un utente riporta inoltre di come la possibilità di partecipare abbia rappresentato per lui
92
una sorta di “vincita” in termini di una maggiore confidenza e di maggiore influenza nei
servizi di salute mentale.
Un terzo articolo interessante da me analizzato e tradotto è quello di Spector e al. (2011)
Service- user involvement in a ward staff training project: Participants’ experiences of
making digital stories. Questo articolo fa una premessa nella quale spiega come il
coinvolgimento degli utenti nei servizi di salute mentale può avvenire a diversi livelli.
Ci può essere un coinvolgimento riguardante la cura della persona, ad esempio facendo
riferimento ai modelli collaborativi, fino ad arrivare al coinvolgimento degli utenti nella
progettazione dei servizi, nella loro attuazione e nella ricerca.
Coinvolgere gli utenti all’interno dei servizi possiede diversi benefici tra cui favorire lo
scambio tra i diversi punti di vista degli utenti, famigliari e operatori.
Il coinvolgimento degli utenti potrebbe inoltre accrescere quella che oggi è una limitata
comprensione dello stress mentale e inoltre la partecipazione di esperti per esperienza
potrebbe essere di per sé terapeutico.
Nello specifico questa esperienza descrive com’è avvenuto il coinvolgimento di utenti
nella formazione. Un’idea iniziale era quella di creare una presentazione di loro stessi e
della loro esperienza al personale del servizio; in seguito però a questa opzione si è
preferito la creazione di un DVD. Questo ha permesso a molti utenti di non usare la loro
figura all’interno del video ma altre immagini scelte da loro per la loro formazione. Gli
utenti hanno potuto scegliere come presentare la loro esperienza e con quali modalità
nei vari workshop, con anche la possibilità di non presentarla nel caso in cui le persone
non volessero.
Un elemento emerso dai partecipanti durante la maggior parte dei video come beneficio
del loro coinvolgimento è stata la possibilità di raccontare la loro sofferenza in seguito
alla malattia permettendo un maggior distacco da questa.
Nonostante le difficoltà riscontrate, c’era una visione comune riguardo all’impatto
terapeutico degli utenti che sono stati coinvolti nella formazione. Un utente sostiene
infatti che spesso ha ricevuto indicazioni degli altri rispetto a quello che doveva fare e
persino pensare arrivando a considerare sé stesso sbagliato; riporta infatti che in quel
momento a volte “non si osa minimamente pensare che ci si può prendere cura di sé
stessi.” Quando si ha la possibilità di ascoltare e vedere che per altri utenti è andata
diversamente, ci si rende con di essere in grado di avere un pensiero individuale;
sicuramente questo passaggio richiede tempo e rappresenta uno strumento terapeutico
molto utile. (utente C, Hayward e al., 2005). Un altro utente riporta che questa
93
occasione di coinvolgimento ha migliorato notevolmente la sua salute a prescindere dal
video che aveva lui come protagonista venisse visto o meno.
Per quanto riguarda l’impatto che questa formazione ha avuto sugli operatori sono
emerse delle considerazioni che vale la pena di approfondire. Prima di tutto l’impatto
che hanno avuto i racconti in prima persona. Raccontare attraverso la propria voce, in
maniera individuale dimostra il potere dell’autenticità. Alcuni storie raccontate dalle
persone si sono rivelate utili e significative, sia per rinforzare l’importanza
dell’esperienza che al tempo stesso ha rappresentato una modalità più complessa e
completa di formazione per gli operatori. Ascoltando le diverse esperienze che le
persone riportano, al tempo stesso si crea un quadro più complesso e generale che sia
unico ma che contenga anche tutti gli elementi che sono emersi dai racconti. In ultimo si
descrive come questo tipo di formazione sia servita per permettere anche agli utenti di
riflettere sui vari scopi della loro partecipazione. Concludendo un aspetto importante è
stata che questa opportunità di partecipazione ha permesso agli operatori di riflettere
sull’esperienza fatta, tutto questo facilitato dal fatto che gli operatori non si sono sentiti
giudicati dagli utenti.
Un’altra esperienza è quelle descritta da Maria Luisa Raineri e Elena Cabiati
nell’articolo Learning from service users’ involvement: a research about changing
stigmatizing attitudes in social work students (2016). In questo articolo viene affrontato
il coinvolgimento di utenti nella formazione di studenti di servizio sociale; questo è
considerato un modo di collaborare nella società moderna, che permette di garantire
un’educazione bilanciata, capace di favorire un maggiore etica professionale negli
studenti, soprattutto quando gli esperti per esperienza vengono coinvolti dall’inizio.
L’idea alla base è quella che i futuri assistenti sociali debbano considerare utenti e
famigliari come partners nel trattamento delle difficoltà quotidiane. In questo modo gli
utenti non vengono considerati dagli operatori solo come figure passive e semplici
destinatari, ma come persone dalle quali si può imparare sia nell’educazione che anche
nella pratica professionale.
Le esperienze personali quotidiane sono fondamentali per equipaggiare i futuri assistenti
sociali con elementi chiave e le conoscenze per migliorare i loro servizi. Inoltre
l’esposizione al punto di vista degli utenti mira a far sì che gli studenti uniscano teoria e
pratica insieme.
94
Un elemento importante emerso in questa ricerca svolta da Raineri e Cabiati (2016) è
l’importanza della condivisione del potere, il rischio di lavorare in un’ottica
tradizionalista può portare a vedere gli utenti come casi di studio al posto che partners,
incrementando l’enfasi sulla distanza tra operatori e utenti. Solo quando gli utenti si
sentono rispettati per quello che hanno da offrire possono condividere le loro
prospettive. Quando gruppi e organizzazioni di utenti sono coinvolti, si trovano in una
posizione che permette loro di combattere la visione convenzionale che si ha di loro
all’interno dei servizi.
Un passaggio essenziale nel coinvolgere utenti e famigliari nella formazione è il
reclutamento di questi. Questo lavoro di comunicazione necessita tempo e una
preparazione attenta, è essenziale spiegare lo scopo dell’iniziativa ai diversi individui e
soggetti coinvolti, capire cos’hanno da offrire e capire con chi altro sono coinvolti e le
loro condizioni di coinvolgimento.
Nella ricerca svolta da Raineri e Cabiati (2016), viene sottolineata l’importanza del
coinvolgimento di utenti e famigliari nell’educazione degli assistenti sociali sia
estremamente importante per tutti. Infatti, grazie alla loro testimonianza, la
consapevolezza e l’importanza dell’esperienza umana all’interno dei servizi di salute
mentale è cresciuta, questo è stato riportato da vari studenti come elemento
caratterizzante di una formazione condotta in questo modo. Inoltre sempre loro hanno
riconosciuto l’importanza di interagire in una forma diversa dal solito; in merito a
questo infatti, la distinzione e distanza tra le parti è andata sfuocando e insieme a questo
anche lo stigma.
Un’esperienza simile a questa è descritta da Greta Bonesi (2012), la quale descrive la
realtà e le riflessioni degli studenti di Servizio Sociale dell’Università Cattolica di
Milano, durante una formazione in collaborazione con esperti per esperienza.
In questo caso sono stati contattati individui che hanno avuto esperienze di malessere
esistenziale, di disagi familiari, di relazione con i Servizi sociali, ma che sono riusciti,
nel tempo, a gestire i loro problemi e a emanciparsi grazie a una forte spinta
motivazionale al cambiamento e a un percorso di elaborazione riflessiva che li hanno
portati ad agire attivamente per uscire dalla crisi-problema. Ogni utente esperto ha avuto
la possibilità di mettere in luce quali atteggiamenti naturali, di risorsa o eventuali
criticità sono emersi nella relazione di approccio dello studente. Attraverso la
restituzione di gruppo, gli studenti hanno avuto la possibilità di conoscere e/o
95
riconoscere le proprie capacità naturali alla relazione, di scoprire con maggiore
consapevolezza i propri limiti e le proprie risorse.
Un familiare riporta un aspetto importante, “l’aiuto può avere luogo solo nella misura in
cui la persona che lo offre è dotata di sentimento, di cuore. Questo è molto più
importante di qualsiasi altra tecnica. L’atteggiamento di chi si pone come aiutante è
fondamentale. Esso passa non tanto tramite la comunicazione verbale, quanto attraverso
i gesti, i movimenti corporei, la mimica facciale… occorre mettere le persone nella
condizione di trovare autonomamente le risposte ai propri bisogni perché non è corretto
sostituirsi ad esse durante questo processo: nel momento in cui le soluzioni offerte
risultano inefficaci, le stesse persone hanno il diritto di ribattere sulla professionalità
dell’assistente sociale.” (A. familiare esperto, Bonesi, 2012, p.255).
Questa esperienza ha permesso agli studenti di avere la possibilità di offrire e di ricevere
reciprocamente “qualcosa in termini di saperi differenziati” che difficilmente i libri o le
lezioni riescono a garantire.
Durante questa esperienza gli utenti hanno indossato gli abiti del “docente”
contemporaneamente al loro e sono riusciti, meglio di chiunque altro, a capire
l’attenzione degli studenti e a catalizzare la loro riflessione sulle finalità del corso.
Una studentessa riporta che questa occasione ha rappresentato per lei la possibilità di
acquisire maggiori conoscenze rispetto alla realtà nella quale in un futuro andranno ad
operare, il confrontarsi a livello molto diretto con i bisogni e i problemi delle persone si
è rivelato d’aiuto sotto il profilo motivazionale. “Sia l’utente sia l’operatore sono
chiamati e si chiamano reciprocamente a incontrarsi come “persone”, come portatori di
una propria identità fatta di esperienze, sogni e delusioni. Utenti e operatori partono
dalla stessa identica base umana che è la storia che li caratterizza come individui con il
loro nome, la loro dignità, il loro vivere, per forza o per amore, la vita di tutti i giorni.”
(S.,studentessa, Bonesi, 2012, p. 257).
L’utente e operatore sono in primo luogo persone. È difficile che esista una relazionale
sociale se questa consapevolezza non c’è. Questo scambio e incrocio di saperi
rappresenta un arricchimento, continuo nel tempo e costante, che vede due persone
crescere insieme, migliorandosi reciprocamente nel rispetto di somiglianze e differenze
cercando di aumentare il benessere psicofisico degli utenti (L.studentessa, Bonesi,
2012).
Questa possibilità di scambio tra utenti esperti e studenti ha permesso di accrescere
l’empowerment di entrambi, i docenti sono scesi dalla cattedra cedendo loro parte del
96
loro potere e riconoscendo un sapere che appartiene ad ogni singola persona, quello
legato alla propria esperienza di vita.
Le politiche e i servizi pubblici per la salute mentale rivestono un ruolo molto
significativo per le persone che soffrono di disagio psichico grave. I servizi
condizionano il corso di vita, anzitutto per la considerazione e le risposte che forniscono
ai problemi di salute mentale, e in secondo luogo per l’orientamento che danno
all’opinione pubblica rispetto a questo tema e quindi per le possibilità di queste persone
di partecipare alla “sfera pubblica”.
Tra i cambiamenti più significativi che il movimento degli utenti sta producendo, ci
sono anche quelli relativi all’area delle conoscenze. “L’inserimento degli utenti e dei
“sopravvissuti” alla psichiatria nella ricerca e nella formazione, in effetti, può generare
risultati migliori rispetto ad altre strategie più tradizionali come quella di cercare di
controllare direttamente l’erogazione di prestazioni. È nell’area delle conoscenze che
emergono con la massima chiarezza le tensioni e le ambiguità sottese alla
categorizzazione di una persona come utente: se qualcuno, già ricoverato in un ospedale
psichiatrico, viene invitato a tenere una lezione in un corso di specializzazione, il suo
ruolo sarà di insegnante o formatore e non certo di utente (né tanto meno di
consumatore)." (Barnes e Bowl,2001, trad.it.2003, p.53)
Concludendo da come si può dedurre dalla letteratura riportata, quando si parla di
malattia mentale c’è in gioco l’intero vivere delle persone e non solo la dimensione
della patologia psichiatrica, che rappresenta solo una parte dell’interezza di un
individuo. Per questo motivo non si può fare a meno del punto di vista delle persone
direttamente coinvolte se si vuole favorire un percorso di aiuto efficace indirizzato a un
miglioramento del benessere al di là della malattia mentale. (Davidson e al., 2009).
Un approccio che valorizzi il sapere esperienziale di utenti e famigliari, restituisce al
punto di vista dell’utente e del familiare la stessa dignità di quello dell’operatore.
3.2 Incrocio tra sapere tecnico e sapere esperienziale
Il percorso di cura complessivo presuppone che i due soggetti, il professionista che
incontra un altro essere umano impegnato nella sua stessa ricerca del bene. La persona
che chiede aiuto deve continuare a sentirsi prima di tutto essere umano alla quale
appartiene il potere di poter interloquire secondo propri codici e collaborare con il
terapeuta. In questo modo, istaurando questa relazione si entra nella dimensione
relazionale. Donati sostiene da tempo infatti che parlare del bene (inteso come recupero, 97
l’aiuto nel percorso di cura) nasce dalla relazione, dall’incontrarsi per fare assieme.
“Responsabile del miglioramento e l’interazione affettiva e cognitiva tra le persone, in
cui entrambe le soggettività rimangono intatte e libere di esplicarsi.” (Folgheraiter,
2009b, p.14). In questo modo il professionista non solo interagisce alla pari, ma ha
anche una visione della cura in senso pieno, lavora affinché sia il paziente che lui
possano lavorare ad un progetto di terapia e cura che sia congiunto.
Durante il processo di aiuto è importante tenere presente che le persone sono esperte,
esperte di sé stesse, della loro patologia e di come convivere con questa. È compito
dell’operatore aiutarle affinché trovino loro stesse una soluzione convincente per loro; è
importante fare in modo di guardare in avanti. Questa visione della persona permette di
incentrarsi sul miglioramento e sulla valorizzazione del positivo. Gli utenti e i famigliari
sono esperti, esperti della propria vita, della propria patologia e di come convivere con
essa, delle sofferenze e delle difficoltà che questa comporta. Il sapere soggettivo è
fondamentale, riguarda la vita della singola persona e della vita, che ciascuno costituisce
vivendo la vita stessa, sperimentando azioni concrete ed emozioni, coinvolgendosi in
processi comunicativi e attribuzioni di significato in merito alle situazioni reali in cui la
persona è immersa.
Quando l’operatore si trova a contatto con utenti esperti è importante che i primi
cerchino di realizzare un reciproco potenziamento tra conoscenze esperienziali e
conoscenze esperte, l’operatore si fa quindi aiutare dagli interessati per capire come
meglio aiutarli e qual è la soluzione migliore per loro, gli interessanti vengono aiutati
dall’operatore a cercare di elaborare loro stessi, in prima persona soluzioni che
ritengano più adeguate.
L’unione e quindi la collaborazione paritetica tra i professionisti dentro i servizi di cura,
in particolare quelli di salute mentale è una possibilità straordinaria e di maggior
conoscenza e aiuto per entrambe le parti.
“Il “fare assieme” che ingloba ampie opportunità di relazione. Non si tratta solo di fare,
ma anche di ragionare assieme, decidere assieme, programmare insieme […] finalizzato
al recupero del benessere può essere messo in gioco innanzitutto per la propria salute e
poi anche per la salute generale della comunità.” (Folgheraiter, 2009b, p.66)
L’utente è un soggetto attivo, essendo lui il primo a comprendere quale sia la soluzione
migliore per sé stesso e non invece, un oggetto destinato soltanto “a ricevere”, inteso
come mero destinatario. Il quadro della salute mentale è in realtà ancora più complicato
98
(Folgheraiter, 2009b) perché il problema o il malessere non si riduce alla patologia, ma
anche all’intero vivere delle persone.
Si necessita senz’altro di chi sa che cosa vuole dire la malattia per averne compreso
tutte le caratteristiche attraverso lo studio e alla ricerca, ma al tempo abbiamo bisogno
di chi sa cosa vuol dire la malattia mentale perché l’ha vissuta dall’interno, perché
questa ha mutato interamente la sua vita e il suo vissuto.
L’esperto conosce la patologia quale si presenta tipicamente e in modo astratto nella
vita di persone diverse, dove la specificità del singolo non è rilevante; il paziente invece
conosce la propria malattia per esserci stato dentro, con i suoi sintomi, i dolori che
comporta e per averla avuta nella sua quotidianità. In questo modo avviene un incrocio
di saperi caratterizzato da un lavoro che vede entrambi le parti in una relazione di aiuto
paritetica e con risultati molto produttivi. Entrambi i saperi hanno dei vantaggi,
(Folgheraiter, 2009b) uno senza l’altro sarebbe incompleto, pensiamo al sapere tecnico
e di come le varie patologie hanno delle somiglianze tra loro, quindi conoscere le
diverse caratteristiche diviene una fonte preziosa e permette di capire su quale malattia
ci stiamo concentrando. Un altro aspetto favorevole è la distanza, e di come l’esperto
rappresenti un punto di vista esterno confronto alla pura conoscenza esperienziale che
spesso genera malessere e disorientamento.
Dall’altra parte anche il sapere “per esperienza” offre precisi vantaggi, a lui appartiene
quella particolare soggettività che invece allo psichiatra non appartiene e non conosce.
Unire le due ignoranze relative, le due debolezze, quella di chi possiede parziale scienza
e quella di chi possiede la parziale esperienza diretta fa la forza; si ottiene attraverso un
incontro alla pari, cioè una relazione. Questo è il modo più sano di migliorare, da una
parte acquisire il sapere dell’altro, dall’altra offrire il proprio sapere, facendo emergere
un sapere “superiore”. Sicuramente può essere ben distinta la visione tra chi è malato e
chi non lo è, non si capisce che cosa consenta al secondo di capire il primo. La
possibilità di capire e quindi aiutare la persona che soffre di un disturbo mentale va
quindi ricondotta alla possibilità di comprendere e aiutare l’altro in generale. Come
dissero Davidson e al.: “gli abili direttori d’orchestra traggono il meglio da ogni
musicista e strumento in modo da creare un insieme più grande della somma delle
singole parti dell’orchestra.” (Davidson e al., 2012, p.36).
Nell’ambito della salute mentale questo è difficile e faticoso un riconoscimento da
parte dei servizi e lavorare in una prospettiva dove l’utente è visto come soggetto e
attore del proprio percorso di integrazione e di emancipazione, ma non impossibile. 99
L’incontro con la malattia rappresenta una risorsa per poter comprendere in senso più
ampio le differenze, e successivamente poter lavorare con queste favorendo così
percorsi di integrazione e di elaborazione di una pluralità di prospettive che tengano
conto sia del punto di vista dell’utente che quello del professionista. Il lavoro di colui
che detiene il sapere tecnico dovrà essere caratterizzato più dall’apertura nei confronti
dei punti di forza e degli obbiettivi individuali, che dall’essere eccessivamente fedele ad
un manuale di interventi strutturati prestabiliti rispettando e onorando così i diritti delle
persone con disturbi mentali.
La collaborazione paritetica tra i professionisti che sono incardinati in ruoli specialistici
dentro i servizi di cura, in particolare quelli di salute mentale con utenti e famigliari che
usufruiscono di quelle strutture nella speranza di migliorare la loro vita rappresenta
ancora oggi una sfida all’interno dei servizi di salute mentale. La conoscenza dalla quale
si può trarre potere nella gestione delle cose psichiatriche è duplice (Folgheraiter,
2009b, p.59), da una parte la conoscenza oggettiva o tecnica e dall’altra la conoscenza
soggettiva o esperienziale. Per molti anni, e ancora oggi all’interno dell’ambito della
salute mentale si è data molta rilevanza all’aspetto terapeutico e clinico della persona. Il
punto debole di tale psichiatria è il fatto che ciò che si intende conoscere non è un puro
oggetto o un’entità fisica della natura. La persona che soffre di una patologia mentale è
un soggetto, quanto più la mente di quella persona è imprevedibile e originale, tanto più
si avrà a che fare con la soggettività della persona; possiamo dire che abbiamo di fronte
un soggetto, intendendo come tale colui che sa trarre da sé stesso delle azioni originali e
creative rispetto ai condizionamenti ambientali o alle cause esterne di vario tipo.
L’oggettività cui aspira la psichiatria medica tradizionale affonda nella soggettività. “La
condizione psichiatrica è un impasto di determinazione fisico-chimica e insieme di
indeterminazione, perché la malattia si radica in un soggetto che tale rimane sempre, se
non forse nello scompenso più estremo.” (Folgheraiter, 2009b, p.60)
È importante quando si parla di guarigione o comunque per far sì che la persona stia
meglio non si può prescindere dalla persona. Se il medico e gli operatori non hanno una
visione aperta e propensa allo scambio dei vari punti vista, sarà sicuramente difficile che
avvenga un riconoscimento del valore dell’altro. Un atteggiamento caratterizzato invece
da empatia, ascolto, curiosità verso quello che l’altra persona ha da dire, istaura con
questo una relazione. La relazione è il modo più sano per migliorare: ciò significa
attingere a saperi dell’altro e offrire all’altro i propri, affinché emerga un sapere
100
superiore, maggiore, in quanto non si limita alla somma dei due saperi, ma bensì questi
si completano a vicenda.
Il sapere esperienziale non appartiene solo all’utente e ai famigliari ma anche l’esperto
ha “un proprio sapere che gli deriva dall’esperienza di esercitare il proprio mestiere, ma
tale sapere diviene tanto più profondo quanto più si origina dal contatto con il sapere
esperienziale degli interessati.” (Folgheraiter, 2009b). Se il professionista non ha una
visione distorta della patologia, cioè se non ritiene che l’unica risposta alla patologia sia
la terapia, comprenderà quanto la componente esperienziale dell’altro e la
partecipazione attiva di questo al percorso di cura sia importante. Riconosce la parzialità
del suo sapere e della sua conoscenza e potere, cercherà appunto di connettersi con la
conoscenza dell’altro. In questo modo verrà in contatto e potrà osservare i saperi a lui
esterni, di conseguenza migliorare la propria competenza esperta anche al di fuori di
quello che ha studiato sui libri, facendo così esperienza di un collegamento autentico
alla pari con le esperienze vissute. L’idea è quella che uno psichiatra non debba
impazzire per comprendere cosa significhi avere un disturbo mentale, ma bensì
conoscerla attraverso l’ascolto ed entrando in empatia con le persone che ne soffrono.
Un professionista che lavora in maniera chiusa, introietta progressivamente aridità e
distanza, non fa esperienza della conoscenza diretta dell’altro e resta sterile. Anteposto a
questo c’è il lavorare in maniera relazionale, incontrando le persone e stringendo con
loro alleanze costruttive e sinergiche, per appunto creare e fare assieme. Ogni
professionista nella sua formazione dovrebbe avere la possibilità di venire a contatto
con un apprendimento basato anche sull’ascolto delle esperienze dirette sia nella
informazione che quella in servizio.
Il “fare assieme” affrontato in questo paragrafo ingloba ampie opportunità di relazione.
Non si tratta infatti solo di fare, ma anche di ragionare insieme, programmare e decidere
insieme. Prima di tutto l’incrocio di saperi si ottiene istaurando una relazione di fiducia
e paritetica tra coloro che detengono le due diverse ma complementari conoscenze. Solo
mettendo il giorno e relazionando il proprio sapere, si può andare oltre ad una risposta
già predefinita e standard del problema.
Concludendo in questo senso si ha anche la possibilità di accrescere la fiducia che utenti
e famigliari acquisiscono negli operatori, il sapere esperienziale psichiatrico, rinforzato
da quello esperto dei servizi formali, si può tradurre in un bene comune di ampio
interesse civico, in un capitale sociale che può produrre risultati e restituire altri
interessi alle fatiche e alle sofferenze da cui è scaturito. (Folgheraiter, 2009b).101
102
CAPITOLO QUARTO
Una ricerca valutativa su un progetto di formazione in servizio di
operatori con la partecipazione di utenti e famigliari
Nella prima parte di questo capitolo verrà presentato il contesto della ricerca, partendo
da i vari passaggi che hanno portato alla realizzazione del percorso di CO.PRO, i
protagonisti, le tematiche affrontate durante le lezioni di formazione fino ad oggi.
La seconda parte del capitolo si concentra sulla ricerca valutativa svolta da me tramite
questionario, avente duplice obbiettivo, da una parte capire l’impatto che questa
formazione ha avuto sugli operatori e dall’altra capire quanta effettiva partecipazione è
avvenuta e come questa è stata percepita dai protagonisti.
Questa piccola ricerca ha come obbiettivo quello di far emergere vari aspetti del
progetto CO.PRO dal punto di vista degli operatori e dei protagonisti della formazione.
In seguito sono state analizzate le informazioni emerse confrontandole con le varie
esperienze nazionali e internazionali riportate nel terzo capitolo.
4.1 Il contesto della ricerca: il progetto CO.PRO
Il contesto nel quale è avvenuto il progetto CO.PRO è stato principalmente il San
Martino di Como, ex ospedale psichiatrico nel quale oggi sono presenti varie realtà.
L’origine del nome CO.PRO è stato deciso e condiviso da tutti coloro vi hanno
partecipato. Il motivo principale di questo nome è perché questo progetto ha
rappresentato un inizio di co-produzione tra le parti e al tempo stesso ha fatto sì che
questo avvenisse sul territorio DI Como (CO) (ripreso anche nell’acronimo CO.PRO).
Oltre all’acronimo in seguito abbiamo identificato insieme un simbolo che potesse dare
un rimando diretto di quello che era l’obbiettivo di questo progetto, e cioè la co-
produzione tra le parti su una questione comune.
103
Il simbolo rappresentato a sinistra del foglio, è il
logo del progetto, dove il centro rappresenta
l’oggetto della discussione tra le parti, che
rappresenta un interesse comune, intorno a questa
tutte le parti interessate a riflettere insieme, in modo
particolare, utenti, famigliari, operatori ed io che in
questo percorso ho avuto principalmente il ruolo di facilitatrice.
È stato creato insieme anche sito internet4 nel quale sono stati caricati tutti i materiali
utilizzati nei vari incontri di formazione.
Questo progetto è nato in collaborazione tra il Dipartimento di Salute Mentale di Como
e due associazioni, La Mongolfiera e Nessuno è Perfetto.
Gli operatori del Centro Psicosociale di Como sono stati i destinatari della formazione e
la caposala Alessia è stata il coordinatore scientifico di questo ciclo di incontri.
Il Dipartimento di Salute Mentale di Como ha rappresentato la parte istituzionale del
progetto, la quale inizialmente si è interfacciata con un bisogno riportato da persone che
appartenevano alle due diverse associazioni, una di famigliari e l’altra di utenti.
La Mongolfiera si occupa di sostegno, informazione e assistenza a tutti i famigliari di
persone che hanno problemi di salute mentale. Inizialmente ho utilizzato questo canale
per conoscere meglio la realtà del territorio, e ho seguito alcune attività organizzate da
realtà del terzo settore che mi ha permesso di allargare il mio gruppo guida fin da
subito.
L’altra associazione con la quale mi sono interfacciata è Nessuno è Perfetto che fin da
subito ha collaborato con me alla realizzazione di questo progetto, NèP si occupa di
creare delle attività, dei momenti di condivisione per persone con disturbo mentale.
La presidente dell’associazione è Maria, e la vicepresidente è Anna che insieme a me
hanno composto l’inizio del gruppo guida di questo progetto. Il gruppo guida nel mio
stage, sono state quelle persone che si sono rivelate interessate a riflettere, perché
riconoscevano la finalità come propria. In questo caso specifico, l’iniziativa è stata presa
direttamente da loro, che insieme a me sono state coloro che fin dall’inizio hanno
lavorato alla creazione di questo progetto.
Il contesto culturale nel quale mi sono inserita è stato da una parte accogliente nel creare
un progetto innovativo che vedesse tutte le parti presenti coinvolte.
4 https://coproespertiperesperienza.wordpress.com/104
Nonostante questo però le difficoltà, soprattutto iniziali, sono state notevoli, spesso
l’indeterminazione del progetto ha suscitato varie perplessità anche negli operatori che
si sono rivelati fin da subito disponibili a riflettere e ragionare sul progetto. L’idea di
non poter avere un progetto ben definito e chiaro suscitava negli operatori delle
preoccupazioni legate alla mancanza di controllo sul progetto, dal momento che ben
poco era prestabilito, e tutto era ancora da definire.
Questa indeterminazione però era uno dei passaggi fondamentali che caratterizzava la
metodologia relazionale, che ha rappresentato la base solida di questo progetto, dove
niente era prestabilito e già deciso.
Questo progetto nasce da vari incontri, uno dei primi è avvenuto con Anna e Maria,
esperti per esperienza e rispettivamente presidente e vicepresidente dell’Associazione
Nessuno è Perfetto (NèP). I contatti con loro sono avvenuti tramite email; prima di tutti
ho contattato Paolo Macchia, vicepresidente della Rete Utenti Lombardia, il quale
dedicandosi principalmente del territorio di Milano, ha optato di rimandarmi ad Anna,
consigliera della RUL la quale appunto, si occupa in particolare della zona del comasco.
Durante il primo incontro con Anna e Maria, verso inizio luglio 2016, ci siamo
confrontate su cosa fosse un progetto di stage e quali erano le loro preoccupazioni,
bisogni e come poter unire questi due aspetti in un possibile progetto.
Anna esperta della Recovery, stava intraprendendo in quel periodo il corso per diventare
Esperto in Supporto tra Pari, e mi fece presente la difficoltà da parte di alcuni operatori
di comprendere l’esperienza che appartiene agli utenti, di saper valorizzare questa
conoscenza legata alla loro esperienza (sapere esperienziale).
Nel periodo successivo ci furono altri incontri tra Anna e me, a volte con la presenza di
Maria a volte senza.
In seguito, tramite Anna ho conosciuto Maria Grazia, un’operatrice, nello specifico
educatrice che fin da subito si è rivelata interessata a riflettere insieme a noi sul
progetto. In seguito si è organizzato un incontro dove erano presenti altri operatori.
In questo incontro ci furono Alessia, infermiera e caposala del Centro Psicosociale di
Como, Antonio Mastroeni, psichiatra in pensione del DSM di Como, sensibile ai vari
temi che coinvolgono Esperti in Supporto tra Pari, Recovery, associazionismo ecc,
Ornella Kauffmann che per molti anni insieme al dottore Mastroeni e altri medici di altri
servizi si dedicò a diffondere e studiare varie realtà che prevedevano il coinvolgimento
di utenti e famigliari nella salute mentale.
105
Alfonso, anche lui come Anna, utente dei servizi di salute mentale di Como e Esperto in
Supporto tra Pari, Grazia e Anna.
Per ESP è una persona il cui sapere è basato sull’esperienza, impara a valorizzare e
riconoscere questa risorsa, grazie ad un percorso formativo riguardante la
consapevolezza di sé, l’autostima, le caratteristiche del disagio, la recovery e
l’empowerment.
Il valore di questo percorso è dato dal fatto che l’ESP è la prova che dal disagio si può
uscire e/o comunque, nonostante esso, si può avere una buona qualità di vita.
L’ESP si differenzia dall’operatore perché mette in campo il suo vissuto personale, le
sue emozioni, ha attraversato il medesimo percorso di chi affianca e ciò lo facilita nello
stabilire dei rapporti di fiducia.
Durante questo incontro sono emersi diversi punti di vista, Anna inizialmente ha
presentato un’idea di progetto nel quale chiedeva l’utilizzo del CO.RE; questo
strumento è finalizzato a comprendere quanto i servizi lavorino nell’ottica della
Recovery. Questo strumento è stato visto da alcuni operatori troppo avanzato per la
realtà del servizio, che raramente aveva sentito parlare di Recovery e ancora meno
favorita.
Così dopo circa due ore di incontro, da parte di tutto il tavolo è emerso il bisogno
costruire un progetto insieme, con l’aiuto di diversi punti di vista che permettesse di
favorire un linguaggio comune, riconosciuto e condiviso da tutte le parti.
Questo è stato il punto iniziale sul quale lavorare in maniera collaborativa.
L’idea di questo progetto, co progettato fu quella di creare per la prima volta, incontri di
formazione degli operatori nei quali fosse possibile una partecipazione attiva degli
esperti per esperienza, partendo da tematiche scelte da loro, ritenute importanti da
comunicare agli operatori.
Così nel mese di ottobre 2016 sono iniziati gli incontri (circa uno ogni due settimane)
finalizzati a come affrontare i futuri incontri di formazione che si sarebbero avuti in
seguito.
Un altro aspetto rilevante durante tutto il progetto e indicatore di una partecipazione da
parte di utenti e famigliari, è che fin dall’inizio, l’idea di come strutturare il progetto è
stato portato avanti da Anna, Maria e me con l’aiuto degli operatori che hanno
contribuito a renderla concreta. Così è avvenuto anche per ogni singolo incontro di
106
formazione, è stato progettato e creato dai due gruppi con me, condiviso
successivamente con gli operatori appartenenti al gruppo guida che insieme a noi hanno
fatto in modo che questa formazione innovativa avvenisse.
Penso che la massima partecipazione sia stata proprio in questo, nel fare in modo che
utenti e famigliari del servizio prendessero la parola e abbiano avuto uno spazio di
azione, sentendosi anche loro esperti. Creare spazi di partecipazione per coloro che
hanno molto da insegnare, dato il loro vissuto, la loro esperienza e la loro resilienza
nell’aver fatto fronte alla patologia in un modo diverso, trovando un modo nel quale
“gestire il vivere” nonostante la presenza della malattia, che da un momento all’altro ha
mutato la loro vita.
Il progetto CO.PRO è nato principalmente con l’intento di garantire la partecipazione
ad utenti e famigliari all’interno di un servizio.
L’idea è nata da un bisogno riscontrato da esperti per esperienza e poi è stato condiviso
con gli operatori che hanno contribuito a renderla concreta, ritenuta il livello più altro
della intensità della partecipazione se teniamo in considerazione la scala di Hart (1992)
analizzata precedentemente.
Questo aspetto è ben visibile anche secondo un’altra scala analizzata per comprendere
meglio l’intensità della partecipazione. L’idea dell’intero progetto è nato da Anna e
Maria come esperti per esperienza e me, e poi condivisa con gli operatori, i quali hanno
contribuito con il loro aiuto a renderla concreta, proponendo come momento, gli
incontri di formazione sul campo, nel quale utenti e famigliari potessero avere un ruolo
attivo. (Wilcox, 1994)
La stessa identica modalità è stata utilizzata nella creazione delle singole lezioni di
formazione; le tematiche sono state pensate dal gruppo di utenti e dal gruppo dei
famigliari, in seguito queste sono state condivise con gli operatori.
Anche durante gli incontri di formazione, in particolare durante la seconda mattinata, i
famigliari hanno proposto anche un lavoro di gruppo agli operatori per riflettere su
alcune tematiche e su quali potevano essere le possibili proposte sulle quali collaborare
nell’ottica del Fareassieme.
Oltre a questo, garantire la partecipazione per me è stato dare un senso di continuità nel
percorso intrapreso nei gruppi scegliendo insieme un giorno in base alle loro possibilità.
In seguito ho cercato di applicare la metodologia studiata nel concreto, cercando di
analizzare anche i possibili ostacoli alla partecipazione. Dare una scadenza di una volta
ogni due settimane in un giorno scelto da loro, ha permesso anche ai due gruppi di
107
parteciparvi con una maggiore costanza. Parlando con alcune persone che
appartenevano al gruppo degli utenti, è emersa l’importanza del senso di continuità di
un percorso, scegliendo un giorno fisso nel quale trovarci, favoriva la presenza delle
persone.
La metodologia relazionale è stata la base dell’intero percorso, gli esperti per esperienza
sono stati coloro che fin dall’inizio hanno presentato il progetto, hanno negoziato con
gli operatori nell’identificare gli obbiettivi e la finalità del progetto, ma non solo, anche
sulla scelta del contenuto di ogni singola lezione che poi hanno presentato al corso di
formazione.
Tutti questi passaggi, nel loro piccolo hanno fatto sì che utenti e i famigliari non si
sentissero più come tali, ma che venissero valorizzate come persone che hanno qualcosa
da dire, da raccontare e soprattutto da insegnare. È proprio in questo che io ho visto la
relazionalità, nella possibilità di creare una formazione, fatta da coloro che sono esperti
per esperienza, dove gli esperti tecnici sono stati i destinatari favorendo uno scambio di
punti di vista. Inoltre gli operatori hanno ricevuto crediti formativi per avervi
partecipato.
Questo percorso penso abbia permesso prima di tutto lo sviluppo di un maggiore
empowerment nelle persone, durante tutto questo percorso sono stati loro i protagonisti
della formazione e di come farla. La possibilità di essere per una volta gli esperti agli
occhi degli operatori, grazie alla loro esperienza ha permesso loro di sentirsi importanti
all’interno del servizio e soprattutto di ricoprire un ruolo di formatori ha stravolto la
logica del servizio.
Un altro aspetto importante è come questo progetto si inserisca dentro una logica di
lavoro anti-oppressivo perché partecipato, dove esperti per esperienza hanno ricoperto
un ruolo attivo, importante e riconosciuto.
Sicuramente questo non è stato un percorso facile, gli operatori si aspettavano da noi
un’idea più definita all’inizio, ma trovo che questo sia impossibile quando si lavora con
le persone e con il loro vivere. Il principio dell’indeterminazione all’inizio spaventa,
l’incertezza di “non poter prevedere” ha spaventato anche me all’inizio, ma forse
bisogna essere in grado di “stare dentro” a questa indeterminazione, perché solo così è
possibile a mio avviso creare progetti partecipati fin dall’inizio.
Nelle fasi iniziali però è capitato che anche gli esperti per esperienza non fossero
abituati a prendere decisioni, ad avere loro la prima parola; non perché questo alle
108
persone non piaccia, anzi, solo che spesso questo non avviene e le persone perdono il
loro empowerment che li porta a volte a non prendere delle decisioni, soprattutto quando
vengono messe in risalto più le loro problematicità che per considerarle come risorse.
Questo aspetto l’ho osservato soprattutto all’inizio da parte di alcuni famigliari, che si
ponevano in una logica passiva e assistenzialistica verso di me, aspettando che fossi io a
fare qualcosa per loro, piuttosto che loro per sé stessi e per il gruppo. Per me è stato
invece importante spiegare che era importante che fossero loro a dire da dove volevano
iniziare, a scegliere come farlo e con che modalità affrontare la preparazione dei singoli
incontri.
4.1.1 I protagonisti del progetto CO.PRO
Il gruppo che ha collaborato con me ha subito delle variazioni, si è costruito piano
piano, grazie al passaparola, alla condivisione e grazie alle persone che mi hanno aiutata
a facilitare questo processo con la promozione del progetto.
I protagonisti e creatori degli incontri di formazioni sono stati utenti e famigliari, i
destinatari gli operatori del Dipartimento di salute mentale di Como.
Il gruppo utenti era composto all’inizio da Anna e Maria, in seguito si sono aggiunti
Oscar, Stefano, Giancarlo che hanno frequentato in maniera costante gli incontri, altri
utenti in maniera saltuaria.
Grazia, educatrice insieme ad Alessia sono state le prime due operatrici che hanno
partecipato al progetto, in seguito si sono aggiunti Alberto e Nicoletta. Questi operatori
partecipavano sia alle riunioni preparatorie che alla formazione vera e propria come
discenti della formazione.
Per quanto riguarda invece il gruppo famigliari, ci sono Tiziano e Fulvia, una coppia
che fin dall’inizio hanno contribuito attivamente, in maniera molto importante a
CO.PRO. Delfo, è così che vuole farsi chiamare, è stata un’altra risorsa importante nel
gruppo insieme a Claudio, Baldo e Giuliana, tutti e tre famigliari e appartenenti
all’associazione La Mongolfiera.
Il gruppo si è formato piano piano, il segreto penso sia stato il concordare con loro,
partendo dalla loro disponibilità, un giorno fisso nel quale trovarci, (martedì pomeriggio
per i famigliari e il giovedì per il gruppo utenti), questo veniva anticipato sempre da una
109
mia email dove ricordavo l’appuntamento, rimarcando il luogo e la data, questo aspetto
vale per entrambi i gruppi.
L’aspetto caratteristico di questo gruppo è stato che il ruolo attribuito fino a quel
momento ad ogni componente è andato piano piano scemando grazie alla relazione alla
pari (partnership), che ha permesso di percepire gli altri come collaboratori e non più
come operatori, utenti o famigliari.
Questo è un elemento che è emerso in più occasioni, nato spontaneamente che però ha
permesso di migliorare la relazione tra esperti per esperienza e gli esperti tecnici.
I destinatari della formazione Pillole di Recovery, erano assistenti sociali, medici
psichiatri, educatori, infermieri e operatori socio sanitari (OSS), per un totale di 25
operatori.
La scelta del nome della formazione è stata decisa insieme, il termine “pillola”
nell’immaginario del gruppo era quello di poter dare dei piccoli spunti di riflessione
senza caricare di troppe nozioni tecniche la formazione, ma piuttosto di vissuti legati
all’esperienza. Di Recovery perché la modalità con la quale è avvenuta questa
formazione segue molto il paradigma della Recovery.
4.1.2 I quattro incontri di formazione
Il ciclo di formazione dal nome “Pillole di Recovery” è stato suddiviso in quattro
incontri.
Il primo incontro di formazione si è tenuto il 29 marzo 2017, dove è stato inizialmente
distribuito un questionario nel quale si chiedevano delle informazioni di carattere
generale sulla conoscenza di alcune temi che sarebbero poi stati affrontati nella lezione
e al tempo stesso sulla loro percezione rispetto al valore del coinvolgimento di utenti e
famigliari sia nel percorso di cura che all’interno del servizio.
In seguito la lezione è stata suddivisa in due parti: la prima parte focalizzata sul tema
della Recovery, partendo dalle origini, i paradigmi, cosa promuove e cosa significa per i
servizi lavorare nell’ottica della Recovery.
La seconda parte invece ha visto come argomento centrale la partecipazione di utenti e
famigliari all’interno dei servizi di salute mentale, attraverso l’analisi di alcuni modelli
(Hart, Wilcox, Folgheraiter) nella quale si sottolinea come la partecipazione non sia solo
una consultazione o un proporre qualcosa da parte dagli operatori, ma sono ben loro a
contribuire la realizzazione di qualcosa che parte da un’iniziativa proposta da esperti per
esperienza.110
Il secondo incontro ha visto come formatori i famigliari in data 5 marzo 2017. All’inizio
è stato consegnato un questionario con alcune domande, a risposta chiusa, nel quale
venivano date 3 opzioni di risposta (si, no, a volte). I dati di questi questionari sono stati
poi presentati all’ultimo incontro.
La lezione è stata suddivisa in più parti, nella prima parte ci si è focalizzati
principalmente sulla conoscenza esperienziale dei famigliari, per poi chiedere agli
operatori di riflettere su alcune tematiche, cercando riportare brevemente le loro
considerazioni, e delle possibili proposte da fare, che vedano il coinvolgimento attivo
della figura del famigliare.
Le tematiche proposte sulle quali lavorare sono state: difficoltà nell’incontrare i
famigliari, collaborazione con i famigliari (criticità e aspetti positivi), accoglienza,
informazione, aiuto dei famigliari in difficoltà, inclusione sociale.
I gruppi si sono suddivisi in gruppi, cercando di avere al loro interno un rappresentante
di ogni professione (una sorta di equipe) in modo da avere anche punti di vista diversi e
per un confronto maggiore.
Avevano circa 20 minuti di tempo per lavorare e poi ogni gruppo ha presentato un
resoconto su ciò che è emerso nel gruppo e facendo delle proposte concrete su come si
potrebbe migliorare l’elemento analizzato. Anche questo lavorò è stato poi presentato in
maniera sintetica nell’ultimo incontro.
Il terzo incontro ha visto come protagonisti gli utenti, i quali hanno portato la Recovery
dal loro punto di vista, il lavoro svolto durante i 20 incontri fatti di preparazione, gli
elementi emersi dai brainstorming fatti, la figura dell’esperto per esperienza con aspetti
positivi e criticità legate anche al territorio comasco.
In questo incontro è stato inoltre presentato un video che racconta la vita di Patricia
Deegan attraverso un monologo fatto da un’attrice, Francesca Mainetti. Viene
raccontato il percorso di Recovery vissuto da Pat, un utente dei servizi di salute mentale,
molto attiva a livello internazionale per la promozione della Recovery e della
partecipazione attiva di utenti e famigliari nella salute mentale.
Questo video insieme ad una riflessione portata da Anna ha colpito alcuni operatori, che
a fine incontro si sono complimentati sia con lei per com’è stato affrontato questo
incontro di formazione.
111
L’ultimo incontro di formazione si è tenuto in data 8 giugno 2017, ha visto protagonisti
sia gli utenti, famigliari e operatori. Il luogo rispetto agli altri incontri è stato diverso
perché abbiamo utilizzato la biblioteca - sala convegni dell’ospedale. Durante questo
ultimo incontro hanno partecipato sia la responsabile del DSM di Como, psichiatra che
anche il capo dei tre Dipartimenti nella zona del Comasco (Como, Cantù e Appiano).
All’inizio ho distribuito lo stesso questionario consegnato al primo incontro di
formazione, ho creato anche un questionario per i miei partner di lavoro, per
comprendere se davvero si sono sentiti partecipi del progetto, coinvolti e quanto poi il
loro punto di vista sia realmente emerso durante la preparazione delle lezioni. I risultati
ottenuti da questi questionari rappresentano per me un punto molto importante, in
quanto ho avuto la possibilità di avere per iscritto le loro sensazioni, consigli e pareri sul
lavoro svolto durante tutto questo periodo.
Ho pensato che il questionario anonimo potesse rappresentare un buon modo per la
raccolta dei dati, confronto ad altri strumenti, perché ci tenevo che riportassero anche le
criticità riscontrate, essendo il questionario anonimo, hanno avuto la possibilità di poter
esprimere in piena libertà il loro pensiero.
Una volta raccolto il questionario, è iniziata la lezione di formazione, che ha visto una
brevissima introduzione fatta da me per racchiudere tutto il lavoro svolto in questi mesi,
in seguito l’intervento di Maria, che si è fatta portavoce del gruppo utenti, riportando il
loro percorso, descrivendo anche quali sono stati i bisogni emersi, e cosa loro come
gruppo si sentivano di proporre al Dipartimento come possibile prosecuzione di questo
progetto.
Dopo circa mezz’ora Maria ha passato la parola a Tiziano che si è fatto portavoce del
gruppo famigliari, riportando i dati ottenuti dai questionari somministrati agli operatori
da parte dei famigliari ( all’incontro di marzo) dai quali sono emersi dei risultati curiosi,
che valeva la pena di riportare e ai quali dedicare anche uno spazio di scambio; inoltre
anche i famigliari hanno creato alcune slides dove hanno racchiuso i vari lavori di
gruppo fatti dagli operatori nell’incontro tenuto da loro nei mesi precedenti, e
successivamente le loro proposte, di come poter proseguire questo percorso di co-
produzione.
In seguito, il gruppo di utenti e famigliari hanno poi creato qualche slide comune dove
hanno riportato la volontà di costituire un tavolo tecnico composto da esperti per
esperienza e tecnici che si dedichi a lavorare nell’ottica della co-produzione. In seguito
abbiamo lasciato la possibilità di confronto tra tutti i presenti alla formazione. È stato un
112
momento molto importante nel quale molti operatori hanno preso la parola e si è creato
un clima tale da permettere un dibattito molto costruttivo, per poi arrivare alla fine a
definire delle prime azioni dalle quali partire per andare avanti.
Vari utenti e famigliari sono intervenuti confrontandosi sia con la responsabile che con
il dirigente definendo insieme i passi da fare, e decidendo insieme le prossime azioni da
fare.
Questo spazio di confronto è durato circa un’ora e ha permesso a tutte le persone che
hanno preso parola di poter esprimere il proprio punti di vista e portare delle ipotesi
concrete d’azioni da fare, in vista dei prossimi mesi.
Sicuramente ha rappresentato una buona conclusione di questo percorso, permettendo a
mio avviso di sperimentare un forte empowerment, uno scambio alla pari e una grande
partecipazione attraverso il dialogo e il confronto
Durante tutti gli incontri di preparazione c’era un clima abbastanza tranquillo, che ha
favorito l’esposizione delle lezioni, al tempo stesso era evidente da una parte l’apertura
nel comprendere e conoscere meglio alcuni aspetti trattati, in altre occasioni invece c’è
una chiusura e irrigidimento verso alcuni pezzi di lezione.
Una sensazione percepita da alcuni dei formatori, è stata la sensazione alcuni operatori
non ascoltassero e non fossero interessati ad andare oltre alla visione tradizionalista del
lavoro sanitario, manifestando nei confronti dei formatori un atteggiamento di chiusura
come ad esempio le braccia incrociate, accenni negativi con la testa, ecc..
Al tempo stesso però, coloro che erano già sensibili ad alcune tematiche fin dall’inizio,
durante il corso si sono rivelati molto interessati e incuriositi dall’esposizione dei
famigliari e utenti.
In seguito si è sentito il bisogno di istituire un tavolo tecnico che si dedicasse a lavorare
insieme, progettare, agire, monitorare e valutare, dove non avviene una distinzione di
ruoli, ma bensì un lavoro in partnership.
4.1.3 Uno sguardo osservativo sul progetto
Durante l’intero percorso le persone si sono sentite coinvolte, anche se all’inizio
soprattutto i famigliari erano diffidenti e si aspettavano da parte mia un atteggiamento
più direttivo e organizzato, facevano fatica a capire il potere che loro avevano e la che la
presa di decisione spettava a loro.
113
È stato proprio questo uno degli elementi più belli e utili del progetto, lasciare spazio a
loro e a quello che loro avevano da dire, senza programmare niente e cercando di non
dare niente per scontato.
Soprattutto all’inizio l’interfacciarsi con il personale sanitario non è risultato sempre
facile, soprattutto per una diffidenza iniziale data l’astrattezza del progetto, ritenuto
“sfumato” e poco concreto. Ho cercato così di spiegare che questa astrattezza faceva
parte dell’indeterminazione, e fa parte di una metodologia di lavoro relazionale. Il
cammino sarebbe stato tracciato da tutti coloro che andando avanti, insieme a me si
sarebbero rivelati interessati a riflettere insieme.
La costanza nella partecipazione da entrambi gruppi rappresenta a mio avviso un aspetto
importante sul quale riflettere, essendo questo un percorso lungo e fatto da circa venti
incontri, della durata minima di due ore, la presenza a tutti gli incontri sia degli utenti
che dei famigliari, è a mio avviso un elemento che non può non essere preso in
considerazione.
Le persone che hanno partecipato al progetto dicono di essersi sentirsi liberi di aver
espresso la loro idea, e soprattutto di aver colto che i loro pensieri e parola avevano un
potere nelle decisioni prese successivamente. Le persone ritengono che le riflessioni
fatte sono state prese in considerazione e trasformate in azioni finalizzate al
miglioramento del servizio.
Penso che questo progetto abbia permesso di dare uno spazio di partecipazione vera a
utenti e famigliari, partendo dal riconoscere le loro conoscenze esperienziali. Ha
permesso a tutti noi di sperimentarci e di apprendere, prima di tutto ascoltando il punto
di vista dell’altro e soprattutto favorendo lo scambio tra le parti, sviluppando un inizio
di collaborazione. È stato proprio su questo aspetto che tutto il gruppo guida si è reso
conto che vorrebbe andare oltre a quello che è stato fatto, facendo in modo che questo
percorso non si concluda con la fine della formazione. L’obbiettivo iniziale era quello di
costituire un tavolo tecnico composto sia da persone che detengono un sapere
esperienziale, sia da coloro che detengono il sapere tecnico, facendo in modo di
diminuire la distanza tra ciò di cui le persone hanno bisogno e ciò che il servizio può
offrire, nell’ottica della co-produzione.
Questo è l’obbiettivo espresso da tutti i componenti del gruppo che ha lavorato al
progetto CO.PRO, nonostante le difficoltà e le fatiche che questo comporta, sicuramente
la fusione di punti di vista è più ricco e ha un maggior senso di appartenenza, rispetto ad
un lavoro direttivo e calato dall’alto (top down).
114
Il poter condividere la propria idea, e vedere che questa viene presa in considerazione
da un rinforzo positivo alla persona, sia di fiducia verso le persone del gruppo guida, sia
verso sé stessa e aumentando anche il capitale sociale di quel tavolo tecnico che è lì
perché crede di poter contare sugli altri, aumentando anche la fiducia verso i servizi.
Concludendo attraverso l’osservazione ho potuto constatare che questi incontri hanno
permesso la presa di parola di persone che inizialmente si erano mostrate più in
difficoltà nel farlo. La fiducia verso i servizi è aumentata in quanto gli utenti e
famigliari si sono sentiti ascoltati e hanno constatato che ciò che hanno detto è stato
tenuto in considerazione per il miglioramento dei servizi.
4.1.4 La prosecuzione del progetto Dopo un percorso che è durato un intero anno nel quale utenti, famigliari e operatori
hanno lavorato in partnership il gruppo insieme ad altri operatori, utenti e famigliari ha
sentito la necessità di proseguire con questo lavoro, dandosi delle finalità nuove e
creando dei progetti che seguano la metodologia relazionale, favorendo la
partecipazione di esperti per esperienza fin dall’inizio nel miglioramento dei servizi di
salute mentale di Como.
Il primo passo è stato quello di costituire un gruppo di lavoro composto da diversi
saperi, sia esperienziali che tecnici che si possa dedicare costantemente al
miglioramento dei servizi e alla creazione di nuovi progetti nell’ottica della co-
produzione.
Questa finalità è stata raggiunta, il gruppo si è costituito ed è composto da famigliari,
utenti un educatore, due infermiere, un medico psichiatra e responsabile della gestione
dei servizi psichiatrici territoriali e la sottoscritta.
In ogni incontro si parla e discute sui punti ritenuti importanti dalle parti partendo dalla
condivisione dell’esperienza di ognuno.
Questo è un lavoro che richiede tempo e fatica, legata principalmente ad una difficoltà
di linguaggio comune che spesso rende difficile la comprensione. È un aspetto sul quale
bisogna lavorare attraverso lo scambio partendo dalla propria realtà, forma di
comunicazione, cercando di arrivare ad un linguaggio “comune” riconosciuto dal
gruppo.
Nonostante queste difficoltà però, il gruppo ha già iniziato a lavorare su due aspetti
fondamentali che ritiene utile portare avanti: la formazione e l’accoglienza all’interno
dei servizi di salute mentale, nello specifico nel Centro Psicosociale.
115
Il gruppo dopo vari incontri ha deciso di ipotizzare un progetto che veda come finalità
ultima l’inserimento nel Centro Psicosociale di utenti e famigliari esperti che possano
contribuire ad aiutare loro pari che giungono al servizio. Per fate in modo che questo
avvenga si è ritenuto importante che questi utenti e famigliari vengano formati su alcune
tematiche utili per il loro futuro ruolo, ma contemporaneamente creare una formazione
congiunta che veda utenti, famigliari e operatori formarsi reciprocamente partendo dalla
loro esperienza. Questo aspetto rappresenta per tutti una priorità in quanto ritengono
necessario una “contaminazione di saperi reciproca” che diminuisca la distanza tra
esperti per esperienza e esperti tecnici. Questo passaggio inoltre potrebbe favorire il
riconoscimento del valore aggiunto e del ruolo che utenti e famigliari possono dare al
servizio, partendo dalla loro esperienza.
Concludendo, questo è un lavoro che richiede tempo e spazi di riflessione e
rielaborazione. Ad oggi tutti lavorano intensamente, favorendo la vera partecipazione da
tutte e tre le parti. Ancora più di prima, la distinzione di ruoli sta scomparendo lasciando
spazio alle proposte, parole di ognuno. Questo aspetto comporta una fatica, riuscire a
scindere il contenuto di quello che viene riportato dal ruolo che la persona fuori da quel
tavolo ricopre e la capacità di riuscire a cogliere il punto di vista dell’altro nonostante a
volte questo sia diverso dal proprio, dando vita ad una nuova idea che tenga contro di
tutte le riflessioni portate dai diversi componenti del gruppo.
Per fare questo è importante l’ascolto, un ascolto che vada oltre alla fretta di dover dire
la propria quanto piuttosto a saper cogliere il contenuto di quello che l’altra persona sta
dicendo.
4.2 Una ricerca valutativa su CO.PROIn questo paragrafo verranno riportate le domande di ricerca che hanno rappresentato il
punto di partenza di questo lavoro, la descrizione dello strumento utilizzato, il campione
di riferimento, come sono stati analizzati i dati e le informazioni ottenute dalle risposte
di utenti, famigliari e operatori. In seguito questi sono stati confrontati con le altre
esperienze di coinvolgimento nella formazione di operatori o studenti presenti sia a
livello nazionale che internazionale.
4.2.1 Domande di ricerca
116
Il progetto CO.PRO ha visto la formazione in servizio di operatori dove i formatori
erano esperti per esperienza. Questi partendo dalla loro esperienza hanno creato delle
lezioni rivolte agli operatori del servizio di salute mentale di Como. Gli operatori che
hanno partecipato a questa formazione ricevevano 8 crediti ECM. (Si veda allegato n.3).
Le domande di ricerca che mi hanno spinto poi alla stesura di un questionario sono state
due, per due diversi campioni.
La prima è quella che riguarda gli operatori, destinatari della formazione. Con il
questionario era importante valutare che impatto questa ciclo di incontri formativi ha
avuto sul linguaggio, sulla comprensione e l’acquisizione di nuovi concetti da parte
degli operatori avendo frequentato una formazione fatta da utenti e famigliari. È stato
per me importante capire quanto questa formazione ha “sensibilizzato” e promosso un
linguaggio più vicino a quello degli esperti per esperienza, e quanto efficace è stato il
contenuto delle lezioni per gli operatori. Per fare questo ho creato un questionario che
ho consegnato il giorno 29 marzo 2017 all’inizio della formazione e l’8 giugno 2017
durante l’ultimo incontro. Il questionario era il medesimo e anonimo.
La seconda domanda di ricerca per la stesura di un secondo questionario indirizzato
invece a utenti e famigliari era quella di comprendere se davvero c’è stato un livello alto
di partecipazione, facendo riferimento all’intensità (Hart 1992 e Wilcox 1994); come
questa è stata vissuta dagli esperti per esperienza. In questo caso il questionario è stato
somministrato solo alla fine, perché questa riflessione è nata in itinere durante la
formazione.
4.2.2 Strumenti
In entrambi i casi è stato utilizzato lo strumento del questionario, nel quale erano
presenti sia domande chiuse che domande aperte. (si veda allegati n.1 e 2) Spesso una
domanda chiusa era seguita da una domanda aperta che richiedeva di approfondire la
tematica della domanda precedente.
Ho scelto lo strumento del questionario in forma anonima perché ho ritenuto importante
dare prima di tutto del tempo per le risposte e le varie riflessioni e al tempo stesso ho
pensato potesse essere più efficace il questionario come strumento per rispondere a
questo problema. Soprattutto per utenti e famigliari avendo istaurato con me nell’arco di
un anno, un rapporto di fiducia consistente, temevo che una possibile intervista faccia a
faccia potesse condizionare le risposte, soprattutto per quanto riguarda la parte delle
criticità. 117
Inoltre il questionario mi ha permesso di somministrarlo nello stesso momento a più
persone contemporaneamente. I questionari per gli operatori si concentrano di più sui
contenuti delle varie lezioni, su quello che è stato affrontato durante le lezioni e sul tipo
di linguaggio utilizzato.
I questionari destinati agli operatori sono stati somministrati all’inizio e alla fine della
formazione, il questionario era uguale in entrambi i momenti.
Il questionario destinato a utenti e famigliari invece, si focalizza su quanta
partecipazione effettiva c’è stata, ma soprattutto sulla loro percezione di partecipazione
(es. come ti sei sentito durante gli incontri di preparazione; pensi si sia tenuto conto del
tuo punto di vista nella creazione delle lezioni di formazione?...).
Nella stesura del questionario ho cercato di tenere in considerazione il linguaggio
utilizzato da utenti e famigliari duranti gli incontri di preparazione, chiedendo a volte di
esprimere con parole proprie aspetti del progetto (ad es. in una domanda ho chiesto di
provare ad utilizzare parole proprie per descrivere il progetto). I questionari sono stati
somministrati sia a utenti che famigliari che hanno preso parte al progetto della durata di
un intero anno di progettazione, attuazione e monitoraggio. Il questionario è stato
somministrato da me all’ultimo incontro di formazione, in data 8 giugno 2016 con
l’intento di verificare se davvero è avvenuta una vera partecipazione, come questa è
stata percepita dai protagonisti analizzando sia gli aspetti positivi e forti del progetto che
le criticità. Questo questionario nasce dal mio bisogno di comprendere nel profondo se
il mio intento di favorire partecipazione all’interno del Servizio di Salute Mentale di
Como nello spazio che riguarda la formazione sia davvero avvenuto e come questo è
stato vissuto dai protagonisti. Ho scelto la forma del questionario, perché ho ritenuto
fosse la modalità migliore in quanto è anonimo e ha permesso alle persone di poter
concedersi del tempo per rispondere liberamente e soprattutto poter scrivere i propri
pensieri nero su bianco, elemento molto importante e sottolineato più volte dagli utenti
aspetto a lor favore. Avendo istaurato con tutti i miei partner di lavoro un rapporto di
fiducia solido e duraturo nel tempo, avevo paura che utilizzando uno strumento come
l’intervista potesse portate le persone a non esprimere totalmente il proprio parere,
soprattutto rispetto alle criticità. Per questo motivo ho scelto la forma scritta tramite
questionario anonimo.
118
In questo caso non avrò la possibilità di fare un confronto tra questionari somministrati
prima della formazione e dopo, ma bensì delle informazioni ottenute solo a fine
formazione.
4.2.3 Campione
Il campione al quale è stato somministrato il questionario degli operatori è composto da
diverse figure professionali sia sanitarie che sociali. Nello specifico il campione del
questionario iniziale è composto da 20 operatori: di cui 10 infermieri, 1 medico
psichiatra, 7 educatori e 2 operatori socio sanitari.
Il questionario finale ha avuto un campione di 14 operatori totali, di cui 5 educatori, un
assistente sociale, 6 infermieri e un operatore socio sanitario. Un operatore non ha
risposto alla domanda riguardo alla propria formazione.
I campioni iniziali e finali non coincidono per via delle alcune assenze. Questo corso di
formazione era strutturato su quattro lezioni con l’obbligo di frequentare almeno il 75%,
la maggior parte degli operatori ne hanno saltata una, in particolare l’ultima per questo
motivo i dati tra il primo e l’ultima incontro di formazione non coincidono.
Per quanto riguarda invece il secondo questionario destinato a utenti e famigliari il
campione era composto da 11 persone.
4.3 Analisi delle informazioni
Le risposte date nei questionari sono state analizzate nel seguente modo: per le domande
chiuse, alle quali si poteva dare solo una risposta affermativa o negativa sono state
analizzate le frequenze.
Per quanto riguarda le domande aperte, sono state riscritte all’interno di una tabella e in
seguito si è fatta un’analisi del contenuto delle risposte, cercando delle tematiche
comuni e ricorrenti nelle varie risposte.
4.4 Risultati
4.4.1 Le risposte degli operatori
I questionari destinati agli operatori comprendevano varie tematiche e aspetti della
formazione. In primis, l’utilizzo del linguaggio tra i questionari svolti prima e dopo è
119
cambiato, gli operatori infatti hanno usato una terminologia più vicina e simile a quella
utilizzata da utenti e famigliari nei questionari post formazione rispetto all’inizio.
Alcune risposte invece sono simili in entrambi i questionari fin dall’inizio.
Per quanto riguarda la definizione di Recovery, “inteso come processo, profondamente
personale e unico, di cambiamento di atteggiamenti, valori, sentimenti, obbiettivi,
capacità e ruoli. È un modo di vivere una vita soddisfacente, piena di speranza e in
grado di dare un contributo agli altri, malgrado le limitazioni causate dalla malattia.
Significa sviluppare un senso e uno scopo nuovo nella propria vita, nel momento in cui
la persona riesce a evolvere al di là degli effetti catastrofici della malattia stessa.”
(Anthony, 1993, p.527)
Spesso nei questionari è stato usato il termine “recupero, processo e ripresa delle
funzionalità sociale del paziente.” Secondo i questionari iniziali la Recovery ha una
stretta correlazione con la ripresa e il miglioramento dell’aspetto funzionale della
persona.
Un altro termine spesso riportato è processo, intenso come processo di cambiamento, di
recupero e un modo di vivere in cui la persona si riappropria della fiducia in sé stessa.
Un modo di vivere in cui si sviluppano aspettative positive. Un altro aspetto importante
è il ruolo che l’utente ricopre nel percorso di Recovery. Un operatore infatti riporta che
il “paziente è partecipe e formulatore in primis del proprio progetto di cura/ di vita.
Paziente che possiede gli strumenti e strategie per essere protagonista della promozione
della propria salute, integrandosi con la rete costituita da operatori, famigliari e gruppo.
La persona intesa come risorsa.”
Nei questionari finali riguardo a questa domanda alcuni operatori hanno riportato che il
percorso di Recovery rappresenta un percorso di cura condiviso e concordato e inteso
anche come “recupero del funzionamento del paziente nella valorizzazione massima
delle sue potenzialità e risorse, favorendo il suo empowerment.”
Un elemento emerso in seguito alla formazione che è stato spesso oggetto di lezione
durante gli incontri di formazione è Recovery inteso come percorso di cura, di
guarigione come ricostruzione della propria vita nonostante la presenza della patologia;
questa descrizione la si può ricollegare al concetto di prendersi cura della persona che
vada oltre all’aspetto del curing, ma inteso come care.
L’importanza dell’aspetto sociale della persona sul percorso di cura e quanto questo
incida e un altro degli elementi emersi. Molti operatori hanno riportato la visione di 120
utente inserito in un sistema di relazioni che devono essere tenute in considerazione in
quanto “la cura è un processo che mira alla guarigione e non può prescindere da un
soddisfacente funzionamento sociale.” (risposta emersa in un questionario) L’aspetto
sociale infatti secondo molti operatori è uno degli elementi che incide sul benessere o
meno psicologico della persona.
Nel questionario finali alcuni operatori hanno sottolineato come il creare una “rete
soddisfacente” attorno alla persona possa rappresentare una spinta positiva al recupero.
È importante infatti secondo alcuni lavorare in un’ottica di modello di salute bio-psico-
sociale, che rappresenta una visione olistica della persona e non vedere l’utente come un
soggetto composto da diversi aspetti slegati tra loro. Un altro operatore nello specifico
sostiene che “il percorso di cura deve essere legato all’ambiente di vita dell’utente,
cercando di rimanere nel sociale”, questo ci porta a riflettere su quanto sia importante
avere una visione della persona inserita nel sociale e non come parte distaccata,
sottolineando l’influenza che l’ambiente di vita, la comunità di appartenenza e la rete
presente ha sulla persona e sul suo benessere.
Riguardante la rete presente attorno alla persona, una domanda nello specifico cercava
di verificare la visione che gli operatori avevamo riguardo alla rete famigliare e se
questa veniva percepita più come fatica o come risorsa. Quasi tutti sia nel questionario
iniziale che in quello finale hanno una visione positiva e cioè di risorsa rispetto alla
figura dei famigliari. Alcuni operatori, nel questionario finale in maniera più marcata (8
persone su 14) sostengono che per loro rappresentano sia una fatica che una risorsa e
che questo varia dalla soggettività del caso. Una persona in entrambi i casi ha riportato
che per lei il famigliare rappresenta una fatica perché spesso pretende una guarigione
che spesso è difficile da raggiungere e questo può rappresentare una difficoltà nel
percorso di cura. La maggior parte degli operatori però hanno una visione positiva e
sostengono che l’utente bisognoso di cura ha necessariamente bisogno della sua rete
famigliare, che rappresenti un sostengo per la persona. Inoltre la famiglia viene vista
anche come colei che può favorire la conoscenza delle problematiche e la
comunicazione con il paziente e al tempo stesso concorrono alla sua riabilitazione. Un
operatore nello specifico dice che “i famigliari rappresentano una risorsa perché è
possibile che collaborino alla strategia di cura, rendendola più efficace e al tempo stesso
perché potrebbero portare ulteriori bisogni e difficoltà.” Questa visione di famigliare
come risorsa fa emergere anche un possibile punto di vista diverso che si può
121
aggiungere a quello manifestato dall’utente e dagli operatori che rende più completo e
mirato il percorso di cura della persona. Il famigliare però per alcuni operatori non
rappresenta solo un sostegno all’utente ma anche a loro. In alcuni questionari finali
infatti un operatore sostiene che “la famiglia rappresenta una risorsa perché diventa un
sostegno sia per l’utente durante il suo percorso di cura, sia per l’operatore per
instaurare una relazione significativa con l’utente.” Da questa riflessione si può cogliere
quanto la famiglia intesa come risorsa può poi apportare dei benefici non solo all’utente
ma anche alla realtà dei servizi e quella che circonda la persona in difficoltà. Una buona
relazione tra la rete dell’utente e il servizio crea benessere a quest’ultimo ma al tempo
stesso aumenta la fiducia e collaborazione con il servizio. Un operatore nel questionario
finale riporta che i famigliari rappresentano per lui una risorsa perché li riconosce come
esperti per esperienza. Altri operatori hanno esposto la questione della soggettività, e
che a volte è difficile relazionarsi con loro, in “quanto non condividono progetti oppure
non accettano la malattia e pretendono che il percorso di cura riporti il loro famigliare
nella situazione antecedente alla malattia.”
Un’informazione interessante emersa tra il questionario iniziale e quello finale è alla
domanda “Ritieni che la lettura che il paziente dà della sua situazione possa
rappresentare un elemento importante per la definizione del percorso di cura?” ci sono
state dei cambiamenti per quanto riguarda le risposte. Mentre nel questionario iniziale la
maggior parte erano favorevoli dando risposte positive, ci sono stati due operatori che
hanno dichiarato che non sempre questo può essere considerato vero. Nel questionario
di uscita tutti gli operatori sostengono che la visione che l’utente dà di sé stesso è un
elemento importante e da tenere in considerazione nella definizione del percorso di
cura. Attraverso il punto di vista della persona si può capire meglio quali sono i suoi
bisogni e permette alla persona di sentirsi coinvolto e non vedersi solo come
destinatario di prestazioni, ma contribuire a realizzarle. Un operatore ha risposto a
questionario finale scrivendo che gli utenti sono “esperti della loro esperienza e artefici
della loro Recovery.”
Dai questionari analizzati, c’è stato un incremento per quanto riguarda la conoscenza di
servizi che lavorano nell’ottica della Recovery, della realtà del Fare Assieme nato nel
Centro di Salute Mentale di Trento, sulla figura degli Utenti e Familiari Esperti e del
loro ruolo. Nei questionari finali si evidenzia infatti una conoscenza maggiore, dove
alcuni operatori riportano delle riflessioni positive in merito. Un operatore riguardo alla
122
realtà del Fare Assieme dice: “realtà come queste sono fondamentali e compartecipano
nel miglioramento della salute” un altro operatore sostiene che sarebbe utile incontrarli
da vicino per apprendere di più. Grazie alle lezioni di formazione si è cercato di fare
maggiore chiarezza su alcune realtà che lavorano nell’ottica della coproduzione, dove
utenti e famigliari hanno un ruolo fondamentale sia a livello di caso ma anche di sistema
(inteso come servizio). Facendo un confronto tra i questionari compilati prima della
formazione e dopo, ho potuto constatare che una maggiore conoscenza delle realtà, di
come funzionano e dei diversi ruoli che esperti per esperienza hanno all’interno dei
servizi, favorisce anche una maggior riconoscimento del ruolo. Spesso alcuni pregiudizi
sono dovuti da una non conoscenza piuttosto che da una visione vera e propria degli
operatori. Conoscere più da vicino realtà che lavorano in maniera partecipata ha
permesso ad alcuni operatori del Centro Psicosociale di Como di riconoscere agli utenti
un ruolo che va oltre a quello di semplice utente, ma bensì di collaboratore e risorsa. Un
operatore in merito al contributo che l’esperto per esperienza può dare all’interno del
servizio dice: “Penso che siano un valido supporto per il miglioramento delle condizioni
di salute” un altro operatore sostiene che gli esperti per esperienza sono fondamentali ed
è importante che compartecipino al miglioramento della salute. Da queste risposte si
può cogliere un’apertura del servizio verso realtà che lavorano nell’ottica partecipativa,
valorizzandone più le risorse rispetto alle criticità. Ho colto inoltre durante le lezioni di
formazione, una forte curiosità nel conoscere altre realtà che lavorano nell’ottica
partecipativa, spesso avere un modello di servizio che si presta a valorizzare utenti e
famigliari esperti, ottenendo risultati positivi permette ad altri servizi di trarne spunto
per iniziare a lavorare partendo da piccole azioni. Partendo da questa riflessione infatti,
a fine ottobre partiranno tre pulmini di operatori, utenti e famigliari diretto al Centro di
Salute Mentale di Trento per osservare la realtà del Fare Assieme e gli altri progetti
attivi sul territorio.
In ultimo il questionario destinato agli operatori concludeva con una domanda
incentrata sul significato per ogni operatore della partecipazione di utenti e famigliari
all’interno del servizio. In entrambi questionari (precedente e susseguente alla
formazione) la partecipazione viene intesa da alcuni operatori come collaborazione per
un migliore percorso di cura, ma non solo, anche nel comprendere meglio i bisogni e in
seguito “calibrare l’intervento del servizio migliorandone l’efficacia.” La partecipazione
di utenti e famigliari all’interno dei servizi spesso viene associata all’idea di
miglioramento di questi, grazie ad una risposta più mirata e adeguata.123
In un questionario antecedente alla formazione un operatore riporta la partecipazione
come fatica, dovuta spesso dalla non consapevolezza da parte della famiglia della
patologia che l’utente ha, creando ostacoli al percorso di cura. La non consapevolezza
della patologia viene esplicitata più volte come una fatica da parte degli operatori nel
portare avanti un percorso di cura e nell’intraprendere un percorso partecipativo. Al
tempo stesso un altro operatore sostiene invece che la partecipazione viene intesa come
“poter attingere a risorse preziose sia nei momenti di benessere che nelle acuzie. Credo
fermamente che sia fondamentale lavorare insieme nel perseguire un obbiettivo comune
e che un buon risultato dipenda da condividere e non dividere”; questo aspetto del non
dividere, ma prima di tutto condividere fa emergere una non distinzione di ruoli ma
bensì un lavoro alla pari, una collaborazione e lavoro in partnership. La partecipazione
viene intesa anche come un lavoro di equipe più allargato, facendo in modo che il
percorso di cura e quello di vita non siano mondi separati. Questa riflessione di un
operatore sottolinea l’importanza della care nel percorso di cura della persona e di come
l’aspetto terapeutico non può scindere dall’aspetto sociale della persona e del prendersi
cura, inteso come gestire il vivere nonostante la presenza della patologia.
Nei questionari finali, riguardo a questa domanda alcuni operatori hanno sottolineato
l’importanza della collaborazione e condivisione per il raggiungimento di un benessere
maggiore dell’utente ma al tempo stesso è emerso un elemento importante; la
partecipazione non è visto solo come un beneficio per l’utente e famigliare, ma anche
per il servizio in quanto arricchisce il bagaglio formativo degli operatori; una risorsa
perché permette di conoscere vari punti di vista su cui poter lavorare insieme.
La partecipazione di utenti e famigliari può quindi incidere sia a livello di singolo caso
favorendo il percorso della singola persona e famiglia, sia livello di sistema quando la
partecipazione di esperti per esperienza all’interno del servizio apporta dei cambiamenti
positivi nella relazione operatori/esperti per esperienza. Comporta inoltre un
miglioramento di alcuni servizi, delle risposte più adeguate ai bisogni riportati dagli
utenti e i loro famigliari. Questo avviene attraverso l’ascolto del punto di vista della
persona e della sua rete e la creazione di un percorso di cura condiviso Un operatore in
merito a questo ha affermato che “la partecipazione di utenti e famigliari all’interno del
servizio è intesa come la formazione di “politiche diverse”, grazie a questa riflessione
possiamo cogliere come il coinvolgimento di quelli che solitamente sono considerati
destinatari delle prestazioni nella formazione di queste e nel loro miglioramento
124
possano incidere a creare delle politiche diverse all’interno del servizio, che
promuovano prima di tutto la partecipazione.
Concludendo attraverso i questionari ho potuto verificare un’apertura degli operatori
verso la partecipazione attiva di utenti e famigliari all’interno dei servizi nonostante le
difficoltà e le criticità che alcuni di loro hanno esposto, c’è la volontà di mettersi in
gioco e andare oltre all’approccio tradizionale attuato già da diversi anni. Un elemento
sicuramente evidente nel questionario finale è che mentre inizialmente la partecipazione
era intesa positivamente e come beneficio per il benessere di utenti e famigliari, nei
questionari finali emerge quanto il coinvolgimento porti ad una maggiore
collaborazione all’interno dei servizi e un miglioramento dell’efficacia dei percorsi di
cura. Questo aspetto è fondamentale in quanto attribuisce alla partecipazione di utenti e
famigliari un valore aggiunto che si spinge oltre al beneficio terapeutico della
partecipazione, ma sottolinea quanto questa incida positivamente a livello di sistema.
4.4.2 Le risposte degli esperti per esperienza
Dai questionari emerge che quasi tutti si sono sentiti partecipi del progetto CO.PRO (10
persone hanno risposto positivamente, una persona non ha risposto). Le persone si sono
sentite partecipi perché vedono questo percorso come un momento nel quale fare
emergere i loro bisogni potendo contribuire tramite la loro partecipazione alla
costruzione del progetto. Alcuni hanno percepito come bello il poter pensare e agire
insieme, esperti per esperienza e operatori. Un elemento che spesso viene sottolineato è
“la possibilità di presa di parola, il poter esprimere le proprie opinioni e trovare un
interesse per quello che si dice.” (Affermazione di un esperto per esperienza). Questo ha
permesso di creare uno spazio di parola per le persone, facendo in modo però che non
rimanessero tali ma che fossero poi trasformate in azioni concrete, favorendo così un
maggiore empowerment nelle persone e aumentando la loro capacità d’azione. Una
persona sostiene che “fin dall’inizio si è sentita coinvolta nella creazione e svolgimento
prendendo decisioni, confrontandomi e collaborando.” Come abbiamo visto nei capitoli
precedenti è importante quando si parla di partecipazione, includere le persone fin
dall’inizio di un progetto, intervento o percorso, facendo sì che il loro contributo,
pensiero possa contribuire fin dalle riflessioni iniziali
Le lezioni di formazione ha avuto dei lunghi momenti di preparazione, alla domanda
“come ti sei sentito durante gli incontri di preparazione?” tutti i partecipanti hanno 125
risposto positivamente aggiungendo di essersi sentiti molto partecipi, attivi, coinvolti e
presi in considerazione. Un aspetto sottolineato è stata l’importanza dell’ascolto che
hanno ricevuto da parte del gruppo, cercando di cogliere i bisogni riportati da ogni
singola persona.
Durante le lezioni di formazione, dove invece utenti e famigliari hanno avuto un ruolo
di formatori, dichiarano di essere sentiti presi in considerazione, coinvolti, interessati e
contenti perché hanno visto interesse e partecipazione. Una persona sottolinea il suo
carico legato alla responsabilità come rappresentante del gruppo utenti nella lezione di
formazione, come elemento di crescita ma al tempo stesso di fatica. Questo elemento è
emerso anche nella bibliografia internazionale da me ricercata, dove più volte il carico
emotivo e di responsabilità, in riferimento principalmente agli utenti si presenta come
una preoccupazione da parte degli operatori nel intraprendere percorsi di partecipazione
nella formazione. (Roger e al.,2013)
Secondo le risposte date ai questionari, il percorso di CO.PRO ha rappresentato per
utenti e famigliari una possibilità concreta di collaborazione, un’opportunità nella quale
sperimentarsi e poter accrescere il loro empowerment. Un esperto per esperienza in
merito a questo dice: “questo percorso ha rappresentato per me un’occasione importante
per far conoscere le mie idee di utente rispetto al funzionamento e alle politiche e del
Dipartimento di Salute Mentale”. Questa riflessione sottolinea l’importanza che questa
persona attribuisce alla possibilità di poter esprimere la propria idea agli operatori, e
quindi un riconoscimento rispetto al sapere esperienziale che appartiene alle persone.
Duranti gli incontri di preparazione alle lezioni di formazioni era importante far
emergere il punto di vista delle persone in modo da creare una presentazione che
racchiudesse le visioni e le riflessioni di tutto il gruppo. In merito a questo tutti hanno
risposto positivamente alla domanda “pensi sia emerso il tuo punto di vista durante gli
incontri?” tutte le persone che hanno ricevuto il questionario hanno risposto
positivamente, uguale anche alla domanda successiva che chiedeva se il proprio punto
di vista poi era stato tenuto in considerazione nella creazione delle lezioni di
formazione. In merito a questo, possiamo vedere come la partecipazione avviene tramite
piccole azioni che possono però rappresentare un punto di inizio importante; partecipare
non significa solo dare spazio di parola alle persone, ma bensì tenere in considerazione
quello che viene detto da loro; in caso contrario si rischia di cadere nella trappola della
retorica di facciata.
126
Secondo i protagonisti di questa formazione i punti forti sono stati la coproduzione, la
partecipazione fin dalle fasi iniziali, la condivisione e la cooperazione. Tra i punti di
forza riportati emerge anche la possibilità di unire più punti di vista diversi, la
comprensione dell’altro e il creare assieme. Un elemento importante che è emerso nelle
riflessioni di utenti e famigliari è stato il fatto “che gli operatori hanno creduto possibile
un progetto così e che ne abbiano riconosciuto il valore. Per gli utenti questo momento
ha rappresentato un momento di confronto serio che ha dato un’opportunità per
esprimersi.” Nella descrizione fatta da un utente emerge l’aspetto del riconoscimento da
parte degli operatori del valore aggiunto che loro possono dare al servizio, e quindi
sentirsi una risorsa e di aiuto per i professionisti.
Tra le criticità riscontrate alcuni utenti e famigliari hanno riportato che alcuni operatori
durante le giornate formative si sono rivelati un po’ contrari e indispettiti, presentando
un atteggiamento di “chiusura” verso i formatori. Un elemento che ha rappresentato una
criticità fin dall’inizio e in parte è rimasta fino alla fine è la difficoltà di trovare un
linguaggio comune e comprensibile da tutti in modo da rendere più efficace i contenuti
del pensiero riportato. Questa è stata una criticità presente fin dall’inizio e ha
rappresentato il punto di inizio della riflessione del progetto CO.PRO, spesso si
attribuiva un significato diverso alla medesima parola, questo rappresentava un ostacolo
nella comunicazione rendendo difficile a volte trovare un punto di incontro. Nonostante
questo però alcuni utenti e famigliari sostengono che questo progetto sia servito per
trovare un linguaggio comprensibile da tutte le parti e al tempo stesso abbia permesso di
comunicare efficacemente i contenuti.
Dalle informazioni analizzate questo progetto ha rappresentato per le persone una
possibilità di coproduzione, di compartecipazione, con il desiderio di mettere la
persona al centro, di seguire i suoi bisogni. (Pensiero riportato da un esperto per
esperienza)
Un elemento sottolineato più volte all’interno del questionario è il desiderio che il
progetto continui, in altre forme, ma che questa metodologia di lavoro venga portata
avanti. Una persona in merito a questo dice: “sarebbe bello fare un secondo ciclo più
allargato anche ad altre realtà, un’altra persona dice: buon progetto, sicuramente da
portare avanti e magari con nuovi argomenti oppure pioneristico, all’avanguardia,
efficace, bello, da proseguire. “
127
Da tutte queste riflessioni, si coglie che tutte le persone hanno potuto contribuire
attivamente e in maniera completa alla realizzazione di una formazione, portando il loro
vissuto e il loro punto di vista rispetto al vivere o convivere con una patologia
psichiatrica. Questo ha permesso loro di andare oltre al ruolo che normalmente veniva
attribuito loro, accrescendo il loro empowerment e il loro senso di autodeterminazione.
Gli operatori a loro volta hanno ricevuto dei crediti formativi ECM in questa
formazione. Uno degli obbiettivi principali di questo progetto è stato quello di favorire
una partecipazione vera, intensa e relazionale all’interno del Dipartimento di Salute
Mentale di Como e sembra dai questionari analizzati che questo sia avvenuto. Il bisogno
di trovare un linguaggio comune è emerso fin dall’inizio ed è stato il punto di partenza
sul quale lavorare. Le risposte date da utenti e famigliari sottolineano dei miglioramenti
ma manifestano ancora il bisogno di proseguire su questa linea di lavoro, in maniera
congiunta e condivisa nella speranza di migliorare ancora di più e rendere più proficua
la comunicazione tra operatori e esperti per esperienza.
4.5 ConclusioniIn conclusione, facendo un confronto tra la letteratura da me analizzata e l’esperienza di
CO.PRO trovo dei punti comuni sui quali vale la pena soffermarsi.
Sicuramente nel progetto come nella letteratura c’era una notevole diffidenza iniziale da
parte degli operatori nel percepire come formatori gli esperti per esperienza, data anche
dalla visione tradizionalista del lavoro socio-sanitario, dove la visione sanitaria
soprattutto nell’ambito psichiatrico ha sempre avuto potere. Il cambiamento culturale di
un servizio è un processo che richiede tempo per comprendere, consapevolizzare le
persone e maturare una visione che vada oltre a quella tradizionale. Un elemento che
può agevolare questo processo è sicuramente l’apertura e l’accoglienza da parte degli
operatori di proposte che favoriscano la partecipazione di utenti e famigliari nei servizi
di salute mentale, e al tempo stesso una messa in discussione su quella che è la propria
visione rispetto alla patologia e il ruolo che attribuiscono a utenti e famigliari.
Un denominatore comune a tutte le esperienze è che il coinvolgimento di utenti e
famigliari nella formazione, permette di sviluppare un maggiore empowerment grazia
alla possibilità di presa di parola e che quelle stesse parola incidano sulla costruzione di
progetti, politiche e interventi.
128
A volte sono proprio gli operatori ha sottovalutare le capacità e le risorse che gli utenti e
famigliari possiedono, non creando così spazi e momenti che favoriscano il loro
coinvolgimento. Proprio in merito a questo all’interno del programma britannico
Developing manager for community care (Stanchina, 2014) vengono riportate delle
riflessioni da parte dei manager dove sostengono che il coinvolgimento formale degli
utenti nei corsi di formazione per manager rappresenta una sfida rispetto all’idea
tradizionale della relazione tra professionista e utenti molto di più di quanto possano
fare delle lezioni che parlano della partecipazione di utenti e famigliari nei servizi di
salute mentale.
La voce degli esperti per esperienza ha il potere di mettere in discussione gli operatori e
la loro visione a volte troppo clinica delle patologie psichiatriche.
Inizialmente nell’esperienza di CO.PRO gli operatori avevano la tentazione di “guidare”
e voler definire meglio il progetto, non capendo che l’aspetto caratteristico di una vera
partecipazione e del lavorare in maniera partecipata è che quando c’è coproduzione tutto
viene deciso congiuntamente e gradatamente, per questo motivo è impossibile definirlo
fin dall’inizio. L’aspetto dell’indeterminazione spaventa l’operatore, in particolare, nella
mia esperienza gli operatori sanitari in quanto fanno fatica a comprendere che spesso
questo è un lavoro basato su delle relazioni e momenti di condivisione che non possono
essere programmati fin dall’inizio perché è un percorso in divenire. Questa difficoltà è
emersa anche nella letteratura analizzata, in particolare (Jones e Cooper, 2009) che
sostengono quanto sia stato difficile per gli operatori cedere un po’ del loro potere come
professionisti cercando al tempo stesso però di rimanere concentrati sulle competenze,
racconti e risorse degli utenti. Coinvolgere esperti per esperienza nella formazione
permette anche di modificare la percezione dell’indipendenza e favorire l’autonomia
che gli stessi utenti acquisiscono ma al tempo stesso la visione che gli operatori hanno
di loro.
Sia nella letteratura che nel progetto CO.PRO si è potuto cogliere un’apertura da parte
degli utenti e famigliari verso gli operatori, soprattutto nell’abbattere le barriere e
superare le vecchie maniere. Alcuni operatori all’inizio si sono rivelati un po’ scettici
soprattutto per paura che una partecipazione nella formazione potesse destabilizzare
l’equilibrio di potere (Roger e al., 2013).
La condivisione del percorso di CO.PRO è stato visto da entrambi le parti positivo,
mentre nella letteratura analizzata non sempre la terminologia condividere è stata
129
percepita positivamente per una mancanza di riconoscimento da parte del servizio,
utenti e famigliari sostengono che condividendo il potere rimane in mano agli operatori
che decidono gli ambiti sui quali favorire la partecipazione e su quali invece no (Roger
e al., 2013).
Il coinvolgimento di esperti per esperienza nella formazione ha rappresentato una
visione complementare e non sostitutiva a quella dei professionisti, riportata in varie
risposte ai questionari dove si sottolinea il lavorare insieme, la collaborazione e la
condivisione. Per far sì che questo avvenga c’è bisogno però anche di una propensione
da parte degli operatori ad “aprirsi” e concedere un po’ del loro potere a utenti e
famigliari; non sempre questo avviene, spesso questo è dovuto anche dalla soggettività
del singolo operatore; in merito a questo Hayward e al. (2005) sostengono che esiste
una difficoltà da parte di tutti gli operatori di attribuire lo stesso valore al
coinvolgimento di esperti per esperienza. Questo è avvenuto anche durante le lezioni di
formazione del progetto CO.PRO, dove alcuni operatori, principalmente gli appartenenti
all’ambito sanitario hanno avuto degli atteggiamenti di chiusura manifestati attraverso
dei comportamenti (come ad esempio braccia conserte, espressioni facciali di
negazione…) verso il contenuto delle lezioni degli esperti per esperienza.
Coinvolgere utenti e famigliari all’interno dei servizi possiede diversi benefici derivanti
da diversi punti di vista, che però vengono considerati ugualmente importanti a quello
dei professionisti. (Spector e al.,2011). Ascoltando diversi racconti e le esperienze delle
persone permette di avere una visione più complessa e olistica, racchiudendo al suo
interno tutti gli elementi emersi dai vari racconti.
In ultimo il progetto CO.PRO ha visto gli operatori che hanno fatto parte della co-
progettazione andare oltre ai ruoli attribuiti, valorizzando principalmente l’esperienza
rispetto a ruolo attribuito fino a quel momento. Questo elemento è emerso da tutti i
componenti del tavolo che ha partecipato alla realizzazione di CO.PRO, avendo di
conseguenza dei benefici notevoli sulla relazione, che in quell’occasione era paritetica.
L’aspetto della persona prima di tutto è emerso molto in questo percorso, perché la
condivisione di tempo, spazio e idee ha permesso l’accrescere della fiducia e della
reciprocità tra le diverse persone.
In coinvolgimento di esperti per esperienza nella formazione in servizio di operatori ha
richiesto un lavoro di preparazione notevole, non tanto per preoccupazioni legate alle
130
capacità degli utenti e famigliari di tenere una formazione destinata agli operatori,
quanto nel trovare il modo più adeguato per sensibilizzare realmente gli operatori e
lasciare qualcosa a loro di davvero incisivo. Questa esperienza ha rappresentato per gli
operatori del Dipartimento di Salute Mentale di Como una grande sfida, caratterizzata
da una forte messa in discussione dei ruoli, avendo delle conseguenze positive sia sulle
relazioni che sulle singole persone. Una tra tutte in assoluto una collaborazione
paritetica che continua ancora oggi con l’obbiettivo di creare progetti futuri nell’ottica
della coproduzione. Ad oggi il gruppo si è allargato ad altri utenti, famigliari e operatori
avendo al suo interno un medico psichiatra. “Applicare il principio della co-produzione
in un servizio pubblico, comporta un cambiamento del bilanciamento dei poteri, delle
responsabilità, delle risorse, dai professionisti ai cittadini e richiede pratiche di
valutazione complessa.” (M.C, operatrice DSM di Como, protagonista del progetto
CO.PRO).
Questa esperienza ha sicuramente permesso agli operatori di avere la possibilità di
offrire e soprattutto di ricevere reciprocamente “qualcosa in termini di sapere
differenziati” che permettono di raggiungere un sapere superiore, più completo.
Conclusione
Questo lavoro di tesi ha l’intento offrire una visione da diversi punti di vista della
partecipazione, valorizzando l’aspetto dell’essere ed esserci come persona prima di 131
tutto. È stato fondamentale per me partire dalla visione di persona, intesa come
valorizzazione prima di tutto della persona rispetto alla patologia. Il riconoscimento è
avvenuto anche attraverso l’analisi di diverse leggi nelle quali viene dato valore alla
persona, viene riconosciuta a questa un sapere legato al proprio vissuto di vita
fondamentale per il percorso di cura e per il miglioramento dei servizi.
In seguito è stato possibile ragionare sul termine partecipazione secondo i diversi
modelli che hanno permesso di approfondire le diverse dimensioni: l’intensità, la
relazionalità e la partecipazione intesa in senso olistico. Si sono affrontate le pratiche
che favoriscono il coinvolgimento di utenti e famigliari e i possibili ostacoli alla
partecipazione, favorendo così un quadro eterogeneo e critico rispetto al tema. Spesso le
trappole possono essere oggetto di una parziale partecipazione, dovuta a delle piccole
azioni che, se riconosciute e evitate possono favorire e promuovere il coinvolgimento di
esperti per esperienza.
La partecipazione porta con sé molti benefici sia su utenti e famigliari ma al tempo
stesso nei servizi migliorando la collaborazione tra le parti, la risposta ai bisogni da
parte dei servizi, aumentandone l’efficacia e l’efficienza oltre ad aumentare la fiducia
che utenti e famigliari ripongono verso questo.
Successivamente si è affrontato il tema del coinvolgimento di utenti e famigliari nella
formazione sia di operatori già in servizio ma anche di studenti in formazione. In questo
capitolo sono emersi sia i benefici nel coinvolgere esperti per esperienza ma al tempo
stesso anche le criticità e le difficoltà che si possono riscontrare. Questi aspetti sono
stati sostenuti tramite la raccolta di diverse esperienze nazionali e internazionali che
raccontano del coinvolgimento di utenti e famigliari nella formazione di operatori o di
studenti sia nell’ambito del lavoro sociale, che in alcuni casi più nello specifico nei
servizi di salute mentale. L’elemento centrale di questo percorso è l’incrocio del sapere
esperienziale con il sapere tecnico che nasce da queste esperienze, dove questi due
saperi non si sostituiscono diventando un sapere complementare, superiore.
(Folgheraiter, 2009b) Il riconoscimento di questo sapere da parte degli operatori del
servizio non sempre è immediato, soprattutto quando è presente ancora una visione
tradizionalista dove l’aspetto sanitario predomina e dove la persona che soffre di un
disturbo mentale viene percepita solo e unicamente come utente, paziente e
consumatore.
Favorire la partecipazione di utenti e famigliari nella formazione è un lavoro che
richiede tempo, pazienza e perseveranza, che molto ha a che vedere con la cultura del 132
servizio. Avviene un cambiamento di approccio nella relazione tra operatori e utenti e
nel modo in cui gli operatori percepiscono il loro ruolo e il loro lavoro. Se gli operatori
sono coinvolti in situazioni in cui è specificamente previsto un ruolo paritario con utenti
e famigliari e in cui emerge il loro sapere esperienziale, è più probabile che il loro
approccio inizi a cambiare. Oltre a questo la partecipazione incrementa l’empowerment
delle persone rinforzando il proprio senso di autoefficacia e fiducia nei confronti degli
altri.
In ultimo viene descritta la mia esperienza di stage, il progetto CO.PRO, durante il
quale ho avuto la possibilità di collaborare con utenti, famigliari e operatori nella
progettazione e realizzazione di un progetto avente come obbiettivo il coinvolgimento
di esperti per esperienza nella formazione in servizio di operatori sociosanitari.
È stata fatta inoltre una ricerca valutativa sia sull’impatto che questa formazione ha
avuto sugli operatori rispetto ai contenuti presentati, sia sull’intensità della
partecipazione di utenti e famigliari al progetto.
I risultati ottenuti riportano delle riflessioni importanti e coerenti con le informazioni
date dall’analisi della letteratura internazionale e nazionale; sia i benefici che le criticità
coincidono nonostante a volte un utilizzo diverso della terminologia (guarda ad esempio
condivisione).
Il progetto CO.PRO ha permesso di sperimentare la partecipazione di utenti e famigliari
all’interno del Centro Psicosociale rispondendo al bisogno di trovare un linguaggio
comune, cercando di diminuire la distanza tra coloro che detengono il sapere tecnico e
gli esperti per esperienza, riconoscendone il valore reciproco.
Concludendo questo lavoro di tesi ha l’intento di evidenziare i benefici che si possono
ottenere dal coinvolgimento nella formazione di esperti per esperienza, mettendo in luce
i nessi metodologici riscontrati durante la mia esperienza. Sicuramente è un lavoro che
richiede tempo e una messa in discussione notevole da parte degli operatori, che però
permettere di creare servizi, risposte e interventi più adeguati ed efficienti partendo dal
punto di vista di coloro che ne usufruiscono. Questo richiede un cambio di prospettive,
richiede di lavorare in maniera anti oppressiva e per far questo la partecipazione è a mio
avviso in assoluto la modalità migliore. Da questa riflessione nasce il bisogno di
scrivere questa tesi, cercandone di andare a fondo al termine partecipazione,
analizzandolo da diversi punti di vista, non tralasciando le difficoltà e le fatiche che a
volte questo comporta per i servizi e per le persone.
Bibliografia133
Anthony, W.A (1993), Recovery from mental illness: The guiding vision of the mental
health system in the 1990s, «In Psychosocial Rehabilitation Journal», 16, pp. 521-338
Arici S., D’Avanzo B., De Stefani R. (2015), Indagine sull’introduzione degli Utenti e
Famigliari Esperti (UFE) nel servizio di salute mentale di Trento secondo gli UFE e gli
operatori, Sistema Salute 59(2), (pp.245-253)
Barbieri L., Basso L., Boggian L., Lamonaca D., Merlin S., Peloso F.P (2013), Storie di
recovery, Trento, EricksonLive
Barnes M. (1997), Care, communities and citizens, Harlow, Addison Wesley Longman,
trad.it Utenti, carer e cittadinanza attiva. Politiche sociali oltre il welfare state, Trento,
Erickson (1999)
Barnes M. (1999), Users ad citizens. Collective action and the local governance of welfare,
«Social Policy and Administration», vol.33, n.1, pp. 73-90. Trad.it. Utenti come cittadini:
nuove forme di governance del welfare locale, «Lavoro Sociale», vol.1/2001, n.3 pp. 365-
382
Barnes M. (2006), Caring and social justice, New York, Palgrave McMillan
Barnes M. (2012), Care in everyday life. An ethic of care in practice, Bristol, Policy
Barnes M. e Bowl R. (2001 trad.it 2003), Empowerment e salute mentale. Il potere dei
movimenti sociali degli utenti, Trento, Erickson
Barnes M. e Cotterell P. (a cura di) (2012), Critical perspectives on user involvement,
Chicago, Policy
Barnes M. e Wistow G. (1994), Learning to hear voices: listening to users of mental health
services, «Jounal of Menthal Health», vol.3, n.4, pp. 525-540
Basaglia F. (1968), Le istituzioni della violenza, in L'istituzione negata, Torino, Einaudi)
Basaglia F. (a cura di Franca Ongaro Basaglia e Maria Grazia Giannichedda) (2000),
Conferenze Brasiliane, Milano, Raffaello Cortina Editore
Bell K. (2013), Participants' motivations and co-construction of the qualitative research
process.Qualitative Social Work, 12(4), 523-53134
Bonesi G. (2012), Apprendere dagli utenti nella formazione di base, «Lavoro Sociale»,
vol.12, n.2, pp.251-258
Bowl R.(1996), Involving service users in mental health services: social services
departments and the national Health Service and Community Care Act 1990, «Journal of
Menthal Health», vol.5, n.3, pp.165-180
Braye S. e Preston- Shoot M. (1995), Empowering practice in social care, Buckimgham,
Open University Press
Burns S., MacKeith J. (2008), Guida per l’utente. Menthal Health Recovery Star. Guida per
gli utenti dei servizi, Triangle Consulting Social Enterpise Ltd.
Cabiati E. e Raineri M.L (2016), Learning from service users’ involvement: a research
about changing stigmatizing attitudes in social work students, Social work education. The
international Journal
Carrozza P. (2006), Principi di riabilitazione psichiatrica, per un sistema di servizi
orientato alla guarigione, Milano, FrancoAngeli
Chinman, M., Lucksted, A., Gresen, R., Davis, M., Losonczy, M., Sussner, B., & Martone,
L. (2008), Early experiences of employing consumer-providers in the VA. Psychiatric
Services, n. 59, pp. 1315-1321.
Clementi S. e Stanchina E., Valutazione del percorso FARe – Formarsi Assieme
Responsabilmente, «Lavoro Sociale», Vol.15, n.6, pp.75-98
Davey B. (1994), Mental health and the environment, «Care in Place», vol.1, n.2, pp. 188-
210
Davidson L., Tondora J., Staeheli Lawless M., J.O’Connell M., Rowe M. (2012), Il recovery
in psichiatria, Trento, Erickson,
Davidson L., Tondora J., Staheli Lawless M., O’Connell M.J., Rowe M. (2012), Il recovery
nei servizi di salute mentale, «Lavoro Sociale», Vol.12, n.2, pp.199 – 223
Deegan, P. (1988). Recovery: the lived experience of rehabilitation. Psychosocial
Rehabilitation Journal 11(4), 11–19
135
De Stefani R., Stanchina E. (2010), Gli UFE. Utenti e familiari esperti. Un nuovo approccio
nella salute mentale, Trento, Erickson
De Stefani R. in collaborazione con Tommasi J. (2012), Psichiatria mia bella. Alla ricerca
delle cure che Basaglia sognava, Trento, Erickson
Dell'Acqua P. (2010), Fuori come va, Milano, LaFeltrinelli
Donati P. e Colozzi I. ( a cura di) (2006), Terzo settore e valorizzazione del capitale sociale
in Italia: luoghi e dell’esclusione e della violenza, Torino, Einaudi
Folgheraiter F. (1998,2002), Teoria e metodologia del servizio sociale, la prospettiva di rete,
Milano, FrancoAngeli.
Folgheraiter F. (2000), L’utente che non c’è. Lavoro di empowerment nei servizi alla
persona, Trento, Erickson
Folgheraiter F. (2004a), Tossicodipendenti riflessivi, la teoria relazionale del recovery
narrata dai protagonisti, Trento, Erickson
Folgheraiter F. (2004b), Voce del dizionario “Capitale sociale”, vol.4, n.1, pp. 133-140
Folgheraiter F., (2005), Voce di dizionario. Servizi relazionali, «Lavoro Sociale», vol.5,n.1,
aprile 2005
Folgheraiter F. (2006), La cura delle reti. Nel welfare delle relazioni (oltre i Piani di zona) ,
Trento, Erickson
Folgheraiter F. (2007a), La partecipazione nella promozione della salute mentale,
Relazione tenuta nell’ambito dei seminari preparatori per la Seconda Conferenza
nazionale per la Salute Mentale, Ministero della Salute, Roma, 31 gennaio 2007. Pubbl.
all’indirizzo internet http://www.pol-it.org/ital/progettoobiettivo2008, ultimo accesso 11
aprile 2007
Folgheraiter F. (2007b), Il sociale della psichiatria, «Lavoro Sociale», vol.7, n.2,
pp.185-195
Folgheraiter F. (2009a) La logica sociale dell’aiuto, fondamenti per una teoria relazione nel
welfare, Trento, Erickson
136
Folgheraiter F. (2011), Fondamenti di metodologia relazionale. La logica sociale
dell’aiuto, Trento, Erickson
Folgheraiter F. e Cappelletti P. (2009b), Saggi di welfare, Trento, Erickson
Folgheraiter F. e Cappelletti P. (a cura di) (2011), Natural helpers. Storie di utenti e
familiari esperti, Trento, Erickson
Foot J. (2014) trad. Basaglia E., La “Repubblica dei matti”. Franco Basaglia e la
psichiatria radicale in Italia, 1961- 1978, Milano, Giangiacomo Feltrinelli Editore
Forbes J. E Shashidharan S.P., (1997), User involvement in services. Incorporation or
challenge?, «British Journal of Social Work», vol.27, n.4, pp. 481-498
Funk M., Lund C., Freeman M. e Drew N. (2009), Improving the quality of mental
health care, « International Jounal for Quality in Health Care», vol.21, n.6. pp. 415-420
Hayward M., West S., Green M., Blank A. (2005), Service Innovation: service user
involvement in traning. Case study, Psychiatric Bulletin, n.29, pp.428-430
Hitchen S., Watkins M., Williamson G.R., Ambury S., Bemrose G., Cook D., e Taylor
M. (2011), Lone voices have an emotional content: focusing on mental health service
users and carer involvement, «International Journal of Health Care Quality Assurance»,
vol.24, n.2, pp.164 -177
Jones K., Cooper B., Ferguson H. (edizione italiana a cura di Maria Luisa Raineri)
(2009), Lavoro per bene. Nuove pratiche nel servizio sociale, Trento, Erickson
Liberman R.P, (2012), Il recovery dalla disabilità, Manuale di riabilitazione psichiatrica,
Roma, Giovanni Fioriti Editore
Livingston, G. & Cooper, C. (2004). User and carer involvement in mental health training,
Advances in Psychiatric Treatment, n.10, pp. 85-92.
Maone A., D'Avanzo B. (2015), Recovery: nuovi paradigmi per la salute mentale,
Milano, Raffaelo Cortina Editore
Marsh P.e Fisher M. (1992), Good intentions: Developing partnership in social
services, York, Joseph Rowtntree Foundation
137
Perkins R. (2001), What costitutes sucess? The relative priority of service users’ and
clinicians’ view of mental health services, «British Journal of Psychology», vol. 179,
pp. 9-10
Pettigrew (1979), On studying organizational decision-making, « Administrative
Science Quarterly», vol-24, pp. 570-581
Piga A., Stylianidis C., Canova C., Blasi G., Marin I., Pellegrini M., Appollonio P., Davì R.,
Turisini S., Hvalic S., Sinossi S., “La dimensione sociale e politica della recovery: per
intraprendere i vari e diversi viaggi nelle possibilità di guarigione.”
Pivetta O. (2012), Franco Basaglia. Il dottore dei matti. La biografia, Milano,
Baldini&Castoldi s.r.l.
Petronio A., De Stefani R., Arici S.,Tamacoldi R., Capitanio M., Cuni. R (2014), Il sapere
esperienziale di utenti e familiari risorsa per la promozione del benessere: L’esperienza del
servizio di Trento, « Cos’è la cura» Nuovi Arti Terapie, supplemento al n.22
Raineri M.L (2004), Il metodo di rete in pratica. Studi di caso nel servizio sociale, Milano,
Erickson
Raineri M.L (2007), Utente, «Lavoro Sociale», vol.7, n.1, pp.131-137
Raineri M.L (a cura di) (2016), Assistente sociale domani, Trento, Erickson
Rogers E.S., Chamberlin L., Ellison M.L e Crean T. (1997), A consumer- constructed
scale to measure empowerment among users of mental health services, « Psychiatric
Services», n.48, pp. 1042-1047
Rogers M.K. Ng, Pearson V., Pang Y.W, N.S, Wong, Wong N.C, Chan F.M (2011), The
uncut jade: Differing views of the potential of expert users on staff training and
rehabilitation programmes for service users in Hong Kong, International Journal of Social
Psychiatry, n. 59 (2), pp.176 -187
Rowlands J.(1998), A word of the times, but what does it mean? Empowerment in the
discourse and practice of development. In H.Afshar (a cura di), Women and empowerment:
Illustrations from the third world, Basigstoke, Macmillan
138
Saleeby D. (a cura di) (2006), The Strenghts Perspective in Social Work practice, Boston,
Pearson Edication, 4° edizione
Scorza G. e Kauffmann O. (a cura di) (2015), Verso la rifondazione del lavoro psicosociale,
Trento, EricksonLive
Seedhouse D., (2009), Ethics: The heart of heathcare, London, Wiley
Spector R., Smojkis M., Chilton L. and membres of The Inpatient Care Forum (2011),
Service-user involvement in a ward staff training project: participants’ experiences of
making digital stories, Clinical Psychology Forum (220), pp.49-53
Stanchina E. (2014), La partecipazione di utenti e familiari nella salute mentale, Trento,
Erickson
Twelvetrees A. (2006), Come favorire la partecipazione, «Lavoro Sociale», vol.6, n.1, pp.
43-56
Warren J. (2007), Service User and Carer Partecipation in Social Work, London, Sage
Weich K.E (1995), Sensemaking in organizations, Thousand Oaks, Sage, trad.it. Senso e
significato nell’organizzazione, Milano, Cortina, 1997
139
Allegato n. 1 – QUESTIONARIO
SOMMINISTRATO AGLI OPERATORI
140
Esperti per esperienza, incrocio tra sapere esperienziale e sapere tecnico.5
Questo questionario è anonimo, serve a me per comprendere alcuni aspetti del progetto.
Il questionario verrà somministrato sia all’inizio del percorso che alla fine con le medesime domande.
1. Che tipo di formazione hai (medico, infermiere, educatore, assistente sociale,oss)?
2. Hai mai sentito parlare di Recovery?
3. Se sì, cosa intendi per Recovery?
4. Conosci realtà che lavorano nell’ottica della Recovery?
5. Se sì, quali?
6. Pensi che l’aspetto sociale incida sull’efficacia del percorso di cura?
7. Perché?
8. Per te operatore, la presenza dei famigliari nel percorso di cura rappresenta più una risorsa o
una fatica
9. Perché?
10. Ritieni che la lettura che il paziente dà della sua situazione possa rappresentare un elemento
importante per la definizione del percorso di cura?
11. Perché
12. In percentuale quanto pensi incida positivamente sul benessere della persona l’aspetto
farmacologico rispetto al resto?
___ % aspetto farmacologico
___ % il resto (l’aspetto più sociale/ ambientale: famiglia, interessi, lavoro)
13. Hai mai sentito parlare del “Fare Assieme”?
14. Se, sì cosa sai?
15. Cosa ne pensi?
16. Cosa significa per te la partecipazione di utenti e famigliari all’interno del servizio?
5
Progetto CO.PRO nasce con l’intento di valorizzare il sapere esperienziale delle persone che vivono con una patologia psichiatrica e dei loro famigliari, avendo come obbiettivo la sensibilizzazione su alcuni temi importanti affrontati nel corso degli incontri.Protagonisti: Esperti per esperienza, operatori Dipartimento salute mentale di Como e Marta Castro Cambòn.Email: [email protected] web: https://coproespertiperesperienza.wordpress.com/
141
Allegato n. 2 – QUESTIONARIO SOMMINISTRATO AGLI ESPERTI PER
ESPERIENZA
142
Esperti per esperienza, incrocio tra sapere esperienziale e sapere tecnico.6
Questo questionario è anonimo, serve a me per comprendere alcuni aspetti del progetto.
1. Ti sei sentito partecipe del progetto CO.PRO?
2. Perché?
3. Come ti sei sentito durante gli incontri di preparazione?
4. Come ti sei sentito durante la lezione di formazione degli operatori?
5. Cosa rappresenta per te questo percorso?
6. Pensi sia emerso il tuo punto di vista durante gli incontri?
7. Se sì, pensi se ne sia tenuto conto nella creazione della lezione di formazione?
8. Quali sono secondo te i punti forti di questo progetto?
9. Quali sono invece le criticità riscontrate?
10. Se dovessi descrivere il progetto con delle parole, quali useresti?
Altri suggerimenti
6
Progetto CO.PRO nasce con l’intento di valorizzare il sapere esperienziale delle persone che vivono con una patologia psichiatrica e dei loro famigliari, avendo come obbiettivo la sensibilizzazione su alcuni temi importanti affrontati nel corso degli incontri.Protagonisti: Esperti per esperienza, operatori Dipartimento salute mentale di Como e Marta Castro Cambòn.Email: [email protected] web: https://coproespertiperesperienza.wordpress.com/
143
------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
Allegato n. 3 – FORMAZIONE IN
SERVIZIO DEGLI OPERATORI,
PILLOLE DI RECOVERY
144
145
146