corporate governance e qualità dei codici etici · 2014. 6. 5. · codici etici, dall’altro lato...
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Università commerciale Luigi Bocconi
Facoltà di Economia
Corso di Laurea Magistrale in Amministrazione,
Finanza Aziendale e Controllo
Corporate Governance e Qualità
dei Codici Etici:
una indagine empirica nelle Società
quotate italiane
Relatore: Prof.ssa Emilia Piera Merlotti
Controrelatore: Prof. Massimo Livatino
Tesi di laurea magistrale di Roncoroni Giulia
Anno accademico 2011/2012
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Ringrazio la prof.ssa Merlotti per la disponibilità e il supporto in ogni fase
del lavoro, e soprattutto per la pazienza dimostrata nel rispondere alle mie
numerose mail.
Ringrazio i miei genitori per avermi permesso ancora una volta di
laurearmi, dandomi tutto il supporto di cui avevo bisogno e dimostrando
sempre grande fiducia nelle mie scelte.
Ringrazio Elisabetta per avermi accompagnata in tutti questi anni di
università, e avermi sempre consigliata e ascoltata nelle piccole e nelle
grandi cose.
Ringrazio Francesco per l’amore e la fiducia infiniti che mi ha concesso in
tutto questo tempo, dandomi la forza, anche senza saperlo, di affrontare
ogni giorno con lo stesso entusiasmo.
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Indice
Introduzione .................................................................................... 1
1. I codici etici .................................................................................. 3
1.1 La Corporate Social Responsibility .............................................. 3
1.2 La relazione fra CSR e codici etici ............................................... 6
1.3 L’evoluzione dei codici etici ........................................................ 9
1.4 I codici etici in Italia ................................................................ 15
2. La letteratura sui codici etici ......................................................... 18
2.1 Breve analisi generale della letteratura ...................................... 18
2.2 Il focus sul tema della qualità ................................................. 29
3. Il legame fra codici etici e Corporate Governance: le domande di
ricerca ....................................................................................... 39
3.1 La Corporate Governance ........................................................ 39
3.2 La relazione fra CSR e Corporate Governance ............................ 42
3.3 Il Consiglio di Amministrazione ................................................. 44
3.4 Gli assetti proprietari .............................................................. 49
4. Dati e metodologia della ricerca .................................................... 54
4.1 Una misura della qualità dei codici etici ..................................... 54
4.2 Il campione di riferimento ........................................................ 55
4.3 Le variabili del modello ............................................................ 56
4.4 Le fonti di riferimento ............................................................. 62
5. Risultati ..................................................................................... 65
5.1 Statistiche descrittive .............................................................. 65
5.2 L’analisi di regressione ............................................................ 74
6. Conclusioni ................................................................................. 78
Bibliografia .................................................................................... 85
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Indice delle Figure
Figura 1: matrice elaborata da Robin et al. per classificare gli items
presenti nei codici etici ................................................................. 32
Figura 2: modello di etica d’impresa elaborato da Wood ...................... 35
Figura 3: Distribuzione dello Score .................................................... 65
Figura 4: Composizione del campione per industry .............................. 67
Figura 5: Percentuale di amministratori indipendenti nel CdA ............... 68
Figura 6: “Le quote rosa” ................................................................. 69
Indice delle Tabelle
Tabella 1: Descrizione delle variabili selezionate per la costruzione del
modello ...................................................................................... 61
Tabella 2: Analisi descrittiva delle variabili ......................................... 66
Tabella 3: Analisi univariata ............................................................. 73
Tabella 4: Analisi multivariata .......................................................... 77
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Introduzione
Nel corso degli ultimi decenni, la Corporate Social Responsibility (CSR), ed
in particolare i codici etici in quanto sua componente imprescindibile, ha
visto crescere il proprio ruolo in misura estremamente rilevante, sia
all’interno dell’impianto normativo dei paesi occidentali che nella vita delle
imprese. L’attenzione a queste tematiche è nata in parte come risposta
alle diverse ondate di scandali societari che si sono susseguiti in tale
periodo, a partire dalla corruzione dilagante emersa negli Stati Uniti negli
anni ’70, fino ai crack finanziari degli anni ’90 e 2000, da Enron a Parmalat
(Cressey e Moore, 1983; Benson, 1989; McCraw et al., 2009).
La crescente diffusione fra le imprese e la rilevanza normativa dei codici
etici hanno richiamato un notevole interesse per tale tematica anche
all’interno del mondo accademico (Schwartz, 2002; Lugli et al., 2009).
In particolare, a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, un numero
crescente di autori si è dedicato allo studio da un lato delle scelte operate
dalle imprese in merito al contenuto ed ai processi di implementazione dei
codici etici, dall’altro lato alla ricerca di una prova dell’efficacia di tali
documenti nell’influenzare il comportamento dei dipendenti delle imprese
che li adottano (Helin e Sandström, 2007; McDonald, 2009).
Il fine ultimo degli studi appartenenti al primo filone dovrebbe essere la
ricerca di un framework condiviso di valutazione della qualità dei codici
etici, il quale, se costruito intorno ad indicatori almeno in parte
quantitativi, consentirebbe di superare la mera descrizione dei codici
adottati dalle imprese, permettendo invece di fare confronti il più oggettivi
possibile fra di essi. Inoltre, una misura quantitativa della qualità dei
codici etici costituirebbe anche una variabile, più specifica rispetto alla loro
semplice adozione, da inserire negli studi intorno all’efficacia dei codici,
per confrontarla con le diverse proxy di tale efficacia. Nonostante queste
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2
considerazioni, pochi autori si sono dedicati alla ricerca di una misura della
qualità dei codici etici, soprattutto se intesa in termini quantitativi.
Un altro tema affrontato di rado dagli studi precedenti è indagare quali
siano le determinanti che spingono un’impresa ad adottare un codice etico
più o meno di qualità.
Il presente studio ha cercato di legare uno score della qualità dei codici
etici, elaborato integrando numerose caratteristiche del contenuto dei
codici e dei programmi costruiti intorno ad essi, a diverse caratteristiche di
Corporate Governance, concentrandosi in particolare su due aspetti: la
composizione del Consiglio di Amministrazione (ossia, nello specifico, il
grado di indipendenza, la CEO duality, ovvero la circostanza in cui le
cariche di Presidente e Amministratore Delegato sono ricoperte dalla
stessa persona, e la presenza di amministratori di genere femminile
all’interno del Board) e gli Assetti Proprietari (in particolare, le imprese
familiari e quelle che annoverano, fra i propri azionisti di riferimento, uno
o più enti pubblici).
I risultati dell’indagine, svolta per 241 società quotate italiane,
confermano in parte le ipotesi formulate: si evidenzia, infatti, una
relazione positiva fra la qualità dei codici etici e sia la CEO duality che la
partecipazione azionaria di un ente pubblico. Non è stato, invece, possibile
identificare un legame statistico con le altre variabili analizzate.
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1. I codici etici
1.1 La Corporate Social Responsibility
Nonostante la crescente attenzione della società e delle imprese per le
tematiche di responsabilità sociale, le opinioni a riguardo non sono
concordanti. La domanda fondamentale che si pone la letteratura
accademica è se le aziende debbano pensare soltanto agli obiettivi loro
propri, generalmente di profitto/creazione di valore, le cui ricadute
costituiscono già di per sé un contributo per la società in generale, oppure
se il rispetto di principi etici, e quindi il perseguimento diretto di obiettivi
con un valore sociale, debba essere fra i driver fondamentali che guidano
le loro azioni, anche a scapito degli obiettivi economico-finanziari, in
particolar modo se di breve periodo, propri del sistema imprenditoriale.
Un celebre articolo di Milton Friedman1
“there is one and only one social responsibility of business - to use
its resources and engage in activities designed to increase its profits
so long as it stays within the rules of the game, which is to say,
engages in open and free competition without deception or fraud"
(1970, pag. 6).
costituisce probabilmente la più
forte presa di posizione contro le pratiche di responsabilità sociale delle
imprese, affermando che:
La Commissione Europea ha definito, nel suo Libro Verde2
1 Friedman M. (1970). The social responsibility of business is to increase its profits. The
New York Times Magazine, 13 Settembre.
del 2001, la
Corporate Social Responsibility come:
2 Commissione Europea (2001). Green paper: Promoting a european framework for
corporate social responsibility.
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“essentially a concept whereby companies decide voluntarily to
contribute to a better society and a cleaner environment”
(Commissione Europea, 2001, pag. 4).
La stessa commissione precisa, inoltre, come la CSR sia anche
diffusamente interpretata come l’integrazione su base volontaria
dell’interesse per le tematiche sociali e ambientali all’interno delle
operazioni di business e dell’interazione con gli stakeholder (Commissione
Europea, 2001, pag. 6).
La CSR è, quindi, un’attività volontaria, e non di mera compliance alle
diverse forme di regolamentazione. Nonostante ciò, essa non costituisce
esclusivamente un costo per le imprese che decidono di implementarla.
Infatti, essa dovrebbe essere vista più come un investimento, in quanto
sia l’attenzione verso un’ampia gamma di portatori di interesse, che il
perseguimento di una sostenibilità in senso ampio (ambientale, sociale ed
economica) consentono in prospettiva di ottenere vantaggi per l’impresa
che implementa tali pratiche, attraverso canali di diversa natura, come i
seguenti identificati da Perrini3
• miglioramento di immagine e reputazione: una migliore relazione
con i diversi portatori di interesse può essere un importante
elemento di differenziazione rispetto ai concorrenti;
:
• miglioramento della gestione delle risorse umane: ambienti di lavoro
più sicuri migliorano la produttività del personale e trattengono le
risorse migliori;
• gestione più efficiente delle risorse ambientali naturali:
l’abbattimento dei consumi energetici si può tradurre in un risparmio
economico immediato;
3 Perrini F. (2006a). Corporate Social Responsibility: L'europa e lo sviluppo di imprese
competitive e sostenibili. Economia & Management, 3, 11-17.
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• gestione più efficace del rischio d’impresa: l’attenzione alla
sostenibilità in senso ampio consente di ridurre alcuni rischi
d’impresa, ad esempio relativi a disastri ambientali o incidenti sul
lavoro, che possono avere un effetto devastante sulla sopravvivenza
dell’impresa stessa;
• miglioramento della gestione delle relazioni con le istituzioni
finanziarie: la riduzione del rischio facilita l’accesso per l’impresa a
risorse finanziarie a costi contenuti;
• miglioramento dell’attrattività dell’impresa sul mercato finanziario: il
peso del Socially Responsible Investing (SRI), ossia delle istituzioni
che investono esclusivamente in imprese che rispettano determinati
requisiti etici e di sostenibilità, è in rapida crescita, anche nel nostro
paese (2006a, pag. 54).
La letteratura è talvolta riuscita a dimostrare in modo empirico tale
legame positivo fra pratiche di CSR e performance d’impresa, tuttavia in
modo non univoco. La questione fondamentale ancora in sospeso è
chiarire quale sia la direzione del legame causa-effetto. In un caso, infatti,
sono la redditività e condizioni competitive favorevoli a consentire, alle
imprese con maggiori risorse economiche e finanziarie, di investire, o
“spendere”, anche in attività responsabili. Viceversa, è possibile, come
sostiene Perrini4
, che la CSR non sia un lusso che solo certe imprese
possono permettersi, bensì sia “una strategia competitiva capace di
generare profitti per l’azienda”, oltre che “esternalità positive per la
società nella quale è inserita” (2006b, pag. 12).
4 Perrini F. (2006b). Corporate Social Responsibility: Nuovi equilibri nella gestione
d'impresa. Economia & Management, 2, 7-14.
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1.2 La relazione fra CSR e codici etici
All’interno della CSR rientrano molte pratiche differenti, tra cui:
• la riduzione dell’impatto ambientale, ad esempio tramite
l’abbattimento dei consumi energetici in fase di produzione o la
scelta di materiali riciclati e/o riciclabili per i propri prodotti;
• maggiore attenzione alla sicurezza ed al benessere dei propri
lavoratori;
• rispetto per la salute dei propri clienti;
• trattamento equo dei propri fornitori;
• promozione di comportamenti virtuosi fra tutti i soggetti
appartenenti al proprio settore e lungo tutta la filiera produttiva.
Nonostante le notevoli differenze esistenti fra le diverse pratiche di
responsabilità sociale, difficilmente un’impresa potrà implementarle senza
aver prima stabilito le regole, i valori e gli orientamenti di fondo, i quali
devono allo stesso tempo indirizzare e legittimare il suo operato. Tale
processo si realizza nel concreto nell’istituzione di codici etici d’impresa, i
quali sono stati definiti da Confindustria5
“documenti ufficiali dell’ente che contengono l’insieme dei diritti, dei
doveri e delle responsabilità dell’ente nei confronti dei “portatori
d’interesse” (dipendenti, fornitori, clienti, Pubblica Amministrazione,
azionisti, mercato finanziario, ecc.)” (2008, pag. 26).
come:
La letteratura sui codici etici si fonda proprio sul presupposto che tali
documenti siano la base per l’implementazione di pratiche di CSR efficaci.
5 Confindustria (2008), Linee guida per la costruzione dei modelli di organizzazione,
gestione e controllo ex D.lgs. 231/2001.
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In particolare, per Lugli et al.6
Erwin
“the code of ethics is one of the main tools
for implementing CSR inside organisations and is an aprioristic way of
determining whether organizations have recognised the need for ethical
behavior and established a commitment to that need” (2009, pag. 34).
7
È evidente, quindi, come il ruolo dei codici etici nell’universo della
responsabilità sociale d’impresa sia preponderante. Nonostante essi non
costituiscano di per sé un’azione concreta che si traduce in un immediato
beneficio per l’impresa e la società di riferimento, il loro ruolo è senz’altro
di primo piano nel gettare le basi per una cultura d’impresa orientata
all’etica e al rispetto di tutti gli stakeholder. I codici, infatti, non solo
costituiscono un segnale, sia per i membri interni all’organizzazione che
verso l’esterno, dell’impegno dell’impresa in tale ambito, essi fungono
bensì da punto di riferimento per l’implementazione delle future pratiche
concrete di CSR, sia attraverso la legittimazione della loro stessa
esistenza, sia come supporto valoriale per la scelta delle diverse azioni
intraprese.
sottolinea, inoltre, come, fra gli altri vantaggi, “codes of conduct
may lead to reputational benefits by functioning as a symbol of CSR
awareness and engagement, thereby preserving and legitimating the
company’s public image” (2011, pag. 536).
Così come la CSR ha subito una fortissima crescita di interesse negli ultimi
decenni, per molteplici ragioni che verranno descritte nel dettaglio nei
paragrafi successivi, lo stesso vale per i codici etici. Berenbeim (2000), in
6 Lugli E., Kocollari U., e Nigrisoli C. (2009). The codes of ethics of S&P/MIB italian
companies: An investigation of their contents and the main factors that influence their
adoption. Journal of Business Ethics, 84, 33-45. 7 Erwin P. M. (2011). Corporate codes of conduct: The effects of code content and quality
on ethical performance. Journal of Business Ethics, 99, 535-548.
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particolare, evidenzia tre tendenze in atto che dimostrano la crescente
importanza dei codici etici:
• sono documenti pubblici, quindi le imprese li considerano uno
strumento di dialogo con gli stakeholder;
• il coinvolgimento del Board nel loro sviluppo è crescente;
• il focus dei codici è passato dalla mera compliance all’affermazione
di requisiti etici essenziali per una “profitable business practice”.
Il dibattito aperto più significativo a proposito dei codici etici riguarda la
loro effettiva capacità di influenzare il comportamento delle persone e
quindi delle organizzazioni che li hanno istituiti. In particolare, è possibile
che le imprese adottino i codici etici per ragioni diverse dalla CSR, ossia
per mera compliance alla normativa vigente, oppure esclusivamente come
strumento di marketing, mettendo in atto quindi operazioni di window
dressing (Kaptein e Schwartz, 2008).
Helin e Sandström (2007) propongono un confronto interessante in tal
senso: già nel 1924, Graves8
Questo problema è stato riespresso in molte forme, ed è stato indagato
sotto molteplici aspetti. Cowton e Thompson (2000) lo hanno riassunto in
modo efficace sotto forma di domanda: “does a code actually make a
difference?”.
concludeva che i codici etici non sono
“magici” e non possono da soli risolvere i problemi, ma possono
contribuire in maniera sostanziale “to the cause of truth and honor in
business relationship” (1924, pag. 59). Tuttavia, 80 anni più tardi, lo
scandalo Enron è avvenuto in una società in cui tutti i dipendenti erano
tenuti a sottoscrivere il codice etico.
8 Graves W. B. (1924). Codes of ethics for business and commercial organization.
International Journal of Ethics, 35(1), 41-59.
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9
1.3 L’evoluzione dei codici etici
I codici etici adottati dalle imprese hanno mosso i primi passi intorno al
1900, in risposta alle riforme della fine del XIX secolo, ma la loro rilevanza
e diffusione ha seguito, in particolar modo negli Stati Uniti, la spinta delle
diverse ondate di scandali e frodi societarie, e le conseguenti innovazioni
normative che si sono susseguite nel corso dell’ultimo secolo. Dapprima
negli anni ’50, quando i codici si sono diffusi in particolar modo per
includere i riferimenti alla normativa antitrust (Wiley, 1995), e poi negli
anni ’70 e ’80 in seguito all’emersione di un sistema complesso e radicato
di tangenti che vide coinvolte politica e imprese all’interno soprattutto dei
settori farmaceutico e della difesa (Garegnani, 2008). In particolare,
Cressey e Moore9 citano gli scandali che nel 1975 videro coinvolte circa
500 grandi imprese USA in una rete globale di attività illegali. Anche
Benson10
Infine, gli scandali finanziari degli anni ’90 e 2000 (McCraw et al., 2009)
diedero una ultima spinta decisiva alla diffusione e sviluppo dei citati
documenti, anche in questo caso in parte grazie alle innovazioni
normative.
cita, come decisive per lo sviluppo dei codici etici, le indagini
intorno alle tangenti pagate sia all’interno degli Stati Uniti che all’estero da
parte di numerose imprese americane, e sottolinea come tali scandali
portarono all’entrata in vigore nel 1977 del Foreign Corrupt Practices
Control Act, normativa all’avanguardia nella lotta alla corruzione, ma
soprattutto all’adozione, negli anni ’70 e ’80, di numerosi codici etici,
spesso come diretta conseguenza della normativa.
9 Cressey D. R., e Moore C. A. (1983). Managerial values and corporate codes of ethics.
California Management Review, 25(4), 53-77.
10 Benson, G. C. S. (1989). Codes of ethics. Journal of Business Ethics, 8, 305-319.
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10
In particolare, gli USA hanno visto l’introduzione dei codici etici in diversi
punti della legislazione, sia come documenti obbligatori che fortemente
suggeriti. In primo luogo, si può citare come codice del secondo tipo
quello previsto dalle Federal Sentencing Guidelines (istituite per la prima
volta nel 1991 e aggiornate nel 2004), una normativa volta a
regolamentare la responsabilità penale delle persone giuridiche.
Secondo le Guidelines, la somma che deve essere elargita dalla società
giudicata colpevole è stabilita dal giudice partendo da un importo base, il
quale sarà poi moltiplicato per un “culpability score”. La base dipende dal
reato commesso e dalle sue ricadute negative, mentre il fattore
moltiplicativo è determinato a seconda della presenza di diversi elementi,
ad esempio il coinvolgimento del top management nella commissione del
reato, la collaborazione della società in seguito all’emersione del reato
stesso e, particolarmente rilevante ai nostri fini, se la società possieda o
meno un “effective program to prevent and detect violations of the law”11.
Tale programma prevede, tra le altre cose, come esplicitato nello stesso
commentario alla norma, che la società abbia stabilito “standards and
procedures to prevent and detect criminal conduct”12
Altri codici etici previsti dalla normativa statunitense sono quello
introdotto dal regolamento della Securities Exchange Commission (SEC)
, ovvero, in termini
generali, un codice etico.
13
in attuazione del Sarbanes-Oxley Act14
11 2010 Federal Sentencing Guidelines Manual, Chapter 8 paragraph C4.11.
, il quale è rivolto al top
12 2010 Federal Sentencing Guidelines Manual, Chapter 8 paragraph B2.1.b1.
13 La US Securities and Exchange Commission (SEC) è una agenzia federale statunitense
che ha la funzione di far rispettare le leggi federali sui valori mobiliari e di regolarne il
mercato.
14 Il Public Company Accounting Reform and Investor Protection Act del 2002,
comunemente conosciuto come Sarbanes-Oxley Act, è una legge federale emanata dal
http://it.wikipedia.org/wiki/Legge�
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11
management delle società registrate presso la SEC stessa e la cui
implementazione è prevista con la logica del comply or explain15, e quello
previsto dalle regole di governance del New York Stock Exchange
(NYSE)16. Inoltre, uscendo dal contesto statunitense, nel Regno Unito il
Bribery Act17 prevede esimenti simili a quelli previsti dalle Federal
Sentencing Guidelines nel caso in cui la società provi di avere
implementato “adequate procedures designed to prevent persons […]
from undertaking such conduct”18
Tali interventi normativi, uniti ad una maggiore consapevolezza di utilizzo
dello strumento, non solo hanno contribuito ulteriormente alla diffusione
dei codici etici, ma hanno anche fatto sì che, negli ultimi decenni,
aumentasse l’omogeneità esistente fra di essi. Tale omogeneità ha
contribuito a sua volta al raggiungimento di una definizione maggiormente
condivisa di codice etico, e di conseguenza a maggiori possibilità di
confronto e sviluppo all’interno degli studi in tale campo.
.
Tale progressiva e costante crescita dell’importanza dei codici etici
all’interno del mondo delle imprese ha spronato, a partire dagli anni ’80
del secolo scorso, l’interesse degli accademici americani (ad esempio
governo statunitense in seguito ai diversi scandali societari che hanno coinvolto imprese
come Enron, la società di revisione Arthur Andersen, WorldCom e Tyco International.
15 Nel dettaglio, la sezione 229.406.a del Sarbanes-Oxley Act riporta: “Disclose whether
the registrant has adopted a code of ethics that applies to the registrant’s principal
executive officer, principal financial officer, principal accounting officer or controller, or
persons performing similar functions. If the registrant has not adopted such a code of
ethics, explain why it has done so.”
16 Il New York Stock Exchange (NYSE) è la borsa valori di New York.
17 Il Bribery Act è una legge emanata nel 2010 dal Parlamento britannico per combattere
la corruzione verso soggetti pubblici e privati.
18 UK Bribery Act 2010, Section 7 paragraph 1.2.
http://it.wikipedia.org/wiki/Enron�http://it.wikipedia.org/wiki/Arthur_Andersen�http://it.wikipedia.org/w/index.php?title=WorldCom&action=edit&redlink=1�http://it.wikipedia.org/wiki/Tyco_International�
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12
Cressey e Moore, 1983; Mathews, 1987; Molander, 1987; Benson, 1989;
Robin et al., 1989). Nonostante ciò, nelle prime fasi di studio, ovvero
precedentemente all’interesse della legislazione americana verso tale
ambito, la ricerca ha faticato a raggiungere una definizione condivisa di
codice etico, da porre come base per le proprie analisi, a causa della
confusione sulla precisa natura dei codici etici stessi (Kaptein e Schwartz,
2008).
In particolare, la scarsa omogeneità di forma e contenuto dei codici etici
effettivamente esistenti ha precluso una precisa delimitazione del
perimetro entro il quale un documento potesse definirsi un codice etico, e
quindi del perimetro di studio. Infatti, non solo erano in uso (nella ricerca
e nella prassi) numerose terminologie difformi fra loro (Kaptein e
Schwartz, 2008), ma nei primi studi rientrano anche forme più semplici di
ciò che sia attualmente considerato un codice etico, come ad esempio i
“values statements” e i “corporate credo”.
I primi sono una breve dichiarazione dei propri valori aziendali da parte
delle imprese (Murphy, 1995), e sono una sorta di precursori dei codici
etici veri e propri (Benson, 1989). I secondi, invece, sono leggermente più
articolati e delineano la responsabilità etica dell’impresa verso i suoi
stakeholder (Murphy, 1995). Wiley19
aggiunge che “A corporate credo is
probably the most general approach to managing corporate ethics” e che
“The credo could be interpreted as a mission statement, not solely as a
document about ethics” (1995, pag. 24). Entrambe le tipologie di
documento saranno escluse dalle analisi nei contributi più recenti.
È opportuno sottolineare come la definizione di codice etico influenzi non
solo le possibilità di confronto fra studi diversi in termini di analisi del
19 Wiley C. (1995). The ABC's of business ethics: Definitons, philosophies and
implementation. Industrial Management, 37(1), 22-27.
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13
contenuto dei codici, ma anche la ricerca empirica intorno alla loro
efficacia. Infatti, come suggerito da Kaptein e Schwartz20
Le già citate ondate di scandali di natura finanziaria che hanno coinvolto
alcune delle maggiori società americane negli anni ’90 e 2000, hanno
rinnovato l’interesse per il tema dei principi e dei codici etici in ambito
accademico, spronando inoltre la ricerca di una definizione condivisa di
codice etico.
, gli studiosi
tendono a ricercare risultati diversi in termini di efficacia dei codici
nell’influenzare il comportamento dei dipendenti, a seconda che si
definiscano i codici come descrizioni di valori e credenze, oppure come un
set di regole e standard specifici.
Una prima definizione di codice etico molto citata è quella utilizzata da
Langlois e Schlegelmilch21
“A statement setting down corporate principles, ethics, rules of
conduct, codes of practice or company philosophy concerning
responsibility to employees, shareholders, consumers, the
environment or any other aspects of society external to the
company” (1990, pag. 552).
:
In seguito, Kaptein e Schwartz22
20 Kaptein M., e Schwartz M. S. (2008). The effectiveness of business codes: A critical
examination of existing studies and the development of an integrated research model.
Journal of Business Ethics, 77, 111-127.
elaborarono ulteriormente il concetto
formalizzando un’altra definizione anch’essa molto citata dagli studi
successivi:
21 Langlois C. C., e Schlegelmilch B. B. (1990). Do corporate codes of ethics reflect
national character? evidence from europe and the United states. Journal of International
Business Studies, 21(4), 519-539. 22 Vedi nota 20.
-
14
“A business code is a distinct and formal document containing a set
of prescriptions developed by and for a company to guide present
and future behavior on multiple issues of at least its managers and
employees toward one another, the company, external stakeholders
and/or society in general” (2008, pag. 113).
Uno fra gli aspetti più studiati dei codici etici sono le motivazioni che
spingono le imprese ad adottarli. Nonostante non esista un framework
condiviso in tal senso, le motivazioni proposte dai diversi autori si
sovrappongono ed integrano a vicenda.
Ad esempio, secondo Molander (1987) i codici etici permettono di
raggiungere tre distinti obiettivi:
• eliminare o prevenire pratiche non etiche che possono danneggiare
l’organizzazione;
• stabilire la legittimità di azioni disciplinari in caso di violazioni;
• aiutare gli individui a risolvere dilemmi etici.
Carasco e Singh (2003) elencano invece 5 motivazioni, in alcuni aspetti
riconducibili alle categorie di Molander:
• migliorare la reputazione e l’immagine della società;
• segnalare ad azionisti, attivisti e media che la società si è impegnata
a tenere un comportamento etico;
• creare una cultura d’impresa coesiva;
• evitare multe, sanzioni e contenziosi;
• incrementare le prospettive di sviluppo nei mercati emergenti.
Infine, Mcdonald (2009), anziché proporre un elenco di motivazioni, ne
individua tre livelli successivi, sulla base del livello di integrazione dei
codici all’interno della strategia aziendale:
• motivazioni semplicistiche: ad esempio l’imitazione di altre imprese;
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• necessità strategiche: riduzione del rischio e gestione della
reputazione;
• riconoscimento del valore dell’accountability etica non solo verso gli
azionisti ma verso tutti gli stakeholder.
1.4 I codici etici in Italia
Lo sviluppo in Italia dei codici etici ha ricevuto una spinta considerevole
all’inizio degli anni ’90 (Garegnani, 2008), in seguito allo scandalo di
“Tangentopoli”, che ha visto coinvolte numerose imprese di grande
rilevanza, facendo sorgere non poche perplessità in merito al corretto
funzionamento dell’intero sistema imprenditoriale.
Dal punto di vista normativo, nessun provvedimento prevede
espressamente che le imprese istituiscano un proprio codice etico, ma tale
scelta è stata comunque fortemente condizionata dall’introduzione del
D.Lgs. 231/2001, in certa misura ispirato alle Federal Sentencing
Guidelines statunitensi descritte nel paragrafo precedente. Tale decreto,
insieme alle sue molteplici integrazioni successive, introduce in primo
luogo la responsabilità penale per i soggetti giuridici. In secondo luogo,
esso prevede che l’ente non sia ritenuto responsabile del reato a
condizione che sia stato in precedenza predisposto un idoneo Modello
Organizzativo.
Tale modello, così come definito dalla normativa vigente, non prevede
espressamente il codice etico come una propria componente (come invece
accade nel caso delle Federal Sentencing Guidelines e del codice etico
istituito dalla SEC negli Stati Uniti), ma tale introduzione è invalsa nella
prassi ed è soprattutto prevista dalle Linee Guida di Confindustria23
23 Vedi nota 5.
, le
-
16
quali, prima di delineare un framework di riferimento per l’elaborazione
pratica di un codice etico aziendale, affermano come “L’adozione di
principi etici rilevanti ai fini della prevenzione dei reati ex D. Lgs.
231/2001 costituisce un elemento essenziale del sistema di controllo
preventivo” (2008, pag. 26).
Tali linee guida forniscono inoltre una definizione generale di codice etico,
già citata nel secondo paragrafo, la quale è propeduetica all’introduzione
delle sue funzioni. Infatti, secondo Confindustria, i codici “mirano a
raccomandare, promuovere, o vietare determinati comportamenti, al di là
ed indipendentemente da quanto previsto a livello normativo, e possono
prevedere sanzioni proporzionate alla gravità delle eventuali infrazioni
commesse” (2008, pag. 26).
Il D.Lgs. 231/2001 ha, in conclusione, spinto le imprese all’adozione di un
codice etico, facendo sì che la maggioranza delle grandi imprese italiane
ne abbia adottato uno. Tale fenomeno ha spostato l’attenzione della
ricerca accademica italiana dall’ambito della scelta, o opportunità, per le
imprese di adottare un codice, alle caratteristiche che lo stesso dovrebbe
avere, come ad esempio l’adattamento allo specifico contesto di
riferimento, i meccanismi di implementazione ed i processi di formazione e
comunicazione per il personale che dovrebbero accompagnare il codice
stesso.
Una nota specifica deve però essere fatta per le PMI italiane. Per la
maggior parte di esse la situazione è differente: spesso, infatti, le PMI
svolgono un ruolo sociale dovuto alla loro integrazione e interdipendenza
reciproca con le comunità di appartenenza, e le pratiche di CSR che
mettono in atto di conseguenza sono diffuse ma non formalizzate. Questo
significa che spesso le PMI italiane non sono neppure consapevoli del ruolo
-
17
strategico delle loro azioni. La non formalizzazione implica, inoltre, che
non sia stato istituito un codice etico vero e proprio.
In conclusione, si può dire che, mentre i codici etici sono ormai
ampiamente diffusi fra le grandi imprese italiane, in parte grazie
all’incentivo del D.Lgs. 231/2001, per la maggior parte del tessuto
industriale italiano, costituito da imprese di piccole e medie dimensioni, la
situazione è ribaltata: nonostante il livello di CSR nella pratica non sia
necessariamente inferiore, l’adozione di codici etici è ancora scarsamente
applicata.
-
18
2. La letteratura sui codici etici
2.1 Breve analisi generale della letteratura
Al di là della già citata mancanza di una definizione condivisa di codice
etico, la continua crescita ed evoluzione del loro ruolo ha
progressivamente stimolato gli studi sul tema, i quali si sono focalizzati
principalmente su due filoni (Helin e Sandström, 2007; McDonald, 2009):
• la ricerca di una prova della reale ricaduta dei codici etici sui
soggetti che li emettono, in termini di effettiva capacità di
condizionare il comportamento all’interno delle organizzazioni24
• l’analisi del contenuto dei codici etici stessi, confrontandoli sia
all’interno del medesimo contesto nazionale
;
25, che in ottica
internazionale26; altri studi hanno invece mirato a costruire uno
strumento di analisi senza effettuare direttamente una ricerca
empirica27
.
Per quanto riguarda il primo filone, sono state proposte e sperimentate
molteplici proxy dell’efficacia dei codici, anche se non si è riusciti ad
identificare uno strumento almeno in parte condiviso.
24 In particolare: Mathews (1987), Weaver (1995), Cleek e Leonard (1998), Cowton e
Thompson (2000), Marnburg (2000), Schwartz (2001), Somers (2001), McKendall et al.
(2002), Peterson (2002) e Singh (2006).
25 Ad esempio, per gli USA: Cressey e Moore (1983), Benson (1989), Robin et al. (1989),
McCraw et al. (2009) e Kaptein (2011); per il Canada: Lefebvre e Singh (1992),
Schwartz (2002), Donker et al. (2008) e Singh (2011); per l’Italia: Lugli et al. (2009).
26 È possibile citare in questo caso Farrell e Cobbin (1996), Wood (2000), Carasco e
Singh (2003), Kaptein (2004) e Erwin (2011).
27 In particolare: Molander (1987) e Gaumnitz e Lere (2004).
-
19
Molti autori utilizzano come variabile indipendente, su cui misurare
l’efficacia, la mera esistenza di un codice etico o, più spesso, la
consapevolezza dei dipendenti di tale esistenza all’interno
dell’organizzazione. Ad esempio, Cleek e Leonard (1998) indagano,
tramite la somministrazione di questionari a studenti di una business
university statunitense, se l’esistenza di un codice modifichi il
comportamento di fronte a dilemmi etici. Marnburg (2000), invece,
utilizzando un campione casuale di professionisti norvegesi, correla
l’esistenza di un codice all’atteggiamento delle persone verso una serie di
tematiche etiche. Entrambi gli studi giungono a conclusioni negative in
termini di efficacia del codice.
Cowton e Thompson (2000) si concentrano su un codice del settore
bancario, ossia una dichiarazione parte del programma UNEP28
Somers (2001) studia il legame fra l’esistenza di un codice etico aziendale
e professionale negli USA e il comportamento dei dipendenti, con risultati
in parte positivi. In particolare, l’autore analizza tre componenti:
volta a
promuovere comportamenti che favoriscano la sostenibilità ambientale. Il
loro obiettivo è verificare, tramite questionari, se le banche firmatarie
utilizzino in misura maggiore i criteri ambientali all’interno del processo di
concessione dei prestiti. I risultati di tale studio mostrano che,
complessivamente, esiste una differenza, di segno atteso, fra banche
firmatarie e non, ma tale differenza non è statisticamente significativa.
• la misura in cui i dipendenti abbiano avuto conoscenza diretta di
frodi finanziarie perpetrate negli ultimi 5 anni nelle organizzazioni in
cui lavorano attualmente;
28 Lo United Nations Environment Programme (UNEP) è un’agenzia speciale dell’ONU che
combatte i cambiamenti climatici promuovendo la tutela dell’ambiente e l’uso
sostenibile delle risorse naturali.
http://it.wikipedia.org/wiki/Cambiamento_climatico�http://it.wikipedia.org/wiki/Risorsa_naturale�
-
20
• la percezione dei valori organizzativi: ai dipendenti è chiesto di
ordinare 4 possibili obiettivi sulla base dell’importanza attribuita loro
all’interno dell’organizzazione di riferimento:
− massimizzazione del profitto;
− impegno in attività di volontariato e filantropia;
− rispetto di leggi e regolamentazioni;
− comportamento morale ed etico;
• organizational commitment: misurato tramite la short form
dell’Organizational Commitment Questionnaire29
Infine, Peterson (2002) mira a verificare due diverse ipotesi fra loro
legate. La prima è se ci sono differenze negli ethical climates (misurati
tramite un questionario precedentemente sviluppato da Victor e Cullen
.
30)
di imprese con e senza codici etici, con risultati significativamente positivi.
La seconda domanda di ricerca è se la presenza di un codice etico influenzi
la relazione tra ethical climate e ethical behavior, quest’ultimo misurato
tramite il self-reported unethical behavior31
29 L’Organizational Commitment Questionnaire è stato elaborato da Mowday et al. (1979)
sulla base della definizione di commitment elaborata da Porter et al.: "strength of an
individual's identification with and involvement in a particular organization" (1974, pag.
604). In particolare, il concetto di commitment include:
. In questo caso, Peterson
• l’accettazione degli obiettivi e dei valori dell’organizzazione;
• la volontà di compiere uno sforzo a favore dell’organizzazione;
• il desiderio di rimanere membri dell’organizzazione. 30 Victor B., e Cullen J. B. (1987). A theory and measure of ethical climate in
organizations. Research in Corporate Social Performance and Policy, 9, 51-71.
Gli autori hanno elaborato un Ethical Climate Questionnaire (ECQ) basandosi sull’idea
che l’ethical climate sia la percezione condivisa di cosa sia un corretto comportamento
etico e di come le tematiche etiche dovrebbero essere gestite all’interno
dell’organizzazione. 31 Tale metodologia consiste nel sottoporre agli intervistati alcune dilemmi etici e
chiedere loro quale comportamento sceglierebbero di assumere in tale situazione.
-
21
osserva in primo luogo che, all’interno delle organizzazioni che hanno
istituito un codice etico, si verifica un minor numero di comportamenti non
etici; ed in secondo luogo, sebbene la ricerca confermi che tali codici
riducono la relazione fra clima e comportamento etico, tale relazione è
ancora presente. Di conseguenza, l’autore conclude che, nonostante
l’indubbia utilità dei codici etici per migliorare il comportamento etico dei
dipendenti, sia comunque necessario per le imprese indirizzare gli sforzi
anche verso il miglioramento del clima etico.
Altri studi utilizzano variabili più specifiche rispetto all’esistenza di un
codice etico, ad esempio elementi legati al processo di creazione,
implementazione e monitoraggio del codice stesso, oppure ad altre sue
caratteristiche intrinseche.
In particolare, Mathews (1987), nonostante egli sia uno dei precursori
degli studi moderni sui codici etici, effettua un’analisi molto articolata.
L’autore, infatti, esamina la relazione fra le violazioni riscontrate da
quattro agenzie di regolamentazione statunitensi32
32 In particolare:
e la presenza di un
codice etico e di alcune sue componenti più specifiche, ad esempio la
trattazione di certe tematiche oppure la presenza di meccanismi di
1. la Food and Drug Administration: agenzia del governo federale che si occupa di
promuovere la salute pubblica regolamentando alimentari, tabacco, farmaci e altri
presidi medici e prodotti veterinari;
2. la Environmental Protection Agency: agenzia del governo federale che si occupa
dell’implementazione della normativa volta alla protezione della salute e
dell’ambiente;
3. la National Highway Traffic Safety Administration: agenzia del Dipartimento dei
Trasporti il cui obiettivo è la riduzione del numero e dell’impatto degli incidenti
stradali;
4. la Consumer Product Safety Commission: agenzia indipendente che regolamenta
la vendita e la produzione di molteplici prodotti di largo consumo.
-
22
rinforzo o sanzionatori. Nonostante l’analisi statistica dia risultati in gran
parte negativi, il lavoro di Mathews è particolarmente interessante anche
perché egli parte dal presupposto che la relazione fra codici etici e
violazioni riscontrate possa essere biunivoca. È quindi possibile che i codici
etici influenzino il comportamento dei membri dell’organizzazione, così
come l’emersione di violazioni commesse all’interno della società possa
spronare la stessa all’adozione di un codice per prevenire in futuro il
ripetersi di tali situazioni.
Weaver (1995), invece, valuta l’impatto della presenza, all’interno dei
codici etici di alcune università, di rationales (che possono appellarsi a
motivazioni interne, come la reputazione e la tradizione
dell’organizzazioni, oppure a legittimazioni esterne, come la normativa e i
principi etici generali) e sanzioni esplicite su due diverse proxy, o, meglio,
precondizioni, dell’efficacia dei codici. La prima è la content recall and
comprehension, ossia la capacità dei membri di riconoscere, ricordare e
capire i contenuti del codice etico. La seconda proxy è la justice perception
all’interno dell’organizzazione, ossia in che modo i suoi membri vedono la
qualità delle relazioni fra l’organizzazione nel suo complesso ed i suoi
membri e di questi ultimi fra loro. I risultati dello studio indicano che la
presenza dei rationales influenza alcuni aspetti della justice perception (in
particolare la procedural ma non la distributive), ma non riesce a
dimostrare l’impatto di rationales e sanzioni sulla content recall. Weaver
avanza inoltre un’ipotesi interessante: se i codici hanno una funzione
prevalentemente simbolica e non pratica, allora non è importante come
sono fatti, e quindi se contengano o meno rationales e sanzioni, ma è
rilevante soltanto la loro presenza.
Schwartz (2001), invece, non fa analisi di tipo statistico, ma, utilizzando la
tecnica delle interviste, indaga la relazione fra codici e comportamenti.
Dopo aver effettuato un esame preliminare del livello di consapevolezza
-
23
fra i dipendenti degli standard etici del codice adottato dalla propria
società, egli cerca di rispondere alle seguenti tre domande:
1. se i codici abbiano una influenza di qualche genere sui
comportamenti;
2. quali sono le ragioni che spingono le persone ad agire o meno sulla
base di quanto prescritto dai codici;
3. in che modo i codici influenzano i comportamenti.
McKendall et al. (2002) studiano, tramite una regressione statistica, il
legame fra le violazioni registrate dall’Occupational Safety and Health
Administration (OSHA)33
Singh
e numerose variabili dei programmi etici, tra cui
esistenza, grado di sviluppo, contenuto e revisione dei codici, con risultati
tuttavia negativi.
34
Più recentemente, lo stesso autore ha applicato una metodologia più
strutturata per giungere allo stesso obiettivo, ovvero verificare l’efficacia
valuta gli effetti di alcune variabili legate ai codici, quali varie
caratteristiche della loro istituzione e implementazione, chiedendo
direttamente agli intervistati di indicare nel questionario quali dei benefici
proposti siano stati conseguiti tramite i programmi etici in essere, e se il
codice sia stato effettivamente utilizzato per risolvere dilemmi etici
emergenti. L’autore conclude che, in generale, “ethics has become an
element of the corporate bottom line, either as an end in itself or as a
means to better economic performance” (2006, pag. 134).
33 L’Occupational Safety and Health Administration (OSHA) è un’organizzazione che fa
parte dello United States Department of Labor e si occupa di sicurezza e salute negli
ambienti di lavoro.
34 Singh J. B. (2006). Ethics programs in canada's largest corporations. Business and
Society Review, 111(2), 119-136.
-
24
dei codici etici adottati dalle imprese. In questo studio35, infatti, egli
elabora delle variabili predefinite sia in termini di caratteristiche dei codici
etici da indagare36
• obiettivo del codice;
, sia come proxy dell’efficacia dei codici stessi,
quest’ultima misurata tramite la percezione del management in proposito.
L’analisi statistica svolta in seguito con il metodo della regressione
evidenzia un forte legame fra l’efficacia e 4 dei 5 fattori identificati:
• implementazione del codice;
• comunicazione ed enforcement del codice all’interno della società;
• diffusione e comunicazione esterna del codice.
Il quinto fattore, ovvero l’applicazione recente del codice etico ad un caso
concreto, non è invece risultato significativo.
Infine, anche Kaptein (2011) ha studiato l’efficacia dei codici etici, in
questo caso misurata chiedendo ai dipendenti di alcune società di riportare
il comportamento non etico osservato nei propri colleghi37
• l’esistenza di un codice etico;
. Come variabili
indipendenti, l’autore ha identificato alcune caratteristiche dei codici etici
e, più in generale, dei programmi implementati in tal senso dalle imprese:
• la frequenza della comunicazione a proposito dei codici;
• la qualità della comunicazione a proposito dei codici;
• il contenuto dei codici; 35 Singh J. B. (2011). Determinants of the effectiveness of corporate codes of ethics: An
empirical study. Journal of Business Ethics, 101, 385-395. 36 L’autore identifica in particolare 18 variabili, raggruppate in seguito alle interviste in 5
macrofattori tramite la tecnica della factor analysis.
37 L’autore preferisce inserire come variabile nel suo modello il comportamento osservato
nei colleghi anziché il cosiddetto self-reported, utilizzato in altri studi in tale ambito, per
attenuare l’effetto del social desiderability bias, ossia la tendenza dei partecipanti ad
uno studio a rispondere nel modo che ritengono darà una migliore immagine di loro
stessi.
-
25
• l’integrazione dei codici nell’organizzazione da parte del
management.
La relazione fra queste variabili e l’efficacia dei codici etici è stata indagata
tramite una regressione gerarchica, il cui esito, in termini generali, è che
la mera esistenza dei codici difficilmente spiega l’assenza di
comportamenti non etici. Infatti, la significatività di questo legame
scompare appena sono inserite nel modello altre variabili più specifiche. Le
caratteristiche dei programmi etici che risultano quindi maggiormente
rilevanti in termini di impatto sul comportamento dei dipendenti sono il
contenuto dei codici, la qualità della comunicazione a proposito dei codici
e l’integrazione dei codici nell’organizzazione da parte del management.
Il secondo filone di studio, il quale si è focalizzato sul contenuto dei codici,
può essere ulteriormente suddiviso al proprio interno fra gli autori che si
sono limitati a descriverli (ad esempio analizzandone la struttura e la
frequenza della presenza di certi temi), senza però esprimere un giudizio
di merito, e quelli che hanno invece compiuto il passo ulteriore di valutare,
implicitamente o esplicitamente, la qualità dei codici oggetto di indagine.
Questi ultimi verranno approfonditi nello specifico all’interno del paragrafo
successivo.
Il contributo principale degli studi che si sono dedicati ad un’analisi
descrittiva dei codici etici è quello di aver definito un framework, o,
meglio, diversi framework di riferimento che, consolidandosi nel tempo,
hanno consentito di effettuare successivamente studi più mirati e/o
complessi su basi solide.
Tra questi, è possibile citare in primo luogo Cressey e Moore38
38 Vedi nota 9.
i quali
hanno esaminato i codici di 119 società U.S. con tre obiettivi: riassumerne
il contenuto per avere un quadro d’insieme, evidenziare i principali
-
26
orientamenti di fondo sottostanti ai codici e infine capire se, e fino a che
punto, i codici rispecchino le crescenti richieste etiche della società
americana. L’analisi è stata svolta all’interno di tre campi di indagine:
1. Policy areas: gli autori hanno classificato i temi trattati nei codici in
tre categorie: conduct on behalf of the firm, conduct against the firm
e integrity of books and records, applicando una scala di
misurazione a quattro livelli del loro grado di integrazione all’interno
dei codici stessi:
a. not discussed;
b. discussed;
c. discussed in detail;
d. emphasized.
2. Authority: definite come “precepts, tenets, or principles that make a
code’s policies seem ethical, morally necessary, or legitimate”
(1983, pag. 59); in particolare, gli autori distinguono fra
metaphysical e legal-political principles. I primi talvolta fanno
riferimento a principi religiosi, ma più spesso è genericamente
affermato il valore della virtù in sé stessa; il principio politico-legale
più diffuso è invece il contratto sociale. Inoltre, tali principi sono più
spesso interni al mondo degli affari piuttosto che fondati su fonti
esterne di autorità.
3. Compliance procedures: a loro volta catalogate in: controllo basato
sulla sorveglianza, controllo basato sull’integrità del personale
aziendale e controllo svolto da agenti esterni o agenzie.
In seguito, Mathews (1987), nello studio già citato nel paragrafo
precedente, ha ampliato tali categorie, identificando in primo luogo tre
macrocategorie di analisi:
• comportamenti e azioni trattati dal codice;
-
27
• procedure di enforcement;
• sanzioni in caso di mancata compliance.
Inoltre, l’autore ha classificato i codici etici sulla base del grado di
inclusione al loro interno di 64 elementi differenti, applicando la medesima
scala di misurazione introdotta da Cressey e Moore (1983). Gli elementi
sono stati poi riassunti in 10 aree di interesse.
Lefebvre e Singh (1992) partono anch’essi dagli elementi individuati dagli
studi appena citati con alcune modifiche, in parte per adattarli al contesto
canadese, giungendo all’identificazione di 4 distinte macrocategorie:
• informazioni generali riportate nel codice;
• tipologie di condotta trattate all’interno del codice;
• procedure di enforcement e compliance;
• sanzioni in caso di comportamento illecito.
La stessa metodologia sarà in seguito replicata anche da Carasco e Singh
(2003) per analizzare i codici etici delle 50 maggiori imprese
transnazionali.
Infine, anche Wood (2000) riprende le categorie già utilizzate da Lefebvre
e Singh (1992). L’obiettivo in questo caso è compiere un confronto fra le
risultanze della sua ricerca intorno ai codici di 83 società Australiane e
quelle degli studi di Mathews (1987), che si era occupato di imprese
americane, e di Lefebvre e Singh (1992), i quali avevano guardato al caso
canadese.
Benson (1989), invece, descrive i codici etici di 150 imprese statunitensi
sulla base della presenza o meno al loro interno di 12 elementi,
categorizzati in maniera differente rispetto ai casi precedenti: relazioni fra
l’impresa e i suoi dipendenti, relazioni fra dipendenti, whistle blowing,
impatto dell’impresa sull’ambiente, corruzione commerciale, informazioni
privilegiate, altri conflitti d’interesse, regolamentazione antitrust,
-
28
informativa economico-finanziaria, relazioni con i consumatori, attività e
contributi politici, utilizzo e enforcement dei codici. Dall’analisi di 155
codici etici di società statunitensi, l’autore osserva come, in generale, essi
abbiano per lo più uno stampo “legalistico”, volto quindi a soddisfare i
diversi requisiti normativi, ad esempio le leggi anti-trust e contro la
discriminazione, i regolamenti SEC contro l’insider trading.
Infine, il contributo di Gaumnitz e Lere (2004) è significativo all’interno
della letteratura sui codici etici in primo luogo in quanto propone una
prospettiva di analisi radicalmente differente. Gli autori, infatti, spostano
l’attenzione dalla presenza di determinati temi all’interno dei codici alla
struttura interna dei codici stessi, identificando sei dimensioni, in parte
quantitative, che permettono sia di descrivere i singoli codici che di
effettuare confronti più oggettivi fra codici diversi per identificarne le
principali differenze. Tali misure sono:
• length: numero di affermazioni o paragrafi;
• focus: numero di tematiche trattate;
• level of detail: numero medio di affermazioni per tematica;
• shape: descritta come thematic emphasis, è una sorta di varianza
del numero di affermazioni per ciascuna tematica; in particolare, si
distingue fra codici orizzontali o verticali: nel primo caso le
affermazioni sono più o meno equamente distribuite fra le varie
tematiche, nel secondo caso l’accento è posto su una o poche
tematiche in particolare;
• thematic content: è un termine descrittivo che, nei codici di tipo
verticale, esplicita la tematica su cui è posta l’enfasi;
• tone: l’obiettivo è descrivere la reazione emotiva suscitata dal
codice, per distinguere soprattutto fra codici di tipo “legalistico” e
codici “ispiratori”, una misura quantitativa suggerita in questo caso è
la percentuale di frasi espresse in modo positivo.
-
29
Questo metodo è stato in seguito applicato empiricamente da McCraw et
al. (2009) per studiare il grado di aderenza dei codici etici selezionati per
l’indagine ai criteri stabiliti da SEC e NYSE per le società e AACSBI39
È opportuno sottolineare come, nonostante il lavoro di Gaumnitz e Lere
non sia volto ad indicare un modello di codice etico ideale, né ad
esprimere giudizi di valore in merito alle caratteristiche teoricamente più
idonee al raggiungimento delle finalità prefissate, la loro ricerca può
essere considerata a pieno titolo un primo tentativo di elaborazione di
misure “quantitative” dei codici etici, costituendo quindi un importante
precedente per l’ampliamento dello spettro di analisi della ricerca
accademica sulla qualità dei codici etici, ampliamento messo in atto nella
pratica dagli studi richiamati di seguito.
per le
business schools. Lo studio è stato condotto dapprima classificando tali
criteri sulla base delle dimensioni di thematic content e focus/themes, ed
in seguito studiando il grado di diffusione delle tematiche così
categorizzate all’interno dei codici raccolti.
2.2 Il focus sul tema della qualità
Tra gli autori che hanno fornito anche un giudizio di valore sulla qualità dei
codici oggetto di indagine, è possibile effettuare una ulteriore distinzione
tra coloro che hanno effettuato una analisi di tipo qualitativo (ad esempio
valutando l’adeguatezza dei temi trattati e, soprattutto in seguito, del
processo di creazione, implementazione e monitoraggio dei codici, talvolta
reputato più rilevante dei codici stessi) e coloro che, invece, hanno cercato
di individuare uno strumento di tipo quantitativo. Quest’ultimo non solo
39 L’Association to advance Collegiate Schools of Business International (AACSBI), è
un’organizzazione no-profit globale che riunisce gli istituti educativi, le aziende e le altre
entità che si occupano di formazione manageriale.
-
30
consentirebbe di esprimere un giudizio in qualche modo il più oggettivo
possibile sui singoli codici analizzati, con l’obiettivo di confrontarli fra loro
su basi più solide, ma costituirebbe anche il punto di partenza per analisi
ulteriori. In particolare, la possibilità di valutare l’efficacia dei codici etici,
misurata con le diverse modalità già descritte nel paragrafo precedente,
ponendola in relazione alla qualità degli stessi.
Tra i primi si può citare Molander40
“If a code is too general, it may be unclear as to when the code has
been violated or how it is to be enforced. If it is too specific, it will
lose flexibility and be inapplicable to a wide variety of situations,
thus losing broad support and even encouraging people to believe
anything not covered in the code is acceptable behavior” (1987,
pag. 623-624).
, il quale introduce il tema del dilemma
inerente al disegno dei codici, ossia la tensione tra indicazioni specifico-
pratiche e principi generali:
Infatti, l’autore elabora uno schema di fondo in base al quale dovrebbero
essere disegnati i codici etici di tutte le società. Dopo aver evidenziato
l’importanza del preambolo nel sottolineare sia la legittimità degli obiettivi
di profitto che i limiti che essi incontrano nelle aspettative e nei valori
della società, Molander elenca tutte le tematiche che dovrebbero essere
contenute in un codice e le classifica a seconda che esse siano da trattare
in termini di precetti generali, di indicazioni pratiche specifiche e/o di
riferimento alla normativa vigente.
Il tema del dilemma inerente alla costruzione dei codici verrà poi
riproposto frequentemente negli studi successivi, rappresentando, in
effetti, uno degli ostacoli più rilevanti alla costruzione di un framework 40 Molander E. A. (1987). A paradigm for design, promulgation and enforcement of
ethical codes. Journal of Business Ethics, 6, 619-631.
-
31
condiviso per la valutazione della qualità dei codici etici, sia in termini di
comparazione con un possibile modello ideale, sia di confronto fra gli
stessi codici.
Ad esempio, Raiborn e Payne41
indicano che un codice etico per essere
efficace deve essere "comprehensive", ossia coprire "virtually any
conduct" (1990, pag. 883). Tuttavia, Weaver (1995) sottolinea come tale
obiettivo possa essere realizzato attraverso due modalità opposte, ossia
attaverso codici estremamente dettagliati oppure estremamente generici.
Robin et al. (1989) classificano gli items presenti nei codici in 30
categorie, 24 delle quali successivamente raggruppate in tre distinti
cluster:
• be a dependable organization citizen;
• don’t do anything unlawful or improper that will harm the
organization;
• be good to our customers.
Gli items sono poi inseriti in una matrice composta da quattro celle sulla
base del degree of guidance (little o very specific) e del type of guidance
(value-based o rule-based), come mostrato nella Figura 1.
Gli autori indicano poi esplicitamente che gli items ideali sono value-based
e caratterizzati da una very specific guidance, ossia che forniscono
indicazioni pratiche; non ne trovano però nessuno di questo tipo.
41 Raiborn C. A., e Payne D. (1990). Corporate codes of conduct: A collective conscience
and continuum. Journal of Business Ethics, 9, 879-889.
-
32
Figura 1: matrice elaborata da Robin et al. per classificare gli items
presenti nei codici etici
Le stesse metodologie saranno poi utilizzate da Farrell e Cobbin42
• social and public implications are to be considered in making
decisions;
per
verificare il reale grado di eticità dei codici. Questi autori identificano tre
items con le caratteristiche qualitative suggerite da Robin et al. (1989), i
quali sono però poco diffusi fra i codici esaminati:
• the openness and public disclosure test is to be used for actions;
• promises are to be kept (1996, pag. 53).
42 Farrell B., e Cobbin D. (1996). A content analysis of codes of ethics in australian
enterprises. Journal of Managerial Psychology, 11(1), 37-55.
-
33
Schwartz (2002), sebbene con un approccio di fondo simile al precedente,
abbandona il focus sugli items per indagare invece i valori etici contenuti
nei codici. L’autore aveva già identificato in precedenza (Schwartz, 1998)
6 “morali universali” (trustworthiness, respect, responsibility, fairness,
caring, citizenship), e in questo studio le applica al processo di sviluppo
dei codici. L’autore conclude che, oltre a dover essere necessariamente
presenti nel testo di un codice tutte e 6 le morali individuate, devono
essere rispettate anche altre numerose condizioni che da esse discendono,
sia in termini di contenuti dei codici che del loro processo di creazione,
implementazione e monitoraggio.
Kaptein43
“the greater the frequency with which an issue is addressed the
greater reason a company should have for not incorporating this
issue in its business code” (2004, pag. 16).
, prima di utilizzare lo schema di classificazione che era stato in
precedenza proposto da Kaptein e Wempe (2002) per analizzare i codici
delle 200 maggiori società a livello mondiale, riflette sul tema della qualità
dei codici partendo da un punto di vista radicalmente differente dal
precedente: la necessità o meno di includere un determinato item non è
vista in funzione della sua aderenza ad un presunto valore universale,
bensì della sua stessa diffusione. L’autore, infatti, parte dal presupposto
che, se un tema è menzionato da numerosi codici, questo fatto sia una
prova sufficiente per affermarne la rilevanza. Di conseguenza, egli afferma
che, nonostante l’obbligo morale ad includere un elemento nei propri
codici etici non sia direttamente proporzionale alla frequenza con cui tale
elemento sia presente nei codici di altre società,
43 Kaptein M. (2004). Business codes of multinational firms: What do they say? Journal of
Business Ethics, 50, 13-31.
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34
È inoltre possibile citare Lugli et al. (2009), i quali classificano i codici delle
società italiane quotate sulla base di otto categorie elaborate a partire
dalla letteratura precedente:
• funzione esplicita del codice;
• principi generali;
• valori sociali;
• relazioni con terze parti;
• regole di condotta;
• implementazione;
• sanzioni;
• regolamentazione.
La qualità dei codici etici, intesa come impegno effettivo della società in
termini etici, al di là del semplice disegno di un codice, è valutata dagli
autori in funzione della coerenza interna fra le due tipologie principali di
elementi identificabili all’interno dei codici, ossia, da un lato, i principi, i
valori e gli stakeholder di riferimento, e, dall’altro lato, le categorie di
regole che sono correlate a ciascuno di tali elementi “on a common-sense
basis” (2009, pag. 43).
Infine, alcuni studi hanno declinato la qualità dei codici etici su diverse
componenti dei programmi etici, quali il loro processo di implementazione
e comunicazione.
Ad esempio, il lavoro di Kaptein44
44 Kaptein M. (2011). Toward effective codes: Testing the relationship with unethical
behavior. Journal of Business Ethics, 99, 233-251.
già citato nella trattazione degli studi
intorno all’efficacia dei codici etici, riporta, fra le variabili indagate, la
qualità del contenuto dei codici etici e la qualità della comunicazione in
proposito.
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Inoltre, Wood (2002) fa un’analisi originale delle diverse componenti dei
programmi etici, elaborando un modello dell’etica d’impresa fondata sul
concetto di commitment. In particolare, le componenti individuate sono
inserite nello schema rappresentato in Figura 2 sulla base di tre categorie:
1 commitment verso e da parte di dipendenti e azionisti;
2 commitment verso gli artefacts organizzativi con finalità etiche;
3 commitment all’etica nel mercato di riferimento.
Figura 2: modello di etica d’impresa elaborato da Wood
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36
Inserendo all’interno di un questionario le variabili contenute in tale
modello, Callaghan et al.45
“Most companies have got their house in order by having nearly all
of the window dressing that one should have, but the foundations
may be shaky and when stressed they collapse because ethical
principles are not embedded at the foundation stage of the business
– the strategic planning stage that sets up the business and its goals
and dictates its actions in the marketplace” (2012, pag. 27).
hanno svolto una ricerca empirica per cercare
di valutare la Code of Ethics Quality (CEQ) dei codici etici di alcune
imprese australiane, canadesi e statunitensi. La conclusione generale degli
autori è che le imprese parte del campione abbiano recepito e
implementato tutti gli elementi necessari per la promozione di programmi
etici che possano definirsi completi. Tuttavia, a tali programma manca un
elemento fondamentale, ossia l’integrazione fra essi e la strategia
aziendale. Più precisamente, si sottolinea che:
Nel gruppo di studi che hanno invece tentato di identificare una misura
quantitativa della qualità dei codici etici rientrano in particolare gli studi
svolti da Donker et al. (2008) e Erwin (2011).
Il primo indaga l’impatto della qualità del codice etico sul market-to-book
value46
45 Callaghan M., Wood G., Payan J., Singh J. B., e Svensson G. (2012). Code of ethics
quality: An international comparison of corporate staff support and regulation in
australia, canada and the united states. Business Ethics: A European Review, 21(1), 15-
30.
delle maggiori società canadesi. Per misurare tale qualità gli autori
46 Il market-to-book-value, o price-to-book-value, è pari al rapporto fra il prezzo delle
azioni ed il loro valore contabile. Un elevato valore di questo indicatore suggerisce che il
mercato si aspetta una consistente creazione di valore tramite gli investimenti effettuati
dalla società.
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partono dai valori universali identificati da Schwartz47
Erwin (2011), invece, allarga il concetto di qualità all’implementazione del
codice oltre che al suo contenuto. La qualità in questo caso è quantificata
dal voto emesso dall’Etisphere Institute
e li integrano con
altri elementi per elaborare un CV-Index, ossia un indice numerico
costruito sommando 10 indicatori dummy, il cui valore è pari ad 1 o 0
sulla base della menzione o meno dei seguenti valori all’interno del codice:
accountability, courage, excellence, fairness, honesty, honor, respect,
trust, integrity e responsibility. Gli autori riescono ad identificare una
relazione positiva e significativa fra i valori delle società e la loro
performance.
48, ed è correlata dall’autore alla
generale performance delle società in termini di Corporate Social
Responsibility, così come risultante dal Covalence Ethical Rankings49
47 Schwartz M. S. (2005). Universal moral values for corporate codes of ethics. Journal of
Business Ethics, 59, 27-44.
, un
database che non indaga in prima persona l’eticità delle società, ma ne
48 L’Etisphere Institute è un’organizzazione nata da Corpedia, una società di consulenza
che fornisce servizi in ambito di compliance e responsabilità sociale delle imprese. Tale
istituto pubblica periodicamente delle valutazioni sui codici etici delle società. Il suo
metodo si basa sull’assegnazione di un punteggio (da A, massimo, ad F, minimo) alle
seguenti 8 macrocategorie di analisi: Public Availability, Tone from the Top, Readability
& Tone, Non-Retaliation & Reporting, Values & Commitments, Risk Topics,
Comprehension Aids, Presentation & Style.
Il dettaglio delle variabili considerate per ciascuna macrocategoria non è disponibile al
pubblico, in quanto si tratta di una metodologia sviluppata e detenuta in esclusiva
dall’Etisphere Institute, il quale divulga informazioni soltanto in merito alle
macrocategorie sopra elencate.
49 Covalence è un’organizzazione svizzera che fornisce, oltre al database Ethical
Rankings, un EthicalQuote, ossia un giudizio sulla percezione esterna del loro grado di
eticità, per 581 società multinazionali in 18 settori sulla base della loro performance
etica, valutata tramite le notizie pubbliche ed altre fonti informative.
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valuta la reputazione etica sulla base di valutazioni espresse da altri
soggetti.
I risultati dell’indagine portano l’autore a concludere che, nonostante i
codici etici possano essere un driver fondamentale per la CSR, per le
società che hanno già integrato in precedenza tali pratiche all’interno della
cultura organizzativa, l’effetto dei codici etici può risultare ridonante.
Questi due studi mostrano, in conclusione, come l’identificazione di un
indicatore quantitativo che rappresenti in qualche modo la qualità dei
codici etici abbia due importanti obiettivi.
In primo luogo, elaborare uno strumento che consenta di confrontare fra
loro in modo il più oggettivo possibile codici differenti.
In seconda battuta, utilizzare questo indicatore per sviluppare analisi più
complete, permettendo di utilizzare anche strumenti statistici oltre alla
sola valutazione qualitativo-descrittiva. Ad esempio, è possibile effettuare
un confronto fra paesi diversi, come nel caso del lavoro di Farrell e Cobbin
(1996) e di Wood (2000), oppure mettere in relazione la qualità dei codici
con altre caratteristiche dell’impresa o dell’ambiente di riferimento.
Il presente lavoro si prefigge proprio questo obiettivo, ossia indagare il
legame fra una misura della qualità dei codici etici, in particolare uno
score calcolato sulla base di una metodologia descritta nel quarto capitolo,
e diversi aspetti della Corporate Governance delle imprese che li hanno
adottati, in termini sia di composizione del Consiglio di Amministrazione
che di Assetti Proprietari.
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3. Il legame fra codici etici e Corporate Governance: le
domande di ricerca
3.1 La Corporate Governance
Nel 1992 un comitato presieduto da Adrian Cadbury pubblicò un
documento50, meglio conosciuto come Cadbury Report, che è considerato
l’origine dell’interesse sempre più diffuso di istituzioni e imprese per il
tema della Corporate Governance. Tale documento, i cui contenuti hanno
ispirato la redazione delle diverse forme di regolamentazione, obbligatorie
e non, in tale ambito51
“the system by which companies are directed and controlled”.
, definisce la Corporate Governance nel seguente
modo:
50 Cadbury Committee. (1992). The financial aspects of corporate governance. Londra:
Gee and Co. 51 In termini di regolamentazione obbligatoria, con riferimento al caso italiano è possibile
citare, ad esempio, il Codice Civile ed il Testo Unico per la Finanza (TUF, ossia il D.Lgs.
n. 58 del 24 febbraio 1998). Lo sforzo maggiore è stato comunque rivolto, nei paesi
occidentali, all’istituzione di Codici di Autodisciplina, diversi fra loro ma comunque
costruiti intorno a principi e buone prassi similari. Ad esempio, oltre al Cadbury Report
britannico, aggiornato nel 2002, è possibile citare:
• il Rapporto Vienot in Francia, redatto nel 1995 e aggiornato nel 1999;
• il Rapporto Peters in Olanda, 1997;
• il Rapporto Cardon in Belgio, 1998;
• il Rapporto Olivencia in Spagna, 1998;
• il Rapporto Hampel nel Regno Unito, 1998;
• il Codice Preda (Codice di Autodisciplina di Borsa Italiana, istituito nel 1999 e aggiornato nel 2002, 2006 e 2011).
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Si evidenzia, quindi, come la Corporate Governance ruoti attorno a due
tematiche fondamentali della vita d’impresa: la sua gestione ed il controllo
degli organi preposti a tale compito (MacMillan et al., 2004).
In termini generali, l’interesse intorno a questo tema nasce come risposta
ai problemi posti dalla teoria dell’agenzia52
In seguito, tale concetto è stato ampliato ed applicato a casi differenti da
quello della tipica public company statunitense, fino a ricomprendere tutti i
possibili conflitti fra i diversi stakeholder dell’impresa. Ad esempio, nel
caso delle strutture proprietarie concentrate di tipo europeo, la Corporate
Governance fornisce gli strumenti per gestire le divergenze di interessi fra
azionisti di maggioranza e di minoranza, o fra azionisti e prestatori di
risorse finanziarie.
, ovvero come strumento di
controllo dell’operato del management da parte degli azionisti (Zattoni,
2006). Infatti, tale teoria affronta il tema della separazione fra proprietà e
controllo, la quale genera divergenze fra gli obiettivi degli azionisti e quelli
perseguiti dai soggetti preposti all’effettiva gestione dell’impresa. Per
riallineare tali obiettivi, gli azionisti impiegano controlli di tipo interno,
ossia, principalmente, i meccanismi di Corporate Governance ed i piani di
incentivazione sulla base delle perfomance economico-finanziarie
dell’impresa. Se tali controlli falliscono, è necessario applicarne di esterni,
come ad esempio il mercato del controllo azionario (Davis et al., 1997).
Più in generale, è possibile applicare tale concetto anche ai conflitti fra
l’impresa e portatori d’interesse quali i dipendenti, i fornitori, i clienti e la
comunità di appartenenza in senso ampio. Infatti, la Corporate
Governance mira a sottolineare le responsabilità dell’impresa verso questi
diversi stakeholder, sui quali essa ha notevole impatto, e dai quali,
52 Jensen M. C., e Meckling W. H. (1976). Theory of the firm: Managerial behavior,
agency costs and ownership structure. Journal of Financial Economics, 3(4), 305-360.
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41
viceversa, essa dipende (MacMillan et al. 2004), in quanto le forniscono le
risorse necessarie alla propria sopravvivenza, competitività e successo.
A partire dagli anni ’90, si è diffusa una teoria alternativa a quella
dell’agenzia, ossia la stewardship theory, la quale presenta un approccio
radicalmente differente e che ha avuto origine da alcuni studi svolti
nell’ambito della psicologia e della sociologia organizzative. Tale approccio
parte da un presupposto contrario rispetto alla teoria dell’agenzia: gli
obiettivi dei manager non sono fondamentalmente opportunistici e in
contrasto con quelli degli azionisti, bensì essi desiderano svolgere al
meglio il proprio lavoro ed essere buoni steward degli asset aziendali
(Donaldson e Davis, 1991). Di conseguenza, secondo questa teoria, non
sono i controlli di Governance a garantire che il management dell’impresa
eserciti efficacemente il proprio compito, e quindi consentire il successo
dell’impresa, bensì sono le strutture organizzative implementate (inclusi i
controlli) ad impedire, se non adeguate, il raggiungimento degli obiettivi
prefissati (Donaldson e Davis, 1991).
Davis et al. (1997) hanno cercato di integrare la teoria dell’agenzia e della
stewardship. Gli autori, partendo dal presupposto che un rapporto di
stewardship comporta minori costi per entrambe le parti rispetto ad un
rapporto di agenzia, si sono chiesti per quale ragione le relazioni non siano
sempre basate sul primo modello. La risposta risiede nel livello di rischio
che gli azionisti sono disposti ad assumersi: i costi di agenzia sono una
sorta di assicurazione che gli azionisti versano per proteggersi dal rischio
di comportamenti opportunistici da parte del management.
Nell’ambito di un’accezione ampia della Corporate Governance, ovvero che
comprenda la tutela degli interessi di tutti gli stakeholder, è possibile
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42
delineare in termini generali gli strumenti e i meccanismi, sia interni che
esterni, di cui essa si compone:
• la normativa;
• la struttura e il funzionamento del Consiglio di Amministrazione e
degli altri organi di governo economico, in particolare l’Assemblea
degli Azionisti (espressione diretta degli assetti proprietari
dell’impresa) ed il Collegio Sindacale;
• i sistemi di controllo interno;
• i sistemi informativi;
• i sistemi di ricompensa (Zattoni, 2006).
3.2 La relazione fra CSR e Corporate Governance
In termini generali, convivono in letteratura due teorie contrastanti
intorno al legame fra responsabilità sociale d’impresa e Corporate
Governance. Secondo la teoria dell’agenzia di Jensen e Meckling (1976), la
CSR è una tipologia di overinvestment, in quanto essa è sfruttata dal
management per acquisire potere e reputazione all’interno della società di
riferimento. Di conseguenza, se esistono controlli adeguati sull’operato del
management all’interno di un’impresa, le pratiche di CSR attuate
dovrebbero essere minime.
Al contrario, secondo la conflict resolution hypothesis, la CSR è utile per
risolvere i conflitti fra l’impresa e i suoi stakeholder di riferimento, e, di
conseguenza, una buona Corporate Governance si dovrebbe tradurre in
maggiori pratiche di CSR. All’interno di questa seconda visione “positiva”
del legame tra CSR e Corporate Governance, è possibile interpretare tale
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legame secondo tre prospettive differenti, come suggerito da Jamali et
al.53
1. La Corporate Governance è un pilastro della CSR, ovvero la sua
qualità è una precondizione affinché l’impresa possa mettere in atto
pratiche di CSR efficaci e coerenti con la strategia aziendale.
:
2. La CSR è una dimensione della Corporate Governance, quest’ultima
intesa in ampio, quindi fino a ricomprendere la responsabilità verso
tutti gli stakeholder di riferimento dell’impresa, ai quali la CSR si
rivolge primariamente.
3. Corporate Governance e CSR fanno parte di uno stesso continuum,
così come teorizzato da Bhimani e Soonawalla54
, il quale conduce
dalla mera compliance alle diverse normative di riferimento ad una
visione strategica che consenta il rilancio della performance
aziendale, attraverso un percorso composto da quattro passaggi
intermedi: reporting economico-finanziario, Corporate Governance,
CSR e, infine, creazione di valore per gli stakeholder.
La letteratura in merito al legame fra codici etici e Corporate Governance
è piuttosto scarsa, e prende in tali casi a riferimento, per le analisi di tipo
empirico, la sola esistenza dei codici, anziché la loro qualità. Tuttavia,
numerosi studi empirici hanno indagato la relazione fra la Corporate
Governance ed altre componenti della strategia di CSR, come ad esempio
il livello di filantropia (Wang e Coffey, 1992; Williams, 2003), o