corso di laurea magistrale in: restauro, conservazione e ... · dipende dal materiale in esame, dai...
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Corso di Laurea Magistrale in:
Restauro, Conservazione e Valorizzazione dei Beni Architettonici e Ambientali
(classe LM 10)
DISPENSA di METODI SPETTROSCOPICI
(C.F.U. 2) (s.s.d. FIS/07)
Laboratorio: RESTLAB
A cura di: Ing. Luciano A. Scarpino
INDICE
I ‐ L’archeometria e le scienze applicate alla conservazione
Le metodologie scientifiche ed il Patrimonio Culturale ed Artistico: le
applicazioni delle scienze esatte nel campo dello studio, della Conservazione e
del Restauro dei Beni Culturali.
II ‐ La luminescenza
III ‐ Colorimetria
Riflessione e diffusione della luce. Teoria del colore. Standard CIE.
Misura del colore e spazi colorimetrici. Differenze cromatiche.
Misure spettrofotometriche e strumentazione per misure di colore.
IV ‐ La spettrometria Raman
Interazione luce‐materia. Scattering della luce. Teoria dell’effetto Raman
Spettroscopia Raman e di fluorescenza. Strumentazione e misure sperimentali.
Applicazioni al Patrimonio Culturale.
BIBLIOGRAFIA
I ‐ INTRODUZIONE
Ogni opera d’arte è costituita da materia e quando si parla dell’applicazione della
Fisica, o più in generale delle Scienze esatte, ai Beni Culturali si fa riferimento
all’approccio metodologico scientifico proprio di tali discipline applicato alla
conoscenza dei materiali costituenti le opere d’arte. Ogni dato, ottenuto
applicando una qualunque metodologia che abbia alla base un principio fisico,
sarà quindi sempre ripetibile e riproducibile, e ad esso sarà sempre associato il
relativo errore.
È possibile distinguere tra metodologie che consentono la conoscenza e la
diagnosi dell’opera in esame e metodologie di intervento. L’applicazione delle
prime permette di studiare i materiali costituenti il Bene, le loro proprietà ed il
loro eventuale degrado, le metodologie appartenenti al secondo gruppo
agiscono invece direttamente sull’opera e sul suo contesto ambientale. Oltre che
dagli scopi per i quali si fa ricorso alla Fisica, la scelta della metodologia da
applicare dipende dal materiale costituente l’opera, esistono infatti tecniche
specifiche a seconda che l’oggetto dello studio sia costituito da ceramica e
terracotta, marmi, dipinti ed affreschi, vetri e mosaici, ossa e conchiglie, legno e
carta o metalli e leghe.
Considerando i fini principali di tale approccio metodologico scientifico, è
possibile differenziare le varie metodologie, come di seguito indicato, a seconda
del tipo di risposta che permettono di ottenere distinguendo:
• la definizione di provenienza dei materiali culturali e quindi dei relativi flussi
di commercio e scambio sia delle materie prime che del prodotto finito;
• l’individuazione e l’interpretazione delle antiche tecnologie e dei livelli di
capacità umane in un dato periodo;
• la misura dell’età dei materiali o dei livelli stratigrafici di ritrovamento e quindi
la collocazione dei materiali e delle strutture nella storia;
• la diagnosi del grado di deterioramento e delle relazioni con l’ambiente
circostante ed i parametri climatici.
Punto fondamentale nel campo della Fisica applicata ai Beni Culturali riguarda la
necessità della realizzazione di una collaborazione costruttiva e fondata sul
rispetto delle rispettive competenze con gli utenti delle metodologie scientifiche.
L’utenza è infatti costituita da professionisti aventi formazione di base ed
approcci generalmente molto diversi da quelli degli specialisti del settore della
Fisica applicata ai Beni Culturali.
Il passo iniziale consiste nell’individuazione della precisa domanda che porta i
primi a rivolgersi ai colleghi fisici e conseguentemente alla definizione del tipo di
risposta ottenibile, soprattutto in termini di precisione del dato finale, con
l’applicazione della metodologia ritenuta da entrambi più adeguata per il
particolare oggetto di studio.
L’utenza è essenzialmente costituita da collezionisti, operatori di case d’asta e
musei per quanto riguarda le autenticazioni e le scoperte di falsi, da archeologi,
architetti, storici dell’arte, etc., per la conoscenza dell’opera allo scopo di chiarire
dubbi di attribuzione, provenienza, cronologia e per ottenere informazioni sulla
tecnica impiegata dall’autore, e da restauratori e conservatori, maggiormente
interessati alla definizione dello stato di degrado e dell’influenza su questo dei
parametri ambientali e all’individuazione dei materiali costituenti per la scelta
degli interventi di restauro.
La Fisica applicata alle opere d’arte o comunque ai materiali di interesse
archeologico e storico‐artistico, permette di rispondere a domande del tipo:
• “Come, dove?” attraverso metodologie definite di caratterizzazione che
risolvono problemi riguardanti l’origine e la provenienza dell’opera o del
materiale costituente;
• “Quando?” attraverso metodologie di datazione che oltre a collocare
temporalmente l’opera permettono l’accesso ai processi evolutivi di epoche
specifiche;
• “Quale intervento?” attraverso metodologie tipiche della conservazione e
restauro i cui scopi principali sono la fruizione e la valorizzazione del Bene
oggetto dello studio attraverso tecniche che agiscano direttamente sull’opera o
sull’ambiente circostante.
Qualora si volesse classificare il campo della Fisica che maggiormente trova
applicazioni nello studio dei Beni Culturali, ci si trova davanti all’impossibilità di
una risposta oggettiva. Le numerose metodologie che trovano simili applicazioni
hanno infatti alla base principi fisici provenienti dal campo della Fisica Nucleare,
come ad esempio la radioattività e la legge del decadimento per la metodologia
di datazione del radiocarbonio, dal campo della Fisica Atomica, come le
principali metodologie di caratterizzazione quali la Fluorescenza dei Raggi X, la
Proton Induced X‐ray Emission o PIXE, etc., per non parlare delle applicazioni
della Fisica dei Solidi, che è alla base di metodologie di datazione e
caratterizzazione basate sul fenomeno della luminescenza termicamente (TL) ed
otticamente (OSL) stimolata e della risonanza paramagnetica elettronica o EPR,
ma in ogni caso esistono delle differenze notevoli con le applicazioni di routine.
La verità è che, pur basandosi sull’applicazione di principi fisici alle opere del
patrimonio culturale e del loro contesto di ritrovamento, l’approccio è talmente
peculiare da poter parlare esclusivamente di Fisica applicata ai Beni Culturali,
lasciando eventuali classificazioni a scopi esclusivamente didattici.
1.1 ‐ LE METODOLOGIE DI ANALISI
Il primo concetto che deve essere chiarito quando si parla di metodologie
scientifiche applicate ai Beni Culturali, riguarda la caratteristica della
distruttività di queste ultime. Esse possono essere infatti distinte in metodologie
non distruttive, para distruttive e distruttive a seconda che non richiedano alcun
prelevamento di materiale dall’opera, che richiedano prelevamenti di campione
che non vengono distrutti e sono quindi riutilizzabili, oppure che richiedono
prelevamenti di campione che non possono più essere riutilizzati.
Un’ulteriore distinzione riguarda le metodologie distruttive, esse infatti possono
essere distruttive del materiale prelevato, casi in cui il campione viene distrutto
durante le procedure di misura e/o analisi, o distruttive del segnale quando,
anche in assenza di distruzione del materiale analizzato, il dato di interesse
viene perso durante l’applicazione della tecnica in questione. Un esempio del
primo caso riguarda la preparazione delle sezioni sottili nel caso di ceramiche
per osservazioni in microscopia ottica ed elettronica, tipico esempio del secondo
caso è la datazione mediante luminescenza stimolata. È comunque opportuno
sottolineare che nel caso di metodologie che richiedono il prelevamento di
materiale, si tratta sempre di microprelevamenti che tengono sempre conto del
fatto che l’oggetto di analisi sia un’opera d’arte e che quindi cercano di limitare
al massimo gli eventuali danneggiamenti. Il caso ideale in questo senso è
rappresentato dalle metodologie non distruttive ma è bene ricordare che la
qualità e la precisione del dato con esse ottenibili sono, nella maggior parte dei
casi, inferiori a quelle di metodologie, applicabili agli stessi campioni ma che
richiedono il prelevamento di una piccola quantità di materiale. In alcuni casi,
inoltre, tecniche ritenute non distruttive, perché non richiedono prelevamenti di
materiale, si sono rivelate a lungo termine dannose per l’opera.
1.2 ‐ LE METODOLOGIE DI DATAZIONE
I metodi di datazione si distinguono in relativi ed assoluti. Il risultato ottenuto
con una metodologia di datazione relativa non fornisce una data ma consente il
confronto di età tra oggetti e la realizzazione di una eventuale sequenza
cronologica. Con una metodologia di datazione assoluta si ottiene invece una
data assoluta (con la relativa indeterminazione) associabile ad un particolare
momento della “vita” dell’oggetto, la morte dell’individuo nel caso del
radiocarbonio o la cottura in forno del manufatto per la termoluminescenza,
solo per citare alcuni esempi. La scelta del metodo di datazione da applicare
dipende dal materiale in esame, dai limiti e dalla precisione necessaria e dal
range di età cui dà accesso ogni metodologia. La figura 1.1 riporta, per i
principali materiali di interesse storico‐artistico, in corrispondenza dei metodi
di datazione più diffusi la possibilità o meno di applicazione di questi ultimi. La
figura 1.2 illustra, per gli stessi metodi di datazione, il range di età databile da
ognuno.
Fig. 1.1 ‐ Applicabilità dei metodi di datazione ai materiali di interesse storico‐
artistico
Fig. 1.2 ‐ Range di età databili con i metodi di datazione precedentemente
indicati.
1.3 – LE METODOLOGIE DI CARATTERIZZAZIONE
Dall’applicazione di tali metodologie si ottengono dati riguardanti la
composizione dei materiali di interesse in termini morfologici e strutturali, come
ad esempio con la microscopia ottica ed elettronica, in termini cristallografici,
con tecniche quali la diffrazione dei raggi X, la spettroscopia Raman e la
catodoluminescenza, e soprattutto dati riguardanti la composizione chimica
elementare con metodologie quali la fluorescenza dei raggi X, l’attivazione
neutronica e la spettroscopia di massa. In quest’ultimo caso si distingue tra
tecniche che permettono l’accesso ai soli elementi maggiori (quantità dell’ordine
del %), o anche agli elementi minori (quantità dell’ordine delle centinaia di parti
per milione, ppm) o soprattutto agli elementi in tracce (quantità dell’ordine del
ppm).
I dati ottenuti vengono soprattutto utilizzati per risolvere problemi legati
all’origine di un determinato campione, come l’individuazione del luogo di
ritrovamento dei materiali costituenti (ad esempio l’argilla nel caso delle
ceramiche) ed alla loro provenienza, intesa come luogo di produzione del
prodotto finito. Dati entrambi fondamentali per individuare le relazioni sociali e
gli scambi commerciali tra le popolazioni del passato.
Per giungere a tali conclusioni è fondamentale la fase di analisi statistica dei dati.
Attraverso opportune procedure, prima fra tutte l’analisi a cluster (cluster
analysis), è infatti possibile costituire dei gruppi di riferimento che consentano,
attraverso il confronto della composizione di un oggetto di provenienza
incognita con la gamma di composizione di gruppi di provenienza nota,
l’individuazione di una patria per tale oggetto.
Non meno importante in questo contesto la ricerca di marker, cioè di un
minerale, un fossile, una roccia presenti nel campione in esame che siano
caratteristici di un determinato sito o di una determinata regione o, al contrario,
che permetta di escludere come possibile patria alcune regioni in cui esso non
esiste.
1.4 ‐ LE METODOLOGIE PER LA CARATTERIZZAZIONE ED IL RESTAURO
Le metodologie che appartengono a quest’ultima categoria permettono
innanzitutto l’analisi dello stato di degrado di un’opera attraverso controlli ad
intervalli temporali stabiliti, con metodologie quali la colorimetria, applicabile
soprattutto a dipinti e pigmenti pittorici, vetri e mosaici, opere mobili ed
immobili decorate, e l’imaging multispettrale, applicabile essenzialmente a
dipinti su tavola e tela ed affreschi. Con l’imaging multispettrale è anche
possibile ottenere una migliore conoscenza delle opere attraverso
l’individuazione delle tecniche utilizzate e di pentimenti e disegni preparatori
dell’autore.
In questo tipo di applicazioni è di fondamentale importanza la misura di
parametri climatici e microclimatici, quali temperatura, umidità, condizioni e
qualità di illuminamento, e soprattutto l’individuazione dell’eventuale relazione
tra tali grandezze e le loro variazioni e le possibili modificazioni delle
caratteristiche dei materiali costituenti l’opera in esame.
Metodologie tipiche dell’illuminotecnica e della radiometria sono quelle
maggiormente utilizzate a questi scopi.
II ‐ FENOMENI DI LUMINESCENZA
2.1 ‐ Trattazione teorica
La luminescenza è quel fenomeno per cui, le transizioni radiative di cariche,
dagli stati eccitati a quelli a minore energia, avvengono con emissione di
radiazione elettromagnetica nella regione visibile dello spettro o in quelle ad
essa vicine (infrarosso e ultravioletto).
Si distingue la luminescenza naturale dovuta all’emissione spontanea di
radiazione elettromagnetica da quella stimolata, nella quale l’emissione è
favorita o permessa da cause esterne che hanno come effetto apparente la
diminuzione dei tempi di permanenza degli elettroni negli stati coinvolti.
I vari fenomeni di luminescenza prendono il nome dal tipo di radiazione usata
per eccitare l’emissione. Si hanno così la fotoluminescenza (eccitazione
mediante radiazione ottica o ultravioletta), la radioluminescenza (eccitazione
mediante radiazioni nucleari, cioè raggi γ, particelle β, raggi X, etc.) e la
catodoluminescenza (eccitazione mediante fasci elettronici).
Oltre all’eccitazione tramite radiazione, la luminescenza può anche essere
generata da energia chimica (chemiluminescenza), energia meccanica
(triboluminescenza), energia elettrica (elettroluminescenza), energia biochimica
(bioluminescenza) ed anche onde sonore (sonoluminescenza).
L’emissione di luce avviene dopo un tempo caratteristico τc dall’assorbimento
della radiazione e questo parametro permette di distinguere, nel processo di
luminescenza, tra la fluorescenza in cui τc<10‐8 s e la fosforescenza in cui τc>10‐8
s.
La fluorescenza viene considerata come quell’emissione che avviene
simultaneamente all’assorbimento della radiazione e che cessa al cessare
dell’eccitazione (Fig. 2.1). La fosforescenza è invece caratterizzata da un ritardo
tra l’assorbimento della radiazione ed il tempo tmax necessario per raggiungere
l’intensità massima. La fosforescenza, inoltre, continua per un certo tempo dopo
che l’eccitazione è stata rimossa.
Fig. 2.1 ‐ Relazione tra assorbimento della radiazione ed emissioni di fluorescenza, fosforescenza e termoluminescenza. T0 è la temperatura alla quale avviene l'irraggiamento; β
è la rate di riscaldamento; tr è l'istante di tempo in cui termina l'irraggiamento e comincia il
decadimento della fosforescenza.
In generale, la luminescenza viene spiegata considerando che l’energia della
radiazione incidente viene trasferita agli elettroni del solido che vengono eccitati
da uno stato fondamentale f ad uno eccitato e (transizione [1] in Fig. 2.2 (a)).
L’emissione di un fotone luminescente si ha quando un elettrone eccitato ritorna
nel suo stato fondamentale (transizione [2]). Allora, per la fluorescenza, il
ritardo tra la transizione [1] e la transizione [2] è minore di 10‐8 s e questo
processo è indipendente dalla temperatura. Nel caso della fosforescenza il
diagramma dei livelli energetici viene modificato dalla presenza di un livello
metastabile m nella banda proibita tra e ed f (Fig. 2.2 (b)). Un elettrone eccitato
da f ad e può ora essere intrappolato in m dove può rimanere fino a quando non
riceve un’energia E sufficiente per farlo tornare in e; da qui può avvenire una
transizione verso f con emissione di luce.
Fig. 2.2 ‐ Transizioni energetiche coinvolte nella produzione della (a) fluorescenza e della (b)
fosforescenza.
Il ritardo osservato nella fosforescenza corrisponde al tempo che l’elettrone
trascorre nella trappola per elettroni m. Con argomenti di termodinamica si può
mostrare che la vita media trascorsa nella trappola alla temperatura T è data da:
Dove s è una costante ed E la differenza di energia tra m ed e (chiamata
profondità di trappola); k è la costante di Boltzmann. Il processo di
fosforescenza ha quindi una dipendenza esponenziale dalla temperatura.
III COLORIMETRIA
3.1 ‐ Il colore e la sua misura
3.1.1 ‐ Cos’e il colore
Il colore è una proprietà fisica degli oggetti (così come il loro peso o il loro
volume) che viene misurata tramite il fattore di riflettanza spettrale. Questa è
una definizione fisica che si basa sull’obiettiva proprietà dei materiali di
riflettere, trasmettere e diffondere in modo diverso le varie radiazioni luminose
che li investono. Tale definizione di colore è adeguata solo se una superficie
colorata viene osservata sempre e soltanto a ben definite condizioni di
osservazione, pertanto, dal momento che il colore dipende sia dalle proprietà dei
materiali da osservare che dalle proprietà delle sorgenti di luce che li irradia e
dalle condizioni di osservazione è necessario tenere conto di tutte queste
proprietà per dare una definizione corretta di colore.
Ciò che noi vediamo è la materia, quando emette luce, o il frutto dell’interazione
tra luce e materia, che ne modifica il cammino per deviazione (come nelle lenti),
per riflessione (come negli specchi e nei materiali opachi) o per diffusione (come
nei vetri smerigliati).
I corpi non “autoluminosi” sono quelli che non emettono autonomamente luce e
possono essere visti solo se illuminati. È dunque l’interazione tra la radiazione
elettromagnetica illuminante e i corpi che rende questi visibili; essi possono
essere distinti in:
• trasparenti (quei corpi che possono essere attraversati dalla luce senza
diffusione);
• traslucidi (quei corpi che, attraversati dalla luce, la diffondono);
• opachi (quei corpi che non lasciano passare la luce).
La colorazione dei corpi è prevalentemente dovuta all’assorbimento, il quale
avviene in particolari sostanze coloranti che possono essere schematicamente
classificate in coloranti e pigmenti. I coloranti si distinguono dai pigmenti per il
fatto che, se posti in opportuni solventi, non creano diffusione della luce, mentre
i pigmenti sono sempre diffusori. I coloranti, inoltre, sono generalmente
sostanze che si disciolgono nel mezzo o reagiscono chimicamente con questo,
mentre i pigmenti non si disciolgono ed il corpo risulta disomogeneo.
I coloranti acromatici sono quelli che hanno un potere assorbente non selettivo
nelle lunghezze d’onda e possono distinguersi in neri, grigi e bianchi.
Quest’ultimi sono anche considerati come puri diffusori non selettivi nelle
lunghezze d’onda.
La diffusione, dovuta a parziale riflessione e rifrazione, è causata da eterogeneità
ottiche nel corpo per variazioni nell’indice di rifrazione.
Il colore dei corpi può essere dovuto anche a diffrazione, come avviene per il
colore di alcuni insetti, di certe piume e squame.
3.2 ‐ La natura duplice della luce
Dal momento che il colore dei corpi non “autoluminosi” dipende dall’interazione
della radiazione elettromagnetica visibile con i corpi è importante accennare
alcune delle proprietà principali della luce. È noto che la luce è una radiazione
elettromagnetica che si propaga nello spazio e nel tempo con una velocità
dipendente dalla natura del mezzo attraversato (vedi fig. 3.1) e, se si propaga nel
vuoto, indipendente dalla velocità dell’osservatore. Essa si presenta sia come
onda, che come particella. La teoria classica delle onde elettromagnetiche e
quindi la natura ondulatoria, fornisce un’adeguata spiegazione della
propagazione della luce e della sua dispersione per rifrazione o diffrazione,
mentre la natura corpuscolare riveste un ruolo importante nello studio dei
rivelatori di luce, componenti fondamentali degli strumenti fotometrici e
colorimetrici e nell’assorbimento della luce, fenomeno che nella maggior parte
dei casi è responsabile del colore dei corpi.
Fig. 3.1 ‐ Onda elettromagnetica.
Le caratteristiche ondulatorie dell’onda elettromagnetica sono esibite, nello
spazio e durante l’interazione con la materia, su una scala macroscopica. Le
caratteristiche della radiazione come quanto di energia sono invece esibite
quando questa interagisce con la materia su una scala atomica‐molecolare. Le
onde sono classificabili in base alla loro lunghezza d’onda e si suole considerare
la lunghezza d’onda nel vuoto che è molto prossima a quella nell’aria. Una
classificazione per lunghezze d’onda decrescenti porta a distinguere le onde
radio (usate nelle telecomunicazioni), le microonde (tipiche dei radar e dei forni
a microonde), la radiazione infrarossa (emessa dai corpi per effetto termico), la
radiazione visibile, la radiazione ultravioletta (UV), i raggi X e i raggi γ (fig. 3.2).
Fig. 3.2 ‐ Lo spettro elettromagnetico.
Dal momento che le misure sperimentali riguardano misure di colore e misure
riflettometriche nel visibile, nell’infrarosso e nell’ultravioletto su dipinti è
importante conoscere che tipo di interazione avviene tra la radiazione
elettromagnetica e la materia sia su scala macroscopica che su scala atomico‐
molecolare.
3. 3 ‐ Interazione della radiazione elettromagnetica con la materia su scala
macroscopica
L’interazione tra luce e materia può essere classificata nel seguente modo:
• puro cambiamento della direzione della luce, come avviene nella riflessione,
nella rifrazione e nei vari casi di diffusione;
• assorbimento della radiazione elettromagnetica, che avviene sottraendo parte
della radiazione illuminante in modo selettivo in lunghezza d’onda (l’energia
sottratta nell’assorbimento viene ceduta generalmente per via non radiativa,
cioè in forma non visibile).
Fig. 3.3 ‐ Riflessione ed assorbimento.
In particolare, i due fenomeni che influenzano la nostra percezione visiva del
colore di un oggetto sono la riflessione e la trasmissione. La riflessione, come
schematizzato in figura 3.4, può essere distinta in riflessione speculare, cioè
brillantezza della superficie, oppure riflessione diffusa, cioè il vero e proprio
colore.
Fig. 3.4 ‐ Colore e brillantezza (gloss).
3.4 ‐ Diffusione della luce
Si ha diffusione della luce quando questa, interagendo con la materia, cambia
direzione di propagazione con diversa intensità e in funzione della lunghezza
d’onda. La causa della diffusione sta nella disomogeneità ottica del mezzo
attraversato dalla luce. Un mezzo è otticamente eterogeneo, quando in esso
l’indice di rifrazione cambia e ciò può avere diverse cause, una delle quali è la
presenza di corpuscoli dispersi nel mezzo, come nel caso dei pigmenti utilizzati
nei dipinti.
3.5 ‐ Riflettanza e trasmittanza
Le proprietà riflettive e trasmittive dei corpi sono caratterizzate da alcune
grandezze fisiche, che si possono distinguere in due gruppi: grandezze assolute e
grandezze relative. Queste ultime si ottengono dal confronto con un corpo di
riferimento.
Tra le grandezze “assolute” troviamo:
− la riflettanza spettrale ρ(λ) di un corpo, cioè il rapporto tra il flusso radiante
riflesso Φ↑,λ e il flusso radiante incidente Φ↓,λ, in fissate condizioni geometriche
e a fissata lunghezza d’onda λ:
− la trasmittanza spettrale τ(λ,s) di un corpo di spessore s, che è il rapporto tra il
flusso radiante trasmesso Φ↓,λ(s) e il flusso radiante incidente Φ↓,λ(s=0) in
fissate condizioni geometriche e a fissata lunghezza d’onda λ (tenendo conto
delle riflessioni alla superficie del corpo)
Nel caso di riflessione totale si ha ρ(λ)=1 e τ(λ)=0. In assenza di assorbimento
ρ(λ)+τ(λ)=1. La riflettanza e la trasmittanza sono dette speculari o regolari in
assenza di deviazione dei raggi, dovuta a diffusione e diffrazione. Le grandezze
relative si ottengono per confronto col diffusore riflettente (o trasmittente)
ideale.
Il diffusore riflettente ideale è una superficie ideale che non assorbe, né
trasmette, ma riflette diffusamente con una radianza uguale per tutti gli angoli di
riflessione e indipendentemente dalla direzione della radiazione incidente. Il
diffusore trasmittente ideale è un corpo ideale che non assorbe, né riflette, ma
trasmette diffusamente con una radianza uguale per tutti gli angoli di
trasmissione e indipendentemente dalla direzione della radiazione incidente.
In realtà è impossibile ottenere un diffusore ideale e quindi ci si avvale di una
superficie di riferimento standard la cui riflettanza è certificata. Le grandezze
relative, essendo il risultato di un rapporto, vengono indicate come “fattore di“:
− il fattore di riflessione spettrale R(λ) è il rapporto tra le densità spettrali del
flusso radiante riflesso in un dato cono Ω, il cui vertice si trova sulla superficie in
esame, e di quello riflesso nella stessa direzione dal diffusore riflettente ideale
ugualmente illuminato. Il fattore di riflessione spettrale del diffusore ideale è
uguale a 1.
− il fattore di trasmissione spettrale T(λ) è il rapporto tra le densità spettrali
del flusso radiante trasmesso in un dato cono, il cui vertice si trova sul corpo in
esame, e di quello trasmesso nella stessa direzione dal diffusore riflettente
ideale ugualmente illuminato. Il fattore di trasmissione spettrale del diffusore
trasmittente ideale è uguale a 1.
Il meccanismo della visione
3.6 ‐ Anatomia e fisiologia dell’occhio umano
L'occhio è il nostro strumento per la misura del colore ed è per questo che le
grandezze fotometriche vengono pesate sulla curva di risposta spettrale
dell’occhio umano ed i sistemi per la misura del colore si basano su di essa. È
perciò importante capire i processi che sono alla base della visione umana.
L’occhio ci garantisce la visione, trasformando la luce che lo colpisce in
informazioni che, sotto forma di impulsi elettrici, arrivano al cervello. La visione
da sola rappresenta circa il 70% delle percezioni che l'uomo riceve dal mondo
esterno. Quando fissiamo un oggetto, la luce che da esso proviene entra nei
nostri occhi, attraversa una serie di lenti naturali, che sono in sequenza: la
cornea, il cristallino ed il corpo vitreo i quali corrispondono alle lenti
dell'obiettivo di una macchina fotografica e la luce va ad "impressionare" la
retina (la pellicola). La retina, eccitata dalla luce che la colpisce, trasmette
informazioni al cervello, inviando impulsi elettrici attraverso un cavo biologico:
il nervo ottico. Il cervello studia e sfrutta le informazioni visive, avvalendosi di
esse per decidere il comportamento e le reazioni dell'intero organismo.
Nella retina avvengono i meccanismi più complessi della visione. La luce passa
l’intero spessore della retina e colpisce immediatamente i fotorecettori, coni e
bastoncelli, che costituiscono la parte più esterna della retina nervosa a contatto
con lo strato delle cellule dell’epitelio pigmentato retinico.
Fig. 3.5 ‐ La struttura dell’occhio umano.
I processi fotochimici della visione possono essere schematizzati in due fasi:
1. reazione fotochimica: la luce viene assorbita dai pigmenti fotosensibili
(iodopsina nei coni, rodopsina nei bastoncelli) la quale, scomponendosi, dà
origine ad una reazione chimica, che converte un segnale luminoso in un
impulso nervoso elettrico.
2. trasmissione dell’impulso: l’impulso elettrico viene trasmesso alle cellule
bipolari e alle cellule gangliari; esso, attraverso le loro fibre costituenti il nervo
ottico, lascia l’occhio ed arriva al centro visivo del cervello.
3.7 ‐ Visione diurna e visione notturna
Come è stato già accennato, i due tipi di fotorecettori, coni e bastoncelli, hanno
funzioni diverse: i coni sono responsabili della visione diurna o fotopica, mentre
i bastoncelli sono responsabili della visione notturna o scotopica. La visione
diurna è caratterizzata dalla curva di efficienza luminosa V(λ) che è
rappresentata in Fig. 3.6. Questa descrive la variazione della sensibilità
dell’occhio per radiazioni monocromatiche di diversa lunghezza d’onda, a livelli
fotopici (di alta illuminazione).
Fig. 3.6 ‐ Funzioni di efficienza luminosa per la visione fotopica dei coni V(λ) e scotopica dei
bastoncelli V′(λ), in funzione della lunghezza d’onda (in nm). Le funzioni sono normalizzate ai
rispettivi massimi: 555 e 507 nm.
In visione notturna non si vedono i colori, perché sono attivi solo i bastoncelli
che contengono tutti lo stesso pigmento (la rodospina o porpora visiva) e quindi
hanno tutti la stessa sensibilità spettrale. La capacità di vedere i colori è invece
una proprietà della visione diurna, affidata ai coni. Vi sono, infatti, per i coni tre
tipi diversi di pigmenti, che assorbono in percentuali diverse le radiazioni dello
spettro e ogni cono contiene uno solo di questi pigmenti.
Le funzioni che descrivono come varia l’assorbimento dei pigmenti (e di
conseguenza la sensibilità relativa per ogni tipo di coni) al variare della
lunghezza d’onda coprono regioni dello spettro parzialmente distinte, con
massimo di assorbimento (e quindi di sensibilità relativa), diverso per i tre tipi
di coni.
Fig. 3.7 ‐ Spettri di assorbimento per i tre tipi di coni L, M e S, normalizzati ai rispettivi
massimi.
I cosiddetti coni L (dall’inglese long) hanno una curva di assorbimento, che
copre una regione di lunghezze d’onda medie e lunghe nello spettro visibile, con
un massimo di assorbimento a circa 560 nm. Per i coni M (medium) la curva di
assorbimento si estende in una regione di lunghezze d’onda intermedie, con
massimo a circa 530 nm. Infine i coni S (short) hanno una curva di assorbimento
spostata nella regione di lunghezze d’onda più corte, con massimo a circa 420
nm. Come si nota dalla Fig. 3.7, le curve di assorbimento dei coni L e M sono
parzialmente sovrapposte, mentre quella dei coni S è largamente separata dalle
altre due. I tre tipi di coni vengono anche impropriamente chiamati coni rossi
(L), coni verdi (M) e coni blu (S).
Per ogni cono, al cambiare della lunghezza d’onda della radiazione incidente,
cambia la probabilità che i fotoni siano assorbiti, come risulta dalla funzione di
assorbimento del pigmento. La risposta elettrica di ogni cono ha un’ampiezza
che dipende dal numero di fotoni assorbito, ma, a parità di numero di fotoni, non
dipende dalla lunghezza d’onda associata ai fotoni. Il fotorecettore, quindi, non
può dare alcuna informazione sulla qualità spettrale della radiazione assorbita:
può solo rispondere con un segnale di maggiore o minore ampiezza, a seconda
del numero di fotoni assorbito; concetto, che riassume il principio di univarianza
di Rushton. In un certo senso si può dire che il singolo fotorecettore è “cieco al
colore”. La possibilità di dare risposte visive diverse a radiazioni spettrali
diverse è dovuta, dunque, alla presenza dei tre tipi di coni, poiché, quando la
radiazione cromatica incide sulla retina, essa viene assorbita in modo diverso
dai coni L, M, S e quindi li stimola in modo diverso.
Illuminanti standard CIE ‐ Fotometria e spettrofotometria
3.8 ‐ Sorgenti di luce
Il colore di un corpo non autoluminoso dipende dalla radiazione che lo illumina
e quindi differenti sorgenti luminose fanno apparire differenti i colori. La pratica
colorimetica pone perciò il problema di definire radiazioni illuminanti di
interesse colorimetrico. Il problema non è semplice, perché in natura esistono
radiazioni luminose differenti, mutevoli e quindi non identificabili in una sola
luce riproducibile in laboratorio. Esigenze pratiche impongono di definire alcune
radiazioni aventi distribuzioni spettrali ritenute significative a cui riferirsi. Si
pone inoltre, sia il problema di illuminare l’opera con sorgenti, che abbiano
temperatura di colore ed emissione spettrale, simili a quelle delle torce
(Tc=2900 K) che illuminavano in passato i dipinti che quello di usare sorgenti,
per una migliore conservazione dei dipinti nei musei, la cui emissione spettrale
sia tale da non danneggiare le opere d’arte.
La distribuzione spettrale della radiazione elettromagnetica, emessa da ogni
corpo, dipende dalla natura del corpo e dalla temperatura e si distingue in due
contributi:
1. radiazione emessa per incandescenza e dipendente dalla sola temperatura:
essa è detta radiazione termica o radiazione di corpo nero e non dipende dalla
natura del corpo che la emette;
2. radiazione emessa dal corpo per eccitazione di vario tipo: è detta
luminescenza e dipende dalla natura del corpo. La luminescenza, molto
schematicamente, si suddivide in:
♦ fotoluminescenza, se l’eccitazione è dovuta all’assorbimento di radiazione
elettromagnetica,
♦ elettroluminescenza, se la luminescenza avviene per passaggio di corrente
(per esempio i LED),
♦ catodoluminescenza, se la luminescenza è dovuta a bombardamento con raggi
catodici (per esempio cinescopi televisivi),
♦ chemioluminescenza, se la luminescenza avviene per trasformazione chimica,
♦ luminescenza per scarica nei gas, nei quali l’eccitazione è generata dal
passaggio di una corrente.
3.8 ‐ Radiazione termica o di corpo nero
Un corpo capace di emettere la sola radiazione di corpo nero è detto emettitore
pieno o planckiano.
La radiazione emessa da un corpo per solo effetto termico entra, al crescere
della temperatura, nella regione visibile e il corpo appare prima rosso (∼1000
K), poi giallo (∼2000 K), bianco (∼6000 K) e infine azzurro. La distribuzione spettrale della radiazione di corpo nero in funzione della temperatura è
descritta dalla formula di Planck. Questa proprietà rende la radiazione termica
un riferimento in radiometria e quindi in fotometria e
in colorimetria.
L’emittenza radiante spettrale del corpo nero è descritta dalla formula di Planck:
Gli emettitori planckiani non sono sorgenti di uso pratico, ma le lampade
incandescenti a filamento (generalmente di tungsteno), percorso da corrente
elettrica, hanno una emettenza radiante che può essere messa in corrispondenza
con buona approssimazione a quella del corpo nero a opportuna temperatura
inferiore. Tale temperatura, espressa in Kelvin e indicata con Tc, è detta
temperatura di colore. Tale concetto viene esteso ad ogni tipo di sorgente e
illuminante, definendo la temperatura di colore prossimale o correlata Tcp.
3.9 ‐ Il colore e la sua storia
Il colore, in quanto parte essenziale e protagonista assoluto di un dipinto, è in
grado di esprimere il suo messaggio artistico, solo se è garantita la sua integrità
ovvero la conservazione dell’opera così come è stata creata dall’artista;
quest’ultima caratteristica è certamente correlata ad interazioni di tipo fisico o
chimico.
Un quadro si modifica in maniera indipendente dal tratto finale dell’artista a
causa delle continue modifiche e cambiamenti che il tempo apporta su di esso.
Nessun artista ha mai dipinto un’immagine congelata nel tempo: tutta la pittura
è in perpetua evoluzione, ogni scena è destinata a ridistribuire i propri contrasti
tonali via via che il tempo compie la propria opera sui pigmenti. Ma come si può
sapere se ciò che ora assomiglia a un giallo ocra non fosse un tempo un brillante
e seducente giallo limone? Se una chiazza rosa pallido in realtà non è altro che la
lacca carminio rosata lasciata dal pennello del pittore?
Comprendere come è invecchiato un dipinto presuppone la capacità di
identificare i pigmenti utilizzati. Un esperto dall’occhio allenato può riuscire a
distinguere con una certa sicurezza le differenze di tonalità tra l’azzurrite
verdastra e il purpureo oltremare, ma nessuno storico o restauratore
emetterebbe un giudizio definitivo senza ricorrere a un’analisi scientifica che
stabilisca l’identità dei pigmenti.
L’idea che i colori siano costituiti da componenti elementari risale all’antichità.
Per i Greci esistevano solo due vasti regni primari nell’universo del colore e non
corrispondevano affatto a “colori”, ma a chiaro e scuro. Il blu era scuro con un
poco di luce, il rosso era chiaro e scuro in ugual misura, e così via.
Fu solo nel XVII secolo che si affermarono i tre colori “primari” moderni. Nel
1601 l’italiano Guido Scarmiglioni avanzò l’ipotesi che vi fossero cinque colori
“semplici” di cui si supponeva fossero costituiti tutti gli altri: bianco, giallo,
azzurro, rosso e nero. Newton, nel suo trattato Opticks, formò una ruota di
colori, accostando il rosso al violetto tramite un colore non prismatico quale è il
porpora. In termini di fisica, la ruota dei colori è un espediente artificioso in cui
la luce aumenta di frequenza dal rosso al violetto, ritornando poi al rosso con un
brusco balzo. L’utilità della ruota dei colori sta nel fatto che essa organizza lo
spazio colorato in uno schema simmetrico, in cui primari e secondari si
alternano e i risultati delle mescolanze sono facilmente individuabili. Questo,
tuttavia, non è affatto il modo in cui la vedeva Newton: egli non attribuiva
particolare importanza ai colori che oggi vengono considerati primari e la sua
ruota era uno schema a sette raggi con spicchi ineguali (rappresentata in figura
3.8), mentre i successivi teorici del colore tesero ad accentuarne la simmetria,
come mostrano le figure 3.9 (a, b, c).
Fig. 3.8 ‐ La ruota dei colori di Isac Newton che divide i colori dello spettro secondo le
proporzioni nell’arcobaleno.
Fig. 3.9 ‐ Sistemi ottocenteschi per organizzare i colori – a) La stella di Auguste Laugel, che
dava importanza alle relazioni primarie e secondarie e alla giustapposizione di colori
complementari; b) La ruota di colori di Gorge Field; c) La stella di Charles Blanc. Nelle ultime
due sono considerati anche i colori terziari.
Benché non vi fosse unanimità sul numero di suddivisioni, la ruota dei colori
divenne un’icona delle teorie coloristiche del XIX secolo. Una delle ruote di
colore più memorabili fu quella pubblicata dal teorico e chimico francese Michel
Chévreul nella sua opera Des couleurs et de leurs applications aux arts
indeustriels (Dei colori e delle loro applicazioni nelle arti industriali, 1864).
Chévreul aveva elaborato un sistema cromatico tridimensionale di forma
emisferica costituito da un cerchio cromatico in cui alla base dell’emisfera sono
collocati 12 colori puri standard, oltre alle gradazioni ottenibili per addizioni di
colori puri adiacenti; il cerchio contiene 72 colori, ciascuno dei quali forma una
scala dal chiaro allo scuro, spostandosi dal centro alla circonferenza. Pertanto,
tutti i colori delle scale che si trovano sulla base del cerchio rappresentano le
modificazioni di un colore puro con il bianco e il nero, mentre le modificazioni
del colore puro con il grigio si trovano nella parte superiore dell’emisfera. Il
sistema di colori proposto da Chévreul (fig. 3.10) è molto utile a chi vuole
rappresentare, nelle opere d’arte visive, oggetti reali in modo naturalistico; egli,
infatti, ha voluto rappresentare ogni modificazione del colore, e non soltanto
quelle che avvengono quando un colore viene mescolato con nero, bianco o
grigio, ma anche quelle che si osservano in natura, dovute al variare degli effetti
della luce.
Fig. 3.10 ‐ La ruota di colori ideata da Michel‐Eugène Chevreul nel 1864.
La ruota dei colori fornisce agli artisti un principio organizzativo, ma non aiuta a
risolvere le apparenti discrepanze tra colori primari nelle miscele di pigmenti e
quelle nelle mescolanze di luce; nel primo caso, ad esempio, il giallo è primario e
il verde secondario, nel secondo è il contrario. Maxwell dissipò tale confusione
dimostrando, nel 1855, che tre tipi di luce colorata sono sufficienti a generare, in
pratica, tutti i colori: arancio‐rosso, azzurro‐violetto e verde; mescolare la luce,
spiegò Maxwell, non è lo stesso che mescolare pigmenti. Fondendo raggi
luminosi di diverse lunghezze d’onda, si sintetizza colore sommando varie
componenti che assieme stimolano la retina dell’occhio a creare una
determinata sensazione di colore; questa sintesi si chiama “additiva”. Una
miscela di pigmenti, al contrario, sottrae lunghezze d’onda alla luce bianca; cioè i
pigmenti non sono la fonte della luce che provoca una sensazione cromatica, ma
sono mezzi che agiscono su una fonte di illuminazione esterna.
4 ‐ Metodologie di indagine
4.1 Indagini di tipo colorimetrica
L’uso degli spettrofotometri portatili permette di disporre di rappresentazioni
grafiche e numeriche delle riflettanze, sia nel visibile che nell’UV, con
determinazione delle coordinate colorimetriche L* a* b* che però hanno valore
oggettivo di riferimento solo su campioni di colore misurati in condizioni
standard riproducibili. Ciascuna di queste coordinate si muove da ‐100 a +100.
Come riportato in figura 4.1, ogni punto di questo spazio sferico identifica un
colore. Agli estremi degli assi (cioè sulle superfici della sfera) giacciono i colori
“puri”, mentre tutte le combinazioni possibili nello spettro del visibile nascono
dalla combinazione di questi (che stanno dentro la sfera).
Fig. 4.1 – La sfera del colore.
Per leggere le coordinate CIELab (L* a* b*) basta vedere come:
• la coordinata a* si muove dal verde al rosso;
• la coordinata b* si muove dal blu al giallo;
• la coordinata L* rappresenta la luminosità, che si può definire come una
indicazione sulla quantità di luce riflessa dal campione.
La luminosità è anche fortemente dipendente dalla finitura superficiale del
pezzo; un pezzo lucidato a specchio ha chiaramente una luminosità molto più
alta di un pezzo satinato.
La lettura delle differenze di colore permette comunque di osservare
oggettivamente, senza le deformazioni e le limitazioni della percezione visiva, le
varianti assolute e/o relative esistenti fra due o più campioni (punti di
rilevamento), ma anche le modifiche che si vengono a determinare in uno stesso
punto a seguito di diverse condizioni ambientali (superficie sporca o pulita),
di rifacimenti o anche di interventi di restauro. Nell’analisi cromatica affidarsi
alla sola documentazione fotografica o semplicemente alla percezione e alla
memoria visiva può costituire un limite molto forte che occorre superare,
specialmente nel campo della corretta comunicazione del colore, o per gestire
funzioni di controllo di interventi di recupero, rifacimento, manutenzione e
restauro. La lettura del colore nelle sue varie componenti può, di fatto,
evidenziare o concorrere ad identificare, attraverso lo studio degli andamenti
dei diagrammi spettrali, le peculiarità esistenti nelle diverse risposte
cromatiche, almeno nell'ambito di insiemi omogenei di stesure, ma anche di
elementi che si differenziano per composizione e per dosaggio dei materiali di
supporto e costitutivi (intonaci e leganti diversi, ecc.). In altri termini uno stesso
pigmento offrirà, nell’espressione cromatica, curve spettrali diverse, non solo in
relazione alla diversa composizione materica del supporto, alla natura del
legante, alla presenza di resine artificiali e sintetiche, ma anche alla patina
derivante dal trascorrere del tempo nelle varie condizioni ambientali, allo
sporco, ai depositi superficiali, alle sostanze aggiunte ed alle trasformazioni
chimico‐fisiche dovute a cause artificiali e naturali.
Procedendo con campagne mirate di misurazione colorimetrica, in
considerazione anche degli approfondimenti diagnostici ed analitici producibili,
alla ricostruzione documentale degli eventi storici, alla comparazione con
campioni noti, è quindi possibile dilatare ed arricchire l’osservazione
strumentale e meglio approssimare la corretta e completa interpretazione dei
valori riscontrati nel corso dell’indagine colorimetrica fino a separare
analiticamente le diverse componenti. Alla luce di queste considerazioni, è
quindi realistico porre in primo piano l’indagine colorimetrica quale mezzo di
monitoraggio a supporto costante e prezioso delle attività di documentazione
dei beni artistici ed in particolar modo dei dipinti. Inoltre in relazione alle
misure ottenibili con lo spettrofotometro portatile è realizzabile uno studio dei
fenomeni di metamerismo, che eventualmente possono registrarsi su colori
apparentemente simili, in relazione alle variazioni delle risposte cromatiche che
si hanno rispetto a sorgenti illuminanti di natura e qualità diverse, che sono
simulabili dal software applicativo dello spettrofotometro (come quello usato
per l’acquisizione delle misure sperimentali). Tali fenomeni metamerici possono
essere presenti tra i colori originali, come tra quelli utilizzati per il rifacimento
pittorico, in passato come allo stato attuale.
4.2 La colorimetria nei programmi di conservazione
La determinazione del colore nell’ambito dei programmi di conservazione e di
restauro di stesure pittoriche prevede la realizzazione delle misure a diversi
intervalli di tempo, inversamente proporzionali al valore dell’opera nel primo
caso e prima e dopo ogni intervento sul dipinto nel secondo, per evidenziare
ogni eventuale variazione cromatica che comprometterebbe lo stato dell’opera e
quindi la sua fruizione. Oltre che assicurare che le misure vengano realizzate
sempre sugli stessi punti, scelti normalmente in corrispondenza di zone di tinte
differenti (check points), è di fondamentale importanza in questo caso che
nell’esecuzione delle misure nei vari istanti di tempo, siano mantenute le stesse
condizioni sperimentali. L’individuazione dei check points negli interventi
successivi al primo è assicurata dall’utilizzazione del protocollo di misura scelto.
In considerazione del fatto che le misure possono essere realizzate anche da
operatori differenti e non sempre negli stessi ambienti e quindi con le stesse
condizioni al contorno, è necessario individuare tutti i parametri sperimentali
che devono essere mantenuti esattamente gli stessi in tutte le sessioni di misura.
E’ inoltre assolutamente indispensabile disporre di tutte le informazioni
riguardanti ogni fase della misura con particolare riferimento alle fasi
preliminari di calibrazione. A questo scopo si possono realizzare una serie di
misure atte all’individuazione dell’influenza di alcuni dei parametri che
maggiormente possono variare nel corso dell’applicazione delle misure
colorimetriche nelle diverse fasi dei programmi di conservazione e restauro ed
in particolare sull’influenza delle condizioni ambientali di illuminamento e delle
diverse procedure di calibrazione possibili per la luminosità.
4.3 Le misure di colore sui dipinti
Il colore, in quanto parte essenziale e protagonista assoluto di un dipinto, è in
grado di esprimere il suo messaggio artistico solo se è garantita la sua integrità
ovvero la conservazione dell’opera così come è stata creata dall’artista;
quest’ultima caratteristica è certamente correlata ad interazioni di tipo fisico o
chimico. Un quadro si modifica in maniera indipendente dal tratto finale
dell’artista a causa delle continue modifiche e cambiamenti che il tempo apporta
su di esso. Nessun artista ha mai dipinto un’immagine congelata nel tempo: tutta
la pittura è in perpetua evoluzione, ogni scena è destinata a ridistribuire i propri
contrasti tonali via via che il tempo compie la propria opera sui pigmenti.
Comprendere come è invecchiato un dipinto presuppone la capacità di
identificare i pigmenti utilizzati ed evidenziare modifiche ed alterazioni
presuppone la capacità di individuare, attraverso metodologie non invasive,
effetti progressivi che interessano le variazioni cromatiche.
A questo scopo ogni programma di conservazione che riguardi dipinti e superfici
policrome di interesse storico‐artistico, ed in particolare quelli di particolare
pregio, prevede la realizzazione di misure colorimetriche che consentano di
evidenziare gli effetti dannosi ed eventualmente porli in relazione con le
caratteristiche dell'ambiente‐contenitore.
4.3.1 ‐ Obiettivi del protocollo di misura
Allo scopo di standardizzare, nell'ambito dei programmi di conservazione, la
fase riguardante le misure colorimetriche sui dipinti e sulle superfici policrome,
è necessario predisporre un protocollo che indichi gli step da seguire e le
modalità con cui realizzarli. Oltre a consentire l'individuazione univoca dei punti
di interesse selezionati sulle opere, sui quali realizzare le analisi agli intervalli di
tempo stabiliti dal programma di conservazione, il protocollo deve indicare in
maniera precisa all'operatore, che tra le varie fasi potrebbe non essere lo stesso,
le condizioni di misura, quali parametri registrare e con quali modalità. È
necessario innanzitutto che il protocollo che si vuole mettere a punto soddisfi
contemporaneamente i tre obiettivi che caratterizzano misure di questo tipo:
1. Tra dipinto e rivelatore deve essere assicurato il contatto ottico, condizione
che garantisce che tutta la radiazione riflessa dal campione venga raccolta;
2. Le fasi necessarie alla realizzazione delle misure non devono arrecare alcun
danno al dipinto;
3. La procedura deve garantire la ripetibilità della misura sia in termini di
localizzazione dei punti di interesse che per le condizioni sperimentali.
5 ‐ La strumentazione
5.1 ‐ Spettrofotometro
Le misure colorimetriche possono essere effettuate con uno spettrofotometro
portatile il cui funzionamento è schematizzabile in alcuni step:
1. La luce prodotta da una lampada allo xenon pulsata viene diffusa all’interno
della sfera di integrazione che illumina il campione in modo omogeneo ed
uniforme.
2. La luce, riflessa dalla superficie del campione ad un angolo di 8° rispetto alla
normale esce dalla sfera attraverso la porta d’osservazione, viene raccolta da un
sistema di lenti ed entra nel sensore spettrale principale. Contemporaneamente
la luce all’interno della sfera (quella che illumina la superficie del campione)
viene raccolta da un fascio di fibre ottiche per il monitoraggio dell’illuminazione
e viene infine trasmessa al sensore spettrale di riferimento (a doppio raggio).
3. La luce che entra in ciascun sensore, viene divisa in lunghezze d’onda (da 360
nm a 740 nm con passo di 20 nm) da un reticolo di diffrazione olografico e
colpisce i corrispondenti segmenti dell’array di fotodiodi. Questi segmenti
convertono la luce ricevuta in una corrente proporzionale all’intensità della luce
che viene poi trasmessa ai circuiti di controllo analogici.
Fig. 5.1 ‐ Immagine che illustra i meccanismi che avvengono all’interno dello
spettrofotometro portatile.
6 LA SPETTROMETRIA RAMAN
6.1 ‐ Scattering Rayleigh e Raman
Dalla fisica classica sappiamo che la luce di qualsiasi lunghezza d’onda può
interagire elasticamente con una molecola, mantenendo cioè la sua frequenza
inalterata. Questo fenomeno, denominato scattering di Rayleigh si spiega
considerando che il vettore campo elettrico Er dell’onda luminosa incidente
induce sulle shell elettroniche della molecola in esame un momento elettrico di
dipolo (dove α è la polarizzabilità della molecola) che oscilla con la
stessa frequenza νp della luce incidente, detta primaria (il pedice p sta per
primaria). A sua volta il dipolo indotto oscillando emette radiazione sempre
della stessa frequenza νp. Nel 1928 Raman osservò che oltre all’atteso scattering
di Rayleigh, lo spettro presentava righe con frequenze maggiori e minori. Questo
fenomeno, previsto teoricamente da Smekal nel 1923, è il cosiddetto effetto
Raman. Si osservò poi che l’entità dello shift delle frequenze era legata alle
frequenze vibrazionali e rotazionali della molecola scatterated ed era invece
indipendente dalla frequenza della luce primaria. Si affronterà successivamente
il problema dell’interpretazione dell’effetto Raman studiando separatamente il
contributo dovuto al moto rotazionale e quello dovuto alle vibrazioni della
molecola.
Fig. 6.1 ‐ Schematizzazione della riga di Rayleigh e delle righe Raman Stokes e anti Stokes e
dei livelli energetici coinvolti.
La schematizzazione della figura 6.1 mostra i contributi energetici e i relativi
stati energetici responsabili dell’emissione della riga Rayleigh e delle righe
Raman. Tutti i livelli energetici sono considerati come esattamente definiti, così
una transizione ad una precisa lunghezza d’onda è anch’essa ben definita e può
essere descritta come una linea nello spettro. Nella realtà uno stato eccitato non
presenta un tempo di vita infinito, di conseguenza esso non ha energia ben
definita; per questo motivo si considera un certo ΔE nella sua energia, ovvero la
sua transizione avviene intorno ad un valore centrale ν.
Questo fenomeno è detto larghezza di riga naturale, ed è uno dei molti fattori
che contribuiscono allo spessore intrinseco delle righe Raman. In un normale
spettro Raman le varie lunghezze d’onda sono espresse tramite linee verticali, le
posizioni di ciascuna di queste linee sono espresse, per meglio apprezzarne la
risoluzione, in cm‐1.
Un tipico spettro Raman come mostrato in figura 6.2 mostra la linea di Rayleigh
ed equi‐spaziate rispetto a questa alla destra e alla sinistra, le righe Stokes ed
anti‐Stokes.
Fig. 6.2 ‐ Scattering di una radiazione di eccitazione di frequenza ν0. νv è la frequenza di
vibrazione molecolare del campione.
La figura 6.2 mostra come la frequenza di eccitazione ν0 riappare nello spettro
come l’intensa riga Rayleigh mentre le righe Raman, molto più deboli, siano il
risultato dello scattering anelastico legato alla vibrazione molecolare di
frequenza νv. Ancora in riferimento alla figura 6.2, ad ogni lato della riga
Rayleigh è mostrata una singola banda Raman. In realtà, lavorando a risoluzione
elevata si constata, che ciascuna riga dello spettro vibrazionale di una molecola
biatomica eteronucleare è costituita da un grande numero di componenti,
strettamente intervallate. L’intervallo fra le componenti è dell’ordine di 10 cm‐1
e ciò lascia intuire che tale struttura sia dovuta alle transizioni rotazionali che
accompagnano quelle vibrazioni.
Fig. 6.3 ‐ Schema di uno spettro Raman di una molecola diatomica. La linea di Rayleigh con
numero d’onda νp della luce primaria è circondata dalle linee Raman rotazionali.
Durante l’interazione con la radiazione elettromagnetica, gli stati energetici
delle molecole vengono perturbati. L’energia di uno stato è regolata dalla
relazione di indeterminazione ΔΕ × Δ t ≥ h/2. Minore è il tempo dell’interazione
e maggiore è l’incertezza sull’energia. Questi stati non stazionari (per i quali non
si può definire un’energia a causa del principio di indeterminazione) vengono
detti virtuali. L’effetto della radiazione non assorbita è quindi quello di portare
le molecole in uno stato virtuale transitorio da cui esse diffondono
anelasticamente la radiazione per poi ritornare in uno stato stazionario. Non è,
perciò, possibile descrivere il processo di diffusione in termini di assorbimento e
emissione di luce poiché non vengono coinvolte transizioni tra stati stazionari.
Tipicamente l’intensità di una riga Rayleigh è circa di un fattore 10‐3 più bassa
rispetto a quella della luce incidente, mentre le righe Raman caratteristiche sono
almeno di un altro fattore 10‐6 più deboli. Per la rappresentazione delle misure
sperimentali si colloca l’origine dell’asse delle ascisse proprio nella posizione
della frequenza di eccitazione e le frequenze Raman appariranno a ±νv (+ per le
antiStokes, ‐ per le Stokes). A causa delle diverse intensità, in genere sono solo le
righe Stokes ad essere utilizzate in spettroscopia, anche se non mancano esempi
in letteratura in cui si ricorre alle righe anti‐Stokes presentando queste minori
problemi dovuti all’eventuale fluorescenza del campione.
Fig. 6.4 ‐ Sistema di riferimento per rappresentare spettri Raman.
Graficamente, per uno spettro Raman, sull’asse delle ordinate vengono riportate
le intensità diffuse, ovvero un numero proporzionale al numero di conteggi con i
quali sono stati registrati i picchi Raman, sulle ascisse vengono presentati gli
shift in frequenza ν, ossia la posizione dei picchi relativamente alla lunghezza
d’onda d’eccitazione (e indipendentemente da essa), che per convenzione viene
posta a 0 cm‐1. In uno spettro essa non è mai visibile in quanto opportunamente
filtrata per non coprire il debole segnale Raman.
La posizione relativa dei picchi Raman delle sostanze analizzabili con questo
tipo di spettroscopia costituisce un sistema di impronte digitali della sostanza
stessa. Come per la spettroscopia IR, un idoneo database di spettri Raman
consente l’individuazione analitica delle sostanze incognite, Raman attive, in un
campione.
6.2 Trattazione classica dell’emissione Raman
Nell’energia totale di una molecola si distinguono quattro componenti: la
traslazionale, la rotazionale, la vibrazionale e quella elettronica. In prima
approssimazione i contributi di queste energie possono essere considerati
separatamente. Le transizioni energetiche elettroniche danno luogo ad
emissione o ad assorbimento nelle regioni dell’ultravioletto e del visibile dello
spettro elettromagnetico. Le transizioni che coinvolgono solo stati rotazionali
riguardano energie nella regione delle microonde oppure del lontano infrarosso;
le transizioni vibrazionali invece sono responsabili dell’emissione o
dell’assorbimento nella regione dell’infrarosso. La radiazione elettromagnetica è
caratterizzata dalla sua lunghezza d’onda λ, la sua frequenza ν ed il suo numero
d’onda ν. Il numero d’onda espresso in cm‐1 rappresenta il numero di onde in un
treno d’onda lungo 1 cm, esso si può esprimere anche come:
essendo c la velocità della luce. Gli stati vibrazionali e rotazionali molecolari
possono essere studiati sia tramite la spettroscopia Raman che tramite la
spettroscopia infrarossa. Sebbene queste siano in relazione, le informazioni
fornite dalle due spettroscopie, permettendo ognuna di evidenziare
caratteristiche diverse delle molecole, risultano spesso complementari.
In accordo alla teoria quantistica, l’energia dei fotoni Ep è data da:
dove h è la costante di Plank. L’energia del fotone può essere assorbita o emessa
da una molecola così da cambiare la sua energia rotazionale, vibrazionale o
elettronica di una quantità ΔΕm essendo ΔΕm= ΕP.
Se la molecola acquista energia, ΔΕm è convenzionalmente considerato positivo
ed il fotone è assorbito. Se la molecola perde energia, ΔΕm è viceversa negativo e
viene emesso un fotone il cui numero d’onda è
Modello fenomenologico
La diffusione Rayleigh è un processo di rilassamento in cui avviene la
riemissione totale in tutte le direzioni con energia pari a quella della radiazione
incidente hν. E’ infatti questo un processo di emissione indotta secondaria che
ha luogo non solo a livello molecolare, ma anche con particelle di dimensioni
dell’ordine della lunghezza d’onda incidente e che siano distribuite a caso in un
mezzo dotato di indice di rifrazione notevolmente differente da quello delle
particelle stesse. La diffusione avviene in tutte le direzioni e l’intensità della luce
diffusa, che è sempre notevolmente inferiore a quella della luce incidente,
dipende da molti fattori ma principalmente è proporzionale al quadrato della
polarizzabilità α della particella e inversamente proporzionale al quadrato del
raggio delle particelle ed alla quarta potenza della lunghezza d’onda. Quindi le
particelle più piccole e le lunghezze d’onda minori danno la maggiore intensità
della luce diffusa.
I principi su cui si basa questo tipo di diffusione sono identici a quelli che
regolano il meccanismo di diffusione da parte di una molecola. La radiazione
incidente produce infatti una polarizzazione elettrica del sistema. Se la
lunghezza d’onda incidente non corrisponde ad una delle lunghezze d’onda
specifiche di assorbimento, l’interazione della radiazione elettromagnetica con
la molecola o particella produce una polarizzazione corrispondente ad una
piccola perturbazione con creazione di dipoli indotti periodici con un periodo
uguale a quello del campo elettrico della radiazione; questi dipoli periodici
riemettono quella frazione di energia raggiante assorbita nel processo di
polarizzazione come radiazione diffusa della stessa lunghezza d’onda di quella
incidente. Tale fenomeno è detto di emissione secondaria o dispersione della
radiazione, in contrapposizione al fenomeno dell’assorbimento della radiazione
stessa.
Dal punto di vista quantistico l’emissione secondaria è interpretata supponendo
che avvenga una parziale eccitazione ad un livello eccitato molto instabile tale
che, prima cha avvenga qualsiasi urto, la stessa radiazione è spontaneamente
riemessa ed il sistema ritorna al suo stato fondamentale. Questa teoria è molto
utile per spiegare il fenomeno della diffusione Raman, in cui la frequenza della
luce diffusa non corrisponde perfettamente alla frequenza della luce incidente,
ma ne differisce per un termine che corrisponde ad una lunghezza d’onda
vibrazionale o rotazionale.
Fig. 6.5 ‐ Livelli vibrazionali coinvolti dal fenomeno Raman
Schematicamente il modello fenomenologico è ben riassumibile tramite la figura
sovrastante: un fotone hν viene assorbito da una molecola che si trova ad un
livello vibrazionale di energia εi , questa viene promossa ad un livello virtuale εv
cui non corrisponde uno stato virtuale permesso, viene quindi riemesso
immediatamente un fotone di energia hν’ e la molecola passa ad un livello finale
di energia permesso εf. Se εi = εf si ha scattering elastico, altrimenti la diffusione
è anelastica ed ha luogo l’effetto Raman.
La Fluorescenza
Sia l’effetto Raman che il fenomeno della fluorescenza sono dovuti all’eccitazione
del campione da parte della sorgente laser, ma i livelli elettronici, e dunque gli
stati energetici, coinvolti dai due fenomeni sono differenti. L’entità del fenomeno
di fluorescenza, confrontato col debole segnale Raman, costituisce un problema
nello studio degli spettri di alcuni materiali particolarmente sensibili al
fenomeno della fluorescenza, come ad esempio quelli di natura organica.
L'emissione di luce da parte dei materiali ha origine da due meccanismi:
emissione termica e luminescenza. Mentre nel primo processo tutti gli atomi del
solido partecipano all'emissione di luce, nella luminescenza solo un numero
limitato di atomi (impurità o difetti del cristallo) vengono eccitati e prendono
parte all'emissione di luce. Le impurità e/o i difetti insieme agli atomi circostanti
formano un centro luminescente o centro ottico.
Dopo aver perso una frazione di energia di eccitazione come energia
vibrazionale dello stato elettronico eccitato secondo un normale meccanismo
d’urto, il sistema può non trovare stati eccitati intermedi per poter raggiungere
lo stato fondamentale senza riemettere energia raggiante. Ad un certo punto, si
ha perciò un’emissione spontanea di energia raggiante di lunghezza d’onda
differente da quella del fotone assorbito per raggiungere lo stato iniziale.
Fig. 6.6 ‐ (a) Diffusione Rayleigh; (b) Raman non risonante, Stokes ed anti‐Stokes; Effetto
Raman pre‐ risonante; (d) Effetto Raman di risonanza; (e) Fluorescenza
L’interpretazione quantistica del fenomeno è rappresentata nella figura 6 che
riassume i principali processi di interazione tra la radiazione luminosa e le
molecole. In essa vengono mostrati i livelli coinvolti nei fenomeni di diffusione
Rayleigh e Raman, ed il livello elettronico eccitato, per il fenomeno della
Fluorescenza. L’assorbimento iniziale della radiazione incidente porta la
molecola in uno stato elettronico eccitato. A questo punto, essa discende la scala
dei livelli vibrazionali, cedendo energia alle molecole circostanti tramite urti
(decadimento non radiativo), fino a raggiungere il livello vibrazionale più basso
dello stato elettronico eccitato. Si verifica adesso la transizione radiativa a
partire dallo stato vibrazionale fondamentale dello stato elettronico superiore
verso lo stato vibrazionale fondamentale dello stato elettronico inferiore. Poiché
la transizione emissiva ha luogo dopo la cessione di una certa quantità di energia
vibrazionale, l’emissione di fluorescenza si verifica ad una frequenza più bassa
rispetto a quella della radiazione eccitante, come accade per le righe Raman
Stokes, per questo motivo per l’analisi di campioni molto fluorescenti è
preferibile usare le righe Raman antiStokes.
Il processo di emissione fluorescente e fosforescente (caratterizzato da un
tempo di vita maggiore) è notevolmente inferiore nel caso in cui si raffreddi il
campione alla temperatura dell’azoto liquido. Questo modus operandi trova
applicazioni trova applicazione nel così detto “Raman Criogenico”.
Applicazioni della Spettroscopia Raman
Dopo aver descritto il fenomeno dell’emissione Raman dal punto di vista classico
e quantomeccanico, ed aver fornito gli elementi base per la descrizione del
modello fenomenologico, si presentano qui di seguito alcuni fra gli svariati
campi della scienza e della ricerca che si avvalgono efficacemente della
spettroscopia Raman, in particolare si riportano qui di seguito esempi di settori
quali la gemmologia, la ricerca sui costituenti e coloranti di vetri e ceramiche, sui
pigmenti pittorici e sul materiale archeologico in genere che riguardano da
vicino il vasto settore dei Beni Culturali.
Gemme
Fra i materiali utilizzati per la fabbricazione di opere d’arte, le gemme giocano
un ruolo peculiare poiché, oltre al loro interesse artistico e storico, esse
possiedono un considerevole valore economico. La distinzione di materiale
gemmologico originale rispetto alle imitazioni, l’accertamento della natura
minerale o sintetica delle pietre preziose e la determinazione di possibili
trattamenti aggiuntivi per migliorare le capacità riflettenti o cromatiche delle
gemme sono importanti traguardi raggiunti per fisici e chimici grazie a svariate
tecniche analitiche. Tali tecniche devono essere totalmente non distruttive, e
debbono poter essere utilizzate con oggetti delle dimensione delle gemme,
anche quando queste sono incastonate in gioielli. In questo ambito è cresciuto
l’interesse per le potenzialità offerte da strumentazione portatile, considerando
l’impossibilità di spostare oggetti di elevato pregio economico, ed
eventualmente anche artistico, dai luoghi di conservazione per ragioni di
sicurezza.
La spettroscopia Raman ben si adatta alle richieste sopraelencate divenendo uno
strumento efficace per investigare le proprietà fisiche e chimiche delle gemme.
Molti spettrometri Raman sono inoltre provvisti di microscopio confocale che
rende possibile la focalizzazione all’interno del campione in un punto ben
determinato spazialmente, cosa che permette agevolmente l’analisi delle
inclusioni le quali spesso aiutano a loro volta a determinare l’autenticità di una
pietra preziosa e anche la sua provenienza. Sempre con questa metodologia è
possibile l’individuazione di trattamenti volti a riempire le fratture di pietre
preziose con particolari resine rendendole invisibili all’occhio, incrementando
così il valore economico della pietra celandone le imperfezioni.
Uno degli inconvenienti del metodo, oltre ai problemi relativi alla scelta
dell’opportuna lunghezza d’onda eccitatrice, riguarda l’anisotropia che gli spettri
Raman presentano in dipendenza della direzione ottica, rispetto al cristallo, con
cui essi vengono registrati. Se da un lato, tale fenomeno, non altera la posizione
dei picchi Raman, dall’altro crea notevoli variazioni nell’intensità dei picchi
stessi con qualche possibile problema nell’interpretazione del risultato quando,
per esempio, la pietra, montata su un gioiello, non presenta più facce libere.
Pigmenti pittorici
Nel campo dei beni culturali un campo che forse più di altri ha ricevuto vantaggi
dall’utilizzo della microscopia Raman riguarda l’identificazione di pigmenti
pittorici. E’ infatti chiaramente riconosciuta alla metodologia di analisi
l’appropriata combinazione di elevata riproducibilità, alta sensibilità e
soprattutto non distruttività del materiale. Inoltre la tecnica può essere
utilizzata in situ, considerazione importante per opere d’arte di inestimabile
valore e non facilmente trasportabili, come sono quelle pittoriche, e per i
fragilissimi manoscritti antichi. Inoltre l’elevata risoluzione spaziale (<1 μm) e la
alta risoluzione spettrale proprie di questa tecnica spettroscopica sono
caratteristiche che permettono la caratterizzazione dei pigmenti, dispersi in un
medium pittorico, utilizzati sulle stesure pittoriche delle opere d’arte policrome.
Vi sono almeno due importanti ragioni per cui conservatori e restauratori sono
interessati all’identificazione dei pigmenti: la prima sta nell’importanza di
utilizzare nel restauro pigmenti che siano il più simili possibile agli originali per
mettersi al sicuro da possibili interazioni che pigmenti diversi più o meno
recenti, anche della stessa identica cromia, possono avere con i pigmenti vicini
con disastrosi effetti visivi e di conservazione sull’opera. Il secondo motivo
anch’esso di primaria importanza riguarda l’identificazione dei prodotti di
degrado in modo da poter mettere in opera i possibili rimedi per arrestare il
processo di degradazione e pianificare interventi di restauro. È inoltre prassi che
le più importanti case d’asta, prima di procedere alla vendita di oggetti d’arte,
facciano eseguire autentiche; uno dei modi per scoprire falsi o manomissioni
sulle opere d’arte sta nel verificare che la tavolozza cromatica utilizzata
dall’artista non contenga pigmenti che all’epoca della stesura dell’opera non
erano stati ancora scoperti od utilizzati. Allo scopo forse poche analisi
scientifiche sono in grado da sole di risolvere il problema come è in grado di fare
la spettroscopia Raman.
Vetri e ceramiche
Molte differenti sfaccettature di scienze, tecnologie e culture sono impresse nei
materiali. I materiali di origine antropica possono essere identificati in accordo
con le loro peculiarità estetiche, come ad esempio stile e decorazione, funzioni
pratiche, etc. In molti casi, l’identificazione della loro origine non è facile a causa
delle loro simili caratteristiche. D’altro canto, differenti tecnologie applicate a
differenti materie prime portano alla realizzazione di oggetti molto simili
all’apparenza, ma profondamente diversi nelle micro/nano strutture. Dunque
analisi non distruttive e metodi a microsonde si rendono necessari per
esaminare questo tipo di campioni in modo da comprendere la loro tecnologia
ed essere in grado di distinguere originali da falsi. L’utilità della spettroscopia
Raman come tecnica non distruttiva idonea alla caratterizzazione ceramiche e
vetri è stata già dimostrata da innumerevoli contributi.
La ceramica è una roccia artificiale ottenuta da una miscela di materiali quali
silice (in prevalenza), feldspati, allumina…, che sono trasformati dal trattamento
termico. Il fatto che il biscotto ceramico, le vetrine ed i pigmenti di molte
ceramiche sono già stati analizzati da parecchi ricercatori rende ora possibile
realizzare una innumerevole serie di intrecci dei risultati ottenuti grazie ai
database realizzati. In pochi casi l’identificazione di minerali sintetici o naturali
del corpo ceramico restituisce specifiche informazioni sulla tecnologia utilizzata
e sulla origine del reperto; è spesso l’identificazione di minerali in traccia e terre
rare che permettono di individuare od escludere origini simili per materiali
archeologici. Quando si vogliono ottenere informazioni dalla sottilissima
invetriatura ceramica, la tecnica Raman, che esplora i primi micron della
superficie dell’oggetto, ben si presta allo scopo.
Discorso a parte meritano i pigmenti utilizzati dai ceramisti di tutti i tempi per la
decorazione. A causa della forte fluorescenza, non è facile ottenete spettri
Raman per frammenti di ceramiche o faience direttamente facendo incidere il
laser a ioni argon o crypton attraverso l’invetriatura; dunque, per analizzare i
pigmenti tramite spettroscopia Raman occorre che il granulo sia esposto alla
luce del laser, ovvero, nella maggior parte dei casi, occorre lavorare in cross‐
section del frammento ceramico.
Le lunghezze d’onda di 488 e 514.5 nm, particolarmente indicati per ottenere
spettri Raman da pigmenti blu e rossi, rispettivamente, non sono generalmente
in grado di provocare segnali Raman significativi. Infatti, ripetute analisi
condotte facendo molta attenzione a focalizzare sul granulo di pigmento
restituiscono solo il segnale dell’ossido di silicio (di cui è costituita la matrice del
materiale), che oscura spesso il segnale Raman dovuto al pigmento. Utilizzando
sullo stesso frammento una riga laser di eccitazione nel rosso, intorno a 640 nm,
lo scattering dovuto alla silice viene fortemente ridotto. Tuttavia non risulta
possibile ottenere spettri adeguati per alcuni pigmenti quali i gialli e i verdi.
In materiali quali le ceramiche ed i vetri è dunque essenziale avere a
disposizione più sorgenti a diverse lunghezze d’onda per riuscire a distinguere i
segnali Raman dovuti ai pigmenti dalla forte fluorescenza della matrice.
Molte delle considerazioni sull’applicabilità della spettroscopia Raman alle
ceramiche valgono, non a caso vengono considerati materiali affini, anche per i
vetri. I vetri, dal punto di vista scientifico, sono classificati come materiali amorfi
o a reticolo cristallino non definito, e possono essere a matrice colorata, a
superficie colorata o non colorati. Dal punto di vista strumentale per quanto
riguarda lo scattering Raman, scelte e configurazioni differenti devono essere
fatte in funzione del tipo di vetro da analizzare e degli scopi per cui viene
intrapreso l’intervento diagnostico.
Campioni di vetro non colorato o colorato internamente sono analizzabili con
strumentazione Raman di tipo classico in normale configurazione di analisi,
ferme restando le considerazioni fatte affinché un’appropriata lunghezza d’onda
eccitatrice sia in grado di produrre segnali Raman. Campioni superficialmente
colorati, o stratificati richiedono geometria tipo backscattering e microRaman
spesso confocale. Le sostanze coloranti dei vetri sono essenzialmente ossidi di
metalli, solfati o altri elementi chimici. Essi si trovano in uno stato cristallino e
sono utilizzati sotto forma di polveri miscelate o puri. I loro spettri Raman sono
facilmente ritrovabili in letteratura.
Discorso a parte meritano le ossidiane, vetri naturali di origine vulcanica
utilizzate fin dalla preistoria sia per la realizzazione di strumenti che per
ornamento. La loro caratterizzazione, possibile con un gran numero di tecniche,
permette la ricostruzione dei traffici commerciali preistorici. Queste
metodologie sono, per la maggior parte, distruttive ed è per questo che la
spettroscopia Raman viene proposta come tecnica alternativa. Figura 16:
Confronti tra gli spettri Raman di ossidiane di diversa provenienza
Materiale archeologico
Uno dei casi più famosi di come la spettroscopia Raman sia in grado di risolvere
problemi di autenticità di opere d’arte e reperti archeologici è probabilmente
quello della mappa di Vinland, una pergamena attribuita cronologicamente al XV
che rappresenta una mappa del mondo eurocentrico.
Fig. 6.7 ‐ Mappa di Vinland, ritenuta un originale del XV secolo fino al 2002, quando venne
sottoposta ad analisi Raman.
Gli studiosi hanno dibattuto per diversi decenni al riguardo dell’autenticità della
mappa rinvenuta nel 1957. Nel 2001 la mappa venne analizzata da R. Clark e K.
Brawn, ricercatori dei laboratori universitari del college londinese (UCL).
Le analisi vennero effettuate in più punti del reperto, utilizzando uno strumento
Raman portatile con Laser rosso (λ= 632,8 nm). Due colori erano presenti sulla
pergamena: le righe gialle e tratti non ben definiti ed omogenei di righe nere
sovrapposte alle gialle, ma in gran parte svanite. L’analisi delle righe gialle
mostrò un’elevata fluorescenza di fondo, dovuta probabilmente alla presenza di
leganti organici tipo gelatina, ma non impedì la determinazione dell’Anatasio
(TiO2), un pigmento il cui utilizzo è posteriore al 1920. Va notato che l’Anatasio
fu identificato solo nelle righe gialle e non altrove sulla pergamena, a riprova che
la sua presenza è intenzionale e per fini estetici e non dovuta a contaminazioni
ambientali.
Altro esempio di quanto l’analisi raman può offrire al mondo dell’arte in
generale riguarda l’individuazione di prodotti di degrado di materiali quali gli
ossalati, siano essi di calcio, nella forma di weddellite o whewellite, di sodio o
potassio, magnesiaci o di rame e ferro. L’individuazione preventiva di tali
prodotti di degrado può permettere di evitare la distruzione del materiale
intervenendo opportunamente. Ad esempio weddellite e wewellite spesso si
originano in concomitanza con gesso sulla superficie di palazzi storici costruiti
in pietra calcarea esposti ad un clima e ad un inquinamento di tipo
mediterraneo. L’osservazione dell’interfaccia tra il substrato di calcite e i sopra
menzionati minerali di formazione secondaria costituisce un importante passo
nella spiegazione dei processi di alterazione di opere d’arte e di oggetti storico‐
artistici.
Anche per quanto riguarda l’identificazione dei prodotti di corrosione su bronzo
o ferro la spettroscopia Raman è una tecnica di riferimento per acquisire
informazioni sullo stato del degrado per pianificare migliori piani di
conservazione, e per verificare che un eventuale restauro sia andato a buon fine.
Misure Sperimentali
La strumentazione e misure preliminari
Lo scattering anelastico della luce fu previsto teoricamente da Brillouin (1922) e
da Smekal (1923), ma fu osservato sperimentalmente da Raman e Krishnan nel
1928. L’apparato sperimentale allora utilizzato consisteva di una sorgente (un
fascio di luce solare focalizzata e filtrata), un campione (un volume di liquido) ed
un rivelatore (una lastra fotografica). In seguito, fino agli anni trenta e quaranta,
la spettroscopia Raman, utilizzò come sorgenti di eccitazione lampade a vapori
di mercurio. Nel dopoguerra si passò dalla rivelazione con lastra fotografica a
quella con fotomoltiplicatori mentre, negli anni sessanta, furono introdotti i
laser a gas come sorgente di eccitazione e l’analisi spettrale con doppi e tripli
monocromatori a bassissima luce diffusa, in grado di separare lo scattering
elastico (Rayleigh) dal debole segnale Raman. I decenni successivi hanno visto lo
sviluppo dell’FT‐Raman, l’impiego dei laser a diodo con emissione nel NIR,
l’introduzione di sistemi di campionamento su scala micro, ma soprattutto la
rimozione della diffusione elastica mediante filtri olografici (Notch e Super‐
Notch). Questi ultimi, riuscendo da soli a separare la componente Rayleigh da
quella Raman, hanno permesso l’utilizzo di semplici monocromatori singoli,
superando così le difficoltà, inerenti l’allineamento, che scaturivano dall’uso dei
monocro‐matori tripli e che relegavano la spettroscopia Raman solo ai pochi
laboratori specializzati.
Nell’ultimo decennio ai fotomoltiplicatori si sono sostituiti i rivelatori
multicanale, CCD, che permettono acquisizioni molto più veloci. Il diagramma a
blocchi di Figura 6.8 mostra, molto schematicamente, le componenti essenziali
di un tipico apparato sperimentale per spettroscopia Raman.
Essenzialmente un sistema per l’acquisizione di spettri Raman si serve di 5
componenti:
1) Sorgente
2) Spettrometro
3) Sistema di campionamento
4) Rivelatore
5) Sistema di gestione ed elaborazione
Fig. 6.8 ‐ Schema a blocchi di una strumentazione per spettroscopia Raman
Sorgenti e spettrometro
La possibilità di distinguere le righe Raman implica necessariamente che la
sorgente eccitatrice sia la più monocromatica possibile, al fine di avere una sola
e stretta riga di Rayleigh, da cui le righe Raman possano quindi ben distinguersi.
I tipi di laser più comunemente usati in spettroscopia Raman sono mostrati in
figura 6.9; essi possono presentare emissione che va dal violetto (488nm) agli
infrarossi (1060nm).
Fig. 6.9 ‐ I laser usati per la spettroscopia Raman
Bisogna, di volta in volta, scegliere opportuna‐mente il laser a lunghezza d’onda
più adatta, per ogni tipologia di campione. Se il campione è un debole emettitore
Raman, converrà usare laser nel lontano infrarosso (1060 nm) che stimolano
pochissima fluorescenza, in tal modo le righe Raman, sebbene deboli, riescono
spesso ad essere distinte. Mediante lo spettrometro, oltre che disperdere lo
spettro nelle sue varie componenti, è possibile separare l’intenso scattering di
Rayleigh da quello Raman.
Calibrazione dello Strumento
L’importanza della calibrazione dello strumento è essenziale nelle misure
Raman, visto che il riconoscimento di un campione avviene attraverso l’analisi
ed il riconoscimento della posizione dei picchi nei database esistenti. Inoltre la
possibilità che in questi database la sorgente utilizzata possa essere diversa
rispetto a quella utilizzata per l’analisi del proprio campione, fa sì che nel
sistema di riconoscimento per “impronte digitali” possano essere presenti alcuni
picchi non in comune fra i due spettri, dovuti alla diversa risposta del campione
alle varie sorgenti, cosa che potrebbe dare problemi nell’interpretazione se i
picchi comuni non si trovassero in corrispondenza degli stessi Raman shift. In
effetti si può affermare che l’accuratezza di una misura Raman dipende in gran
parte dalla qualità della calibrazione. Per effettuare la calibrazione della
strumentazione (operazione consigliata all’inizio di ogni serie di misure e ogni
qualvolta si cambi laser e/o reticolo di diffrazione) si utilizza una sostanza
Raman attiva che abbia uno spettro con un picco significativo in una posizione
ben nota.
Sebbene esistano standard certificati di natura organica che consentono una
calibrazione di tipo fine, grazie alla elevata quantità e qualità dei picchi Raman
distribuiti sullo spettro che essi forniscono, la calibrazione in posizione per un
normale sistema per analisi Raman può avvalersi di elementi più comuni e
facilmente reperibili quali silicio, zolfo, diamante. Con il laser verde 531,5 nm si
consiglia l’uso dello zolfo (che presenta un picco stretto e intenso a 473 cm‐1),
con il laser rosso 632,8 nm si consiglia l’uso del silicio (presenta un picco stretto
e intenso a 520 cm‐1) mentre con il laser IR 785 nm sia lo zolfo che il silicio
possono essere utilizzati anche se l’emissione Raman a questa lunghezza d’onda
risulta modesta e si rendono necessari tempi di acquisizione più lunghi.
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