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1 Il principio di Precauzione I COSTI DELLA NON-SCIENZA

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I COSTI DELLA NON SCIENZA: IL PRINCIPIO DI PRECAUZIONEGalileo 2001a cura di Franco Battaglia e Angela Rosati

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Il principio di Precauzione

I COSTI DELLA NON-SCIENZA

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Associazione Galileo 2001, Il Principio di Precauzione: i costi della non-scienza© 2004 21mo SECOLO s.a.s. di Roberto Irsuti e C.Via Piacenza 24, 20135 MilanoTel. 02-5456061, Fax [email protected] i diritti riservatiISBN: 88-87731-23-

Grafica: Claudio RossiIn copertina: xxxx.

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ASSOCIAZIONE GALILEO 2001per la libertà e dignità della scienza

IL PRINCIPIO DI PRECAUZIONE

I COSTI DELLA NON-SCIENZA

21mo SECOLO

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INDICE

Presentazione VII

Manifesto IX

Organi Costituzionali dell’Associazione Galileo 2001 XIII

Introduzione del Prof. Giorgio Salvini 1

Roberto De MatteiIndirizzo di saluto 5

Renato Angelo RicciPerché Galileo 2001 11

Umberto VeronesiUn’alleanza per la scienza 21

Franco BattagliaIl Principio di Precauzione: precauzione o rischio? 27

Carlo BernardiniRadici filosofiche e utilizzazione sociale del Principio di Precauzione 65

Tullio ReggeIl Principio di Precauzione: un trucco verbale 71

Umberto TirelliIl Principio di Precauzione e la salute 75

Francesco SalaPiante GM: una grande opportunità per l’agricoltura italiana 81

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Ingo PotrykusGreen biotechnology could save millions of lives, but it cannot because of anti-scientific, extreme-precautionary regulationLe biotecnologie in agricoltura potrebbero salvare milioni di vite, ma normative anti-scientifiche ed eccessivamente precauzionali lo impediscono 89

Paolo SequiIl Principio di Precauzione e le problematiche ambientali relative al suolo 111

Paolo VecchiaIl Principio di Precauzione per i campi elettromagnetici: giustificazione ed efficacia 141

Luciano CagliotiIl paradosso dei rifiuti 155

Cesare MarchettiProspettive dell’economia a idrogeno 161

Giovanni Vittorio PallottinoSfogliando i libri di testo di scienza per la scuola 171

Ernesto PedrocchiIl Principio di Precauzione 177

Silvano FusoPrincipio di Precauzione e pseudoscienze 181

Ringraziamenti 189

6 I costi della non-scienza

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GALILEO 2001PER LA LIBERTÀ E LA DIGNITÀ DELLA SCIENZA

MANIFESTO

U n fantasma si aggira da tempo nel Paese, un fantasma chesparge allarmi ed evoca catastrofi, terrorizza le persone, addi-ta la scienza e la tecnologia astrattamente intese come nemi-

che dell’uomo e della natura e induce ad atteggiamenti antiscientificifacendo leva su ingiustificate paure che oscurano le vie della ragione.

Questo fantasma si chiama oscurantismo. Si manifesta in varie for-me, tra cui le più pericolose per contenuto regressivo ed irrazionalesono il fondamentalismo ambientalista e l’opposizione al progressotecnico-scientifico. Ambedue influenzano l’opinione pubblica e la po-litica attraverso una comunicazione subdola: l’invocazione ingiustifi-cata del Principio di Precauzione nell’applicare nuove conoscenze etecnologie diviene una copertura per lanciare anatemi contro il pro-gresso, profetizzare catastrofi, demonizzare la scienza.

Non si tratta, quindi, di una giustificabile preoccupazione per le ri-percussioni indesiderate di uno sviluppo industriale ed economiconon sempre controllato, ma di un vero e proprio attacco contro il pro-gresso. L’arroganza e la demagogia che lo caratterizzano non solo umi-liano la ricerca scientifica – attribuendole significati pericolosi ed im-ponendole vincoli aprioristici ed arbitrari – ma calpestano il patrimo-nio di conoscenze che le comunità scientifiche vanno accumulando everificando, senza pretese dogmatiche, con la consapevolezza di offri-re ragionevoli certezze basate su dati statisticamente affidabili e speri-mentalmente controllabili.

Il fatto che le conoscenze scientifiche, per la natura stessa del me-todo di indagine e di verifica dei risultati, si accreditino con spazi didubbio, sempre riducibili ma mai eliminabili, costituisce l’antidotoprincipale – che è proprio dell’attività scientifica – verso ogni forma di

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dogmatismo, scientismo, intolleranza e illiberalità; ma non puó giusti-ficare il considerare tali conoscenze opinabili o, peggio, inattendibili.

La voce della scienza è certamente più affidabile e anche umana-mente – oltre che intellettualmente – più consapevole delle voci in-controllate e dogmatiche che, fuori di ogni rilevanza scientifica, pre-tendono di affermare “verità” basate sull’emotività irrazionale tipicadelle culture oscurantiste.

Da questa cultura regressiva nascono, ad esempio: • l’attribuzione quasi esclusivamente alle attività antropiche di effet-

ti, pur preoccupanti data la posta in gioco, quali i cambiamenti cli-matici che da milioni di anni sono caratteristici del pianeta Terra,mentre il problema della loro origine è tuttora aperto;

• le limitazioni alla ricerca biotecnologica che impediscono ai nostriricercatori di cooperare al raggiungimento di conquiste scientificheche potrebbero, tra l’altro, combattere gravi patologie e contribui-re ad alleviare i problemi di alimentazione dell’umanità;

• la ricerca e l’esaltazione acritica di pratiche mediche miracolisticheche sono ritenute affidabili solo perché “alternative” alla medicinascientifica;

• il terrorismo sui rischi sanitari dei campi elettromagnetici, che vuo-le imporre limiti precauzionali ingiustificati, enormemente piú bas-si di quelli accreditati dalla comunità scientifica internazionale eadottati in tutti i paesi industriali;

• il permanere di una condizione di emergenza nel trattamento e nel-lo smaltimento dei rifiuti di ogni tipo, condizione che è figlia del ri-fiuto aprioristico di soluzioni tecnologiche adottate da decenni intutti i paesi industriali avanzati;

• la sistematica opposizione ad ogni tentativo di dotare il Paese di in-frastrutture vitali per la continuità dello sviluppo e per il migliora-mento della qualità della vita della popolazione;

• la preclusione dogmatica dell’energia nucleare, che penalizza ilPaese non solo sul piano economico e dello sviluppo, ma anche nelraggiungimento di obiettivi di razionalizzazione e compatibilitàambientale nel sistema energetico.Il clima di oscurantismo in atto rischia di contribuire all’allontana-

mento dei giovani dai corsi di studio a indirizzo scientifico, ormai con-notati di significati antiumanitari e antiambientali, alimentando un

8 I costi della non-scienza

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processo che rischia di prefigurare un futuro di dipendenza anche cul-turale, oltre che economica, del Paese.

La scienza non produce miracoli e non è, di per sè, foriera di cata-strofi. Da sempre essa è parte integrante e trainante dell’evoluzionedella società umana, motore primario di progresso sociale, economico,sanitario e ambientale.

Sulla base di questa consapevolezza, scienziati, ricercatori, tecnicidi ogni estrazione culturale e di ogni credo, estranei ad ogni interesseindustriale e consci del fatto che l’impegno scientifico non deveconfondersi con le pur legittime convinzioni di ordine ideologico, po-litico e religioso, si levano a contrastare questa opera di disinformazio-ne e di arretramento culturale, rivendicando il valore della scienza co-me fonte primaria delle conoscenze funzionali al progresso civile, sen-za distorsioni e filtri inaccettabili.

Ci costituiamo nel movimento Galileo 2001 per la libertà e la di-gnità della Scienza, aperti alle adesioni più qualificate, sincere e disin-teressate.

Chiediamo alle associazioni scientifiche e culturali di impegnarsidisinteressatamente, assieme alle istituzioni, in una indifferibile batta-glia per un’informazione competente e deontologicamente corretta.

Ci rivolgiamo alla società civile, agli operatori dell’informazionepiù attenti e ai rappresentanti politici più avveduti perché sappianoraccogliere questo messaggio e ci aiutino a superare le barriere delfondamentalismo e della disinformazione.

Vogliamo che il nuovo secolo sia anche per il nostro Paese – che hadato i natali a Galileo, Volta, Marconi e Fermi – quello della veritàscientifica e della ragione, tanto più consapevoli quanto più basate sul-le conoscenze e sul sapere. Esse forse non saranno sufficienti, ma sonocertamente necessarie.

Membri Fondatori:Franco Battaglia, Università di Roma Tre Carlo Bernardini, Università di Roma La SapienzaTullio Regge, Premio Einstein per la FisicaRenato Angelo Ricci, Presidente onorario Società Italiana di Fisica; già

Presidente Società Europea di Fisica

9Galileo 2001

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Giorgio Salvini, Accademico dei Lincei, già Ministro della RicercaScientifica

Gian Tommaso Scarascia Mugnozza, Professore emerito, Universitàdella Tuscia; Accademia Nazionale delle Scienze

Ugo Spezia, Segretario Generale Centro Internazionale per laDocumentazione e l’Informazione Scientifica (CIDIS)

Umberto Tirelli, Direttore Divisione Oncologia Medica, IstitutoNazionale Tumori di Aviano

Membri del Comitato Promotore:Franco Bassani, Presidente Società Italiana di Fisica Argeo Benco, già Presidente Associazione Italiana di RadioprotezionePaolo Blasi, già Rettore Università di FirenzeEdoardo Boncinelli, Istituto San Raffaele, Milano Luciano Caglioti, Università di Roma La SapienzaCinzia Caporale, Università di SienaGiovanni Carboni, Università di Roma Tor VergataFrancesco Cognetti, Presidente Associazione Italiana di Oncologia

MedicaGuido Fano, Università di Bologna Gianni Fochi, Scuola Normale Superiore di Pisa, Università di PisaAndrea Frova, Università di Roma La SapienzaSilvio Garattini, Istituto Mario Negri, Milano Roberto Irsuti, Direttore 21mo Secolo, MilanoSilvio Monfardini, Direttore Divisione Oncologia Medica, Ospedale

Universitario di Padova Giovanni Vittorio Pallottino, Università di Roma La SapienzaFranco Panizon, Professore emerito, Università di Trieste Ernesto Pedrocchi, Politecnico di Milano Carlo A. Pelanda, Condirettore Globis, University of Georgia, USACarlo Salvetti, Vice-Presidente Associazione Italiana Nucleare Paolo Sequi, Presidente della Società Italiana per la Scienza del Suolo Angelo Spena, Università di Verona Paolo Vecchia, Dirigente di Ricerca, Istituto Superiore di Sanità Giancarlo Vecchio, Università di Napoli, Presidente Società Italiana di

Cancerologia Igino Zavatti, Coordinatore Associazione Nuova Civiltà delle Macchine

10 I costi della non-scienza

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Consiglio Direttivo

RICCI Prof. Renato Angelo PresidenteSALVINI Prof. Giorgio Presidente OnorarioVERONESI Prof. Umberto Presidente OnorarioBATTAGLIA Prof. Franco Vice Presidente VicarioBERNARDINI Prof. Carlo Vice PresidenteREGGE Prof. Tullio Vice PresidenteTIRELLI Prof. Umberto Vice Presidente

Consiglieri

CAGLIOTI Prof. LucianoCAPORALE Prof.ssa CinziaPALLOTTINO Prof. Giovanni VittorioSALA Prof. Francesco GiuseppeSALVETTI Prof. CarloSCARASCIA MUGNOZZA Prof. Gian TommasoSEQUI Prof. PaoloSPEZIA Ing. UgoTRENTA Prof. Giorgio NazzarenoVECCHIA Prof. Paolo

Collegio Sindacale

ROMITI Dr. Bruno PresidenteCARBONI Prof. Giovanni Sindaco EffettivoCOGNETTI Prof. Francesco Sindaco EffettivoBRESSANI Prof. Tullio Sindaco SupplenteFANO Prof. Guido Sindaco Supplente

Segretario Generale

ROSATI Sig.ra Angela

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INTRODUZIONE

Giorgio Salvini 1

Presidente Onorario Galileo 2001

L’Associazione Galileo 2001 ha molto appropriatamente scelto iltema del Principio di Precauzione per presentarsi per la primavolta all’attenzione del pubblico, degli organi d’informazione e

dei responsabili politici. Il titolo più preciso del volume – che racco-glie le relazioni presentate al I Convegno Nazionale dell’Associazione,tenutosi a Roma il 19 febbraio 2004, ospitato nella sede del ConsiglioNazionale delle Ricerche – che è anche quello del convegno stesso, èIl Principio di Precauzione: i costi della non-scienza.

Il volume comincia con le prolusioni del presidente, Renato Ange-lo Ricci e di Umberto Veronesi, che assieme a me ricopre la carica dipresidente onorario dell’associazione. Ricci, che è stato per 17 annipresidente – ora onorario – della Società Italiana di Fisica. Ricci, chedurante la sua carriera di fisico non ha mai trascurato un ininterrottoimpegno civico di partecipazione alla vita del nostro paese, ci spiega lemotivazioni della nascita dell’Associazione. Un’alleanza per la scienza,la chiama Umberto Veronesi, una figura ben nota al grande pubblicoe che, per l’impegno profuso nella lotta contro uno dei più terribilimali che affliggono l’umanità e per la sua carica di umanità è nel cuoredi tutti gli italiani.

Le relazioni vere e proprie sul tema cominciano con quella di Fran-co Battaglia, cui va il riconoscimento di aver voluto che quello delPrincipio di Precauzione fosse il tema della conferenza. Battaglia, dopoaverci reso partecipe degli eventi personali che lo hanno convinto adimpegnarsi ad affermare le finalità di Galileo 2001, discute con dovi-zia di particolari i limiti e, soprattutto, i rischi del Principio di Precau-

1 Ex Ministro alla Ricerca Scientifica

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zione. Più disincantati – a tratti divertenti, ma non per questo menoefficaci – sono le relazioni di Carlo Bernardini e di Tullio Regge, duepilastri della fisica italiana d’oggi. Le implicazioni dell’applicazioneletterale del Principio di Precauzione alla medicina sono invece consi-derate da Umberto Tirelli, direttore di una divisione di oncologia alCentro Tumori di Aviano.

Il resto del volume contiene trattazioni dettagliate su specificiesempi. Francesco Sala, direttore degli Orti Botanici dell’Università diMilano, avverte come l’applicazione del Principio di Precauzione perlimitare l’uso dell’ingegneria genetica in agricoltura può rivelarsi unvero suicidio in ordine alla salvaguardia dei nostri prodotti tipici. Unalimitazione che, invece – avverte Ingo Potrykus, professore emerito diBiologia vegetale all’Università di Zurigo – diventa quasi omicidio:centinaia di migliaia di bambini poveri del mondo muoiono o diventa-no ciechi per carenza di vitamina A, essendo questa assente nel loroquasi unico cibo, il riso. Di cui ne esiste una varietà, geneticamentemodificata, ricca di beta-carotene, precursore metabolico della vitami-na A.

Le distorsioni dell’applicazione del Principio di Precauzione alla pre-venzione dell’inquinamento dei suoli sono ben illustrate da Paolo Se-qui, direttore dell’Istituto Nazionale di Nutrizione delle Piante. PaoloVecchia, uno dei maggiori esperti italiani degli effetti sanitari dei campielettromagnetici, e da poco nominato presidente dell’ICNIRP (la Com-missione internazionale per la protezione dalle radiazioni non-ioniz-zanti), invece, ben ci spiega come sia priva di fondamento la preoccu-pazione eccessiva, recentemente nata in Italia, in ordine ai rischi deri-vanti dall’esposizione a quei campi. Ci ricorda Paolo Vecchia comeogni spesa eseguita per proteggerci da quei campi, senza salvare nessu-no da nessun rischio, sottrae di fatto risorse pubbliche da emergenzereali e accertate.

In nome del Principio di Precauzione molte realtà locali del nostropaese rifiutano quel che altrove è la norma: la messa in opera di ince-neritori per i rifiuti. Il risultato paradossale – il paese esporta rifiuti –diventa inquietante, visto che il “prodotto” esportato abbisogna dellascorta militare: del paradosso dei rifiuti ci rende partecipe LucianoCaglioti.

L’ultima relazione è di Cesare Marchetti, che ci parla di economia a

14 I costi della non-scienza

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idrogeno. L’idrogeno è il nuovo sex symbol energetico. Difficile dire seesso sarà mai il protagonista dell’economia del futuro. In ogni caso,avverte Marchetti, le dimensioni dei volumi energetici richiedono lafonte nucleare per la produzione dell’idrogeno di cui il mondo avreb-be bisogno. Al momento, il Principio di Precauzione frena, nell’opinio-ne pubblica, lo sviluppo di quella fonte. In Italia, più che un freno vi èstato un abbandono. Ma non una rinuncia: il 18% dell’energia elettri-ca che consumiamo la importiamo dalle fonti nucleari d’oltralpe.

Ce n’è quanto basta per riflettere.

15Introduzione

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16 I costi della non-scienza

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INDIRIZZO DI SALUTO

Roberto De MatteiSub-Commissario CNR

Signore e Signori,

porto con piacere il saluto del Consiglio Nazionale delle Ricerche emio personale al convegno sul Principio di Precauzione che si apre og-gi, per iniziativa dell’Associazione Galileo 2001, nelle sale del CNR.

Il vostro convegno contribuirà certamente a far maggior luce su un“principio” che resta ancora avvolto da un velo di mistero per l’ambi-guità che lo contraddistingue e che ne rende estremamente difficileuna definizione. Più che di principio giuridico, si dovrebbe parlare, amio avviso, di un generico “approccio”, che si situa in un incerta zonadi confine tra la scienza, il diritto, la politica e l’etica.

La prima e la più nota esplicitazione del principio di precauzione,quella della Conferenza di Rio del 1992, recita all’articolo 15, che «incaso di rischi di danni gravi o irreversibili, l’assenza di certezze scienti-fiche non deve servire come pretesto per rinviare l’adozione di misureefficaci volte a prevenire il degrado dell’ambiente»: una affermazioneche sembra implicare, sicut litterae sonant, un trasferimento di dirittidall’uomo, che è il soggetto giuridico per eccellenza, all’ambiente, en-tità indefinibile a cui riesce ben difficile attribuire personalità giuridica.

Le successive formulazioni del Principio di Precauzione, che nehanno fatto un cardine della politica ambientale in Europa – comequelle dei trattati di Maastricht e di Amsterdam, la Comunicazionedella Commissione del 2 febbraio 2000, la direttiva comunitaria del 17aprile 2001 e le sentenze della Corte Europea di giustizia – hanno af-fiancato all’ambiente l’uomo come possibile soggetto a rischio, affer-mando la necessità di «tutelare preventivamente, accanto all’ambien-te, la salute umana».

Questo secondo tipo di formulazione può sembrare giudiziosa ecome tale viene percepita dall’opinione pubblica, che vede nell’idea di

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“precauzione” uno strumento di difesa di fronte allo sviluppo vertigi-noso delle nuove tecnologie e alla loro diffusione.

Tuttavia, anche l’espressione più mitigata del principio di precau-zione pone molti problemi.

Va ricordato, innanzitutto, che il Principio di Precauzione non deveessere equiparato al principio di prevenzione. Quest’ultimo prevedel’utilizzo di mezzi finalizzati alla rimozione di un rischio scientifica-mente accertato e dimostrabile, mentre il Principio di Precauzione halo scopo di fornire elementi per un intervento di base quando la scien-za non è in grado di dare risposte certe su rischi inaccettabili per lacollettività.

Il Principio di Precauzione scatta cioè, tutte le volte che ci si trovain presenza di una situazione di incertezza scientifica, fa dell’incertez-za scientifica il suo presupposto. Ma proprio la premessa del Principiodi Precauzione (l’assenza di certezza scientifica), come è stato notato,può essere usata come un grimaldello per tutto e il contrario di tutto.La certezza scientifica è sempre assente, per la natura stessa della ri-cerca. Uno scienziato non potrà mai dirsi sicuro che una sostanza nonabbia alcun effetto negativo, perché, per fare una simile affermazione,dovrebbe aver testato tutti i possibili effetti negativi, il che è pratica-mente e logicamente impossibile 1.

Non a torto, il prof. Franco Battaglia afferma che «il Principio diPrecauzione si sostituisce arbitrariamente ad un’analisi e gestione deirischi effettuata in modo scientifico» e «dà l’occasione per sostituire ildubbio presente in ogni affermazione scientifica con arbitrarie certez-ze» 2. Battaglia aggiunge che «il rischio del principio di precauzione èche quello spazio di dubbio lasciato dalla scienza potrebbe venir riem-pito da affermazioni arbitrarie che, dando voce solo ai singoli risultatidella scienza che tornano di volta in volta comodi, consente ad alcunila razionalizzazione dei loro interessi di parte in aperto contrasto congli interessi della collettività e con l’analisi critica della totalità delleacquisizioni scientifiche» 3. Fondato, sull’enfatizzazione del rischio, il

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1 Steven Milloy, Science without Sense, Cato Institute, Washington, DC, 19962 Franco Battaglia, Elettrosmog, un’emergenza creata ad arte, Leonardo Facco

Editore, 2002, p. 1093 Franco Battaglia, loc. cit. p. 109

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Principio di Precauzione corre a sua volta un grave rischio: quello di ri-dursi a semplice “precauzione mediatica” da parte di chi teme di assu-mersi delle responsabilità davanti alle preoccupazioni della comunitàpolitica che rappresenta.

Il rischio è, cioè, che il Principio di Precauzione finisca con l’essereuno strumento di interessi politici, guidato dai media, piuttosto cheuna garanzia della salute dei cittadini.

Sul piano giuridico, l’elemento costitutivo del Principio di Precau-zione è l’inversione di un principio fondamentale del diritto occiden-tale: il principio dell’onere della prova. Il Principio di Precauzione af-ferma infatti che l’uomo è responsabile non solo di ciò che sa, o do-vrebbe sapere, ma anche di ciò che ignora o su cui dubita: diversa-mente da quanto avviene in base al principio “chi inquina paga”, nelPrincipio di Precauzione la dimostrazione di un rapporto causale tral’attività umana e il danno ambientale non spetta ex post ai danneggia-ti, ma ex ante ai produttori dell’ipotetico danno 4.

Il concetto che emerge è quello di una giustificazione previa, chedovrà costituire il culmine di un procedimento a carico del produtto-re 5. Significativa appare a questo proposito la definizione di Jean Ma-lafosse: “Il Principio di Precauzione si traduce nell’inversione dell’oneredella prova con lo scopo della tutela dell’ambiente” 6.

Si potrebbe obiettare che il principio dell’onere della prova rap-presenta un cardine del diritto privato, ma non si applica in manieraaltrettanto chiara ed automatica al diritto pubblico, in cui l’interessedella collettività deve prevalere su quello del singolo. Ma se il soggettotutelato deve essere prima dell’ambiente l’uomo, anche sotto questoaspetto, il Principio di Precauzione non risolve, ma anzi apre il delicatoproblema del rapporto, non solo economico, tra costi e benefici. Inuna situazione di incertezza scientifica infatti l’approccio cautelarenon apporta necessariamente un beneficio al soggetto che vuole tute-

19Indirizzo di saluto

4 Alexandre Kiss-Dinah Shelton, Traitè de Droit Eeuropéen de l’Environment,Frison Roche, Paris 1995, p. 42.

5 Cathèrine Giraud, Le Droit et le principe de précaution: leçons d’Australie,“Revuè Juridique de l’Environnement”, p. 33.

6 Jean Malafosse, La Semaine Juridique-Edition Génerale n. 52 (1998), pp.2273-2276.

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lare. In assenza di certezze scientifiche, chi può dire infatti se unaazione innovativa comporti per l’uomo maggiori rischi o benefici?

Il Principio di Precauzione quindi a dispetto del suo nome, può ri-velarsi estremamente rischioso, come è emerso dall’incidente aereo diLinate dell’ottobre 2001, che si sarebbe potuto evitare se si fosse in-stallato un adeguato radar. In nome della tutela da inquinamento elet-tromagnetico, grazie alle norme volute sulla base del Principio di Pre-cauzione, l’installazione di quel radar subì 10 mesi di ulteriore ritardo,e molte vite sono andate perdute.

In realtà, la storia del progresso umano è inseparabile dall’idea dirischio. D’altra parte se il Principio di Precauzione fosse condotto allasua ultima coerenza giuridica dovrebbe condurre a una forma di“proibizionismo” assoluto, vietando non solo l’uso degli alcolici e deitabacchi e limitando drasticamente quello delle automobili, ma ogniinnovazione e scoperta scientifica che, in quanto nuova, comportasempre, per definizione, un margine di incertezza e di rischio. Permet-tetemi di aggiungere che questo proibizionismo non ha nulla a che fa-re con quello della morale tradizionale. Nel suo rapporto con la scien-za, l’etica non nega il progresso, ma solo un suo sviluppo disordinato,mentre l’idea di precauzione, assunta a nuovo principio etico-giuridi-co implica la negazione dell’idea stessa di ogni progresso e rischia ditrasformarsi dunque in principio di regressione dell’umanità.

Su questi temi io sono intervenuto da umanista voi parlerete conben maggior competenza da scienziati. Vi formulo i miei più sinceriauguri di buon lavoro.

20 I costi della non-scienza

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PERCHÉ GALILEO 2001

Renato Angelo RicciPresidente dell’Associazione Galileo 2001

E sattamente un anno fa – il 19 febbraio 2003 – si è costituita lanostra Associazione. Per questo, il 19 febbraio sarà d’ora inpoi la data del nostro Convegno Nazionale. Ma Galileo 2001

era già un movimento nato due anni prima, il 17 luglio 2001, a seguitodi una serie di iniziative che si proponevano di dare corpo ad una esi-genza ormai esplicita di buona parte della comunità scientifica nazio-nale: affermare la necessità del valore primario della scienza, in parti-colare nelle questioni ambientali.

Oggi l’ufficio o compito di occuparsi delle sorti del pianeta, dellasalvaguardia dell’ambiente naturale, dell’habitat umano, della salute,viene svolto da molti – panel internazionali, agenzie, commissioni, asso-ciazioni varie, organizzazioni più o meno volontarie – e si rifà non soloe non tanto a vocazione o idealità, ma ormai – il che potrebbe essere in-teso come dovere sociale e assenso politico necessario – a impegno so-cio-economico che dovrebbe avere un solido supporto tecnico-scientifico.

Tuttavia, mentre il dato socio-politico e la sua estrapolazione eco-nomica e perfino finanziaria (il business ecologico) è più che acquisito,tanto da esser divenuto – negli ultimi decenni – patrimonio della bu-rocrazia di potere, oltre che strumento di condizionamento pubblico,il dato tecnico-scientifico, indispensabile per comprendere e governareil problema è lungi dall’essere adeguatamente assicurato.

Ne consegue che la consapevolezza sociale e la responsabilità poli-tica non sempre si trovano nella condizione o nella capacità cognitivadi seguire, approfondire ed accettare l’evoluzione scientifica e le suericadute tecnologiche, e di appropriarsi di una cultura adeguata e dif-fusa, necessaria alla definizione di posizioni e decisioni conseguenti ebasate su conoscenze affidabili.

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Nella difficile fase decisionale, al fine di affrontare un problemad’interesse per la salvaguardia dell’ambiente e della salute e che vede iresponsabili politici coinvolti in prima persona, occorre tener presen-te, per ogni singolo problema, quali siano i fattori dominanti e con-centrare su di essi l’attenzione se non si vuole correre il rischio di im-piegare risorse, a volte anche ingenti, senza ottenere giovamenti ap-prezzabili. In altri termini, il contributo scientifico alla valutazione deiproblemi ambientali impone un approccio quantitativo che è condizio-ne almeno necessaria per la corretta interpretazione dei criteri precau-zionali e della loro collocazione in termini della cosiddetta sostenibi-lità dello sviluppo della civiltà umana.

Pertanto, chiave di volta di questo processo – che, per essere vir-tuoso, deve liberarsi da condizionamenti ideologici – è l’informazione.

Da tempo ormai si pone la questione dell’informazione scientificaai fini di una cultura adatta all’attuale evoluzione della società, in par-ticolare nei paesi industrialmente avanzati.

Assumono particolare rilievo le conoscenze scientifiche che si con-frontano con posizioni ambientaliste che, anche se dettate apparente-mente da preoccupazioni legittime per il rispetto della natura e la sal-vaguardia della salute umana, si contraddistinguono per la carenza difondamenti scientifici accertati e per il loro dogmatismo fondamenta-lista, foriero di allarmismi infondati.

Casi esemplari sono la demonizzazione dell’energia nucleare,l’ostracismo alle ricerche biotecnologiche e ai procedimenti tecnolo-gici avanzati in tema di smaltimento dei rifiuti, il problema dei resi-dui radioattivi, il problema dell’uranio impoverito, il catastrofismocorrelato ai cambiamenti climatici imputati all’effetto serra di origineantropica e, infine, il cosiddetto elettrosmog o inquinamento elettro-magnetico.

È un paradosso della società moderna – e in particolare nel nostropaese – che, mentre da una parte gli aspetti scientifici e tecnologici di-ventano sempre più importanti per il nostro modo di vivere, dall’altral’educazione scientifica del pubblico in generale continua a ridursi.

Questo si traduce in un allontanamento dalla concezione scientifi-ca di ogni valutazione che abbia a che fare con problemi socio-econo-mici e – ciò che è ancora più grave – con decisioni politiche riguar-danti lo sviluppo culturale, l’ambiente e la salute, con in più l’aggra-

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vante culturale di considerare, quasi preliminarmente, ogni azioneumana non solo criticabile ma addirittura pericolosa.

Per questo deve essere respinta un’impostazione ideologica chemetta l’uomo sul banco degli accusati (e quali sarebbero gli accusatoridegni di un tribunale totalitario?) con paradossale atteggiamento ma-sochista, e ponga la natura su un piedestallo come un totem immaco-lato ed immutabile.

Due sono i motivi di preoccupazione al riguardo: l’irrazionalitàdelle posizioni di un ambientalismo radicale che fa leva sull’emotivitàdelle popolazioni senza alcun serio riscontro scientifico, da una parte,e una informazione, da parte dei mass-media, che privilegia il catastro-fismo e la notizia spettacolare spesso deformata, se non addirittura fal-sa, dall’altra.

Questi fantasmi che si aggirano fra la gente, portatori di un oscu-rantismo antiscientifico che imputa alla scienza catastrofi immaginariepretendendone d’altra parte interventi e miracoli impossibili (quasi atitolo espiatorio) rischiano di abbassare il livello culturale e la capacitàcritica dell’opinione pubblica nonché la consapevolezza degli ammini-stratori pubblici.

Vi sono ormai numerosi esempi non solo di disinformazione ma an-che e soprattutto di ingannevole diffusione di pseudo conoscenze e didati incerti e inaffidabili che, lungi dal portare un doveroso contributoalle conoscenze necessarie alle valutazioni sociali e utili alle decisionipolitiche, distorcono i messaggi e confondono l’opinione pubblica.

Un caso significativo, che del resto ha costituito il motivo di par-tenza delle iniziative che hanno spinto alcuni di noi alla costituzionedel Movimento Galileo 2001, è stato e rimane quello del cosiddettoelettrosmog. Questo problema, che dovrebbe semmai riferirsi come ri-schio sanitario da campi elettromagnetici è esemplare per il battage ca-tastrofista di buona parte degli organi di comunicazione e l’inquina-mento – qui è il caso di dirlo – culturale e sociale che ha prodotto etuttora sta producendo. Ciò ha costretto buona parte della comunitàscientifica a prendere posizione nel corso della passata legislatura e adinviare un appello al Presidente della Repubblica al riguardo.

Cito un passo significativo:«Recentemente in Italia, nell’incuranza dell’analisi critica di tutte le

risultanze scientifiche effettuate da molteplici organismi scientifici in-

23Introduzione

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dipendenti e ufficialmente riconosciuti, per affrontare il cosiddetto in-quinamento elettromagnetico si sono predisposti atti e normative che,dal punto di vista della rilevanza sanitaria, sono destituiti di ogni fon-damento scientifico».

Un altro esempio illuminante è quello delle posizioni acritiche edemagogiche riguardanti la ricerca e l’utilizzazione degli OGM (orga-nismi geneticamente modificati), in particolare nel campo agroalimen-tare. Anche in questo caso, nel 2001 si assistette alla clamorosa prote-sta dei mille scienziati (i premi Nobel Renato Dulbecco e Rita LeviMontalcini in testa, ma anche Edoardo Boncinelli, Silvio Garattini,Tullio Regge, Angelo Spena, fin oltre 1.500, in verità) contro un vero eproprio atteggiamento oscurantista dell’allora Ministero delle Politi-che Agricole (ministro in carica Pecoraro Scanio) nei riguardi della ri-cerca scientifica sugli OGM.

Non ci soddisfò allora il modo in cui tale manifestazione fu ricon-dotta a più miti consigli né, del resto, ci soddisfa oggi una politica mi-nisteriale che non sembra accogliere né comprendere il vero significa-to culturale e sociale delle ricerche in campo biotecnologico. E cipreoccupano iniziative demagogiche di certi governi regionali che,sulla scia dei messaggi di un certo fondamentalismo ambientalistamiope e oscurantista, assumono posizioni e sollecitano timori popolariingiustificati e, a volte, purtroppo, incontrollabili.

Il modo stesso in cui sono considerati altri problemi, quali lo svi-luppo tecnico-economico, la questione energetica e lo smaltimento deirifiuti, in particolare quelli tossici e radioattivi, e la difficoltà nel trat-tarli e nell’avviarli a soluzione, rendono queste preoccupazioni ancorapiù pesanti se si pensa che, all’origine di tali difficoltà, vi è essenzial-mente una carenza di considerazione delle analisi e delle conoscenzescientifiche.

Mi piace qui sottolineare alcune indicazioni che, nel 2001, alloracome Commissario Straordinario dell’ANPA (Agenzia Nazionale perla Protezione dell’Ambiente – oggi APAT) segnalai per affrontare almeglio i problemi ambientali in sede istituzionale:

«• considerare essenziali, e quindi promuovere, il patrimonio diconoscenze e competenze tecnico-scientifiche esistente all’interno del-le Istituzioni e collegarle maggiormente con il sistema informativo;

• privilegiare scientificamente ed operativamente la qualità della

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25Perché Galileo 2001

raccolta, dell’analisi e della diffusione dei dati e delle conoscenze am-bientali con riferimento all’approccio quantitativo».

Occorre far rilevare come questo approccio quantitativo abbia va-lore non dogmatico, ma anche che l’oggettività scientifica, entro i suoilimiti operativi, è comunque la più affidabile.

Sono la portata e il significato dell’indagine scientifica che devonoessere meglio conosciuti. Per questo noi dicevamo e diciamo:

«Il fatto che le conoscenze scientifiche, per la natura stessa del me-todo d’indagine e di verifica dei risultati, si accreditino con spazi didubbio sempre riducibili ma mai eliminabili, costituisce l’antidotoprincipale verso ogni forma di dogmatismo, scientismo, intolleranza eilliberalità, ma non può giustificare il considerare tali conoscenze opi-nabili e, peggio, inattendibili.

La voce della scienza è certamente più affidabile e anche umana-mente – oltre che intellettualmente – più consapevole delle voci in-controllate e dogmatiche che, fuori di ogni rilevanza scientifica, pre-tendono di affermare verità basate sull’emotività irrazionale tipica del-le culture oscurantiste».

È in effetti fuorviante la pretesa di richiamarsi alle incertezze scien-tifiche da cui deriverebbero le contraddizioni nell’informazione e leconfusioni nell’interpretazione, di nuovo per difetto di conoscenzadella metodologia scientifica. Sarebbe interessante ricordare osserva-zioni, opinioni ed illazioni che da tempo si sono manifestate e si mani-festano confondendo i problemi sotto analisi e i dati sotto verifica conaffermazioni intempestive e non dotate della sufficiente cautela in temadi acquisizione.

È curioso – val la pena di notare – come il Principio di Precauzioneche viene invocato ad ogni pie’ sospinto qualunque sia la portata di uneventuale segnale di attenzione – anche in contrasto con chiare indica-zioni tecnico-scientifiche, ambientali e sanitarie – non viene adottatoper evitare allarmismi ingiustificati (a proposito: che ne è del reato diprocurato allarme?), sostituendoli con raccomandazioni più serene edanche – pure questo è un dovere – con segnali più rassicuranti.

Un caso tipico, oltre a quelli già citati, è quello dei cambiamenti cli-matici, che non possono essere delegati soltanto all’invenzione di mo-delli sempre più sofisticati, assumendo come ipotesi – sia pure neces-

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26 I costi della non-scienza

sarie, ma non sufficienti, parziali e riduttive – quali l’effetto serra diorigine antropica, e richiedono una valutazione più approfondita di ri-cerche e dati osservazionali e storico-geofisici, in termini scientifica-mente affidabili.

E qui occorre un riferimento esplicito: sulla base del Principio diPrecauzione e partendo da considerazioni eccessivamente allarmisticherelative all’eccesso di contributi antropici alla emissione di gas-serra, siè costruito il paradosso del Protocollo di Kyoto che, da una parte, san-cisce le restrizioni atte a ridurre tali emissioni (al 95% di quelle del1990 entro il 2012),1 dall’altra non affronta quantitativamente l’effettodi tali interventi (non più dello 0,05 per mille sul contenuto totale diCO2 in atmosfera) di fronte ai costi (notevoli, per non dire enormi)dell’operazione.

Interviene qui pertanto un confronto emblematico tra un criteriopuramente politico quale il Principio di Precauzione e uno scientifica-mente e socialmente più accettabile quale il rapporto rischi/benefici.

In effetti, i 3 concetti fondanti della cultura ambientale correntesono: lo sviluppo sostenibile, il Principio di Precauzione e il rapporto ri-schi/benefici.

Val la pena di ricordare come il primo (dizione classica: lo sviluppoè sostenibile se soddisfa i bisogni del presente senza compromettere lepossibilità delle future generazioni di soddisfare i propri) sia un criteriooriginariamente economico in cui ci si pone il problema del futuro(occhio al futuro), tanto è vero che il termine “sostenibile”, che derivadalla traduzione del testo inglese “sustainable”, è in realtà associatoall’originaria espressione in francese “developpement durable” (svilup-po durevole).

Le due espressioni non pongono soltanto una questione nominali-stica, ma hanno finito per assumere significati concettuali diversi ocomplementari in cui la questione ambientale diventa un elemento in-dispensabile (sostenibilità), oppure integrata nel progresso socio-eco-nomico (durata).

1 Trascurando il fatto che già oggi, per esempio in Europa, si è in largo ecces-so rispetto all’obbiettivo proposto di una riduzione globale del 6%; in Italia, difronte a un eccesso attuale del 4,4%, la riduzione prevista del 6,5% diventerebbequindi dell’11%.

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Da ciò, le interpretazioni estremistiche (ambientalismo radicale) equelle razionali (compatibilità funzionale al progresso).

La prima accentua i limiti e i freni del concetto di precauzione, laseconda tende a privilegiare – ed è questo il nostro punto di vista – ilrapporto rischi/benefici.

È in effetti il secondo criterio, cioè il Principio di Precauzione (og-getto del nostro dibattito) a costituire gli elementi di maggiore ambi-guità. L’enunciato standard adottato, ad esempio, dal trattato di Maa-stricht (U.E. 1992) non è diretto ma circonvoluto (e quindi è tutt’altroche un criterio scientifico) e sostiene che: Al fine di proteggere l’am-biente, il P.d.P. deve essere largamente applicato dagli Stati a secondadelle loro possibilità. Quando vi siano pericoli (minacce) di danni seri eirreversibili (ecco quindi la definizione più o meno chiara) la mancan-za di certezza scientifica piena non dovrà essere usata come una ragioneper posporre misure economicamente efficaci per prevenire il degradoambientale.

Che sia un criterio ambiguo, o per lo meno tortuoso, è dimostratoda termini quali la «certezza scientifica piena (sic!)» e concetti quali«non posporre per prevenire». Lascio ai colleghi, in particolare a Tul-lio Regge, l’illustrazione dei trucchi verbali che ammantano tale Prin-cipio nelle innumerevoli enunciazioni. Mi basterà qui accennare al ri-piego cui lo stesso trattato della U.E. ricorre con il paragrafo 3, ovecerca di correre ai ripari affermando che «nel preparare la sua politicaambientale la Comunità dovrà tener conto dei dati scientifici e tecnicidisponibili così come dei benefici potenziali e dei costi, sia delle azioni(prese) che della mancanza di azioni».

Se dovessimo applicare tale raccomandazione al Protocollo di Kyo-to, per esempio, dovremmo dar ragione agli Stati Uniti e alla Russiache non hanno ratificato e non ratificheranno tale trattato.

E siamo, ovviamente, al rapporto costi/benefici (intendendo costiin senso lato, economici, sociali, ambientali, sanitari o anche di viteumane). Questo stesso criterio, come ho già accennato, è non solo ilpiù ragionevole e comprensibile (si definisce da solo), ma effettiva-mente l’unico praticabile, anche in termini quantitativi e quindiscientificamente e socialmente più accettabile. Per dirla con l’amicoFranco Battaglia, esso precede o contiene il principio di priorità, chespecifica e quantifica gli interventi correnti con una valutazione con-

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28 I costi della non-scienza

creta delle conseguenze delle nostre azioni in senso sia negativo chepositivo.

Una volta introdotto, il criterio del rapporto rischi/benefici divieneuno strumento, se concepito in termini integrati (economia, salute,ambiente, scientificità), più adeguato per gestire i veri problemi e lepossibili emergenze.

Può essere interessante far notare come tale concetto sia collegatoad una evoluzione socio-politica che, partendo da posizioni concettua-li esagerate in un senso (minimizzazione dei rischi ed enfatizzazionedei benefici) abbia via via portato ad una esagerazione opposta (enfa-tizzazione dei rischi e minimizzazione dei benefici). Il tutto certamen-te legato a valutazioni spesso troppo qualitative. È la scienza che hadato e può dare un inestimabile contributo (perché misurabile e quan-titativo) al bilanciamento corretto dei due termini-confronto.

In effetti, si consideri come ci si rapporta rispetto ad ogni processoevolutivo (dinamica della società).2 Un cambiamento può rendere ilmondo o più sicuro o più pericoloso. Bisogna prendere in considerazio-ne entrambi i casi.

In un mondo perfetto si potrebbe sempre distinguere fra i due casiin modo schematico (si/no). Nel mondo reale ciò non è possibile, e sipresentano due tipi di errori.

L’errore di primo tipo può enunciarsi così: Un cambiamento, in realtà pericoloso, viene ritenuto invece tale da

rendere il mondo più sicuro (esempi tipici: l’uso dell’amianto e del ta-lidomide).

L’errore di secondo tipo è così esprimibile: Un cambiamento che migliora la sicurezza (sostanzialmente benefi-

co) viene invece considerato pericoloso (esempi: beta bloccanti, DDT,OGM). È chiaro che il concetto di cambiamento qui va inteso in sen-so lato relativo all’utilizzazione di strumenti, di tecnologie, di approcciinnovativi, etc.

La sfida intellettuale, ma anche socio-politica, è trovare il giustopunto di equilibrio, ed è evidente che il parametro di misura è il rap-porto rischio/beneficio. Da una parte vi è il pericolo di correre troppo

2 Queste considerazioni sono riprese da Statistica e teorie della decisione diFred Smith (Competitive Enterprise Institure, Conferenza ALEPS, Parigi, 2000).

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(futuribilità, innovazione esasperata), dall’altra quella di star fermi(immobilismo tecnologico).

A questi due estremi corrispondono le due concezioni limite sopraaccennate: da un lato un mondo sotto-cautelato (processi di industria-lizzazione forzata, ad esempio) dall’altro un mondo sopra-cautelato(principio di precauzione esasperato). Cum granu salis verrebbe da di-re e forse, o senza forse, la scienza ha da dire la sua.

La scienza non è foriera di catastrofi né dispensatrice di miracoli.Malgrado sia un messaggio difficile da far passare – a causa dell’edu-cazione e dell’informazione comune – occorre ribadire l’informazionecorretta sulla metodologia scientifica che procede fra dubbi e verifi-che e che su questa base dà ragionevoli certezze e non si affida a dog-mi di sorta.

La chiave di volta – ripeto – è l’informazione scientifica, un’infor-mazione serena ed obiettiva, che deve costruire un doveroso riferi-mento per gli addetti alla comunicazione da una parte e, dall’altra, unimpegno delle comunità scientifiche per evitarne la distorsione e l’usostrumentale interessato.

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UN’ALLEANZA PER LA SCIENZA

Umberto Veronesi 1

Presidente Onorario dell’Associazione Galileo 2001

R ingrazio gli organizzatori per questo invito. Sono stato tra i pri-mi sostenitori di questo Movimento, quindi mi fa piacere vede-re come stia crescendo e stia avendo anche il successo di pub-

blico che si merita.Partendo proprio dall’osservazione del distacco che si è creato tra

il mondo della scienza e la società, un distacco non nuovo, accentuatodal fatto che la scienza di oggi ha assunto un’evoluzione vigorosa, gra-zie al fatto che sono entrate nel mondo scientifico nuove aree di svi-luppo, quali: l’informatica, le biotecnologie, le telecomunicazioni, chenon esistevano fino a pochi decenni fa e che hanno dato un’accelera-zione notevole. Come sempre, quando si va molto velocemente c’èuna reazione che è proporzionale e contraria alla velocità dell’evolu-zione.

D’altro canto, questa dissociazione non è nuova se pensiamoall’enunciazione della teoria eliocentrica di Copernico che è del 1543.Se andiamo a guardare la storia del secolo successivo, il cittadino eu-ropeo ha incominciato a pensare che forse Copernico aveva ragionesolo verso la fine del ’600, quindi un secolo e mezzo dopo. C’è sempreun lungo periodo di riflessione – chiamiamolo così – prima di accetta-re le grandi novità.

D’altra parte la storia della scienza è stata una storia a singhiozzo.Abbiamo avuto periodi di grandi accelerazioni e di battute d’arresto,se pensate che nella Mesopotamia di 4000 anni fa nel giro di cento an-ni è stato scoperto l’aratro, l’irrigazione, l’astronomia, la scuola, buonaparte del linguaggio; per poi avere un lungo periodo di silenzio fino al

1 Ex Ministro alla Salute

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quarto/quinto secolo avanti Cristo, quando in Grecia Talete, Zenone,Empedocle, Pitagora, per non parlare di Aristotele e di Platone, han-no di nuovo messo le basi per il pensiero logico e per la razionalità delpensiero scientifico. Poi di nuovo silenzio, fino a quando Ibn Rushd eIbn Sina hanno ripreso e riscoperto il pensiero greco, per poi arrivareall’Umanesimo e al Rinascimento e all’avvio, con l’Illuminismo, delpensiero scientifico moderno di cui oggi vediamo i frutti.

Una storia difficile, influenzata dai fattori che hanno sempre condi-zionato, e che anche oggi condizionano, lo sviluppo scientifico, e cioè ilpotere politico da una parte, e il potere religioso e i movimenti di opi-nione da un’altra. Molto è stato già detto sul potere politico e sulle sueinfluenze sulla scienza. Per molti secoli nel mondo dell’assolutismo loscienziato è stato visto con sospetto, perché chi è ricco di conoscenzaha un potere che può essere minaccioso. Lo scienziato è ancor oggi vi-sto con diffidenza e il mondo della scienza è fortemente condizionatodal pensiero politico. Certamente non c’è molto amore per la scienza ingran parte degli uomini politici. Per di più oggi si è sovrapposto un fe-nomeno contingente: che lo sviluppo scientifico e la ricerca di oggi so-no sempre più costosi e richiedono sempre più finanziamenti. Finan-ziamenti che non possono che essere prevalentemente pubblici. Perquesto vengono premiate quelle ricerche promettenti risultati a brevetermine che sono quelli, dal politico stesso, in qualche maniera fruibili.Questo porta ad uno spostamento dell’impegno finanziario a favoredella ricerca applicata penalizzando fortemente la ricerca di base, pro-blema che abbiamo davanti a noi quotidianamente: tutti sappiamo chesenza una forte ricerca di base la ricerca applicata si impoverirà. Eccoche, soprattutto in un mondo in cui il ricambio dei governi è abbastan-za rapido, il pensiero di chi regge le sorti del Paese è quello di avere ri-sultati a breve termine, e questo non può che venire dalla ricerca appli-cata. La ricerca pura è una ricerca che richiede una cultura strategicache spesso manca nel mondo politico di oggi.

Per quanto riguarda il potere religioso, sappiamo che c’è una baselogica per il dissidio tra il mondo della scienza ed il mondo della reli-gione. Il mondo della scienza si sviluppa all’interno di un orizzonte ra-zionale ed il mondo della religione si sviluppa all’interno di un oriz-zonte di fede, metafisico. Non è quindi facile conciliare i due elemen-ti. Non voglio dare giudizi storici, ma basta ricordarsi che Socrate do-

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vette bere la cicuta per aver affermato di non credere negli deidell’Olimpo. E poi il nostro sodalizio si chiama “Galileo” e questo giàci ricorda come Galileo Galilei abbia rappresentato la grande dimo-strazione della difficoltà della scienza a svilupparsi all’interno di unmondo pervaso dalla fede. Ci sono state delle eccezioni certamente:Gregor Mendel, un monaco all’interno di un convento, ha scoperto lebasi della genetica, e Copernico stesso era un religioso, era un canoni-co, aveva preso i voti. Infatti, io mi sorprendo sempre come abbia po-tuto (in quel periodo, la metà del ’500) aver scritto un libro così forte,così violento nei riguardi anche delle concezioni bibliche del mondo,il famoso volume De Revolutionibus orbium coelestium e che fu postosul suo letto di morte due giorni prima che concludesse la sua esisten-za. Mi chiedo come abbia potuto avere questo coraggio: un libro cheha lasciato in eredità un rivolgimento delle idee, che doveva avere in-fluenze enormi sulla visione del ruolo dell’uomo nell’universo, giacchéda quel momento l’uomo doveva smettere di credersi al centrodell’universo. Quindi un capovolgimento anche filosofico di grandiproporzioni. Se ci pensiamo bene, Copernico ha potuto fare questoperché l’Europa era scossa da una fortissima incertezza a livello teolo-gico dovuta allo scisma luterano di pochi anni prima.

Se guardiamo in questi giorni la legge sulla fecondazione assistita,vediamo che è fortemente influenzata da pensieri che non sono razio-nali, che non sono pensieri di scienza ma sono pensieri di fede e quin-di dobbiamo renderci conto che ancora oggi siamo in questo dibatti-to, forse meno violento (non ci porterà certo a guerre di religione), madobbiamo rendercene conto e prenderne atto, e naturalmente agirecon la nostra solita fermezza. Lasciando libero ad ognuno il propriopensiero, la propria fede, ma pensando che in un mondo che è semprepiù pluralistico, sempre più policonfessionale, una religione non deveavere il sopravvento sulle altre o su chi non ha il bisogno della fede.

Il terzo problema che è venuto fuori e da cui voglio prendere spun-to dopo le bellissime parole del nostro presidente, è quello della rea-zione popolare da cui è nato proprio il PdP, perché è un principioideologico e politico, non certo un principio scientifico. La precauzio-ne non è quantificabile, è un atteggiamento dell’uomo come la pru-denza, come il coraggio o come la voglia di conoscere. Sono tutti at-teggiamenti naturali che si sono sviluppati nei millenni e quindi niente

33Un’alleanza per la scienza

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hanno a che vedere con l’indagine e la riflessione scientifica. Per secolila scienza è stata un fenomeno elitario ristretto a pochissime persone,fino a quando nel ’600 (e poi nel ’700 con l’Encyclopedie di D’Alam-bert e di Diderot) ha incominciato a conquistare al mondo della scien-za la classe borghese, conquista che poi è stata tra le premesse della ri-voluzione francese. Successivamente, questa divulgazione della scien-za si è estesa in maniera così considerevole che oggi la scienza è allaportata di tutti grazie ai mezzi di comunicazione di massa, alla stampa,alla televisione e alla radio e ad internet.

Questo va benissimo sotto certi aspetti: non possiamo che esserelieti che la scienza penetri nel pensiero della popolazione. Ma, pur-troppo, gli strumenti di informazione non sono certamente alla ricercadella verità, sono alla ricerca di sensazionalismo, di vendere i giornalio di avere più audience, e quindi questo inevitabilmente porta ad unadistorsione dell’informazione. Questo diverso modo di comunicare lascienza a sua volta può essere strumentalizzato. I giornali possono es-sere influenzati da pensieri ideologici o da movimenti politici o damovimenti popolari o dal bisogno di creare un livello di sottoculturanella popolazione, perché la popolazione meno colta è più facilmentemanovrabile, e l’abbiamo visto nel PdP come negli OGM. Come si faa non reagire al fatto che in questo decennio vengono messi a fuocoalcuni ettari di mais perché contengono lo 0,5 per mille di mais modi-ficato, quando tutto il mondo sa che il mais geneticamente modificatoè chiaramente migliore del mais naturale? Il presidente del ComitatoNazionale Biosicurezza e Biotecnologia, Leonardo Santi, ha parlatodel caso Di Bella come di un caso sintomatico. Io ho vissuto il casodella mucca pazza, altrettanto sintomatico: un allarmismo assoluta-mente ingiustificabile. Oggi la popolazione è persa, non sa cosa pensa-re degli embrioni soprannumerari, della fecondazione assistita, del di-ritto a non farsi curare, del diritto o del dovere alle cure, del consensoinformato, degli OGM o dell’utero in affitto o della clonazione tera-peutica, o della futura clonazione dell’uomo, che arriverà prima o poi.Hanno clonato una pecora, poi un cavallo, poi un asino e quindi arri-verà un giorno in cui troveremo una donna che ci dirà: «questo bam-bino l’ho clonato da me stessa». Ormai siamo alle soglie di questi av-venimenti e quindi è proprio su questa base che noi tempo fa avevamodetto: «guardate che le potenzialità delle biotecnologie come quelle

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dell’informatica, come quelle delle telecomunicazioni sono esplosive esiamo solo all’inizio. Siamo solo ai primi vagiti di una scienza che hapossibilità enormi». Questo ci impone il dovere di sederci intorno adun tavolo e di pensare che l’Europa crei una “camera alta” che non siapolitica, che sia l’insieme di uomini di scienza ma anche di filosofi, diteologi, che discutano e che comincino a disegnare la società del futu-ro, perché certamente questa rivoluzione scientifica, deve continuaread avere una funzione civilizzatrice, ma ci porrà davanti a temi certa-mente difficili. I limiti che devono essere posti non devono essere det-tati dalla paura, perché la paura è sempre una cattiva consigliera.

Per concludere, ripeto sempre che il nostro più grande nemico èl’ignoranza. A mio parere occorre una grande umiltà per non schierar-si senza approfondimenti perché l’ignoranza non dà nessun diritto néa credere né a non credere, e l’etica deve avere una funzione di guidae non di freno allo sviluppo del pensiero scientifico.

35Un’alleanza per la scienza

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IL PRINCIPIO DI PRECAUZIONE: PRECAUZIONE O RISCHIO?

Franco BattagliaUniversità di Roma Tre

Sommario

S osterremo qui l’opportunità, se non la necessità, di sopprimereil Principio di Precauzione (PdP). Il PdP è, innanzitutto, mal po-sto: la certezza scientifica è sempre assente. Poi, esso è ambiguo,

visto che può essere invocato sia per intraprendere un’azione che lasua opposta. Infine, il PdP è, a dispetto del suo nome, rischiosissimo,come numerosi esempi testimoniano. Con le facili critiche cui l’enun-ciato si espone, chiamarlo “principio” è quanto meno azzardato.Quindi, l’enunciato del PdP non ha nulla che gli consente di fregiarsidell’appellativo di “principio”, e non ha nulla a che vedere con la“precauzione”. Termino con un appello alle società scientifiche affin-ché riflettano sull’opportunità di promuovere, presso i livelli istituzio-nali, azioni atte alla soppressione del PdP ed, eventualmente, se pro-prio si sentisse il bisogno di un principio guida, di sostituirlo col Prin-cipio di Priorità, che viene enunciato.

Breve storia della nascita di Galileo 2001

In considerazione del fatto che questa relazione è presentata in oc-casione del I congresso nazionale dell’associazione Galileo 2001 –l’evento con cui l’associazione stessa si presenta al pubblico – mi fapiacere far precedere la relazione vera e propria dal racconto di comel’associazione nacque.

Tutto cominciò nel 1999 – mia figlia Cleis andava ancora alla scuo-la materna – quando mia moglie mi chiese se ci saremmo dovutipreoccupare dell’elettrosmog. Se ne sentiva parlare, quasi tutti i gior-

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ni, in tutti i canali radiotelevisivi, nazionali e locali, e se ne leggeva intutta la carta stampata, quotidiana, settimanale e mensile: centinaia dibambini in Italia, si diceva e scriveva, avevano contratto la leucemia acausa dell’inquinamento elettromagnetico. A difenderci da questanuova peste – venivamo nel contempo informati – ci avrebbe pensatoil Ministero dell’Ambiente, per diretto e personale interesse (un inte-resse indubbiamente molto personale, vedremo) del ministro di allora,Willer Bordon e del suo sottosegretario Valerio Calzolaio, approntan-do leggi severissime che, con la modica spesa di centomila miliardi divecchie lire, avrebbero salvato i nostri bambini.

Per rispondere alla preoccupata domanda di mia moglie, consultaii rapporti, contenenti l’analisi critica della totalità delle risultanzescientifiche, rilasciati dalle più accreditate istituzioni: Associazioneamericana di fisica (APS), Organizzazione mondiale della sanità(OMS), Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC),Commissione internazionale per la protezione dalle radiazioni non-io-nizzanti (ICNIRP), Associazione americana di medicina, l’americanoIstituto nazionale di cancerologia (NCI). Dopo un paio d’ore di lettu-ra, ebbi la risposta per mia moglie: l’elettrosmog non esiste.

Avevo passato anni della mia vita ad eseguire, nell’isolamento delmio studio, calcoli quantomeccanici su sistemi molecolari che, tuttosommato, interessavano me e altri quattro gatti al mondo. La sorte miaveva offerto l’opportunità di rendermi utile, e così decisi di telefona-re alla redazione di quello che ritenevo fosse il più rispettabile quoti-diano italiano, chiedendo di parlare con un capo-redattore.

– Mi chiamo Franco Battaglia – esordii – e sono docente al Dipar-timento di Fisica dell’Università di Roma Tre: v’interessa un articolosull’elettrosmog?

– E come no, professore, è l’argomento del giorno! Ma, mi racco-mando, non sia troppo tecnico. Sa… i nostri lettori… Piuttosto, cosavorrebbe scrivere?

– Beh, scriverei, e motiverei, che l’elettrosmog non esiste.– Allora no, non c’interessa.– Ma come… le leucemie… i bambini… la gente terrorizzata…Riprovai con altri quotidiani. Niente da fare: lo schema della con-

versazione fu lo stesso. Finché Il Giornale di Cervi e Belpietro si mo-strò interessato, e accettò l’articolo «Elettrosmog: tanti allarmismi per

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39Il principio di precauzione: precauzione o rischio?

nulla» 1. Iniziò così una collaborazione, e altri articoli seguirono: «DaCopernico al biotech, la guerra alla scienza», «L’auspicabile ritorno alnucleare», «La bufala dell’effetto serra», «Bugie sugli OGM», «L’ec-cessiva paura alle radiazioni» 2.

Gli articoli dovettero solleticare l’attenzione di Maurizio Belpietro,che incaricò una delle sue penne più brillanti d’intervistarmi. GiancarloPerna produsse un’intervista che uscì a piena pagina, con tanto di miafoto 3. Succo dell’intervista: in tutto quello che avevo scritto nei mieiprecedenti articoli non v’era una parola di mio, essendomi io limitato ariportare la voce della comunità scientifica accreditata. A tamburo bat-tente, il ministro verde Gianni Mattioli telefonò al Giornale chiedendoun’intervista anche per lui: di nuovo, piena pagina con tanto di foto delministro 4. Succo dell’intervista a Mattioli: Battaglia è un asino. Perna –che dev’essere uno spirito scientifico – aveva bisogno di un terzo parere,e andò da Tullio Regge: per la terza volta, piena pagina con foto (diRegge) 5. Il verdetto del premio Einstein per la fisica ed ex europarla-mentare del Pci non fu salomonico: il somaro è Gianni Mattioli 6.

Tutta questa pubblicità mi portò all’attenzione di Renato AngeloRicci, presidente per 17 anni (ora onorario) della Società Italiana di

1 Il Giornale, 27.9.2000.2 Si veda Il Giornale, alle date: 18.7.2000, 4.9.2000, 15.9.2000, 27.9.2000.3 G. Perna, «Il catastrofismo è un’arma elettorale», Il Giornale, 22.10.2000.4 G. Perna, «Il ministro va alla guerra contro il Prof. Battaglia», Il Giornale,

31.10.2000.5 G. Perna, «L’astrofisico assolve l’ammazza-ecologisti», Il Giornale,

12.11.2000.6 Inutile specificarlo, Regge – da gentiluomo qual è – non apostrofò così Mat-

tioli, ma certamente lo sconfessò su ogni tema affrontato nelle interviste di Perna.Anche se – mi ha raccontato più di un collega – corre il pettegolezzo che Mattiolisia stato così apostrofato in pubblico da Edoardo Amaldi, a proposito delle stra-vaganti idee che lo stesso Mattioli andava diffondendo in tema di energia nuclea-re. Non so se il pettegolezzo sia fondato, però sono incline a ritenerlo plausibile.Il mio parere personale è che Amaldi – altrimenti fiore all’occhiello della fisicaitaliana – quella volta non azzeccò proprio la valutazione su quel suo studente,come inconfutabilmente i fatti dimostrano: il primo, deve aver serbato nel cuore,sino all’ultimo giorno della sua vita, l’amarezza di aver assistito allo smantella-mento della fisica e dell’ingegneria nucleare in Italia; il secondo ha saputo brucia-re in modo folgorante tutte le tappe della carriera politica, così inconfutabilmen-te dimostrando d’essere tutto fuorché un asino.

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Fisica. Ricci volle conoscermi e, al nostro primo incontro, dopo aver-mi informato che per vent’anni egli aveva cercato di smascherare lenumerose bugie ambientaliste, osservò che – a quello scopo – bisogna-va unire le forze della comunità scientifica sensibili alle bugie degliambientalisti e compiere una qualche azione significativa. Decidemmodi inviare al Presidente Ciampi una lettera aperta, nella quale gli apri-vamo gli occhi sulla bugia di tutte le bugie: l’elettrosmog. La firmam-mo in cinque ma, una volta diffusa, fu sottoscritta da centinaia di fisi-ci, biologi, oncologi, pediatri e radioprotezionisti 7.

Un giorno ci trovavamo – Ricci, l’ingegnere nucleare Ugo Spezia,l’oncologo Umberto Tirelli e io – ad attendere una giornalista dellaRai che voleva intervistarci sull’elettrosmog. Eravamo in una salettadell’ospedale S. Raffaele di Roma. Durante l’attesa, Ugo Spezia disseche avremmo dovuto costituire un Movimento, Renato Ricci aggiunseche l’avremmo potuto chiamare Movimento Galileo, che Umberto Ti-relli corresse in Galileo 2001. Io, che sono un inguaribile individuali-sta e non provo alcun entusiasmo per le azioni “collettive”, credo mu-gugnai disinteresse o, forse, contrarietà. Comunque, sulla mia isolataapatia prevalse l’entusiasmo degli altri tre: nacque così il MovimentoGalileo 2001.

Bisogna anche sapere che Renato Angelo Ricci gode – presso qual-cuna delle persone a lui amiche – dell’appellativo di uomo bionico 8. Selo merita: il giorno dopo quel meeting al S. Raffaele, Ricci trasmise anoi altri tre il testo del Manifesto del Movimento Galileo 2001, pereventuali correzioni o aggiunte. Non ne fu necessaria alcuna: il testofu distribuito, così come partorito da Ricci la notte precedente, a tuttii sottoscrittori dell’appello a Ciampi sull’elettrosmog, i quali rinnova-rono quella sottoscrizione. Da parte sua, il presidente Ciampi ci parte-cipò della sua simpatia decidendo di mettere il neonato MovimentoGalileo 2001 sotto le ali protettive del Suo alto patronato. Rivelando,il nostro stimato Presidente della Repubblica, una tanto gradevolequanto inattesa vena rivoluzionaria.

7 Per il testo della lettera a Ciampi e l’elenco dei firmatari, si consulti il sitodell’associazione: www.galileo2001.it

8 Comunicazione personale della signora Angela Rosati (ora Segretario Gene-rale dell’Associazione).

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La stessa vena, però, mancava proprio ai fondatori del Movimento.Infatti, quando alcune vicende parallele portarono alcuni di noi a rico-prire l’incarico di membri del comitato scientifico dell’Agenzia nazio-nale protezione ambiente (ANPA), di cui Ricci era appena stato nomi-nato Commissario governativo, pensammo bene che quelle questioniambientali che ci stavano a cuore avremmo potuto riportarle entro ibinari delle conoscenze scientifiche accreditate attraverso la via “isti-tuzionale”. Il Movimento Galileo 2001 subì un periodo di sosta, maall’ANPA il comitato scientifico – da me coordinato – si mise al lavoroper produrre rapporti (ne produsse nove) su quei temi che erano statioggetto dei miei primi articoli sul Giornale. Nel comitato scientificodell’ANPA c’erano, tra gli altri, Paolo Vecchia (che ora è presidentedell’ICNIRP), Franco Panizon (professore emerito di clinica pediatri-ca all’Università di Trieste), Francesco Sala (Direttore degli Orti bota-nici dell’Università di Milano), Argeo Benco (ex presidente dell’Asso-ciazione italiana di radioprotezione). C’erano, insomma, sui temi dicui il comitato si sarebbe dovuto occupare, elementi tra i migliori rap-presentanti della comunità scientifica italiana. I rapporti di quel comi-tato sono oggi leggibili sia dal sito del Ministero dell’Ambiente che daquello dell’Associazione Galileo 2001, www.galileo2001.it.

L’associazione nacque quando – concluso il periodo di commissa-riamento dell’ANPA e quindi esauriti i doveri istituzionali di alcuni dinoi (tra cui, soprattutto, quelli di Ricci, che del Movimento Galileo2001 era la forza trainante) – ci si rese conto che molto lavoro sarebbestato ancora da fare in ordine alla diffusione della corretta informazio-ne scientifica su questioni in cui i movimenti ambientalisti e le lorobugie l’avevano fatta da padroni. E così, ripresa l’iniziativa da doveera stata lasciata durante la parentesi all’ANPA, il 19 febbraio 2003 cisi ritrovò di nuovo tutti 9, e di fronte al notaio si diede vita all’Associa-zione Galileo 2001, per la libertà e dignità della scienza.

9 In ordine alfabetico: Franco Battaglia, Argeo Benco, Carlo Bernardini, Tul-lio Bressani, Luciano Caglioti, Cinzia Caporale, Giovanni Carboni, FrancescoCognetti, Guido Fano, Rodolfo Federico, Gianni Fochi, Gianvittorio Pallottino,Tullio Regge, Renato Angelo Ricci, Angela Rosati, Francesco Sala, Carlo Salvetti,Giorgio Salvini, Tommaso Scarascia Mugnozza, Paolo Sequi, Ugo Spezia, Um-berto Tirelli, Giorgio Trenta, Paolo Vecchia, Umberto Veronesi.

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Il primo importante impegno dell’associazione è stato l’organizza-zione del convegno nazionale annuale. Il tema del convegno – il Prin-cipio di Precauzione – nasce dalla seguente considerazione. Numeroseazioni che alcuni vorrebbero intraprendere (o hanno intrapreso) innome della protezione dell’ambiente, non avrebbero alcuna giustifica-zione essendo fondate su falsità scientifiche, cioè su bugie. Per attuarequelle azioni sarebbe stata necessaria una giustificazione giuridica cuiappigliarsi, ed è stata trovata, appunto – penso io – nel Principio diPrecauzione.

Enunciato del principio

Recentemente abbiamo avuto modo di sentire invocato il Principiodi Precauzione (PdP) a sostegno di scelte politiche su questioni di pro-tezione della salute o dell’ambiente. Penso che il principio andrebbeal più presto soppresso per le ragioni che ora esporrò. Sia ben chiaro:la precauzione è una cosa tanto sacrosanta quanto difficilmente conte-stabile, e senz’altro da prendere in ogni attività umana. Ma il PdP, ten-tativo di dare forma giuridica all’azione della precauzione, sembra es-sersi rivelato un fallimento, non solo inutile ma anche, come vedremo,dannoso. Il PdP può enunciarsi come formulato nell’articolo 15 dellaDichiarazione di Rio del 1992:

«Where there are threats of serious or irreversible damage, lack offull scientific certainty shall not be used as a reason for postponingcost-effective measures to prevent environmental degradation».

Mi si consenta di tradurlo così 10:«Ove vi siano minacce di danno serio o irreversibile, l’assenza di

piena certezza scientifica non deve servire come pretesto per posporrel’adozione di misure, efficaci rispetto ai costi, volte a prevenire il de-grado ambientale».

Il principio di precauzione è malposto ed ambiguo

Solo a chi non ha un’educazione scientifica può passare inosserva-to il fatto che esso è malposto: la piena certezza scientifica è sempre as-

10 F. Battaglia, Le Scienze 394, 110 (2001).

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sente. Certamente non è passato inosservato alla Commissione del-l’UE, che però, anziché rifiutare il principio, ha tentato, un po’ arram-picandosi sugli specchi e aggiungendo problemi anziché risolverne, digiustificarlo e di stabilirne i limiti d’applicabilità. In ogni caso, secon-do il rapporto della commissione dell’UE, una condizione necessaria(ma non sufficiente!) per invocare (non per applicare!) il principio, èche i rischi siano stati individuati: non è sufficiente ipotizzarli 11.

Come detto, la «piena certezza scientifica» è sempre assente, giac-ché il dubbio è nella natura stessa della Scienza. Il rischio del PdP èche quello spazio di dubbio lasciato dalla Scienza potrebbe essereriempito da affermazioni arbitrarie che, dando voce solo ai singoli ri-sultati scientifici che tornano di volta in volta comodi, consentano adalcuni la razionalizzazione dei loro interessi di parte in aperto contra-sto con quelli della collettività e con l’analisi critica della totalità delleacquisizioni scientifiche. E il passo da affermazione arbitraria a (finta)certezza è breve.

Il Pdp, inoltre, è ambiguo: esso può essere invocato sia per adottareuna certa misura, sia per adottare la misura opposta. Un esempio chia-rirà la situazione che potrebbe prospettarsi. La scienza ci dà la pienacertezza che un’infezione evolva spontaneamente verso la guarigione?No, quindi, in nome del PdP, decidiamo di somministrare la penicilli-na. Ma la scienza ci dà la piena certezza che la penicillina non provo-chi uno shock anafilattico, e finanche la morte? No, quindi, sempre innome del PdP, ci asteniamo dal somministrare l’antibiotico.

Il principio di precauzione è rischiosissimo

Il più grave difetto del PdP, però, è che esso è rischiosissimo, il chesuonerebbe alquanto ironico se non fosse tremendamente tragico. An-cora una volta, alcuni esempi chiariranno i termini della questione.

a) Nella bibbia ambientalista, la Primavera silenziosa di RachaelCarson, scritta poco meno di 50 anni fa, il DDT veniva bollato come«elisir della morte». A Ceylon, nel 1948, si avevano 2 milioni di casi dimalaria, che si ridussero a 31 casi nel 1962 grazie al DDT. Dopo la sua

11 http://europa.eu.int/comm/dgs/health_consumer/library/pub/pub07en.pdf.

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abolizione, in nome, potremmo dire, di un PdP ante litteram, la mala-ria ha ripreso a colpire milioni di persone.

b) Alla fine degli anni Settanta fu modificato in Inghilterra il me-todo di lavorazione delle carcasse di ovini (per ottenere un integratorealimentare proteico): mentre il procedimento precedente distruggevail prione (l’agente del morbo della mucca pazza), quello nuovo nonera in grado di farlo. Di per sé, l’uso di scarti di macelleria per pro-durre mangime arricchito di proteine non ha nulla di grave 12 (certa-mente, però, per precauzione, non si sarebbero dovute usare carcassedi bestie malate). Per eliminare l’acqua e il grasso, gli scarti venivanoridotti in polpa, riscaldati a 130°C sotto pressione e trattati con unodei tanti solventi organici adatto a sciogliere i grassi. La migliore sceltanon poteva che cadere sul diclorometano. Si sarebbe prodotto grassoe mangime d’ottima qualità. E non contaminato dal prione infettivo,che veniva distrutto dal procedimento. Sennonché i soliti ambientali-sti avviarono una lotta al diclorometano, fondandosi su due argomen-tazioni. La prima, alquanto cervellotica, sosteneva che siccome i cloro-fluorocarburi (CFC) – che contengono atomi di cloro legati ad un ato-mo di carbonio – distruggono l’ozono, lo stesso forse avrebbe fatto ildiclorometano (anch’esso contenente due atomi di cloro legati ad uncarbonio). La seconda argomentazione si faceva forte di una singolapubblicazione scientifica che riportava l’aumento d’incidenza di can-cro su topi esposti a diclorometano (topi che, peraltro, erano stati ge-neticamente modificati in modo da essere particolarmente predispostia contrarre tumori). Le imprese britanniche vennero indotte ad ab-bandonare il diclorometano e ad adottare un procedimento che, senzafar uso di solventi, trattava a soli 80°C le carcasse e poi le pressava.Con quel procedimento il prione rimase inalterato, e si trasmise cosìdal mangime alle vacche. Oggi sappiamo – magra consolazione – che

12 Qualcuno ha detto che la causa del caso della mucca pazza andava ricercatanel fatto che erbivori erano stati forzati a diventare carnivori. Come osservato,l’uso di quelle farine come integratore alimentare è perfettamente legittimo. D’al-tra parte, alcuni anni fa fu necessario sterminare tutti i visoni di diversi alleva-menti nel Wisconsin che avevano contratto quel morbo per essere stati nutriticon farine animali infette: ma i visoni sono carnivori.

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il diclorometano non è cancerogeno, e per azione della luce e dell’os-sigeno si ossida decomponendosi rapidamente senza nuocere all’ozo-no. Non è lontano dal vero sostenere che il caso mucca pazza è nato,ancora una volta, da un uso inappropriato di un PdP ante litteram.

c) Come tutti sappiamo, la clorazione delle acque è forse il meto-do più efficace di purificazione dell’acqua potabile: basta una piccolaconcentrazione di ipoclorito per mantenere l’acqua libera da germipatogeni pericolosi per la nostra salute. Forse l’acqua clorata non è ilmassimo del gradimento, ma dobbiamo scegliere: il sapore cristallinoo l’assenza di pericolosi germi. Sempre grazie al solito articolo scienti-fico che ipotizzava la rischiosità della clorazione delle acque in quantoavrebbe potuto, presumibilmente, trasformare i residui organici pre-senti nell’acqua in composti organoclorurati che, sempre presumibil-mente, avrebbero potuto favorire l’insorgere di tumori, alla fine deglianni Ottanta fu dichiarata la guerra al procedimento di clorazione del-le acque. Nonostante la IARC (Agenzia Internazionale per la Ricercasul Cancro) e l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) avesseropubblicato, nel 1991, un rapporto che affermava che non vi eranoprove tali da destare allarme e che, comunque, il rischio ipotetico an-dava confrontato con quello certo che verrebbe dal bere acqua nonclorata, il governo peruviano, in quello stesso anno e in nome di unPdP ante litteram, decise di interrompere la clorazione dell’acqua po-tabile. Ne conseguì un’epidemia di colera che colpì, nei successivi 5anni, un milione di persone, uccidendone diecimila.

d) Il PdP fu invocato nel momento in cui si chiesero le moratoriesulle pallottole all’uranio impoverito. Per non far nascere lo scandalo,bastava osservare che l’uranio subisce il decadimento con emissione diparticelle alfa (che sono fermate da un semplice foglio di carta), ha untempo di dimezzamento di 4,5 miliardi d’anni, è stato inserito dallaIARC, rispetto al suo eventuale potere cancerogeno, nella stessa classeove vi è il tè, ed è naturalmente presente nella crosta terrestre con unaconcentrazione di 1-10 mg/Kg (ad esempio, la Lombardia è una zonaricca d’uranio e nei primi venti centimetri di crosta terrestre, intorno aMilano, e per un’estensione pari a quella del Kosovo, la quantitàd’uranio è 10.000 volte superiore a quella sparata con i proiettili). For-

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se la moratoria andrebbe fatta sulle guerre: ancora una volta, il PdPsposta l’attenzione da un problema reale verso uno finto.

e) Il PdP viene invocato per giustificare l’abbandono del nuclea-re come fonte energetica. In realtà, questo abbandono viene motivato,oltre che con la necessità di evitare potenziali rischi da incidenti e dacontaminazione radioattiva, con altre tre scuse: l’energia nucleare sa-rebbe costosa, non esiste soluzione al problema dei rifiuti radioattivi,il mondo la sta progressivamente abbandonando. A noi interessano gliaspetti del rischio, visto che di PdP si sta trattando. Tuttavia, un brevecommento sulle altre tre scuse non ce lo risparmiamo.

Ad esempio, si deve notare che l’energia elettrica in Francia (ove,per l’80%, si produce con le 60 centrali nucleari lì attive) costa menodella metà che in Italia. E anche a noi, quella che importiamo da fontenucleare da Francia, Svizzera e Slovenia, costa di meno di quella chenoi stessi produciamo in altri modi.

Non esiste alcuna attività umana che si prenda cura dei propri ri-fiuti con la stessa sicurezza e professionalità dell’attività nucleare. Aquesto proposito, rimando al libro di Piero Risoluti – uno dei massimiesperti italiani nella gestione dei rifiuti radioattivi – che, con linguag-gio semplice ma preciso, ci apre gli occhi su quest’ennesima bugia am-bientalista 13: la realizzazione di un sito appropriato non è un’opzione,ma un dovere civico verso noi stessi e verso le generazioni future. Lanota protesta occorsa nel 2003 a Scanzano Jonico in occasione del ten-tativo da parte dell’attuale governo di realizzare un deposito unico na-zionale per i rifiuti radioattivi, è stata un mirabile esempio di effettoplacebo all’incontrario: la gente di Scanzano Jonico ha protestato sen-za rendersi conto, con la mancata realizzazione di quel deposito, distare a perdere l’occasione di veder realizzato in quel luogo un impor-tante centro tecnologico e di ricerca 14 e di diventare così la comunitàmeglio radioprotetta del Paese 15.

13 Piero Risoluti, I rifiuti nucleari: sfida tecnologica o politica? (con prefazionedi Tullio Regge), Armando editore, Roma 2003.

14 Perché questo è, un deposito di rifiuti radioattivi, e non “una discarica” co-me viene spacciato.

15 Anche se le quantità di rifiuti radioattivi italiani non giustificherebbero,forse, la realizzazione sotterranea del deposito, le recenti raccomandazioni inter-

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Non è vero che il mondo sta abbandonando il nucleare. Lo decisela Svezia nel 1980 quando aveva 12 centrali attive: oggi le centrali atti-ve in Svezia sono 11, gli svedesi stanno ancora pagando le conseguen-ze di quell’unica centrale chiusa e, comunque, la metà dell’energiaelettrica consumata in Svezia è da fonte nucleare.

Lo decise il governo tedesco diversi anni fa – quando le centralinucleari erano 19 – per accontentare i Verdi, senza i quali non avreb-be potuto governare: oggi le centrali nucleari tedesche attive sono an-cora 19. Tutte decisioni, quindi, rimaste lettera morta. Nel mondo,piuttosto, vi sono attualmente una quarantina di centrali in costruzio-ne, di cui due in Ucraina (la patria di Chernobyl), ove la metàdell’energia elettrica continua ad essere da fonte nucleare. Le centralinucleari si fermarono veramente solo in Italia. Ma il Paese – contraria-mente a quel che si dice – non ha “rinunciato” al nucleare: non pote-vano esserci referendum “contro” il nucleare (lo vieta la nostra Costi-tuzione).

Ed infatti, in conseguenza dei noti referendum, venne deciso nonl’abbandono ma una moratoria di 5 anni, e in qualunque momento sipotrebbe riprendere ad utilizzare questa fonte che, lontano dall’avervirinunciato, è diventata per noi una nuova forma d’importazione (il17% dell’energia elettrica che consumiamo la importiamo dalle cen-trali nucleari d’oltralpe): l’Italia ha rinunciato, semmai, alle ricaduteeconomiche, tecnologiche e occupazionali del nucleare 16.

Ma veniamo ai millantati rischi. Essi sarebbero di due tipi: la con-taminazione radioattiva dell’ambiente e la possibilità di incidenti deltipo di quello di Chernobyl.

Tutti noi siamo esposti alla radiazione naturale. La dose media an-nua che ciascuno di noi assorbe dalle fonti naturali è di circa 2,2 milli-Sievert (mSv). Le attività umane aumentano quella dose di circa il20%, di cui oltre il 90% è dovuto alla diagnostica medica (tutti noisubiamo, prima o poi, una radiografia). Comunque, esistono diversearee della Terra (in Brasile, in India) ove vi sono popolazioni esposte a

nazionali – conseguenti ai fatti dell’11 settembre – caldeggiano questa soluzione.Inoltre, non è escluso – anzi, chi scrive nutre pochi dubbi in proposito – che inItalia vi sia un ripensamento sul nucleare, ed avere già un sito geologico per i ri-fiuti sarebbe più che auspicabile.

16 U. Spezia (a cura di), Energia nucleare, 21mo Secolo, Milano 1998.

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dosi annue di anche 100 mSv, senza che si siano riscontrate in essemaggiori incidenze di alcun tipo di malattia correlabile alle radiazioni.Allora, le centinaia di test nucleari che le ragioni militari hanno pur-troppo voluto, hanno influito pressoché zero sulla dose media di ra-dioattività, e così sarebbe anche se tutta la radioattività da tutte le cen-trali nucleari esistenti, per un’ipotetica serie d’incidenti, andasse acontaminare l’ambiente. In definitiva, il rischio di contaminazione ra-dioattiva dall’uso del nucleare è semplicemente inesistente 17.

Rimane il rischio di incidente. Effettivamente, questo esiste (maqual è l’attività umana che ne è esente?), come gli incidenti di Three-Mile Island (1979) e di Chernobyl (1986) dimostrano. Il primo non haavuto effetti sanitari di nessuna natura. Il secondo è stato l’incidentepiù grave mai occorso in 50 anni di uso civile del nucleare. Esso, però,lungi dal dimostrare che il nucleare è pericoloso, ne testimonia, piut-tosto, la sicurezza. L’UNSCEAR (la Commissione Onu sugli effettidelle radiazioni atomiche) ha prodotto inequivocabili rapporti suglieffetti, a 15 anni di distanza, dell’incidente di Chernobyl.

Ebbene, il verdetto è il seguente. Il giorno dell’incidente morirono3 lavoratori della centrale (2 sotto le macerie dell’esplosione e unod’infarto). Nel mese successivo furono ricoverati in ospedale 237 – tralavoratori alla centrale e soccorritori – per dosi eccessive di radiazio-ne; di essi 28 morirono nei successivi tre mesi. Dei rimanenti 209, nesono morti, a oggi, altri 14 (di cui uno in un incidente automobilisti-co): gli altri 195, di quei 237 ricoverati per dosi eccessive di radiazio-ne, sono ancora vivi. L’unico effetto sanitario statisticamente anomaloe, quindi, attribuibile alla contaminazione radioattiva conseguenteall’incidente, è stato un enorme aumento nell’incidenza dei tumori allatiroide in individui che nel 1986 erano bambini: sono stati riportati, si-no ad oggi, quasi 2000 casi. Di questi, 3 hanno degenerato sino al de-cesso del malato. In conclusione, all’incidente di Chernobyl, il piùgrave incidente dell’uso civile del nucleare, non sono attribuibili, sinoad oggi, più di 48 morti: 31 (3+28) immediati, gli altri 17 (14+3)nell’arco di 15 anni. Secondo il rapporto dell’UNSCEAR, nessun altrodisordine sanitario attribuibile alle radiazioni, diverso da quell’abnor-me aumento di casi di tumore alla tiroide, è stato subito dalle popola-

17 Z. Jaworowski, Radiation risk and ethics, in: Physics Today 52, 24 (1999).

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zioni vicine alla centrale. Se a questi 48 si aggiungono gli altri casi didecesso a causa dell’attività nucleare per usi civili negli ultimi 50 anninel mondo, si perviene ad un totale di circa 100 morti. Il numero è de-precabile quanto si vuole, ma l’attività di produzione energetica coicombustibili fossili ha comportato, in soli 15 anni, 10.000 decessi perincidenti 18. Ecco perché, dicevo prima, l’incidente di Chernobyl – coisuoi 48 morti il più grave mai avvenuto – del nucleare ne dimostranon la pericolosità ma, semmai, l’affidabilità.

f) Il PdP è stato invocato per bandire i prodotti agricoli genetica-mente modificati. Senza che ci si rendesse conto che ogni eventuale ri-schio non è nella tecnica in sé, ma va individuato caso per caso. IngoPotrykus, professore emerito di Botanica all’università di Zurigo, hainventato il golden rice, un riso che, mediante l’inserimento di tre geninel suo patrimonio genetico, diventa ricco di beta-carotene, la mole-cola precursore della vitamina A. Milioni di persone nel mondo, acausa delle condizioni di povertà, si alimentano quasi esclusivamentedi riso che, però, è un alimento totalmente privo di quell’importantevitamina. La cui carenza destina alla cecità, quando non alla morte,quei milioni che di essa soffrono. Per tutto ciò va ringraziato il PdP,che è tuttora invocato per non immettere nel mercato il riso doratodel prof. Potrykus.

g) Curiosamente, il PdP non viene invocato per bandire dal mer-cato i prodotti biologici. Anzi, viene invocato per vieppiù diffonderli.Eppure, essi sono i peggiori in commercio, dal punto di vista della si-curezza alimentare. Vediamo perché. Bruce Ames, tossicologo di famamondiale, direttore del centro di salute ambientale a Berkeley e mem-bro dell’Accademia nazionale americana delle scienze, è stato l’inven-tore di un test – che da lui prende il nome – per individuare la presen-za di sostanze mutagene. Ebbene, il test di Ames ha provato che il50% delle sostanze di sintesi è cancerogeno, nel senso che su circa 500sostanze sintetiche esaminate e somministrate a cavie con la massimadose tollerabile, circa la metà è risultata positiva al test. Sennonché, lostesso test, eseguito con sostanze naturalmente presenti nei prodotti

18 U. Spezia (a cura di), loc. cit. (1998).

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alimentari che comunemente ingeriamo, ha rivelato che anche tra que-ste sostanze il 50% è cancerogeno. In ordine alfabetico, dall’aglio edall’albicocca, passando per la lattuga e il mais, sino alla soia e all’uva,sono centinaia i prodotti che contengono altrettanti cancerogeni natu-rali. Quindi, “naturale” non è meglio di “sintetico”. Ma qual è la per-centuale relativa di cancerogeni naturali e di cancerogeni di sintesi chetutti noi abitualmente ingeriamo? La risposta ce la conferma lo stessoAmes: il 99,99% delle sostanze potenzialmente tossiche che ingeriamoè già naturalmente presente nel cibo, e solo lo 0,01% è di provenienzasintetica. Ho precisato “potenzialmente” perché la tossicità di una so-stanza è stata determinata somministrandola a cavie in dosi vicine aquella massima tollerabile (oltre la quale le povere bestie morirebberoavvelenate). In pratica, di quelle sostanze ne ingeriamo dosi migliaia oanche milioni di volte inferiori di quelle che sono risultate dannose aitopi. E quelle naturali sono centomila volte più abbondanti di quelleche rimangono nei cibi trattati con i fitofarmaci di sintesi.

Ma le piante non possono fare a meno di fitofarmaci 19. Se nonglieli somministra l’uomo in quantità controllate, la pianta se lo pro-duce da sé il proprio fitofarmaco naturale e, a questo scopo, non usacerto riguardi verso chi poi se la mangerà 20. È il caso di una varietà disedano biologico che induceva eczemi alla pelle dei coltivatori e deicommercianti che lo maneggiavano in gran quantità: il sedano, per di-fendersi da insetti parassiti, aveva decuplicato la produzione di psola-reni, molecole con azione irritante; e anche cancerogena, visto che silegano irreversibilmente al Dna, favorendo le mutazioni. Ed è il casodi una patata biologica, rapidamente tolta dal mercato: per analogheragioni, aveva più che decuplicato la produzione di solanina, risultan-do, anche se cotta, tossica ai bambini delle scuole le cui mense eranorifornite con cibo biologico 21. Ed è il caso dell’abnorme aumento di

19 Paolo Sequi, Il racket ambientale, 21mo Secolo, Milano 1997.20 G. Fochi, Il segreto della chimica, Longanesi editore, 2001.21 Meno danno ha fatto il caso, occorso nel settembre del 2002, nella mensa

della scuola elementare Mario Galli di Sesto S. Giovanni: i bambini si sono ritro-vati a masticare, assieme al riso, anche vermicelli, con quei chicchi mimetizzati.La ditta fornitrice si difese precisando che la presenza di quei vermi era dovuta alfatto che il riso impiegato era, appunto, rigorosamente biologico.

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aflatossine – pericolosi cancerogeni – riscontrato in varietà agricolenon trattate con fungicidi.

La tecnica di produzione biologica prevede anche che si usino ri-medi omeopatici in caso di malattie. Chiunque sappia cos’è il numerodi Avogadro, sa anche che i prodotti omeopatici non possono avere al-cun effetto (diverso, eventualmente, da quello placebo) 22. La ragione èmolto semplice.

La natura molecolare della materia vieta la possibilità di prepararesoluzioni aventi concentrazioni arbitrariamente piccole di soluti: me-diante il procedimento delle diluizioni successive con le quali si pre-parano i prodotti omeopatici, già in una soluzione acquosa omeopati-ca classificata rispetto alla diluizione come CH12 non vi è neancheuna molecola di soluto, e ogni procedura di diluizione successiva èpriva d’ogni senso scientifico, essendo essa equivalente a diluire acquacon acqua. Sennonché, le tipiche soluzioni omeopatiche hanno dilui-zioni classificate come CH60, CH100 o anche CH200: senza timore diessere smentiti esse non sono altro che, appunto, acqua pura (a parteeventuali eccipienti). Allora – ci sarebbe da chiedersi – che garanzie sihanno sulla fettina biologica ottenuta da un manzo che, eventualmen-te ammalatosi, sia stato curato con i prodotti omeopatici, come la pra-tica biologica prescrive?

In conclusione: le tracce di fitofarmaci normalmente presenti neiprodotti tradizionali non aggiungono nulla alle sostanze potenzial-mente tossiche e naturalmente presenti in quei prodotti. Le varietàbiologiche, invece, rischiano di contenere quantità abnormi di tossinenaturali, sia perché la pianta se le produce da sé, sia perché eventualimalattie non sono trattate con metodi scientificamente codificati. Quisi vede tutta l’ambiguità del PdP, che viene invocato non per bandire iprodotti biologici, ma, addirittura per promuoverli.

22 Si potrebbe essere tentati di sostenere: tutto sommato, se il paziente sta“meglio”, foss’anche solo in conseguenza dell’effetto placebo, perché non dare al-la pratica omeopatica la stessa dignità delle pratiche che godono del sostegnodella scienza? La tentazione è allettante, ma bisogna essere consapevoli che que-sta posizione comporterebbe che bisognerebbe dare così pari dignità anche a tut-te quelle cure del cancro che si sono rivelate inefficaci, e anche alle praticheastrologiche e cartomantiche, dovesse chi a esse si rivolge riconoscerne gli effettibenefici (e come non potrebbe, visto che, appunto, vi si rivolge?).

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h) Un altro caso – forse il più clamoroso – d’invocazione del PdP,a sproposito e con conseguenti danni, è quello in ordine al problemadel cosiddetto elettrosmog 23.

Riguardo ai campi elettromagnetici, bisogna distinguere quelli a ra-diofrequenza da quelli a frequenza industriale. Per i primi, ogni studioepidemiologico (di cui uno su 420.000 danesi) ha concluso che il fat-tore di rischio degli esposti rispetto ai non esposti è addirittura mino-re di 1: solo un’analisi affrettata farebbe concludere che quei campisono benefici; ma nessuna analisi ponderata potrebbe far concludereche essi sono dannosi! Quindi, per i campi a radiofrequenza non visono le condizioni non solo per applicare, ma neanche per invocare ilPdP: semplicemente non sono stati individuati rischi.

Sennonché: (i) Le norme protezionistiche italiane, uniche al mon-do, volute in nome del PdP, han fatto sì che dei sei anni di ritardosubìto dall’installazione del radar di Linate, dieci mesi sono da adde-bitare proprio a quelle norme (bisognava verificare che il radar fossecompatibile con le leggi italiane volute in nome del PdP). (ii) Questeleggi – che i radioprotezionisti italiani, subendone l’umiliazione, han-no sentito definire “stupide” da colleghi stranieri in sede di convegniinternazionali 24 – prevedono campi particolarmente bassi in prossi-mità di strutture considerate a rischio (scuole, ospedali): furono 19 imorti nell’incendio, occorso alla fine del 2001, nella struttura per disa-bili vicino a Salerno, ove gli infermieri non poterono chiamare soccor-so con i loro cellulari a causa dell’assenza di sufficiente campo. (iii).Nel luglio del 2002, al largo della spiaggia di Pesaro, morirono anne-

23 F. Battaglia, Elettrosmog: un’emergenza creata ad arte (con prefazione diUmberto Veronesi), Leonardo Facco Editore, Treviglio 2002.

24 Ecco come recita il parere della Commissione internazionale nominatadall’attuale governo col compito di esprimere parere sulla normativa italiana intema di protezione dai campi elettromagnetici: «I decreti italiani non riportanogiustificazioni scientifiche, per cui le basi su cui sono stati fissati i limiti di esposi-zione sono puramente arbitrarie. Pertanto, il livello di protezione sanitaria forni-to da tali limiti è del tutto sconosciuto. E se il livello di tutela sanitaria è ignoto,l’enorme costo supplementare che l’attuazione di tale legge comporterebbe po-trebbe, benissimo, non recare alcun beneficio alla salute. Emerge così che talelegge è intrinsecamente incoerente e scientificamente debole. Alla luce delleinformazioni scientifiche correnti, essa non fornisce alcuna tutela aggiuntiva allapopolazione italiana».

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gati un bimbo e la sua maestra di un centro estivo: chi stava sullaspiaggia non riuscì a chiamare soccorso col cellulare per debolezza dicampo elettromagnetico, tenuto basso a causa delle leggi italiane volu-te in nome del PdP. Chi ha voluto quelle norme deve essere considera-to corresponsabile morale dell’incidente aereo accaduto nell’ottobre2001 a Linate, di quei 19 disabili morti nell’incendio nel salernitano, edei 2 poveretti annegati vicino a Pesaro.

Riguardo ai campi a frequenza industriale, la situazione è la se-guente: l’unico individuato (non accertato!) è il rischio raddoppiato dileucemie puerili per esposizioni a campi magnetici superiori a mezzomicrotesla. L’uomo della strada si allarma nel sentire che il rischio èraddoppiato. Per fargli apprezzare il reale significato di questa affer-mazione, forse basterebbe ricordargli che anche chi compra due bi-glietti della lotteria ha una probabilità doppia di vincere rispetto a chicompra un solo biglietto.

La IARC apprezza questi fatti, tant’è che ha inserito la componen-te magnetica dei campi a frequenza industriale nella terza classe ri-spetto a eventuali effetti cancerogeni, assieme al caffè e alle verduresottaceto, e ha inserito la componente elettrica nella quarta classe, as-sieme al tè (il fumo, la pillola anticoncezionale, le radiazioni solari so-no nella prima classe). Anche l’OMS apprezza quei fatti, e suggerisceche si adotti per il campo magnetico a frequenza industriale il valoreprotezionistico raccomandato dall’ICNIRP, che è 100 microtesla. Unvalore, avverte l’OMS, che garantisce sicurezza se non superato, mache non implica necessariamente rischio se viene superato. In pratica,però, nessuno è mai esposto a campi superiori ad un microtesla.

In ogni caso, ammesso che si possa effettivamente azzerare il nu-mero d’esposti a campi superiori a mezzo microtesla, quanti bambinisi “salverebbero” dall’ipotetica leucemia? Il conto è presto fatto. Ognianno, in Italia, contraggono la leucemia circa 400 bambini, mentre lapopolazione esposta a campi superiori a mezzo microtesla è pari allo0,3% 25. Impostando l’equazione

400 = 0.997 y + 2 · 0.003 y

25 G. Carboni, comunicazione privata.

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(ove il fattore 2 tiene conto del rischio raddoppiato degli esposti), ri-solvendo per y e sostituendo, si ottiene (approssimando a valori interi)400 = 398 + 2: di quei 400 bimbi, 398 hanno contratto la leucemia perragioni diverse dai campi elettromagnetici.

E gli altri due? Si può dire che la leucemia di 2 bimbi è statistica-mente addebitabile ai campi? No! Lo si potrebbe dire solo se i campifossero un rischio, cioè se la IARC li avesse inseriti nella classe primaanziché terza. Ma anche quando si volessero interrare i cavi degli elet-trodotti ed operare tutte le bonifiche che purtroppo molte regioni ita-liane (Emilia Romagna in testa) stanno effettuando, si eliminerebberoquesti due ipotetici casi? No, perché a venti metri da un elettrodotto ilcampo magnetico è comparabile a quello presente comunque in ognicasa a causa degli impianti domestici.

Invocare il PdP per eliminare una causa presunta di leucemia evi-tando così, al più, un caso aggiuntivo, è scientificamente ingiustificatoe, direi, immorale nei confronti di quei 400 bambini che hanno con-tratto il male per cause certamente diverse dall’esposizione ai campielettromagnetici. L’unico effetto della legislazione (voluta in nome delPdP) contro l’inesistente elettrosmog è quello di arricchire tutte quel-le aziende, più o meno private, incaricate di misurare i campi elettro-magnetici in giro nelle città (misurazioni peraltro non necessarie, vistoche le equazioni della fisica ci danno i valori dei campi una volta notele sorgenti), e tutte quelle incaricate di mettere a norma i vari impian-ti. Un affare – è stato stimato dall’ANPA in un rapporto che venne te-nuto nascosto sinché l’Agenzia venne commissariata e Renato Ricci,nominato commissario, lo fece pubblicare – di 30 miliardi di euro 26.E questo è l’unico dato che possa fornire giustificazione razionale allapervicacia – altrimenti inspiegabile – con la quale l’ex ministro WillerBordon (Margherita) e il suo vice, Valerio Calzolaio (Ds), insistevanoper l’approvazione dei loro decreti.

Val la pena citare l’editoriale del New England Journal of Medicineche nel 1997 pubblicò un resoconto di un’esaustiva ricerca del Natio-nal Cancer Institute americano sui legami (esclusi da quella ricerca) traesposizione ai campi elettromagnetici a frequenza industriale e leuce-

26 Valutazione tecnico-economica degli interventi di risanamento ambientaledelle linee elettriche del sistema nazionale, Anpa, Rapporto 3/2001.

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mie puerili: «È triste che centinaia di milioni di dollari siano andati di-spersi in studi privi della benché minima promessa di evitare la trage-dia del cancro nei bambini. L’abbondanza di studi inconcludenti einattendibili ha generato ingiustificate preoccupazioni e paure. Diciot-to anni di ricerca 27 hanno prodotto considerevole paranoia, senza ag-giungere la benché minima conoscenza, e senza alcun guadagno inprevenzione. È tempo di interrompere la dispersione delle nostre ri-sorse, che dovrebbero invece essere dirette verso quella ricerca in gra-do di offrire promesse, scientificamente fondate, della scoperta dellevere cause biologiche dello sviluppo dei cloni leucemici che tanto mi-nacciano la vita di alcuni bambini».

Il documento dell’UE

Abbiamo già citato il documento del 2 febbraio 2000 con cui laCommissione dell’UE stabilisce le condizioni d’applicabilità delPdP 28. Abbiamo anche manifestato forti perplessità sull’intero docu-mento assieme al parere dell’opportunità di respingere tout court ilprincipio. Non vogliamo analizzare quel documento nei dettagli: per inostri scopi, basti sapere che in esso, a dimostrazione dell’opportunitàdi avere un PdP, si adducono due esempi che, secondo il documentodella Commissione, sarebbero due casi di uso con successo del PdPstesso. I due esempi (gli unici addotti) sono il bando planetario deiclorofluorocarburi (CFC) e il protocollo di Kyoto. Sennonché, pro-prio questi due esempi dimostrano, ancora una volta, quanto inappro-priato sia l’uso del PdP.

a. Il bando dei CFC 29

Un trattato del 1987 ha bandito dal mondo intero, grazie a una del-le tante oziose battaglie ambientaliste e in nome, ancora una volta, diun PdP ante litteram, l’uso dei CFC, usati come refrigeranti e che, se

27 Risale al 1979 il primo articolo in cui s’ipotizzò la possibilità di legame traesposizione ai campi elettromagnetici a frequenza industriale e leucemia puerile.Quell’ipotesi poi non resse ad ogni successiva indagine.

28 http://europa.eu.int/comm/dgs/health_consumer/library/pub/pub07_en.pdf.29 R. Ehrlich, Sun exposure is beneficial, in: Nine crazy ideas in Science, Ch. 4,

Princeton University Press, 2001.

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dispersi nell’ambiente, partecipano a reazioni chimiche che contribui-scono a diminuire l’ozono alle alte quote. L’ozono assorbe, alle altequote, parte della radiazione solare, svolgendo un’azione protettiva daessa. Il sole, infatti, è un agente cancerogeno, nel senso che l’esposizio-ne ad esso aumenta il rischio di melanoma alla pelle, un tumore di cuirimangono vittime, solo in Italia, oltre un migliaio di persone all’anno.Quindi, la motivazione del bando dei CFC va ricercata nel fatto checon essi nell’ambiente saremmo tutti più esposti alle radiazioni ultra-violette del sole e quindi a maggior rischio di melanoma alla pelle.

Va ora detto che alcuni agenti dannosi manifestano il fenomenodell’ormesi, secondo cui o una bassa esposizione all’agente è addirittu-ra protettiva rispetto al danno che l’agente causa a dosi più elevate o,semplicemente, l’agente è responsabile di effetti sia dannosi che bene-fici e, in quest’ultimo caso, solo un’analisi accurata del rapporto dan-no/beneficio può dare informazioni sull’opportunità di esporsi ad es-so. Sono forti i sospetti che l’esposizione al sole abbia entrambi i tipidi effetto ormetico.

Riguardo al primo tipo, sembra che l’esposizione eccessiva e inter-mittente, soprattutto se accompagnata da scottature, aumenti il ri-schio di melanoma, mentre un’esposizione protetta, anche se conti-nua, riduca invece quel rischio.

Riguardo al secondo tipo di ormesi, sono svariati i benefìci accerta-ti dell’esposizione al sole, il più significativo dei quali sembra essere lariduzione del rischio di malattie coronariche, che sono la forma piùcomune di malattie cardiache. Ad esempio, è stato trovato che l’inci-denza delle malattie coronariche aumenta con la latitudine (con laquale decresce anche l’esposizione al sole).

Naturalmente, questa semplice associazione non è sufficiente a sta-bilire l’effetto ormetico: è necessario individuare un meccanismo. Ilpiù accreditato nasce dalla constatazione che sia la vitamina D (la cuiproduzione è indotta dalla radiazione solare) sia il colesterolo (respon-sabile di aumento di rischi di malattie coronariche), hanno uno stessoprecursore (la molecola di squalene), per cui ove maggiore è la pre-senza di vitamina D minore dovrebbe essere quella di colesterolo, e vi-ceversa. Effettivamente, è stato trovato che la concentrazione di vita-mina D è inferiore al normale tra le vittime di attacchi cardiaci, e chela concentrazione media di colesterolo aumenta in popolazioni delle

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alte latitudini aumentando nei mesi invernali. Ed è stato anche trovatoche l’incidenza di mortalità da malattie coronariche aumenta tra lepersone che nella loro vita si sono meno esposte al sole.

Ancora una volta, tutte queste associazioni e correlazioni non devo-no indurre a conclusioni affrettate: bisogna anche escludere svariatifattori confondenti. Ad esempio, ci si potrebbe chiedere se per casonon sia la temperatura, piuttosto che l’esposizione al sole, il fattore cheprotegge dalle malattie coronariche. Sennonché non è stato osservatoalcun aumento nell’incidenza di queste malattie con l’aumento di altez-za dal livello del mare, né è stato osservato alcun aumento nel passareda una realtà “più calda” come quella di Los Angeles a una “più fred-da” come quella di New York. Anche se altri fattori confondenti, comela dieta, sono stati considerati, la scienza, con tutta la sua doverosa cau-tela, ritiene plausibile l’idea che l’esposizione al sole sia un agente signi-ficativamente protettivo rispetto alle malattie coronariche.

Plausibile, ma non convincente. Tuttavia ci si può legittimamenteporre una domanda. Premesso che l’incidenza di mortalità da malattiecoronariche è 100 volte maggiore di quella da melanoma alla pelle, an-che assumendo un raddoppio di rischio di melanoma a causa della dimi-nuzione di ozono, basterebbe solo l’1% di corrispondente diminuzionedi rischio di mortalità per malattie coronariche per chiedersi se non sia ilcaso di rivedere la decisione del 1987 che bandiva i CFC. La domanda èovviamente accademica, perché gli ambientalisti – come in altri casi – fa-rebbero tanto chiasso da renderla politicamente improponibile, ancor-ché dovesse rivelarsi saggia. Rimane sempre la domanda se non sia stataquanto meno affrettata quella decisione del 1987 e se non sia il caso, pereventuali decisioni future di analoga natura, di ignorare ogni affermazio-ne emotiva delle associazioni ambientaliste, il cui sole brilla soprattuttoper analfabetismo scientifico, e di rimettersi, più che al PdP, all’analisi,scientificamente condotta, del rapporto rischi/benefici.

b. Il protocollo di Kyoto 30

Secondo un recente rapporto dell’IPCC (Comitato intergovernati-vo sui cambiamenti climatici) – un organismo internazionale che com-

30 R. Ehrlich, Should you worry about global warming?, in: Eight preposterouspropositions, Ch. 6, Princeton University Press, 2003.

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prende scienziati da 100 paesi – «il riscaldamento globale previsto peril prossimo secolo potrebbe risultare senza precedenti negli ultimi10.000 anni». Ma, secondo Richard Lindzen, uno degli estensori diquel rapporto e membro dell’Accademia Nazionale delle Scienze ame-ricana, «la possibilità di un eccezionale riscaldamento globale, anchese non escludibile, è priva di basi scientifiche».

Il riscaldamento globale viene ritenuto essere la conseguenza di va-ri fattori tra cui anche un incremento della concentrazione atmosfericadi gas-serra (soprattutto CO2 e, in misura molto minore, metano e al-tri gas-serra). Siccome nell’ultimo secolo sono progressivamente au-mentati sia l’uso mondiale dei combustibili fossili sia le concentrazioniatmosferiche di CO2, si potrebbe pensare che, assumendo che questiaumenti continuino senza sosta, il raggiungimento di livelli pericolosisia solo questione di tempo, e che più aspettiamo più difficile potreb-be essere affrontare il problema.

Il sillogismo logico, secondo alcuni, sarebbe allora il seguente: (1) igas-serra stanno aumentando senza sosta, (2) ogni cosa che aumentasenza sosta raggiunge prima o poi livelli catastrofici, (3) la catastrofenon può evitarsi se non si blocca quell’aumento. Ma, piaccia o no, lecose non sono così semplici. Ad esempio, le previsioni del futuro ri-scaldamento globale assumono che la crescita di popolazione s’inter-romperà in alcuni decenni: se così non fosse, avremmo ben altro – pri-ma ancora del riscaldamento globale – di cui preoccuparci. E, d’altraparte, dovesse la popolazione mondiale stabilizzarsi, il timore dell’au-mento senza sosta dei gas-serra non sarebbe più giustificato.

Secondo altri, invece: non vi è alcuna evidenza che il riscaldamentosia reale; ammesso che lo sia, esso è minimo e non vi è alcuna evidenzache sia stato indotto dalle attività umane; e, infine, esso potrebbe esse-re addirittura benefico.

Naturalmente, finché nessuna delle due parti comprende solo iso-lati casi di dissenzienti (e non è questo il caso), non ha importanza sa-pere quale pensiero ha il maggior numero di sostenitori: i risultati del-la scienza non si acquisiscono a maggioranza. Seguiamo allora RobertEhrlich, e poniamoci le seguenti quattro domande: Il riscaldamentoglobale è reale? Qualora lo fosse, la causa dominante è d’origine an-tropica? Qualora anche questo fosse il caso, quale aumento di tempe-ratura media globale potremmo realisticamente attenderci fra, ponia-

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mo, 100 anni? L’aumento realisticamente prevedibile in caso di contri-buto antropogenico determinante, apporterà, globalmente, danni obenefìci?

Il riscaldamento globale è reale?Anche se misure dirette in grado di fornire informazioni sulle tem-

perature medie globali sono state effettuate solo recentemente, varidati indiretti (in particolare le concentrazioni relative di 16O e 18O nel-le “carote” di ghiaccio estratte in Groenlandia) ci permettono di con-cludere che attualmente la Terra si trova tra due ere glaciali (che av-vengono ogni 100.000 anni circa). Durante l’ultima era glaciale le tem-perature erano 10 gradi più fredde di ora e, probabilmente, il pianetaè più caldo adesso che non in ogni altro periodo degli ultimi 1000 an-ni; un riscaldamento, quello di questo millennio, che è avvenuto gra-dualmente per ragioni certamente indipendenti dalle attività umane.

Il problema che nasce è se per caso queste ultime abbiano o no, sulriscaldamento globale, un’influenza significativa sovrapposta alle cau-se naturali. A questo scopo, è necessario limitarsi a osservare le varia-zioni negli ultimi 150 anni, cioè dall’avvento dell’industrializzazione.Ebbene, vi è concordanza nella comunità scientifica che le misurazio-ni di temperatura effettuate da stazioni sulla Terra rivelano valori chenegli ultimi 150 anni sono aumentati di circa mezzo grado. I maggioriaumenti si sono registrati nei periodi 1910-1945 e 1975-2000. Però –va detto – nel periodo 1945-1975 si è osservato non un aumento mauna diminuzione di temperatura.

Se però ci si chiede se queste misurazioni corrispondano alla tem-peratura media globale, ci si imbatte in una prima seria difficoltà: nonvi è garanzia che l’aumento osservato non sia da attribuire al fatto chenell’intorno delle stazioni di misura si sviluppava, nei decenni, un’ur-banizzazione, e che è ad essa che dovrebbe quell’aumento attribuirsi.L’assenza di quella garanzia nasce anche dal fatto che i tentativi di ag-giustare i dati in modo tale da tenere conto di questo “effetto da urba-nizzazione” – mediante soppressione dei dati più recenti dalle stazioni“incerte” – aumenta sgradevolmente l’incertezza sull’analisi finale, vi-sto che è proprio nei tempi più recenti che si ha bisogno di dati ab-bondanti e accurati. Per farla breve: potrebbe benissimo essere che ilriscaldamento osservato successivamente al 1975 (circa 0,15 gradi per

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decennio) sia da attribuirsi totalmente all’effetto dell’urbanizzazioneattorno alle stazioni di misura.

Nel periodo successivo al 1975 si ha però disponibilità di dati sa-tellitari. I satelliti non registrano la temperatura della Terra, ma quelladell’atmosfera, misurando la quantità di radiazione a microonde emes-sa dalle molecole che costituiscono l’aria sino a circa 8 km di distanzadalla Terra. Le misure satellitari sono ovviamente più attendibili, siaperché i satelliti riescono a campionare contemporaneamente unaporzione di globo più ampia, sia perché esse non sono viziate dall’ef-fetto di urbanizzazione. Ebbene, il risultato è che le misure satellitarinon registrano l’aumento di temperatura registrato dalle misure sullaTerra. Un risultato, questo, che trova conforto nelle misure effettuate,sin dal 1960, dai palloni aerostatici, dai quali, pure, non si registra al-cun aumento di temperatura.

Qual è il contributo d’origine antropica al presunto riscaldamento globale?

Stabilite le incertezze su cui si fonda l’esistenza stessa del riscalda-mento globale, passiamo a valutarne, nell’ipotesi che esso sia reale, ilcontributo antropogenico 31. Indubbiamente, i gas-serra (innanzi tuttoacqua, e poi anidride carbonica) tengono la Terra calda: senza di essi,avremmo 33 gradi di meno. Ma l’anidride carbonica (il secondo com-ponente naturale, dopo il vapore acqueo, responsabile dell’effetto ser-ra “naturale”) è anche immessa nell’atmosfera dall’uomo ogni voltache si bruciano combustibili fossili. Effettivamente, si osserva che, neltempo, le concentrazioni atmosferiche di CO2 e le temperature hannoseguito un comportamento parallelo: a diminuzioni o aumenti delleprime corrispondono diminuzioni o aumenti delle seconde. È peròimportante essere consapevoli del fatto che comportamenti paralleli diquesto tipo non implicano necessariamente una relazione di causa-ef-fetto; e, dovesse essa esserci, non rivelano qual è la causa e quale l’ef-fetto. In particolare, sembra che gli aumenti di temperatura alla finedelle ultime tre ere glaciali abbiano preceduto (e non seguito) corri-spondenti aumenti di concentrazione di CO2. Purtroppo, le incertezze

31 Comitato scientifico ANPA, «Sul contributo antropogenico ai cambiamenticlimatici», in: Scienza e ambiente, vol. 2, cap. 4, ANPA, Roma 2002.

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di questo dato non permettono di assumerlo per assodato e definitivo.In ogni caso, non vi è dubbio che la Terra potrebbe riscaldarsi per al-tre ragioni – l’attività solare, ad esempio – che disturbino il bilanciotra la radiazione proveniente dal Sole e quella che la Terra rispedisceindietro nello spazio.

Alcuni, infatti, ritengono che le variazioni di temperatura registratenegli ultimi 150 anni siano da attribuire esclusivamente a variazionidell’attività solare. In particolare, il numero delle macchie solari (os-servabili facilmente con un modesto telescopio) è stato accuratamenteregistrato negli ultimi 400 anni (e segue un ben noto ciclo con periododi 11 anni). Ed effettivamente, esattamente come avveniva tra concen-trazione di CO2 e temperatura della Terra, si è osservato che, nel tem-po, l’attività solare e le temperature hanno seguito un comportamento

parallelo, come mostra la figura se-guente, nella quale si riportano, infunzione del tempo (dal 1860 al1990), due curve: quella grigia rap-presenta la lunghezza dei cicli di at-tività solare (indicata lungo l’asseverticale sinistro), quella nera rap-presenta le variazioni di temperatu-ra globale media (indicate lungol’asse verticale destro) 32.

Solo che, in questo caso – dovesse esserci una relazione di causa-effetto – non ci sarebbero dubbi sull’attribuzione della causa e dell’ef-fetto. Va però detto che il tentativo di valutare, dagli aumenti osservatidi attività solare, la consistenza degli aumenti di temperatura attesi, haportato alla conclusione che questi sono inferiori agli aumenti di tem-peratura osservati. Allora, vi è, forse, ancora spazio per attribuireall’uomo almeno una parte dell’aumento di temperatura osservato(ammesso che esso sia reale). Per cercare di togliersi il dubbio non c’èaltro da fare che affidarsi a modelli matematici e tentare di simulare larealtà al calcolatore.

32 E. Friis-Christensen and K. Lassen, Science 254, 698 (1991).

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Questi modelli sono, essenzialmente, dello stesso tipo di quelli chesi usano per fare le previsioni meteorologiche. Ecco in breve comefunzionano.

(1) La superficie della Terra è suddivisa in cellette bidimensionalida una griglia tracciata lungo i meridiani e i paralleli, e l’atmosfera so-pra ogni celletta è quindi suddivisa in strati: l’intera atmosfera è cosìripartita in tante “scatole”.

(2) Entro ognuna di esse si fissano, ad un particolare istante ditempo, i valori delle grandezze fisiche significative (temperatura, pres-sione, umidità, velocità e direzione del vento, etc.).

(3) Si usano le equazioni del modello per far evolvere nel tempo lasituazione iniziale, calcolando i valori futuri delle grandezze fisiche si-gnificative in ogni “scatola”.

L’attendibilità di un modello dipende dalla sua capacità di predi-re… il passato: si parte dalle condizioni iniziali, poniamo, nel 1860; siusa il modello per riprodurre le condizioni presenti; se queste non so-no riprodotte, si modificano le condizioni iniziali e i parametri delmodello sino a che non si ottengono da esso previsioni in accordo colfuturo (rispetto al 1860) che conosciamo già (cioè sino ad oggi). Que-sto modo di procedere è senz’altro il migliore possibile, viste le enor-mi difficoltà del problema; ma non bisogna dimenticare che variandoa piacimento un gran numero di parametri si è in grado di riprodurrequalunque cosa si voglia: la verità è che un modello costruito su unnumero sufficiente di parametri è in grado di riprodurre tutto e il con-trario di tutto da qualunque insieme di dati.

Ad ogni modo, l’IPCC, in un rapporto firmato da 515 (sic!) autori,osserva che i modelli matematici riprodurrebbero l’attuale riscalda-mento globale solo a patto che siano incluse le emissioni antropogeni-che di gas-serra, e pertanto conclude che «tenendo conto dei pro e deicontro dei fatti, sembra che vi sia una ben distinguibile influenza uma-na sui cambiamenti climatici». Alcuni ritengono la conclusione azzar-data. Innanzitutto, a causa dei limiti già detti inerenti a modelli checontengono un gran numero di parametri. In secondo luogo, perché imodelli considerati dall’IPCC falliscono quando s’includono in essi icontributi provenienti dagli aerosol, che sono particelle – principal-mente di solfati – che si formano dalle emissioni vulcaniche e antropo-geniche: includendo gli aerosol, le temperature calcolate dai modelli

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sono inferiori a quelle osservate. Infine, perché modelli diversi dannorisultati molto diversi tra loro, a causa della difficoltà connessa allatrattazione delle masse di nuvole; per appropriatamente includerle neimodelli, bisognerebbe dividere l’atmosfera in “scatole” molto più pic-cole, e quindi molto più numerose, fatto che renderebbe però imprati-cabili i già complessi calcoli.

Quali temperature potremmo attenderci fra 100 anni?Se si assumono attendibili le misure satellitari e se ne compie

un’estrapolazione da qui a 100 anni, per allora la temperatura mediaglobale sarà aumentata di mezzo grado, con un’incertezza di 1,5 gradi.Se invece – come fa l’IPCC – si assumono fedeli le misure dalle stazio-ni a Terra e si attribuisce esclusivamente all’uomo la causa del riscal-damento globale, le previsioni da qui a 100 anni dipendono da molte-plici considerazioni (economiche, politiche, tecnologiche, etc.) sullosviluppo dell’umanità; e che si riflettono, alla fine, sulla reale consi-stenza futura di emissioni di gas-serra.

Ebbene, l’IPCC, assumendo fedeli le temperature registrate sullaTerra e attribuendo all’uomo la principale responsabilità del riscalda-mento, esamina 40 possibili scenari, prende nota dei due scenari cheprevedono l’aumento minore e l’aumento maggiore di temperatura, econclude che per il 2100 ci si deve attendere un aumento di tempera-tura compreso fra 1,4 e 5,8 gradi. Curiosamente, l’IPCC non riportané l’incertezza di ciascun valore di temperatura previsto da ciascunodegli scenari, né la probabilità che questi scenari hanno di realizzarsi.Ad esempio, gli scenari che prospettano i maggiori aumenti di tempe-ratura sono quelli che assumono che tutti i paesi in via di sviluppoavranno nel frattempo raggiunto standard di vita uguali a quelli deipaesi industrializzati. Un’assunzione, questa, che, anche se desiderabi-le col cuore, sembra francamente lontana da ogni oggettiva realtà del-le cose.

Anche se noi che scriviamo possiamo prenderci la libertà di esserecosì “politicamente poco corretti”, l’IPCC, un organismo intergover-nativo comprendente rappresentanze da un centinaio di paesi, moltidei quali in via di sviluppo, non può evidentemente prendersi quellastessa libertà. Certamente non sino al punto da escludere dai proprirapporti quei fantasiosi scenari. Se si fa questa “scrematura” (ed è sta-

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ta fatta in studi indipendenti) 33 l’aumento massimo di temperatura daattendersi per il 2100 (nell’ipotesi che siano le attività umane le re-sponsabili principali del presunto global warming) non è superiore a 3gradi. Se invece il contributo antropogenico fosse irrisorio, dai dati di-sponibili sull’attività solare possiamo attenderci, fra 100 anni, variazio-ni di temperatura comprese fra -1,0 e 2,0 gradi.

Un eventuale riscaldamento globale, che sia di realistica entità, sarebbedannoso o benefico per l’umanità?

Innanzi tutto, è chiaro che – a meno di credere che la temperaturaoggi sia esattamente la migliore concepibile – è ragionevole pensareche il mondo potrebbe trarre benefìci da modeste variazioni di tempe-ratura. Bisogna stabilire se questi benefìci verrebbero da una modestadiminuzione o da un modesto riscaldamento.

a) L’incidenza di mortalità è certamente correlata alle temperatu-re: sia il caldo che il freddo estremo favoriscono i decessi, ma è statodimostrato che condizioni di freddo estremo hanno un’incidenza dop-pia di quelle di caldo estremo. Inoltre, se si tiene conto del fatto cheun eventuale global warming comporterà maggiori aumenti di tempe-ratura nelle stagioni fredde che non in quelle calde, si può concludereche, rispetto alla mortalità umana, un modesto global warming avreb-be effetti benèfici.

b) Gli scenari dell’IPCC prevedono, per il 2100, un innalzamentodei mari compreso fra 9 e 90 centimetri. Ma bisogna osservare duefatti. Innanzi tutto, il mondo riesce benissimo ad affrontare questoproblema, come testimonia l’Olanda, col suo imponente sistema di di-ghe che la difende dal mare. Naturalmente, si potrebbe obiettare cheun paese come il Bangladesh, la cui popolazione vive, per il 25%, inzone costiere a circa un metro sul livello del mare, potrebbe non esse-re in grado, per la sua povertà, di prendere le adeguate misure protet-tive. Non bisogna tuttavia dimenticare che i “peggiori” scenari previ-sti dall’IPCC (in questo caso, l’innalzamento dei mari di 90 centime-tri) assumono che i paesi poveri abbiano raggiunto lo stesso benessere

33 T.M.L. Wigley and S.C.B. Raper, Science 293, 451 (2001).

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economico dei paesi ricchi, per cui, in quel caso, come oggi l’Olanda,anche il Bangladesh saprebbe come affrontare il problema.

In secondo luogo, va precisato che il livello del mare sta aumentan-do da millenni. Da quando la Terra è uscita dall’ultima glaciazione, illivello del mare è aumentato di ben 100 metri, per due cause principa-li: la fusione dei ghiacciai e la dilatazione termica delle acque. La pri-ma, è un evento in corso a partire dalla fine dell’ultima era glaciale, enon ha avuto alcuna accelerazione nell’ultimo secolo. Anzi, non èescluso che un clima più caldo possa interromperla, in conseguenza diaumentate precipitazioni, che ai poli si depositerebbero come neve.

c) I benefici sull’agricoltura da un modesto global warming sonoindubbi. Anzi, in questo caso l’aumento di temperatura è sinergicocon l’aumento di concentrazione di CO2: nelle serre tecnologicamentepiù avanzate si pompa, appunto, CO2 per ottenere rendimenti più alti.

In conclusione, nell’ipotesi che effettivamente l’uomo contribuiscasignificativamente al riscaldamento globale, non c’è da attenderselo,realisticamente, superiore a 2-3 gradi da qui al 2100. Ma, in questo ca-so, esso avrebbe, nel complesso, effetti benefici per l’umanità. Natu-ralmente, sarebbe insensato che l’umanità si sforzi di raggiungere arti-ficialmente la temperatura che si ritenga essere la migliore possibile.Ma, allo stesso modo, dovremmo convenire che sarebbe parimenti in-sensato ogni sforzo, per di più in nome del PdP, per evitare di rag-giungere quella condizione ideale.

Un’ultima osservazione va fatta, in ordine al presunto eccezionaleed eccezionalmente rapido cambiamento climatico di cui saremmo te-stimoni: d’eccezionale non c’è né l’attuale presunto cambiamento cli-matico né la sua rapidità 34. Un fatto è certo: il clima del pianeta puòradicalmente cambiare, come le ere glaciali inconfutabilmente attesta-no. Cinquant’anni fa, quando ancora si riteneva che ciò potesse avve-nire solo con tempi dell’ordine delle decine di migliaia d’anni, ci si èconfrontati con l’evidenza che seri cambiamenti climatici avvenneroanche nell’arco di pochi millenni; ridotti a pochi secoli dai risultatidelle ricerche nei successivi 20 anni, e ulteriormente ridotti ad un solo

34 S. Weart, Physics Today 56, 30 (2003).

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secolo dai resoconti scientifici degli anni Settanta e Ottanta. Oggi, lascienza sa che cambiamenti climatici, nel passato, sono avvenuti anchenell’arco di pochi decenni.

Nel 1955, datazioni al 14C effettuate su reperti scandinavi rivelaro-no che il passaggio, circa 12000 anni fa, da clima caldo a clima freddo,avvenne durante un millennio. Un periodo che fu definito “rapido”,vista l’universale convinzione che tali cambiamenti potevano avveniresolo in tempi di decine di migliaia d’anni. Conferme vennero da altrericerche: ad esempio, quella dell’anno successivo che accertò che l’ul-tima era glaciale finì col “rapido” aumento di un grado per millenniodella temperatura globale media; e quella di 4 anni dopo, secondo cuivi furono nel passato, e nell’arco di un solo millennio, aumenti di tem-peratura anche di 10 gradi. E altre ancora, finché nel 1972 il climato-logo Murray Mitchell ammetteva che le evidenze degli ultimi 20 anniforzavano a sostituire la vecchia visione di un grande, ritmico ciclocon quella di una successione rapida e irregolare di periodi glaciali einterglaciali all’interno di un millennio.

Anche se, allora, il timore dominante era la possibilità che la finedel secolo avrebbe potuto segnare l’inizio di un periodo glaciale conevoluzione rapida (cioè in pochi secoli) verso condizioni “fredde” ca-tastrofiche per l’umanità) non mancava, tuttavia, chi avvertiva del pe-ricolo opposto: il riscaldamento globale a causa delle emissioni uma-ne. In quello stesso 1972, infatti, il climatologo M. Budyko dichiaravache alla velocità con cui l’uomo immetteva CO2 nell’atmosfera, ighiacciai ai poli si sarebbero completamente sciolti entro il 2050. In-somma, ancora 30 anni fa gli scienziati non si erano messi d’accordose un’eventuale minaccia proveniva dal troppo freddo o dal troppocaldo.

Mentre erano concordi su una cosa, che di troppo era certamente:la loro ignoranza. E invocarono – giustamente – maggiori risorse. Gra-zie alle quali andarono in Groenlandia ove, dopo 10 anni di tenace la-voro, estrassero, dalle profondità fino ad oltre 2 km, “carote” dighiaccio di 10 cm di diametro. Dalle analisi dell’abbondanza relativadegli isotopi dell’ossigeno nei diversi strati di ghiaccio (il più profon-do dei quali conserva le informazioni sulle temperature di 14mila annifa) si ebbe la conferma che drammatiche diminuzioni di temperaturaerano avvenute in pochi secoli.

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Ma fu solo una decina d’anni fa – nel 1993 – che gli scienziati rima-sero, è il caso di dire, di ghiaccio: quando scoprirono, da nuovi caro-taggi, che la Groenlandia aveva subito aumenti di anche 7 gradinell’arco di soli 50 anni; e, a volte, con drastiche oscillazioni anche disoli 5 anni!

Anche se «questi rapidissimi cambiamenti del passato non hannoancora una spiegazione», come dichiara un recente rapporto dell’Ac-cademia Nazionale delle Scienze americana, la scienza ha accettatol’idea di un sistema climatico la cui variabilità naturale si può manife-stare anche nell’arco di pochi decenni. Non c’è nessuna ragione – di làda quella che ci rassicura psicologicamente – per ritenere che essi nondebbano manifestarsi oggi. Vi sono invece tutte le ragioni per ritenereche quella secondo cui l’uomo avrebbe influenzato i cambiamenti cli-matici sia un’idea – come tutte quelle dei Verdi, ad essere franchi –priva di fondamento; e per ritenere, semmai, che sono i cambiamenticlimatici ad aver influenzato l’uomo e il percorso della civiltà.

Una cosa senz’altro certa è la circostanza secondo cui i vincoli delprotocollo di Kyoto (ridurre del 5%, rispetto a quelle del 1990, leemissioni di gas serra da parte dei paesi industrializzati) avrebbero ef-fetto identicamente nullo sul clima: nell’atmosfera vi sono 3000 miliar-di di tonnellate di CO2, l’uomo ne immette, ogni anno, 6 miliardi ditonnellate, di cui 3 provengono dai paesi industrializzati, pertanto ilprotocollo di Kyoto equivarrebbe a immettere nell’atmosfera 5,85 mi-liardi di tonnellate di CO2 anziché 6 miliardi. Un primo passo, diconogli ambientalisti; ma anche montare su uno sgabello è un primo passoper raggiungere la Luna! (Né, d’altra parte, veniamo informati di qualisarebbero gli altri passi) 35. Insomma, la temuta temperatura che l’uma-nità potrebbe dover sopportare nel 2100, se si applicasse il protocollo

35 Tanto più che, curiosamente (o schizofreneticamente, direbbe qualcuno)viene respinta la possibilità di servirsi dell’unica fonte energetica – quella nuclea-re – che, veramente competitiva coi combustibili fossili, permetterebbe, se mas-sicciamente impiegata, di raggiungere gli obbiettivi non di uno ma di diversi“protocolli di Kyoto”: la Francia, ad esempio, raggiunge già quegli obbiettivi e laSvezia è addirittura in credito rispetto alle emissioni di gas-serra. Per converso, laDanimarca, il paese al mondo che più investe sulle energie rinnovabili (principal-mente nell’eolico), deve ridurre le proprie emissioni di gas-serra di un buon 21%per allinearsi coi vincoli di Kyoto.

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di Kyoto verrebbe ritardata al 2101! Sennonché, gli sforzi economiciconseguenti al rendere operativo quel protocollo sarebbero disastrosi:nel caso dell’Italia, quel disastro – è stato valutato – comporterebbe,tra le altre cose, la perdita di decine di migliaia (51.000 nel 2010, sino a277.000 nel 2025) di posti di lavoro per ridotta produttività 36.

Quindi, come si vede, gli unici due casi che, secondo il rapportodella Commissione dell’UE, “dimostrerebbero” la valenza positiva delPdP, dimostrano invece esattamente il contrario. Alla fine, non sem-bra sia possibile citare alcun caso – neanche uno – in cui l’applicazio-ne del PdP abbia scongiurato un danno, ridotto un rischio, o apporta-to benefici.

Qualcuno pensa di poter addurre casi in cui il PdP non sarebbestato applicato; ove invece, se lo fosse stato, si sarebbero potuti evitaredei danni. Tipicamente, si cita il caso dell’amianto, e si usa dire: sequesto materiale fosse stato bandito da subito, non ci sarebbero statigli spiacevoli casi di asbestosi verificatisi tra i lavoratori a esso esposti.La verità è un’altra. Innanzitutto, quando circa un secolo fa si comin-ciò ad usare l’amianto, nessuno poteva sospettare nulla. I primi so-spetti vennero alcuni decenni dopo, perché questi sono i tempi traesposizione all’amianto e manifestazioni patologiche. In ogni caso,quando quei sospetti vennero, la scienza non rimase con le mani inmano, ma studiò il caso; e nel 1954 decretò con certezza la pericolo-sità di quel materiale. Che venne messo al bando, per lo meno in Ita-lia, ben 40 anni dopo! Quindi, non ci fu nessun PdP che non venneapplicato. Quella che non venne applicata fu l’elementare precauzionesu una sostanza di cui si era riconosciuta, alla fine, la pericolosità: an-cora una volta, fu il legislatore, cioè la politica, il soggetto inadem-piente e sordo alla voce della comunità scientifica.

Conclusioni

Concludo con una riflessione e una proposta. Innanzitutto, biso-gnerebbe ricordare che l’analisi e la gestione del rischio può procedere

36 M. Thorning, The impact of Eu climate-change policy on economic competiti-veness, Atti della conferenza Dall’effetto serra al dirigismo ecologico, Istituto Bru-no Leoni, Milano 29 novembre 2003.

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seguendo il metodo scientifico, e avvalendosi di commissioni di organi-smi che siano scientificamente accreditati, ufficialmente riconosciuti eindipendenti da eventuali interessi economici attinenti al problema inquestione. Non vi sarebbe nessuna necessità di invocare un principioad hoc, soprattutto se esso intenda scavalcare ogni analisi e gestione delrischio fatta col metodo scientifico e sostituire i detti organismi coi re-sponsabili politici. Costoro, piuttosto, sulle questioni indagabili scienti-ficamente hanno il dovere di adeguarsi ai risultati di quelle indagini:potrebbero essere, come visto, inestimabili i danni conseguenti a com-portamenti non conformi alle indicazioni dell’indagine scientifica, ma-gari nell’ottica dell’affermazione di un generico, acritico e a priori “pri-mato della politica”. Il rifiuto del “primato della politica” su quellescelte che possono essere guidate dall’indagine scientifica è un dovereche ognuno, soprattutto se scienziato, deve esercitare: la scienza, infat-ti, per sua stessa natura, rifiuta l’autorità, qualunque autorità diversa daquella che i fatti e la Natura impongono.

Se proprio si sentisse la necessità di un principio guida, forse puòessere elemento di riflessione la seguente riformulazione, da me pro-posta, del PdP (da confrontarsi con quella data all’inizio):

«Ove vi siano minacce scientificamente accertate di danno serio oirreversibile, i responsabili politici hanno l’obbligo di non posporremisure – anche non a costo zero ma purché efficaci – volte a prevenireil temuto degrado ambientale».

Lo chiamerei, questo, “principio di (tripla) priorità”: (i) prioritàdell’analisi scientifica rispetto alle preoccupazioni emotive (e ciò signi-fica adottare una scala di priorità che tenga conto del rapportocosti/benefici); (ii) priorità della ragione scientifica rispetto a quellapolitica; (iii) priorità della salvaguardia ambientale rispetto all’onereeconomico.

In definitiva, il vero rischio del PdP è che tramite esso le conoscen-ze della fisica, chimica, biologia, medicina – della scienza in genere,insomma – vadano riscritte nelle aule dei parlamenti, prima, e dei tri-bunali, poi. Ebbene, possiamo dire che l’associazione Galileo 2001 sipropone di impedire che ciò avvenga.

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RADICI FILOSOFICHE E UTILIZZAZIONE SOCIALEDEL PRINCIPIO DI PRECAUZIONE

Carlo BernardiniUniversità di Roma La Sapienza

U no dei motivi per cui anche persone colte e non particolar-mente credule fanno i rituali scongiuri suggeriti da molte dellesuperstizioni classiche (soprattutto in occasione dell’incontro

di speciali individui detti o presunti “jettatori”) è quello determinatodalla “prudenza in condizioni di ignoranza”: non è detto che il perico-lo sia reale ma, dal momento che lo scongiuro è a buon mercato e allaportata di tutti, meglio praticarlo per prudenza. Pare che un illustre di-fensore di questo punto di vista fosse addirittura Benedetto Croce (lafrase che gli è attribuita, esattamente, suona così: «Non è vero, maprendo le mie precauzioni», a quanto dichiara Massimo Polidoro delCICAP); e non si può negare che questo semplice ragionamento dicautela in favore degli scongiuri abbia la sua rilevanza. Sulla scorta diquesto ormai antico esempio, possiamo allora dire che il Principio diPrecauzione ha una sua solida base crociana, compatibile con le filoso-fie idealiste e dunque, più che mai, con quelle antiscientifiche che an-cora tanto spazio hanno nel pensiero contemporaneo. Non annoverereitra i precursori del Principio di Precauzione, invece, l’ex presidente del-la repubblica Giovanni Leone, grande esperto praticante di scongiuri:Leone ci credeva e la sua non era precauzione ma convinzione, ovveroelemento costitutivo di una tradizione culturale. Informazioni più este-se si possono ottenere sul sito http://www.cicap.org.

Proprio in ragione di questa matrice più colta, devo riconoscereche i miei colleghi e io stesso commettiamo abitualmente un grave er-rore, che è quello di perdere le staffe di fronte a princìpi e convinzio-ni che ai più, invece, appaiono come dotate di un fondamento; ovve-ro, che ai più appaiono addirittura come proposizioni di senso comu-ne, elementarmente inconfutabili. Effettivamente, in questo come in

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altri casi che implicano “credenze”, ci troviamo di fronte a una affer-mazione vagamente antinomica, che meriterebbe almeno una tesi dilaurea. La formulo così: «Non è possibile dimostrare razionalmentela non-esistenza di qualcosa che non esiste». L’affermazione si aggra-va tramutandola perentoriamente in: «Non può esistere la dimostra-zione razionale della non-esistenza di qualcosa che non esiste». Unbel rompicapo, dovuto a un concetto di quelli che Ludovico Geymo-nat chiamava “predicabili”, cioè appartenenti alla «classe che contie-ne se stessa come elemento» (per esempio, il concetto di astratto èpredicabile, essendo esso stesso astratto; il concetto di virtuoso è, in-vece, impredicabile). In realtà, uno dei motivi per cui non ci cimen-tiamo razionalmente con i fenomeni di credulità e bruciamo le tappedando in escandescenze apodittiche è che non sopportiamo che alcu-ni nostri colleghi furbacchioni rivestano la filosofia della «prudenzain presunte condizioni di ignoranza» di argomentazioni che appaionoscientifiche solo perché espresse da sedicenti scienziati, ma hanno inrealtà finalità di altra natura: politiche, in genere, cioè, di consenso edi affermazione di un potere. Questa sì che è una importante scoper-ta fatta da alcune frange dell’ambiente scientifico: l’uso ideologicodella scienza, una opportunità sino a poco fa forse impensabile. Lascoperta, a prima vista di altra natura, mutatis mutandis è simile aquella di chi capisce che una applicazione tecnologica può far guada-gnare molti soldi.

Dunque, vi invito a riflettere sulla nostra abitudine di minacciarecon anatemi i nostri colleghi disponibili all’uso psicopolitico della cre-dulità. In realtà, faremmo meglio a cercare di travolgerli con usi inqualche modo “vantaggiosi” della credulità. Questo non è banale:promesse sui benefici futuri della ricerca non fanno più alcuna presasull’opinione pubblica e sono banalmente confutabili perfino da gior-nalisti avveduti. No, bisogna usare in modo positivo proprio quellapaura che rende efficace il Principio di Precauzione; ma salvaguardan-do la nostra rispettabilità e credibilità. Vi faccio un esempio, che mi fusuggerito da una vicenda reale. Anni fa, una notissima astronoma ita-liana fu consultata da alcuni sindacalisti di Pordenone che avevanoappreso da un ufficiale americano che il rilevamento della radioattivitànelle cantine di Aviano e dintorni adibite a bettole aveva dato valorimolto alti. I sindacalisti chiesero se questo era attribuibile alla presen-

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za delle numerose testate nucleari nella base. L’onesta astronoma ri-spose: «Non me ne intendo, perciò non posso escludere». Il giornodopo, il quotidiano locale uscì con un titolone: «La nota professoressaXY dichiara che molto probabilmente…». Successe il finimondo. Mitelefonarono e mi sforzai invano di spiegare che no, non poteva esse-re; le cantine hanno sempre attività naturale più elevata a causa del ra-don proveniente dal sottosuolo; inoltre, è inverosimile che le radiazio-ni del materiale fissile di un ordigno nucleare superino l’involucro del-le bombe. Fui sospettato di connivenza con i militari. Allora svegliai,di notte, i dirigenti di quel tempo dell’ENEA: Umberto Colombo(Presidente), Giovanni Naschi (Divisione Sicurezza e Protezione) eFabio Pistella (Direttore Generale). Avevo consultato, per tranquillità,l’amica e collega Silvana Ricci Piermattei, esperta di radon, che avevaconfermato la mia banale conclusione. Tuttavia, sapevo che una di-chiarazione autorevole e responsabile valeva di più dei nostri pareri.Perciò, insistetti: «Fate qualcosa, fate un comunicato ufficiale del-l’ENEA». Mi dissero che era una questione delicata. Insomma, sem-brava che temessero di giocarsi il posto. Il clima era simile a quelloche abbiamo vissuto con Scanzano Jonico. Però, a me venne, qualchetempo dopo, un’idea.

La frase magica, l’abracadabra, è: «Non posso escludere». Qualun-que scienziato, se non sa niente di qualcosa, copre così la sua ignoran-za. Non dice “non so” ma dice che “non può escludere”: anche questaè precauzione, a suo modo. Fateci caso: i giornalisti adorano consulta-re i premi Nobel, specie i nazionali. Un premio Nobel è il modernooracolo e deve salvaguardare la propria attendibilità, che non è tantoquella legata a una sua competenza specialistica quanto quella associa-ta a una presunta capacità di ragionare in modo originale. Difficile,perciò, che escluda una eventualità minimamente possibile di cui inrealtà non sa nulla: se può, copre la sua ignoranza con un espedienteretorico ambiguo. Ma allora – e questa è l’idea che mi venne mentrepensavo con rancore che avrei raccontato la pavidità del verticeENEA sul radon ad Aviano in ogni occasione che mi si offrisse – ve-diamo cosa si può fare di buono con un autorevole “non posso esclu-dere”. Immaginate, per esempio, che una équipe di luminari della me-dicina si risolva a dichiarare in un importante canale televisivo e in fa-scia oraria di massimo ascolto, magari sapientemente sollecitata da

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giornalisti che hanno studiato queste tecniche: «Non possiamo esclu-dere che la lunga permanenza al volante di un’auto nel traffico cittadi-no produca un sensibile calo delle prestazioni sessuali, oltre a favorirel’obesità e alcuni specifici disturbi neurologici». Ebbene, sarei prontoa scommettere che il traffico cittadino si ridurrebbe di punto in bian-co di non meno del 30%, per ridursi poi ulteriormente nei giorni suc-cessivi grazie ad una campagna giornalistica ben congegnata. Padro-nissimi, i luminari, di dichiarare che non sono sicurissimi, che la loroaffermazione è solo precauzionale… Ma, ci pensate? Ridurre il traffi-co con il Principio di Precauzione: un risultato socialmente straordina-rio! Lascio perdere la possibilità che il programma TV sia sponsoriz-zato da una fabbrica di biciclette, o pattini, o monopattini: di questeopportunità venali noi scienziati non ci occupiamo.

Molti altri risultati potrebbero essere così ottenuti. Certo, le fabbri-che di auto correrebbero ai ripari. Allora, pensiamone altre. Si apri-rebbe un ventaglio enorme di possibilità. «Non si può escludere chebuttare rifiuti di ogni genere per strada o nei luoghi pubblici o nellecampagne produca nuovi microorganismi in grado di determinarenuove e gravi malattie infantili». «Non si può escludere che il piercingsia la causa di particolari tumori»; «Non si può escludere che… (in-ventate voi qualcosa che vi dà fastidio e mettetela fuori gioco con unaprecauzione mirata)». Insomma, anziché proibire o imporre come unqualsiasi tiranno, fate apparire la norma come una saggia precauzione:proibizioni e imposizioni sono cause di conflitti, meglio accontentarsidi realizzarle “come misure precauzionali”. È anche assai più demo-cratico: ciascuno è libero di decidere se cautelarsi, “chi non lo fa, su’danno”. Non chiediamo più di così: vogliamo forse metterci al livellodi chi vuole proibire normativamente gli OGM, o gli anticoncezionali,o le linee elettriche, o le centrali nucleari? Se non imbocchiamo questastrada, illustri colleghi, perderemo in qualunque faccia a faccia controchi, della scienza, diffida e invita a diffidare per principio. Riconoscia-mo dunque che «c’è del metodo in quella – che a noi appare – follia»,e allora usiamo il metodo.

A me piacerebbe addirittura approfittare dell’opportunità, ma misembra rischioso. Forse, non si possono proporre cose come «il politi-co X mi sembra pericolosamente antipatico e non posso escludere chelo sia veramente: per precauzione, non votatelo più». Non è certo un

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caso, comunque, che i colleghi che hanno fatto fortune mondane conl’ambientalismo oltranzista siano animati da una vena di moralismomistico che ha contagiato particolarmente la sinistra estrema, gli exsessantottini e altri eterni tormentati dalla razionalità. Tra gli ambien-talisti, ci sono due tipi di “caratteristi” che si danno manforte, ciascu-no dalla propria parte: i guru e gli attivisti. Usando la nomenclaturadei fisici, i guru sarebbero un po’ l’equivalente dei “teorici”, gli attivi-sti sarebbero l’equivalente degli “sperimentali”. I guru parlano in unlinguaggio canonico intriso di diffidenza verso categorie classiche co-me la “scienza ufficiale”, il “progresso”, la stessa “razionalità” o il“metodo”; sono al confine della New Age, si riferiscono almeno aGeorge Bateson, amavano Barry Commoner e oggi Jeremy Rifkin, ecosì via. Gli attivisti pescano “evidenze” con le metodologie più de-precabili: certificazioni di medici privati, testimonianze di gente co-mune (su epidemie infantili o su vitelli a due teste, peraltro mai esibitiin televisione, con la fame di mostri che c’è). Le dichiarazioni di indi-vidui isterici resi insonni dalle onde elettromagnetiche sono pregnantie spettacolari. Ma soprattutto, a parte la descrizione fenomenologicadi presunti immani danni ambientali imputabili alla spregiudicatezzadella scienza ufficiale accoppiata ad interessi economici mondiali, ilcavallo di Troia del Principio di Precauzione sono gli argomenti inquie-tanti, atti a produrre disagio. Per esempio: interrogare la pubblica opi-nione sulla liceità dell’uso di un farmaco che guarisce il raffreddorema è letale in un caso su un milione. Se prendete un milione di perso-ne e chiedete se assumerebbero quel farmaco, scoprirete che ciascunopensa di essere il caso eccezionale; a nulla varrà far notare che il ri-schio di incidenti d’auto o di caduta massi o di folgorazione è ben piùgrande. L’accidente è accidente e pertanto accettato, la letalità ecce-zionale di un farmaco è un attentato deliberato della scienza.

Colleghi, cambiamo metodo di gioco. Nell’affrontare la pubblicaopinione, cominciamo a “non poter escludere” che se si vuole vivere arischio zero oggi, domani moriremo di freddo e di fame. Siate raziona-li con giudizio, armatevi di capacità di comunicazione. Per quanto miriguarda, mi limito a proporre con forza una riforma didattica che ciriguarda da vicino. Le scienze, così come sono insegnate, appaionostupidamente deterministiche (cioè “risolutive”). Nessuno di noi,però, s’azzarderebbe a valutare più che una probabilità che accada ciò

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che tentiamo di prevedere. Ma la gente vuole certezze e noi sbagliamoa cercare di darle o di aggirare la domanda per non darle.

Dedichiamoci all’insegnamento sistematico, sin dalle scuole dell’in-fanzia, del concetto di probabilità. Ricordatevi che il Principio di Pre-cauzione ha la forza del determinismo: non fare, è l’unica cosa propo-nibile che appaia ingannevolmente certa. Ma le conseguenze del nonfare sono valutabili soltanto probabilisticamente: è qui che i guru im-brogliano, perché spacciano per salvezza certa l’esito del non fare.Vanno confutati su questo piano.

Coraggio.

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IL PRINCIPIO DI PRECAUZIONE: UN TRUCCO VERBALE

Tullio ReggePremio Einstein per la Fisica

L’abbreviazione PdP è considerata blasfema e vilipendio da notioppositori; ho già ricevuto in proposito infuocate lettere diprotesta. La vicenda del PdP è ormai vecchia di anni e temo

che sia l’inizio, l’equivalente del decalogo – se volete – di una nuovareligione basata sulla mistica ambientalista.

Quando ero deputato al Parlamento Europeo, durante una conver-sazione fuori seduta con alcuni colleghi, fui interrotto da un Verdecon l’annuncio che era stato scoperto un gigantesco deposito di ura-nio in Canada. Il Verde ha subito aggiunto, con un sorriso e una striz-zatina d’occhio, che il deposito era situato sotto un lago, chiaro mes-saggio della natura che non voleva fosse sfruttato. La natura, vista dalcollega, mi apparve come divinità che legiferava e diceva “voglio onon voglio”: ho visto sul nascere il sorgere di una nuova religione. Horisposto al collega che non si poteva parimenti tirare l’acqua su daipozzi perché era sotto terra, e questi se ne andò via infuriato.

Lo straordinario sviluppo scientifico e tecnologico del XX secoloscatena ondate mistiche che prendono di mira di volta in volta il nu-cleare, gli OGM, interventi – anche a scopo di cura – sul genomaumano e, infine, il cosiddetto elettrosmog. La caratteristica saliente diqueste proteste a livello popolare è l’uso di tesi aberranti, scarso o nul-lo ricorso ad una seria analisi dei fatti, sviluppi legislativi onerosi e lacreazione di strutture burocratiche di regola tanto dispendiose quantodannose. La prima formulazione della legge sull’elettrosmog, operadell’allora ministro Bordon, avrebbe contemplato in Italia investimen-ti e spese correttive del tutto inutili, dell’ordine di circa 3-4 “Parma-lat”. La cifra è stata poi ridotta e credo che oggi sia aggiri sul mezzo“Parmalat”. Si tratta pur sempre di soldi buttati via. Le indagini epi-

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demiologiche svolte in tempi recenti indicano che l’impatto dell’elet-trosmog sulla salute è minimo – se non assente – e del tutto trascura-bile rispetto all’impatto del fumo e in ogni caso ben controllato dallenorme della OMS adottate da ben 40 paesi di tutto il mondo. Abbia-mo fermato le centrali elettronucleari, impresa folle e costosissima, pa-ghiamo gli stipendi al personale senza produrre elettricità e senza al-cun miglioramento nelle condizioni di sicurezza. Le proteste ambien-taliste contro i depositi di scorie non hanno migliorato le condizioni disicurezza, semmai le hanno peggiorate. Le proteste hanno bloccatocon estrema efficienza per decenni la sistemazione delle scorie in unsito ad alta sicurezza e hanno avuto come unico risultato quello di au-mentare la tensione e il terrore del nucleare. E, naturalmente, quellodi guadagnare voti dallo stato di massimo pericolo.

Fra l’altro, non esiste un unico PdP, un anno fa ne esistevano benquattordici versioni in continua evoluzione darwiniana. D’altra parte,il testo del PdP è irrelevante e non viene quasi mai citato. Conta esclu-sivamente l’uso a scopo demagogico. Mi ricordo a questo propositouna puntata di Excalibur 1 a cui ha partecipato anche il nostro Ricci, incui in fase di chiusura ben due ambientalisti hanno usato verbatim lastessa formula «questo non si può fare per via del Principio di Precau-zione».

Il PdP è in pratica uno scongiuro: basta il titolo. Il testo è irrilevan-te e non vale la pena di discuterlo. La pretesa di regolare il futurodell’ambiente e dell’umanità anche solo per pochi decenni è assurdaed arrogante. La natura è un ecosistema estremamente complesso chel’uomo può seguire solamente in minima parte. Il PdP di Rio, il primodella serie, richiedeva l’assoluta sicurezza, una pretesa assurda. Se pre-so alla lettera, la nostra riunione di oggi non poteva aver luogo, nondovremmo viaggiare in auto e neppure su di un treno. Il PdP è inrealtà concepito come principio per bloccare le iniziative ideologica-mente sgradite. Quasi tutte le versioni considerano l’impatto di singoliritrovati tecnici, farmaco o pesticida o antenna radar che siano, e tra-scurano le interazioni. La natura è un sistema complesso in cui posso-no interagire anche centinaia di fattori diversi, ed è molto difficile pre-dire il risultato finale a lungo termine. A distanza di anni un interven-

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1 Trasmissione televisiva di Rai Due condotta da Antonio Socci.

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to può rivelarsi benefico o dannoso. Il tentativo di adattare il PdP a si-tuazioni di estrema complessità non è realistico. Siamo condannati allanavigazione a vista, forse potremo evitare gravi incidenti a breve ter-mine, forse 10 anni, ma certamente non 50 anni. L’andare oltre è vel-leitario e anche costoso; è destino dell’uomo applicare la propria intel-ligenza.

L’altro punto di cui si è parlato è il ruolo e i limiti della ricercascientifica. Non sono religioso, ma ricordo molto bene i tempi del li-ceo e il mio professore di religione, persona di cui ho un caro ricordo.Don Carena ricordava che errare humanum est e su questo punto cre-do che siamo tutti d’accordo, però aggiungeva anche perseverare dia-bolicum, ed io ho sempre apprezzato questa aggiunta.

Signori, virtù della scienza non è l’infallibilità bensì quella di nonperseverare nell’errore, l’errore è inevitabile ed ha anche una funzionecreativa, a volte apre le porte a nuove scoperte. Le irregolarità nel mo-to del pianeta Mercurio all’inizio apparvero come una violazione ine-splicabile della legge di Newton, ma in realtà furono punto di svoltadi enorme importanza che ci ha condotti alla relatività generale. Quin-di, tutto questo significa che dobbiamo imparare dall’errore, ammet-tere che l’errore fa parte della ricerca e darci da fare.

Vorrei infine occuparmi di un tema molto attuale. La manipolazio-ne del genoma di esseri viventi è tema scottante che solleva problemietici che agitano la nostra società. Non manca chi vorrebbe porre finealla ricerca ed a qualsiasi manipolazione del genoma, foss’anche a sco-po curativo. La mia opinione è che se la natura commette errori, causadi gravi malattie e di inaudite sofferenze, abbiamo tutto il diritto e ildovere di intervenire.

Noto purtroppo una chiara assenza di pietà umana in molti criticidella ricerca scientifica. Ricordo un collega del Parlamento Europeo acui avevo riferito il caso di una bambina affetta da immunodeficienzacongenita e curata al S. Raffaele con un intervento sul genoma, il pri-mo caso trattato in Europa. I ricercatori hanno modificato il midolloosseo della bambina che ha finalmente ottenuto un suo sistema immu-nitario e, a quanto mi hanno riferito, frequenta oggi regolarmente lascuola. Ottenni una reazione gelida, il collega furioso replicò che «nonsi sa cosa possa fare all’ambiente», una delle tante frasi fatte che ven-gono ripetute fino alla nausea.

79Il principio di precauzione: un trucco verbale

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Rivolgo a questo proposito un caldo invito ai colleghi, vorrei chequalcuno incaricasse uno studente volonteroso che raccolga e analizzile frasi ossessive e ripetitive che caratterizzano le polemiche ambienta-liste. Quella da me citata è ben nota. Un’altra litania recita «tutti i bre-vetti degli OGM sono nelle mani delle multinazionali». La ripetizioneossessiva di slogan sarebbe ridicola se non fosse vergognosa. Nel casoda me citato l’intervento ha posto fine alle sofferenze di una bambinache soffriva di una malattia molto grave, condannata altrimenti a tra-scorrere tutta la sua vita in una bolla di plastica. Tutto questo mi ricor-da una frase di Mencken che definiva il puritano come «un signoreche soffre intensamente al pensiero che qualcuno da qualche parte nelmondo sia felice».

Signori, i puritani sono ancora fra di noi.

80 I costi della non-scienza

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IL PRINCIPIO DI PRECAUZIONE E LA SALUTE

Umberto TirelliDirettore Dipartimento di Oncologia Medica

Istituto Nazionale Tumori di Aviano

S econdo la definizione che la Commissione Europea ha dato nel1998, «il Principio di Precauzione (PdP) è un approccio alla ge-stione del rischio che si applica in circostanze di incertezza

scientifica e che riflette l’esigenza di intraprendere delle azioni a fron-te di un rischio potenzialmente serio senza attendere i risultati della ri-cerca scientifica». Ma, come è stato osservato più volte durante il cor-so di questa conferenza, la certezza scientifica è sempre assente. Lascienza, a differenza delle parascienze, della cartomanzia e dell’astro-logia, non offre certezze. Il rischio del PdP è che quello spazio di dub-bio lasciato dalla scienza venga riempito da affermazioni arbitrarie,dando voce solo alle emozioni della gente o comunque a persone noncompetenti che vogliono sfruttare questi sentimenti, consentendo unastrumentalizzazione in aperto contrasto con gli interessi della colletti-vità e con l’analisi critica delle acquisizioni scientifiche.

Il PdP è perciò impossibile da applicarsi per la salute, perché faappello alla incertezza scientifica, ma l’incertezza è intrinseca allascienza. Il PdP non è un criterio scientifico, ma è un atteggiamento so-cio-politico, che non ha niente a che fare con la scienza. Invece delPdP, è la prevenzione dai rischi accertati sulla base dei dati scientificiche dovrebbe essere la guida dei nostri comportamenti. Per esempio,gli incidenti stradali sono la prima causa di morte nei giovani, ed è co-me se un aereo cadesse in ogni week-end non soltanto in Italia, ma inogni singolo paese occidentale. La prevenzione si basa sulla riduzionedella velocità mentre si guida, sul bandire alcool e qualsiasi droga alconducente, sull’impiego della cintura di sicurezza, sul non utilizzodel telefonino alla guida. Mentre questa è prevenzione, il PdP applica-to all’utilizzo della macchina prescriverebbe che non si andasse inmacchina per non rischiare incidenti stradali o comunque l’inquina-

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mento atmosferico urbano, che dipende all’80%, nel suo complesso,dall’utilizzo delle macchine.

Ma ecco un esempio di come l’invocazione del PdP sia stata scon-fessata da un organismo internazionale come l’OMS. Un rapportodell’OMS del marzo 2000 recita: «Le condizioni di applicabilità delPrincipio di Precauzione espresse dalla Commissione dell’UE non sus-sistono né per i campi a frequenza industriale né per quelli a radiofre-quenze». Stranamente, il rapporto dell’OMS non viene mai menziona-to quando si cita il PdP a questo proposito.

Secondo la Commissione Europea (2000), «il ricorso al PdP pre-suppone l’identificazione di effetti potenzialmente negativi che deri-vino da un fenomeno, da un prodotto o da una procedura, nonchéuna valutazione scientifica del rischio». Quindi perché venga invoca-to il PdP è necessario che sia stata chiaramente identificata la sua na-tura di potenziale danno alla salute, anche se con incertezze sull’en-tità dei rischi ipotizzati e sull’effettivo nesso causale. Questo chiari-mento della Commissione Europea risolve solo parzialmente il pro-blema. Infatti, la letteratura epidemiologica abbonda di studi che se-gnalano associazioni statistiche tutte da verificare sul piano eziologi-co; la letteratura medica riporta innumerevoli case reports interpreta-bili come primo segnale di un problema sanitario, ma che potrebbepoi rivelarsi infondato.

Il PdP crea quindi una situazione di conflitto con il metodo scien-tifico che può essere superata solo rispondendo a due domande:

• Quale grado di evidenza scientifica è necessario perché un ri-schio sanitario o ambientale possa dirsi “identificato”?

E, di converso, • Quanta mancanza di evidenza scientifica è necessaria perché

un agente, un fenomeno o un’attività umana possano essere conside-rati “innocui”?

Le due domande sono solo apparentemente speculari. Mentre in-fatti solidi studi positivi, nel senso che indicano un effetto, possonofornire la “prova di pericolosità”, nessuno studio negativo, per quantoampio e solido può fornire la “prova di innocuità”.

Significativo in proposito è il fatto che la classificazione dell’Agen-zia Internazionale sulla Ricerca sul Cancro (IARC) prevede, ad unestremo, la categoria delle sostanze “cancerogene”, ma all’altro estre-

82 I costi della non-scienza

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mo non va oltre la definizione di “probabilmente non cancerogene”.La parola “innocuo” dovrebbe quindi a rigore scomparire dal dizio-nario scientifico; il problema che si pone è stabilire quanta evidenzascientifica negativa (nel senso sopraindicato) deve accumularsi perchéqualche cosa corrisponda a ciò che, nel parlare e nel sentire comune,viene considerato come “innocuo”. La risposta non è univoca perchéè soggettivo non solo il concetto di innocuità, ma anche la percezionedei rischi, influenzata spesso più da fattori psicologici che dalle cono-scenze scientificamente oggettive. Tutto ciò rende inutilmente difficilela gestione di molti problemi sanitari, di potenziali farmaci e di farma-ci già in commercio. O del problema dei campi elettromagnetici sopraaccennato.

E ancora: il richiamo alla responsabilità professionale degli addettiai lavori è pressante nell’impianto normativo in vigore nell’UnioneEuropea: esso sottintende l’ipotesi che le moderne tecnologie biologi-che siano potenzialmente pericolose e che sia quindi necessario otte-nere un progressivo consenso sociale sulle loro utilizzazioni produtti-ve in ambito sanitario, agricolo ed industriale.

Per quanto riguarda la salute in generale, se tenessimo conto delPdP, che viene spesso portato come paladino della difesa della salute edell’ambiente, come ci dovremmo comportare con l’inquinamentoprodotto dalle macchine e dal riscaldamento che notoriamente puòportare a malattie respiratorie ed oncologiche? Chiedere la rottama-zione delle auto e vivere al freddo?

La scienza non risolve ovviamente i problemi della salute, ma se cisono dei problemi correlati alla salute sia per quanto riguarda i nuovifarmaci che altri problemi generali, il metodo scientifico offre le rispo-ste più attendibili perché l’indagine e la verifica dei risultati poggia sulrigore critico della comunità scientifica e certamente non sulle emo-zioni della gente o sui preconcetti o peggio ancora sulle idee politiche.Pertanto al PdP, che non è un criterio scientifico, va senz’altro sosti-tuito il metodo scientifico. Esso si basa sui seguenti passaggi:

ANALISI PRELIMINARE: Domande alle quali dare una risposta.Per esempio: Qual è la causa dell’AIDS?

TEORIA: Sulla base delle conoscenze disponibili viene formulatauna teoria: l’AIDS è una malattia infettiva che dipende da un virus.

83Il principio di precauzione e la salute

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IPOTESI SPERIMENTALE: 1) Se l’AIDS dipende da un virusdobbiamo trovare un virus nel paziente; 2) Il virus isolato dovrebbeprovocare in un modello sperimentale di laboratorio danni simili aquelli della malattia.

SPERIMENTAZIONE: Analizzando il sangue dei pazienti si trovasempre il virus HIV e questo conferma la solidità della teoria virale.

CONFERMA E RIPRODUCIBILITÀ DEI DATI: Pubblicati que-sti dati su riviste scientifiche autorevoli, questi dati devono essere con-fermati. Se non venissero confermati si ritorna alle fasi precedenti.

L’HAART ha rivoluzionato la storia naturale dell’HIV/AIDS, tra-sformandola da una malattia evolutiva e spesso mortale in pochi anni amalattia cronica sostanzialmente gestibile, con una riduzione significa-tiva del passaggio da HIV ad AIDS e di mortalità in pazienti conAIDS. L’HAART è stato uno dei più grandi progressi medici del secoloscorso in campo farmacologico. L’AIDS è stato descritto per la primavolta nel 1981, vi è stata la scoperta del virus che lo causa nel 1983, so-no stati disponibili un test del sangue nel 1985 e, dopo pochi anni, unaterapia in grado di rendere spesso cronica questa infezione, che primaera mortale in tutti i casi. E pensare che c’è chi dice che l’HIV non è lacausa dell’AIDS, come ad esempio il presidente del Sud Africa che sibasa su affermazioni screditate dello scienziato Duesberg. Nel frattem-po vi è chi si lamenta perché i farmaci anti-HIV non vengono resi di-sponibili al Sud Africa.

Di fronte ad una sopravvivenza sostanzialmente migliorata in pocotempo per merito dell’HAART, non sarebbe stato accettabile pensareagli eventuali effetti secondari tossici a medio e lungo termine causatidai farmaci dell’HAART. Cosa avrebbero potuto dire i pazienti conHIV/AIDS se qualcuno avesse proposto di attendere 5-10 anni pervalutare gli eventuali effetti collaterali dell’HAART (che poi si sonoeffettivamente riscontrati, per esempio lipodistrofia ed altri, comed’altra parte succede quasi sempre con una terapia cronica)?

Altre circostanze nelle quali il PdP dovrebbe essere sostituito dal-l’applicazione del metodo scientifico sono il cosiddetto elettrosmog,l’agricoltura che usa OGM e quella biologica, l’energia nucleare el’uranio impoverito.

Come detto in precedenza, la scienza non risolve ovviamente i pro-blemi della salute, ma se ci sono dei problemi correlati alla salute sia

84 I costi della non-scienza

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per quanto riguarda i nuovi farmaci che altri problemi generali, è ilmetodo scientifico che offre le risposte più attendibili. Pertanto, ilPdP va senz’altro sostituito dal metodo scientifico e comunque daquanto le Agenzie nazionali ed internazionali preposte, costituite daricercatori esperti nell’argomento, e che si basano su quanto gli scien-ziati hanno riportato sull’argomento, possano enunciare.

Infine va ribadito che tutti noi quando riportiamo dei dati scientifi-ci, dovremmo sempre ricordare di citare le Agenzie nazionali ed inter-nazionali che riportano quanto stiamo dicendo, oppure ricerche pub-blicate sulle riviste più autorevoli e che sono confermate da altri. Secosì non fosse, il nostro discorso dovrebbe essere sempre molto cautoe comunque mai definitivo.

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PIANTE GM: UNA GRANDE OPPORTUNITÀ PER

L’AGRICOLTURA ITALIANA

Francesco SalaUniversità di Milano

«I o mangio cibi naturali perché sono sicuri»: due errori in unafrase. Primo errore: tutte le piante coltivate dall’uomo perprodurre cibo, mangimi per animali e prodotti di interesse

industriale, non sono “naturali”. Il pomodoro, il frumento, il riso, ilmais sono il risultato di incroci, mutazioni e selezioni operate negli ul-timi millenni e, soprattutto, nel secolo appena concluso.

Secondo errore: la correlazione “cibo naturale/assenza di rischi” èscientificamente infondata. La maggior parte delle piante produce ve-leni, tossine e sostanze cancerogene. Ciò ha un significato biologico edevolutivo: la pianta produce questi composti per difendersi dai suoiparassiti (insetti, funghi, virus, animali che se ne cibano).

L’uomo, ha selezionato piante che, apparentemente, non gli sonotossiche o ha imparato a renderle commestibili. Oggi la scienza ci aiu-ta in questa selezione; ad esempio, si è di recente scoperto che le gio-vani piantine di basilico usate per il “pesto genovese” contengono me-til-eugenolo, una sostanza che può provocare tumori. Ma la scienza haanche chiarito che la concentrazione di questa sostanza scende al disotto del livello di guardia nelle foglie di piante adulte: basta prepara-re il pesto con piante più alte di 10 centimetri. Un altro esempio delfatto che i rischi accompagnino anche l’alimentazione, sia tradizionalesia biologica: nel novembre 2003 la Regione Lombardia dovette ordi-nare la distruzione del 20% del latte ivi prodotto perché contaminatoda aflatossine. Si tratta di molecole che causano diverse gravi patolo-gie, tra cui anche tumori.1 Il fatto è stato circoscritto alla Lombardiaperché questa è stata l’unica regione che abbia effettuato appropriati

1 Turner et al., Mutation Research 443, p. 81-93 (1999).

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88 I costi della non-scienza

controlli, ma non vi è ragione di escludere che anche il resto dell’Italiasia a rischio. Perché le aflatossine nel latte? Perché un componenteimportante della dieta degli animali da latte è il mais. Su quest’ultimospesso cresce un fungo parassita che produce micotossine, tra cui leaflatossine stesse. Queste, assorbite dall’animale, vengono accumulatenel latte.

Tabella 1. Alcuni rischi della agricoltura tradizionale e di quella biologica

Per la salute umana:

1. Sostanze tossiche o tumorigene nella pianta (es.: basilico giovanecontiene metileugenolo, un cancerogeno)

2. Sostanze allergeniche (es.: 15 allergeni nel Kiwi)3. Residui di composti chimici usati come fitofamaci in agricoltura

(fertilizzanti, diserbanti, insetticidi, fungicidi)4. Presenza di tossine fungine nei prodotti agricoli (aflatossine, fumo-

sine, ocratossine).

Per l’ambiente:

1. Diffusione di polline (es.: pioppo coltivato che, con il suo polline,riduce la biodiversità del pioppo naturale)

2. Colonizzazione di ecosistemi (es.: robinia, Ailantus, un melo infe-stante nel Parco del Ticino)

3. Impoverimento dei suoli4. Eutrofizzazione delle acque5. Inquinamento delle falde acquifere (es.: atrazina nelle risaie degli

anni Sessanta-Settanta).

È dimostrato che il rischio aflatossine è molto più alto nelle coltiva-zioni biologiche ove il controllo del fungo è più problematico rispettoal mais tradizionale e, soprattutto al mais-Bt, una pianta transgenicache ha acquisito un gene che conferisce resistenza alla piralide, un in-

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89Piante GM: una grande opportunità …

setto parassita. Ma cosa c’entra l’insetto con i funghi che produconoaflatossine? I dati sperimentali mostrano che un mais che cresca sano,perché non attaccato dalla piralide, il suo principale parassita nei no-stri campi, riesce a resistere meglio alle infezioni fungine. In esso leaflatossine risultano dunque assenti o ridotte a tracce. L’agricoltura,ed i suoi prodotti, non sono dunque esenti da rischi. Alcuni di questisono riassunti in Tabella 1.

Eppure oggi il Principio di Precauzione viene invocato solo quandosi tratti di piante transgeniche (conosciute anche come piante geneti-camente modificate, o piante GM). Quante volte nei dibattiti pubblicimi sono sentito chiedere: «Lei, come scienziato, ci può dare la sicurez-za che le piante GM siano assolutamente esenti da rischi, sia presentiche futuri? Se la scienza non ci dà questa certezza, meglio il non-fa-re!». La mia risposta è sempre stata articolata su due punti fondamen-tali: il primo è che la scienza, in qualsiasi settore, non dà mai sicurezzeassolute. Con i suoi metodi di indagine, sempre più sofisticati, può da-re altissime garanzie, ma mai la sicurezza assoluta. Il secondo concer-ne il fatto che, in tutte le attività umane, la sicurezza è sempre un con-cetto relativo: in ogni specifica situazione essa è correlata con il livellodi tolleranza del rischio che si accetta in confronto con i benefici chederivano dall’attività stessa.

Il rischio zero non esiste in alcuna attività umana. Di fronte alleinnovazioni tecnologiche, ed in ogni attività quotidiana, noi eseguia-mo, anche inconsciamente, un’analisi dei rischi e dei benefici; edagiamo di conseguenza. Ma questo non sempre segue regole raziona-li. La decisione è soggettiva. L’irrazionalità e la paura viscerale delnuovo giocano ruoli spesso rilevanti. Consideriamo rischi accettabiliquelli legati alla motorizzazione anche se ogni anno, solo in Italia,questa uccide 6.000 persone, ne rende disabili altre 200.000, inquinale città, danneggia l’ambiente ed il patrimonio artistico. L’accettiamoperché, comunque, pensiamo che i benefici dell’usare l’auto sianosuperiori ai rischi. Ma, allo stesso tempo, ci spaventa la notizia cheun vaccino, come il Sabin, che pur previene la poliomielite, causi lamalattia in un vaccinato ogni 2 milioni. La maggioranza degli italianisi dichiara poi contraria ai cibi GM anche se questi, dopo dieci annid’uso in molti paesi del mondo non hanno mai scatenato nemmenoun raffreddore.

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90 I costi della non-scienza

Eppure oggi, nel nostro Paese, e solo nel caso delle piante GM, ilPrincipio di Precauzione è stato trasformato in Principio di Blocco.Gruppi di opinione (e di interesse economico ed anche politico) han-no condotto una ben orchestrata campagna contro le biotecnologievegetali, ingigantendone alcuni rischi, quelli comuni alle pratiche agri-cole in genere, ed inventandone altri. Di conseguenza, alcune Regionisi sono dichiarate GM-free; e il Governo, delle piante GM, ha bloc-cato sia l’uso sia la ricerca.

A nulla vale la considerazione che miliardi di persone nel mondoproducono e usano piante GM. E ciò dopo che i loro governi hannocondotto approfondite analisi dei rischi; la ricerca ha dimostrato chenon vi è stato un solo caso riconosciuto di tossicità per l’uomo, di in-duzione di allergenicità, di danni ambientali, di flusso genico, di atten-tato alla biodiversità. Tutte le accuse mosse alle piante GM fanno dun-que parte del “potrebbe”, del “non è da escludere che”, non dello“scientificamente dimostrato”.

I controlli preventivi hanno dunque funzionato! Le piante GM«Sono più sicure di quelle tradizionali perché accuratamente control-late»; questa è la conclusione cui è giunto Philippe Busquin, il Com-missario Europeo per la Ricerca Scientifica nella prefazione del libro,edito dalla Comunità Europea, dal titolo EC-sponsored Research onSafety of Genetically Modified Organisms. Busquin è pienamente au-torizzato a fare questa affermazione, in quanto basata su di una ricercacondotta per 15 anni in 400 istituti di ricerca europei con una spesa di70 milioni di euro.

Eppure, ancora oggi nel nostro Paese si pretende che le piante GMsiano bloccate sino a che non avremo la sicurezza assoluta dell’assenzadi rischi attuali e futuri. Rischi esisteranno sempre in agricoltura (siabiologica, sia tradizionale, sia GM) come in tutte le altre attività uma-ne. Compito della scienza non può essere che quello di verificare, casoper caso, il livello di rischio ed offrire alla società parametri per le de-cisioni sulla accettabilità di ogni nuova varietà vegetale proposta perl’uso agricolo. E ciò nonostante che le leggi oggi vigenti stabiliscanoche una nuova varietà debba essere approfonditamente controllataper eventuali rischi per la salute umana e per l’ambiente nel caso incui questa sia classificata come GM. I controlli devono essere effettua-ti prima di ricevere la licenza di uso agricolo. Non è così per le piante

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91Piante GM: una grande opportunità …

migliorate geneticamente per incrocio o per mutagenesi con radiazio-ni o con composti chimici mutageni. Queste ricevono sempre il per-messo di coltivazione se solo dimostrano di essere una nuova varietà,non una copia di una varietà già esistente. Eventuali rischi saranno ve-rificati a posteriori sulla salute dei consumatori o sull’ambiente ove sa-ranno coltivate!

Eppure le precauzioni prese nel caso delle piante GM non sono ri-tenute sufficienti. Si è instaurata una spirale perversa: se le piante GMsono controllate è perché sono pericolose. Questa è il messaggio chearriva all’opinione pubblica. Ma se sono pericolose, è auspicabile chevi siano ulteriori controlli e restrizioni. E così l’autorità politica va in-contro alla domanda del pubblico ed introduce ulteriori controlli e re-strizioni. Ma allora sono davvero molto pericolose! E ciò porta alla ri-chiesta di ulteriori controlli: si è creato il mostro, anzi, il cibo diFrankestein! Al contrario, il prodotto agricolo tradizionale non è con-trollato. Il messaggio per l’opinione pubblica è che questo non abbiarischi. Non parliamo del cibo biologico, oggi vicino alla santificazione:è il cibo bucolico dei nostri nonni! Sapori meravigliosi e assenza di ri-schio, almeno nell’immaginario creato da una interessata e ben orche-strata campagna pubblicitaria. Interessata perché la principale caratte-ristica del prodotto biologico è il “maggior valore aggiunto”; in parolepovere, il maggior guadagno da parte del produttore e del venditore.

La domanda è: è sensato proporre che si valuti il rapportorischi/benefici delle piante GM e che le si blocchino se sarà evidenzia-to un rapporto inaccettabile, ma le si accettino quando i rischi risulti-no ridotti ed i benefici notevoli? La logica impone che il rapporto ri-schi/benefici sia valutato caso per caso, in quanto dipenderà sia dallaspecie di pianta, sia dal gene integrato, sia anche dal sito geograficoove si intende coltivare la pianta. Ma qual è il livello di rischio accetta-bile? Non è difficile stabilirne il valore soglia. La regola potrebbe esse-re: si confronti, sempre caso per caso, il rapporto rischi/benefici offer-to oggi da una specifica coltivazione (ad esempio mais) con quella resapossibile dalla disponibilità della stessa pianta migliorata per inseri-mento di uno specifico gene (ad esempio, mais-Bt, che resiste agli at-tacchi della piralide senza necessità di insetticidi).

Sarebbe auspicabile che procedure di valutazione analoghe venis-sero adottate anche nel caso delle piante non-GM (incluse quelle usa-

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te nella cosiddetta agricoltura biologica). Ma forse oggi è sperare trop-po nel nostro paese! Oggi è anche troppo proporre che il nostro paeseriprenda gli studi sui rischi e sui benefici delle piante GM: semplice-mente, è oggi proibito produrre le piante GM su cui fare tali studi.

«Ma il messaggio basato sulla sola scienza non sembra far presa»,questa è l’opinione espressa anche dal commissario U.E. per la salutee la protezione dei consumatori, David Byrne, che, affrontando in unrecente Convegno il tema piante GM dal punto di vista del contrastotra paura irrazionale e giusta preoccupazione, ha rilevato che «il fumouccide, ma molti continuano a fumare, mentre le stesse persone nonvogliono mangiare un biscotto GM, anche se tutte le prove scientifi-che relative agli alimenti GM dicono che sono sicuri almeno quantogli alimenti tradizionali».

Perché siamo arrivati a tanto? Probabilmente perché una ben orga-nizzata campagna condotta sui mass media, ed in tutte le possibili oc-casioni mediatiche, ha ormai snaturato il senso del Principio di Precau-zione. Questo, che avrebbe dovuto essere il principio logico su cui ba-sare tutte le decisioni riguardanti i nuovi sviluppi tecnologici, è dive-nuto, per la sua aleatorietà, un mezzo per difendere posizioni integra-liste contro sviluppi tecnologici indesiderati.

Inoltre, non è facilmente percepito dal cittadino il fatto che spesso,nelle attività umane, il non-fare può avere conseguenze più gravi delfare. Si prendano gli esempi del passato: chi autorizzerebbe oggi, inbase all’estrema cautela che si pretende per le piante GM, la speri-mentazione dei vaccini contro le malattie infettive: l’iniezione di batte-ri o virus patogeni ancora vivi per stimolare la risposta immunitaria sa-rebbe considerata pura follia! Chi autorizzerebbe oggi, in base allastessa cautela, l’introduzione nella dieta europea, dalle Americhe, diun cibo esotico quale la patata, che contiene solanina, una sostanzatossica che inattiviamo con la cottura? Eppure abbiamo appena intro-dotto un nuovo cibo esotico, il kiwi, con le sue 15 proteine allergeni-che: ma non è GM!

In definitiva, ciò che è realisticamente possibile chiedere alle pianteGM non è l’eliminazione totale dei rischi, ma la riduzione del loro li-vello già accettato nell’agricoltura attuale e l’aumento dei benefici.Questo è quello che si deve chiedere allo scienziato, non una impossi-bile sicurezza assoluta.

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93Piante GM: una grande opportunità …

L’attuale uso restrittivo del Principio di Precauzione sta portandol’agricoltura italiana alla morte e quella europea alla perdita di compe-titività con le agricolture americana, asiatica ed africana. Senza inno-vazione tecnologica, stiamo assistendo ad un invecchiamento delle no-stre varietà coltivate, all’aumento dei costi dei prodotti agricoli, all’au-mento dei rischi alimentari correlati con la presenza di livelli preoccu-panti di micotossine e batteri patogeni nei cibi tradizionali e, soprat-tutto, nei cibi biologici.

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GREEN BIOTECHNOLOGY COULD SAVE MILLIONSOF LIVES – BUT IT CANNOT BECAUSE OF ANTI-

SCIENTIFIC, EXTREME-PRECAUTIONARYREGULATION

Ingo PotrykusProfessor emeritus in Plant Sciences, ETH Zürich, Switzerland

Biofortification can complement traditional interventions againstmalnutrition

I n developing countries 500,000 per year become blind and up to6,000 per day die from vitamin A-malnutrition. And this isdespite enormous efforts from public and philanthropic

institutions to reduce this medical problem with the help oftraditional interventions such as supplementation, fortification,encouragement for diet diversification, etc. This heavy toll poorpeople in developing countries are paying to vitamin A-malnutritionwill continue year by year, if we do not find a way to complementtraditional interventions by sustainable and unconventional ones. Oneof those could be based on nutritional improvement of basic staplecrops via “bio-fortification” – genetic improvement with regards tomicronutrients and vitamins. Plant breeding and genetic engineeringoffer two complementing approaches.

The major micronutrient deficiencies concern iron, zinc, andvitamin A. Vitamin A-deficiency is wide-spread amongst rice-depending poor because rice does not contain any pro-vitamin A(Plants do not produce vitamin A but pro-vitamin A (carotenoids),which our body converts into vitamin A). Dependence on rice as thepredominant food source, therefore, necessarily leads to vitamin A-deficiency if poverty prevents a diversified diet, most severelyaffecting children and pregnant women. The medical consequencesfor the vitamin A-deficient 400 million rice-consuming poor aresevere: impaired vision – in the extreme case irreversible blindness –impaired epithelial integrity against infections, reduced immune

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96 I costi della non-scienza

response, heamopoieses, skelettal growth, etc. Rice containing pro-vitamin A could substantially reduce the problem, but “bio-fortification” of rice for pro-vitamin A is not possible without geneticengineering. The transgenic concept, therefore, was based on the ideato introduce all genes necessary to activate the biochemical pathwayleading to synthesis and accumulation of pro-vitamin A in theendosperm (the starch storage tissue of the seed).

The scientific breakthrough with pro-vitamin A

Golden Rice contains the genes necessary to activate thebiochemical pathway for pro-vitamin A. This pathway is activatedexclusively in the endosperm. The intensity of the “golden colour”represents the concentration of pro-vitamin A. There are differentlines with different concentrations. We aim at concentrations, where adaily diet of 200g of rice will provide enough pro-vitamin A tosubstantially reduce vitamin A deficiency. The concentration requiredfor this purpose can only be determined, when data from bio-availability studies are available. Experiments on these lines are inprogress, but will take until end of 2005. So far we are working withlines in which -theoretically – the concentration is high enough forour goal.

The novel trait has been transferred into several Indica ricevarieties – especially IR 64, the most popular rice variety of SoutheastAsia – and “regulatory clean” events have been selected to facilitatethe processing through the deregulatory process. [Ye, X., Al-Babili,S., Klöti, A., Zhang, J., Lucca, P., Beyer, P., Potrykus, I. (2000),«Engineering provitamin A (β-carotene) biosynthetic pathway into(carotenoid-free) rice endosperm», Science 287, 303-305. Beyer P, Al-Babili S, Ye X, Lucca P, Schaub P, Welsch R, Potrykus I (2002),«Golden Rice, introducing the β-carotene biosynthetic pathway intorice endosperm by genetic engineering to defeat vitamin-Adeficiency», J. Nutrition 132, 506S-510S. Tran Thi Cuc Hoa, SalimAlBabili, Patrick Schaub, Ingo Potrykus, and Peter Beyer (2003),«Golden Indica and Japonica rice lines amenable to deregulation»,Plant Physiology 133, 161-169].

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97Green biotechnology could save millions of lives…

Golden Rice will be made freely available in a humanitarian project

Golden Rice will be made available to developing countries in theframework of a “Humanitarian Golden Rice Project”. This was fromthe beginning a public research project, designed to reducemalnutrition in developing countries. Thanks to strong support fromthe private sector and donations of “free licences for humanitarianuse” for intellectual property rights involved in the basic technology,the hurdle of extended IPR linked to the technology used in thescientific project could be overcome. This enables us to collaboratewith public rice research institutions in developing countries on thebasis of “freedom-to-operate” towards the development of locallyadapted Golden Rice varieties. Once Golden Rice varieties havepassed the national bio-safety procedures, it will be made available tosubsistence farmers free of charge and limitations. It will become theirproperty and they can – year after year – use part of their harvest forthe next sowing (without paying anything to anybody). The farmerswill use their traditional farming systems and they will not require anyadditional agronomic inputs. Therefore, there will be no “newdependencies” from anyone. And there is no conceivable risk to anyenvironment which would justify not to grow Golden Rice in the fieldfor breeding and up-scaling reasons. This progress since the scientificbreakthrough in 1999 was possible thanks to a novel type of “public-private-partnership”. Thanks to an agreement with Syngenta andother agbiotech industries, the use of Golden Rice is free of licensesfor “humanitarian use”, defined as “income from Golden Rice peryear and farmer below $ 10.000 “Commercial use”, however, (above $10.000 per year) requires a license from Syngenta. Humanitarian useis based on (license-free) sublicenses from the Humanitarian GoldenRice Board to public rice research institutions. This sublicenseagreement ensures that the material is handled according toestablished GMO rules and regulations, and that the targetpopulation – subsistence farmer and urban poor -receive the materialwithout any additional cost for the trait.

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Locally adapted varieties are being developed in national institutionsin the framework of a Humanitarian Golden Rice Networkunder the guidance of a Humanitarian Golden Rice Board

Development of locally adapted Golden Rice varieties as well asapplication to national bio-regulatory authorities for field testing andderegulation is in the hands of national and international public riceresearch institutions. To date this “Humanitarian Golden RiceNetwork” includes 16 such institutions in Bangladesh, China, India,Indonesia, South Africa, The Philippines, and Vietnam. The network isunder the strategic guidance of the Humanitarian Golden Rice Board,and under the management of a network coordinator with office at theInternational Rice Research Institute (IRRI), Philippines. TheHumanitarian Board has, so far, no legal status and benefits from theexpertise of international authorities such as Dr. Gurdev Khush, retiredfrom IRRI (rice breeding), Prof. Robert Russell, Laboratory for HumanNutrition, Tufts University Boston (vitamin A-malnutrition), Dr.Howarth Bouis, International Food Policy Research Institute (IFPRI)Washington (bio-fortification), Dr. Gary Toenniessen, The RockefellerFoundation New York (food security in developing countries), Dr.Robert Bertram, USAid Washington (development in Third Worldagriculture), Dr. Adrian Dubock, Syngenta (product development andintellectual property rights), Dr. Ren Wang / Dr. William Padolina IRRI(international cooperation in rice research), Professor Peter Beyer (co-inventor) university of Freiburg (scientific progress underlying bio-fortification in pro-vitamin A and other micronutrients), Dr. KatharinaJenny, Swiss Development Cooperation Bern (technology transfer andtrans-sectorial issues), and Professor Ingo Potrykus (co-inventor),retired from ETH Zuerich, chairman (public relations and information).

Biofortified seeds have an unmet potential for sustained solutions

Bio-fortification (complementation for missing micro-nutrients withthe help of genetic complementation) of the basic staple crops for poorpopulations in developing countries is, most probably, the mostsustainable and cost-effective approach to reduction in micro-nutrientmalnutrition. (For more information on the concept of bio-fortification

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99Green biotechnology could save millions of lives…

and a recent challenge program of the CGIAR see homepagewww.harvestplus.org). Golden Rice represents the first example of bio-fortification achieved via genetic engineering. Research investment forthis trait (bio-fortification for pro-vitamin A) was relatively modest ($2,4 million over 9 years) and financed from funds for basic research.

Product development, however, from this scientific brake-throughis time consuming and requires additional funding, but again one-timeonly for each event. Expenses are increasing really dramatically whenworking through the bio-safety assessments required for deregulation.But again this is a one-time investment. As soon as a novel biofortifiedvariety is deregulated and can be handed out to the farmer, the systemdemonstrates its unique potential, because from this point on, thetechnology is built into each and every seed and does not require anyadditional investment, for an unlimited period of time. Just considerthe potential of a single Golden Rice seed: Put into soil it will grow to aplant which produces, at least, 1 000 seeds; a repitition will yield atleast 1 000 000 seeds; next generation produces already 1 000 000 000seeds and in the fourth generation we arrive at 1 000 000 000 000seeds. These are 20 000 metric tons of rice and it takes only two yearsto produce them. From these 20 000 tons of rice 100’ 000 poor cansurvive for one year, and if they use Golden Rice they have anautomatic vitamin A supplementation reducing their vitamin A-malnutrition, and this protection is cost-free and sustainable. All afarmer needs to benefit from the technology is one seed! There is noadditional input required compared to “normal rice”. And for urbanpoor there is no premium on vitamin A-rice. There are enough seedsto be handed out to many farmers, but this can not be done, becauseGolden Rice is a “GMO” (genetically modified organism) and thoseare highly regulated. And the Humanitarian Golden Rice Board hasdecided to follow the established rules and regulations.

Extreme precautionary regulation, however, prevents use so far andignores the potential benefits

Considering the history of Golden Rice (the technology is oftenconsidered risky because it is so fast!) it took 10 years (from 1980 to1990) to develop the necessary technology of placing genes into rice. It

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100 I costi della non-scienza

took further 9 years (from 1990 to 1999) to introduce the genesrequired to establish the biochemical pathway leading to pro-vitaminA in the seed. And it took further 5 years (from 1999 to 2004) todevelop a Golden Rice “product” and carry it across a series of GMO-specific hurdles such as IPRs. And it will take, probably, at least 5more years to advance the first Golden Rice product through thederegulatory procedure: Therefore, it took 30 years if we includetechnology development, and it took still 20 years for the singlespecific case. Considering that Golden Rice could substantially reduceblindness (500 000 per year) and death (2-3 million per year) 20 yearsare a very long time period, and I do not think that anyone shouldcomplain that this was “to fast”! If it were possible to shorten the timefrom science to the deregulated product, we could prevent blindnessfor hundreds of thousands of children! However, the next 5 years willhave to be spent on the required “bio-safety assessments” to guaranteethat there is no putative harm from Golden Rice for the environmentand the consumer. Nothing speaks against a cautious approach, butpresent regulatory praxis follows an extreme interpretation of the“precautionary principle” with the understanding that not even theslightest hypothetical risks can be accepted or left untested, and at thesame time all putative benefits are totally ignored. Looking at GoldenRice and the problem of environmental risk assessment discloses howirrational the present system operates : The author has, over the lastfour years, not found any ecologist, including those from the“professional GMO-opposition”, who could construct a half-wayrealistic hypothetical risk from Golden Rice to any agronomic or wildenvironment. This is not surprising because the entire biology of thesystem – low amounts of additional b-carotene in the endosperm inplants which are loaded with b-carotene in every organ except for theroot – does not provide for any selective advantage in anyenvironment, and therefore can not pose any substantial risk. Despitethis fact Golden Rice is still awaiting the first permission for the firstsmall-scale field release, in which environmental risks have to bestudied experimentally! So far to the “risk” side of the equation. Andthe “benefit”? Golden Rice could prevent blindness and death ofhundreds of thousands of children but can not do so, so far, becauserisk assessment notoriously is ignoring a risk-benefit analysis!

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Present Deregulation is extremely demanding on time and financialresources

What then is required for the deregulatory procedure? First of all,it is advisable to focus on one carefully selected transgenic event,which is as “regulatory clean” as possible – that is, it must not includecharacters which are a priori unpopular with regulatory authorities,such as “multiple integrations”, “rearrangements”, “read-throughacross T-DNA borders”, “microbial origins of replication”, “ballastDNA”, etc. This requires the production of many hundreds of similartransgenic events with the same DNA construct. This construct itselfmust have been assembled taking into account the requirements ofthe regulatory authorities in the later deregulation process. Only whenworking on the basis of a “regulatory clean construct” and with“regulatory clean transformation technology” there is a chance tosurvive the deregulation. Such a carefully selected event can then beused to start the series of bio-safety assessment experimentstraditionally expected to prove or disprove any putative bio-safetyhazard. (It is a waste of time to enter the process with material whichis not “regulatory clean” at the onset). The consequence of thisapproach is, that nearly 99% of transgenic events, and often thosewith the highest levels of expression, have to be discarded. Alreadythis first step of mass production of many hundreds of similar eventsand subsequent destruction of most is beyond the scope of any publicresearch institution, not only in developing but also in developedcountries. No funding agency would be willing to finance this step.This is, however, the first prerequisite for entering the deregulationprocedure with some chance for success.

Once the right material is ready, bio-safety assessment can start.There are “event-independent” studies which refer to the introducedgenes and their function in general, and which are valid for all eventsproduced with these genes. “Exposure evaluation” for the novel trait,(e.g., pro-vitamin A in rice) studies the intended use and bio-availability. This study alone takes about 3 years, because the materialhas to be produced in specific plant growth chambers due to the lackof permission for field release (see above!). “Protein production andequivalence” analyses the proteins through which the genes fulfil their

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function. For this purpose the proteins have to be isolated from theplant, biochemically characterized, and their function confirmed.Lack of homology to toxins and allergens, rapid degradation ingastric/intestinal studies, heat lability, acute toxicity in rodent feeding,screening for further putative allergens and toxins are assumed toensure that no unintended toxin or allergen will be consumed withGolden Rice. This seems reasonable if we ignore that most peoplehave eaten these genes and gene-products throughout his/her lifefrom other food sources. To study, as has been proposed, whetherDaffodil toxins have been introduced into Golden Rice (one gene isfrom Daffodil and it is not advisable to consume Daffodil )demonstrates how far an assessment can be from science: what hasbeen transferred is one defined piece of DNA with no relationwhatsoever to any toxin or allergen!). These studies take at least 2years of intensive work in a well equipped biochemistry laboratory.What has been described, so far, was only an introduction; the realwork comes with the “event-dependent” studies: “Molecularcharacterization and genetic stability” (single copy effect; marker geneat same locus; simple integration; Mendelian inheritance over at leastthree generations; no potential gene disruption; no unknown openreading frames; no DNA transfer beyond borders; no antibioticresistance gene or origin of replication; insert limited to the minimumnecessary; insert plus flanking regions sequenced; phenotypicevidence and biochemical evidence for stability over threegenerations). “Expression profiling” (Gene expression levels at keygrowth stages; evidence for seed-specific expression); “Phenotypeanalysis” (Field performance, typical agronomic traits, yield comparedto isogenic lines; pest and disease status same as origin).“Compositional analysis” (Data from two seasons times six locationstimes three replications on proximates, macro- and micro-nutrients,anti-nutrients, toxins, allergens; data generated on modified andisogenic background). “Environmental risk assessment”. This requires4-5 years of an entire research team.

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No public scientist or institution can afford such a deregulationprocedure

It is rather obvious, that no scientist nor scientific institution in thepublic domain has the potential, or funding, or motivation to performsuch bio-safety experiments. It is, therefore, no surprise, that virtuallyall transgenic events, so far, taken through the deregulatory procedureare (directly or indirectly) from the private sector and carry thepotential for substantial financial reward. Humanitarian projects tothe benefit of the poor obviously do not fall into this category,although the benefit would apply to many millions. There is a lot ofgood intention world wide in the public sector to exploit the potentialof green biotechnology for the benefit of the poor in developingcountries. If our society, however, continues with the present“extreme precautionary” approach to bio-safety assessment, it isabsolutely unrealistic to invest any further funds into public researchfor this purpose. Of course, there would be interesting scientificprogress, but there will be no product, and especially no productpassing through regulation. And, consequently, all this work will haveno practical output and nobody in the target population would haveany benefit.

Extreme precautionary regulation is there for a number of reasons,but none of those is justified

Why then do we have this GMO-regulation? First of all, there arehistoric reasons. At the beginning of GMO-technology developmentit was sensible to be careful (“precautionary”) and the scientiststhemselves – at that time working not with plants but with human-pathogenic micro-organisms – established regulations based on thenotion that the consequence of the technology could lead to“unpredictable genome alterations”. Experience, after more than 20years with transgenic plants and their practical application on 50million hectares farmland as well as from many hundreds of “bio-safety” experiments in which bio-safety questions in context withtransgenic plants have been carefully studied, led to numerousoriginal publications and reports from academic institutions which all

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come to the conclusion, that there is no specific risk associated withthe technology, which would exceed risks inherent anyhow totraditional plant breeding or natural evolution. (For a discussion onthe moral imperative of the use of genetically modified crops indeveloping countries please see Nuffield Council On Bioethics, Follow-up discussion paper January 2004, www.nuffieldbioethics.org).

Why then do we maintain GMO regulation and even extend it toever more extreme precautionary regulation? The answer to thisquestion often follows the notion that we have to do so to built trust inthe technology for its acceptance by the consumer. Experience withthis strategy over the last 10 years, however, demonstrates clearly thatthis approach did not work in Europe and many developing countries,and this is not surprising. How should a “normal” citizen understandthat his/her government is regulating a technology in an extremerestrictive manner, if this technology is without specific risks. Everyunbiased citizen will, of course, assume that his/her government istaking rational decisions and the technology must be as dangerous asthe regulation implies. Consequently, maintenance of extremeprecautionary regulation builds mistrust instead of trust. Why then dowe not at least clear regulation from all scientifically unjustified andopportunistic ballast to build a rational regulatory procedure? It seemsthat not many institutions have an interest or the political power to doso. If we consider the potential GMO technology has with regards tofood security in developing countries than numerous internationalorganizations should have an interest, but neither FAO, nor WHO orUNIDO will have the courage and power to do so. What prize is oursociety paying for this opportunistic attitude towards an established“extreme precautionary regulatory” system, in function world-wide?Very clearly: GMO-technology will not reduce hunger and malnutrition,and will not protect the environment in developing countries. The use ofthe technology will be restricted to “luxury projects”, with safefinancial returns, of the private sector and in developed countries.There will, of course, be some spin-offs from these projects intodeveloping countries, and these may even carry some benefits for thepoor – such as “insect-resistant cotton”, but there will be no productdevelopment focussing on urgent and specific needs of the poor indeveloping countries, such as “food security”!

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Justification for extreme precautionary regulation ignores the basicgenetic facts of traditional crop varieties

GMO technology has the potential to support and to complementtraditional plant breeding. In the context of the discussion on GMO-regulation, which is justified with the argument that geneticengineering leads to “unpredictable genome alterations” it may behelpful to remember a few basic facts concerning all our plant-basedfood which is derived from crop plant varieties, which, without anyexception, have been developed through traditional plant breeding.

Traditional Plant breeding leads to totally unpredictable and mostsevere alterations of the genome

Plant breeding is using the technique of “crossing followed byselection” to combine traits of agronomic and nutritional interest andto exclude undesired traits. Starting material for this procedure are“landraces” of crop plants, originally identified and selected byindigenous farmers. Landraces differ from each other in traits becausethey differ in “mutations”. Mutations are “unpredictable genomealterations.” In the course of traditional breeding the technology addsun-deliberately and automatically further (in parts very dramatic)“unpredictable genome alterations such as “recombinations”,“translocations”, “deletions”, “inversions”, etc. These“unpredictable” and “most severe” genome alterations areaccumulated at every breeding step and each new traditionally bredvariety is thus based on, and characterized by an increasing array ofsuch genome alterations. With the progress of the breeding processvarieties are combined with varieties, often with related wild relativesof the crop plants, often further altered in their genome by inducedmutations. All our modern crop varieties – from which we derive ourfood – have a long history and are composed of numerous previousvarieties and there is not the slightest doubt possible, that all ourtraditionally bred crop varieties are most extensively “geneticallymodified” by hundreds if not thousands of “unpredictable genomealterations”. This is, of course, also true for those varieties used byorganic farmers. We just do not call them “GMO’s”!

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Every traditionally bred modern crop variety is most intensively“genetically modified”

All this is exemplified in the “breeding tree” leading to IR64, themost popular Indica rice variety, developed at the International RiceResearch Institute, Philippines and grown all over Southeast Asia.The pictures shows graphically how intensively the original ricegenome (represented by blue boxes) has been “genetically modified”by “mutations” (yellow bars), “recombinations” (red bars),“translocations” (blue bars) and “deletions” (light-blue bars) to finallyarrive at the genome of IR64. Neither this variety, nor anyone of thosewho have been channelled into the breeding tree have everexperienced any “bio-safety assessment” and billions of consumers indeveloping countries have consumed IR64 (as all the other rice orcrop varieties) and survived on this and the preceding varietieswithout any harm, and there was no unpredictable harm to theenvironment as well. And this holds true for all the other varieties inall the other crops – despite of all the “most dramatic andunpredictable alterations to the genome”! Actually, nobody couldsurvive without eating food from “genetically modified” crops.

“Genetically engineered” varieties differ from the “geneticallymodified” ones in small, precise, similar, and well studiedalterations

For Golden Rice we have taken this variety IR64 and added twoprecisely defined genes into the 50 000 gene-genome of rice, using atechnology which is by orders of magnitude more precise thantraditional breeding, to provide pro-vitamin A in the seed to reducevitamin A-malnutrition. This is now an example of a “geneticallyengineered” variety – a “GMO” – and such a plant is now fallingunder “extreme precautionary” regulations despite the fact, that theengineering step is, in comparison to the history of IR64 extremelysmall, perfectly predictable, most detailed studied and without anygreater risk to the consumer or the environment. The reader is invitedto find the difference between IR64 and Golden IR64 in the pictureabove!

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There is no scientific justification to treat “genetically engineered”crops different from “genetically modified” ones

Our experience with traditionally developed crop varieties tells usvery clearly that “unpredictable genome alterations” are not anargument for extreme regulation. Why are they now, and beyond anylogic, the key argument for extreme regulation of “geneticallyengineered” plants? The argument that genes may come fromdifferent organisms and would never have found their way into aGMO can not be accepted as well. We all know that genes areconnected by a continuum in evolution and are closely related and the“crossing barrier” between species is a mechanism to advanceevolution within a species, but not to prevent introduction of genes.Why are GMO’s singled out from the normal breeding tree andtreated according to the established rules and regulations of anextreme precautionary principle, thus preventing their sensible use tothe benefit of the poor. This, to the authors understanding, is againstany logic and takes us back into the historical time period of “MiddleAges” and before the “Age of Enlightenment”. As this attitude issingling out “green biotechnology” from nearly all other moderntechnologies, it seems obvious, that there is a deliberate campaignwith a hidden political agenda.

Extreme precautionary regulation without risk-benefit analysis isimmoral and highly destructive

What are the consequences of the extreme precautionary regulationof green biotechnology for public research towards food security indeveloping countries? There are numerous scientists and institutions indeveloping countries who have the capacity, motivation, and ofteneven funding to work towards scientific progress in the areas of pest-,disease-, drought-, heat-, cold-, saline-, heavy metal resistance with thepotential to rescue harvests and to expand agricultural productivity tohostile environments; to improve photosynthetic efficiency and toenhance the exploitation of natural resources to increase productivity;to enhance nutritional content to reduce malnutrition with regards tomicro-nutrients such as vitamin A etc. Very few of those, however,

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have the financial and mental capacity to transform a scientific successinto an applicable “product”, which is the first prerequisite for benefitof the poor from a scientific advance. Probably no scientist norinstitution in the public domain, however, have the resources,experience, and determination to carry a single GMO product acrossthe hurdles of to days extreme precautionary regulatory procedures.Regulatory authorities in developing countries are less experienced,more insecure, and therefore, more stringent than their colleagues indeveloped countries. Even with support from the experienced privatesector deregulation of a novel GMO product has become a gigantictask. It is, therefore, very obvious that, if we continue with the presentregulatory standards, the potential of green biotechnology will notreach the poor.

In the 19th century a cultural taboo let to the tragic death of an 18year old princess

In the 21st century ignorance of our society leads to avoidable miseryand death of millions

“Genetically engineered” plants are not unusual plants, filled withmysterious dangers for the consumer and the environment. Europecan be proud of its cultural heritage of the “Age of Enlightenment”and should rather listen to the advice of science than that of “witchhunters”. It is Europe’s responsibility to help developing countries toharness the potential of green biotechnology, however the Europeanattitude badly affects the attitude in developing countries. Europe canafford such an attitude because it can buy whatever it wants on theworld market. However, for developing countries this attitude leads tounnecessary death and misery of many millions. With citations fromthe follow-up discussion paper of the Nuffield Council on Bioethics2004: “The European Union is ignoring a “moral imperative” topromote genetically modified crops for their great potential forhelping the developing world.” “We beleive EU regulators have notpaid enough attention to the impact of EU regulations on agriculturein developing countries.” Our societies have wasted too much time inphase of “risk-obsession”. Stop following the “wrong prophets”!

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LE BIOTECNOLOGIE IN AGRICOLTURAPOTREBBERO SALVARE MILIONI DI VITE, MA

NORMATIVE ANTI-SCIENTIFICHE EDECCESSIVAMENTE PRECAUZIONALI LO

IMPEDISCONO1

Ingo PotrykusProfessor emeritus in Plant Sciences, ETH Zuerich, Switzerland

Il bio-arricchimento può aiutare gli interventi tradizionali contro la denutrizione

N ei paesi in via di sviluppo 500.000 persone ogni anno diven-tano cieche e fino a 6.000 ogni giorno muoiono a causa di ca-renza di vitamina A. Questo, nonostante gli enormi sforzi

delle istituzioni pubbliche e filantropiche per ridurre questo problemamedico con l’ausilio dei metodi tradizionali quali arricchimento, forti-ficazione e incoraggiamenti alla diversificazione della dieta, etc. Que-sto prezzo elevatissimo che i poveri dei paesi in via di sviluppo stannopagando alla “carenza di vitamina A” continuerà anno dopo anno senon troveremo un modo per affiancare gli interventi tradizionali conaltri non convenzionali e sostenibili. Uno di questi potrebbe essere ba-sato sul miglioramento nutrizionale delle colture di sussistenza attra-verso il “bio-arricchimento”, il miglioramento genetico del contenutodi micronutrienti e vitamine. Il miglioramento genetico vegetale e l’in-gegneria genetica offrono due approcci complementari.

Le principali carenze di micronutrienti riguardano il ferro, lo zin-co e la vitamina A. La carenza di vitamina A è largamente diffusa traquei poveri che hanno come alimento di base il riso, in quanto il risonon contiene pro-vitamina A (le piante non producono vitamina A,ma pro-vitamina A (carotenoidi), che il nostro corpo converte in vita-mina A). La dipendenza dal riso come prevalente fonte di cibo, per-tanto, porta necessariamente a carenza di vitamina A, se la povertà è

1 Traduzione curata da Davide Ederle

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110 I costi della non-scienza

tale da non consentire diversificazioni della dieta, colpendo soprattut-to bambini e donne in gravidanza. Le conseguenze a livello medicoper i 400 milioni di consumatori di riso, carente di vitamina A, sonogravi: indebolimento della vista, nei casi più estremi cecità irreversibi-le, deterioramento dell’integrità epiteliale contro infezioni, riduzionedelle difese immunitarie, dell’emopoiesi e della crescita delle ossa, etc.Un riso contenente la pro-vitamina A potrebbe ridurre notevolmenteil problema, ma il “bio-arricchimento” del riso per la pro-vitamina Anon è possibile senza l’utilizzo dell’ingegneria genetica. L’approcciotransgenico, quindi, è stato basato sull’idea di introdurre tutti i geninecessari ad attivare la via metabolica di sintesi ed accumulo di pro-vitamina A nell’endosperma (il tessuto di immagazzinamento del-l’amido nel seme).

La scoperta scientifica per la pro-vitamina A

Il Golden Rice contiene i geni necessari per attivare la via metaboli-ca per la sintesi di pro-vitamina A. Questa via è attivata solo nell’en-dosperma. L’intensità della “colorazione dorata” indica la concentra-zione di pro-vitamina A (Figura 1). Esistono diverse linee vegetali condiverse concentrazioni. Noi puntiamo a concentrazioni per le qualiuna assunzione giornaliera di 200 grammi di riso fornisca abbastanzapro-vitamina A da ridurre notevolmente la carenza vitaminica. Laconcentrazione richiesta a tale scopo potrà essere determinata soloquando saranno disponibili i dati degli studi sulla biodisponibilità. Gliesperimenti su queste linee sono in corso, ma bisognerà aspettare finoalla fine del 2005. Per ora stiamo lavorando con linee vegetali in cui,teoricamente, le concentrazioni soddisfano i nostri obiettivi.

Il nuovo carattere è stato inserito in diverse varietà di riso Indica –in particolare IR 64, la varietà di riso più comune nel sudest asiatico –e sono stati selezionati eventi che sono stati ritenuti “in regola con lanormativa” per facilitare il processo di autorizzazione. [Ye, X., Al-Ba-bili, S., Klöti, A., Zhang, J., Lucca, P., Beyer, P., Potrykus, I. (2000),«Engineering provitamin A (β-carotene) biosynthetic pathway into(carotenoid-free) rice endosperm», Science 287, 303-305. Beyer P, Al-Babili S, Ye X, Lucca P, Schaub P, Welsch R, Potrykus I (2002), «Gol-

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111Le biotecnologie in agricoltura potrebbero salvare …

den Rice, introducing the β-carotene biosynthetic pathway into riceendosperm by genetic engineering to defeat vitamin-A deficiency», J.Nutrition 132, 506S-510S. Tran Thi Cuc Hoa, Salim AlBabili, PatrickSchaub, Ingo Potrykus, and Peter Beyer (2003), «Golden Indica andJaponica rice lines amenable to deregulation», Plant Physiology 133,161-169].

Il Golden Rice sarà reso disponibile gratuitamente in un progettoumanitario

Il Golden Rice verrà messo a disposizione dei paesi in via di svilup-po all’interno del “Progetto Umanitario Golden Rice”, che fin dall’ini-zio è stato un progetto di ricerca pubblico pensato per ridurre la mal-nutrizione dei paesi in via di sviluppo. Grazie al forte sostegno del set-tore privato e alle donazioni di “brevetti a titolo gratuito per scopiumanitari” sulle tecnologie di base, si sono superati gli ostacoli legatialla proprietà intellettuale relativa alla tecnologia usata in questo pro-getto. Questo ci consente di collaborare con i centri di ricerca pubbli-ci dei paesi in via di sviluppo sul riso sulla base di una “libertà di ope-rare” per sviluppare varietà di riso adatte alle condizioni locali. Quan-do il Golden Rice avrà superato le procedure di biosicurezza nazionali,verrà reso disponibile a chi fa agricoltura di sussistenza gratuitamentee senza alcuna limitazione. Diventerà di loro proprietà ed essi potran-no, anno dopo anno, usare parte del raccolto per la semina successiva(senza pagare niente a nessuno). Gli agricoltori useranno le loro tradi-zionali tecniche agricole e non avranno bisogno di alcun nuovo inputagronomico. Non ci sarà quindi alcuna “nuova dipendenza” da nessu-no. E non è concepibile alcun rischio a qualunque ambiente che giu-stifichi la scelta di non coltivare il Golden Rice in campo aperto per laselezione o la riproduzione. Questo sviluppo, dalla scoperta del 1999,è stato possibile grazie ad un nuovo tipo di collaborazione tra pubbli-co e privato. Grazie ad un accordo con Syngenta ed altre industriebiotech, l’uso del Golden Rice è libero da brevetti per “uso umanita-rio”, inteso come “un reddito da Golden Rice per anno e per agricol-tore inferiore ai $ 10.000”. L’uso commerciale, invece, (sopra i 10.000dollari per anno) richiede una licenza di Syngenta. L’uso a scopi uma-nitari è basato su una “sottolicenza” (senza royalties) della Commis-

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sione Umanitaria Golden Rice agli istituti pubblici di ricerca sul riso.Questo accordo assicura che il materiale sia stato trattato secondo leleggi ed i regolamenti stabiliti per gli OGM, e che la popolazione percui è stato pensato, agricoltori di sussistenza e poveri, riceva il mate-riale senza alcun costo aggiuntivo per questo carattere.

Varietà adatte alle condizioni locali sono state sviluppate da istitutinazionali all’interno del Network Umanitario Golden Rice sottola guida della Commissione Umanitaria Golden Rice

Lo sviluppo di varietà di Golden Rice adattate alle condizioni loca-li, così come la richiesta alle autorità nazionali per le sperimentazioniin campo e l’autorizzazione, sono nelle mani degli istituti di ricercapubblici sul riso nazionali ed internazionali. Ad oggi il “NetworkUmanitario Golden Rice” comprende 16 istituzioni in Bangladesh, Ci-na, India, Indonesia, Sud Africa, Filippine, e Vietnam. Il network èsotto la guida strategica della Commissione Umanitaria Golden Rice, ela gestione è affidata ad un coordinatore che ha base presso l’Interna-tional Rice Research Institute (IRRI), nelle Filippine. La CommissioneUmanitaria, per ora, non ha validità legale e beneficia della competen-za di autorità internazionali quali Dr. Gurdev Khush, in pensionedall’IRRI (miglioramento genetico del riso), Robert Russell, Laborato-rio di Nutrizione Umana, Tufts University Boston (malnutrizione lega-ta alla vitamina A), Dr. Howarth Bouis, International Food Policy Re-search Institute (IFPRI) Washington (bio-arricchimento), Dr. GaryToenniessen, The Rockefeller Foundation, New York (sicurezza ali-mentare nei paesi in via di sviluppo), Dr. Robert Bertram, USAid Wa-shington (sviluppo dell’agricoltura nel terzo mondo), Dr. Adrian Du-bock, Syngenta (sviluppo del prodotto e diritti di proprietà intellet-tuale), Dr. Ren Wang/Dr. William Padolina IRRI (cooperazione inter-nazionale di ricerca sul riso), Professor Peter Beyer (co-inventore)University of Freiburg (progresso scientifico, in particolare bioarric-chimento in pro-vitamina A ed altri micronutrienti), Dr. KatharinaJenny, Swiss Development Cooperation Bern (trasferimento tecnologi-co e questioni trans-settoriali), e Professor Ingo Potrykus (co-invento-re), presidente in pensione dell’ETH di Zurigo (relazioni pubbliche einformazioni).

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113Le biotecnologie in agricoltura potrebbero salvare …

I semi bio-arricchiti hanno potenzialità ineguagliabili per otteneresoluzioni durevoli

Il bio-arricchimento (aggiunta di micronutrienti carenti attraversola genetica) delle coltivazioni più utilizzate dalla popolazione poveranei paesi in via di sviluppo è, molto probabilmente, l’approccio piùsostenibile ed economicamente vantaggioso per la riduzione dellamalnutrizione da micronutrienti. (Per maggiori informazioni sul con-cetto di bio-arricchimento e su un recente programma del CGIAR sivisiti il sito www.harvestplus.org). Il Golden Rice rappresenta il primoesempio di bio-arricchimento ottenuto attraverso l’ingegneria geneti-ca. L’investimento per la ricerca su questo carattere (bio-arricchimen-to in pro-vitamina A) è stato relativamente modesto (2,4 milioni didollari in 9 anni) e finanziato con fondi per la ricerca di base.

Lo sviluppo del prodotto, tuttavia, dal momento della scopertascientifica richiede molto tempo e ulteriori fondi, ma comunque è uninvestimento che va fatto una sola volta per evento. Le spese stannodrammaticamente aumentando da quando lavoriamo sulla valutazionedella biosicurezza, richiesta per il processo di autorizzazione, ma an-che in questo caso è un investimento che va fatto una sola volta. Ap-pena una nuova varietà bio-arricchita viene autorizzata e può essereconsegnata all’agricoltore, il sistema mostra come il suo potenziale siaunico, poiché da questo punto in poi la tecnologia è racchiusa in cia-scun seme e non richiede nessun ulteriore investimento per un perio-do di tempo illimitato. Considerate il potenziale di un singolo seme diGolden Rice. Messo in campo diventerà una pianta che produce, al-meno 1000 semi. Ripetendo l’operazione si otterranno 1.000.000 semi;la generazione successiva produrrà già 1.000.000.000 semi e con laquarta generazione si arriverà a 1.000.000.000.000. Questo significa20.000 tonnellate di riso in soli due anni. Con 20.000 tonnellate di risopossono sopravvivere per un anno 100.000 poveri, e se si usa GoldenRice essi avranno un supplemento di vitamina A in grado di ridurre laloro malnutrizione, e questa protezione è gratuita e sostenibile. Unagricoltore per trarre beneficio dalla tecnologia ha bisogno solo di unseme! Nessun input addizionale rispetto al “riso normale”. Per la po-polazione povera che vive nelle città inoltre non c’è alcuna maggiora-zione di prezzo per l’acquisto del Golden Rice (Figura 2).

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Sono disponibili semi a sufficienza per molti agricoltori, ma questonon può essere fatto perché il Golden Rice è un “OGM” (organismogeneticamente modificato), e quindi strettamente regolamentato. E laCommissione Umanitaria per il Golden Rice ha deciso di sottostare al-le leggi ed ai regolamenti in vigore.

Normative eccessivamente precauzionali, comunque, ne hannoimpedito l’uso e ignorano i potenziali benefici

Considerando la storia del Golden Rice (la tecnologia è spesso con-siderata rischiosa perchè avanza molto velocemente!), ci sono voluti10 anni (dal 1980 al 1990) per sviluppare la tecnologia necessaria perintrodurre geni nel riso. Ci sono voluti altri 9 anni (dal 1990 al 1999)per inserire i geni della via metabolica che porta alla produzione dipro-vitamina A nel seme. E altri 5 anni (dal 1999 al 2004) per svilup-pare il “prodotto” Golden Rice e superare quella serie di ostacoli spe-cifici per gli OGM, come i diritti di proprietà intelletuale. Probabil-mente ci vorranno almeno altri 5 anni prima che il primo prodottoGolden Rice venga approvato. Ci sono voluti quindi 30 anni, com-prendendo i tempi di sviluppo della tecnologia, 20 per un singolo casospecifico. Tenendo presente che il Golden Rice può ridurre notevol-mente la cecità (500.000 casi all’anno) e i decessi (2-3 milioni all’an-no), ci si rende conto che 20 anni sono un lungo periodo di tempo, ecredo che nessuno possa lamentarsi della rapidità! Se fosse stato pos-sibile abbreviare il periodo di tempo tra la fine della fase scientifica el’approvazione del prodotto, centinaia di migliaia di bambini sarebbe-ro stati salvati dalla cecità! Comunque, i prossimi 5 anni dovranno es-sere spesi per la valutazione della biosicurezza, al fine di garantire cheil Golden Rice non presenti rischi per l’ambiente ed i consumatori.Nessuno intende parlar male di un approccio cauto, ma la normativavigente ha fatto sua una interpretazione radicale del principio di pre-cauzione, tale per cui neanche il più piccolo rischio può essere accet-tato o non testato, e allo stesso tempo tutti i possibili benefici vengonoignorati. Considerando il caso del Golden Rice e tutto il problema del-la valutazione dei rischi ambientali, si rivela l’irrazionalità dell’attualesistema: l’autore del presente intervento, negli ultimi quattro anni,non ha trovato nessun ecologista, incluso quelli che fanno dell’opposi-

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zione agli OGM una professione, che abbia potuto costruire un’ipote-si di rischio agronomico o ambientale per il Golden Rice. Questo nonstupisce poichè l’intera biologia del sistema, piccole quantità addizio-nali di beta-carotene nell’endosperma di piante che lo contengono intutti gli organi tranne che nelle radici, non fornisce nessun vantaggioselettivo, in nessuna condizione, e quindi non apporta alcun rischiosostanziale. Nonostante ciò il Golden Rice è ancora in attesa del primopermesso riguardante il primo rilascio su piccola scala, in cui i rischiambientali dovranno essere studiati sperimentalmente! Fin qui i ri-schi, e i benefici? Il Golden Rice potrebbe evitare la cecità e la mortedi centinaia di migliaia di bambini, ma non lo può fare perchè la valu-tazione del rischio, come è noto, non tiene conto di un’analisi rischi-benefici!

L’attuale sistema di autorizzazione richiede molto tempo e molterisorse finanziarie

Cos’è dunque richiesto per l’approvazione? Innanzitutto, è consi-gliabile focalizzarsi attentamente su di un unico evento transgenico se-lezionato, che deve essere il più “a posto” possibile secondo la norma-tiva, il che significa che non deve includere caratteristiche che sono apriori poco popolari tra gli organismi di controllo come “integrazionimultiple”, “riarrangiamenti”, “read-through attorno al T-DNA”, “ori-gini di replicazione microbiche”, “ballast DNA”, etc. Questo richiedela produzione di diverse centinaia di eventi transgenici simili, con lostesso costrutto di DNA. Il costrutto stesso deve essere costruito con-siderando le richieste degli organismi che nelle fasi successive di ap-provazione lo valuteranno. Solo lavorando con un “costrutto a posto”da un punto di vista normativo si ha una probabilità di sopravvivere alprocesso di approvazione. Un evento selezionato con tale accuratezzapuò essere usato per iniziare la serie di esperimenti per la valutazionedella bio-sicurezza che in genere ci si aspetta provino o escludanoogni putativo rischio legato alla biosicurezza. (È una perdita di tempoiniziare il processo con materiale che non sia “a posto” fin dall’inizio).La conseguenza di questo approccio è che circa il 99% degli eventitransgenici, e spesso quelli con i più alti livelli di espressione, devonoessere scartati. Già questo primo passaggio di produzione di un gran

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numero di eventi simili e la seguente distruzione della maggior partedi essi, è ben oltre lo scopo di ogni centro di ricerca pubblico, non so-lo nei paesi in via di sviluppo, ma anche in quelli sviluppati. Nessunaagenzia finanzierebbe questo passaggio. Questo comunque è il primoprerequisito per entrare nella procedura di autorizzazione con qual-che possibilità di successo.

Una volta che il materiale “buono” è pronto, può iniziare la valuta-zione della biosicurezza. Ci sono degli studi che sono “indipendentidall’evento transgenico scelto” che sono centrati sui geni introdotti esulla loro funzione in generale, e quindi validi per ciascun evento pro-dotto con quei geni. La “valutazione dell’esposizione” per il nuovo ca-rattere (come la pro-vitamina A nel caso del riso) studia l’utilizzo ipo-tizzato e la biodisponibilità. Ci vogliono 3 anni solo per questo studio,perché il materiale deve essere prodotto in speciali camere di crescita,a causa della mancanza del permesso di coltivazione in campo (vedisopra!). Le analisi di “produzione della proteina ed equivalenza” ana-lizzano le proteine attraverso cui i geni svolgono la loro funzione. Aquesto scopo le proteine devono essere isolate dalla pianta, vengonocaratterizzate biochimicamente e ne viene confermata la funzione. Peressere sicuri che nessuna tossina o allergene siano ingeriti con il riso,vengono effettuati studi su: omologia con tossine o allergeni, degrada-zione nel tratto gastro-intestinale, labilità al calore, tossicità acuta suroditori, ed uno studio per ulteriori possibili allergeni e tossine. Que-sto sembra ragionevole solo se si ignora che la maggior parte dellepersone ha già ingerito in vita sua questi geni o i loro prodotti attra-verso altre fonti alimentari. La richiesta di studiare, come è stato pro-posto, se fosse stata introdotta nel Golden Rice anche qualche tossinadella Giunchiglia (un gene viene dalla Giunchiglia e non è consigliabi-le mangiare Giunchiglie) dimostra quanto la procedura di valutazionesia lontana dalla scienza: ciò che è stato trasferito è un determinatotratto di DNA che non ha alcuna relazione con tossine o allergeni!Questo studio ha richiesto 2 anni di intenso lavoro in un laboratoriobiochimico ben attrezzato. Ciò che è stato fin qui descritto è solo l’ini-zio: il vero lavoro comincia con gli studi “evento-dipendenti”: “carat-terizzazione molecolare e stabilità genetica” (effetto del gene a singolacopia; del marker genico nello stesso locus; l’integrazione semplice;l’eredità mendeliana per almeno tre generazioni; nessun richio di rot-

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tura del gene; nessuna open reading frame sconosciuta; nessun trasferi-mento di DNA oltre i bordi del T-DNA; nessun gene di resistenza agliantibiotici o origine di replicazione; inserto limitato al minimo neces-sario; sequenza dell’inserto più le sequenze fiancheggianti; evidenzafenotipica e biochimica di stabilità su 3 generazioni). “Profilo diespressione” (livelli di espressione genica agli stadi chiave dello svilup-po; evidenza di espressione seme-specifica); “Analisi fenotipica” (pre-stazioni in campo, tratti agronomici tipici, resa rispetto alle linee iso-geniche; resistenza ai parassiti e alle malattie comparabile a quelle ini-ziali); “Analisi composizionale” (dati su 2 stagioni per 6 località ripe-tute 3 volte, macro e micronutrienti, anti-nutrizionali, tossine, allerge-ni; con dati generati rispetto alle linee modificate e isogeniche); “Valu-tazione del rischio ambientale”. Questo da solo richiede 4-5 anni diun intero gruppo di ricerca (Figura 3).

Nessun istituto pubblico può affrontare una tale procedura diapprovazione

È abbastanza ovvio che nessuno scienziato né istituto scientificopubblico ha il potenziale, o i finanziamenti, o le motivazioni per svol-gere tali esperimenti sulla biosicurezza. Non deve quindi sorprendereil fatto che praticamente tutti gli eventi transgenici sottoposti alla tra-fila di approvazione provengano (direttamente o indirettamente) dalsettore privato e abbiano il potenziale per un significativo ritorno eco-nomico. I progetti umanitari a beneficio della popolazione povera ov-viamente non rientrano in questa categoria, pur avendo effetti beneficisu milioni di persone. C’è molta buona volontà nel mondo, all’internodel settore pubblico, a far fruttare il potenziale delle biotecnologie“verdi” a beneficio dei poveri nei paesi in via di sviluppo. Se però lanostra società continua a portare avanti questo approccio estrema-mente precauzionale è assolutamente irrealistico investire ulteriorifondi pubblici a questo scopo. Naturalmente, ci saranno interessantiprogressi scientifici, ma nessun prodotto, e in particolare nessun pro-dotto autorizzato; e, di conseguenza, tutto questo lavoro non avrebbeapplicazioni pratiche e nessuna delle persone per cui sono stati pensa-ti ne avrà beneficio.

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Una normativa estremamente precauzionale c’è per molte ragioni,ma nessuna di queste è giustificabile

Perché allora abbiamo questa normativa sugli OGM? Innanzituttoabbiamo motivazioni storiche. All’inizio dello sviluppo della tecnologiaOGM era ragionevole essere cauti (precauzionali) e gli stessi scienziati,che in quel momento non lavoravano con piante bensì con microrgani-smi patogeni per gli esseri umani, stabilirono delle normative basatesull’idea che la conseguenza della tecnologia potesse portare a “impre-vedibili alterazioni del genoma”. L’esperienza, dopo più di 20 anni di la-voro su piante transgeniche e sul loro utilizzo su 50 milioni di ettari, co-sì come le diverse centinaia di esperimenti in cui si è studiata con moltaattenzione la biosicurezza delle piante transgeniche portando a numero-se pubblicazioni e resoconti di istituti accademici, conducono alla con-clusione che non c’è alcun rischio particolare associato alla tecnologiaoltre a quelli che si possono verificare con il miglioramento genetico tra-dizionale o l’evoluzione naturale (per una discussione sugli imperativimorali dell’uso di colture geneticamente modificate nei paesi in via disviluppo si veda Nuffield Council On Bioethics, follow-up discussion pa-per January 2004, nel sito Internet www.nuffieldbioethics.org).

Perché quindi si mantiene una tale normativa e, anzi, si tende a far-la diventare sempre più precauzionale? La risposta a questa domandaspesso prende le mosse dall’idea che questo serve per creare fiducianella tecnologia e renderla accettabile al consumatore. L’esperienzadegli ultimi 10 anni, in ogni caso, dimostra chiaramente che questoapproccio non ha funzionato in Europa e in molti paesi in via di svi-luppo, e questo non stupisce. Un cittadino “qualunque” come do-vrebbe interpretare il fatto che il suo governo sta regolamentando unatecnologia in modo estremamente restrittivo, se questa tecnologia nonpresenta rischi particolari? Ogni cittadino obiettivo, naturalmente,penserà che il suo governo sta prendendo delle decisioni ragionevoli,e che la tecnologia è tanto più regolamentata quanto più pericolosa. Ilmantenimento di normative eccessivamente precauzionali, di conse-guenza, porta a sfiducia invece che fiducia. Perché quindi non si creauna normativa libera da qualsiasi zavorra scientificamente non giustifi-cabile e non si mette a punto una procedura di approvazione raziona-le? Sembra che poche istituzioni abbiano l’interesse o il potere politi-

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co di farlo. Se consideriamo il potenziale della tecnologia OGM in te-ma di sicurezza alimentare2 nei paesi in via di sviluppo, allora risultachiaro che molte organizzazioni internazionali dovrebbero essere inte-ressate in tal senso, ma né FAO, né WHO, né UNIDO hanno il co-raggio e il potere di farlo. Che prezzo sta pagando la nostra società acausa di un atteggiamento opportunistico nei confronti di un radicato“sistema normativo estremamente precauzionale”, che opera su scalamondiale? Detto molto chiaramente: la tecnologia OGM a queste con-dizioni non potrà contribuire a ridurre la fame nel mondo né la malnu-trizione, e non potrà proteggere l’ambiente nei paesi in via di sviluppo.L’uso di tale tecnologia sarà ristretto a “progetti di lusso”, con sicuriritorni economici del settore privato nei paesi sviluppati. Ci sarannocertamente dei risultati ottenuti da questi progetti anche verso i paesiin via di sviluppo, e potranno portare anche qualche beneficio ai po-veri, come il “cotone resistente agli insetti”, ma non ci sarà alcun svi-luppo di prodotti focalizzati sulle urgenti necessità dei poveri nei pae-si in via di sviluppo, come ad esempio la “sicurezza alimentare”!

La giustificazione di una normativa estremamente precauzionale nontiene conto delle basilari conoscenze genetiche che abbiamodelle varietà tradizionali

La tecnologia OGM ha il potenziale per sostenere e integrare il mi-glioramento genetico tradizionale. Nel contesto di una discussionesulla normativa OGM, che si basa sull’idea che l’ingegneria geneticapossa portare a “imprevedibili alterazioni del genoma”, sarebbe utilericordare qualche dato di base riguardo tutti i nostri alimenti di deri-vazione vegetale, che provengono da varietà sviluppate, senza alcunaeccezione, grazie al miglioramento genetico tradizionale.

Il miglioramento genetico tradizionale porta a alterazioni del genomadrammatiche e totalmente imprevedibili

Il miglioramento genetico utilizza la tecnica “incrocio-selezione”per combinare caratteri di interesse agronomico e nutrizionale ed

2 Intesa in termini di security (disponibilità) e non di safety (salubrità)

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escludere i caratteri indesiderati. Il materiale di partenza per questoprocesso sono “varietà locali” delle piante coltivate, originalmente se-lezionate dai contadini locali. Le varietà locali differiscono tra loro peralcune caratteristiche dovute a “mutazione”. Le mutazioni sono “im-prevedibili alterazioni del genoma”. Pertanto, nel corso del migliora-mento genetico tradizionale la tecnologia involontariamente e automa-ticamente favorisce (in alcuni casi anche molto grandi) “alterazioni im-prevedibili del genoma” quali “ricombianazioni”, “traslocazioni”, “de-lezioni”, “inversioni”, etc. Queste “imprevedibili” e “importanti” alte-razioni del genoma vengono accumulate ad ogni passaggio di selezionee ciascuna nuova varietà tradizionale è quindi basata su, e caratterizza-ta da, una crescente serie di tali alterazioni del genoma. Con l’avanza-mento del processo di selezione le varietà vengono combinate con al-tre varietà, a volte anche con parenti selvatici delle piante coltivate; avolte invece il loro genoma viene alterato inducendo mutazioni. Tuttele nostre varietà moderne, dalle quali deriva il nostro cibo, hanno unlunga storia e sono derivate da numerose altre varietà precedenti e nonc’è il minimo dubbio che tutte le nostre varietà migliorate con metoditradizionali siano estensivamente “modificate geneticamente” da centi-naia se non migliaia di “imprevedibili alterazioni genomiche”. Questo,naturalmente, è vero anche per le varietà utilizzate dagli agricoltoribiologici. Solo che noi non le chiamiamo “OGM”! (Figura 4)

Ogni moderna varietà ottenuta con metodi tradizionali èprofondamente “modificata geneticamente”

Un esempio di tutto ciò lo troviamo nella storia del miglioramentogenetico che ha condotto all’IR64, la varietà di riso Indica più diffusa,sviluppata dall’Istituto Internazionale per la Ricerca sul Riso delle Fi-lippine e coltivata un po’ ovunque nel sudest asiatico. La figura mo-stra graficamente quanto profondamente il genoma originale del riso(rappresentato dal box blu) sia stato “modificato geneticamente” da“mutazioni” (barre gialle), “ricombinazioni” (rosse), “traslocazioni”(blu-scuro) e delezioni (azzurre) per arrivare infine al genoma del-l’IR64 (Figura 5).

Né questa varietà né nessun’altra di quelle che sono state utilizzatenel corso della selezione hanno subito alcun tipo di “valutazione di

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biosicurezza” e miliardi di consumatori nei paesi in via di sviluppo sisono alimentati con IR64 (così come tutte le altre varietà di riso o dialtre colture) e sono sopravvissuti a questo e alle precedenti varietàsenza alcun danno, e tantomeno vi è stato alcun imprevisto dannoall’ambiente. Questo è vero anche per tutte le altre varietà di tutte lealtre piante coltivate, nonostante tutte le “profonde ed imprevedibilialterazioni del genoma”! In verità, nessuno può sopravvivere senzamangiare cibo derivato da piante “geneticamente modificate”.

Varietà “geneticamente ingegnerizzate” differiscono da quelle“geneticamente modificate” per piccole, precise, similari e benstudiate modificazioni

Per il Golden Rice noi abbiamo adottato la varietà IR64 aggiungen-dole 2 geni ben definiti all’interno dei 50.000 contenuti nel genoma delriso, utilizzando una tecnologia che è alcuni ordini di grandezza piùprecisa di quella del miglioramento genetico tradizionale, per far pro-durre pro-vitamina A nei semi e per ridurre la carenza di vitamina A.

Questo è un esempio di varietà “geneticamente ingegnerizzata”, un“OGM”, e questa pianta oggi rientra all’interno di una normativa“estremamente precauzionale”, nonostante il fatto che il passaggio“ingegneristico” sia, rispetto alla storia dell’IR64, estremamente ridot-to, perfettamente prevedibile, studiato con maggior dettaglio e senzarischi superiori per l’uomo e per l’ambiente. Invito il lettore, nella fi-gura 6, a trovare la differenza tra l’IR64 e il Golden IR64!

Non vi è alcuna giustificazione scientifica per trattare le piante“geneticamente ingegnerizzate” in modo diverso da quelle“geneticamente modificate”

La nostra esperienza con le varietà sviluppate con metodi tradizio-nali ci dice molto chiaramente che le “imprevedibili alterazioni del ge-noma” non sono un argomento per richiedere una regolamentazioneestrema. Perché allora, contro ogni logica, questo è l’argomento chia-ve per giustificare la normativa sulle piante “geneticamente ingegne-rizzate”? Analogamente, l’argomentazione che i geni vengono da or-ganismi diversi e che non avrebbero mai potuto arrivare da soli in un

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OGM dovrebbe essere rigettata. Tutti noi sappiamo che i geni sonocollegati da un continuum all’interno dell’evoluzione e sono fortemen-te correlati tra loro e che la “barriera di fertilità” tra le specie è unmeccanismo per promuovere l’evoluzione all’interno della specie, maquesta non impedisce l’introduzione di singoli geni. Perché gli OGMdovrebbero uscire dalla normale procedura di breeding ed essere trat-tati secondo norme e regole stabilite secondo un rigidissimo Principiodi Precauzione, impedendo così un loro uso sensato a favore dei pove-ri? Questo, per gli autori, è contro ogni logica e ci riporta al Medioe-vo, prima dell’Illuminismo. Dato che questo comportamento sta iso-lando le “biotecnologie verdi” praticamente da tutte le altre modernetecnologie, pare evidente che è in atto una campagna organizzata chenasconde in realtà obiettivi politici.

Una regolamentazione estremamente precauzionale senza un’analisirischi/benefici è immorale e altamente distruttiva

Quali sono le conseguenze, di una normativa estremamente pre-cauzionale sulle “biotecnologie verdi”, per la ricerca pubblica sulla si-curezza alimentare nei paesi in via di sviluppo? Ci sono numerosiscienziati ed istituzioni nei paesi in via di sviluppo che hanno la capa-cità, la motivazione e spesso anche i fondi per lavorare per l’avanza-mento scientifico nei settori della resistenza delle piante ai parassiti,alle malattie, alla siccità, al calore, al freddo, alla salinità, ai metalli pe-santi, con il potenziale di salvare i raccolti e di espandere la produtti-vità agricola agli ambienti poco adatti; di aumentare l’efficienza foto-sintetica e di accrescere lo sfruttamento delle risorse naturali per au-mentare la produttività; di accrescere il contenuto nutrizionale per ri-durre la malnutrizione per i micronutrienti come la vitamina A, etc.Molto pochi, però, hanno la capacità finanziaria e mentale per trasfor-mare un successo scientifico in un “prodotto” utilizzabile, che è il pre-requisito per consentire ai poveri di beneficiare di un avanzamentoscientifico. Probabilmente nessuno scienziato o istituzione pubblica,in ogni caso, ha le risorse, l’esperienza e la determinazione per tra-ghettare un singolo prodotto OGM attraverso gli ostacoli delle attualiprocedure autorizzative estremamente precauzionali. Le Autorità dicontrollo dei paesi in via di sviluppo hanno meno esperienza, sono più

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insicure e quindi più rigorose delle loro controparti nei paesi svilup-pati. Anche con l’aiuto di uno specifico settore privato l’autorizzazio-ne di un nuovo prodotto OGM è diventato un compito spaventoso. Èquindi ovvio che, se si continuerà con gli attuali standard normativi, lepotenzialità delle biotecnologie verdi non raggiungeranno i poveri.

Nel XIX secolo un tabù culturale portò alla tragica morte di unaprincipessa di 18 anni (Figura 7)

Nel XXI secolo l’ignoranza della nostra società porta ad unaovviabile miseria e alla morte per milioni di persone

Le piante “geneticamente ingegnerizzate” non sono piante inusua-li, piene di misteriosi pericoli per i consumatori e l’ambiente. L’Euro-pa può essere orgogliosa della sua eredità culturale illuminista e do-vrebbe ascoltare i consigli della scienza piuttosto che quelli dei “cac-ciatori di streghe”. È una responsabilità dell’Europa aiutare i paesi invia di sviluppo ad esplorare il potenziale delle biotecnologie verdi, in-vece il suo comportamento influenza negativamente il comportamentodei paesi in via di sviluppo. L’Europa può permettersi questo compor-tamento dato che può comprare ciò che preferisce sul mercato mon-diale. Però, per i paesi in via di sviluppo, questo comportamento èfonte di morte e miseria non necessaria per molti milioni di persone.Citando il documento del 2004 del Nuffield Council sulla Bioetica:«L’Unione Europea sta ignorando l’“imperativo morale” di promuo-vere le piante geneticamente modificate per il loro grande potenzialedi aiutare i paesi in via di sviluppo».

Noi crediamo che i legislatori dell’Unione Europea non abbiamoprestato sufficiente attenzione all’impatto che la normativa dell’Unio-ne Europea ha sull’agricoltura dei paesi in via di sviluppo. Le nostresocietà hanno sprecato troppo tempo in questa fase di “ossessione delrischio”. Smettiamola di seguire i “cattivi profeti”!

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IL PRINCIPIO DI PRECAUZIONE E LEPROBLEMATICHE AMBIENTALI RELATIVE AL

SUOLO

Paolo Sequi e Fabio TittarelliIstituto Sperimentale per la Nutrizione delle Piante – Roma

Introduzione

I l ricorso ad un generico Principio di Precauzione (o principio pre-cauzionale) è stato previsto, durante gli ultimi anni, da numerositrattati internazionali, ma si è imposto all’attenzione dell’opinione

pubblica nel 1992. La formulazione più largamente conosciuta ed ac-cettata del Principio di Precauzione è quella riportata nel Principio 15della Dichiarazione Finale della Conferenza delle Nazioni Unitesull’Ambiente e sullo Sviluppo che si è tenuta a Rio de Janeiro (UN-CED, 1992), la quale stabilisce che: «Al fine di proteggere l’ambiente,l’approccio precauzionale sarà ampiamente applicato dagli Stati secon-do le rispettive capacità. Laddove ci siano minacce di danni seri o irre-versibili, la mancanza di piene certezze scientifiche non potrà costituireun motivo per ritardare l’adozione di misure, efficaci in termini di co-sti, volte a prevenire il degrado ambientale». Da allora, il Principio diPrecauzione è stato introdotto in numerose convenzioni e trattati inter-nazionali, incluso, tra gli altri, il Trattato di Maastricht sull’Unione Eu-ropea (EU, 1992), svolgendo un ruolo sempre più importante nello svi-luppo delle politiche ambientali. Allo stesso tempo, il problema relati-vo a quando e come utilizzare il Principio di Precauzione ha dato origi-ne a numerosi dibattiti a causa della percezione che in alcuni casi si siafatto ricorso ad un approccio semplificato o arbitrario. Negli ultimi an-ni l’adozione di decisioni accettate e l’uso di argomentazioni non scien-tifiche, come conseguenza di interpretazioni spesso fuorvianti, ha por-tato a lunghe discussioni sul Principio di Precauzione ed ha allarmato lacomunità scientifica. Ciò si è verificato anche per tutte le disciplinescientifiche riconducibili alla scienza del suolo. In particolare, i ricerca-

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126 I costi della non-scienza

tori impegnati in tali settori scientifici che per le loro competenze sonostati coinvolti, a livello sia nazionale che internazionale, in gruppi di la-voro e commissioni sulle principali problematiche ambientali e sanita-rie che hanno recentemente spaventato l’opinione pubblica (il riscalda-mento globale del pianeta, il rilascio di organismi geneticamente modi-ficati, la TSE/BSE,1 i POP,2 etc.), hanno molto spesso rilevato un usoimproprio del Principio di Precauzione.

La mancanza di dati, l’enorme varietà di suoli e di condizioni pe-doclimatiche rendono praticamente impossibile il raggiungimento diuna condizione di “piena certezza scientifica” nella determinazionedel rischio associato a queste problematiche, creando il presuppostoper il ricorso ad un vago Principio di Precauzione. La comunità scienti-fica ha, pertanto, cominciato a chiedere ed a lavorare per definire unametodologia applicativa del Principio di Precauzione, che di per sé nonviene rifiutato da tutti, ma di cui viene messo in discussione l’uso stru-mentale per prendere delle decisioni arbitrarie.

L’obiettivo di questo lavoro è di presentare un’analisi critica delladefinizione di Principio di Precauzione e delle linee guida per ridurre ilrischio di una sua applicazione arbitraria ai problemi del suolo, comenodo degli equilibri ambientali. Inoltre, lo scopo del presente studio èquello di sottolineare il ruolo che i ricercatori che si occupano di que-sta disciplina potrebbero svolgere nella valutazione del rischio, nellagestione delle problematiche sanitarie ed ambientali che coinvolgonoil comparto suolo e nell’individuazione degli abusi che si possonocommettere nel ricorso al Principio di Precauzione, trascurando magarialtri problemi che vengono invece sfiorati.

Incertezza scientifica e principio di precauzione

Come sopra evidenziato, il Principio di Precauzione costituisce unostrumento molto potente nelle mani dei politici, in quanto è previsto inmolti trattati e convenzioni delle Nazioni Unite. Tuttavia un suo usoimproprio potrebbe provocare una serie di effetti negativi sulla società

1 Encefalopatia Spongiforme Trasmissibile/Encefalopatia Spongiforme Bovi-na.

2 Persistent Organic Pollutant.

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127Il PdP e le problematiche ambientali relative al suolo

nel suo complesso. L’origine della controversia fra la comunità scienti-fica ed i proponenti del Principio di Precauzione, in risposta ad unacondizione di incertezza scientifica rispetto ad una specifica relazionepericolo-danno, è probabilmente semantica e sostanziale allo stessotempo. Da una parte, sappiamo che la conoscenza scientifica può esse-re suscettibile di essere fraintesa, anche quando non è neanche parzial-mente erronea. In ogni campo della scienza, infatti, non esiste la certez-za che nuove argomentazioni e/o nuovi risultati sperimentali non pos-sano in un futuro anche vicino sostituire alcune delle acquisizioniscientifiche precedenti. È nella stessa natura degli esperimenti scientifi-ci lasciare uno spazio al dubbio. Ciò potrebbe portare ad ulteriori veri-fiche ed eventualmente alla correzione e/o sostituzione anche di cono-scenze di carattere generale ampiamente accettate. D’altra parte, ed incontrasto con il significato ed i limiti della conoscenza scientifica, c’è ilsignificato della parola “principio”: un enunciato al quale si attribuiscevalidità universale in un determinato settore. Così, il Principio di Pre-cauzione potrebbe essere interpretato o come una mera applicazionedel comune buon senso oppure come una legge di base, volta ad evita-re la più remota possibilità di danno ogni qualvolta si proponga unanuova relazione pericolo-danno (Rogers, 2001). Secondo quest’ultimainterpretazione, il Principio di Precauzione potrebbe impedire la mag-gior parte delle attività delle nostre moderne società. Il problema fon-damentale è pertanto il possibile uso distorto del Principio di Precauzio-ne ed un argomento critico è quello relativo alla definizione delle con-dizioni entro le quali applicarlo. Logicamente, per quanto riportato so-pra, il Principio di Precauzione non può essere invocato ogni volta chesi presenti una condizione di incertezza scientifica, in quanto sussistesempre un grado di incertezza. Per questo motivo il riferimento alla“mancanza di piena certezza scientifica” della maggior parte delle Con-venzioni e dei trattati internazionali è fuorviante e inaccettabile.

Un altro aspetto altrettanto importante e mai sufficientemente con-siderato è che ogni normativa provoca conseguenze anche di notevoleportata dal punto di vista economico. Ogni provvedimento legislativoin campo igienico-sanitario e ambientale può mettere in moto o incre-mentare l’attività di industrie e di imprese produttive e di servizi. L’in-certezza scientifica può quindi essere utilizzata come motore dell’eco-nomia o per lo meno di qualche settore economico, magari avvantag-

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giandolo rispetto ad altri. La legislazione in campo igienico-sanitario èrelativamente più cauta, così come quella collegata nel settore dell’ali-mentazione umana ed animale. Quella in campo ambientale lo è mol-to meno, dato che gli equilibri ambientali di carattere generale sonomolto complessi e meno intuitivi ed è facile perseguire uno scopo dirisanamento di un ecosistema senza adombrare alcune controindica-zioni e provocare effetti negativi, anche inconsapevolmente, che pos-sono provocare danni molto più gravi degli effetti positivi che ci sipropone di conseguire.

Se si considera che gli obiettivi di miglioramento igienico-sanitario eambientale trovano di per sé non solo spinte favorevoli nelle industriee imprese interessate, ma anche un consenso quasi automatico nei de-cisori politici, nei mezzi di comunicazione di massa e nella popolazionein genere, si può capire che questo aspetto è tutt’altro che secondario.E se può apparire quasi occasionale il dover portare all’attenzione dellapubblica opinione la considerazione che alcuni farmaci possono esseredannosi per la salute pubblica è assai difficile convincere la stessa opi-nione e, a ritroso, tutta la catena dei soggetti interessati fino ai decisoripolitici, che le iniziative prese allo scopo di prevenire un qualche fattonegativo di carattere ambientale possono essere in realtà foriere di svi-luppi estremamente pericolosi se non catastrofici. Il suolo, come si ve-drà, è al centro di questi errori legislativi che ne mettono in forse la fer-tilità e le funzioni, anche perché la sua più importante funzione natura-le, quella di autodepurazione e di nodo degli equilibri biologici, puòcontrastare con gli specifici interessi di potenti gruppi economici.

C’è da mettere in rilievo l’importante contributo al dibattito sul-l’interpretazione del Principio di Precauzione e sui criteri generali perla sua applicazione venuto recentemente dalla Commissione delle Co-munità Europee (2000), che ha sottolineato la necessità di considerar-lo all’interno di un approccio strutturato all’analisi del rischio e, inparticolare, alla gestione del rischio.

La Commissione delle Comunità Europee ed il Principio diPrecauzione

Le principali finalità del documento prodotto dalla Commissionedelle Comunità Europee sono quelle di stabilire un punto di vista co-

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mune sui fattori che fanno scattare il ricorso al Principio di Precauzio-ne e sul suo ruolo nel processo decisionale. Inoltre, il documento sipone la finalità di stabilire delle linee guida, basate su dei principi coe-renti, per l’applicazione del principio stesso.

Per quanto riguarda il ricorso al Principio di Precauzione, esso devepresupporre l’esistenza delle seguenti condizioni:• l’identificazione di effetti potenzialmente negativi che risultano da

un fenomeno, un prodotto od una procedura;• una valutazione scientifica del rischio che la situazione in esame, per

l’insufficienza dei dati, il loro carattere non concludente o la loroimprecisione, non consente di determinare con sufficiente certezza. Pertanto, l’identificazione di azioni appropriate e/o di misure basa-

te sul Principio di Precauzione dovrebbe sempre partire da una valuta-zione scientifica dei dati disponibili e, ogni qualvolta risulti necessario,da un esame completo delle prove, delle lacune nella conoscenza di undeterminato fenomeno e del livello di incertezza scientifica ad esso as-sociato. Una volta che è stata effettuata la valutazione scientifica, essapuò fornire le basi per invocare l’applicazione del Principio di Precau-zione. Applicazione comunque che non può essere acritica, ma deveessere subordinata al rispetto di cinque principi generali, che devonodel resto essere osservati in tutte le misure di gestione di un rischio.

I cinque principi generali costituiscono vere e proprie linee guida esono i seguenti:• la proporzionalità, • la non-discriminazione,• la coerenza,• l’esame dei vantaggi e delle conseguenze negative derivanti

dall’azione o dalla inazione, • l’esame dell’evoluzione scientifica.

Proporzionalità – Secondo questo principio, le misure non posso-no essere sproporzionate al livello desiderato di protezione. Inoltre,non devono mirare al raggiungimento di un “rischio zero”, un livellodi rischio che può richiedere uno sforzo teoricamente infinito, concet-tualmente e scientificamente non concepibile. Il pieno rispetto di que-sto principio non consente, soprattutto nel caso dell’applicazione delPrincipio di Precauzione, il bando totale di un prodotto o di una tecno-logia poiché una tale scelta non potrebbe essere considerata una ri-

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sposta proporzionale ad un rischio potenziale, ossia non misurabile.Non-discriminazione – Il principio di non-discriminazione si rife-

risce alla necessità di trattare situazioni paragonabili nello stesso mo-do, a meno che non sussistano delle condizioni obiettive che impon-gono un comportamento differente. Tutti i provvedimenti decisi invo-cando il Principio di Precauzione non dovrebbero mai applicare misu-re diverse che sarebbero adottate in modo arbitrario sulla base, adesempio, non solo del campo ambientale considerato ma anchedell’origine geografica o della natura della produzione.

Coerenza – Il principio di coerenza stabilisce che le misure do-vrebbero essere coerenti con quelle già prese in circostanze simili e/oadottando approcci simili. In altre parole, se l’assenza di sufficientidati scientifici rende impossibile la valutazione del livello di rischio, lemisure precauzionali adottate dovrebbero essere comparabili conquelle precedentemente prese in situazioni analoghe nelle quali i datiscientifici sono disponibili.

Esame dei vantaggi e delle conseguenze negative derivanti dal-l’azione o dall’inazione – Ogni misura adottata dovrebbe essere esa-minata in termini di benefici e costi dell’azione e dell’inazione. Pertan-to, ogni qualvolta sia fattibile ed appropriato, dovrebbe essere effet-tuata l’analisi economica dei costi e dei benefici, anche se, in alcunecircostanze, i responsabili delle amministrazioni preposte possono es-sere guidati da considerazioni non economiche.

Esame dell’evoluzione scientifica – Questo principio generale do-vrebbe essere applicato in ogni provvedimento legislativo, ma divieneancora più importante quando si tratta di provvedimenti per i quali siè ricorso al Principio di Precauzione. Le misure adottate devono esseremantenute finché i dati scientifici rimangono insufficienti, imprecisi onon conclusivi e finché il rischio viene considerato troppo alto per po-ter essere sostenuto dalla società. Comunque, l’acquisizione di nuovidati scientifici potrebbero rendere possibile il processo di valutazionedel rischio e consentire la modifica oppure l’eliminazione di misureprecauzionali.

Le cinque linee guida riportate sopra rappresentano un contributoimportante ed influente al dibattito esistente sul Principio di Precau-zione per un suo uso politicamente trasparente. In effetti, come si ègià sopra sottolineato, con queste linee guida la Commissione ha sta-

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bilito che anche le misure che risultano dal ricorso al Principio di Pre-cauzione devono conformarsi ai principi generali applicabili alle misu-re di gestione del rischio. Inoltre, viene sottolineato il carattere provvi-sorio delle misure basate sul Principio di Precauzione, mentre viene en-fatizzata la necessità di un’attenta raccolta ed analisi dei dati scientificidisponibili (Foster et al., 2000). In ogni caso, nonostante gli aspettipositivi riportati sopra, mancano ancora delle linee guida chiare perdefinire il peso delle prove necessarie per far scattare il Principio diPrecauzione e per decidere quali misure dovrebbero essere applicatein ogni data circostanza. A tale proposito, un lavoro particolarmenteinteressante sulla valutazione e la gestione del rischio è quello scrittoda Renn e Klinke (1999). Tale studio fornisce un importante contribu-to alle problematiche che riguardano la classificazione del rischio e lestrategie per una sua razionale gestione. Nelle pagine seguenti sarannotrattati i principali aspetti della classificazione e gestione del rischio,ma si consiglia vivamente, per un’esauriente dissertazione sull’argo-mento, il lavoro menzionato precedentemente e quello di Stirling(1999).

Si può sottolineare intanto che, come si era osservato, molti prov-vedimenti legislativi vengono proposti ed emanati nell’interesse di-chiarato della salute pubblica e della protezione dell’ambiente. Giàsolo una tale dichiarazione di intenti giustifica la loro adozione agliocchi della popolazione e dei decisori politici. Se tuttavia si esaminanole categorie di rischio (processi di degradazione) che si pongono se-condo l’OCSE nei confronti dell’ecosistema suolo, che abbiamo defi-nito il nodo degli equilibri ambientali, possiamo osservare che suquattordici categorie di rischio 3 la legislazione attuale italiana e comu-nitaria ha cercato di prenderne in considerazione in maniera organicasoprattutto due, quelle elencate nella tabella 1 ai numeri 10 e 13, e chesolo recentemente essa sta cercando di normare le emissioni di cui alpunto 14. Per di più, preoccupandosi delle sostanze tossiche, essa hateso al raggiungimento di un teorico livello zero, contravvenendo aquanto viene stabilito dal principio di proporzionalità. Occupandosi

3 Alle quattordici categorie di rischio ne abbiamo aggiunta una quindicesimache può apparire paradossale, a quasi due secoli dalla nascita di Justus von Lie-big, e dalla scienza della fertilizzazione: su di essa si ritornerà.

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delle sostanze tossiche, spesso, le norme hanno riguardato ammen-danti organici o fanghi che potevano essere dirottati ed alimentare lediscariche o altri sistemi di smaltimento, favorendo pertanto interessidiversi da quelli ambientali. Per di più anche occupandosi di liscivia-zione (n. 13) e di volatilizzazione (n. 14), la legislazione risulta avere acuore più la salute di comparti ambientali acqua e aria che le buonecondizioni della fertilità, della produttività e della salute del suolo,contravvenendo anche alle linee guida della non-discriminazione edella coerenza. Le linee guida che chiedono di esaminare i vantaggi ele conseguenze negative dell’azione e della non azione, oltre che di te-ner conto dell’evoluzione scientifica, appaiono totalmente disattese.

Quel che risulta più grave, comunque, è che nel caso della prote-zione del suolo dai processi di degradazione, si hanno carenze proprionella legislazione ordinaria. Ma torniamo all’applicazione del Principiodi Precauzione.

Valutazione e classificazione del rischio

Secondo Renn e Klinke (1999), i principali criteri per la valutazio-ne del rischio sono i seguenti:

Gravità del danno: dimensione potenziale delle conseguenze nega-tive determinate dal fattore di rischio (azione dell’uomo od ancheeventi naturali);

Probabilità che si verifichi il danno: dato che dipende dalle infor-mazioni sulla frequenza del danno, pur nell’incertezza sul momentoesatto in cui si può verificare;

Certezza della stima: grado di affidabilità associato alla stima dellagravità del danno e della probabilità con cui esso si verifica, ossia pro-babilità di collegamento causa-effetto;

Ubiquità: dispersione geografica del potenziale danno;Persistenza: estensione temporale dei danni potenziali;Reversibilità: possibilità di ripristinare la situazione nello stato pre-

cedente rispetto a quello determinato dal danno;Effetto ritardato: periodo di latenza che può intercorrere fra il mo-

mento iniziale in cui si verifica un evento ed il momento in cui si ma-nifesta il reale impatto del danno;

Potenziale di mobilitazione: violazione potenziale di interessi e di

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valori di individui e/o gruppi sociali che generano conflitti e reazionida parte di individui e gruppi che sentono di sopportare il peso delleconseguenze del rischio.

Prendendo in considerazione principalmente gravità del danno eprobabilità che il danno si verifichi, come criteri di base per cominciareun processo razionale di valutazione del rischio, si possono distingue-re tre principali livelli di rischio:

• la categoria normale,• la categoria intermedia,• la categoria intollerabile.

I rischi che appartengono alla categoria normale sono caratterizzatida un buon grado di certezza statistica ed in prima approssimazione, sei processi vengono contrastati in una fase non avanzata, da un bassopotenziale catastrofico, oltre che da un basso grado di persistenza e diubiquità e da un elevato grado di reversibilità. A causa della loro bassacomplessità, lo strumento principale di valutazione per i rischi cherientrano nella cosiddetta categoria normale è l’analisi rischio-beneficio.

I rischi che rientrano nelle categorie intermedia ed intollerabile cau-sano maggiori problemi. In questi casi, la certezza della stima è conte-stata, il potenziale effetto catastrofico può essere elevato e non sonodisponibili sufficienti conoscenze circa la distribuzione delle conse-guenze. In questi casi il rapporto rischio-beneficio è inadeguato inquanto non è possibile escludere conseguenze negative molto gravi e,pertanto, prevalgono le strategie precauzionali di controllo del rischio(ad esempio nuove strategie di contenimento del danno e di elusionedel rischio).

L’uso degli otto criteri sopra riportati porterebbe all’identificazionedi un numero enorme di tipologie di rischio, che non sarebbe utile perrealizzare una classificazione del rischio gestibile. Così, diversi rischisono raggruppati secondo uno o più criteri per i quali raggiungono ivalori estremi del loro intervallo di variazione. Questa classificazioneporta a classi di rischio che sono state identificate con nomi prove-nienti dalla mitologia greco-romana (Tabella 2). Sei delle sette classisono state proposte da Stirling (1999) e vengono qui adottate conqualche piccola modifica. Ad esse ne abbiamo aggiunta una settima,denominata Prometeo.

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Diversi sono i rischi tecnologici che appartengono a ciascuna dellecategorie di rischio individuate e gli esempi riportati di seguito nonpossono essere considerati esaustivi. Fra gli altri, alcuni dei rischi elen-cati sono associati a dissesti ambientali ed a potenziali danni all’ecosi-stema del suolo. È questo un campo di interesse specifico dei ricerca-tori delle diverse discipline afferenti alla scienza del suolo il cui coin-volgimento, nella stima del rischio e nella gestione delle nuove tecno-logie che hanno un impatto su tale comparto, sta aumentando annodopo anno.

Classe di rischio CiclopiI Ciclopi erano giganti con un occhio solo. La mancanza di un oc-

chio simboleggia una visione parziale della realtà; ciò, applicato al ri-schio, riguarda quelle fonti di rischio delle quali è possibile stimare laprobabilità che si verifichi un evento oppure la gravità del danno de-terminato da tale evento, mentre l’altra componente rimane incerta. Irischi che appartengono alla classe Ciclopi sono quelli la cui estensio-ne del danno può essere estremamente elevata, a livello di cataclismi,ma stimata solo a posteriori, mentre rimane incerto il livello di proba-bilità su dove e soprattutto su quando il danno si verificherà. Di solitoeventi naturali quali i terremoti, le alluvioni e le eruzioni vulcanicheappartengono a questa categoria di rischio.

Classe di rischio CassandraCassandra, profetessa dei troiani, predisse la vittoria dei greci, ma

non fu presa seriamente in considerazione da parte dei suoi concitta-dini. In questa classe sono raggruppati tutti i rischi che possono pro-vocare danni, dei quali sono ben noti sia la gravità sia la probabilitàche si verifichino. Inoltre, tipica di questa classe di rischio è la lun-ghezza del periodo di tempo che intercorre tra l’evento iniziale ed ilmomento in cui il danno si manifesta sull’ecosistema. Un esempio diquesta classe di rischio sono i cambiamenti climatici, alcuni dei qualisono attualmente considerati di possibile origine antropica (un classi-co esempio e l’emissione di clorofluorocarburi).

Classe di rischio DamocleSecondo la mitologia, Damocle fu invitato dal suo re ad un ban-

chetto, ma il suo posto a tavola era proprio sotto ad una spada appesa

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al soffitto con un filo molto sottile. Il rischio simboleggiato dalla spa-da di Damocle riguarda la possibilità che un evento fatale per Damo-cle possa verificarsi in qualunque momento, anche se con una proba-bilità molto bassa. Pertanto, questa classe di rischio è relativa a fontidi rischio che sono caratterizzate da un potenziale di danno molto ele-vato, ma con una probabilità che si verifichi molto bassa. Tecnologiecome gli impianti chimici di grandi dimensioni e le dighe appartengo-no a questa classe di rischio.

Classe di rischio PrometeoFu lo stesso Prometeo, secondo alcuni autori greci, a modellare gli

uomini impastandoli dalla terra ed a favorirli in ogni modo nei primistadi della loro storia. Il più importante dono fatto agli uomini fu ilfuoco, che era appannaggio degli Dei e che fu loro rubato per consen-tire una prima forma di civiltà: per questo motivo Prometeo fu con-dannato da Giove ad un atroce supplizio. Il fuoco è ancora motivo dialtri rischi nella nostra storia di tutti i giorni e gli incendi provocanodanni potenzialmente anche molto gravi, pur se in teoria prevedibili;essi obbligano tutte le comunità umane a mantenere agenti specializ-zati per la vigilanza, la prevenzione ed il contenimento dei danni.Questa classe di rischio simboleggia ogni avanzamento nella ricercascientifica e tecnologica, che deve prevedere tipicamente un apportoattivo di difesa corale da parte delle comunità umane, accanto alla ca-ratteristica, altrettanto tipicamente da essa posseduta, dell’assoluta ir-rinunciabilità. Dal fuoco mitologico di Prometeo, gli esempi possonoricomprendere le odierne esperienze spaziali, oltre, come si è detto, amolte ricerche di interesse strategico.

Classe di rischio PiziaIn caso di incertezza, gli antichi greci si rivolgevano agli oracoli. Pi-

zia, una delle più famose profetesse dell’antichità, era solita fare delleprofezie ambigue su gravi pericoli la cui ubicazione geografica, gravitàdel danno e probabilità che si verificasse rimanevano sostanzialmenteincerte o per lo meno da interpretare caso per caso. È possibile che,nonostante nel suo tempio di Delfi potesse contare sulla protezionediretta di Apollo, essa temesse di essere perseguita nel caso di vaticinitroppo chiari, così come parecchi secoli più tardi successe a Nostrada-mus. Le possibili conseguenze dell’impiego di colture geneticamente

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modificate senza opportune precauzioni, la diffusione della TSE/BSEe talora gli stessi rischi associati agli interventi dell’uomo sugli ecosi-stemi appartengono a questa classe di rischio.

Classe di rischio PandoraPandora ricevette da Giove un vaso contenente tutti i mali. Se essi

fossero rimasti all’interno del vaso non si sarebbe verificato nessundanno, ma una volta che Pandora aprì il vaso tutti i mali furono rila-sciati e si diffusero in maniera persistente in tutto il mondo. Questaclasse di rischio è caratterizzata da incertezza in termini di gravità deldanno e possibilità che si verifichi e da un elevato grado di persistenzadegli effetti determinati dall’accadimento dell’evento temuto. La pro-duzione e l’uso di sostanze potenzialmente inquinanti di natura orga-nica ad alta persistenza può essere considerata un esempio tipico diquesta categoria di rischio.

Classe di rischio MedusaMedusa era una delle tre terrificanti Gorgoni la cui apparizione

trasformava gli astanti in pietra. Alcune delle nuove tecnologie sem-brano provocare effetti egualmente spaventosi sull’uomo moderno ilquale respinge queste innovazioni, nonostante il fatto che esse difficil-mente possano essere considerate pericolose sulla base della docu-mentazione scientifica disponibile. La caratteristica di questa catego-ria di rischio è che le fonti di rischio sono rifiutate in modo irrazionaledalla popolazione (alto grado di potenziale di mobilitazione). Gliesperti nella stima dei rischi collocano di solito questi rischi nell’areanormale ed il solo modo per combattere la paura che generano è dimigliorare la comunicazione al pubblico con efficaci argomentazioniscientifiche. I campi elettromagnetici sono considerati un esempio ti-pico di questa tipologia di rischio.

Differenti strategie per differenti classi di rischio

Lo scopo principale di questa classificazione è di fornire uno stru-mento a chi gestisce il rischio per la definizione di specifiche strategiedi intervento per ogni classe di rischio. Una volta che i criteri che ca-ratterizzano i diversi rischi sono conosciuti, è possibile individuare lestrategie appropriate per spostare i rischi dalla categoria intermedia a

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quella normale dove possono essere gestiti mediante misure basate sudati scientifici. Sulla base di quanto stabilito sopra, solo i rischi ricon-ducibili alle categorie Pizia e Cassandra richiedono necessariamentestrategie precauzionali. Investimenti in ricerca di base, sussidi allo svi-luppo di sistemi di produzione alternativi, trasferimenti di tecnologia,aggiornamenti e divieti rigidi, se necessario, sono alcuni degli stru-menti precauzionali disponibili.

I rischi che appartengono alle categorie Damocle, Ciclopi e Prome-teo necessitano di una combinazione di strategie precauzionali e basa-te su dati scientifici. Misure adeguate a queste tipologie di rischio pos-sono essere considerate le misure tecniche volte a ridurre i potenzialidanni ed a calcolare la probabilità che l’evento si verifichi nei casi dielevata incertezza, così come il monitoraggio nazionale ed internazio-nale e l’applicazione, se necessario, di divieti molto rigidi.

I rischi Cassandra e Medusa rappresentano le classi di rischio che,per ragioni diverse, possono essere gestite mediante strategie di comu-nicazione. In particolare, i rischi Cassandra, essendo caratterizzati daun lungo periodo di tempo che intercorre fra l’evento iniziale ed ilmomento in cui si verifica il danno, necessitano di un’educazione am-bientale, un codice di comportamento e la costruzione di una consa-pevolezza sociale per quanto riguarda i pericoli che si manifestano neltempo. D’altra parte, la classe Medusa rappresenta rischi dei quali lacertezza della stima è considerata soddisfacente. Il principale criterioche caratterizza questa tipologia di rischio è il potenziale di mobilita-zione. Le persone comuni sono spaventate da queste fonti di rischio erifiutano di accettare, irrazionalmente, la tecnologia che è causa dellaloro paura. Gli strumenti volti ad aumentare la fiducia e la confidenzacon una nuova tecnologia ed a sostenere la ricerca di base per miglio-rare ulteriormente la certezza della stima, sono tutti atti ad informarela popolazione della reale dimensione del danno e della reale probabi-lità che esso si verifichi.

L’applicazione del principio di precauzione alle problematicheambientali del comparto suolo

Secondo quanto riportato nella Comunicazione della Commissionesul Principio di Precauzione (2000) e nei lavori di Renn e Klinke

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(1999), Stirling (1999) e Rip (1999), l’invocazione del Principio di Pre-cauzione non è una questione riconducibile semplicemente all’applica-zione del comune buon senso. Inoltre, nessuna decisione arbitrariapuò essere presa, per nessuna problematica di carattere ambientalee/o sanitaria, invocando un vago Principio di Precauzione, in quanto lasua applicazione deve essere conforme con i cinque principi generali acui si fa di solito riferimento nelle misure di gestione del rischio. Que-ste considerazioni dovrebbero essere riprese dai ricercatori dellescienze del suolo ogniqualvolta si invochi l’applicazione del Principiodi Precauzione alle problematiche sanitarie ed ambientali di tale com-parto. La classificazione di rischio proposta da Renn e Klinke (1999)non è certamente né completa né esauriente di tutte le tipologie di ri-schio, ma può rappresentare, per i ricercatori, un importante approc-cio di stima del rischio e uno strumento d’individuazione delle più ap-propriate strategie e degli strumenti volti alla riduzione dell’incertezzarelativa alla probabilità che si verifichi un danno ed alla gravità deldanno stesso. Un altro aspetto, di non secondaria importanza per i ri-cercatori delle scienze del suolo, riguarda l’assunzione di responsabi-lità su qualunque tematica che riguarda la gestione del suolo. Solo i ri-cercatori impegnati nello studio delle scienze del suolo possono racco-gliere le informazioni che riguardano gli otto principali criteri di valu-tazione del rischio e solo attraverso la loro esperienza possono elabo-rare uno “stato dell’arte” della conoscenza del rischio.

In linea di principio, per i rischi che rientrano nella categoria nor-male di cui si è precedentemente parlato non dovrebbe essere applica-ta che una legislazione ordinaria, nel senso che non occorre il ricorsoal Principio di Precauzione. Molto spesso si tratta infatti di processi lacui direzione è nota e può essere indirizzata in senso favorevole o sfa-vorevole mediante l’adozione di pratiche opportune. Negli altri casiinvece, quelli delle categorie intermedia e intollerabile, un andamentonegativo potrebbe provocare impatti catastrofici, ed è questo il motivoper il quale diviene indispensabile e giustificato il ricorso al Principiodi Precauzione.

Se torniamo ai processi di degradazione del suolo illustrati prece-dentemente nella Tabella 1, possiamo considerare che in condizioniattribuibili ad una categoria normale l’adozione di corrette praticheagricole può essere sufficiente a limitare o a controllare completamen-

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te i rischi. È ovvio pertanto che sarebbe sufficiente una legislazioneordinaria che tenesse nella dovuta considerazione la necessità di privi-legiare un’attività multifunzionale dell’agricoltura per evitare l’instau-rarsi di condizioni drammatiche per l’ambiente, quali sono quelle rap-presentate nella colonna di destra della stessa Tabella 1.

In realtà, la società d’oggi si trova a dovere fronteggiare in via or-mai ordinaria cataclismi e situazioni catastrofiche che dipendonodall’ignoranza, dalla cattiva considerazione o dall’esclusione delle fun-zioni dell’ecosistema suolo negli approcci seguiti per la protezionedell’ambiente. L’esclusione del suolo nasconde a volte gli interessi disoggetti coinvolti in colossali giri d’affari, ma a volte rivela solo igno-ranza degli aspetti tecnici del problema. Alcuni casi particolarmentepreoccupanti di comportamenti pericolosi delle società d’oggi, perico-losi al punto da provocare disfunzioni strutturali, sono riportati nellaTabella 3.

Le diverse normative che riguardano direttamente od indiretta-mente il suolo sono sempre state pubblicate partendo dall’assunto chetutte le sostanze o gli elementi introdotti nell’ambiente dall’uomo fos-sero pericolose, indipendentemente dalle loro concentrazioni. D’altraparte le sostanze di origine naturale non sono mai state oggetto di li-mitazioni come se la loro “naturalità”, secondo alcuni, contenesse au-tomaticamente la caratteristica di innocuità. Ad esempio, il suolo nonè mai stato considerato sufficientemente nella legislazione relativa allaqualità delle acque, tanto che la stessa gloriosa Legge Merli (319/76)non ha preso in considerazione il sodio fra gli elementi per i quali eranecessario porre un limite: come possibile conseguenza, un’acqua irri-gua diveniva un potenziale strumento di sterilità dei suoli. Ma neppu-re i più recenti provvedimenti legislativi europei, come la Decisione n.2455/2000/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, pubblicatasulla G.U. L 331 del 15 dicembre 2001,4 annoverano sostanze perico-lose per il suolo e la sua funzionalità fra quelle di interesse prioritarioper le acque: vi si legge l’alachor, l’atrazina, l’esaclorobenzene, il ni-chel e il cloroformio, ma non c’è traccia di cloruro sodico e di sodio.

4 Con candore inappellabile la Decisione ci spiega una volta di più, fin dallaterza “considerazione” delle premesse, che per le sostanze sintetiche antropoge-niche le concentrazioni devono essere vicine allo zero.

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Raro è anche che si parli di sodio e di cloruro sodico, nonostante lecatastrofi storiche che hanno determinato la caduta della civiltà Assi-ro-Babilonese in tempi remoti e vanno provocando la sterilizzazionedi molte vaste superfici di suoli anche in epoca moderna. Si tiene con-to di acque, insomma, ma non del loro utilizzo. I collassi strutturalipossono essere provocati da alte percentuali di sodio nel complesso discambio, ma anche dalla degradazione del carbonio organico, che puòcontribuire almeno in ambiente mediterraneo ad un apporto di ani-dride carbonica in atmosfera di un ordine di grandezza pari, se nonsuperiore, a quello apportato dalle combustioni dei fossili. L’ultimocaso da considerare, anch’esso potenzialmente catastrofico, è quellodell’immissione senza ritorno nelle acque di elementi nutritivi prove-nienti dallo sfruttamento di rocce e minerali: trasformate in fertiliz-zanti, essi entrano nella catena suolo-pianta-uomo e animale, ma pos-sono non fare più ritorno alla loro destinazione naturale, il suolo,quando si impedisce per legge la riutilizzazione come fertilizzante delpozzo nero e di altri effluenti. I cicli degli elementi nutritivi, in altreparole, sono così spezzati (Sequi, 1990).

Sembra pertanto che le leggi non considerino a sufficienza il suolo,indipendentemente dal ricorso al Principio di Precauzione. Ma se sicollocano i vari eventi pericolosi nelle varie categorie di rischio fin quiconsiderate si possono avere diverse sorprese (Tabella 4). Gli eventicatastrofici che interessano direttamente il suolo (frane e collassi strut-turali da alluvioni, desertificazione, acidificazione e sommersione, per-dita del patrimonio degli elementi nutritivi) devono essere consideratinelle classi dove la gravità del rischio è più elevata, mentre gli eventiche si originano nel suolo, ma che possono colpire altri ecosistemi,fanno parte delle classi di rischio la cui gravità è incerta o bassa e al-trettanto bassa la probabilità: si tenga conto, per esempio, che i limitial contenuto di erbicidi nelle acque potabili sono dettati dal concettoche essi devono essere prossimi alla soglia della rilevabilità analitica.Tali limiti sembrano indotti da un generico Principio di Precauzioneche dovrebbe riguardare considerazioni igienico-sanitarie ma che piùspesso sembra nascondere ragioni puramente commerciali, quali l’av-vicendamento di nuove generazioni di erbicidi efficaci a concentrazio-ni molto più basse. Si tratta di rischi per i quali i mezzi di comunica-zione di massa hanno promosso un alto potenziale di mobilitazione, e

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che dovrebbero essere ridimensionati con un’opportuna campagna dieducazione pubblica. Sembra insomma che la legislazione vigente ten-da a proteggere più gli ecosistemi facili e visibili di quelli strutturali ecomplessi. Questa tendenza appare ancora più accentuata se si consi-dera che i comportamenti antropici che colpiscono gravemente l’inte-grità del suolo e la sua funzionalità sono favoriti dalla legislazione vi-gente. Sarebbe tempo che gli scienziati del comparto cercassero di ri-prendere in mano la situazione, in quanto ogni comportamento passi-vo, in queste circostanze, dovrà essere ritenuto colpevole.

Un esempio finale di uso distorto del Principio di Precauzione peraffrontare delle problematiche di origine ambientale e sanitaria delcomparto suolo e dell’importanza del ruolo degli scienziati di talecomparto per una classificazione razionale del rischio e per l’identifi-cazione di adeguate strategie e misure per la relativa gestione di talirischi, è la fissazione dei contenuti massimi di metalli pesanti nei fer-tilizzanti da somministrare ai suoli agricoli. Naturalmente, poiché taleproblema è estremamente complesso ed ogni elemento meriterebbeuna dissertazione esauriente a parte, si riportano di seguito solo alcu-ni principali aspetti critici e paradossali, che riguardano il contestoeuropeo.

Tenori massimi consentiti di metalli pesanti nei fertilizzanti organici

In conseguenza del crescente interesse per le problematiche am-bientali relative alla gestione dei rifiuti, molti convegni si sono tenuti,su tali argomenti, a livello nazionale ed europeo negli ultimi anni. Unodegli aspetti di maggiore preoccupazione e dibattito fra i funzionaridel Ministero dell’Ambiente, del Ministero dell’Agricoltura, delle or-ganizzazioni professionali e delle associazioni di consumatori che par-tecipano a questi convegni è stato la qualità ambientale dei fertilizzan-ti organici in generale, e specificamente dei fanghi degli impianti didepurazione e del compost prodotto mediante trattamenti biologici dirifiuti biodegradabili. Nello specifico, è stata spesso oggetto di discus-sione la fissazione dei contenuti massimi di metalli pesanti nel prodot-to finale. Sfortunatamente, non sempre sono state considerate perogni singolo elemento le proprietà fisico-chimiche, le concentrazioninaturalmente presenti nei singoli comparti ambientali, il loro ruolo, se

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esiste, nel metabolismo delle piante e degli animali, i meccanismi diasportazione e regolazione, il potenziale accumulo, la competizionecon altri elementi, le concentrazioni per le quali si evidenziano sintomidi carenza e di tossicità per le diverse specie nella catena alimentare.Al contrario, frequentemente, la discussione è stata guidata dal riferi-mento ad un vago concetto di precauzione se non proprio dall’invoca-zione del Principio di Precauzione, assumendo, non dichiaratamente,che, quando si tratta di metalli pesanti, i valori migliori sono i più bas-si. Più che Principio di Precauzione si potrebbe parlare in questi casi diprecauzione senza principio, come si legge nella bella introduzione allibro di A. Meldolesi sugli OGM. Già diversi secoli or sono, ci ricor-dano Nicolini e D’Agnolo (2001), Paracelso aveva affermato che «ognisostanza è un veleno, ma è il dosaggio che la vuole velenosa».

L’applicazione fuorviante del concetto di precauzione ha determi-nato anno dopo anno la perdita di un approccio scientifico al proble-ma e la proposta di livello massimo ammissibile di contaminanti incompost indipendentemente dalle considerazioni tecniche e scientifi-che di base. Inoltre, la mancanza di un approccio strutturato alla ge-stione del rischio ha portato a conclusioni contraddittorie e, talvolta,paradossali.

Nonostante ed indipendentemente dall’instancabile lavoro dei sin-goli funzionari della DG Ambiente della Commissione Europea, il cuiscopo finale è di fornire l’Unione Europea di una direttiva sulla ge-stione dei rifiuti, l’Allegato III della seconda bozza del documento dilavoro Trattamento biologico dei rifiuti biodegradabili rappresenta unclassico esempio di quanto riportato sopra. Per quanto riguarda ilcontenuto di metalli pesanti di compost o del residuo solido della dige-stione anaerobica di classe 1, le concentrazioni massime proposte so-no quelle riportate in tabella 5, nella quale viene riportata per con-fronto la concentrazione ammessa dall’U.S. Environmental ProtectionAgency per i biosolidi che possono essere somministrati al suolo.

Alcune considerazioni sono necessarie specialmente se focalizzia-mo l’attenzione su rame, cromo e piombo. Gli scienziati che svolgonoun’attività di ricerca nelle discipline scientifiche riconducibili allabranca delle scienze del suolo (chimici agrari, biologi, agronomi, fisio-logi vegetali, etc.) sanno, che fra i metalli presenti sulla crosta terre-stre, molti sono essenziali per la vita. Gli organismi viventi necessitano

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di un rifornimento costante di questi elementi, per evitare fenomeni dicarenza, in quanto sono deputati a svolgere importanti funzioni biolo-giche. Altri metalli, di cui non è stata mai scoperta una funzione vitalein nessun organismo vivente, sono chiamati elementi non-essenziali.Mentre quantitativi eccessivi di elementi essenziali possono esserecausa di un potenziale danno agli organismi viventi, anche piccolequantità di elementi non-essenziali possono essere pericolose per glistessi organismi viventi.

Il rame ed il cromo sono elementi essenziali, mentre il piombo è unelemento non-essenziale. Anche se questa semplice considerazionedovrebbe essere sufficiente per differenziare la concentrazione massi-ma ammissibile per il rame ed il cromo da una parte e per il piombodall’altra, gli esaurienti lavori di Landner e Lindestrom (1999) ed ilvolume edito da Canali et al. (1997), per il rame ed il cromo rispettiva-mente, forniscono le informazioni scientifiche ed il database necessariper operare una gestione razionale del rischio. In effetti è stato osser-vato che il rame, oltre ad essere un elemento essenziale, ha un’elevataefficacia come promotore della crescita nei maiali tanto che, per que-sto motivo, tradizionalmente si sono aggiunte elevate dosi di rame (fi-no a 200 mg Cu per kg di mangime) ai mangimi utilizzati per l’alimen-tazione dei suini, per aumentarne le prestazioni produttive (Landner eLindestrom, 1999). Inoltre, il Gruppo di Lavoro sul rame dell’IPCS(International Program on Chemical Safety) ha stabilito che, special-mente in Europa ed in America, c’è un maggiore rischio per la salute acausa di una carenza che per un’assunzione eccessiva di rame (1996).

Simili conclusioni possono essere tratte per il cromo. Nel 1959Schwartz e Mertz dimostrarono che il cromo era un elemento fonda-mentale nella costituzione del GTF (Glucose Tolerance Factor) che re-gola l’assunzione ed il metabolismo degli zuccheri. Successivamente èstato dimostrato che il GTF è indispensabile per il normale metaboli-smo degli zuccheri, dei lipidi e delle proteine in gatti, conigli, polli,maiali, vitelli ed anche nell’uomo (Anderson, 1988). Quando il cromoviene somministrato ad animali allevati per la produzione di carne,può cambiare la composizione della carcassa. Esperimenti realizzatida Page et al. (1993) sui maiali hanno dimostrato che era evidenziabileun aumento della massa muscolare e una riduzione dello spessore delgrasso sottocutaneo. Negli esseri umani, d’altra parte, il cromo addi-

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zionato in forma organica alla dieta, sembra aumentare lo sviluppo deimuscoli scheletrici (Evans and Pouchink, 1993). Infine, Anderson(1987) ha stimato che nel 90% dei casi, a seguito del consumo di pro-dotti raffinati, un adulto americano ha una dieta che copre solo il 40-60% del reale fabbisogno di cromo.

Pertanto, per quanto sopra riportato, sia per il rame che per il cro-mo, mentre le istituzioni nazionali ed internazionali che si occupanodi agricoltura ed ambiente definiscono la concentrazione massima dielementi essenziali (rame e cromo) nei compost allo stesso livello diquello imposto per gli elementi non essenziali (piombo), le industriefarmaceutiche invadono il mercato con prodotti da banco (integratoriminerali) che contengono, fra gli altri elementi, appunto proprio il ra-me ed il cromo. I moderni sistemi di produzione agricola ed i processidi raffinazione e trasformazione dei prodotti alimentari sono conside-rati responsabili per il basso contenuto in elementi essenziali delle no-stre diete e, per tale motivo, gli integratori minerali sono raccomanda-ti specialmente in soggetti sottoposti a fatica fisica ed a stress come nelcaso degli atleti e delle donne in stato di gravidanza. Infine, specificiprodotti da banco a base di cromo vengono pubblicizzati e vendutiper aumentare l’efficienza del metabolismo degli zuccheri e dei lipidia supporto di diete a basso contenuto di calorie messe a punto per iltrattamento dell’obesità.

Pertanto, secondo quanto riportato dalla letteratura scientificasull’argomento, sembra ragionevole affermare che il rischio associatoall’uso in agricoltura di compost che contenga un quantitativo di ramee cromo moderatamente superiore ai 100 mg per kg di sostanza seccaappartenga alla categoria di rischio Medusa che è caratterizzata da unbasso potenziale di danno, da una bassa probabilità che tale danno siverifichi e da un alto potenziale di mobilitazione. La gente comune èspaventata dai “metalli pesanti” in generale e li rifiuta nel loro insiemesenza distinguere fra elementi essenziali e non essenziali. Non c’è al-cun bisogno di invocare misure precauzionali per trattare con questaclasse di rischio, mentre sembrano degli strumenti più appropriatiquelli volti ad aumentare la confidenza della popolazione con questeproblematiche attraverso la costituzione di istituzioni indipendentiper l’informazione e di controllo internazionale e mediante il migliora-mento del livello di certezza della stima. Tutti gli scienziati impegnati

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in attività di ricerca attinenti il suolo svolgono un ruolo fondamentalein ciascuna delle misure menzionate sopra.

Un caso a parte è quello che riguarda il cadmio. In effetti, l’appli-cazione del Principio di Precauzione è invocato con maggiore enfasiquando si tratta di elementi non essenziali come nel caso del cadmio.Anche se il cadmio come elemento non essenziale è più tossico del ra-me e del cromo, il rischio associato all’uso del compost con diversi li-velli di cadmio potrebbe essere valutato con un’analisi rischio-benefi-cio in quanto è caratterizzato da un basso impatto di danno potenzia-le, da un basso valore per il criterio che riguarda l’ubiquità delle con-seguenze del rischio e potrebbe, pertanto, essere oggetto di una sem-plice routine di gestione del rischio. Ciononostante, anche se il Princi-pio di Precauzione fosse applicato, sarebbe regolato dall’osservazionedei cinque principi riportati sopra e messi a punto per evitare qualun-que tentativo di un suo uso arbitrario. In particolare, il principio dicoerenza è di specifico interesse in questo caso. Recentemente è statopubblicato il Regolamento della Commissione (EC) N. 466/2001dell’8 marzo 2001 che definisce il contenuto massimo di certi conta-minanti negli alimenti. Il contenuto massimo di cadmio (Cd) consenti-to nella frutta e negli ortaggi (codice di prodotto 3.2.11) è di 0,05 mgper kg di peso fresco. Tenendo presente che il contenuto di sostanzasecca di una bacca di pomodoro, come esempio di ortaggio, è pari acirca il 5%, ne consegue che il massimo contenuto di Cd consentito èpari a 1 mg per kg di sostanza secca. Questo valore è più alto del 50%rispetto al contenuto massimo di Cd consentito nel compost/digestatodi classe 1 (tabella 2). Il paradosso è di consentire, negli alimenti, unlivello di contaminanti che è maggiore di quello permesso per i compo-st da utilizzare come ammendanti su suoli agricoli. Logicamente, se labacca di pomodoro venisse compostata il suo contenuto di Cd sareb-be sottoposto ad un processo di concentrazione che porterebbe il li-vello di questo metallo pesante, nel compost finale, ad un valore com-preso fra 2,5-3,0 mg per kg di sostanza secca. Poiché il principio dicoerenza stabilisce che ogni misura debba essere coerente con misuregià prese in simili circostanze e/o adottando approcci simili, la defini-zione dei limiti in Cd per i compost così come viene riportato nell’Al-legato III della seconda bozza del documento di lavoro Trattamentobiologico dei rifiuti biodegradabili (2001) dovrebbe essere respinto in

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quanto arbitrario. In effetti, sarebbe veramente irrazionale se un or-taggio idoneo per l’alimentazione umana non potesse essere utilizzatocome matrice organica per la produzione di compost.

Conclusioni

Il Principio di Precauzione è previsto da molti trattati e Convenzio-ni delle Nazioni Unite, ma la sua applicazione è respinta dalla comu-nità scientifica che lo identifica come uno strumento atto a prenderedelle decisioni arbitrarie. La forte richiesta di una metodologia perl’applicazione del Principio di Precauzione ha portato la CommissioneEuropea a stabilire delle linee guida, per una sua applicazione, basatesu dei principi coerenti. Anche se molto deve essere ancora fatto perridurre l’uso improprio e/o l’interpretazione errata del Principio diPrecauzione, nel documento della Commissione viene enfatizzato ilruolo degli scienziati nella valutazione e gestione del rischio. Perquanto riguarda le problematiche ambientali legate al comparto suolo,i ricercatori svolgono un ruolo fondamentale nel valutare se e quandoil Principio di Precauzione possa essere invocato e, nel caso in cui ciò siverificasse, per ridurre il livello di arbitrarietà determinato da una suaapplicazione.

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148 I costi della non-scienza

Tabella 1 – Principali processi di degradazione del suolo e possibiliconseguenze estreme

N. Processo* Danno grave o catastrofico1 Erosione Frane, alluvioni2 Alterazione da scorrimento Grave erosione superficiale,

superficiale delle acque indisponibilità di acque per la vegetazione, condizioni favorevoli per le alluvioni3 Desertificazione Inabitabilità da temperature troppo alte

o basse (ghiacci)4 Salinizzazione Inabitabilità da deserti salati5 Sodicizzazione Dispersione colloidi e collasso strutturale

(cfr. 7)6 Perdita di sostanza organica Perdita di buone proprietà fisiche

(ritenzione idrica, lavorabilità, collasso strutturale – cfr. 7)

7 Degradazione struttura da Collasso strutturaleframmentazione degli aggregati o dispersione delle argille in essi contenute

8 Compattamento della superficie Formazione di strati superficiali da calpestio animale improduttivi (cfr. 9)

9 Formazione di croste Formazione di strati improduttivi da superficiali o profonde (“pan”) migrazione argille, indurimento carbonati,

lavorazioni, ecc.10 Accumulo di sostanze tossiche Sterilità e possibile pericolosità per

(ivi inclusi i metalli pesanti) vegetazione e catene alimentari11 Acidificazione Accumuli di sostanze acidificanti da parte

di coperture vegetali che si autodistruggono (foreste di conifere che si trasformano in torbiere)

12 Sommersione Torbificazione con emissione di metano e solfuri

13 Perdite di elementi nutritivi e di Perdita del patrimonio di elementi nutritivi altre sostanze per lisciviazione e di altre sostanze in genere

14 Perdite di elementi nutritivi e di Perdita della dotazione azotataaltre sostanze per volatilizzazione

15 Perdite di elementi nutritivi per Perdita del patrimonio di elementi nutritivi mancata restituzione essenziali per la vegetazione, con innesto del

processo miniere-mare* da OCSE, modificato.

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Tabella 2 – Tassonomia schematica delle classi di rischio (da Stirling,1999, modificata)

Nome Probabilità Gravità Altro Esempidel danno

CICLOPI Certa: meno Alta Effetto Terremoti, certo dove, potenzialmente alluvioni, incerto il ritardato – eruzioni quando persistente vulcaniche

CASSANDRA Non sempre Alta Effetto Cambiamenti certa ritardato climatici di

origine antropica

DAMOCLE Molto bassa Alta Impianti chimici, dighe

PROMETEO Relativamente Potenzialmente Irrinunciabilità Novità bassa anche alta scientifiche e

tecnologiche

PIZIA Incerta Incerta BSE, OGM

PANDORA Non sempre Incerta Alta Inquinanti certa persistenza organici

persistenti (POPs)

MEDUSA Bassa Bassa Alta Campi mobilitazione elettromagnetici

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150 I costi della non-scienza

Tabella 3 – Comportamenti antropici anomali nella società di oggiche possano rendere catastrofica la situazione per il compartosuolo

Processo* Causa

1 (2) Alluvioni e frane In montagna: cattivo uso del suolo per sfruttamentoirrazionale della vocazionalità o per mancanza dioperatori sul territorio.

In pianura: consumo di suolo, con concentrazione eimpatto delle acque su superfici sempre minori.

A livello di bacino: captazione delle acque sempre più amonte, con diminuzione dei tempi di corrivazione

4-5 (3) Desertificazione Salinità delle acque e presenza incontrollata di sodio e altri elementi potenzialmente fitotossici (es. boro)

5-6 (7) Collassi strutturali e Degradazione della sostanza organica presente nel suolo aumento delle concentrazioni e mancata considerazione degli indirizzi colturali di CO2 nell’aria atmosferica appropriati

15 Inquinamento delle acque Cicli nutritivi spezzati per mancata restituzione al suolo (es. costrizione al reintegro con i fertilizzanti dei fosfati asportati dal suolo, che seguono perciò un cammino anomalo dalle miniere ai mari via piante-animali)

* I numeri si riferiscono a quelli individuati nella tab. 1.

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151Il PdP e le problematiche ambientali relative al suolo

Tabella 4 – Classi di rischio di eventi relativi al suolo e pericolosi, oritenuti tali.

I numeri fra parentesi si riferiscono ai processi elencati in tabella 1

Eventi che interessano Comportamenti antropicidirettamente il suolo che colpiscono il suolo

CICLOPI Frane (1.2) Cattivo uso del suolo (1,2)Collassi strutturali Consumo di suolo (1,2)(5,6,7,8,9) Diminuzione tempi di

corrivazione (1,2)

CASSANDRA Desertificazione Degradazione sostanza organica (6)Cattiva qualità acque (Na C1, ecc.)

DAMOCLE Acidificazione e Cicli spezzati (15)sommersione (11, 12) Biodiversità microbica (6,10 ...)Perdita del patrimonio dielementi nutritivi (15)

PROMETEO Uso di piante geneticamente modificate

PIZIA Accumulo metalli pesantida fertilizzazione (10)

PANDORA Deterioram. qualità atmo-sfera (N2O,CH4) (14)deterioram. qualità acque (13)

MEDUSA Perdita di potabilità delle acque (13)Deterioram. qualità atmosfera (NH3) (14)

EVENTI CHE DAL SUOLO POSSONO COLPIRE ALTRI ECOSISTEMI

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Tabella 5: Massima concentrazione di metalli nel compost/residuosolido della digestione anaerobica di classe 1 (proposta a livellodi Commissione Europea) e nei biosolidi secondo laEnvironmental Protection Agency degli Stati Uniti d’America*.

Parametro Compost/residuo U.S. EPAanaerobico di classe 1*

Cd (mg kg-1 s.s.) 0,7 85

Cr (mg kg-1 s.s.) 100** nessun limite***

Cu (mg kg-1 s.s.) 100 4300

Hg (mg kg-1 s.s.) 0,5 57

Ni (mg kg-1 s.s.) 50 420

Pb (mg kg-1 s.s.) 100 840

Zn (mg kg-1 s.s.) 200 7200

* Si tratta in ambedue i casi di materiali che possono essere utilizzati secondocriteri di buona pratica agricola senza ulteriori restrizioni

** Anche per il Cr(III)*** Neppure per il Cr(VI)

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IL PRINCIPIO DI PRECAUZIONE PER I CAMPIELETTROMAGNETICI:

GIUSTIFICAZIONE ED EFFICACIA

Paolo VecchiaIstituto Superiore di Sanità, Roma

Presidente ICNIRP

P er pochi agenti, sostanze o tecnologie il Principio di Precauzio-ne viene invocato tanto frequentemente e con tanta insistenzaquanto per i campi elettromagnetici. Ma l’adozione di questo

principio è realmente giustificata? E le misure che in nome del princi-pio vengono proposte (o quelle che, in particolare in Italia, sono giàstate adottate) sono realmente efficaci?

Alla prima domanda sono in molti, nella comunità scientifica, adaver risposto in modo negativo. Particolarmente significativa ed espli-cita è la posizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS),secondo la quale «una politica cautelativa per i campi elettromagneticidovrebbe essere adottata solo con grande attenzione e consapevolez-za. I requisiti per tale politica […] non sembrano soddisfatti né nel ca-so dei campi elettromagnetici a frequenza industriale, né in quello deicampi a radiofrequenza» [1].

Per comprendere le motivazioni di questo giudizio, occorre riflet-tere su quando, e come, il Principio di Precauzione debba essere appli-cato. A questo scopo, sono particolarmente utili due documenti ema-nati dalla Commissione Europea (CE) [2-3], ai quali l’OMS fa esplici-to riferimento.

Un primo criterio, che la Commissione considera come una vera epropria condizione pregiudiziale, stabilisce che affinché il Principio diPrecauzione venga invocato, prima ancora che applicato, un rischiopotenzialmente grave sia stato identificato e scientificamente valutato.Nei casi in cui questa condizione sia verificata, e si decida quindi diadottare delle misure precauzionali, gli ulteriori criteri stabilisconoche le misure stesse siano proporzionate ai rischi che si intende preve-nire, coerenti con altre misure già adottate in casi analoghi, non discri-

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minatorie nella loro applicazione, basate su un’analisi di costi e bene-fici, e a carattere temporaneo.

I campi magnetici a bassa frequenza, che sono generati dalle lineeelettriche ad alta tensione ma anche dai normali circuiti domestici e daqualunque dispositivo a funzionamento elettrico, sono stati recente-mente classificati dall’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Can-cro (IARC) come «forse cancerogeni per l’uomo» (gruppo 2B dellaclassificazione IARC) [4] sulla base di alcune osservazioni epidemio-logiche di aumenti dell’incidenza di leucemia. La presenza di altri stu-di con risultati opposti, le indicazioni pressoché unanimemente nega-tive di effetti cancerogeni negli animali da esperimento, la mancanzadi dati a supporto da parte degli studi biologici in vivo e l’impossibi-lità fino ad oggi di individuare un plausibile meccanismo di interazio-ne giustifica il fatto che i campi magnetici non siano stati classificaticome certamente cancerogeni (gruppo 1) o come probabilmente can-cerogeni (gruppo 2A). Comunque, per questo tipo di campi un ri-schio sanitario, indubbiamene grave nella sua natura, è stato chiara-mente identificato.

Per quanto riguarda invece i campi elettromagnetici ad alta fre-quenza (o a radiofrequenza, nella terminologia tecnica), come quellipropri dei sistemi di telecomunicazione, un altro documento del-l’OMS sottolinea che «una rassegna della letteratura ha concluso chenon esiste nessuna chiara evidenza che l’esposizione a campi a radio-frequenza abbrevi la durata della vita umana, né che induca o favori-sca il cancro» [5].

Riassumendo, il Principio di Precauzione può quindi essere invocatoper i campi magnetici a frequenza industriale, ma non per i campielettromagnetici ad alta frequenza. Ma quali misure potrebbero essereadottate nel primo caso?

Una normativa proposta qualche anno fa in Italia prevedeva un li-mite cautelativo di esposizione ai campi magnetici pari a 0,5 µT (mi-crotesla), nonché interventi sugli elettrodotti esistenti per ricondurrele esposizioni all’interno di abitazioni, scuole, ospedali ed altri siti“sensibili” al di sotto di tale valore. Secondo stime sull’entità della po-polazione esposta effettuate dall’Istituto Superiore di Sanità [6], talimisure avrebbero comportato per il paese, nell’ipotesi che i campi ma-gnetici siano effettivamente cancerogeni, la prevenzione di un nuovo

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caso incidente di leucemia infantile ogni due anni e di un caso di mor-te ogni cinque anni circa. A queste azioni corrispondevano costi, sti-mati all’epoca in lire, di oltre 40.000 miliardi [7]. Considerata la vitamedia degli impianti, ciò equivale ad un costo dell’ordine di 2-3 mi-liardi di euro per vita umana ipoteticamente salvata, un valore da moltigiudicato inaccettabile per la società, o quanto meno sproporzionato aquanto si è disposti a spendere per altri rischi meglio accertati e piùgravi. Tra i sostenitori di questa tesi figurava il ministro della Sanitàche si oppose all’approvazione della norma a cui si è sopra accennato.

Il ricorso al Principio di Precauzione, almeno così come definito eraccomandato dalla Commissione Europea, è dunque ingiustificato.Ciò nonostante, in Italia esso è ancora continuamente invocato ed insuo nome sono state adottate tutta una serie di misure, che vannodall’emanazione di norme di protezione particolarmente restrittive aprescrizioni per l’allontanamento di antenne e linee elettriche dalleabitazioni, se non al loro smantellamento. Tutte queste misure hannodei costi, sia in termini strettamente economici, sia di sviluppo tecno-logico e di qualità del servizio, che dovrebbero essere largamentecompensati dal beneficio sanitario. Ma questo beneficio esiste davve-ro? Siamo cioè certi che le misure cautelative comportino, a prescin-dere da ogni altra considerazione, un beneficio per la salute? Una se-rie di esempi sembra dimostrare il contrario.

In vari casi è stato proposto, o imposto, lo spostamento di un trat-to di elettrodotto per allontanarlo da qualche abitazione o altro luogo“sensibile” dove si riteneva che i livelli di esposizione fossero inaccet-tabili. Per valutare razionalmente l’efficacia di tale operazione occorretenere presente che gli eventuali effetti a lungo termine di campi ma-gnetici sono di natura stocastica e che in assenza di qualunque indica-zione sui sottostanti meccanismi di azione è corretto (e prudenziale)assumere che l’entità degli effetti sia legata a quella dell’esposizione,riducendosi a zero soltanto quando l’esposizione si riduce a zero. L’al-lontanamento di una linea elettrica da alcuni edifici provoca inevita-bilmente l’avvicinamento ad altri dal lato opposto. In un paese densa-mente popolato come l’Italia questo effetto dovrebbe essere significa-tivo e non si può escludere che il numero di abitazioni che verrebberoavvicinate alla linea sia molto maggiore di quelle che se ne allontana-no. Non è quindi scontato a priori che, in termini di esposizione col-

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lettiva, la soluzione finale sia migliore di quella di partenza, anche nelcaso in cui le distanze in gioco fossero molto diverse.

Ancora più eclatante è il caso delle stazioni radio base per telefoniacellulare. In nome del Principio di Precauzione, molte amministrazionihanno imposto l’allontanamento delle antenne dai centri abitati. Que-sta soluzione in genere aumenta l’intensità media del campo elettroma-gnetico, che nell’abitato deve comunque mantenersi a un livello suffi-ciente per il servizio, mentre è molto più alta in prossimità dell’antennache deve necessariamente emettere una potenza maggiore.

Ma l’effetto più vistoso è quello che si manifesta sui telefonini. Que-sti sono dotati di un dispositivo, detto controllo adattativo della poten-za, che consente di ridurre la potenza emessa dall’antenna al minimonecessario per una buona comunicazione con la stazione radio base. Ilpotenziale di riduzione è molto elevato: il livello di potenza più bassoprevisto dallo standard GSM è infatti circa 1000 volte inferiore al valo-re massimo. Un funzionamento del telefono a bassa potenza avrebbedei vantaggi per l’autonomia della batteria (è questa la ragione princi-pale per cui il dispositivo è stato realizzato), ma anche per l’esposizionedell’utente perché a ogni riduzione della potenza emessa corrispondeuna riduzione proporzionale dell’energia elettromagnetica assorbitanella testa. Per comprendere appieno quest’ultimo vantaggio occorretenere presente che l’esposizione dovuta ai telefonini è di ordini digrandezza (tipicamente 100-1000 volte) maggiore di quella dovuta auna stazione radio base, anche nelle situazioni più sfavorevoli.

Naturalmente, perché si abbia una buona comunicazione – e quin-di un’apprezzabile riduzione della potenza – occorre che la stazioneradio base sia vicina all’utente, il più possibile libera da ostacoli e di-sponibile per il servizio (in caso contrario, il collegamento viene stabi-lito con un’altra antenna, che può essere anche molto più lontana eschermata da edifici e altre bariere). Misure come l’allontanamentodelle antenne, o la riduzione del loro numero, adottate al fine di dimi-nuire precauzionalmente di una piccola frazione percentuale i livelli di“inquinamento” ambientale, non solo non raggiungono questo obiet-tivo, ma aumentano drasticamente quelle esposizioni che, già in par-tenza, sono le più elevate. È significativo che, a fronte di un potenzialedi riduzione quale quello già citato, in Italia i telefoni cellulari funzio-nino, in media, a potenze superiori al 50% della massima [8].

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Un aspetto peculiare delle politiche cautelative è la speciale atten-zione per i siti “sensibili”, primi tra tutti scuole e ospedali, motivatapiù dalle reazioni emotive dei cittadini che da una reale consapevolez-za dei problemi e da adeguate valutazioni tecnico-scientifiche. Il pro-blema non è soltanto italiano, anche se nel nostro paese si presenta inmodo assai più evidente che altrove. Un rapporto parlamentare fran-cese cita «ciò che è avvenuto a Marsiglia: una scuola, che aveva otte-nuto lo smantellamento di un’antenna installata sul tetto del suo edifi-cio, ha constatato che il livello di radiazioni nel cortile era aumentatoin seguito a questa esposizione. In effetti, le reti di telefonia mobile ag-giustano la potenza emessa dalle stazioni radio base in modo da assi-curare una buona copertura del territorio. Eliminando l’emittente si-tuata sulla scuola, si era provocato l’aumento delle antenne vicine. Ciònonostante, residenti ed associazioni continuano a reclamare l’allonta-namento o lo smantellamento delle stazioni radio base» [9].

In realtà, scuole, asili nido e altri luoghi deputati all’infanzia costi-tuiscono nel nostro paese un tabù, e la proibizione di installare anten-ne nelle loro vicinanze costituisce un dogma. Lo stesso vale per ospe-dali e case di cura, dove abbondano proibizioni e restrizioni per tuttociò che riguarda, ad esempio, la telefonia mobile. Non è raro incontra-re segnali di divieto dell’uso del telefono cellulare in ambienti comecorsie, sale di aspetto, sale gessi o locali di fisioterapia, quando il di-vieto non sia addirittura esteso all’intero complesso ospedaliero. Perquanto riguarda le stazioni radio base, la loro installazione all’internodi una struttura sanitaria o nelle sue immediate vicinanze è probabil-mente inconcepibile per il cittadino comune e di fatto vietata da molteamministrazioni.

L’uso dei telefoni cellulari in ospedale presenta invece notevolivantaggi, sia per i pazienti in termini di conforto psicologico, sia per imedici in termini di reperibilità e di rapido scambio di informazioni.È significativo che dagli stessi medici giungano, anche attraverso rivi-ste autorevoli, appelli per agevolarlo [10]. Per contro, i problemi che itelefoni pongono sono limitati, ben compresi e, come tali, del tuttoprevenibili con azioni adeguate.

I segnali emessi da un telefono cellulare possono interferire con ap-parati elettromedicali, introducendo segnali spuri in strumenti diagno-stici come elettrocardiografi ed elettroencefalografi, o causando mal-

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funzionamenti di vario genere. Per prevenire questi effetti e garantirela cosiddetta compatibilità elettromagnetica esistono però delle normetecniche, che stabiliscono dei livelli minimi di campo elettrico o ma-gnetico ai quali i dispositivi elettromedicali devono essere immuni. Al-le frequenze proprie della telefonia cellulare questo livello, in terminidi campo elettrico, è di 3 V/m (volt al metro), un valore che il campoprodotto da un telefonino che funzioni al massimo della potenza puòsuperare entro un raggio di circa 3 metri [11]. Sarebbe quindi suffi-ciente raccomandare questa distanza di sicurezza per prevenire qua-lunque inconveniente; per maggior sicurezza, e per semplicità di ap-plicazione, si potrebbe comunque proibire l’uso dei telefoni cellulariin ambienti ben precisi come sale operatorie, di rianimazione e di te-rapia intensiva, o vicino ad apparecchiature particolari. Raccomanda-zioni in questo senso vengono sia dagli esperti tecnici [12], sia dallacomunità protezionistica [13]. Le stesse fonti fanno anche notare che,come già discusso in queste note, la potenza emessa dal telefono, econseguentemente la probabilità e la gravità delle interferenze, è tantopiù bassa quanto più la stazione radio base è vicina; pertanto non solonon si proibisce, ma addirittura si raccomanda l’installazione di anten-ne all’interno degli ospedali, una prassi effettivamente diffusa in moltipaesi diversi dal nostro.

Le misure pratiche adottate a titolo precauzionale possono quindi,in molte circostanze, aggravare oggettivamente la situazione, aumen-tando i livelli di esposizione e conseguentemente i rischi, sia quelliipotetici di effetti diretti sulla salute, sia quelli reali di effetti indiretticonnessi a malfunzionamenti degli apparati medicali. Ma le implica-zioni di una politica ispirata al Principio di Precauzione vanno molto aldi là dell’efficacia delle misure di riduzione del presunto inquinamen-to ed interessano la salute umana sotto altri profili.

A questo proposito, è opportuno chiedersi se la domanda di politi-che cautelative sia motivata da rischi che sono stati effettivamente in-dicati dalla ricerca scientifica o, piuttosto, dalla percezione che deglistessi rischi i cittadini maturano per effetto delle informazioni che ri-cevono. La già citata OMS raccomanda infatti di adottare misure di-verse nei due casi: nei confronti di effetti sulla salute che siano statiaccertati e scientificamente valutati è opportuno agire con normecoercitive (come l’imposizione di limiti di esposizione), mentre per

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fronteggiare le preoccupazioni del pubblico si può considerare, accan-to ad una corretta informazione, anche l’opportunità di misure di pre-cauzione su base volontaria. Siccome gli obiettivi sono diversi, anchel’efficacia delle misure adottate deve essere valutata in modo diverso:nel primo caso si deve considerare quanto esse possano ridurre i casisanitari documentati, nel secondo quanto possano ridurre le preoccu-pazioni dei cittadini e le tensioni sociali.

Si possono esaminare in quest’ottica le recenti normative italianeche prevedono, come è noto, sia limiti di esposizione inferiori a quelliaccettati internazionalmente (chiamati valori di attenzione), sia la mi-nimizzazione delle esposizioni mediante il perseguimento di obiettividi qualità. Appaiono significative in proposito le considerazioni di uncomitato internazionale di esperti, incaricato dal governo italiano diesprimere un giudizio sulle nostre normative nazionali [14].

Per quanto riguarda i valori di attenzione il comitato rileva che «lascelta di limiti di esposizione impossibili da giustificare, sia scientifica-mente, sia logicamente, ha già creato una certa sfiducia nella scienza, enelle autorità». In questa critica concorda con l’OMS, la quale fa no-tare che «un requisito di principio è che [le politiche cautelative] sia-no adottate solo a condizione che valutazioni di rischio e limiti diesposizione fondati su basi scientifiche non siano minati dall’adozionedi approcci cautelativi arbitrari. Ciò si verificherebbe, ad esempio, se ivalori limite venissero abbassati fino a livelli tali da non avere alcunarelazione con i rischi accertati, o se fossero modificati in modo impro-prio ed arbitrario per tener conto delle incertezze scientifiche».

La “minimizzazione” corrisponde invece al criterio di ridurre leesposizioni causate da una determinata tecnologia al livello minimocompatibile con la qualità del servizio. Questo livello minimo corri-sponde, nella legge quadro italiana per la protezione dai campi elettro-magnetici, all’obiettivo di qualità. Prescindendo dalle difficoltà e dallepossibili arbitrarietà nella valutazione della bontà del servizio, anchequesto criterio non può essere sostenuto senza solide conoscenze e giu-stificazioni. Il comitato internazionale nota in proposito che «in assen-za di un criterio costo-beneficio e di una spiegazione delle considera-zioni di ordine sociale e politico, minimizzare l’esposizione non ha sen-so, poiché se ulteriori riduzioni sono (quasi) sempre possibili, esseperò, verosimilmente, avranno effetti nulli o discutibili per la salute».

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Anche la qualità del servizio ha comunque una sua importanza nonsolo dal punto di vista pratico – come è ovvio – ma anche da quellosanitario. Negli Stati Uniti si stima che se il telefono cellulare venisseusato solo per il 10% delle chiamate di emergenza e il suo uso ridu-cesse solo del 10% i tempi di intervento, si salverebbero nel paese cir-ca 100 vite umane all’anno [15]. Una rete telefonica in cui le antennefossero ridotte al minimo o posizionate in modo non ottimale, even-tualmente per motivi precauzionali, causerebbe inevitabilmente man-cati collegamenti e cadute di linea. Non sono disponibili dati su questidisservizi in Italia (anche per comprensibili ragioni commerciali), manon è irragionevole ipotizzare un numero significativo di mancati o ri-tardati interventi di emergenza. Alcuni casi, particolarmente dramma-tici, sono stati peraltro riportati anche dai mezzi di informazione.

Tornando alle valutazioni del comitato internazionale, quest’ultimoritiene che “l’adozione di limiti di esposizione ai campi elettromagne-tici restrittivi ed arbitrari da parte di singoli paesi tende ad accrescerela preoccupazione del pubblico, piuttosto che a ridurre le perplessitàe le controversie”. Questa osservazione è fondamentale, e può essereestesa dalle norme di legge alle azioni cautelative in genere: qualunquemisura adottata in nome del Principio di Precauzione, anche se a costozero o minimo, viene facilmente interpretata dal pubblico come laprova dell’effettiva esistenza di un rischio. Una prova spesso più con-vincente di qualunque dato scientifico.

Esemplare in questo senso è l’esperienza della Francia. Un rappor-to dell’Agenzia Francese per la Sicurezza Sanitaria Ambientale [16]discute ampiamente, in relazione alla presenza di stazioni radio base,il caso dei siti “sensibili”, come scuole, ospedali e asili nido. Per que-sti, un precedente documento aveva raccomandato che, nel caso di di-stanze dall’antenna inferiori a 100 metri, il fascio di irradiazione noninvestisse direttamente gli edifici. Una raccomandazione molto piùblanda delle prescrizioni italiane, ma che aveva comunque «comeprincipale obiettivo di cercare di attenuare alcune apprensioni delpubblico, che tuttora permangono senza giustificazione sanitaria». Adistanza di soli due anni, l’AFSSE, mentre ribadisce che «non sembra-vano esistere giustificazioni sanitarie per questa specificità dei siti sen-sibili, essendo la sensibilità legata alla percezione del rischio e non aun rischio sanitario identificato» constata che «la raccomandazione

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del rapporto del 2001, che mirava a rassicurare, ha sortito l’effetto op-posto. Il gruppo di esperti non sostiene quindi più la necessità di que-sta nozione di sito sensibile in relazione alle stazioni radio base. Que-sta conclusione si applica in modo particolare alle scuole, per le qualila percezione del rischio è stata la più acuta».

Le politiche precauzionali possono quindi facilmente far aumenta-re la percezione dei rischi, che a sua volta dà luogo ad una richiesta dimaggior precauzione innescando così un circolo vizioso. In ogni caso,le preoccupazioni e le tensioni sociali che vengono a crearsi o ad esa-sperarsi costituiscono un danno oggettivo per la salute, intesa nel suosignificato più ampio. La salute viene infatti definita dall’OMS come«uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non sem-plicemente l’assenza di malattie o infermità» [17]. Qualunque politicasanitaria, comprese quelle ispirate alla precauzione, deve prestareuguale attenzione a tutte e tre queste componenti.

In conclusione, il Principio di Precauzione sembra valere più comeuna linea di indirizzo che come uno strumento operativo. Di fronteagli sviluppi tecnologici e agli interrogativi che questi pongono èsenz’altro opportuno agire, per i campi elettromagnetici come perqualunque altro agente, all’interno di un quadro di cautela, in cui tuttigli elementi scientifici e sociali siano tenuti in conto. La precauzione èperò giustificata e doverosa nei limiti in cui contribuisce ad un’effetti-va riduzione dei rischi e ad un’effettiva tutela della salute. L’esperienzadimostra che presunte misure precauzionali adottate senza adeguatebasi scientifiche e competenze tecniche accrescono invece le preoccu-pazioni dei cittadini e possono talvolta addirittura aumentare, anzichédiminuire, le esposizioni.

Riferimenti[1] OMS (2000). Campi elettromagnetici e salute pubblica – Politiche caute-

lative. Promemoria Marzo 2000. www.who.int/docstore/peh-emf/publications/facts_press/ifact/cautionary-FS-italian.htm

[2] European Commission – DG XXIV (1998). Guidelines on the applica-tion of the precautionary principle. HB/hb d (98). 17/10/1998.

[3] Commissione Europea (2000) Comunicazione della Commissione sulPrincipio di Precauzione COM(2000) 1 02/02/2000www.europa.eu.int/comm/dgs/health_consumer/library/pub/pub07_it.pdf

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[4] I criteri di classificazione dell’Agenzia Internazionale per la Ricerca sulCancro, così come l’elenco completo degli agenti classificati, sono di-sponibili sul sito della IARC: www.iarc.fr

[5] OMS (1998). Campi elettromagnetici e salute pubblica. Effetti sanitaridei campi a radiofrequenza. Promemoria n. 183 www.who.int/docstore/peh-emf/publications/facts_press//ifact/it_183.html

[6] Petrini C., Polichetti A., Vecchia P., Lagorio S. (2001). Assessment ofexposure to 50 Hz magnetic fields from power lines in Italy. In: Procee-dings of the 5th International Congress of the European Bioelectroma-gnetics Association (EBEA). Helsinki, 6-8 September 2001, pp. 139-141.

[7] Curcuruto S., Elia L., Franchi A., Andreuccetti D., Vecchia P., Martuz-zi M., D’Amore M. (2001). Valutazione tecnico-economica degli inter-venti di risanamento ambientale delle linee elettriche del sistema nazio-nale. Rapporto 3/2001. ANPA, Roma

[8] Ardoino L., Barbieri E., Vecchia P. (In press). Determinants of exposu-re to electromagnetic fields from mobile phones. Radiation ProtectionDosimetry.

[9] Lorrain J.J., Raoul D. (2002). Rapport sur l’incidence éventuelle de latéléphonie mobile sur la santé. Assemblée National N. 346; Sénat N. 52.www.senat.fr/rap/r02-052/r02-052.html

[10] Myerson S.G., Mitchell A.R.J. (2003). Mobile phones in hospitals. Arenot as hazardous as believed and should be allowed at least in non-cli-nical areas. British Medical Journal 326:460-461 (Editorial).

[11] Sykes S. (Ed.) (1996). Electromagnetic compatibility for medical devices.Association for the Advancement of Medical Instrumentation (AAMI).Arlington, VA.

[12] Morrisey J.J., Swicord M., Balzano Q. (2002). Characterization of elec-tromagnetic interference of medical devices in the hospital due to cellphones. Health Physics 82:45-51.

[13] Hietanen M., Sibakov V., Hällfors S., von Nandelstadh P. (2000). Safeuse of mobile phones in hospitals. Health Physics 79 (Supplement2):S77-S84.

[14] ANPA (2002). Dichiarazione del Comitato internazionale di valutazioneper l’indagine sui rischi sanitari dell’esposizione ai campi elettrici, magne-tici ed elettromagnetici (CEM). Agenzia Nazionale per la Protezionedell’Ambiente, Roma.

[15] Dati comunicati nel corso della “Conference on mobile communications:Health, environment and society” organizzata da Commissione Europea,GSM Europe e MMF. Bruxelles, 20-21 gennaio 2004.

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[16] AFSSE (2003). Téléphonie mobile et santé. Rapport à l’Agence Françaisede Securité Sanitaire Environmentale. 21/03/2003.www.afsse.fr/documents/AFSSE_TM_experts.pdf

[17] Dallo Statuto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. www.who.int

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IL PARADOSSO DEI RIFIUTI

Luciano CagliotiUniversità di Roma La Sapienza

D evo confessare di avere sempre avuto un atteggiamento otti-mista nei confronti del nostro paese, che ritengo sia uno deipaesi più vivaci in assoluto e che certamente ha un pregio

preciso: una persona si sveglia la mattina e sa che prima di sera avràimparato qualcosa di particolare, di strano, ma, in genere, intelligente.

Un giorno, ero rientrato in casa alle 20:30 e non mi era ancorasuccesso nulla di interessante sotto il profilo sopra accennato. Ma, ac-cendendo il televisore, al telegiornale vidi quello che ritengo il massi-mo. Il massimo era costituito da una notizia, illustrata da un filmato,in cui si vedeva un treno che partendo dalla Campania andava in Ger-mania carico di rifiuti. E fin qui non si era ancora raggiunto il massi-mo. Che invece si raggiunse nel commento del cronista, che diceva:«scortato dalle forze dell’ordine». Allora, l’idea che un treno carico dirifiuti urbani parta dalla Campania per andare in Germania scortatodalla polizia, a guisa di film di 007 con l’oro di Fort Knox, raggiungequasi il massimo tra le cose da imparare che l’Italia quotidianamenteci propina. Riavutomi dall’ammirato stupore mi sono detto: qui c’èqualche cosa di fantastico e qui c’è quello che si chiama il “paradossodei rifiuti” cioè un sistema così ingarbugliato, così pazzesco, che meri-ta qualche considerazione.

Io credo che alla base del fenomeno dei rifiuti – che è un fenome-no di accettazione sociale, di pressioni e di malavita – ci sia una pec-ca del sistema-Italia. Lessi una volta sul giornale una frase di Nenniche mi sono ritagliato e che considero bellissima (cito a memoria):«se io dovessi dire, dopo tanti anni di militanza socialista, quello chepiù rimpiango, è l’aver negletto e trascurato delle cose che si poteva-no fare – di modeste dimensioni ma utili – nell’attesa di qualcosa di

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bellissimo, formidabile, ma impossibile». È questo il massimalismo.In Italia o si fa qualcosa di perfetto o non si fa nulla: la centrale èperfetta o non si costruisce, l’inceneritore o è perfetto o non si in-stalla e questo è un qualcosa che fa da trampolino per tutto quelloche è l’ambientalismo.

Io ho lavorato per un certo periodo come collaboratore dell’ENEL,dove cercavamo di salvare il salvabile dalle numerose accuse che que-st’ente riceveva per quanto riguardava i progetti di nuove centrali.Qual era il punto? Si era scatenato il massimalismo che consisteva inquesto: siccome non si riesce a costruire una centrale nuova e perfettasi lasciano in funzione delle centrali che, essendo state costruite 30 an-ni prima, inevitabilmente non possono fruire di tanti accorgimenti tec-nologici di cautela. Qualcosa d’analogo avviene per i farmaci. Le nor-mative sulla registrazione dei farmaci consentono di approvare solomedicamenti “perfetti”. Il che significa che se una ditta mette a puntoun analgesico migliore di quelli in commercio ma non perfetto, nonriesce a smerciarlo e così si rinuncia a priori ad un progresso parzialenel nome, nell’attesa, nell’ansia, di chissà mai cosa. Questa mentalità,credo, è veramente alla base di un combinato disposto di ignoranza,debolezza del governo (quale esso sia) e di malavita, e quindi un mi-scuglio dirompente.

È chiaro che l’esempio del treno – e, soprattutto, della scorta – la-sciano pensare che c’è qualcosa che non va. E ricordo di aver lettosul Corriere della Sera – era il 1995 o il 1996 – che una procura avevaincriminato, per associazione a delinquere di stampo mafioso, ungruppo di persone che avevano incitato gli ecologisti a bloccare uninceneritore. Evidentemente in certi casi c’è una serie di interessi percui arrivare ad un controllo sereno e serio è certamente una impresaimproba.

Dove andava questo treno? Andava in Germania perché lì ci sonodegli inceneritori efficienti, mentre in Italia questi inceneritori ci sonofino ad un certo punto ed alcune volte non ci sono proprio.

Vediamo le dimensioni del problema. Grazie alla documentazionefornitami cortesemente dal Prof. Liuzzo, risultano: 30 milioni di rifiutiurbani prodotti in un anno, 450 chili a persona, 2.300 kcal di poterecombustibile, quindi una metà o un quarto rispetto all’olio combusti-bile. Qualcosa che si potrebbe certamente utilizzare purché si accetti

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l’incenerimento. In Europa, il 25% dei rifiuti viene bruciato ed utiliz-zato per la produzione di energia elettrica e di calore, con un ciclocombinato da sfruttare come riscaldamento domestico. In Italia, solol’8% viene bruciato (soprattutto nelle regioni del Nord), il 72% va indiscarica, il 10% va a formare del combustibile da rifiuti, che qualchevolta viene utilizzato e qualche altra no.

Produrre energia elettrica attraverso un incenerimento significa an-che avere un guadagno ambientale, in quanto gli inceneritori sono piùcontrollati delle centrali e quella frazione di energia elettrica che siproduce bruciando rifiuti, la si produce con degli accorgimenti am-bientali migliori di quelli (peraltro già ottimi), delle normali centralielettriche. Per cui bruciando i rifiuti si ha addirittura un vantaggio.

Qui scatta l’altro fenomeno della serie “occhio non vede cuore nonduole”, perché quando si trascura completamente il problema e si af-fida la gestione dei rifiuti ad un sistema in rilevante parte clandestino,è evidente che i gestori non prenderanno tutti gli accorgimenti, peròl’importante è che qualcuno se ne occupi.

Vediamo se siamo noi che siamo più bravi degli altri in quanto riu-sciamo a mandarli via, sia pure a pagamento, in Germania o sono glialtri che sono dei suicidi ad accettarli. Zurigo, Vienna, Londra, Parigie Francoforte hanno, in piena città, degli inceneritori da 1.000 a 1.500tonnellate al giorno di capacità, mentre New York ha una centrale nu-cleare a circa 20 km dalla città. Cosa significa questo? Vuol dire che lagente si rende conto che se vuoi fare un appartamento devi costruireun gabinetto e uno scarico e quindi c’è una parte che potrebbe esserefastidiosa ma della quale ci si deve occupare.

Questa mattina qualcuno ha detto: mai prendere in assoluto unproblema ma cercare di inquadrarlo nel relativo, cioè nel contesto dicose simili tra le quali questo problema si verifica. Bene, prendiamogli inceneritori che hanno un impatto ambientale minimo: rispettoall’inquinamento, stare un mese sotto un inceneritore corrisponde astare un quarto d’ora in Via del Tritone a Roma. Per coloro che ama-no la campagna, un taglia-erba a due tempi equivale a 156 automobili;i 4 inceneritori della Regione Lazio sono equivalenti – rispetto all’ossi-do di carbonio – a 9 ciclomotori; rispetto ai composti organici volatilie incombusti equivalgono a 3 motorini. Nel 1977, un anno dopo Seve-so, nell’inceneritore di Amsterdam qualcuno ebbe la ventura di trova-

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re della diossina, e allora ci fu un inasprimento per la diossina, che di-venne di colpo il punto di massima osservazione e di massimo timore.Ricordo che col prof. Righi, andammo in un deposito di alternatoridell’ENEL chiuso e inarrivabile, ove il problema era se l’olio conte-nesse o meno più di 10-14 (numeri pazzeschi) di furani o diossine, e sesi doveva considerare “rifiuto pericoloso” solo l’olio o tutto l’impian-to, compreso l’alternatore. Nel qual caso la quantità di “rifiuto perico-loso” ovviamente cresceva: soldi persi, dedicati a problemi insignifi-canti, rispetto a quello dei rifiuti veri in giro in piena estate.

Tre inceneritori sono pari ad un’automobile come emissione, l’in-ceneritore emette l’1,3% rispetto alla dieta quotidiana di ognuno dinoi. Come stare un minuto davanti ad un barbecue o fumare una siga-retta. Eppure, si è arrivati ad una sofisticazione di misure di sicurezzaoltre che alta anche sproporzionata. In particolare, se si pensa che diautomobili e di taglia-erba in giro ce ne sono tanti, risulta chiaro che sipuò pure pretendere la cosa migliore possibile in materia di inceneri-tori e in materia di diossina, ma rimane ancora tutto il resto del qualeti devi occupare.

Per i rifiuti radioattivi, ci sono decine di depositi che non sonoconcepiti come tali, ma sono dei luoghi in cui qualcuno mette rifiutiradioattivi che il paese produce (quelli della diagnostica medica oquelli provenienti dalle centrali dismesse). Sinceramente, l’idea diconfinare rifiuti, siano essi radioattivi, o particolarmente tossici e noci-vi, in miniere di sale o zolfo, in cui, quindi, non c’è acqua, e c’è unacuffia assorbente intorno (come quelle di carbone), sembrerebbe ra-gionevolissima, andrebbe percorsa e invece sembra non sia all’ordinedel giorno.

Viviamo un periodo di sostanziale deindustrializzazione perché lamaggior parte delle industrie stanno andando via, il nostro sistemaproduttivo è a bassa-media tecnologia; da un altro telegiornale abbia-mo potuto apprendere queste due cose: che era possibile che laKrupp cedesse ai coreani la produzione dell’acciaio, e c’era la notiziache i coreani avevano fatto per scopi di approvvigionamento di mate-riale utile potenzialmente per terapia, una clonazione umana a pochis-simi stadi di sviluppo. Allora la convinzione che noi venissimo erosidai coreani e cinesi solo per la parte a bassa tecnologia non è esatta: inrealtà, c’è chi verticalizza anche fra i paesi emergenti, che fanno clona-

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zioni per scopi terapeutici. Il che implica il possesso di una cultura difondo, che ci deve far riflettere giacché da noi manca.

Quello dei rifiuti è l’esempio di uno spreco di denaro, di un’inca-pacità di azione senza uguali, e anche di peggio per quanto riguarda lescorte necessarie al trasporto. In Italia, purtroppo, sta prendendo lamano questa deindustrializzazione, questo fatto che gli acquirenti stra-nieri delle nostre imprese spesso ridimensionano i centri di ricerca, inun momento in cui i paesi emergenti si mettono a fare medicina e pro-babilmente riusciranno prima di noi. Tutto questo, purtroppo, dà ra-gione a chi si pone il problema dell’avvenire: noi, infatti, mandiamo icarri armati a distruggere i campi di mais per paura del transgenico,noi proibiamo le cellule staminali, noi stiamo chiudendo totalmentesettori che sono invece pieni di prospettive e di possibilità per la crea-zione di ricchezza.

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PROSPETTIVE DELL’ECONOMIA A IDROGENO

Cesare MarchettiIIASA, Laxenburg, Austria

V erso la metà degli anni Sessanta, meditando sul futurodell’energia, venni alla conclusione che per liberarsi dallastretta dei combustibili fossili bisognava agganciare il sistema

energetico al nucleare per il 100%. All’epoca si pensava alla produzio-ne dell’elettricità come tetto per l’utilizzo del nucleare, ma poichéquesta assorbirà al limite il 50% delle risorse primarie, basta un rad-doppio dei consumi per tornare al punto di partenza. Il consumo dienergia è raddoppiato ogni trenta anni negli ultimi duecento anni e,con due terzi dell’umanità in rincorsa per il benessere, continuerà araddoppiare ancora per un po’. Si parlò, all’epoca, di fare un sistematutto elettrico, ma a parte che molte tecnologie sarebbero ancora dainventare, la sostanziale non accumulabilità dell’energia elettrica co-stringerebbe a dimensionare tutto il sistema sulla domanda di picco.Appare dunque molto opportuno un vettore energetico chimico per iconsumi non elettrici. La facile scelta cadde sull’idrogeno, che nascedall’acqua e torna all’acqua, non inquina e si trasporta facilmente co-me il gas metano. L’idrogeno d’altronde, è una vecchia conoscenzaenergetica: il gas di città che illuminava e riscaldava le grandi città eu-ropee fino alla seconda guerra mondiale era anche idrogeno. Inciden-talmente, anche il primo motore a scoppio di Matteucci-Barsanti an-dava ad idrogeno.

Feci una ricerca bibliografica per vedere come si stava a tecnologied’uso e trovai con sorpresa che ogni genere di uso finale era all’epocastudiato da qualcuno. C’erano perfino le lampade fluorescenti, in cuiil fosforo veniva direttamente eccitato dalla ossidazione dell’idrogenocatalizzata dal fosforo stesso. Negli anni Cinquanta un aereo militareamericano aveva volato usando idrogeno, cosa che del resto facevano

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gli Zeppelin per utilizzare l’idrogeno di ballast che altrimenti sarebbeandato perduto. Ma la cosa più affascinante che uscì dalla ricerca erala possibilità di produrre alimenti per gli astronauti usando idrogenocome materia prima. C’è qui la possibilità di liberare l’uomo dall’agri-coltura, con tutte le conseguenze sociali e politiche che questo com-porta. La cosa era da attendersi visto che in ultima analisi la clorofillausa l’energia solare per decomporre l’acqua in idrogeno ed ossigeno el’idrogeno per poi ridurre la CO2 a carboidrati.

Uno dei problemi non sufficientemente sviscerati e su cui lavorainegli anni Settanta fu quello del perché l’uomo negli ultimi due secoliè passato dal legno al carbone e poi al petrolio per soddisfare i propribisogni energetici. La banale risposta che si trova sui libri è che le fo-reste erano state super-sfruttate e dunque esaurite. La cosa può esservera localmente, ma ancora oggi le foreste nel mondo hanno, diciamo,100 TW sotto forma di biomassa. L’umanità consuma circa 10 TW,non si vede dunque il problema delle risorse. Si può dire che le forestesono sparse per il mondo, ma lo stesso vale per i campi petroliferi. Unragionamento analogo si può fare per il carbone.

Il punto chiave secondo me è che lo sfruttamento delle foreste nonha molte economie di scala: tagliare due alberi costa il doppio che ta-gliare un albero.

Neppure l’argomento della facilità di uso ha molto peso. È veroche mandare un’auto a legna impiccerebbe, ma le grandi città comeParigi nel secolo scorso facevano un grande uso di metanolo, distillatodal legno, ed ottimo combustibile per le auto. D’altra parte, nessunousa petrolio greggio per accendere i motori, ma ci vuole l’elaborazionedi complesse raffinerie.

Dopo un’attenta analisi delle transizioni, sono giunto alla conclu-sione che il parametro chiave che porta alla sostituzione sono le eco-nomie di scala. La forza propulsiva viene dall’espansione del mercato,cioè il consumo totale, ed anche dalla densità spaziale del consumo.Questo processo di trascinamento si vede più chiaramente all’internodi una data tecnologia. Consideriamo, ad esempio, il sistema elettrico.Qui una centrale “vede” attraverso le sue linee di distribuzione uncerto mercato definito dai costi di trasporto e dalla densità spazialedell’uso di energia elettrica. La potenza del generatore è aggiustata diconseguenza. Se la densità spaziale del consumo cresce, il mercato “vi-

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sto” dalla centrale cresce anche più rapidamente perché le linee pos-sono usare tensioni più alte e portare l’energia più lontano. Le splen-dide statistiche del mercato americano permettono di seguire il pro-cesso più o meno fin dal tempo di Edison e mostrano, a fianco di unraddoppio dei consumi ogni sette anni, un raddoppio delle potenzeunitarie dei generatori ogni sei anni. In soli 100 anni questi generatorisono passati dai 10 kWe del Jumbo Dinamo di Edison al gigawatt deigeneratori di oggi. Un incredibile salto di un fattore 100.000.

Senza effetti così teatrali la capacità degli aerei misurata in passeg-geri-km/ora è aumentata di 100 volte in 50 anni in stretta concomitan-za con l’aumento del traffico, cosìcché il numero degli aerei commer-ciali è rimasto costante fino a pochi anni fa (regola interrotta dallamancanza di un aereo da 1.000 posti, ora in costruzione).

La sostanza di tutte queste osservazioni è che se vogliamo sfruttareuna tecnologia destinata al successo dobbiamo far sì che le economiedi scala facciano parte della sua evoluzione. Dal punto di vista delladistribuzione, l’idrogeno, come vettore energetico, pone già solide ba-si. In effetti, esso possiede un’alta trasportabilità come gas. Con l’aiutodella SNAM facemmo un po’ di conti ad ISPRA trovando che il tra-sporto in grandi pipelines costava più o meno come quello del meta-no. Una centrale di produzione potrebbe così “vedere” un continente.Se si pensa all’H2 trasportato da cryotankers simili alle metaniere, ilmondo diventa il mercato.

Dal punto di vista della produzione siamo ancora all’anno zero. Ireattori ci sono, però con taglie adattate al mercato elettrico e dunquenell’ordine del GW. Il mercato mondiale dell’energia appoggiato aicryotankers ci porta sull’ordine del terawatt, cioè tre ordini di gran-dezza di più. Inoltre, anche il processo di decomposizione dell’acquadeve avere la possibilità della grande taglia e di economie di scala con-seguenti. Per quanto riguarda i reattori, negli anni Sessanta, quando icosti erano ancora trasparenti, trovai che per reattori di caratteristichesimili il costo cresceva con la radice quadrata delle dimensioni, una re-lazione – questa – paragonabile a quella per gli impianti chimici.

La logica strategica ci porta dunque verso grandissimi reattori nu-cleari associati ad impianti chimici per la produzione dell’idrogeno. Ilnucleare ha sofferto di una cattiva informazione negli ultimi anni ma,come dimostrai in un paper di 15 anni fa, Nuclear Energy and Society,

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la caduta nel ritmo di costruzione delle centrali è legata ai cicli econo-mici di Kondratiev e la loro costruzione rispetta perfettamente il mo-dello. Anche le acciaierie e le fabbriche di automobili, d’altronde,hanno seguito una stasi parallela. Previdi anche che la costruzione dicentrali sarebbe ripartita con il ciclo successivo, cioè ora.

È molto curioso osservare come in parallelo si stiano ammorbiden-do le posizioni degli antinuclearisti. È di questi giorni la dichiarazionedi James Lovelock, padre del concetto di Gaia ed ovviamente moltoecologista: «Nuclear Power is the only green solution. We have no ti-me to experiment with visionary energy sources: civilization is in im-minent danger» 1.

Incidentalmente, gli USA pur senza costruire nuove centrali hannoaumentato la produzione di quelle esistenti di un buon 30% miglioran-do la loro disponibilità e ne hanno prolungato la vita di vari decenni.

Sulle scelte strategiche per l’idrogeno come vettore dell’energianucleare

Una volta identificato il vettore, nel mio laboratorio di Ispra, co-minciammo a pensare come produrlo, a partire dall’acqua e dal calorenucleare. La soluzione banale fu di farlo per elettrolisi ma la scartam-mo con vari argomenti: primo, l’elettrolisi è un processo in serie, il cheaumenta i costi e diminuisce i rendimenti; secondo, esso non ha eco-nomie di scala, venendo così contro ad uno dei criteri strategici.

Bisogna infatti sempre tener presente la dimensione del sistemaenergetico: 10 TW o 10 miliardi di tonnellate di carbone equivalenteall’anno sono tanti, l’industria energetica è la più grande del mondoda qualsiasi parte la si guardi, e chi si gingilla con il solare od il ventonon ha afferrato la dimensione del problema, presente e futuro. Ciconcentrammo così sui metodi chimici i cui impianti hanno di solitoforti economie di scala.

Cominciammo a sviluppare, di conseguenza, una serie di processi, iMark-X, che possono essere visti come scatole nere in cui da un lato

1 L’energia nucleare è la sola soluzione verde. Non abbiamo tempo per fareesperimenti con immaginifiche sorgenti di energia: la civiltà sta correndo un im-minente pericolo (24 maggio 2004).

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entrano acqua e calore ad alta temperatura, e dall’altro escono idroge-no, ossigeno, e calore a bassa temperatura. Tutta la chimica interna è aciclo chiuso. Inventare un buon Mark è difficile perché ci sono tantecondizioni al contorno. I composti chimici devono essere a buon mer-cato, compatibili con materiali più o meno esistenti; i prodotti devonoessere facilmente separabili, etc. etc. Mettemmo in opera anche ilcomputer che sulla base delle proprietà termodinamiche dei compostiinventava dei cicli, ma fu un disastro per una ragione inaspettata: lamaggior parte delle reazioni chimiche proposte, sia pur banali, nonerano mai state studiate. La chimica inorganica, contrariamente aquello che si pensa, è tutta da scoprire. Pensammo astutamente dichiedere a dei professori universitari di far studiare queste reazioni co-me esercizi per gli studenti. La risposta unanime fu che loro non face-vano “perder tempo” agli studenti per studiare reazioni “esotiche”.Così tutti i Mark X – ne abbiamo elencati una ventina, ma quelli pos-sibili sono un numero infinito e questo dà speranza di trovarne unosupremo – sono usciti dalle fertili menti dei chimici.

L’idea di base è che le temperature che un reattore nucleare puòfornire sono insufficienti per fare un cracking diretto dell’acqua. I fu-sionisti ed i solari ci hanno fatto un pensierino, ma il problema è diffi-cile, anche perché poi bisogna separare i prodotti in temperatura af-finché non si ricombinino. Si può però rimediare facendo l’operazionein due tappe: in una si separa, ad esempio, l’idrogeno attaccando l’os-sigeno ad una molecola che fornisce una certa energia libera; nella se-conda si separa l’ossigeno. Ciascuna operazione si può fare con i cam-bi di energie libere accessibili con le temperature del reattore. Si devo-no però mandare le sostanze avanti ed indietro, per cui questi processihanno tipicamente quattro reazioni. Termodinamicamente, però, sipotrebbe far tutto in un solo colpo appoggiandosi ad una molecolache abbia una variazione di energia libera, nel campo delle temperatu-re disponibili, equivalente a quella della decomposizione dell’acqua.La decomposizione dell’acido solforico non va molto lontano da que-sto obbiettivo, e per questo vari processi si appoggiano alla decompo-sizione termica dell’acido solforico con chiusure di varia ingegnosità.

Con vari anni di lavoro li portammo fino a livello di table top e par-ziale dimostrazione, ma la burocrazia di Bruxelles intervenne dichia-rando il tutto eccessivamente futuristico per i bisogni della Comunità

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Europea, e nel 1976 chiuse i fondi per le ricerche. Si da il caso, però,che nel 1973 avevo fatto una tournée in Giappone vendendo l’idea. Incontemporanea, pubblicai sulla rivista CEER, giapponese, una visioneglobale e dettagliata sul funzionamento di una società tecnologica ba-sata sull’idrogeno come vettore energetico in una memoria dal titoloHydrogen and Energy. Il concetto di economia dell’idrogeno è già tut-to lì. Un particolare che prelude alla dimensione del sistema è laEnergy Island impiantata all’interno di un atollo nel Pacifico e capacedi produrre, in termini energetici, l’equivalente di un Medio Oriente:un Terawatt. La dimensione è definita dal mercato che il sistema di di-stribuzione “vede” e il cryotanker, come detto, vede il mondo. La fecianche operare in un renewable energy mode, più che altro per prende-re in giro quelli che fanno del solare un feticcio perché dicono chenon si esaurisce. Osservando che l’acqua di raffreddamento, pompataad una certa profondità per ragioni termiche, trasporta un ordine digrandezza in più di uranio rispetto a quello fissionato nei reattori, pro-posi di estrarne una parte e mandare avanti i reattori con quello. Es-sendo pompata sotto la termoclina e buttata alla temperatura della su-perficie del mare (tanto per non lasciare firme termiche), quest’acquanon torna indietro. Tenuto conto delle dinamiche oceaniche si puòandare avanti tranquillamente a estrarre per 10.000 anni. Nell’isola c’èanche incluso un sink ad auto-affondamento termico: i prodotti di fis-sione producono calore ed in opportuna configurazione fondono ilterreno, e, essendo più densi, affondano. Il processo può durare peranni e le profondità finali possono essere di 10-20 km, abbastanza persentirsi sicuri ed in più il sistema fa tutto da sé. Per verificare le equa-zioni, facemmo ad Ispra una serie di esperimenti in vivo usando deigiganteschi blocchi di salgemma portati su dalla Sicilia. Anche questofu bloccato dalla commissione dei saggi con l’argomento che il proble-ma del waste disposal era risolto e la nostra ricerca era ridondante.Però l’avevamo gia conclusa.

L’Energy Island entusiasmò i giapponesi, che intravidero l’indipen-denza energetica oltre alla possibilità di esportare auto con la dote dicombustibile per farle funzionare. Sia pure con sforzo limitato, hannopoi sempre continuato a lavorare sui vari problemi ed ora hanno dueprocessi di water splitting buoni (con rendimenti di almeno il 50%, eche possono naturalmente aumentare con lo sviluppo tecnologico, co-

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me succede di solito), tre processi di estrazione di uranio dall’acqua dimare, ed un reattore ad alta temperatura appena finito di costruire.Argonne ha prodotto, ancora sulla carta, un breeder che funziona a1.000 °C in bagno di piombo, è auto-regolante, non richiede refuelinge si sostituisce dopo 25 anni. Le tecnologie convergono anche senzaun coordinamento formale.

Una volta prodotto, l’idrogeno va portato al consumatore finale.Marciando a ritroso, la distribuzione agli utenti con tubi non presentaproblemi. A parte le vecchie città che erano cablate con il gas di città,ci sono oggi nel mondo migliaia di km di pipeline che portano idroge-no a pressioni varie per usi industriali. Nello studio che facemmo adIspra con l’aiuto della SNAM, venne fuori che il trasporto a distanzacosta più o meno come quello del metano. Per il trasporto marino lascelta inevitabile è l’idrogeno liquido. Costa farlo, ma feci sparire ilcosto aggiuntivo nelle economie di scala che il mercato globale per-mette. Nel frattempo, c’è molto da fare nelle tecnologie di liquefazio-ne. Per la tecnica, le metaniere servono da modello. Nella memoriasopra citata, schematizzai delle idrogeniere da un milione di tonnella-te. Da uno studio precedente avevo visto, infatti, che la stazza dellepetroliere dipende dalle tonnellate-km di petrolio trasportato, e il rap-porto è in effetti una frazione fissa: essendo, in questo schema, tuttal’energia trasportata per mare, le ton-km sono molte.

Quanto ci vuole a rendere il tutto operativo? In uno studio che hofatto sull’interazione tra la società e le nuove tecnologie, come il trenoo l’auto, si vede che per digerire l’idea ci vogliono trenta anni. Questisono appena finiti e si osserva in effetti tutto un pullulare di iniziativeper far qualcosa. I congressi per anno sono una cinquantina e ci sonoanche i rallies per auto ad idrogeno. Queste iniziative imbarcherannola tecnologia nel tessuto sociale e per questo ci vogliono altri trentaanni. In questo periodo l’idrogeno sostituirà gli altri combustibili inordine sparso, come del resto è successo per carbone, petrolio e gasnaturale che sono penetrati con simili costanti di tempo. Sia ben chia-ro: viste le dimensioni del mercato, qualche percento di penetrazionemette in gioco mercati ricchissimi. C’è naturalmente il problema didove cominciare. In un congresso a Mosca, una decina di anni fa, feciuna proposta che appare ancora ragionevole ed ha degli importanti ri-svolti strategici. La Russia esporta oggi, cifra tonda, duecento miliardi

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di metri cubi di metano in Europa con poche grandi pipelines. La pro-posta era di fare il reforming di frazioni crescenti di questo metanousando calore nucleare e mettendo la CO2 in giacimenti petroliferilungo la strada per stimolare la produzione terziaria, mescolando poil’idrogeno prodotto al metano trasportato.

La cosa è tecnicamente fattibile perché è stata studiata per almenovent’anni nel centro nucleare di Julich dal professor Schulten con ilsuo reattore a grafite. Schulten pensava di trasportare il calore nuclea-re disfacendo e rifacendo il metano, ma la cosa non ha avuto successoindustriale. I processi però restano e danno una base tecnica a quantopropongo. Lo scopo del congresso e la mia motivazione formale eraquella di dare un po’ di contesto economico al processo di disposaldella CO2 di cui miriadi di persone parlavano senza che poi si fossefatto molto. C’erano dietro però altri due obbiettivi strategici.

Innanzitutto, la dimensione dei reattori per fare energia elettrica èoggi di qualche GW perché questo richiede il mercato elettrico. Visti iflussi di metano in gioco questo reforming può accettare e magari ri-chiedere reattori anche dieci volte più grandi. Si sarebbe così creatoun “vivaio” per i reattori grandissimi che la produzione di idrogeno el’isola energetica prediligono.

Secondo, l’idrogeno si può mescolare al metano senza creare pro-blemi agli utenti finali, diciamo fino al 20%. Questa miscela verrebbeautomaticmente distribuita in tutta Europa e potrebbe aiutare a risol-vere il problema di dove reperire l’idrogeno per tutte le iniziative, spe-cie nel campo dei trasporti, che stanno oggi pullulando. Poiché è faci-le tirar fuori l’idrogeno dal metano, ci sarebbe così idrogeno per ali-mentare le auto e le varie altre sperimentazioni, con una infrastrutturacontinentale già operativa.

I trasporti consumano forse il 30% dell’energia primaria, e sonoun mercato interessante anche perché assai inquinante. In effetti tutti iproduttori d’auto sgambettano per arrivare con un modello plausibile.Ce ne sono in giro una cinquantina. Anche la Fiat si dà da fare conuna Seicento adattata all’uso dell’idrogeno con un pack di fuel cells da50 kW. Essendo l’idrogeno un gas, il problema è come portarselo die-tro. Ci sono molte soluzioni, nessuna del tutto soddisfacente. La Fiatusa quella più conservativa, le bombole di gas di cui oggi esistono mo-delli sofisticati, sviluppati appunto per l’idrogeno. Poiché l’idrogeno

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nella tavola di Mendeleev è un metallo alcalino, ci si può aspettare chefaccia delle leghe: le fa, e molte si decompongono a temperatura am-biente con pressioni di qualche atmosfera. Sono nati così una miriadedi serbatoi ad idruri metallici, funzionali anche se un po’ pesanti. Perl’aereo l’unica soluzione è l’idrogeno liquido per cui non resta che co-struirci l’aereo intorno: Airbus dedica un sostanziale sforzo alla suaprogettazione. Anche costruttori di auto come BMW hanno optatoper l’idrogeno liquido e messo in piedi un sistema completo all’aero-porto di Monaco con auto e bus.

A questo punto nasce inevitabile la domanda: ma quanto costa? Iprezzi, a priori, sono sempre piuttosto utopici. La pratica permettenon solo di definirli, ma di diminuirli. La configurazione Isola Energe-tica contiene praticamente solo capitale, i costi discendono da interes-si ed ammortamento. Più miti sono i costi dell’idrogeno da reformingdel metano secondo lo schema presentato a Mosca. Vendendo la CO2a dei petrolieri disposti a usarla in loco per il recupero terziario, i costidel reforming verrebbero riassorbiti. Ad ogni buon conto, il fisco te-desco si è già svegliato (buon segno), fissando una tassa per l’idrogenoda usare nei veicoli di circa 1,5 centesimi di Euro per kWh, fino al2020. Questo è un punto fermo ed il prezzo parte da lì.

Approfittando delle risorse della tecnologia non riporto bibliogra-fia o note, si può scaricare tutto dal mio sito web http://www.cesare-marchetti.org/

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SFOGLIANDO I LIBRI DI TESTO DI SCIENZE PER LA SCUOLA

Giovanni Vittorio PallottinoUniversità di Roma La Sapienza

S fogliare con qualche attenzione i libri di testo di Scienze per lescuole è un esercizio che può risultare deprimente, ma che tut-tavia è utile per capire molte cose che ci riguardano assai da vi-

cino.La prima osservazione è che questi manuali sono generalmente

noiosissimi: stile pedante, alla “Dicesi punto di rugiada …”, impiegodisattento di terminologie inutilmente astruse, ed altro ancora 1. Ciòspiega le diffuse reazioni di rigetto dei ragazzi nei confronti di disci-pline che sono invece al tempo stesso affascinanti e di grande portatapratica. Un rigetto che non si manifesta poi soltanto nel basso livellodella cultura scientifica della popolazione, ma arreca anche un contri-buto decisivo alla caduta dello status della scienza nella visione co-mune.

La seconda osservazione è che quei libri sono costellati di ingenuità,di baggianate e di errori di fatto: vi si può addirittura trovare la propo-sta ai ragazzi, fatta in tutta serietà, di realizzare un moto perpetuo.

La terza osservazione è per noi la più delicata. Si trova infatti che lequestioni riguardanti l’energia e l’ambiente sono generalmente trattateseguendo gli indirizzi del più vieto ecologismo. Qui si riscontrano di-storsioni dei fatti, omissioni mirate e accettazione acritica di quanto èritenuto dagli autori “politicamente corretto”. Ciò contribuisce a spie-gare, accanto all’opera dei mass media, la diffusione fra il pubblico diidee stravaganti. Del resto, se è vero che in Italia si legge poco, è an-che vero che i libri scolastici penetrano in tutte le famiglie. E se questo

1 G. Flaccavento e N. Romano, La materia e la natura – La Terra nell’Univer-so, Fabbri Editori, 1998, pag. 20.

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è l’indottrinamento standard, propinato dalla scuola di stato, c’è pocoda lamentarsi poi per i suoi effetti.

Gli svarioni

Qualche anno fa, sfogliando il già citato libro di testo di scienzeper la scuola media – uno dei più diffusi – trovai una interessante pro-posta di esperimento nel paragrafo intitolato “L’acqua va… in salita”.Si suggeriva di sollevare dell’acqua da un recipiente in basso a uno inalto utilizzando una cordicella con un capo immerso nel primo reci-piente e l’altro disposto al di sopra del secondo. L’Autore spiegava chel’acqua «per capillarità, sale lungo la corda e, raggiunta l’altra estre-mità, cade goccia dopo goccia nel recipiente posto in alto». Come delresto inequivocabilmente dimostrava una apposita chiarissima illustra-zione. La proposta mi parve affascinante. Sia perché didatticamenteassai efficace, dato che l’esperimento, facilmente realizzabile dall’allie-vo, aderiva pienamente al moderno paradigma del learning by doing;sia perché l’idea era densa di prospettive concettuali come dimostra-zione pratica non soltanto del fenomeno della capillarità, ma soprat-tutto della fattibilità di un moto perpetuo. Sia, infine, come forte con-tributo al dibattito che avanza soluzioni semplici ed efficaci come al-ternative agli eccessi della big science: perché affrontare i problemienergetici attraverso costose e impegnative ricerche sulla fusione nu-cleare o sulle tecnologie fotovoltaiche quando soluzioni economicheed ecologiche al tempo stesso sono a portata di mano?

Ma l’episodio è tutt’altro che isolato. In quello stesso manuale e inaltri consimili si può trovare una ricca messe di svarioni, a livello con-cettuale (come nel caso detto prima), a livello fattuale, e anche neisuggerimenti per le attività sperimentali e operative che vengono pro-poste ai ragazzi. Si può leggere, per esempio, che «ormai quasi tutti itipi di aereo, militari o di linea, superano, ampiamente e in piena sicu-rezza, il muro del suono. Su ogni aereo è perciò installato uno stru-mento, il machmetro», e che, restando in argomento, il volo superso-nico permette agli aerei militari “di arrivare sui bersagli prima chepossa giungervi il rumore dei loro motori, evitando così di essere avvi-stati”. Troviamo anche che «un watt equivale a circa 1000 calorie»(non prima, però, di aver puntualizzato che «il watt, come la caloria, è

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una unità di misura dell’energia»). Oppure che «il gas inerte usatonelle lampadine ha la proprietà di rallentare la carbonizzazione deltungsteno». Suggerendo poi ai ragazzi osservazioni del tipo: «Se osser-vi tutto ciò che emette luce, vedrai che si tratta di corpi caldissimi»,con buona pace delle lampade a scarica, dei LED e anche delle luccio-le. E dedicando spazi incongrui (ben due pagine) ad argomenti comela cromoterapia, non mancando qui di stabilire puntualmente che ilviola «è il colore più carico di energia, attenua il senso di appetito, ri-duce il ristagno dei liquidi ed è utile in caso di caduta dei capelli», conanaloghe disquisizioni per tutti gli altri principali colori. Nulla ho tro-vato, invece, sulla cristalloterapia, ma a questa grave carenza si può fa-cilmente rimediare collegandosi al sito ufficiale dell’Enel 2.

Un’attenzione particolare trova l’argomento del moto perpetuo,dove a volte si propongono improbabili esperimenti, come quellomenzionato prima, altre volte ci si limita a informare che: «Con il no-me di moto perpetuo si indicano dei meccanismi che, pure essendopossibili in teoria, non possono mai essere realizzati nella pratica». Maanche gli atomi sono ben rappresentati: «L’atomo è costituito da unnucleo, formato a sua volta da due tipi di particelle, i protoni e i neu-troni, e da orbitali, spazi in cui è possibile trovare particelle di un altrotipo, gli elettroni».

Sappiamo bene che delle scienze studiate a scuola nei crani dei ra-gazzi resta ben poco, certamente assai meno che delle materie umani-stiche. Che si tratti, per quanto si è detto, di un caso fortunato? O vo-gliamo consolarci leggendo su Physics Today 3 che anche in Usa la si-tuazione a questo riguardo è tutt’altro che rosea?

Il terrorismo

Più pericoloso degli svarioni, tuttavia, in quanto veramente insidio-so, è il tono di fondamentalismo ambientalista e di opposizione al pro-gresso tecnico-scientifico che emerge spesso nei contenuti dei manualiscolastici. Che a volte sembrano veramente ispirati dal fantasma evo-

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2 http://www.enel.it/astroluce/newage/cristalloterapia/cose.asp3 J. Hubisz, «Middle-School Texts Don’t Make the Grade», Physics Today, 5,

50 (2003).

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cato nel Manifesto dell’associazione Galileo 2001: quel «fantasma chesi aggira da tempo nel Paese, un fantasma che sparge allarmi ed evocacatastrofi, terrorizza le persone, addita la scienza e la tecnologia astrat-tamente intese come nemiche dell’Uomo e della Natura e induce adatteggiamenti antiscientifici facendo leva su ingiustificate paure cheoscurano le vie della ragione». Questa azione è particolarmente sub-dola in quanto sfrutta il canale istituzionale della scuola e si rivolge auna massa sterminata di ragazzi, naturalmente disposti a prendere perbuono tutto quello che trovano scritto sui loro libri di testo (e non ci èchiaro se dovremmo sperare che li leggano o no). Alimentando cosìquelle forme di repulsione verso la scienza, e la tecnologia in generale,che sono oggi tanto diffuse nell’opinione corrente. Proprio nel mo-mento, d’altra parte, in cui alla società si pongono scelte, sempre piùdifficili, su questioni che richiedono assieme cultura scientifica edequilibrio.

Si deve osservare, inoltre, che questo tipo di materiale appare chia-ramente derivato dalla lettura degli articoli dei giornali, sempre apertial catastrofismo, trascurando invece di avvalersi delle conoscenze mes-se assieme dalla comunità scientifica, rappresentate dalla letteraturascientifica e soprattutto dalle elaborazioni e dalle conclusioni degli or-ganismi, nazionali e internazionali, a cui è affidato il compito istituzio-nale di stabilire i criteri di sicurezza per la salute e la protezionedell’ambiente. E del resto, proprio come avviene sui media, i rischimeno “rischiosi” vengono assai più evidenziati dei rischi reali.

Fra i pericoli derivanti dalla tecnologia, quelli relativi al nuclearesono maggiormente posti in luce, ricordando sempre ad abundantiamil disastro di Chernobyl, ma dimenticando di spiegare di che centralesi trattasse, di quali protezioni essa disponesse e cosa avvenne effetti-vamente nella tragica notte del 26 aprile 1986. E trascurando anche diricordare che il nostro paese, ormai da decenni, deve ricorrere all’im-portazione di grandi quantità di elettricità nucleare (che alimenta an-che quei nostri comuni che sono denuclearizzati) e, se viene a mancareil sistema elettrico nazionale, entra in crisi. Ai toni allarmistici si ac-compagnano poi innumerevoli stravaganti spiegazioni. Così possiamoleggere che le esplosioni atomiche emettono «radiazioni gamma chesalgono nell’atmosfera e, trasportate dai venti, possono raggiungerelocalità molto lontane». Oppure, a proposito della radioattività artifi-

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ciale, che «tutto ciò ha determinato un tale aumento della radioattivitàche essa ha raggiunto ormai livelli pericolosi per l’ambiente e gli esseriviventi». Sicché non resterebbe che emigrare su Marte.

Sugli argomenti relativi all’energia la disinformazione domina: suun testo di qualche anno addietro si poteva leggere che in Italia «si staora progettando la conversione delle centrali nucleari esistenti per po-terle usare con altri combustibili». Come se ciò fosse possibile: maproprio questo si leggeva allora sui quotidiani e nelle dichiarazioni diimportanti uomini politici. Mentre su un altro manuale si prevedevache entro la fine del secolo (quello appena concluso) sarebbero potuteentrare in funzione le prime centrali nucleari a fusione.

Un altro argomento su cui si richiama l’attenzione dei ragazzi èquello del cosiddetto “elettrosmog”. Con i soliti allarmismi nei con-fronti di elettrodotti e antenne radio, e a volte fornendo una serie disuggerimenti “pratici” la cui applicazione condurrebbe a muoversi incasa come se ci trovassimo in un campo minato («stare sempre ad al-meno mezzo metro dall’impianto hi-fi», «meglio non sedersi entro unraggio di 50 cm dal frigorifero», «il campo elettromagnetico del tele-visore arriva entro un raggio di 3 metri»). Ma c’è spazio anche per lachimica, per esempio dove, drasticamente e senza appello si stabilisceche «i prodotti chimici comunemente usati in agricoltura aggiungonoal suolo veleni in genere, che eliminano anche tutti i microrganismi egli insetti utili», prefigurando “primavere silenziose” seguite da altrestagioni egualmente taciturne. I ragazzi di campagna, certo, rideran-no nel leggere questa baggianata, ma quelli di città potrebbero anchecrederci.

Per concludere, una domanda puntuale: come mai non funzionanoi meccanismi istituzionali che dovrebbero condurre a produrre, e poia selezionare, trattazioni ragionevoli, senza troppi errori e senza ecces-sive distorsioni?

185Sfogliando i libri di testo di scienze per la scuola

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IL PRINCIPIO DI PRECAUZIONE

Ernesto PedrocchiPolitecnico di Milano

I l dibattito ora in corso sul Protocollo di Kyoto, mi stimola a farequalche riflessione generale sul Principio di Precauzione (PdP) esulla sua applicabilità al caso particolare dei cambiamenti del cli-

ma globale e al Protocollo di Kyoto.La formulazione del PdP come risulta dall’art. 15 della dichiarazio-

ne di Rio del 1992 è la seguente: «Where there are threats of serious orirreversible damage, lack of full scientific certainty shall not be used asa reason for postponing cost-effective measures to prevent enviromen-tal degradation» la traduzione italiana più fedele potrebbe essere que-sta. «Ove vi siano minacce di danno grave o irreversibile, l’assenza dicertezze scientifiche non deve servire come pretesto per posporrel’adozione di misure, efficaci rispetto ai costi, volte a prevenire il degra-do ambientale». L’interpretazione e la traduzione corretta del testocrea problemi e non è improbabile che anche chi ha formulato il prin-cipio non avesse un’idea chiara di quanto veramente volesse esprimere.F. Battaglia 1 scrive: «Solo a chi non ha un’educazione scientifica puòpassare inosservata la vacuità del principio sovra esposto: la certezzascientifica è sempre assente. Certamente non è passata inosservata allaCommissione dell’UE che, però, anziché rifiutare il principio, ha tenta-to, un po’ arrampicandosi sugli specchi e aggiungendo problemi anzi-ché risolverne, di giustificarlo e di stabilirne i limiti di applicabilità».

Il PdP è un concetto, essenziale al buon funzionamento della so-cietà, che può essere applicato ad ogni problema tecnico-scientificoed è strettissimo parente del “coefficiente di sicurezza” che costituiscela base della formazione dell’ingegnere. Ma G. Bramoullé su Liberal

1 F. Battaglia, Le Scienze 394, 110 (2001).

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(agosto 2001) scrive: «Uscito dal suo contesto iniziale – la società civi-le – per diventare il leit motiv della società politica, il principio di pre-cauzione si trasforma da libero esercizio di saggezza a un pretesto mi-stificatorio per una regolazione liberticida. Nuovo alibi per i responsa-bili che non vogliono essere colpevolizzati, cavallo di Troia diun’estensione indefinita delle prerogative dello Stato, il Principio diPrecauzione, nella sua accezione corrente, è il principio costitutivo diuna società basata su una prevenzione che mantiene stazionarie lecondizioni esistenti». Bisogna quindi riportare il PdP nel suo giustoambito evitando una generalizzazione acritica e distorta.

Il PdP trae origine culturale dall’opera di Hans Jonas e in partico-lare dal suo scritto Il principio di responsabilità. Jonas è un ecologistache denuncia l’umanesimo e inneggia a una mistica naturalistica. Sem-pre G. Bramoullé afferma «In nome dell’irreversibilità delle azioniumane e dei pericoli del progresso tecnico e scientifico, Jonas vuoleaffidare a un’élite di uomini di stato, ritenuti capaci di assumersi etica-mente la responsabilità per le generazioni future, la direzione del pia-neta». Una linea culturale di questo tipo esaspera il Principio di Pre-cauzione, promuove una forte ostilità ad ogni forma di rischio e di fat-to risulta illiberale e tecnofoba.

Il PdP ha dato corpo a un’ondata di paure che ha portato con séun’accozzaglia di incertezze e di semplificazioni che soffocano l’inno-vazione e frenano lo sviluppo. L’ambientalismo integralista ha fattodel PdP il suo punto di forza e ne ha estremizzato le conseguenze: ba-sta una pubblicazione, fra mille contrarie, che ipotizzi un sospetto purremoto di danno ambientale o alla salute dell’uomo per osteggiare odemonizzare una qualsiasi innovazione tecnica. Tutta l’umanità, purnon accorgendosene, rischia di pagare caramente l’uso perverso delPdP. Non si riesce a capire chi abbia un’autorità superiore a quella de-gli scienziati competenti per prendere decisioni così gravi. Può darsiche la scienza non sia sufficiente per prendere queste decisioni, ma èindubbio che è indispensabile. Quando una persona nella nostra so-cietà ha problemi di salute consulta i medici, magari diversi, ma a lorosi affida non ai politici o alle fattucchiere; non si riesce a capire perchéquando i problemi pur sempre scientifici riguardano l’intera societàl’autorità scientifica non debba essere il riferimento primario. La di-vulgazione scientifica, spesso sinonimo di grave disinformazione, ac-

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centua sempre gli aspetti negativi ed emotivi: basti pensare che nei di-battiti televisivi si tende a dare eguale credito a scienziati di chiara fa-ma e a sedicenti esperti ambientali senza nessuna preparazione scienti-fica. Il problema del deposito delle scorie radioattive in Italia è solol’esempio più recente: tutto il mondo scientifico concorda con la solu-zione proposta e che non presenta alcun rischio. Anzi. Ma i politiciper esigenze di consenso sociale istigato dall’ambientalismo più ideo-logizzato hanno ceduto.

Nel caso particolare dei cambiamenti del clima globale il PdP rag-giunge il massimo della sua equivocità. In questo caso non solo è moltoincerto che il danno derivi da azioni antropiche, ma anche le misureproposte per contrastarlo sono difficilmente attuabili, alcune costose edi certa inefficacia. È questa una situazione ben diversa da quella in cuisi voglia prevenire un danno ipotetico, ma con un intervento attuabilee ragionevolmente efficace. Il Protocollo di Kyoto, che trova le sue radi-ci nel PdP, non è stato sufficientemente meditato; ne è risultato un do-cumento di difficile applicazione che gli stessi estensori hanno progres-sivamente modificato, derubricandolo da strumento “salva mondo” asemplice esercizio, più psicologico che effettivo, di virtuosismo am-bientale. Il furore ambientalista e la mancanza di una meditata rifles-sione hanno portato in tutto il mondo a una proliferazione di normati-ve pseudoscientifiche, sempre farraginose, senza nessuna possibilità diessere concretamente applicate e che daranno luogo a contenziosi didifficile risoluzione tra stati e istituzioni pubbliche e private.

189Il Principio di Precauzione

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PRINCIPIO DI PRECAUZIONE E PSEUDOSCIENZE

Silvano FusoCICAP 1 – Genova

N el Manifesto dell’associazione Galileo 2001 si legge il seguen-te brano: «La voce della scienza è certamente più affidabile eanche umanamente – oltre che intellettualmente – più consa-

pevole delle voci incontrollate e dogmatiche che, fuori di ogni rilevan-za scientifica, pretendono di affermare “verità” basate sull’emotivitàirrazionale tipica delle culture oscurantiste».

La pretesa di affermare verità basate sull’emotività irrazionale efuori da ogni rilevanza scientifica è caratteristica di quelle discipline“alternative” che tanta popolarità stanno riscuotendo nella società.Parallelamente al diffondersi di un atteggiamento antiscientifico si as-siste, infatti, al proliferare di discipline pseudoscientifiche che ipotiz-zano livelli di realtà, sconosciuti alla scienza, in cui agirebbero poteri,forze ed energie che, se non opportunamente controllate, potrebberorisultare estremamente pericolose. Inutile dire che dal punto di vistascientifico le affermazioni di queste discipline sono del tutto prive difondamento, non essendo mai emersa alcuna evidenza che renda mi-nimamente plausibile l’esistenza delle realtà da esse ipotizzate. Ciò no-nostante, i dati statistici mostrano che la diffusione delle credenze pa-ranormali e pseudoscientifiche tra la popolazione raggiunge livellimolto preoccupanti. La preoccupazione diventa ancora più fortequando si osserva che istituzioni e soggetti che possiedono responsa-bilità pubbliche, dando credito alle affermazioni pseudoscientifiche,intraprendono iniziative operative. Purtroppo, non mancano gli esem-pi. Vi sono stati dei pubblici amministratori che, invocando il Princi-pio di Precauzione e appellandosi a un generico “… nel dubbio è me-

1 Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sul Paranormale.

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glio prendere provvedimenti”, hanno agito in modo palesemente irra-zionale. Per ora, fortunatamente, i danni di queste iniziative irrazionalisono stati abbastanza limitati. È però facile immaginare che, se non siporrà un argine alla diffusione delle discipline pseudoscientifiche e sea livello politico si cederà alle pressioni di quei movimenti di pensieroche richiedono per esse un riconoscimento giuridico, le conseguenzeper la società potrebbero essere anche molto gravi.

L’ufficio anti-malocchio di Aulla

Un primo esempio di atto pubblico motivato da credenze irrazio-nali e pseudoscientifiche risale al 1998, quando il sindaco del Comunedi Aulla (provincia di Massa-Carrara), Lucio Barani, suscitò grandeclamore istituendo un “ufficio anti-malocchio”. In municipio i cittadi-ni di Aulla possono così trovare, oltre all’anagrafe, ai vigili urbani eagli altri servizi tradizionali, anche un apposito sportello gestito dauno staff di maghi ed esorcisti ai quali possono richiedere interventifinalizzati alla prevenzione e alla difesa dagli influssi negativi derivantida fatture e malefìci. Da notare che l’ufficio ha solamente finalità…difensive: per nessuna ragione i cittadini potranno richiedere interven-ti magici per causare danno a qualcuno.

È piuttosto evidente che la trovata del sindaco abbia avuto princi-palmente motivazioni pubblicitarie (il primo cittadino di Aulla si era,infatti, già distinto altre volte per iniziative clamorose). È tuttavia in-dubbio che un’iniziativa del genere abbia un costo economico chegrava sulla collettività e favorisca la diffusione di credenze oscuranti-ste e superstiziose. È interessante conoscere le motivazioni che lo stes-so sindaco ha fornito durante un’intervista: «Quella della magia edell’esoterismo è una tradizione culturale radicata nella nostra zonedalla notte dei tempi. Perché nasconderla o far finta di nulla? Comun-que, da quando abbiamo preso quest’iniziativa vengono decine e deci-ne di persone, anche le più insospettabili, a togliersi il malocchio gra-tis. Ormai Aulla è una città senza sfiga» 2.

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2 Tratto da: Simone Caffaz, Dalla Prima Repubblica al Terzo Millennio – Un-dici storie, un decennio, una provincia italiana, edizioni La Cometa.

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Il bio-architetto rabdomante ingaggiato dal comune di Siena

La credenza nel malocchio può far sorridere molte persone chenon esitano a definirla una semplice superstizione. Vi sono tuttavia al-tre credenze che, pur essendo egualmente assurde, riscuotono mag-gior credito, semplicemente perché appaiono fondate scientificamen-te. Un esempio significativo è quello delle cosiddette reti di Hart-mann. Poiché forse non tutti sanno di cosa si tratta, vale la pena de-scriverle.

Ernst Hartmann (1915-1992) era un medico dell’Università di Hei-delberg che, tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta, elaborò unabizzarra teoria secondo la quale la superficie terrestre sarebbe avvoltada una griglia di linee di forza, da molti ritenute di origine magnetica.Queste linee di forza avrebbero un effetto patogeno e le zone a mag-gior rischio sarebbero i punti in cui queste linee di forza si incrociano(nodi di Hartmann). Il rischio sarebbe poi particolarmente elevato sesotto al nodo (anche a elevata profondità) ci dovessero essere falde ac-quifere oppure faglie, che sono ritenute in grado di intensificare le“radiazioni nocive” sviluppate dal nodo.

Gli inconvenienti fisici che sarebbero causati dalla griglia di Hart-mann vengono genericamente indicati con il termine “geopatologie”.La cosa curiosa (e che fa comprendere quale possa essere la fondatez-za scientifica di questa teoria) è che le linee di forza e i nodi non pos-sono essere individuati da alcuno strumento di misura, ma solamenteda rabdomanti e sensitivi, che avviserebbero particolari vibrazioni inloro prossimità. Prima di Hartmann qualcun’altro aveva già elaboratoteorie simili: un certo Peyré sosteneva l’esistenza di una griglia analoga(le maglie però misuravano 8 metri di lato, contro i 2,50 previsti daHartmann); e negli anni Cinquanta un certo Curry affermava che lemaglie misuravano invece 3,15 m per 16 m.

Inutile dire che l’esistenza della rete di Hartmann non è mai statadimostrata da nessuno (com’è noto tutti i controlli diretti ad accertare ipresunti poteri dei rabdomanti hanno sempre dato esiti assolutamentenegativi). Inoltre, la sua esistenza contrasterebbe palesemente con leconoscenze fisiche. Le linee di forza di un campo magnetico, infatti,non possono incrociarsi, e sostenere il contrario dimostra soltanto unapreoccupante ignoranza scientifica. Occorre tuttavia osservare che non

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tutti i sostenitori delle reti di Hartmann affermano che si tratti di cam-pi magnetici. Ad esempio, due autori di nome Endros e Lotz sostengo-no che esse sarebbero costituite da “raggi tellurici” causati da un irrag-giamento di neutroni termici a 0,025 eV. È superfluo dire che ancheuna tale emissione neutronica non è mai stata rilevata da nessuno.

La teoria delle reti di Hartmann è dunque pseudoscienza pura, pri-va di ogni fondamento. Quello che preoccupa è che in certi ambientiè presa sul serio. Ad esempio, la cosiddetta Bioarchitettura® (questaparola è un marchio registrato), disciplina architettonica che prendein considerazione gli aspetti biologici ed ecologici legati alle costruzio-ni, fa spesso riferimento alle reti di Hartmann.

Un noto manuale di architettura usato a livello universitario 3 dedi-ca un intero paragrafo alle geopatologie indotte dalle reti di Hart-mann, con tanto di grafici e precise indicazioni su come posizionare illetto per minimizzare i danni. Nel libro vi sono vere e proprie perle.Ad esempio, vi si può leggere che: «Disponendo su tutta la sfera terre-stre una cosiddetta griglia globale costituita da onde verticali si provo-cano azioni geologiche apparentemente come quelle provocate dal So-le, ma la loro regolarità anche secondo Hartmann potrebbe far pensa-re ad un irraggiamento terrestre, proveniente dall’interno del globo,che si dispone come una griglia a rete per effetto dei cristalli esistentinella crosta terrestre». E poi continua sullo stesso tono. Chiunque ab-bia un minimo di conoscenze scientifiche può scegliere se inorridire oridere di fronte a simili affermazioni.

Sul mercato esistono numerose ditte specializzate (spesso gestitedagli stessi rabdomanti) che commercializzano costosi dispositivi chesarebbero in grado di schermare i nodi di Hartmann, fornendo prote-zione nei confronti dei loro presunti nefasti effetti.

Una prova che sarebbe certamente interessante condurre su rabdo-manti e sensitivi sarebbe la seguente. Bisognerebbe far loro individua-re i nodi di Hartmann in un certo ambiente. Dopodiché bisognerebbecoprire i nodi con tappetini schermanti e con tappetini fasulli, apposi-tamente preparati, questi ultimi, per renderli indistinguibili dai primi.A questo punto i rabdomanti dovrebbero essere in grado di stabilirequali tappetini sono reali e quali sono fasulli. Naturalmente nessun

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3 E. Neufert, Enciclopedia pratica per progettare e costruire, Hoepli

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sensitivo ha mai accettato questa sfida: alcuni sostengono la non vali-dità di una simile prova affermando che la rete di Hartmann si muove.A questo punto nasce spontanea una domanda: se la rete di Hartmannè in movimento, che senso ha studiare accuratamente la disposizionedegli edifici o del letto o collocare costosi dispositivi di protezione inpunti attentamente individuati?

È evidente che un amministratore pubblico al quale viene paventa-to il “rischio” delle reti di Harmann, prima di intraprendere qualsiasiiniziativa, dovrebbe documentarsi e consultare qualche fonte scientifi-camente attendibile. Purtroppo, però, questa procedura non è cosìscontata, come ha dimostrato nel 1997 la giunta comunale di Siena,presieduta dal sindaco Pierluigi Piccini. Con la delibera comunale n.179, del 3 febbraio 1997, la giunta comunale di Siena decise, infatti,all’unanimità di affidare il compito di eseguire una mappatura dei no-di di Hartmann nelle cinque scuole materne del Comune al bio-archi-tetto e rabdomante Fosco Firmati. Quest’ultimo, che già aveva opera-to a Grosseto e ad Arezzo, aveva allertato l’amministrazione comunaledi Siena sostenendo che i nodi di Hartmann mettevano a repentagliola salute dei bambini poiché avrebbero favorito l’insorgenza di leuce-mia infantile. Nella delibera, la giunta stabilisce anche in sette milionie mezzo di lire il compenso spettante al Firmati per la sua prestazione.Per fortuna, in seguito a un intervento del CICAP, che lo informavadella totale infondatezza scientifica della teoria di Hartmann, il sinda-co decise successivamente di bloccare il progetto. Se la cosa fosse an-data avanti è ragionevole pensare che il costo per l’amministrazionesarebbe stato sicuramente più elevato dei sette milioni e mezzo pattui-ti per il bioarchitetto. Infatti, una volta eseguita la mappatura, si sa-rebbero dovuti poi intraprendere provvedimenti per proteggere gliasili o addirittura spostarli in luoghi ritenuti meno pericolosi.

Rischi immaginari e rischi reali

I due esempi precedentemente riportati fanno comprendere comel’accettazione acritica di affermazioni pseudoscientifiche e la conse-guente credenza nei rischi da esse paventati possano condurre a scelteirrazionali e sostanzialmente nocive per la collettività.

Analizzando il comportamento del sindaco di Aulla e della giunta

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comunale di Siena ci si può facilmente rendere conto che esso è so-stanzialmente coerente con il Principio di Precauzione così come appa-re nella formulazione fornita dal principio 15 della Dichiarazione diRio del 1992: «Laddove vi siano minacce di danni seri o irreversibili,la mancanza di piene certezze scientifiche non potrà costituire un mo-tivo per ritardare l’adozione di misure, efficaci rispetto ai costi, volte aprevenire il degrado ambientale».

Le “piene certezze scientifiche” non esistono mai, neanche relati-vamente a ciò che la scienza può dire riguardo ai contenuti delle pseu-doscienze. In linea di principio, nessuno può affermare con assolutacertezza che il malocchio o le linee di Hartmann non esistono. Quelloche le attuali conoscenze scientifiche ci consentono di dire è che fino aoggi non è mai emersa nessuna evidenza che ne renda plausibile l’esi-stenza. In sostanza non è la scienza che deve dimostrare l’infondatezzadelle pseudoscienze, ma sono queste ultime che devono dimostrare lavalidità delle loro affermazioni. La differenza è sottile ma importante.Nel sia pur piccolo margine di incertezza che inevitabilmente la scien-za lascia scoperto, possono insinuarsi le scelte irrazionali di coloroche, contro rischi altamente improbabili, intraprendono iniziative gra-vose per la collettività. Si arriva in tal modo alla situazione paradossalein cui rifiutando la scienza a causa della sua inevitabile natura dubita-tiva, ci si affida alle “certezze”, apparentemente apodittiche ma inrealtà del tutto illusorie, delle pseudoscienze.

Tra i tanti rischi immaginari, questo è un rischio reale. Oltre aidanni immediati derivanti da scelte irrazionali, il rischio principale èdi tipo culturale. La scienza, almeno relativamente al suo dominio dicompetenza, ci fornisce strumenti insostituibili. Non sono perfetti, mafinché l’umanità non riuscirà a trovarne di migliori saremo costretti afarvi ricorso, se non vogliamo correre il rischio di un regresso cultura-le in cui il dogmatismo e il principio di autorità tornino a dominare.

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RINGRAZIAMENTI

Questo volume raccoglie gli interventi presentati al I Congresso nazionaledell’Associazione Galileo 2001, tenutosi a Roma, il 19 febbraio 2004,presso i locali del Consiglio Nazionale delle Ricerche. Oltre che il CNRper aver ospitato il convegno, l’Associazione Galileo 2001 ringrazia:

• Il Presidente della Repubblica, per aver concesso il Suo alto patronato;

• la Presidenza del Consiglio dei Ministri,• il Ministero degli Affari Esteri,• il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio,per aver patrocinato l’evento;

• il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio,• l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, • il Comune di Roma,• l’ENEA, • l’Assobiotec (Associazione nazionale per lo sviluppo delle biotecnologie),• l’Associazione italiana nucleare,per i contributi elargiti e che hanno reso possibile il convegno e la pubbli-cazione del presente volume.

Si ringraziano, naturalmente, gli oltre 200 partecipanti, che sono stati de-terminanti per il successo dell’iniziativa e, in particolare, gli studenti e gliinsegnanti della scuola IIS Pacinotti-Gobetti “sezione classica” di Fondi(Latina) per l’entusiastico interesse.

Un grazie anche alla Multimedia sas di Valter Cirillo & Partners per il ge-neroso impegno profuso nella cura del sito dell’Associazione, www.gali-leo2001.it .

Infine, ma non ultimi, per aver curato con competenza gli aspetti organiz-zativi del convegno si ringrazia la signora Angela Rosati e, in particolare,Cristiano Bucaioni per aver anche svolto il lavoro necessario a trasforma-re le relazioni orali nel presente volume.