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DONNE CHIESA MONDO MENSILE DELLOSSERVATORE ROMANO NUMERO 73 NOVEMBRE 2018 CITTÀ DEL VATICANO La vista

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D ONNE CHIESA MOND OMENSILE DELL’OSSERVATORE ROMANO NUMERO 73 NOVEMBRE 2018 CITTÀ DEL VAT I C A N O

La vista

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numero 73novembre 2018

IN T E R V I S TA A CASSAR SCALIA

Guardare con la mente altroveGIULIA GALEOTTI A PA G I N A 3

LA POESIA DI MARY OLIVER

Vivere con gli occhi ben apertiELENA BUIA RUTT A PA G I N A 6

NELLA PITTURA DI MARY CA S S AT T

Bambini finalmente visibiliMARTINA CO R G N AT I A PA G I N A 9

UNA QUESTIONE E D U C AT I VA

Sguardo liberoROSSANA BRAMBILLA A PA G I N A 12

LA SO CIETÀ DEL SELFIE

Mamma mi si è ristretta la vistaPIERO DI DOMENICANTONIO A PA G I N A 16

UN TESTO DI RIFERIMENTO PER L’ISLAM

Muhammad ‘Abduh e le immaginiSAMUELA PAGANI A PA G I N A 20

DONNE DI VA L O R E

Barbara McClintockMARIA BALDUZZI A PA G I N A 26

CO N S A C R AT E

La visione di CaterinaNICLA SP E Z Z AT I A PA G I N A 29

PAOLO E LE D ONNE

Vedove: al primo posto la caritàNURIA CALDUCH-BENAGES A PA G I N A 32

ME D I TA Z I O N E

La beatitudine degli invisibiliA CURA DELLE SORELLE DI BOSE A PA G I N A 39

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IN T E R V I S TA A CASSAR SCALIA

G u a rd a recon la mente altrove

Un unicum, di cui spesso ci dimentichiamo, caratterizza la tradizionecristiana: Dio si è fatto uomo. E attraverso il corpo di quest’uomo haincontrato gli esseri umani. Nell’attuale discussione su temi comel’uso (abuso) dei social e sulla conseguente perdita di identità perso-nale, sull’aumento dell’isolamento e sulla assoluta non conoscenzadell’altro, vogliamo provare a pensare un’alternativa, una via altra perritrovare alcune dimensioni umane che ci sembra stiano venendo me-no. Nasce così la nostra proposta, quella di tornare a quell’unicum:alla nostra umanità. Nel tornare a essa c’è una via di salvezza. All’in-dividuale, nascosta identità che ci si può creare dietro il nickname deisocial, proponiamo di sostituire la più totalizzante esperienza di ri-scoprire il mondo attraverso i sensi. Il mondo è molto più delle im-magini veicolate dai media, ed è attraverso i nostri sensi che possia-mo coglierlo in tutta la sua ricchezza.

Gesù è un uomo di parola e di silenzi, di ascolto, di sguardo, ditocco, donati e ricevuti. In questo le donne sono le sue principalicompagne: sono le donne che stanno a osservare dove viene posto ilsuo corpo (cfr. Ma rc o 15, 47), è una donna che bagna i suoi piedi dilacrime, li bacia, li cosparge di olio (cfr. Luca 7, 38). Proprio a quelledonne a cui la storia ha proibito di guardare, di sollevare lo sguardo,obbligate a tenere gli occhi bassi, proprio a loro, impaurite, con losguardo rivolto a terra, il risorto rivolge la prima parola di salvezza,una parola che libera (cfr. Luca 24, 4). E oggi le donne hanno biso-gno di riscoprirsi liberate per poter trasmettere libertà e vita.

Occhi liberati: da qui parte la nostra proposta. Quale tipo di espe-rienze noi proponiamo allo sguardo ancora libero dei bambini? Co-me la pedagogia può avere un ruolo speciale nell’aprire domande suiprocessi di formazione dello sguardo (Rosanna Brambilla). Nella no-stra società occidentale che riduce il mondo a immagini, facendo deimedia il principale vettore della vita quotidiana, l’occhio è puntatosu se stessi e non più sull’altro, la nostra vista si è ristretta al selfie(Piero Di Domenicantonio). La vista permette la visione e la contem-plazione del bello, pittura e scultura sono quindi da considerare un«patrimonio» secondo un bel testo della tradizione musulmana (Sa-muela Pagani). Assaporare la vita, il mondo, le relazioni è la promes-sa di ogni esistenza, per questo una donna che ha fatto dell’attenzio-ne alla vita il suo modus vivendi, pregava con le parole del poetaGeorge Herbert: «Ah! mio diletto, / non posso guardarti. / L’A m o remi prese per mano, sorridendo rispose: / “Chi fece questi occhi, senon io?”». (elisa zamboni)

D ONNE CHIESA MOND O

Mensile dell’Osservatore Romanodiretto da

LU C E T TA SCARAFFIA

In redazioneGIULIA GALEOTTI

SI LV I N A PÉREZ

Comitato di redazioneCAT H E R I N E AUBIN

MARIELLA BALDUZZI

ELENA BUIA RUTT

ANNA FOA

MARIE-LUCILE KUBACKI

RI TA MBOSHU KONGO

SAMUELA PAGANI

MA R G H E R I TA PELAJA

NICLA SP E Z Z AT I

Progetto graficoPIERO DI DOMENICANTONIO

w w w. o s s e r v a t o re ro m a n o .v ad c m @ o s s ro m .v a

per abbonamenti:d o n n e c h i e s a m o n d o @ o s s ro m .v a

di GIULIA GALEOTTI

«Stravaccata su un’amaca, sotto una tenda tesa a ripararladalla pioggia di sabbia vulcanica, il vicequestore aggiuntoGiovanna Guarasi si godeva lo spettacolo pirotecnico natu-rale che andava avanti ormai da ore. (...) Non aveva maivisto nulla di simile. La sommità dell’Etna assomigliava aun braciere che vomitava fuoco, sovrastato da una colonnadi cenere e lapilli. (…) Si abbottonò il giubbotto e allungòla mano verso la sedia da giardino su cui aveva depositato isuoi generi di prima necessità: l’iphone, un cartoccio di cal-darroste, un pacchetto di Gauloises blu, un posacenere e lo

spray antizanzare».

Così, a pagina 13, il lettore fa la conoscenza di Vanina, la protago-nista del romanzo giallo Sabbia nera (Einaudi, 2018) che sta riscuo-tendo grande successo di pubblico. La detective — il cui nome «eraopera di sua madre, che gliel’aveva affibbiato dal primo momento,millantando di averlo tratto dal Vanina Vanini di Stendhal, di cui pe-rò non conosceva neppure la trama» — è colta mentre assiste a unospettacolo naturale, al quale, non essendo nativa di Catania, non è

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Questa differenza di sguardi è un aspetto interessante del nostrocolloquio: mentre la detective Vanina ci ha colpito anche per la decli-nazione femminile con cui svolge il suo lavoro, Cassar Scalia sembraricondurre tutto su un terreno più neutro. Così quando le chiediamoquale sia lo sguardo della vicequestore sul crimine, ci risponde «Vani-na ha sul crimine lo sguardo inflessibile di chi non tollera che restiimpunito. Non credo che questo c’entri granché col suo essere don-na». Eppure la sua capacità di guardare i fatti tenendo conto di tuttigli addentellati del reale è spia della capacità femminile di tenere inmano, specie nell’emergenza e nella difficoltà, i tanti fili in cui si arti-cola la vita.

In quanto oculista e scrittrice, in qualità cioè di persona doppia-mente competente nel campo dell’osservazione, dove collocherebbela vista tra i cinque sensi? «Forse per deformazione professionale,tendo a considerarla il più importante». Non demordiamo, come Va-nina non si è arresa davanti al mistero di un omicidio avvenuto piùdi mezzo secolo prima. Insistiamo: ma esiste, secondo lei, uno sguar-do femminile sul mondo? «Può darsi».

abituata. Eppure, la donna guarda senza prestare reale attenzione aciò che avviene dinnanzi a lei. La sua mente è, infatti, altrove. Que-sta dinamica del vedere senza guardare assume una valenza suggesti-va alla luce del fatto che l’autrice di Sabbia nera, Cristina Cassar Sca-lia, fa l’oculista. Ed è proprio per questa duplice veste di scrittrice edi oftalmologa, che abbiamo deciso di confrontarci con lei sul temadello sguardo femminile.

Nata nel 1977 a Noto, Cassar Scalia ha iniziato a scrivere prestissi-mo: «Avevo 12 anni! All’ultimo anno di liceo ho anche partecipato aun concorso letterario di Mondadori e l’ho vinto, con un raccontoscritto su un incipit di Gina Lagorio. Poi ho scelto medicina e, perforza di cose, ho dovuto fermarmi. Ma sono sempre stata consapevo-le che fosse uno stop temporaneo, e che avrei ripreso a scrivere appe-na specializzata. E così è stato. Certo, non avrei mai immaginato cheil mio primo romanzo sarebbe stato pubblicato da un grande edito-re!». Sabbia nera è infatti la terza opera di Cassar Scalia, dopo La se-

conda estate e Le stanze dello scirocco (usciti rispettivamente nel 2014 enel 2015 con Sperling & Kupfer), tutti con protagoniste femminili.«Il mio vicequestore non poteva essere che una donna. Per i primidue libri non mi sono neppure posta il dilemma. Però il raccontoscritto a 17 anni aveva un uomo come protagonista».

Non sono pochi, nella tradizione occidentale, i medici scrittori.Non mancano perfino le scrittrici con specializzazioni particolari,pensiamo ad esempio a Donatella Di Pietrantonio, dentista pediatri-ca e romanziera affermata. Ci sono aspetti specifici tra il fare narrati-va e l’essere medico? «Credo siano molti i punti di contatto tra unmedico e uno scrittore. Per fare una diagnosi, il medico deve diventa-re un acuto osservatore. Lo scrittore fa lo stesso, scruta, annota, im-magazzina informazioni. Entrambi, per motivi diversi, devono dun-que studiare le persone che incontrano: il primo per curarle, il secon-do per carpirne qualche caratteristica utile alla creazione di un perso-naggio. Per questo un medico che scrive, soprattutto se scrive narrati-va, secondo me parte un po’ avvantaggiato».

Arriviamo al vicequestore Vanina, originaria di Palermo, testarda,scontrosa, amante dei vecchi film e della buona tavola (ma non sacucinare!), tormentata dall’omicidio del padre e dalla fine di una re-lazione difficile. Quando la conosciamo, nonostante abbia solo 39anni, Vanina ha già un curriculum costellato di casi brillantemente ri-solti nel corso di una lunga carriera: dodici anni in polizia, la primametà dei quali all’antimafia, quindi tre a Milano da commissario ca-po e ora da undici mesi vicequestore aggiunto a guida della sezioneReati contro la persona della squadra mobile di Catania.

Cinzia Corvo«Etna»

Quando la conosciamo, dunque — inun romanzo destinato a diventare una sa-ga (Cassar Scalia sta scrivendo il secon-do), e di cui sono già stati opzionati i di-ritti cinema e tv — Vanina è professional-mente affermata: non sembra dover lotta-re per farsi riconoscere un’autorità inquanto donna. «Esatto. Volevo creare unpersonaggio femminile che avesse supera-to la fase dell’affermazione professionale,e che fosse già indubitabilmente autore-vole». I problemi, semmai, appartengonoal piano personale. «Sì, questo è il suopunto debole». L’autrice, però, nega chequesto aspetto abbia a che fare con l’esse-re donna: «È il suo punto debole comeper molte persone, femmine o maschi chesiano». Eppure, ci sembra che qualchedifferenza ci sia. Piaccia o meno, nellanostra società non è la stessa cosa se unadonna o un uomo arrivano a quarant’annicon un’ottima posizione lavorativa masenza aver costruito una famiglia o averedei figli.

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zione di questa dialettica è ritrovata in una sorta di interiorità apertae inclusiva nei confronti del mondo, che entra prepotentemente nelverso. Ciò avviene grazie a una potenza di visione che volge losguardo di Mary Oliver non alle reazioni interiori, ma aciò che cade sotto i suoi occhi: la vita viene fissatacon intensità o contemplata con ampiezza al-la ricerca di un senso, di un’apertura, di unmistero o in attesa di una grazia.

La sua intuizione creativa nasce dun-que in forza di una visione esterna,senza che i propri stati interiori ven-gano proiettati sulla realtà: losguardo si posa sul mondo, resti-tuendone una visione gioiosa epacificante, percependo, a partiredal dato concreto, l’eco dell’inizio,il richiamo della creazione: «Credere non èsempre facile. / Ma ho imparato questo — /Se non molto altro — / di vivere con gli occhiben aperti», scrive in Nella tempesta.

Dopo aver interpretato le immagini viste o i suoni uditi, iversi della scrittrice si rivolgono direttamente al lettore: l’app elloè quello a rimettersi in gioco, per rivedere interamente la propriavita, per recuperarne autenticità e immediatezza, abbandonandodirezioni false e obiettivi sbagliati. Una poesia che si interroga,ma che soprattutto interroga, senza timore di indicare una rispo-sta e una vera e propria condotta, per il raggiungimento di unacondizione di vita armonica e pacificata, poiché reinserita in quelcontesto della natura di cui l’uomo fa parte e da cui si è erronea-mente distaccato.

La poesia di Mary Oliver è semplice, immediata, levigata comeun sasso di fiume, ma capace di dispiegare visioni e di condurreil lettore a intense scoperte interiori. Il suo sguardo, attento almondo naturale, trova in questo una bellezza unica che i suoiversi rendono indimenticabile. Anzi, il fine stesso della poesia ècreare un rapporto d’affetto con la realtà: «Il mio lavoro è amareil mondo» scrive in Me s s a g g e ro : un mondo fatto di girasoli, coli-brì, susine blu. Anima e paesaggio si corrispondono e scrivereversi significa, francescanamente, lodare: la sua parola chiave è grati-tudine. Nel mistero dell’esistenza c’è una grazia invincibile, mentrevisione della realtà e immaginazione si fondono e si aprono a unapausa meditativa sull’esistenza.

LA POESIA DI MARY OLIVER

Vi v e recon gli occhi ben aperti

di ELENA BUIA RUTT

Autrice di una poesia nitida e diretta, che trae ispirazione da un mon-do della natura osservato in lunghe e quotidiane passeggiate nei bo-schi di Provincetown (Massachusetts), Mary Oliver è una delle poe-tesse più lette e amate negli Stati Uniti.

La sua scrittura è inscindibilmente legata a un’osservazione dellanatura, che inizia ogni giorno alle cinque del mattino, ora in cui Ma-ry Oliver si sveglia, per iniziare la sua consueta passeggiata tra i bo-schi, rigorosamente armata di taccuino. Queste camminate sono or-mai celebri tra gli abitanti di Provincetown, abituati quotidianamen-te, da anni, a vedere la scrittrice girovagare, per poi fermarsi immobi-le a guardare, anzi, a fissare un particolare che suscita il suo interes-se, iniziando a prenderne nota. Il suo verso, infatti, ha origine da unatteggiamento di straordinaria attenzione nei confronti del mondoesterno, una direzione dello sguardo più volte ribadita e incoraggiataall’interno dei suoi stessi componimenti.

La tensione maggiore presente nella sua poesia sembra essere quel-la che conduce al confronto dialettico tra l’io poetico-lirico, da unaparte, e la dimensione più oggettiva dell’esistenza, dall’altra. La solu-

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NELLA PITTURA DI MARY CA S S AT T

Bambini finalmentevisibili

di MARTINA CO R G N AT I

II trasferimento in Francia della sua famiglia, nel 1877, costituì perMary Cassatt il pretesto per ampliare il proprio repertorio iconografi-co, aggiungendo i suoi parenti, soprattutto bambini, alle scene di vitamoderna. A quanto racconta Nancy Mowll Mathews, la sua primissi-ma mamma con bambino fu la cognata Jennie col nipotino Gardnerche, dopo la nascita, aveva rischiato di non sopravvivere: un eventoche sembra avesse impressionato profondamente la zia Mary, colpitagià nell’infanzia dalla perdita del fratellino Robert. A queste presenzefamigliari, si aggiungono sin dall’inizio i figli di conoscenti diretti oindiretti, come la celebre bambina sulla poltrona blu, figlia di amicidi Degas.

Col tempo, la presenza di bambini nei dipinti di Mary Cassatt au-mentò in modo significativo, fino a diventare quasi esclusiva. Nel1881, il quadro “La lettura” (La lecture), un ritratto della madre diMary intenta a leggere favole a un nugolo di nipoti, esposto alla se-sta mostra dell’impressionismo, venne specialmente apprezzata da Jo-ris-Karl Huysmans per le qualità propriamente pittoriche e per l’as-senza di quell’atmosfera melensa che caratterizzava invece molte

Aperte a Romadue case perrifugiate e donnemigranti vulnerabiliSono nate a Romadue case per donnerifugiate conbambini e donnemigranti in situazionidi vulnerabilità. Ilprogetto si chiamaChaire Gynai, che ingreco significa“benvenute donne”.L’iniziativa èpromossa dallaCongregazione dellesuore missionariescalabriniane, con ilDicastero per ilservizio dellosviluppo umanointegrale, laCongregazione pergli istituti di vitaconsacrata e lesocietà di vitaapostolica, l’Unioneinternazionalesuperiore generali edalla Conferenzaepiscopale italiana.Le scalabrinianehanno coinvoltoanche le suoremissionarie del SacroCuore di Gesù, chehanno messo adisposizione glispazi, e altrec o n g re g a z i o n i

DAL MOND O

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>> 14

Perché mi sveglio presto è una poesia capace di introdurre immedia-tamente a quella che forse è la caratteristica distintiva di questi versi:la celebrazione del mondo. Un mondo, con i suoi elementi naturali,in questo caso il sole, osservato e interpretato come magnifica poten-za vitale, come energia creatrice che lavora a un continuo rinnova-mento, a un incessante e gioioso processo di creazione in atto: «Sal-ve, sole sul viso, / Salve, tu che crei la mattina / e la diffondi suicampi / e sui visi dei tulipani / e delle campanule che annuiscono».Un mondo per cui vale dunque la pena alzarsi presto e la cui straor-dinarietà attrae, stupisce, rallegra, consola; al punto che il saluto delpoeta prorompe deliziato e riconoscente.

La semplicità del dettato di questa poesia è proprio ciò che rendepotente la sua capacità di dischiudere una visione, intrisa di grazia,di un mondo, visto inesauribilmente come «fresco e prezioso»: unavisione che può verificarsi soltanto quando l’uomo, prestando atten-zione alla natura che lo circonda, impari da questa, e riconosca sestesso come creatura, fratello o sorella. Si tratta di una poesia dallaprofonda spiritualità, che dà voce a un’anima sintonizzata, tramite ilcontatto con la natura, sulla frequenza d’onda della trascendenza.

La potenza del mondo è dunque un’energia vitale che in modoinesorabile attira a sé l’io, distogliendolo dalla tentazione di un solip-sistico ripiegamento interiore. È proprio lo stupore provato al cospet-to di una natura guardata con attenzione, a innescare la miccia dellacreatività, a farsi insopprimibile tensione generativa, che trova sbocconella parola artistica.

Una gratitudine che si concretizza nella lode, nella celebrazione diciò che è umile, piccolo, ordinario, ma che, se osservato con la giustainclinazione dello sguardo, rivela la propria appartenenza a una real-tà più grande, portatrice di senso. Il mondo naturale si rivela capacedella “preghiera perfetta”, come nel caso della poesia intitolata Il gi-

glio, che sussurra in un linguaggio segreto impercettibili parole, che ilpoeta si sforza di udire ma inutilmente, anche se non c’è vento. For-se, medita Mary Oliver, la lingua del giglio in realtà è proprio il sem-plice “s t a re ” del fiore che, appunto, «sta semplicemente / con la pa-zienza dei vegetali / e dei santi / fino a quando la terra intera hacompiuto il suo giro».

Scrive Mary Oliver a conclusione del suo “manuale di poesia” (A

Poetry Handbook): «La poesia è una forza che ha cara la vita. E ri-chiede una visione — una fede, per usare un termine vecchio stile. Sì,proprio così. Perché le poesie non sono parole, dopo tutto, ma fuo-chi per il freddo, corde calate a chi è perso, qualcosa di così necessa-rio come il pane nelle tasche dell’affamato. Sì, proprio così».

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composizioni, di altri artisti inglesi e francesi; «una donna è attrezza-ta a dipingere l’infanzia», osservava il critico, «c’è un sentimento spe-ciale che gli uomini non sarebbero capaci di rendere a meno che nonsiano particolarmente sensibili e nervosi. Le loro dita sono troppogrosse per non lasciare qualche impronta rude e maldestra».

C’è da dubitare che un personaggio indipendente come MaryCassatt avesse scelto questo soggetto per compiacere i critici reazio-nari del suo tempo e confermare i loro cliché sessisti; penso inveceche, da una parte, i bambini le piacessero moltissimo, e in particolarele piacesse disegnare le loro tenere membra nude; e che, dall’altra, ri-conoscesse in loro un aspetto vero e interessante della vita moderna,oltre che un simbolo del futuro tout court. I suoi bambini non sonoGesù, cioè un archetipo iconografico, benché nell’affrontare un temacosì classico Cassatt avesse sicuramente rispolverato il suo spiritoprofondamente competitivo e la sua dichiarata ambizione di dipinge-re non solo come gli antichi ma addirittura meglio di loro; ed è que-sta sfida segreta di cui, in fondo, si accorse Degas, definendo scher-zosamente il biondo bambinetto dello “Specchio ovale” (Mère à l’en-

fant o Le miroir ovale) «Gesù e la sua tata inglese».

Questi bambini, inoltre, non risentono di quel sentimentalismodolciastro caratteristico di molti artisti contemporanei, Alfred Ste-vens, Eugène Carrière o Henrietta Ward, obiettivo delle frecciate po-lemiche proprio di Huysmans. I bambini di Cassatt invece sono veri,profondamente realistici nei loro atteggiamenti quotidiani, la tenerez-

za, la curiosità ma anche l’egoismo, la delusione e la goffaggine. So-no bambini divenuti visibili da poco in quanto tali: la loro modernitàè sostenuta da un profondo cambiamento culturale, grazie al quale ilbambino non è più visto come un adulto in scala ridotta, ma comeun essere autonomo, con bisogni fisici, sanitari, cognitivi e affettivipropri. «Dopo il 1870 gli scienziati e i medici francesi, come LouisPasteur, promossero campagne per fornire agli infanti un’adeguata esicura provvista di latte, per sviluppare scientificamente i programmieducativi e per coinvolgere le madri nella cura primaria della loroprole», cura in precedenza delegata quasi completamente alle balie,almeno nelle classi medio-alte.

Scienza e nascente sociologia scoprono insieme, insomma, la natu-ra, i diritti e le esigenze specifiche dei bambini; ed è su quei bambiniritrovati che si concentra lo sguardo di Mary Cassatt, uno sguardo, asuo modo, consapevole dell’importanza delle cure e dell’affetto ma-terno nei primi anni di vita.

Inoltre, valorizzando il rapporto madre-figlio, Mary Cassatt esclu-deva di fatto gli uomini dai suoi quadri, mettendo a fuoco un mondoa cui essi non partecipavano e dove contavano davvero molto poco,in perfetta sintonia con i programmi femministi dell’epoca. Un mon-do, così come Mary Cassatt lo dipinge, esente certo da sessualità manon affatto da sensualità: scegliendo donne-soggetto in virtù del loroessere madri, Cassatt restituisce a esse una fisicità che si appaga delcontatto col bambino, dei corpi rotondetti, morbidi e nudi.

Mary Cassatt«Bambina sulla poltrona

blu» (1878)A pagina 11

«Gruppo familiaredi lettura» (1901)

I m p re s s i o n i s t ePubblichiamo unostralcio tratto dal libroI m p re s s i o n i s t e (NomosEdizioni, 2018) diMartina Corgnati,storica dell’arte.

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dovrebbe essere quello di allargare e intensificare i modi di guardaree abitare la vita, in senso ampio.

Ma più cresciamo e più la nostra vista, e con essa il nostro sguar-do sul mondo, sono condizionati dalle esperienze che facciamo. Lapedagogia può allora aprire domande sui processi di formazione diuno sguardo. Spostiamoci alle basi della nostra quotidianità: un pre-ciso lavoro, i percorsi a piedi o coi mezzi di trasporto, le letture, leabitudini, i panorami abituali, le persone che incontriamo e i discorsinei quali siamo più immersi ci allenano continuamente a precisi modidi vedere, e di pensare. E anche a un certo senso estetico e a un gu-sto, o meno, della vita.

Che tipo di esperienza siamo soliti far fare alla nostra vista? C’è,nei nostri giorni, un equilibrio tra l’esperienza del guardare vicino elontano? Del guardare in basso e in alto? Del guardare in profondi-tà? I movimenti della vista non sono mai pura questione meccanica.Hanno ripercussioni sul modo di essere al mondo.

Le situazioni che viviamo ci educano poi a focalizzarci su alcuniprecisi aspetti della realtà, di noi stessi e di ciò che incontriamo. Do-ve tende a fermarsi la nostra attenzione quando guardiamo, e qualiaspetti vengono lasciati ai margini?

In occasione di alcuni incontri di formazione con insegnanti, cer-cavo di riflettere insieme con loro sull’uso sempre più diffuso e inva-sivo dei cellulari. L’intento non era quello di demonizzarne l’uso, ilche sarebbe oltretutto ingiusto, visto che aspetti positivi e usi creativinon mancano. L’uso continuo del telefonino, però, rappresenta uncontinuo vedere da vicino, verso il basso, con la tendenza a escluderedalla vista chi è prossimo (anche solo il vicino di posto su un mezzodi trasporto). Tende a disabituare all’osservazione diretta, al soffer-marsi con attenzione sulle cose, e a volte alla contemplazione di per-sonaggi e scenari. L’uso prolungato ha inoltre e spesso il potere difagocitare altre sensibilità. Penso alla difficoltà di restare in ascolto ditutti i suoni e rumori del paesaggio sonoro. Questo esempio portaanche a chiedersi: quanto, nella nostra conoscenza del mondo, dellepersone, riusciamo a mettere in dialogo i nostri sensi, senza privile-giare e assolutizzare il senso della vista (così sollecitato anche daimedia), per avere una visione più comprensiva e complessa dell’uma-no? «L’ascolto avvicina lo sguardo alle cose» dice efficacemente Tul-lia Gianoncelli, antropologa. È quanto io stessa ho vissuto nell’ascol-to di tanti ragazzi e ragazze. La possibilità di farsi vicini alle situa-zioni e alle persone sta proprio in un guardare, in una capacità di os-servare con attenzione i dettagli, le espressioni, i gesti, mettendoli pe-rò sempre in rapporto coi racconti, le parole e i significati dei prota-

Sguardo libero

UNA QUESTIONE E D U C AT I VA

di ROSSANA BRAMBILLA

Il senso della vista mi fa subito pensare agli occhi birichini dei bam-bini, nei nidi e nelle scuole dell’infanzia, che si muovono e osservanomolto più di quanto gli adulti possano percepire o immaginare. Acosa vogliamo allenare la vista di questi bimbi, nelle esperienze cheproponiamo? Il mio lavoro diventa quello di aiutare educatori e inse-gnanti a guardare e ragionare sulla configurazione degli spazi educa-tivi quotidiani: dimensione degli angoli, degli oggetti, forme, colori,orientamenti, posizioni. Linee, superfici, giochi di luce. E poi far ri-flettere sugli sguardi ai quali educhiamo i bambini e le bambine, peresempio nelle uscite didattiche. Si tratta di non limitarsi ad attenzio-ni relazionali o comunicative, ma di mostrare percorsi di sguardi pos-sibili, alla ricerca di forme che si intrecciano, accostamenti di colori,elementi naturali ed elementi costruiti dall’uomo che si alternano, di-versità tra elementi naturali... Osservazione e contemplazione dellabellezza e delle differenze. Nei luoghi educativi il compito principale

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gonisti delle storie, senza alcuna pretesa di dominare i significati al-trui, e con la capacità di sentire l’a l t ro .

Nel nostro mondo, così pieno di armi di distrazione di massa,quello che vediamo, nella nostra quotidianità, quali sentimenti e qua-li emozioni ci fa provare più spesso? A quali sentimenti ed emozionici educa con maggiore forza? Quello che vediamo cosa tende a evo-care, a farci ricordare delle nostre storie o esperienze di vita? Metterein relazione ciò che vediamo con le emozioni suscitate permette dinon lasciare semplicemente passare la vita, ma di assaporarla, di fer-mare nel tempo ciò che si sente.

C’è infine qualcos’altro che forma con prepotenza uno sguardo: inostri saperi di riferimento. Ci sono saperi famigliari, che derivanoda esperienze, e poi ci sono i saperi disciplinari, ovvero le teorie chepiù assiduamente frequentiamo. Questi saperi disciplinano ciò che“dobbiamo” vedere, ciò a cui “dobbiamo” la nostra priorità, e anchequello che “p ossiamo” lasciare sullo sfondo, o non vedere. Per far ca-pire meglio cosa intendo, vorrei riportare un fatto accaduto nel miolavoro in una scuola. Qualche tempo fa ho ricevuto degli insegnanti,peraltro tra i più sensibili, preoccupati perché un ragazzo continuavaad addormentarsi in classe, e del fatto che — nonostante i suoi votifossero buoni — questo doveva derivare da un problema, probabil-mente neurologico o psicologico, di una certa gravità. D’accordo conla preside, ho immediatamente convocato il ragazzo, peraltro partico-lare e simpatico, e gli ho chiesto con semplicità come mai fosse cosìstanco a scuola. E lui mi ha altrettanto semplicemente spiegato cheaveva un grande sogno sportivo e che in quel periodo si stava alle-nando in modo particolarmente duro per riuscire a realizzarlo. Agliinsegnanti non era venuto in mente di chiedergli perché fosse cosìstanco!

Nessuno può mettere in dubbio la preziosità di tanti studi. Tutta-via, nel mio lavoro mi ritrovo sempre più spesso a dover mettere inconnessione l’umanità dei singoli insegnanti con l’umanità dei ragaz-zi. Non ho timore di confessare che spesso, più di alcune teorie,nell’ascolto di tanti ragazzi e ragazze, e anche di tanti bambini ebambine, mi sono fatta guidare da queste parole di fratel Roger diTaizé: «È essenziale cercare di capire l’insieme di una persona, graziead alcune parole o qualche atteggiamento, piuttosto che con lunghespiegazioni. Non basta condividere ciò che fa violenza nell’intimo diun essere. Occorre ancora ricercare il dono specifico di Dio in lui,perno di tutta la sua esistenza. Una volta messo in piena luce questodono, o questi doni, si aprono delle strade». Partire dai doni: attitu-dini, passioni, talenti. Persino per aiutare laddove vi sia una difficol-

religiose femminili.Vengono accoltedonne che hanno giàottenuto ilriconoscimento dellostatus di rifugiate inItalia o chep otrebb eroregolarizzare la lorocondizionemigratoria. Nelle duecase (in via dellaPineta Sacchetti e invia Michele Mercati)le ospiti possonorimanere per unperiodo che va da seimesi a un anno, finoa che non abbianoraggiunto unacompleta autonomiae integrazione. Almomento sonoaccolte 17 donne e 7minori.«L’intenzione — haspiegato suor EleiaScariot,scalabriniana,coordinatrice delprogetto — è quelladi sostenere le donnenel loro percorso diintegrazione evalorizzazioneprofessionale. Labase è il riscattodella speranza:queste donnericevono aiuto eaccompagnamentoumano ep ro f e s s i o n a l e ,vivendo esperienzedi convivenza, didivertimento e dispiritualità che sianorivitalizzanti perriscattare la stima diloro stesse, spessoferita durante il loroviaggio migratorio.Allo stesso tempo

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tutto ciò che ci impedisce di vedere l’altro per intero, nella sua interaumanità: le insensibilità di visione alle quali lentamente veniamo for-mati; le nostre paure; i pregiudizi su ciò che è giusto e sbagliato; al-cune idee sull’altro che cerchiamo più di confermare che di sfatare; epersino i saperi alla “luce” dei quali siamo così pronti a pensare diaver capito l’altro... Una trave, insomma, che non è mai tolta unavolta per tutte, che cambia forma a seconda dei momenti della vita, eche richiede dunque una vigilanza continuamente rinnovata. Ma labuona notizia è che ogni trave, nel momento in cui le prestiamo at-tenzione, si può rimuovere. E ci è sempre dato di poter riguardare ilmondo, gli altri e noi stessi, con maggiore libertà.

tà. Aprire lo sguardo, anziché chiu-derlo, e aprire così la speranza.

Quando ci accorgiamo che ilnostro modo di vedere si sta cri-stallizzando o tende a fermarsisempre sulle stesse cose, quando ri-petiamo sempre le stesse parole perdescrivere le situazioni e non riu-sciamo a uscire dai soliti schemi,non c’è antidoto migliore che leg-gere o studiare il vangelo, ma po-nendogli domande estremamenteconcrete. La pedagogia aiuta a vi-gilare sulle strutture che condizio-nano, o determinano, l’esp erienza,ma il vangelo non lascia scamposul non perdere di vista le radicidella nostra umanità, e sul baricen-tro da tenere presente in ogni azio-ne umana: un rapporto vero con sestessi e con il mondo. Nel vangelotroviamo scritto: «Perché guardi lapagliuzza che è nell’occhio del tuofratello, e non ti accorgi della traveche è nel tuo occhio? (...) Togliprima la trave dal tuo occhio e al-lora ci vedrai bene per togliere lapagliuzza dall’occhio del tuo fra-tello». C’è da chiedersi se questatrave non sia (come a volte si inter-preta) un male più grande com-messo da noi rispetto all’altro, ma

Margaret Keane«Gioia abbondante»(2013)

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Ileana Pazienza«Alice incontralo Stregatto»(foto vincitrice del concorso«Dipende» ad Alberobello)

Snapchat per fare incetta di like, tag, emoticon. E poi? E poi... chis’è visto s’è visto. Perché di quegli scatti realizzati e pubblicati in retea raffica resta spesso ben poco. Forse il ricordo, senza che ci sia peròil tempo e la pazienza per rintracciarli nella memoria intasata del te-lefonino o di una nuvola digitale.

La scorsa estate, alla radio e alla televisione ha imperversato unacanzone che nel ritornello diceva: «Siamo l’esercito del selfie». Nonsi sarebbe potuta trovare espressione più calzante per descrivere il fe-nomeno che si è scatenato a partire dal 2011 quando è apparsa la pri-ma doppia telecamera su un telefonino. Al massimo si potrebbe cor-reggere la dimensione quantitativa di quella espressione, che risultaapprossimata per difetto. L’esercito è già un’armata, transnazionale etransgenerazionale, uniformemente assoggettata a un’unica disciplina:la celebrazione dell’io.

Nel 2014, un’indagine per conto di una casa produttrice di telefo-nini ha stimato in circa 29 milioni gli autoscatti condivisi ogni mesenel mondo. Sempre nello stesso anno, l’Università cattolica del SacroCuore, insieme con la fondazione Ibsa, ha presentato i risultati diun’inchiesta realizzata su un campione di 150 persone di età mediaintorno ai 32 anni. La maggioranza degli intervistati (39 per cento)ha dichiarato di fare selfie soprattutto per «divertire gli altri». Manon sono pochi coloro che lo praticano per pura vanità (30 per cen-

di PIERO DI DOMENICANTONIO

In principio era l’autoscatto. Bastava trovare un punto d’appoggio ab-bastanza stabile, accertarsi che l’inquadratura fosse sufficientementeampia, premere il bottone e correre. Il risultato si sarebbe visto soloqualche giorno dopo: una volta esaurito il rullino e trascorso il tem-po necessario al laboratorio per lo sviluppo e la stampa della pellico-la. Poi le fotocamere sono cambiate. Sempre più piccole e leggere,sono entrate pure nella dotazione dei telefonini. Finché è spuntato ilsecondo occhio, piazzato sullo stesso lato di chi scatta.

Addio ai grandi album gonfi di fotografie che conservavano la me-moria di generazioni familiari e che i bambini sfogliavano stando sul-le ginocchia di nonni espertissimi nel dare un nome anche ai voltiche apparivano nelle immagini più ingiallite. E addio pure alle seratecon gli amici, convocati con la promessa di una cena a base di pizzae birra e poi inchiodati davanti a un lenzuolo appeso alla parete per“a m m i r a re ” le diapositive dell’ultima gita fuori porta.

Stop. Basta. Tutto finito. Adesso ci si accerta che il telefonino siaimpostato nella modalità giusta, si stende il braccio, si scatta e via. Ilselfie è servito. Pronto a viaggiare su Facebook, Twitter, Instagram,

LA SO CIETÀ DEL SELFIE

Mammami si è ristretta la vista

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me voi» per cui «dammi il tuo voto», «compra i miei prodotti»,«leggi i miei libri». Ma anche di denuncia e testimonianza. In Brasi-le, ad esempio, molti ragazzi lo usano per mostrare le violenze che siconsumano nelle favelas in cui vivono. In alcuni paesi arabi i selfiesono stati all’origine di vincenti campagne di emancipazione delledonne. Per molti immigrati è poi un modo di far sapere alla propriafamiglia che sono ancora vivi. E i giovani che all’apertura del sinodoa loro dedicato sono arrivati per incontrare il Papa li hanno usati perdire «non siamo una massa anonima, ci sono anch’io».

Ma i selfie hanno un limite oggettivo. Per quanto si possa stendereil braccio, utilizzando anche l’apposita asta, l’angolo di ripresa restalimitato. Concentrato su chi fotografa e poco più. Un occhio punta-to sull’io, dove l’altro esiste solo nella misura in cui esprimerà ap-prezzamento o disapprovazione.

Il selfie è l’espressione di una società alla quale si è ristretta la vi-sta. Rinchiusa in se stessa, nelle proprie paure e nei propri egoismi.

Vivian Maier, la bambinaia fotografa scoperta per caso solo qual-che anno dopo la sua morte, ha lasciato una grande quantità di im-magini tra le quali molti selfie ante litteram, realizzati utilizzando il ri-flesso di uno specchio o di una vetrina. Oggi si fa la fila per vederele opere di questa donna che aveva un grande talento: sapeva guar-dare le persone. E proprio per questo, forse, gran parte della sua pro-duzione è rimasta racchiusa in rullini che lei non portò mai a svilup-p a re .

In un mondo sovraffollato di immagini è necessario ridare dignitàal volto. Riconoscerne, come avrebbe voluto Emmanuel Lévinas, ilvalore di luogo dell’incontro con l’altro e con la storia di cui è porta-tore, per costruire rapporti basati sull’accoglienza, la fiducia e la re-sp onsabilità.

Al di là degli stereotipi che gli adulti cercano di cucirgli addosso, inativi digitali sembrano però saperlo. Almeno quando si lascia lorolo spazio per esprimersi e gli si riserva l’attenzione necessaria perascoltarli, così come hanno cercato di fare, pensando proprio all’ap-puntamento di ottobre per l’assemblea sinodale, tante diocesi e par-rocchie. Tra le molte iniziative anche quella di un originale concorsofotografico organizzato in aprile dalla parrocchia di Sant’Antonio adAlberobello che ha invitato gli studenti delle superiori a esprimersisul tema delle dipendenze patologiche attraverso scatti e autoscatti. Irisultati del concorso, sostenuto dai dipartimenti competenti in mate-ria delle aziende sanitarie locali di Bari e di Taranto, sono stati sor-prendenti. Nessuna retorica. Solo la voglia di fare uno scatto in avan-ti. Anche con un selfie.

to) o per «raccontare un momento della propria vita» (21 per cento).La stessa indagine ha evidenziato che le donne hanno una maggiorepropensione al selfie rispetto agli uomini, ma con una finalità piùintimistica: «Mi faccio selfie per mostrare come sono e come misento».

Se per constatare la dimensione planetaria del fenomeno potrebbebastare anche solo guardarsi intorno, non è altrettanto semplice com-prendere i bisogni profondi che il selfie promette di soddisfare. Nellasocietà liquida descritta da Zygmunt Bauman, la paura atavica di ri-manere soli e ignorati dagli altri si è amplificata. La connessione ven-tiquattr’ore su ventiquattro impone nuovi comportamenti per dire«io ci sono», ma aumenta insicurezze e frustrazioni. Il Narciso 2.0,incapace di distinguere tra pubblico e privato, non si accontenta dicontemplare il riflesso di sé che appare sullo schermo del telefonino.Si nutre del riconoscimento e del consenso degli altri. Una fame in-saziabile che può diventare patologia — lo ha riconosciuto l’asso cia-zione degli psichiatri statunitensi — e mettere a rischio la vita:un’università della Pennsylvania ha registrato lo scorso anno 170 casidi morti per selfie “e s t re m o ”.

Come ogni mezzo e forma di comunicazione il selfie non è neutro.La natura stessa delle immagini e la pervasività della rete ne fannoun potente strumento per la creazione di consenso: «Io sono uno co-

queste donne e i lorofigli potrannocontribuire allacostruzione di unasocietà diversa, quinel territorioromano, dove sonoinserite».

D omesticheindonesiane invendita su internetLa notizia è diqualche settimana fa,ma in pochi l’hannorilanciata: le autoritàdi Singapore, haannunciato il localeministero del lavoro,hanno incriminatoun’agenzia dicollocamento per lapubblicazione diannunci per lavendita didomesticheindonesiane su unsito commerciale. ASingapore si trovanoc i rc aduecento cinquantamiladonne di servizio,per lo piùprovenienti daregioni povered’Indonesia,Filippine eM y a n m a r.Regolamentate dauna rigidanormativa, nella cittàstato le condizioniper le cameriereindonesiane sonogeneralmenteconsiderate miglioririspetto a quelle dialtri paesi. Tuttavia,le pubblicità sul sitoCarousell hannoscatenato un’ondata

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Un autoscattoallo specchiodi Vivian Maier (1955)

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ne di traduzione culturale. ‘Abduh riconosce il valore della pittura edella scultura da un lato come «patrimonio», vale a dire come com-ponente essenziale per la creazione di una memoria e un’identità na-zionale, e dall’altro come parte di un’estetica che continua a ruotareintorno alla parola. Da un punto di vista retorico, le immagini sono“utili” perché esprimono meglio delle parole i significati che questetrasmettono, ma sono pur sempre al servizio delle parole, come leminiature dei testi scientifici o letterari. In ultima analisi, suggerisce‘Abduh, ogni arabo di buona cultura può riconoscere che il patrimo-nio artistico ha una funzione comparabile a quella della tradizioneletteraria, e può apprezzare il valore della pittura perché conosce ilvalore cognitivo dell’immaginazione e l’efficacia del linguaggio figu-rato. L’altra traduzione culturale che ‘Abduh propone è la corrispon-denza fra l’idolatria, il culto dei santi cristiani e il culto dei santi mu-sulmani, che alla sua epoca era ancora il cuore pulsante della religio-sità musulmana. Così come è influenzato dal positivismo nella suaconcezione utilitaristica dell’arte, ‘Abduh è influenzato dal protestan-tesimo nella sua condanna del culto dei santi. Da questo punto di vi-sta, il suo testo — che pubblichiamo di seguito — promuove e accom-pagna non solo la nascita di correnti artistiche di ispirazione europea,ma la rinascita della versione islamica dell’icono clastia.

Utilità e statuto legale delle sculture

I siciliani conservano con cura straordinaria le immagini disegnatesulla carta e i tessuti, come accade, in misura ben maggiore, nei mu-sei di più grandi nazioni. Questi certificano la datazione e l’attribu-zione dei dipinti, e competono per assicurarsene il possesso con tan-to accanimento che certi musei sono pronti a pagare cifre esorbitantiper un solo disegno di Raffaello. La cosa davvero degna di nota nonè però il costo dei dipinti, ma il fatto che gli stati competano fra loroper acquisirli perché considerano i capolavori della pittura il lascitopiù prezioso che le generazioni passate hanno lasciato alle nuove. Lostesso vale per le statue. In questo caso, il valore delle opere, e la ge-losa sollecitudine che suscitano nei popoli, è tanto maggiore quantopiù sono antiche.

Se vuoi capire il perché di tutto questo, basta che tu rifletta sulmotivo per cui i tuoi antenati hanno preservato la poesia custoden-dola nei loro archivi, cioè i canzonieri, e sul motivo per cui i nostriantichi, Dio li abbia in gloria, hanno messo ogni impegno nel trascri-vere, raccogliere e ordinare la più antica poesia araba, risalente all’erapreislamica. Per lo stesso motivo, questi popoli si preoccupano di

di polemiche: inseritisotto il nomem a i d . re c r u i t m e n t ,alcuni annuncioffrivano i servizi didiverse collaboratrici,altri inveceindicavano che ledomestiche erano giàstate “vendute”. Perle dure reazioni chehanno scatenato, leinserzioni sono statesubito rimosse. Ilministero del lavoroha dichiarato di averpresentato un totaledi 243 denunce allacompagnia e aldip endenteresponsabile degliannunci. La licenzadell’agenzia di lavoroè già stata sospesa.

Il podio femminiledi AthleticaVa t i c a n aSebbene sianominoritarie, le donneche fanno parte diAthletica Vaticana (lar a p p re s e n t a t i v apodistica formata damonsignori, guardiesvizzere e dipendentidella Santa Sede)stanno dando ottimaprova di sé. Unesempio? Lo scorso23 settembre, due diloro, Sara Carnicellie Michela Ciprietti,sono salite sul podio,rispettivamente comeseconda e terza, dellaVia pacis, la mezzamaratonainterreligiosa che haattraversato Roma.Le donne delVaticano corronovelo ci.

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Muhammad ‘Ab duhe le immagini

di SAMUELA PAGANI

«Una gioia per l’anima e un piacere per i sensi»: cosìMuhammad ‘Abduh definiva la pittura in un capi-tolo della sua Relazione di viaggio in Sicilia, pubbli-cata per la prima volta a puntate nel 1903 su una ri-vista egiziana diffusa in tutto il mondo islamico.‘Abduh era a quel tempo il Gran Mufti d’Egitto ela stella del riformismo musulmano. Il viaggio in Si-cilia gli offre un’occasione per riflettere non solo sulrapporto fra islam e occidente, ma anche su quellofra il passato e il presente degli arabi. Nella corri-

spondenza tradotta in questo articolo, l’autore argomenta a favoredell’«utilità» delle immagini e della loro legalità nell’islam. Nel mon-do islamico, questo testo è ancora oggi un riferimento per chi difen-de le arti visive e il patrimonio artistico dagli attacchi delle correntiislamiste. Ancor più che per la sua attualità, è però interessante pergli aspetti che lo legano al suo tempo e per la sua originale operazio-

UN TESTO DI RIFERIMENTO PER L’ISLAM

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conservare dipinti e sculture. Come, infatti, la pittura è una poesiache si vede ma non si sente, allo stesso modo la poesia è una pitturache si sente ma non si vede. Quadri e sculture preservano la memoriadei più diversi aspetti della vita degli individui e delle società, tantoda meritare il nome di archivio delle istituzioni e delle condizioniumane. Immaginiamo un uomo o un animale in un momento di feli-cità e contentezza, serenità e fiducia: queste parole hanno significativicini che non è facile distinguere gli uni dagli altri, ma se li vedi raf-figurati nelle immagini le differenze saltano chiaramente agli occhi.O immaginiamo una persona in preda a timore e terrore, spavento esgomento: questi termini non sono sinonimi, e non li scrivo uno ac-canto all’altro per il gusto della rima, ma perché si riferiscono a cosediverse. Eppure ti devi spremere le meningi per precisare che cosaesattamente li distingue, a quale stato d’animo ciascuno di essi siapiù appropriato, e a quale aspetto esteriore corrisponda ciascuno diquesti stati d’animo. Se però guardi un’immagine dipinta, ovvero unapoesia silenziosa, la verità ti si mostra con evidenza, procurandoti al-lo stesso tempo una gioia per l’anima e un piacere per i sensi, attra-verso lo sguardo. Se vuoi verificare cosa si intenda esattamente quan-do si dice «ho visto un leone», dove “leone” è una metafora che staper “uomo coraggioso”, guarda la sfinge accanto alla Grande Pirami-de, e vedrai coi tuoi occhi che il leone è uomo e l’uomo leone. Con-servare questi monumenti significa dunque davvero conservare la co-noscenza, e mostrarsi grati all’artefice che li ha creati.

Mi auguro che tu abbia capito qualcosa di questo discorso. Altri-menti, visto che qui non ho tempo di dire altro, fattelo spiegare daun filologo, un pittore o un poeta, ammesso che ne siano capaci.

Forse, a questo punto, ti sorgerà una domanda: secondo la leggeislamica, qual è lo statuto legale delle immagini che si propongonolo scopo che abbiamo descritto, vale a dire di rappresentare gli esseriumani mostrando le loro emozioni e le loro particolarità fisiche? Tut-to ciò è proibito, permesso, riprovevole, raccomandabile o doveroso?La mia risposta è questa: quando un pittore fa un quadro, realizzaun’opera la cui utilità è indiscutibile. Ormai, non viene più in mentea nessuno di adorare e venerare le statue e le immagini. Se ti trovi difronte a un caso concreto, puoi capire da solo come giudicarlo, op-pure rivolgerti a un mufti, che ti darà il suo responso oralmente. Segli citerai il hadith: «I pittori sono coloro che subiranno il più durodei castighi nel giorno del giudizio», o un altro attendibile detto delprofeta di analogo significato, sono propenso a credere che ti rispon-derà così: questi detti si riferiscono all’epoca del paganesimo. Aquell’epoca, le immagini avevano due funzioni. Primo: godere deibeni del mondo dimenticandosi dell’aldilà. Secondo: cercare una be-

Alessandro giudica fra i pittori grecie cinesi (miniatura dalla Khamsa

di Nizami, 1455-60 circa, Istanbul,Biblioteca del Palazzo Topkapi)

Pittori grecie cinesi

Nel capitolo sulle «meravigliedel cuore» del suo capolavoro

(Il ravvivamento delle scienze

re l i g i o s e ), il grande teologo al-Ghazzali (morto nel 1111)

spiega che il cuore è l’o rg a n osottile attraverso il qualel’uomo conosce le realtàinvisibili riflettendole in

forma di immagini. Diconseguenza, quando il cuore

diventa lucido come unospecchio, può accedere alla

conoscenza delle cose divinein modo diretto, senza passare

attraverso lo studio dellafilosofia, che ha il suo puntodi partenza nell’osservazione

del mondo. I risultati diqueste due vie della

conoscenza possono essereidentici, anche se il loro

metodo è diverso.Al-Ghazzali illustra la

differenza con l’aiuto di unaparabola. Un re ordina a due

gruppi di pittori, greci ecinesi, di dipingere due pareti

opposte di una sala, pergiudicare quale dei due

gruppi sia migliore. I duegruppi lavorano nascosti gliuni agli altri da una tenda.

Quando l’opera è finita e latenda si solleva, si scopre che

i greci hanno dipinto unavivida immagine della

creazione a brillanti colori,mentre i cinesi hanno cosìben lucidato la loro parete

che essa rifletteperfettamente la pittura dei

greci. Il famoso poetapersiano Nizami (morto nel

1207) ha inserito questoracconto nel suo poema sulle

imprese di Alessandro,

assegnando al conquistatoremacedone il ruolo di arbitro

nella disputa. L’episodio èstato illustrato varie volte nei

manoscritti riccamentedecorati dei poemi di Nizami

che sono stati prodotti fra ilmedioevo e l’età moderna.

Dust Muhammad, pittore estorico dell’arte persiano del

XVI secolo, racconta di nuovola storia nell’introduzione a

un album di miniature,usandola come argomento per

una difesa dell’arte pittoricabasata sulla distinzione fra la

mìmesis naturalistica e larappresentazione figurativa di

realtà intelligibili.

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nedizione attraverso un’effigie con il ritratto di un sant’uomo. La pri-ma cosa è riprovevole per ogni religione, e la seconda è una delle co-se che l’islam è venuto a cancellare. In questi due casi, o il pittorenon si cura di Dio, o spiana la strada al culto di altri dei. Quandoqueste due circostanze vengono meno e l’intenzione è l’utile, la rap-presentazione di figure umane ha lo stesso statuto di quella di alberie piante nei manufatti. Questi motivi vegetali venivano usati ancheper decorare i margini dei manoscritti del Corano e le intestazionidelle sure. Nessun esperto della legge lo ha mai vietato, anche sel’utilità delle decorazioni del Corano è discutibile. Indiscutibile è in-vece, come abbiamo spiegato, l’utilità delle immagini.

Se poi vai con intenzioni peccaminose in un luogo in cui sonopresenti delle immagini, contando sul fatto che gli angeli, o quanto-meno quello che scrive i peccati, «non entrano in una casa in cui cisono immagini», come riferisce un’altra tradizione, stai attento! Nonilluderti che così ti risparmierai di rendere conto delle tue azioni. Dioti sorveglia, e ti osserva, anche in una casa in cui sono presenti delleimmagini. Non credo proprio che l’angelo rinuncerà a seguirti inqualunque posto tu vada con tali intenzioni, per il semplice fatto checi sono delle immagini! Se rispondi al mufti che l’immagine è sempree comunque un potenziale oggetto di adorazione, lui probabilmenteti dirà che anche la tua lingua è un potenziale strumento di mendaci-tà. Bisogna forse dedurne che è obbligatorio legartela, anche se puòdire sia il vero sia il falso?

In breve, ho forti motivi di credere che la legge islamica sia benlontana dal proibire questo eccellente strumento di conoscenza, unavolta accertato che non mette in pericolo la religione, né dal puntodi vista della fede, né da quello della morale. I musulmani hannol’abitudine di mettere in questione solo cose di evidente utilità, col ri-sultato di privarsi dei loro effetti benefici. Perché invece non mettonoin questione i pellegrinaggi alle tombe dei santi, o cosiddetti tali,quei personaggi dalla vita oscura, il cuore dei quali nessuno ha maiscrutato? Perché non consultano il mufti a proposito delle suppliche edelle preghiere di intercessione, e delle offerte in denaro e in naturache vengono fatte intorno a quelle tombe? Venerano le tombe come,o più, di Dio. Rivolgono a esse le richieste che, secondo loro, Diopotrebbe non esaudire, e credono che esse rispondano ai loro bisognicon più sollecitudine della divina provvidenza. Queste credenze sonodavvero inconciliabili con la fede nell’unicità di Dio, che invece sipuò benissimo conciliare con la rappresentazione di figure umane oanimali, fatta allo scopo di precisare il significato dei termini scienti-fici e dare forma visibile alle immagini mentali.

André Grabar includeil rilievo di Palmira

nell’apparato iconograficodel suo articolo Plotin et les

origines de l’esthétique médiévale

(1945), vedendovi «quasi unannuncio dei personaggi della

scultura romanica».La trasformazione del

panneggio in motivo quasigeometrico in queste figure

di donne velate sembraa n n u n c i a re

anche il decorativismoastratto dell’arte islamica.

L’uso iconico del velonell’islam contemporaneo

è il tema centraledel saggio di Bruno

Nassim Aboudrar, Comment le

voile est devenu musulman

(Flammarion, 2017).

Processione di donne velate(secolo I, Palmira, rilievo

del tempio di Belbersaglio della campagna di

distruzione dell’Isnel 2015)

Palmira rilievo con donne velate

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DONNE DI VA L O R E

di MARIA BALDUZZI

«L a cosa più importante èsviluppare la capacità divedere». Con queste pa-role, Barbara McClin-tock, una scienziata sta-

tunitense talmente originale da venir compresasolo con decenni di ritardo da gran parte dellacomunità scientifica, sintetizzava la centralitàdell’osservazione visiva e dell’i n t e r p re t a z i o n edelle immagini per le sue ricerche in genetica.

La genetica come branca autonoma della bio-logia era nata agli inizi del XX secolo con la ri-scoperta delle leggi di Mendel, ed era ancora aiprimi passi nel 1919 quando, se pure inizialmen-te osteggiata dalla madre che vedeva nell’i s t ru -zione un ostacolo al matrimonio, Barbara siiscrisse alla facoltà di Agraria della Cornell Uni-v e r s i t y.

La Cornell era una delle rare università aper-te alle donne già dal 1872, e nel 1923, anno dilaurea della McClintock, 74 dei 203 laureati inscienze erano donne.

Già dai primi anni di college, la McClintocksi era specializzata in citologia (lo studio della

struttura e delle funzioni cellulari tramite l’os-servazione al microscopio) e l’aveva applicatacon successo allo studio della genetica del mais,coniugando l’osservazione macroscopica dellecaratteristiche genetiche della pianta con lo stu-dio al microscopio dei cambiamenti fisici neisuoi cromosomi. Aveva affinato un tale virtuosi-smo nell’osservazione che illustri colleghi ricor-revano a lei per la capacità di «vedere così tan-to» al microscopio. Questo particolare talentoderivava dalla convinzione che anche il più pic-colo dettaglio potesse fornire la chiave per com-prendere il tutto e che ogni organismo avrebberivelato i suoi segreti se osservato lungamente econ attenzione. Per questo non tralasciava alcunparticolare, fino a ricostruire tutto l’insieme inun quadro coerente in cui si integravano strut-tura e funzione.

Questo modo di procedere fatto di metodo,pazienza e determinazione, la spinse sempre piùa lavorare da sola, e da molti fu così giudicatauna persona eccentrica.

Al periodo trascorso alla Cornell risalgono ladimostrazione del crossing over (ricombinazione

Barbara McClintock

dei geni attraverso scambi fisici di materiale tracromosomi omologhi), la conferma che i geni sitrovano sui cromosomi, la scoperta dell’instabili-tà cromosomica, tutte pietre miliari nel progres-so della genetica.

Nonostante questi brillanti risultati, nel 1931,Barbara McClintock dovette lasciare questa uni-versità per mancanza di posizioni appropriate adisposizione delle donne negli organici della fa-coltà e il suo iter all’interno delle istituzioni uni-versitarie fu molto travagliato. Nelle facoltàscientifiche la carriera accademica era ancorapreclusa alle donne e Barbara, contrariamente amolte altre, non accettò mai ruoli di ripiego.Nel 1941 lasciò anche l’università del Missouri,che pure le aveva garantito una posizione diprofessore assistente, in quanto non ne tolleravala burocrazia eccessiva e le discriminazioni versole docenti.

Questi comportamenti portarono a problemidi incertezza economica e frequenti cambiamen-ti di sede, oltre a una certa fama di stramberia edi difficoltà caratteriale, rafforzata dal suo anti-conformismo e dall’essere non sposata.

Le ambizioni della scienziata non compren-devano potere e ricchezza ma solo fare ricercain piena libertà, che ottenne trasferendosi ai La-boratori di Cold Spring Harbor, dove poté rac-cogliere le prove di una sua intuizione sulla pre-senza di geni trasponibili nel genoma del mais.Le occorsero sei anni di attente osservazioni ma,in occasione del simposio annuale di ColdSpring Harbor nell’estate 1951, presentò alla co-munità scientifica la scoperta dei trasposoni, ge-ni in grado di modificare la propria posizione“saltando” da una parte all’altra del genoma. Lasua presentazione fu accolta da un silenzio atto-nito, misto di imbarazzo, compatimento o aper-to scherno. Tranne poche eccezioni, tutti pensa-rono che quella stramba scienziata fosse impaz-zita, complice anche una diffidenza radicata nelmondo accademico verso le donne.

Barbara McClintock aveva allora quarantano-ve anni e, nonostante la sua vita lavorativa fossestata punteggiata da crisi e precarietà, non leerano mai mancati il riconoscimento, la stima eil sostegno dei colleghi. Grazie anche a loro lascienziata aveva potuto affermarsi come uno deipiù importanti citogenetisti d’America.

Era stata infatti nominata membro dell’Acca-demia americana delle scienze nel 1944, ricono-scimento in precedenza conferito solo ad altredue donne nella lunga storia di questa istituzio-ne, e nel 1945 era stata la prima donna presiden-te della Società americana di genetica.

Fu perciò scioccata dalla reazione della plateadi scienziati a tal punto che, negli anni seguen-ti, pur continuando con determinazione a stu-diare il fenomeno e a raccoglierne le prove, cer-cò solo poche altre volte il confronto aperto coni colleghi, ritirandosi in una zona d’ombra.

Durante gli anni cinquanta e sessanta, ai nu-merosi scienziati che si riunivano a Cold SpringHarbor ogni estate per discutere e condividerele più recenti acquisizioni scientifiche, non sfug-giva la presenza anomala, quasi in disparte, di

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una donna minuta, agile, lo sguardo vivace, ab-bigliata senza alcun vezzo con pantaloni da la-voro e maglietta, che si poteva incontrare nelsuo andirivieni tra il laboratorio e i campi dimais o durante passeggiate solitarie nel bosco osulla spiaggia.

Quella donna era Barbara McClintock che,dopo aver contribuito allo sviluppo della gene-tica classica con lavori di importanza fondamen-tale, sembrava completamente eclissata, quasiun ormai inutile lascito del passato.

Sebbene defilata, partecipava però come at-tenta uditrice ai dibattiti scientifici e apriva vo-lentieri le porte del suo laboratorio a chiunquefosse interessato; pochi, e raramente ben dispo-sti erano, tuttavia, gli scienziati che le chiedeva-no un colloquio.

Una delle ragioni dell’incomprensione dellacomunità scientifica fu certamente il fatto che lascoperta dei jumping genes appariva controcor-rente rispetto a quelli che erano allora i capisal-di teorici della genetica. La scoperta della stu-diosa infatti, contraddiceva le semplici regole diMendel e confliggeva con il meccanismo di mu-tazione spontanea come motore dell’evoluzionealla base del neodarwinismo.

A quei tempi la struttura del genoma eraconsiderata assolutamente statica e l’informazio-ne unidirezionale, dal DNA alla cellula. Quasinessuno ritenne perciò plausibile che i geni po-tessero muoversi e tanto meno che questo movi-mento fosse programmato e controllato da altrigeni in risposta a segnali esterni al genoma stes-so; né era ritenuto possibile che, cambiando po-sizione, i geni esprimessero nuove funzioni.

Il linguaggio di McClintock, poi, risultòoscuro, “mistico”, inaccettabile in un momentoin cui i successi della biologia molecolare (tracui la scoperta, nel 1953, della struttura del DNA)stavano profondamente cambiando il modo difare ricerca e di spiegare i fenomeni biologici.

Barbara McClintock non era in grado dispiegare la trasposizione con i termini della bio-logia molecolare e questo le impediva di comu-nicare i suoi risultati nella forma richiesta dallanuova biologia e la relegava alla marginalità.

Curiosamente, è proprio dalla genetica mole-colare che arriverà la riscoperta dei trasposoni ela spiegazione del meccanismo della trasposizio-ne. A partire dalla metà degli anni sessanta, siiniziarono ad accumulare prove della plasticitàdel genoma e, nella seconda metà degli annisettanta, il meccanismo della trasposizione de-scritto da McClintock venne tradotto nei termi-ni della genetica molecolare, accessibile allacomprensione generale. La rivalutazione deglistudi della studiosa svelò il valore e l’imp ortan-za della sua scoperta al punto che le fu assegna-to il premio Nobel per la medicina nel 1983,ben trentacinque anni dopo la prima pubblica-zione dei suoi lavori sui trasposoni.

Il ritardo nel riconoscimento si deve certa-mente al carattere rivoluzionario della scoperta,ma anche alla modalità particolare con la qualela scienziata perveniva alla conoscenza e allacomprensione dei fenomeni. Come si ricordavaall’inizio, era convinta che ogni organismoavrebbe rivelato i suoi segreti se osservato lun-gamente, attentamente e minuziosamente. Attra-verso questa lunga pratica nell’osservazione visi-va, la scienziata era arrivata a costruire un’im-magine mentale del mondo difficilmente comu-nicabile in quanto strettamente soggettiva.

Per tutti, la visione del mondo naturale sifonda sull’osservazione, ma quello che vediamoè strettamente legato a ciò che sappiamo: più siconosce, più si vede. Questa relazione fra pro-cessi visivi e cognitivi è, però, un’arma a doppiotaglio in quanto il bagaglio di conoscenze ac-quisite può ostacolare la comprensione di feno-meni che esulano dagli schemi mentali consoli-dati. Per Barbara McClintock, invece, questa re-ciprocità sembra essere stata particolarmente in-tensa e feconda.

CO N S A C R AT E «PER E VA N G E L I C A CONSILIA»

La visionedi Caterina

di NICLA SP E Z Z AT I

Si assiste oggi a uno straordinario risveglio della mistica e del mistici-smo sotto varie forme. La persistenza del fatto mistico anche in am-biti avanzati della cultura ha voce significativa nel postmoderno. Sista verificando quella sorta di profezia di Karl Rahner che annuncia-va, come unica possibilità per il futuro dell’uomo religioso, l’e s s e remistico, toccato dall’esperienza di Gesù di Nazareth crocifisso e risor-to. L’alternativa, continua Rahner, è la simulazione del religioso. Giànegli anni settanta lo storico americano Martin E. Marty, che perlungo tempo si è dedicato allo studio della letteratura mistica, parla-va di un recupero, con l’ampia diffusione e fruizione dei classici. Il filro u g e che lega l’esperienza e la narrazione di tale patrimonio misticoè lo sguardo: «Ho trovato l’Amore, l’Amore si è lasciato vedere! Di-telo a tutte, ditelo a tutte!» affermava Veronica Giuliani (Summarium

beatificationis, 115-120).

Mentre nel mondo ebraico e islamico la conoscenza segue la mo-dalità dell’ascolto, il mondo greco lega invece il conoscere al vedere

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(èidon, io vidi, òida, io so), per cui anche il concetto è pensato comevisione interiore (èidos, idea). Ricordiamo come la Me t a f i s i c a di Ari-stotele si apra con l’affermazione: «Tutti gli uomini per natura amanola conoscenza, e ne è segno evidente la gioia che provano nelle sen-sazioni, e più delle altre è amata quella che si esercita mediante gliocchi. Infatti noi preferiamo la vista a tutte le altre sensazioni. E ilmotivo è che il vedere, più di ogni altra sensazione, ci fa acquistareconoscenza e ci presenta, senza mediazione, una molteplicità di diffe-renze». Come non pensare al vangelo di Giovanni con la richiestadei greci a Filippo («vogliamo vedere Gesù»), con la domanda di Fi-lippo a Gesù («mostraci il Padre») e la inquietante risposta di Gesù:«Chi vede me, vede il Padre». Marco Vannini riflette che proprio nelvangelo di Giovanni — in cui si afferma la nozione di Dio come Spi-rito, che non si adora né nei templi né sui monti, ovvero, in sostanza,che non sta in immagini e rappresentazioni, e dunque non si puòneppure vedere, o comunque esperire attraverso sensazioni — è pre-sente anche l’idea che lo Spirito non sia un’esangue, impalpabile, in-distinta entità, ma si manifesti invece nell’umano, e in tutto il creato,giacché il Lògos, che è Dio, e in cui tutte le cose sono state fatte, si èincarnato, ha posto la sua dimora tra noi.

Uno dei testi più noti di Eckhart afferma: «L’occhio nel quale iovedo Dio è lo stesso occhio in cui Dio mi vede; l’occhio mio e l’o c-chio di Dio non sono che un solo occhio, una sola visione, una solaconoscenza, un solo amore» (Sermone 12). Vedere, conoscere e amaresono qui strettamente legati, anzi sono un medesimo atto.

È lo sguardo mistico di Caterina da Siena: intelligenza e amoredue occhi dell’anima, che alimentano lo sguardo “semplice”, secondola nota immagine, ripresa dai medievali.

Per dirla con Montale, la parola di Caterina è come un «lampoche candisce», più sguardo che parola. Il suo dire apre visioni, c’in-troduce nella vertigine in modo inatteso, quasi una sorta di deflagra-zione accecante, uno squarcio nella notte, una luminosa ferita nellatenebra. Uno sguardo da vertigine, suggerisce Kierkegaard: chi volgegli occhi al fondo di un abisso è preso dalla vertigine. Ma la causanon è meno nel suo occhio che nell’abisso: perché deve guardarvi.Così l’angoscia è la vertigine della libertà, laddove essa guardandogiù nella sua propria possibilità, afferra il finito per fermarsi in esso.In questa vertigine la libertà cade. Lo sguardo di Caterina fa intrave-dere, intuire ciò che si è e ciò che si è chiamati a essere: introducenella vertigine dell’actus fidei, che pur sanando in qualche modo l’an-goscia dell’essere, lascia sospesi in una sorta di fisicità spirituale sulsenso dell’abisso.

Non ci troviamo dunque innanzi a una immediatezza indiscreta, auna semplicistica e soporifera eliminazione dell’infinita distanza, mapiuttosto in uno sguardo che diventa affidamento senza condizione;uno sguardo che pur attraversando quell’infinita distanza non elimi-na il senso dell’abisso.

Caterina ci introduce con il suo vedere nelle punte alte dello spiri-to umano, là dove la fede non è solo commozione estetica o impulso

immediato del cuore, ma paradosso dell’esistenza. Ella vive lo sguar-do nella nudità della fede e ci spinge a “v e d e re ” lo spessore infinitodella differenza qualitativa: è la quaestio cateriniana, «il rapporto diquesto Dio e questo umano, il rapporto di questo umano e questoD io».

A Caterina è dato uno sguardo che la fa partecipe di tanto miste-ro. Ossia Caterina «viene posta in attenzione a una presenza»: è lapassività mistica, nel senso che il mistico subisce questa presenza,non la produce. Passività, non passivismo, percezione chiara dellapresenza di qualcuno verso il quale si è posti in attenzione nella tota-lità dell’essere. Non si tratta necessariamente di una visione o diun’estasi, ma di uno sguardo di partecipazione allo sguardo divino. Esan Tommaso afferma: Actus fidei non terminatur ad enunciabile sed ad

re m .

Nello sguardo mistico viene rivelato a Caterina l’evento di grazianascosto nelle umanissime vicende della vita in cui si invera che«amore è forte come morte, una scintilla di Yah».

Così nella lettera a fra Raimondo da Capua: «Scrivo a voi racco-mandandomi nel prezioso sangue del Figliolo di Dio, intriso confuoco dell’ardentissima carità sua. Andai a visitare colui che voi sape-te [un giovane perugino, Niccolò da Toldo, che era stato arrestato aSiena e, accusato di spionaggio a favore di Perugia, dopo un breveprocesso, era stato condannato a morte mediante decapitazione] e elliricevette tanto conforto e consolatione che si confessò e disposesimolto bene. E fecemisi promettare per l’amore di Dio che, quandovenisse il tempo della giustizia, io fusse con lui, e così promisi e feci.Era quella volontà accordata e sottoposta alla volontà di Dio; solov’era rimaso uno timore di non essere forte in su quello punto: Sta’meco e non m’abandonare, e così non starò altro che bene, e morròcontento! E teneva el capo suo sul petto mio. E diceva: Io andaròtutto gioioso e forte, e parrammi mille anni che io ne venga, pensan-do che voi m’aspetterete ine; poi egli gionse, come uno agnello man-sueto, e, vedendomi, cominciò a rìdare, e volse che io gli facesse elsegno della croce; e, ricevuto el segno, dissi: Giuso alle nozze, fratel-lo mio dolce, ché testé sarai alla vita durabile! Posesi giù con grandemansuetudine, e io gli distesi el collo, e chinàmi giù e ramentàli elsangue dell’agnello: la bocca sua non diceva, se non “Gesù” e “Cate-rina”, e così dicendo ricevetti el capo nelle mani mie, quel capo mifu di tanta dolcezza, che il cuore nol può pensare, né lingua parlare,né l’occhio vedere, né l’orecchio udire. Allora si vedeva Dio e uomo,come si vedesse la chiarità del sole; e stava aperto e riceveva il san-gue; nel sangue suo uno fuoco di desiderio santo, dato e nascostonell’anima sua per grazia; riceveva nel fuoco della sua divina carità.O, quanto era dolce e inestimabile a vedere la bontà di Dio, conquanta dolcezza e amore aspettava quella anima partita dal corpo».

Esperienza mistica come sguardo saporoso dell’amore: amor ipse

notitia est (Gregorio Magno).

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Ve d o v eAl primo posto la carità

di NURIA CALDUCH-BENAGES

Le vedove sono vere protagoniste nella Scrittura. Come non ricordareTamar, Rut, Noemi, Giuditta, la vedova di Sarepta di Sidone, oppu-re la vedova insistente della parabola lucana? Secondo la legislazioneantica, la vedova senza figli aveva diritto al matrimonio, però potevaritornare pure nella casa paterna. Le era consentito dunque risposar-si, tranne che con un sacerdote; tuttavia, le seconde nozze non eranoabituali. Così si spiega la frequente menzione della categoria dellevedove, del loro disagio economico, del loro bisogno di protezionelegale e del dovere di essere caritatevoli verso di loro. Il Signore stes-so le sostiene (cfr. Salmi 146, 9), rende loro giustizia (cfr. Esodo 22,21; D e u t e ro n o m i o 10, 18) e ascolta le loro suppliche, quando si sfoganonel lamento (cfr. S i ra c i d e 35, 17). I loro oppressori (cfr. Ezechiele 22, 8)e coloro che mancano al proprio dovere verso di loro (cfr. Giobbe 24,21; Isaia 10, 1-2) meritano il castigo divino. Con gli orfani e gli stra-nieri, cioè quelli che non avevano l’appoggio di una famiglia, le ve-dove dipendevano dalla carità della gente e, tranne qualche rara ec-cezione, vivevano in condizioni miserevoli e cariche di figli, il chepeggiorava ancora la loro situazione. Nel Nuovo Testamento la co-

munità primitiva incominciò ben presto ad aver cura delle vedove(cfr. Atti degli apostoli 6, 1; 9, 39-40) e ad assisterle nei loro disagi (cfr.Giacomo 1, 27).

A noi interessa specialmente un frammento della prima lettera aTimoteo (5, 3-16), scritta tra gli anni ottanta e novanta del I secolo,probabilmente da un discepolo che conosceva molto bene l’ap ostoloe il suo pensiero. La lettera, indirizzata a Timoteo, giovane capo del-la comunità di Efeso, ha lo scopo di incoraggiarlo nella missione chegli è stata affidata. Timoteo, insieme a Tito, è uno dei più cari disce-poli di Paolo, suo fedele collaboratore e continuatore della sua ope-ra. Di carattere essenzialmente esortativo, costituisce una specie dipiccolo manuale per il pastore, dove si affrontano questioni comel’organizzazione della comunità, il modo di combattere i nemici dellafede e la vita cristiana dei fedeli, senza che emerga una struttura o unpiano di composizione evidente.

Si tratta di un brano significativo non solo perché è il testo neote-stamentario più lungo dedicato alle vedove, ma soprattutto perchéattesta l’esistenza di un ordine delle vedove riconosciuto nella Chiesanella prima metà del II secolo. In 1 Timoteo 5, 9 si legge: «Una vedo-va sia iscritta nel catalogo (katalegèstho) delle vedove quando...». Ilcatalogo o registro, spiega Giuseppe Pulcinelli, era l’elenco delle ve-dove disposte ad assistere le donne povere, le quali dovevano avere

PAOLO E LE D ONNE

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alcuni requisiti e godere della stima degli altri cristiani. Erano le co-siddette vedove “catalogate” o “canoniche” e costituivano una speciedi associazione con scopi caritativi e di apostolato. Oggi l’ordine del-le vedove (ordo viduarum) sta riprendendo vigore dopo la quasiscomparsa nei decenni passati. Infatti, il numero delle vedove consa-crate al Signore è in continua crescita nel continente europeo. In Ita-lia almeno una quindicina di diocesi hanno istituito l’ordine delle ve-dove e si contano circa duecento consacrate. Perso il marito, hannorinunciato a nuovi affetti coniugali per vivere la vedovanza unite aGesù Cristo. Si dedicano alla cura della famiglia e al servizio dellaChiesa, collaborando nelle attività pastorali delle parrocchie. Esse so-no un dono prezioso che va custodito e incentivato con gratitudine eamore. Ma torniamo alla Scrittura, proprio per parlare delle vedovenella Chiesa primitiva, della loro situazione all’interno della famiglia,della loro funzione nelle comunità e del loro stile di vita.

Il nostro testo fa parte di una sezione più lunga (1 Timoteo 5, 1 – 6,2) che concerne i criteri di comportamento nei confronti di quelle ca-tegorie di persone che hanno particolare rilevanza nella vita della co-munità cristiana: in primo luogo, le vedove (5, 3-16), poi seguono ipresbiteri (5, 17-25) e infine gli schiavi (6, 1-2). Ma prima di occuparsidelle vedove, l’autore introduce una regola valida per tutti i fedeli,per gli uomini e per le donne, per i giovani e per gli anziani: trattaretutte le persone come se fossero membri della propria famiglia. Gran-de spazio è poi riservato alle vedove, che nella Chiesa primitiva era-no molto numerose. È stato ipotizzato, anche se si tratta ovviamentedi un calcolo approssimativo, che il quaranta per cento delle donnefra i quaranta e i cinquant’anni fossero vedove. Un numero così ele-vato di vedove poneva seri problemi per la Chiesa nascente, che nonaveva le risorse economiche necessarie per aiutarle tutte nei loro biso-gni. Per questo motivo, occorreva discernere bene quali vedove fosse-ro veramente bisognose, prima di distribuire gli aiuti. Racconta Euse-bio di Cesarea che nel 250 la Chiesa di Roma sostentava oltre mille-cinquecento vedove (cfr. Storia ecclesiastica 6, 43).

«Onora le vedove, quelle che sono veramente vedove» (1 Timoteo

5, 3). Con questa esortazione incomincia il nostro brano. Le vedovesono ritenute degne di onore, e l’onore si traduce non solo in un aiu-to morale e spirituale, ma anche materiale. C’è però una condizioneche va rispettata: esse devono essere «veramente» vedove, il che la-scia sottintendere che c’erano anche delle vedove non autentiche equindi non degne di essere onorate. Evidentemente l’autore non si ri-ferisce al loro stato civile, mai messo in dubbio, bensì alla loro situa-zione economica dopo la perdita del marito. Successivamente egli di-stingue tre categorie di vedove. In primo luogo, quelle che possono

Nata nel 1957 aBarcellona, dal 1985risiede a Roma. Dopola laurea in filologiaanglo-germanicaall’Universitàautonoma diBarcellona, ha studiatopresso il Pontificioistituto biblico diRoma conseguendo ildottorato in SacraScrittura. Attualmenteè professore ordinariodi Antico Testamentonella Facoltà diTeologia dellaGregoriana eprofessore invitato alBiblico. È vice-presidente dellaInternational Societyfor the Study ofDeuterocanonical andCognate Literature.Dal 2014 è membrodella Pontificiacommissione biblica edi quella voluta daPapa Francesco per lostudio del diaconatodelle donne. Initaliano, di recente, hascritto La Bibbia della

domenica (EdizioniDehoniane Bologna,2016) mentre per Vitae Pensiero ha curatoDonne della Bibbia

(2017) e Donne dei

Va n g e l i (2018).

L’autrice

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c’era stata nessuna restrizione di età per l’ammissione delle vedove,ma da quanto segue, si evince che l’esperienza non aveva dato deibuoni risultati. Per le vedove giovani, si raccomandano vivamente leseconde nozze, perché non avendo nulla da fare, si abituano ad an-dare nelle case, sia pure per il loro ministero, parlando di ciò chenon conviene e seminando discordie nella comunità (1 Timoteo 5, 13).Terzo, le vedove devono fare una specie di voto, promessa o giura-mento, sia di castità sia di consacrazione davanti alla Chiesa in vistadel loro servizio (cfr. 1 Timoteo 5, 12). Quarto, le vedove devono averavuto soltanto un solo marito; lo stesso vale per il vescovo e il diaco-no: possono essere sposati soltanto una volta. Quinto, come i vesco-vi, le vedove devono avere praticato l’ospitalità (cfr. 1 Timoteo 3, 2; 5,10; Ti t o 1, 8), oltre ad aver esercitato altre opere di carità. Ad esem-pio, «lavare i piedi ai santi», cioè ai cristiani (cfr. Giovanni 13, 2-17),ospitandoli nelle loro case, dove molto probabilmente si riuniva lacomunità cristiana, soccorrere gli afflitti e in modo particolare altrevedove e orfani bisognosi.

Non ci sono dubbi riguardo questi requisiti. Non è così facile, in-vece, determinare in che cosa consistesse esattamente il ministero del-le vedove catalogate o canoniche. Ad ogni modo, dall’informazionericavata da 1 Timoteo e dalle altre due lettere pastorali (2 Timoteo e Ti -

to), si può tentare di definire la loro funzione all’interno della Chiesa.Nelle suddette lettere, alle donne, e probabilmente anche alle vedove,

essere aiutate dai loro parenti: «Se una vedova ha figli o nipoti, essiimparino prima ad adempiere i loro doveri verso quelli della propriafamiglia e a contraccambiare i loro genitori; questa infatti è cosa gra-dita a Dio» (1 Timoteo 5, 4), una esortazione questa che riecheggia ilquarto comandamento. In secondo luogo, quelle che non hanno nes-sun mezzo di sussistenza, perché sono abbandonate e non hanno fa-miglia, e di conseguenza richiedono l’aiuto della Chiesa. Sull’esem-pio della profetessa Anna che «notte e giorno serviva Dio con digiu-ni e preghiere» (Luca 2, 37), esse pregano continuamente e pongonola loro fiducia soltanto nel Signore. Secondo le parole dell’a u t o re :«Colei che è veramente vedova ed è rimasta sola, ha messo la speran-za in Dio e si consacra all’orazione e alla preghiera giorno e notte»(1 Timoteo 5, 5). In terzo luogo, quelle che ricevono un incarico co-munitario, dopo essere state riconosciute adatte attraverso una seriedi requisiti. In questo modo, acquistano il diritto di essere sostenutedalla Chiesa (1 Timoteo 5, 9-15).

Parliamo adesso dei criteri di ammissione nell’ordine delle vedove.Quali sono questi criteri? Primo, le vedove non devono avere menodi sessant’anni (1 Timoteo 5, 9). Secondo, è vietato iscrivere le vedovegiovani, cioè quelle che non hanno raggiunto la menopausa, perchépotrebbero volersi sposare di nuovo e, se lo fanno, «si attirano cosìun giudizio di condanna, perché infedeli al loro primo impegno» (1

Timoteo 5, 12). Il testo lascia intendere che fino a quel momento non

«Paolo consegnale lettere a Timoteo»(mosaico del duomodi Monreale, particolare)A pagina 34Maestro della passione diDarmstadt, «Resurrezionedel figlio della vedovadi Nain» (particolare)

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LUCA 21, 1-4

Oggi il vangelo ci insegna a riconoscere Gesùcome il racconto di Dio, non solo dalle parole edai gesti ma anche dallo sguardo. E noi ricono-sciamo in lui lo sguardo del Signore Dio narra-to fin dall’inizio nella Bibbia, quello sguardoche, seme e frutto della sua compassione, diedeinizio e ancora accompagna la storia della sal-vezza.

Come Dio udì il sangue di Abele, la sete diIsmaele nel deserto, il dolore degli stranieri aSodoma e il grido della dura schiavitù di Israelein Egitto senza mai distogliere lo sguardo daldolore che ascoltava, sempre Dio ode e guardaciò che noi non vogliamo udire né vedere. Lepersone povere e sofferenti, in tutte le loro de-clinazioni antiche e nuove, che la Bibbia riassu-me con l’espressione «lo straniero, l’orfano e lavedova», sono la macroscopica evidenza dellastoria che noi non vogliamo vedere.

Noi che temiamo tremendamente la povertà el’esclusione come caparra e ombra della nostra

ME D I TA Z I O N E

La beatitudinedegli invisibili

a cura delle sorelle di Bose

Fausto Podavini«The Black Side Of South Africa»

viene attribuito il compito di educare altre donne, affinché possanoriprodurre l’ideale delle matres familiae, nonché la cura dei figli. Inquesto senso, esse esercitano una certa funzione magisteriale nellaChiesa, evidentemente non in veste ufficiale ma sul piano del consi-glio e della sapienza che scaturiscono dalla esperienza di una vitasanta. Infatti, secondo Ti t 0 2, 3-5, le donne anziane devono insegnarealle giovani «ad amare i loro mariti e i loro figli, ad essere prudenti,caste, dedite ai loro doveri domestici, sottomesse ai propri mariti,perché la parola di Dio non venga screditata». Le vedove, dunque,sono modelli di comportamento per le donne sposate e anche per levedove giovani che devono educare i figli finché si sposano nuova-mente. Che le vedove avessero una funzione evangelizzatrice si evin-ce da un frammento della Didascalia apostolorum, un antico trattatocristiano risalente alla prima metà del III secolo. Da una delle normeriportate nel testo, si intuisce che negli incontri con i pagani le vedo-ve e altri laici insegnavano questioni dottrinali, per esempio, riferiteall’unità di Dio. Altre questioni erano, invece, riservate ai pastori del-la Chiesa: «Sulla punizione o sul riposo, sul regno del nome di Cri-sto, e sulla distribuzione, né una vedova né un laico parli» (capitolo14, 3.5).

Accanto alle vedove di condotta irreprensibile, c’erano anche quel-le che, dimenticando la promessa di vivere in castità, si comportava-no in modo promiscuo: «La vedova che si abbandona ai piaceri, an-che se vive, è già morta» (1 Timoteo 5, 6). Si sottintende che è mortadal punto di vista della fede, perché le sue passioni la allontananodal Signore e la conducono «dietro a Satana» (1 Timoteo 5, 15). Inqueste condizioni, è meglio che si sposi. Così la pensava Paolo: «Èmeglio sposarsi che ardere di concupiscenza» (1 Corinzi 7, 9). Logica-mente le vedove giovani erano più a rischio di quelle che avevanoraggiunto una certa età. L’autore costata che esse «si comportavanoin modo lascivo» (k a t a s t re n i à s o s i n ) perché desideravano risposarsi(cfr. 1 Timoteo 5, 11) e, abbandonando la loro fede, adottavano unostile di vita contrario alla dottrina di Cristo. Oziose, pettegole e cu-riose, le vedove giovani non facevano onore all’ordine delle vedove.

Il nostro brano termina con la seguente raccomandazione: «Sequalche donna credente ha con sé (a casa sua) delle vedove, provve-da al loro sostentamento e il peso non ricada sulla Chiesa, affinchéquesta possa venire incontro a quelle che sono veramente vedove» (1

Ti m o t e o 5, 16). Tutto fa pensare all’iniziativa privata di qualche cristia-na, forse anch’essa vedova, in favore delle vedove che sono nel biso-gno e non hanno chi si occupi di loro. Sarebbe questo un modo diaiutare la Chiesa, la quale non poteva far fronte al sostentamento ditutte le vedove. La carità resta sempre al primo posto.

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morte, fuggiamo via con lo sguardo dagli sven-turati, come se il solo vederli potesse contagiar-ci. Li rendiamo invisibili per noi e passiamosempre oltre, come se ci fosse un oltre in cuicercare e servire il Signore (cfr. Luca 10, 32) enon fosse proprio il Signore a venirci incontronei poveri, bisognosi e dolenti (cfr. Matteo 25). Iricchi adornati invece, come ci ricorda la letteradi Giacomo (cfr. 2, 5-7), attirano il nostro sguar-do e il nostro encomio, rispettoso e/o invidiosoche sia.

Ma Gesù fa il contrario, e dona la beatitudi-ne ai poveri e agli invisibili. Gesù qui, nel tem-pio, vede dei ricchi che gettano offerte nel teso-ro e vede anche una povera vedova fare lo stes-so. Gesù aveva appena detto di guardarsi da co-loro che si fingono pii per mettersi in mostra.L’ipocrisia, l’atteggiarsi a pii e puri mentre inve-ce si vive divorando le case delle vedove, rapi-nando le persone più povere tra i poveri, ha loscopo di farsi guardare con ammirazione dallagente. Oggi Gesù ci insegna a guardare ciò chenon attira il nostro sguardo e che, proprio perquesto, è l’oggetto privilegiato dello sguardo diDio. Come il Servo del Signore che non ha nébellezza né splendore per attirare i nostri sguar-di, come i giusti e le vittime della storia che cosìspesso desideriamo ci siano tolti dalla vista, cosìquesta povera vedova ci viene indicata da Gesùcome la rivelazione che fu per lui: quell’eviden-za che a noi resta nascosta. In questa poveradonna che dà, nella libertà di chi è invisibile,tutto ciò che ha, Gesù vede l’amore invisibile

del nostro Dio che ci ha donato se stesso nellasua Parola e nel suo Spirito. Ne resta ammaliatoe ce la indica come icona per chi voglia seguir-lo: confidando nel Signore, amare non dandosipensiero della propria vita.

Gesù vede narrata, in quel gesto di totalegratuità, la propria vita e anche la propria beati-tudine. Vede in lei il proprio spendersi edonarsi senza calcolo, la propria libertà e beati-tudine, quella di chi confida solo nella tenerez-za dello sguardo del Signore, e può amare contutto se stesso. Come il mercante che, pieno digioia, vende tutto per comperare la perla pre-ziosa che è la confidenza con il Signore. Cosìcome si riconoscerà nel gesto, giudicato dai di-scepoli uno spreco scandaloso, del preziosissimonardo che una donna gli verserà sul capo pocoprima che venga ucciso, l’unica persona che inquell’ora ebbe uno sguardo sulla verità di Gesù.

È in vista della stessa beatitudine che Gesù cisupplica di non badare all’apparenza, perché ètriste disertare l’interiorità per attirare su di sélo sguardo altrui invece di essere responsabiledel proprio sguardo sugli altri. Come sempre ilVangelo è di un’attualità sconvolgente: mai co-me ora, forse, il valore sociale sta nell’a p p a r i resu uno schermo non per vedere ma per esserevisti e ammirati.

Con il suo sguardo penetrante Gesù vuoleconsolare tutti gli invisibili, resi tali dal nostrosguardo angosciato e mondano che li esclude, esvegliare tutti noi alla stessa consolazione.

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