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IDENTITÀ SAMMARINESE 31 DANTE E LA RICERCA DELLA FELICITÀ PERCHÉ DOBBIAMO LEGGERE LA DIVINA COMMEDIA DI FERDINANDO GASPERONI DOCENTE DELLA SCUOLA SECONDARIA SUPERIORE N ella mia professione di insegnante ho pensato ad una lezione in- troduttiva alla lettura della Divina Commedia che riuscisse a tra- smettere agli studenti non solo le prime nozioni fondamentali, ma anche e soprattutto delle motivazioni. A livello di nozioni non è necessario (e sareb- be impossibile) dire tutto subito: penso che sia sufficiente trasmettere solo pochi dati essenziali, funzionali ad un primo inquadramento dell’opera e alla ricerca di motivazioni per la sua lettura. La Divina Commedia è il racconto di un viaggio nei tre regni dell’ol- tretomba, compiuto dal protagonista Dante. E’ lui stesso a narrarci il viag- gio, in prima persona, e ci avverte che sono passati già alcuni anni dal suo compimento. Questo viaggio è avvenuto, infatti, durante la settimana santa dell’anno 1300, mentre la Commedia è scritta a partire, all’incirca, dal 1304. Lasciamo, per adesso, in sospeso la questione se questo viaggio sia stato reale, immaginario, un sogno o una “visione”: non specifichiamo quindi la parola “viaggio”, ma ci basti, per ora, concentrarci su di essa: il tema del viaggio, della “queste”, diviene centrale nell’immaginario medievale, a par- tire dalla Rinascita dopo il Mille. Il viaggio, nel Medioevo, porta sempre con sé un significato che è associato ad un percorso di iniziazione.

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DANTE E LA RICERCA D E L L A F E L I C I T ÀPERCHÉ DOBBI A MO LEGGERE L A D I V I N A C O M M E D I AD I F E R D I N A N D O G A S P E R O N ID O C E N T E D E L L A S C U O L A S E C O N D A R I A S U P E R I O R E

Nella mia professione di insegnante ho pensato ad una lezione in-troduttiva alla lettura della Divina Commedia che riuscisse a tra-

smettere agli studenti non solo le prime nozioni fondamentali, ma anche e soprattutto delle motivazioni. A livello di nozioni non è necessario (e sareb-be impossibile) dire tutto subito: penso che sia sufficiente trasmettere solo pochi dati essenziali, funzionali ad un primo inquadramento dell’opera e alla ricerca di motivazioni per la sua lettura.

La Divina Commedia è il racconto di un viaggio nei tre regni dell’ol-tretomba, compiuto dal protagonista Dante. E’ lui stesso a narrarci il viag-gio, in prima persona, e ci avverte che sono passati già alcuni anni dal suo compimento. Questo viaggio è avvenuto, infatti, durante la settimana santa dell’anno 1300, mentre la Commedia è scritta a partire, all’incirca, dal 1304. Lasciamo, per adesso, in sospeso la questione se questo viaggio sia stato reale, immaginario, un sogno o una “visione”: non specifichiamo quindi la parola “viaggio”, ma ci basti, per ora, concentrarci su di essa: il tema del viaggio, della “queste”, diviene centrale nell’immaginario medievale, a par-tire dalla Rinascita dopo il Mille. Il viaggio, nel Medioevo, porta sempre con sé un significato che è associato ad un percorso di iniziazione.

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Il protagonista comincia il suo cammino nell’oltremondo “visitando” dapprima l’Inferno, che contiene le anime dannate, anime cioè destinate a terribili pene, diverse a seconda della colpa, fino al giorno del Giudizio, che giungerà alla fine dei tempi: dopo tale giorno, le anime recupereranno i loro corpi e subiranno così una intensificazione e un “perfettimento” della loro pena (vedi VI canto dell’Inferno). La dannazione è una condizione eterna ed immutabile, senza possibilità di riscatto, senza la possibilità di far cessare le

Schema dell’Inferno dantesco

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pene, tra cui, la più grande, è quella di “non poter vedere Dio”.L’Inferno è un imbuto, una voragine a forma di cono rovesciato che

sprofonda nelle viscere della Terra, e la cui entrata è situata nei pressi di Ge-rusalemme. Tale voragine è divisa in nove “cerchi” (o “gironi”) concentrici, che accolgono i dannati secondo la gravità dei peccati commessi.

In fondo a questo imbuto, al centro della Terra, sta il Diavolo, Luci-fero, il re dell’Inferno, conficcato fino al busto in un grande lago ghiacciato. Chi è Lucifero? In origine era il più glorioso tra gli angeli cherubini creati dal Divino Fattore, che lo circondò di beni e bellezza. Spinto dalla superbia, tentò di usurpare Dio e guidò, senza successo, una rivolta insieme ad altri angeli. Sconfitto e scacciato dal Paradiso, è ora confinato nell’Inferno insie-me a tutte le creature angeliche ribelli. Lucifero è l’origine e il simbolo di ogni male del mondo, e occupa quello che è, nella cosmologia medievale, il centro dell’universo, ma anche il suo punto più basso. Dobbiamo ricordare, a tal proposito, quanto sia importante la dimensione verticale nella cultura medievale e come, in generale, ogni cosa acquisti di valore e dignità più si avvicina all’Alto.

Il Diavolo quindi esiste e Dante ne dà anche una precisa rappresen-tazione. Lucifero è un immenso mostro, con un capo munito di tre facce e con sei enormi ali di pipistrello. Con il loro moto continuo, le ali di Lucife-ro provocano il vento che raggela la palude di Cocito, dove egli stesso sta conficcato. Dante, aiutato dalla sua guida Virgilio, avrà un contatto estre-mamente ravvicinato con questo mostro terribile: i due infatti si caleranno, aggrappandosi ai suoi velli, fino al centro della terra.

Dal centro della terra uno stretto cunicolo, la “natural burella”, con-duce Dante e Virgilio di nuovo alla superficie, agli antipodi di Gerusalemme. Dante ora si ritrova nell’emisfero Australe, sconosciuto alla gente del suo tempo dove, su un’isola in mezzo all’oceano, si eleva la montagna del Purga-torio, cioè della “Purificazione” (dal verbo latino purgare). Questa montagna è il secondo regno oltremondano visitato da Dante. Il Purgatorio ospita le anime che si sono sinceramente pentite e convertite in vita, anche negli ultimissimi istanti, ma che sono state giudicate immeritevoli, dall’imper-scrutabile ed inappellabile giudizio divino, di vedere subito Dio. La loro è una condizione di sofferenza, penitenza, espiazione e preghiera, ma è una condizione provvisoria che può durare anni o secoli. La durata materiale e finita del tempo contraddistingue questo regno oltremondano: il tempo ali-

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menta l’attesa delle anime che desiderano vedere Dio. Lo stesso Purgatorio è un regno provvisorio: scomparirà infatti alla fine dei tempi, dopo il Giudizio, allorquando ci saranno solo anime dannate o beate.

Le pene sono sopportate con serenità perché queste anime hanno una formidabile certezza, quella che presto o tardi la loro purificazione finirà e saranno pronte a vedere Dio; evidente la differenza rispetto alle anime

Schema del Purgatorio dantesco

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dannate, che maledicono la loro condizione perché la loro sofferenza è molto più atroce e soprattutto disperata, consapevole cioè della durata infinita del-la dannazione che non ha riscatto. Le anime del Purgatorio sono in cammino, devono risalire la montagna che è formata da sette “cornici”, ripiani circola-ri successivi, di diametro sempre più ristretto quanto più ci si avvicina alla cima del monte.

In ogni cornice si sconta la penitenza di uno dei sette peccati capitali e, a differenza di ciò che avviene nell’Inferno, i peccatori non dimorano in un solo girone, ma li attraversano tutti, sostando più o meno a lungo in ciascuno di essi, secondo le colpe di cui si sono macchiati in vita. Il percorso che conduce le anime alla purificazione è scandito da alcuni schemi rituali, che ritornano in tutto il Purgatorio: all’inizio dell’ascesa ogni anima penitente, compreso Dante, riceve sulla fronte i segni di sette “P”, che rappresentano i sette peccati. Il passaggio da una cornice all’altra avviene sotto il controllo di un angelo, che rappresenta la virtù opposta al peccato punito nella cornice precedente e cancella il segno di quel peccato. L’ascesa della montagna è possibile solo di giorno, alla luce del sole, mentre di notte il movimento si arresta: nel buio si nasconde, infatti, il pericolo della tentazione.

Al culmine dell’ascesa le anime giungono nella foresta dell’Eden, nel Paradiso terrestre, da dove possono finalmente “spiccare il volo”, perché pronte a salire ai cieli del Paradiso. Anche il nostro Dante vedrà l’Eden. Qui gli appare Beatrice, che cattura tutta la sua attenzione, mentre Virgilio scompare all’improvviso e senza un congedo ufficiale. Per prima cosa Bea-trice lo interroga e lo rimprovera per i suoi peccati; in seguito, dopo l’immer-sione nei due fiumi Lete ed Eunoè, anche Dante si trova “puro e disposto a salire le stelle”.

Nel Paradiso stanno le anime che godono già della beatitudine della visione di Dio. Guidato da Beatrice, Dante sale attraverso i nove cieli che circondano la Terra; dopo averli attraversati egli giunge nell’Empireo, sede di Dio e dei beati, ed è affidato a San Bernardo, francescano e grande mistico medievale, che lo guiderà alla visione di Dio, dopo aver chiesto l’intercessio-ne di Maria. La visione dell’Altissimo rappresenta l’evento finale, il culmine emotivo e soprattutto concettuale dell’opera, l’apoteosi che svela compiuta-mente il significato della Divina Commedia e dello straordinario viaggio in essa rappresentato. Perché continuiamo ad insistere sulla beatitudine del poter vedere Dio, perché è così importante vedere Dio? Prometto che

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risponderemo a queste domande, dovremo per forza rispondere se vorremo dare un senso anche a questa stessa lezione introduttiva. Non possiamo però farlo ora e concluderemo invece la sintetica rassegna del viaggio e l’illustra-zione delle caratteristiche dei tre regni.

A differenza di quanto avviene nell’Inferno e nel Purgatorio, le ani-me dei beati non hanno sedi differenziate, ma sono accolte tutte insieme nell’Empireo, dentro una “candida rosa”, una specie di monumentale teatro in cui godono dell’eterna visione di Dio. Se i beati appaiono a Dante nei cieli che corrispondono alle loro qualità e virtù, ciò avviene perché egli possa averne un’immagine sensibile.

Schema del Paradiso dantesco

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Giunto alla fine del suo viaggio, Dante accede al monumentale tea-tro dove siedono tutti i beati e anch’egli si rivolge alla visione di Dio, il meraviglioso spettacolo che qui va in scena. Come descrive l’autore questa visione? La sua prima scoperta-ammissione è che non bastano le parole e l’umana comprensione per raccontare ciò che ha visto. Questa difficoltà è, in realtà, una costante nella descrizione di tutto il regno del Paradiso. Dante si interroga continuamente sulla difficoltà di tradurre in parola la beatitudine celeste, una miscela di luci, suoni e colori mai visti, oltre che di emblemi e figure geometriche; così, nel momento supremo della visione di Dio, se da un lato la sua scrittura celebra il proprio “umano” trionfo – l’ultimo canto, il XXXIII del Paradiso, è secondo giudizio unanime una delle vette massime raggiunte dalla letteratura mondiale di ogni tempo – dall’altro è comunque costretta ad affermare l’insostenibilità del proprio infinito, eterno ed incom-mensurabile Oggetto:

“A l’alta fantasia qui mancò possa” (Paradiso XXXIII, v.142).

Questa è l’opera. Questo è un “trailer” concentrato di ciò che vi ac-cade. Solo un’ultima chiosa per completare l’antipasto nozionistico: è Dante che decide logicamente “chi si trova dove”, quali anime si trovano nei tre regni.

A questo punto della lezione introduttiva, gli studenti, tra l’incuriosito ed il perplesso, mi rivolgono di solito alcune domande (obiezioni?) che suo-nano più o meno così: “Con quale diritto Dante prende il gessetto per segnare sulla sua lavagna i buoni e i cattivi?”.

E ancora più in generale: “Con quale diritto ci va proprio lui a fare questo viaggio straordinario? Chi si crede di essere?”.

E in definitiva: “Perché dobbiamo leggere un’opera così concepita (il racconto di questo viaggio in terra e in cielo, ma che non sembra stare “né in cielo né in terra”), che per di più è stata scritta sette secoli fa, e che i program-mi scolastici si ostinano a riproporre puntualmente? Ne vale la pena?”.

Eccoci finalmente al nucleo del discorso, eccoci finalmente arrivati alle motivazioni. Voler rispondere al “perché” dobbiamo leggere quest’o-pera significa obbligatoriamente interrogarsi sul “che cosa” ci vuol comu-nicare quest’opera, cioè qual è il messaggio rivolto sia verso gli uomini del suo tempo, sia verso coloro che verranno dopo e che (sono parole di Dante)

“quel tempo chiameranno antico”.

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Lo studio dell’intenzione comunicativa passa, a sua volta, attraverso il chiarimento di tre aspetti, strettamente intrecciati tra loro:

1. Come deve essere letta l’opera secondo l’autore?2. Come l’autore vuole che consideriamo il viaggio del personaggio

Dante che lo rappresenta? Qual è il fine di questo viaggio?3. Come l’autore scrive l’opera? Attraverso quali procedimenti stilistici

e narrativi?

Nella XIII Epistola, diretta a Cangrande della Scala, Dante rispon-de alla prima domanda. “La Commedia è scritta e va letta come la Bibbia”. Come la Bibbia è “polisemica”, racchiude cioè quattro livelli di significato: letterale, allegorico, morale, anagogico. Il primo che immediata-mente traspare è quello letterale; gli altri, non immediatamente percepibili, vanno interpretati. Come esempio Dante cita un passo biblico: i primi versi del Salmo CXIII riguardanti l’Esodo degli Ebrei dall’Egitto. La Bibbia è vera ad ogni livello di senso, anche a livello letterale: è vero cioè, in questo caso, il viaggio degli Ebrei verso la Terra Promessa; allo stesso modo dovremo giudicare letteralmente vero lo stato delle anime dopo la morte così come ci è presentato da Dante e, soprattutto, letteralmente vero il suo essere “in carne ed ossa”.

Ecco gli aggettivi che prima cercavamo e che dobbiamo dare al viaggio di Dante: è un viaggio vero, reale, “in carne ed ossa”, compiuto con il fardello e con tutte le capacità sensitive del corpo. Dante non viaggia in una campana di vetro. Per limitarci al solo Inferno, egli dovrà attraversare sulla barca di Caronte le nere acque del fiume Acheronte; dovrà salire in groppa al centauro Nesso per oltrepassare la palude di sangue bollente formata dal fiume Flegetonte; dovrà proteggersi da una pioggia di fuoco camminando sul bordo dello stesso fiume, dove le esalazioni formano una provvidenziale cappa di vapore che lo ripara da questa pioggia; dovrà salire, ancora, in groppa ad un mostro alato, Gerione, per potersi calare nel baratro in fondo al quale c’è l’ottavo girone; dovrà volgere il capo e chiudere gli occhi per non venire pietrificato dallo sguardo delle Meduse. Oscurità, puzzo, calore, terribili lamenti circondano il corpo di Dante. Dante, durante la settimana Santa del 1300, sembra davvero essere presente, in carne ed ossa, lì dove ci racconta di essere; dobbiamo credere che se in quella settimana aves-simo bussato alla sua porta di casa, nessuno ci sarebbe venuto ad aprire.

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Perché lo dobbiamo credere? E perché dobbiamo leggere la sua opera come la Bibbia? Perché al suo “poema sacro”, egli ci dice:

“ha posto mano e cielo e terra” (Paradiso, canto XXV)(hanno posto mano sia il Cielo che la Terra).

L’opera è stata voluta e ispirata da Dio. Come la Bibbia, la Commedia è voluta da Dio per riportare tra gli uomini la sua parola. E’ una ri-rivela-zione. L’interpretazione della Commedia come la “Bibbia del XIV secolo” può sembrare temeraria: era tuttavia opinione diffusa, tra i Medievali, che se l’unico Autore della Bibbia è Dio, molti sono coloro ai quali Dio ha affidato la propria parola. Il concetto è ripreso da Dante nell’opera De Monarchia, quando afferma che molti hanno messo per iscritto la parola di Dio, perché Dio si è degnato di manifestare la sua volontà attraverso molte penne (per multorum calamos).

L’opera di Dante, voluta da Dio, rappresenta proprio il racconto scritto di un viaggio anch’esso derivante dalla volontà dell’Altissimo. Quindi, per rispondere in modo completo ad uno dei quesiti che ci eravamo posti sopra, diciamo che “il viaggio di Dante, compiuto in carne ed ossa, è voluto da Dio (in persona!)”.

So che è difficilissimo da credere per tutti noi. Non crediamo che Dan-te stesso non abbia avuto dubbi nel riconoscere questa “autorizzazione” e volontà divina. Dante si chiede, già nel II canto dell’Inferno, ancora ai pri-missimi passi del suo cammino, se il suo viaggio non sia “folle”, cioè sconsi-derato, fuor di regola e norma. Prima di lui solo due uomini eccellentissimi, ancora in vita, avevano ottenuto di visitare la realtà oltremondana: Enea, l’eroe troiano, e San Paolo, uno dei più grandi Santi della Chiesa, entrambi scelti da Dio per delle missioni enormi; il primo per fondare Roma, capitale dell’Impero e futura sede del Papa; l’altro per stabilire, con la sua predica-zione, la fede nel Cristo, senza la quale non è dato salvarsi.

Dante stesso si chiede “perchè proprio io?” E’ la guida Virgilio a ri-spondergli e a rassicurarlo, sempre nel II canto dell’Inferno: perché la vo-lontà divina si è materializzata nella successiva intercessione di tre donne beate. Niente meno che Maria, la Vergine Madre, la quale ha raccomandato Dante a S. Lucia, la quale, a sua volta, lo ha raccomandato a Beatrice. Dio e queste tre beatissime proteggono il viaggio di Dante, fino al suo compimento: la visione di Dio stesso. E Dio mostra se stesso a Dante perché egli narri cosa

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ha visto a tutti gli uomini. Il fine di questo viaggio, e rispondiamo all’altra domanda che ci eravamo posti, è la sua rivelazione universale: conside-rando quanti lettori ha avuto la Commedia nei secoli, in quante lingue sia stata tradotta, l’obiettivo ecumenico è stato ampiamente raggiunto.

Dante stesso indica questa necessità della rivelazione universale, in almeno due luoghi della Commedia. Dapprima nel canto XVII del Paradiso (vv. 124-42), dove il trisavolo Cacciaguida lo investe della sua missione: egli deve narrare tutto quello che gli è mostrato durante il suo viaggio nei tre regni, affinché gli uomini possano trarne “vital nodrimento”. Ugualmente San Pietro, nel canto XXVII (vv. 64-66), dopo la terribile condanna contro i papi corrotti, esorta a non nascondere quanto Dante ha, per volontà divina, ascoltato.

Se l’obiettivo è ecumenico, se quest’opera è una grande rivelazione all’umanità, è chiaro che Dante, per rispondere al terzo quesito, “scrive la sua opera in una lingua che tutti possano leggere”: il pubblico che si prefigura è vasto, un pubblico avvezzo al sermo humilis (parole semplici) dei volgarizzamenti della Bibbia e degli exempla dei predicatori. La scelta della lingua non cade dunque sul latino, la lingua dei dotti, non sul volgare illustre teorizzato del De vulgari, non sul volgare raffinato dei poeti dello Stilnovo, ma su un volgare “malleabile”, dalle possibilità espressive infinite, aperto sia alle espressioni più familiari e popolaresche, sia alle più alte ar-gomentazioni filosofiche e teologiche. Nella Divina Commedia abbiamo un meraviglioso compendio dei tre stili teorizzati dai retorici medie-vali: l’umile, il medio e il sublime.

Si è detto dunque che la Divina Commedia è una “Bibbia del XIV secolo”, opera voluta e ispirata da Dio, per raccontare un viaggio in carne ed ossa nei tre regni dell’aldilà. Si è detto che è un’opera scritta per essere letta da tutti, con un obiettivo ecumenico, perché tutti possano avere accesso al suo “vital nodrimento”.

Spero sempre, a questo punto, di avere suscitato una certa curiosità, da parte degli studenti, riguardo al sapere che cosa c’è di così straordinario in quest’opera, quale messaggio “rivoluzionario” porta con sé questa ri-rive-lazione del XIV secolo. Mi auguro cioè che, a questo punto, gli studenti non debbano, ma vogliano dare una risposta alla domanda centrale sull’intenzio-ne comunicativa dell’autore, che prima ci eravamo posti: che cosa ci vuole comunicare quest’opera?

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L’opera si prefigura come una delle più straordinarie indagini, mai compiute in letteratura, riguardo alla ricerca dell’umana felici-tà. Cerca di dare una risposta alle due domande più angoscianti e profonde degli esseri umani: perché l’uomo è infelice? dove sta la felicità (perfetta, eterna, infinita)?

E’ Dante stesso a dichiarare, nella XIII Epistola rivolta a Cangrande della Scala, che l’altissimo proposito dell’opera è allontanare l’uomo da uno stato di sofferenza-prostrazione, per guidarlo verso la condizione della felicità:

“dicendum est breviter quod finis […] est removere viventes in hac vita de statu miseriae et perducere ad statum felicitatis” (si deve dire brevemente che il fine dell’opera consiste nell’allontanare i viventi dallo stato di miseria e condurli ad uno stato di felicità).

Dante si pone cioè, e raggiunge, un obiettivo inaudito e ambiziosissimo. Rispondere al nostro desiderio più grande, quello della felicità (o “Verità”). E quando siamo felici e infelici per Dante?

Siamo felici quando guardando tutte le cose, tutte le persone, tutti gli avvenimenti, riusciamo a vedere prima di loro, dietro di loro, e dentro di loro, Dio. Siamo infelici quando il nostro sguardo si posa sulle cose, sulle persone, sugli avvenimenti, ma rimane su quelle e non riesce a procedere oltre.

Dopo tutta l’attesa che ho suscitato, spero tanto che quello che ho appena detto, con le mie parole, non suoni semplicemente come “la solita frase da catechismo”. Io credo di no. Ma spero almeno di avere acceso la curiosità di leggere come questo stesso concetto, con parole senza dubbio molto più accattivanti delle mie, lo abbia espresso Dante, durante il corso di tutta l’opera e in particolare nell’apoteosi dell’ultimo canto.

Un “magnifico giullare”, Roberto Benigni, ci ha introdotto, spiegato e magistralmente recitato questo canto. Ci ha illustrato che cosa vede Dante quando guarda Dio, quale felicità perfetta nasca dalla sua visione. Dante lo ha visto e ci dice come è fatto, perché possiamo riconoscerlo nelle cose, nel-le persone, negli avvenimenti della nostra vita, avvicinandoci a quella stessa felicità perfetta. Ed è facile riconoscerlo, se capiamo che Dio è una cosa, è tutte le cose, è una persona, è tutte le persone, è un avvenimento, è tutti gli avvenimenti, dappertutto, da sempre e per sempre. Ma pri-ma di arrivare alla visione di Dio del canto finale, è indispensabile chiarire

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perché Dante cominci il proprio viaggio passando attraverso l’Inferno. Non poteva arrivare direttamente al sodo, visto che è un bellissimo sodo? No. Prima di arrivare alla luce di Dio è necessario analizzare, o meglio scanda-gliare, la vita e condizione umana “senza la luce”.

La rivelazione più sconvolgente di Dante, riguardo alla prima cantica, è che l’Inferno dei dannati comincia, e si compie, già su sulla Terra.

E’ una scoperta che sicuramente molti altri, prima di lui, avevano fat-to. Tra questi un poeta latino, Lucrezio, di cui vorrei riportare alcuni ver-si. Questo poeta vive nel I secolo a.C. ed è assolutamente lontano da ogni prospettiva non solamente cristiana, ma religiosa: è un poeta “scientifico” e la sua unica opera conosciuta è un poema scientifico, in esametri, intito-lato “De rerum natura” (Sulla natura delle cose). Quest’opera rappresenta la fedele divulgazione, in lingua latina, della dottrina del greco Epicuro, una filosofia assolutamente razionale, che si basava sulla fisica atomistica e che negava categoricamente l’immortalità dell’anima. Potremmo chiederci, a buon diritto, che cosa lo accomuni al lontanissimo e “medievale ortodosso” Dante. Lucrezio nega l’aldilà e le pene dell’Ade e dice appunto che il vero Inferno gli uomini –non tutti gli uomini, ma solo quelli stulti– lo vivono sulla terra. Ecco, per l’appunto, i suoi versi che, probabilmente o quasi sicura-mente, Dante non ebbe neppure l’occasione di leggere.

Infine l’avidità la cieca brama di onori,che spingono i miseri uomini a varcare i confini della legge 60e talvolta, compagni e ministri di colpa, a cercaredi giorno e di notte con tutte le forze di emergerea somma potenza: sono queste le piaghedella vita, in gran parte nutrite dal terrore della morte.Infatti di consueto il turpe disprezzo e la dura povertà 65appaiono remoti da una vita stabile e soave,e quasi già sostare davanti alla soglia della morte;per cui mentre gli uomini, costretti da un vano terrore,vorrebbero esser fuggiti lontano e lontano sottrarsi, [alla morte]con il sangue civile ammassano beni, la loro ricchezza 70raddoppiano avidi, accumulando stragi su stragi;crudeli gioiscono d’un triste lutto fraterno,e odiano e temono il desco dei loro congiunti.In simile modo e spesso per lo stesso timore,li macera l’invidia che un altro sia potente alla vista di tutti, 75

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e un altro sia rimirato al suo incedere fra splendidi onori,mentre essi si lamentano di voltolarsi nel fango e nelle tenebre.Alcuni si struggono per il desiderio di statue di gloria,e spesso a tal punto, per timore della morte, afferragli uomini l’odio della vita e della visione della luce, 80che essi stessi con animo angosciato si danno la morte,dimentichi che la causa degli affanni è proprio questo timore;ciò tormenta la dignità, spezza i vincoli dell’amicizia,e spinge a sconvolgere il sentimento stesso della pietà. (vv. 59-84)[...]Ma poiché tu desideri sempre ciò che è lungi da te e non ti curidi ciò che è presente, la vita ti sfugge imperfetta e ingrata,e inattesa la morte si arresta accanto al tuo capo già primache sazio e appagato tu possa allontanarti dal mondo. (vv. 957-960)[...]Senza alcun dubbio i tormenti, che si dice vi sianonel profondo Acheronte, sono in realtà tutti nella nostra vita.Né Tantalo infelice, come si favoleggia, raggelato da un vano terrore, 980teme l’enorme che incombe sospeso nell’aria;ma piuttosto nella vita lo stolto timore degli dei incalza i mortaliche temono le sventure di cui sarà foriera a ognuno la sorte.Né gli uccelli penetrano in Tizio disteso nell’Acheronte,né di certo possono trovare entro il suo vasto petto 985qualcosa in cui frugare nell’eternità senza tempo.Per quanto si estenda con l’immensa proporzione del corpo,e ricopra non solo nove iugeri con le membra divaricate,ma addirittura l’intera superficie dell’orbe terrestre,tuttavia non potrà sopportare un eterno dolore 990né offrire cibo in perpetuo dal proprio corpo.Ma Tizio è in noi, prostrato nell’amore, gli uccellilo straziano, un angoscioso tormento lo divora, o per qualchealtra passione lo fanno a brani gli affanni.Anche Sisifo è qui nella vita davanti ai nostri occhi, 995è colui che al pari d’un invasato chiede al popoloi fasci e le scuri,ed è sempre costretto a ritrarsi vinto e afflitto.Infatti anelare al potere che è vano, e non viene mai dato,e per esso patire di continuo una dura fatica,ciò è spingere con tutte le forze un macigno per l’erta di un monte, 1000per poi vederlo di nuovo rotolare dalla vettae raggiungere a precipizio la superficie della distesa pianura.Infine, pascere sempre l’ingrata natura dell’animo,

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ricolmarla di beni e non riuscire a saziarla mai, come ci suggeriscono le stagioni dell’anno quando ritornano 1005ciclicamente e portano i frutti e le loro varie dolcezze,e tuttavia non ci saziamo mai dei frutti della vita,questo, ritengo, è ciò che favoleggiano delle fanciullenel fiore dell’età, intente a riempire d’acqua un’urna senza fondo,che mai per nessuna ragione potrà essere colmata. 1010Cerbero poi e le Furie e la privazione della luce,e il Tartaro che erutta dalle fauci orribili vampe,non sono in nessun luogo, né certo possono esistere.Ma nella vita è il terrore delle pene e delle malvagità compiute,crudele per crudeli delitti, e l’espiazione della colpa, 1015il carcere e il tremendo balzo giù dalla rupe,le frustate, i carnefici, le violenze, la pece, le lamine, le torce;e anche se tutto ciò è lontano, la mente consapevole dei misfattirimordendo applica a sé quei tormenti, brucia sotto la sferza,e non vede intanto qual termine possa esserci a quei mali, 1020né qual sia infine l’interruzione di quelle pene,e teme anzi che le medesime in morte si inaspriscano.Qui sulla terra s’avvera per gli stolti la vita dell’Inferno. (vv. 978-1023)[...]Tu cui è morta la vita mentre ancora sei vivo e vedie consumi nel sonno la parte maggiore del tuo tempo,e pure da sveglio dormi e non smetti di vedere sogni,e hai l’animo tormentato da vane angosce,né riesci a scoprire qual sia così spesso il tuo male, 1050mentre ebbro e infelice ti incalzano da ogni parte gli affannie vaghi oscillando nell’incerto errare della tua mente”.Se gli uomini potessero, come è chiaro che sentono il pesoche grava loro nell’animo e li tormenta e li opprime,conoscere anche le cause per le quali ciò avviene, 1055e perché quel fardello di pena sussista immutato nel cuore,non trarrebbero la vita così, come ora per lo più li vediamonon sapere che cosa ciascuno desideri, e sempre cercaredi mutare luogo nell’illusione di trovare sollievo.Spesso dai sontuosi palazzi irrompe all’aperto colui 1060che in casa è stato preso dal tedio, ma tosto vi tornaCome chi s’è avveduto che fuori non c’è nulla di meglio.Di furia, spronando i cavalli, accorre alla sua fattoriaansioso come dovesse recare soccorso alla casa che brucia,ma appena toccate le soglie, ben presto sbadiglia 1065

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o inerte si rifugia nel sonno e cerca l’oblio,o anche in gran fretta ritorna a vedere la città che ha lasciato.Così ognuno fugge se stesso, ma a questi di certo, come accade,non riesce a sfuggire e, suo malgrado, vi resta attaccato e lo odia,poiché malato non afferra la causa del male. (vv. 1046-1070)[...]ma mentre ciò che desideriamo è lontano, ci sembra superare ogni cosa;poi quando l’oggetto della brama ci è dato, aneliamo ad altro,e un’uguale sete della vita perennemente ci affanna. (vv. 1082-1084)

(Tito Lucrezio Caro, De rerum natura, Libro III - traduzione di Luca Canali)

La lettura di questi versi di Lucrezio, durante la stesura della mia tesi di laurea, è stata assolutamente illuminante. E’ come se il poeta latino ci prendesse a braccetto e ci conducesse ad una visita guidata dietro le quinte del palcoscenico dove si svolge lo spettacolo della vita umana, svelandone tutte le impalcature, tutti i trucchi scenografici, tutti gli arcani. Che l’uomo “stultus” viva con questa inquietudine, con questa “sitis insatiabilis” della vita, con questa sorta di cancro del desiderio, intento a riempire continua-mente “l’anfora senza fondo della propria felicità”, mi è parso indiscutibile. E’ un ritratto della condizione umana che per me è senza tempo, eternamen-te valido, un ritratto a cui, per le vie più disparate, altri autori, tra cui anche Dante, sono arrivati.

Per arrivare a capire che l’uomo stolto vive così, che vive male ed è infelice, è sufficiente la nostra umana ragione: la luce della filosofia del maestro Epicuro per Lucrezio, la figura di Virgilio, simbolo proprio della ragione, che è preposto a guidare Dante nelle tenebre dell’Inferno.

Insoddisfacente è invece la spiegazione di Lucrezio sia per quanto riguarda le cause di questo vivere, sia per quanto riguarda i rimedi.

Nel testo – lo abbiamo letto – Lucrezio dice che la causa di questo “inferno in vita” dell’uomo è la sua paura della morte e delle pene di un Tartaro che, non essendoci alcun aldilà, è pura “favola”. Fame, miseria, umiliazione, noia, languore sono presagi di morte, e allora l’uomo, per al-lontanarsi da essi, cerca di accumulare e desiderare quanto più può per sé, avviluppandosi però sempre di più nelle maglie della rete delle proprie pas-sioni, e procurandosi, già in vita, quei tormenti che egli immagina presenti solo nell’Acheronte. L’unico rimedio per Lucrezio è, secondo l’insegnamento epicureo, ridurre, semplificare, educare e disciplinare i propri desideri: in

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poche parole desiderare solo lo stretto necessario per vivere bene, che è il non provare dolore nel corpo – non aver fame, sete, freddo – e il non provare turbamento nell’animo. Tutto il resto è superfluo per vivere felicemente la nostra vita terrena, che è l’unica vita che ci è concessa, ed è anzi causa di ogni inquietudine.

Questo rimedio, indicato da Lucrezio, a me sembra insoddisfacente perché disumano, non adatto cioè alla natura dell’animo umano che non è stato creato per accontentarsi del poco.

Una facile provocazione: non fu forse insoddisfacente anche per lo stesso Lucrezio, visto che il poeta, secondo la notizia di San Girolamo, fece prima esperienza della pazzia e poi del suicidio?

Per Dante – che crede invece, al contrario di Lucrezio, nell’esistenza dell’aldilà e nell’esistenza dell’Inferno – sia che abbia letto o meno il poeta latino, non ci sono dubbi che l’uomo stolto viva sulla Terra proprio così come lo rappresenta Lucrezio. Non ci sono dubbi che il suo inferno cominci già sulla Terra, e che il destino dell’inferno si compia sulla Terra.

Sarà un caso che l’Inferno di Dante, quello stesso della cosmologia aristotelica, abbia sede proprio dentro la Terra, e che le pene dei dannati seguano lo schema del “contrappasso”, cioè di una riproposizione per analo-gia o per contrasto dei loro “comportamenti peccaminosi” in Terra?

Fondamentale, però, rilevare anche alcune sostanziali differenze. L’uomo stultus (il peccatore) per Dante non vive così perché ha paura di mo-rire; vive così perché continuamente intento a soddisfare, senza successo, il suo desiderio più grande, più naturalmente e legittimamente umano, quello della felicità.

L’uomo rimane così intrappolato nella spirale infinita dei suoi stessi desideri e delle sue stesse passioni: finisce per desiderare di avere sempre ciò che è lontano, e di essere in un luogo diverso da quello dove sta, annoiato da tutto ciò che riguarda il presente. Che cos’è la noia? Ce la rappresenta con grande efficacia anche Lucrezio. La noia è l’effetto della confusione e, soprattutto, della delusione dei nostri desideri. E’ una situazione di stallo, di sofferenza insopportabile, che incita l’uomo a ripartire con nuovi deside-ri e nuove passioni; ma a volte i suoi desideri e le sue passioni sono a tal punto deluse e confuse, che egli non sa neanche più bene cosa cercare, e si accontenta di sfuggire la noia cercando semplicemente un’occupazione del

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proprio tempo. Ma finché il suo desiderio di felicità, le sue passioni investo-no le cose e le persone della Terra, non riuscendo a procedere oltre, o più in alto, la sua sete rimane insaziabile.

Qual è lo straordinario, allettantissimo rimedio che propone Dante? Non può essere certo quello di “desiderare il poco, lo stretto necessario”, ma, al contrario, quello di desiderare il Tutto, quell’Oggetto che esaurisca completamente il suo desiderio di felicità, riempia l’anfora della sua felicità: Dio. Dante Lo ha visto e ci dice che, visto Lui, non si desidera più vedere nient’altro. Nient’altro è così perfettamente completo come Lui. In Lui è impossibile annoiarsi. Dio è la nostra unica fonte di felicità perfetta e duratura.

Questo è, come già detto, il significato ultimo della Commedia. Questo è il messaggio (la ri-rivelazione) contenuto nei versi di quest’opera unica e straordinaria. Se siamo arrivati a capire l’eccezionalità e l’importanza di tale messaggio, ci sembrerà ora irrilevante l’obiezione che di solito nasce sulla figura di Dante “che gioca ad essere Dio”, che distingue tra buoni e cattivi, anticipando il giorno del Giudizio.

Di fronte alla rivelazione di un tale messaggio comprendiamo che la missione di Dante va ben al di là della distinzione tra buoni e cattivi. Lo stesso “peccato”, tema fondamentale della Commedia, non si riduce affatto all’essere “cattivi”, ma è innanzitutto non riuscire a proiettare i nostri desi-deri al di là di tutto quanto sta sulla Terra, facendoli arrivare a Dio. Dal non riconoscere Dio, da questa “mancanza” (vedi etimologia latina della parola peccato) originaria, deriva la nostra infelicità terrena e la condanna eterna alla dannazione.

Rifiutare la luce di Dio, quella fonte di gioia eterna e perfetta che pos-siamo leggere rappresentata nei versi di Dante, ascoltare con le sue orecchie e vedere con i suoi occhi, è, oltreché il vero e più grande peccato, veramente un peccato.