david donnini - la nascita di gesù
DESCRIPTION
Un libro di David DonniniTRANSCRIPT
David Donnini
LA NASCITA
DI GESÙ
Tradizioni e contraddizioni
della prima festa cristiana
ATTENZIONE:
Questo lavoro è coperto da copyright. L’unico uso consentito è la lettura personale. È vietato copiarne parti o diffonderne stampe. Chiunque volesse citarne una parte nei suoi scritti, riviste o pubblicazioni cartacee, digitali o altro, deve chiederne l’autorizzazione a [email protected] cell. 3926276743 e, comunque, inserire sempre fra virgolette e citare chiaramente la fonte e l’autore dell’originale. Le violazioni saranno perseguite a termini di legge.
Autore: David Donnini Anno: 2009
URL: http://www.nostraterra.it e-mail: [email protected]
cell. 3926276743
INDICE
INTRODUZIONE 3
I QUATTRO VANGELI CANONICI 6
LA NATIVITÀ 15
LA NATIVITÀ NEL VANGELO SECONDO MATTEO 21
IL RACCONTO 21 LA NATIVITÀ DI MATTEO 26
LA NATIVITÀ NEL VANGELO SECONDO LUCA 43
IL RACCONTO 43 LA NATIVITÀ DI LUCA 49
I CONTRASTI FRA LE NATIVITÀ. 58
FRATELLI E SORELLE DI GESÙ. 65
LE NATIVITÀ APOCRIFE. 72
LA NASCITA DI GESÙ NELLE TRADIZIONI EBRAICHE 83
LA NASCITA DI GESÙ NEL CORANO 90
LA NASCITA DI GESÙ NELLA TRADIZIONE INDO-BUDDISTA 95
DOV’È NATO GESÙ, UN’IPOTESI CORAGGIOSA 99
NATALE. 110
Introduzione
C’è un fatto importante, a proposito della letteratura religiosa cristiana, che viene dimenticato
troppo spesso e sul cui significato non si riflette abbastanza: nei secoli passati la traduzione dei libri
sacri in lingua volgare, il loro semplice possesso e la libera lettura erano proibiti dalla chiesa, sotto
minaccia di severe punizioni. Soltanto nel corso delle funzioni ufficiali, e sotto la guida del
sacerdote, il fedele poteva prendere conoscenza del contenuto dei testi. Anche perché la stragrande
maggioranza del popolo non conosceva né il greco, né il latino, e dipendeva in modo totale dai colti
e dagli ecclesiastici per accedere al racconto della vita e delle opere di Cristo.
Poi è giunto il tempo della liberalizzazione e, a partire dal diciottesimo secolo, gli intellettuali si
sono permessi di analizzare criticamente le scritture canoniche e, spesso, si sono azzardati a
metterne in evidenza ambiguità e contraddizioni. È nata così un’aspra contesa tra i difensori a
oltranza della lettera e della storicità del Nuovo Testamento e gli scettici anticlericali, intenzionati
talvolta a negare la stessa esistenza storica di Gesù. Un conflitto di questo genere, fortunatamente
distribuito in un ambito di sfumature molto più ricco ed articolato, permane ancora oggi. Anche
perché, purtroppo, è ben lontana dal concludersi l’epoca dell’incompatibilità tra fede e ragione.
Da secoli l’occidente cristiano ha soffiato sulla brace di questo scontro, generando quelli che
sembrano essere fenomeni piuttosto irrilevanti in altre aree culturali e religiose: il materialismo e
l’ateismo, intesi come rifiuto e negazione di ogni forma di spiritualità. Ed è proprio per colpa di
questa cristallizzazione dialettica che la ricerca di un’autentica spiritualità risulta difficile nel
mondo moderno e occidentale, dove la scelta sembra potersi articolare solo fra l’accettazione della
dottrina ufficiale della chiesa, l’interesse rivolto verso religiosità esotiche, o l’abbandono di ogni
sentimento religioso.
Da un lato, la conoscenza scientifica è cresciuta in modo rapidissimo. Ma, nel fare questo, troppo
spesso le istituzioni e gli uomini di scienza si sono lasciati condurre da interessi di mera
convenienza: le ragioni del profitto commerciale e quelle della potenza militare, piuttosto che da
quello spirito elevato, già proprio della civiltà greca antica, che poneva la conoscenza al centro di
un interesse non necessariamente finalizzato. Ed è così che, negli ultimi secoli, la ricerca scientifica
ha accresciuto il suo carattere materialista.
Dall’altro lato, la chiesa, sentitasi minacciata nella sua autorità dalla crescita di una conoscenza che
sembrava in grado di confutare alcuni presupposti della dottrina, ha concesso qualche inevitabile
forma di apertura, ma si è sempre posta a baluardo dei propri dogmi, anche là dove l’insegnamento
religioso produceva irrimediabili contrasti con la conoscenza della natura e delle sue leggi. Da
questo deriva il conflitto più grave del mondo moderno: le tante stridenti incompatibilità fra
spiritualità e razionalità che, a mio parere, sono alla base dei drammatici disagi della civiltà
moderna. In senso esteriore, con riferimento alla situazione economica, politica ed ecologica del
genere umano, ma anche in senso interiore, con riferimento alla salute mentale dell’individuo e alla
qualità globale della sua vita.
Purtroppo, assai spesso, i miei scritti relativi all’analisi storica della letteratura cristiana sono stati
interpretati come espressioni di un’indole anticlericale materialista, per la semplice ragione che a
volte colpiscono, anche duramente, certe asserzioni e idee della dottrina ecclesiastica, e sembrano
concepiti per combatterla da una posizione intollerante nei confronti di qualunque religiosità. Non è
così. Ed è bene che fin dall’introduzione di questo lavoro dedicato ad un tema delicato ed
affascinante, com’è il Natale, con tutte le tradizioni ad esso collegate, sia chiaro il fatto che l’analisi
critica non parte da una motivazione distruttiva, ma dalla convinzione che lo sviluppo di
un’autentica spiritualità non è possibile senza l’emancipazione dai vincoli culturali che, troppo
spesso, hanno avuto lo scopo di contenere e di controllare, piuttosto che quello di educare e di far
crescere.
È impressionante l’incapacità cronica del mondo occidentale moderno di accettare la funzione del
mito, nel suo alto significato educativo, senza porre subito, in modo puerile quanto superficiale ed
inopportuno, una problematica di veridicità ed autenticità che vorrebbe ridurre tutto ad una logica
da quiz del tipo vero/falso. E così: Gesù Cristo è esistito, oppure no? È risuscitato, oppure no? È
nato da una vergine, oppure no? Da un lato i si della fede, e dall’altro i no della ragione.
Di fronte ad un’impostazione mentale di questo genere, così profondamene radicata, non hanno
prodotto effetti molto significativi gli sforzi di quegli studiosi che hanno voluto sottolineare la
distinzione fra il Cristo della storia e quello della fede. La chiesa continua ad insegnare che i
racconti evangelici, relativi a eventi miracolosi e non, sono da intendere come cronache di fatti
realmente accaduti. I devoti hanno necessità di crederlo, affinché la loro fede non debba vacillare.
Gli scettici continuano a parlare di bugie, e tendono a screditare il sentimento religioso nel suo
complesso.
Sembra molto difficile, per non dire generalmente impossibile, accedere ad una visione delle cose,
peraltro antica quanto la civiltà umana, in cui il racconto mitico funge da veicolo di significati
educativi, indipendentemente dall’insorgenza di una questione di veridicità. La veridicità, o meglio,
la verità, dovrebbe essere intesa come validità dei contenuti che si vogliono trasmettere, al di là del
fatto che lo strumento di comunicazione sia costituito da un linguaggio credibile alla lettera. Questo
è l’atteggiamento culturale corretto nei confronti di una narrazione nata per essere mitologica.
Ma questa capacità, che appartiene ad un’intelligenza matura, ricca e costruttiva, che riconosce il
valore della fantasia, si è persa nello vie contorte dello sviluppo di questa civiltà moderna. E la
responsabilità di questo fatto deve essere attribuita in uguale misura ai difensori inflessibili della
religiosità dogmatica e dottrinale, quanto ai paladini di quel positivismo arrogante e di quel
materialismo ottuso, che pretendono di essere razionali senza essersi accorti che Carl Gustav Jung,
già nei primi anni del secolo scorso, aveva proclamato su base scientifica il valore insostituibile dei
simboli e della mitologia, come elementi formativi dell’inconscio individuale e collettivo.
Spiritualità e scienza senza psicologia! Sono queste la fede e la ragione che non usciranno mai dal
loro inguaribile conflitto.
Personalmente, dopo quasi tre decenni di lettura e studio delle scritture religiose, cristiane e non, ho
maturato un atteggiamento che, pur senza rinunciare alla necessità di analizzare le cose per
verificarne la natura e l’origine, privilegia il valore della sintesi. Nella convinzione che può esservi
molta verità in una cosiddetta bugia, là dove si incontrano nel modo giusto l’intenzione dell’autore
e la capacità di lettura del destinatario.
Il Natale cristiano, che affonda le sue radici nelle mitologie antichissime dell’Egitto, della Grecia,
del medio oriente antico, e persino dell’oriente indo buddista, non deve essere mortificato né dalla
credulità dogmatica, né dallo scetticismo ateo, ma essere arricchito, anche attraverso il giusto spirito
critico, affinché possa svelare il valore educativo della mitologia e continuare ad offrire punti di
riferimento che rendano l’uomo consapevole di sé e memore del proprio passato. Col Natale la
civiltà occidentale ha nelle proprie mani qualcosa di grande e importante che non merita di essere
né il Natale fideista e bigotto, né quello consumista e commerciale. Mi auguro che il presente lavoro
sia interpretato come uno sforzo letterario in tal senso.
Firenze, Aprile 2010
David Donnini
I quattro vangeli canonici
I quattro scritti canonici appartenenti al Nuovo Testamento, che raccontano la vita e le opere di
Gesù detto il Cristo, sono i Vangeli secondo Matteo, Marco, Luca e Giovanni. Le versioni che
leggiamo oggi sono state redatte in greco. I nomi degli evangelisti sembrano voler sottintendere che
almeno due apostoli del maestro galileo, Matteo e Giovanni, avrebbero voluto registrare la loro
conoscenza di fatti e insegnamenti dei quali erano stati testimoni oculari. Molti hanno avanzato
l’idea che anche Marco, sebbene non sia contemplato nell’elenco dei dodici, potrebbe essere stato
un testimone diretto. Luca, invece, forse un medico di Antiochia di Siria, sarebbe stato un discepolo
di San Paolo, ed è l’unico di cui la tradizione ammette apertamente che non fu uno spettatore dei
fatti, ma il destinatario di testimonianze indirette. A lui è attribuita la paternità degli Atti degli
Apostoli, oltre che del terzo Vangelo.
Matteo, detto Levi e figlio di Alfeo, sarebbe stato inizialmente un pubblicano, ovvero uno di quei
giudei, detestati dai compatrioti, che collaboravano coi romani nella riscossione delle tasse. Stando
ai racconti evangelici, quest’uomo era impegnato nella sua scellerata attività, quando Gesù sarebbe
passato nelle sue vicinanze, lo avrebbe chiamato a sé, ed egli avrebbe improvvisamente
abbandonato tutto, come rapito da un impulso irresistibile, per seguire colui che, da quel momento
in poi, sarebbe diventato il suo maestro spirituale1.
La posizione di questo discepolo, all’interno delle narrazioni evangeliche, è sfuggente perché, a
parte l’episodio della sua strana chiamata e il fatto di essere nominato nella lista dei dodici
apostoli2, possiamo leggere un solo breve cenno relativo ad una sua presenza attiva. Si trova nel
Vangelo di Luca, nel momento in cui si parla di un banchetto che Matteo Levi avrebbe offerto a
favore di Gesù3. Per il resto il discepolo scompare e, quel che è più significativo ed enigmatico, la
1 “Andando via di là, Gesù vide un uomo, seduto al banco delle imposte, chiamato Matteo, e gli disse: “Seguimi”. Ed egli si alzò e lo seguì.” (Mt IX, 9). “Uscì di nuovo lungo il mare; tutta la folla veniva a lui ed egli li ammaestrava. Nel passare, vide Levi, il figlio di Alfeo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: “Seguimi”. Egli, alzatosi, lo seguì.” (Mc II, 13 14). “Dopo ciò egli uscì e vide un pubblicano di nome Levi seduto al banco delle imposte, e gli disse: “Seguimi!”. Egli, lasciando tutto, si alzò e lo seguì.” (Lc V, 27-28). 2 “I nomi dei dodici apostoli sono: primo, Simone, chiamato Pietro, e Andrea, suo fratello; Giacomo di Zebedèo e Giovanni suo fratello, Filippo e Bartolomeo, Tommaso e Matteo il pubblicano, Giacomo di Alfeo e Taddeo, Simone il Cananeo e Giuda l'Iscariota, che poi lo tradì.” (Mt X, 2-4). “Costituì dunque i Dodici: Simone, al quale impose il nome di Pietro; poi Giacomo di Zebedèo e Giovanni fratello di Giacomo, ai quali diede il nome di Boanèrghes, cioè figli del tuono; e Andrea, Filippo, Bartolomeo, Matteo, Tommaso, Giacomo di Alfeo, Taddeo, Simone il Cananeo e Giuda Iscariota, quello che poi lo tradì.” (Mc III, 16-19). “Quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede il nome di apostoli: Simone, che chiamò anche Pietro, Andrea suo fratello, Giacomo, Giovanni, Filippo, Bartolomeo, Matteo, Tommaso, Giacomo d'Alfeo, Simone soprannominato Zelota, Giuda di Giacomo e Giuda Iscariota, che fu il traditore.” (Lc V, 13-16). 3 “Poi Levi gli preparò un grande banchetto nella sua casa. C'era una folla di pubblicani e d'altra gente seduta con loro a tavola. I farisei e i loro scribi mormoravano e dicevano ai suoi discepoli: “Perché mangiate e bevete con i pubblicani e i peccatori?”. Gesù rispose: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori a convertirsi”.” (Lc V, 29-32).
figura di Matteo non esiste affatto nel quarto Vangelo, che secondo la tradizione sarebbe stato
scritto dall’apostolo Giovanni, un altro presunto testimone oculare. In quel testo Matteo non è
conosciuto fra gli apostoli.
L’ordine in cui i testi vengono comunemente presentati sembra anche voler sottintendere una
successione cronologica nella loro redazione. Quello detto “secondo Matteo” sarebbe il più antico,
almeno in un versione primitiva. Qualcuno l’ha sostenuto. Qualcuno ancora oggi vorrebbe farlo
credere, sebbene contro molte evidenze.
Possiamo effettuare alcune semplici considerazioni strutturali per intuire alcuni aspetti nella genesi
dei quattro scritti canonici, il cui percorso dettagliato resta comunque piuttosto oscuro e dibattuto.
Una prima analisi comparativa mostra che il Vangelo secondo Marco sarebbe stato quello che ha
offerto il materiale di base della narrazione della vita e delle opere di Gesù, nel periodo che va dal
suo battesimo sul Giordano alla sua presunta resurrezione, dopo essere stato crocifisso a
Gerusalemme. Un racconto riguardante le azioni di un Gesù già adulto, in un periodo che sembra
variare da uno a tre anni.
Nel Vangelo secondo Marco la famiglia di origine di Gesù appare come un nucleo dal quale è
assente la figura del padre, di cui non si conosce il nome, composto da una madre con diversi figli e
figlie, assolutamente priva delle caratteristiche di verginità che gli sono attribuite da altri due
Vangeli. Si direbbe, piuttosto, che Marco ci rappresenta una madre vedova con la sua prole
numerosa. L’immagine della sacra famiglia, nota e amata, come nucleo composto da Gesù, figlio
unico, Giuseppe, padre putativo, e Maria, vergine, è disattesa in questo testo. Maria è nominata in
due occasioni sole, una volta come sua madre, un’altra volta col nome proprio4. Per comodità
chiameremo “materiale marciano”, o “materiale Mc” la trama e la struttura complessiva di questo
scritto.
In altri due Vangeli canonici, quelli secondo Matteo e secondo Luca, si nota la presenza globale del
materiale marciano, anche se con piccole variazioni, al punto che i tre Vangeli sono definiti
sinottici, perché è possibile effettuare una lettura comparata affiancandoli là dove i brani,
abbastanza spesso, presentano episodi similari, descritti con frasi e parole che talvolta coincidono
letteralmente. In questi due Vangeli, al materiale marciano risulta aggiunto materiale ulteriore che
può essere così descritto: nelle narrazioni della vita adulta di Gesù sono presenti brani non marciani
comuni a Matteo e Luca, che definiremo “materiale Mt-Lc”; brani esclusivi di Matteo, che
definiremo “materiale Mt”; e brani esclusivi di Luca, che definiremo “materiale Lc”.
Molti studiosi hanno avanzato l’idea che il materiale Mt-Lc, in cui troviamo le famose beatitudini5
e il meraviglioso discorso della montagna6, sveli l’esistenza di una fonte antica, oggi perduta, detta
4 Mc III, 31-35; Mc VI, 3. 5 Mt V, 3-12; Lc VI, 20-26.
Q (dal termine tedesco Quelle, cioè fonte), nella quale qualcuno ha voluto individuare il primitivo
Vangelo di Matteo, in una versione semitica. L’ipotesi rimane tale, e spesso è del tutto negata. A
quanto abbiamo detto finora bisogna aggiungere che questi due evangelisti hanno iniziato i loro
scritti con narrazioni relative alla nascita e alla primissima infanzia di Gesù, le cosiddette natività.
Che, nondimeno, risultano molto diverse e, come vedremo, persino incongruenti.
Schema strutturale dei quattro Vangeli canonici
Marco Matteo Luca Giovanni
Materiale Mc Materiale Mc Materiale Mc Materiale Mc
Materiale Mt
Materiale Lc
Materiale Gv
Materiale Mt-Lc Materiale Mt-Lc
Natività Mt
Natività Lc
Già queste constatazioni, relative semplicemente all’architettura degli scritti, ci permettono di
affermare che il Vangelo secondo Marco è stato utilizzato come fonte dagli altri due evangelisti. Ma
quest’idea è suffragata anche da altre considerazioni, da cui emerge che i successivi redattori non si
sono limitati al semplice fatto di aggiungere materiale narrativo, ma si sono spinti in avanti nei
contenuti, nell’interpretazione teologica della figura di Gesù, e nell’intento celebrativo e costruttivo
che seguiva di pari passo la rapida evoluzione dell’apologetica cristiana.
Un discorso a parte deve essere fatto per il quarto Vangelo, quello detto secondo Giovanni. In esso
possiamo notare uno scheletro narrativo che, a grandi linee, segue lo schema marciano: l’inizio con
l’incontro fra Giovanni e Gesù sul Giordano, i viaggi a Gerusalemme, la cena di Betania, l’ingresso
trionfale a dorso d’asino nella città santa, lo scontro coi mercanti nel tempio, l’ultima cena,
l’arresto, il processo, l’esecuzione con la morte e la resurrezione. In realtà il Vangelo secondo
Giovanni si distacca sensibilmente dagli altri tre. Esclude molti contenuti tipici dei sinottici (fra cui
l’elencazione degli apostoli e, durante l’ultima cena, l’istituzione dell’eucarestia). Non conosce la
natività. Aggiunge importanti episodi e personaggi, per esempio il miracolo della resurrezione di
Lazzaro, e cita in più occasioni i componenti della famiglia di Betania, cioè Lazzaro con le sorelle
Marta e Maria, che i Vangeli sinottici hanno praticamente ignorato7.
6 Mt V, 13-48; VI, 1-29. Lc VI, 27-49. 7 Matteo e Marco hanno letteralmente eliminato questi personaggi dalla loro narrazione. C’è un solo brano, nel Vangelo secondo Luca, in cui le sorelle Marta e Maria sono nominate. Ma possiamo notare che il villaggio è reso anonimo e non
Il quarto Vangelo, nel suo complesso, configura una cristologia diversa da quella dei Vangeli
sinottici. Si avvicina ad alcuni concetti caratteristici dello gnosticismo. Inizia con un importante
riferimento al logos, identificato come l’essenza stessa del Cristo. Offre interpretazioni dell’operato
di Gesù che gli sono proprie. Dedica all’ultima cena uno spazio allargato, con sviluppi teologici
molto approfonditi ed originali.
Dei quattro Vangeli canonici si sostiene che sarebbero stati scritti negli anni fra il 70 d.C. e il
termine del primo secolo. Anche se l’esegesi cattolica pretende spesso di fissare l’origine degli
scritti canonici ad un periodo precedente di venti o persino trent’anni, avvicinando così la redazione
evangelica al periodo in cui è vissuto Gesù. A parte il fatto che i tentativi di confermare questa
anticipazione sono sempre risultati poco consistenti, c’è un elemento fondamentale che impedisce la
datazione anche del più antico dei Vangeli ad un periodo antecedente al 70. Mi riferisco al fatto che
nelle parole di Gesù sono contenuti espliciti riferimenti alla distruzione del tempio, avvenuta
appunto nel 70 d.C., ad opera dell’allora generale romano Tito, figlio di Vespasiano e futuro
imperatore. Si tratta della cosiddetta “piccola apocalisse” di Marco8, poi ripresa anche dagli altri
evangelisti e riproposta da Luca in termini che la legano ancora più esplicitamente alle drammatiche
vicende dell’assedio e della distruzione di Gerusalemme9. Sono prophetiae post eventum, ovverosia
brani con riferimento a fatti successivi alla narrazione, che pertanto appaiono come profezie in
bocca a Gesù, ma che sono stati scritti quando gli eventi si erano già svolti.
In genere, quando si argomenta sull’epoca di composizione dei Vangeli, non si tiene abbastanza
conto di un fatto: i Vangeli che leggiamo oggi non possono essere considerati come il frutto di una
singola operazione redazionale, attribuibile ad un preciso autore, svoltasi in un periodo
relativamente circoscritto, e seguita tutt’al più da qualche piccola rifinitura nei dettagli. Al
contrario, le correzioni sono consistite in rilevanti operazioni di taglio, di censura e di aggiunta,
ci sono altri elementi per poterle identificare meglio. Alle due donne è attribuito un fugace ruolo da semplici comparse: “Mentre erano in cammino, entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo accolse nella sua casa. Essa aveva una sorella, di nome Maria, la quale, sedutasi ai piedi di Gesù, ascoltava la sua parola; Marta invece era tutta presa dai molti servizi. Pertanto, fattasi avanti, disse: “Signore, non ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti”. Ma Gesù le rispose: “Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c'è bisogno. Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta”” (Lc X, 38-42). 8 “Mentre usciva dal tempio, un discepolo gli disse: “Maestro, guarda che pietre e che costruzioni!”. Gesù gli rispose: “Vedi queste grandi costruzioni? Non rimarrà qui pietra su pietra, che non sia distrutta”” (Mc XIII, 1-2); “Quando vedrete l'abominio della desolazione stare là dove non conviene, chi legge capisca, allora quelli che si trovano nella Giudea fuggano ai monti; chi si trova sulla terrazza non scenda per entrare a prendere qualcosa nella sua casa; chi è nel campo non torni indietro a prendersi il mantello. Guai alle donne incinte e a quelle che allatteranno in quei giorni! Pregate che ciò non accada d'inverno; perché quei giorni saranno una tribolazione, quale non è mai stata dall'inizio della creazione, fatta da Dio, fino al presente, né mai vi sarà. Se il Signore non abbreviasse quei giorni, nessun uomo si salverebbe.” (Mc XIII, 14-20). 9 “Ma quando vedrete Gerusalemme circondata da eserciti, sappiate allora che la sua devastazione è vicina. Allora coloro che si trovano nella Giudea fuggano ai monti, coloro che sono dentro la città se ne allontanino, e quelli in campagna non tornino in città; saranno infatti giorni di vendetta, perché tutto ciò che è stato scritto si compia. Guai alle donne che sono incinte e allattano in quei giorni, perché vi sarà grande calamità nel paese e ira contro questo popolo. Cadranno a fil di spada e saranno condotti prigionieri tra tutti i popoli; Gerusalemme sarà calpestata dai pagani finché i tempi dei pagani siano compiuti” (Lc XXI, 20-24).
proseguite non solo nella stesura dei testi greci, ma anche nelle successive traduzioni nelle diverse
lingue volgari. All’interno di queste operazioni si possono inoltre riconoscere meccanismi ricorrenti
come, ad esempio, la confusione di certi titoli ed attributi con termini di significato geografico
(nazareno come cittadino di Nazaret, galileo come proveniente dalla Galilea, cananeo come “dalla
terra di Canaan”, quando tutti e tre i termini hanno espliciti riferimenti alle sette zelotiche).
Qualcosa di simile dicasi per i termini latro, bar Jona, povero… che non sono da interpretare
rispettivamente come ladrone, in senso generico, figlio di Giona, e persona indigente, ma sono
sempre correlati alle sette esseno zelotiche (si ricordi che i romani chiamavano gli zeloti latrones,
che l’ebraico barjona indicava i criminali latitanti, e che l’ebraico ebionim, poveri, era usato dagli
esseni per indicare se stessi, in quanto avevano adottato un regime di frugalità e di proprietà
comunitaria dei beni di sussistenza.
Con questa consapevolezza, la domanda: “quando sono stati scritti i Vangeli?” perde una parte del
suo significato e mostra l’esigenza di essere sostituita da un’altra impostazione problematica: “quali
sono state le fasi di costruzione della letteratura evangelica?”.
Gli archeologi che compiono scavi, ed esaminano un sito, sono preparati all’idea che i ritrovamenti
in loco, siano essi piccoli e grandi oggetti mobili, o strutture immobili, non forniscono la fotografia
di un singolo momento storico. Perché il più delle volte sono stati avvicinati da circostanze casuali e
tenuti insieme per molto tempo dal seppellimento naturale. I reperti possono appartenere a periodi
estremamente diversi, com’è nel caso della città di Troia, sullo stretto dei Dardanelli, dove sono
riconosciuti coesistere almeno nove livelli: da un primo strato risalente al neolitico (3000 a.C.), fino
a un nono strato di età romana (quarto sec. d.C.).
Abbiamo fatto questa osservazione per notare che una circostanza del tutto simile può verificarsi
anche per una struttura letteraria, la quale può essere il frutto di più momenti compositivi,
dell’intervento di diversi autori, e di motivazioni redazionali che, nel corso del tempo, possono
essere cambiate. Se c’è qualcosa su cui questo concetto può essere applicato, si tratta proprio della
letteratura biblica. Ignorare questo fatto sarebbe semplicistico e porterebbe, come in effetti è
successo e succede spesso, a compromettere irrimediabilmente l’attendibilità dell’indagine
esegetica. Dunque i Vangeli devono essere riconosciuti come prodotti stratificati, come siti di
un’archeologia testuale nei confronti dei quali il ricercatore si pone con la precisa intenzione di
decifrare l’intreccio dei livelli e delle realtà storiche, o leggendarie, che essi rappresentano.
I nostri Vangeli canonici sono il prodotto di una concezione teologica e cristologica già
dichiaratamente esterna alla religiosità ebraica e conflittuale con essa. I presunti umili discepoli
ebrei di Gesù, pescatori del lago di Tiberiade, non avrebbero mai potuto scriverli. Non solo perché
non sarebbero stati abbastanza colti da poter produrre quei testi, ma perché la loro educazione
religiosa non glielo avrebbe mai permesso, per molte e importanti incompatibilità di natura
teologica. Ne è testimonianza inconfondibile un fatto fondamentale, cioè l’idea che Gesù non sia
considerato semplicemente come un profeta del Signore, ma la sua persona incarnata. Un pensiero
che, all’interno della spiritualità ebraica, rappresenta un’intollerabile empietà, mentre in altre
spiritualità latine, ellenistiche e medio orientali, costituisce un concetto normale e diffuso.
E ancora: nei tre Vangeli sinottici, lo scenario dell’ultima cena10 è caratterizzato dall’istituzione del
rito eucaristico. Purtroppo assai poco spesso ci è stato fatto notare che, come il rito battesimale era
la cerimonia di ammissione nella comunità essena di Qumran, così la circostanza dell’ultima cena
riproduce molto puntualmente il rito esseno del pasto comunitario, come testimoniato dai
manoscritti del Mar morto11. Con una fondamentale differenza: Marco, Matteo e Luca fanno dire a
Gesù che il pane e il vino sono il suo corpo e il suo sangue, di cui i discepoli devono cibarsi. In
particolare è solo Luca che aggiunge l’esortazione “fate questo in memoria di me”, dimostrando che
la sua redazione appartiene a un periodo piuttosto avanzato in cui questo rito, con questo
significato, era già entrato nelle abitudini delle comunità cristiane.
Ora, l’atto di cibarsi della carne e del sangue del dio non era nuovo nella storia delle religioni,
specialmente in ambito ellenistico e medio orientale12. Esempi tipici ci sono offerti sia dal culto
ellenistico dionisiaco che da quello iranico mitraico, ben più antichi del cristianesimo. Il problema è
che una concezione di questo genere era, ed è tuttora, assolutamente incompatibile con la
spiritualità degli ebrei, i quali hanno un particolare tabù del sangue, della carne e dei morti, e non
hanno alcuna disponibilità al sincretismo religioso con le idee e i culti del mondo pagano. Al
contrario, sono fortemente esclusivisti e li respingono come cose immonde. Tutto questo ci porta
verso conclusioni che dovrebbero essere semplici ed ovvie, ma che sono sempre state evitate perché
mettono in seria discussione la dottrina cristiana, mostrando quanto sia improbabile che un rabbì,
nel corso di una cena rituale, abbia potuto proporre ad un pubblico di ebrei un gesto di gusto e di
significato altamente sacrilego. Già questo fatto indica che l’innesto di concezioni e di pratiche
10 “Quando fu l'ora, prese posto a tavola e gli apostoli con lui, e disse: “Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, poiché vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio”. E preso un calice, rese grazie e disse: “Prendetelo e distribuitelo tra voi, poiché vi dico: da questo momento non berrò più del frutto della vite, finché non venga il regno di Dio”. Poi, preso un pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: “Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me”. Allo stesso modo dopo aver cenato, prese il calice dicendo: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che viene versato per voi”” (Lc XXII, 14-20) 11 “In ogni luogo in cui saranno dieci uomini del consiglio della comunità, tra di essi non mancherà un sacerdote: si siederanno davanti a lui, ognuno secondo il proprio grado, e così (nello stesso ordine) sarà domandato il loro consiglio in ogni cosa. E allorché disporranno la tavola per mangiare o il vino dolce per bere, il sacerdote stenderà per primo la sua mano per benedire in principio il pane e il vino dolce. Per bere, il sacerdote stenderà per primo la sua mano per benedire in principio il pane e il vino dolce” (Regola della Comunità VI, 3-5); “E quando si raduneranno alla mensa comune oppure a bere il vino dolce, allorché la mensa comune sarà pronta e il vino dolce da bere sarà versato, nessuno stenda la sua mano sulla primizia del pane e del vino prima del sacerdote, giacché egli benedirà la primizia del pane e del vino dolce e stenderà per primo la sua mano sul pane. Dopo, il Messia di Israele stenderà le sue mani sul pane e poi benediranno tutti quelli dell'assemblea della comunità, ognuno secondo la sua dignità. In conformità di questo statuto essi si comporteranno in ogni refezione, allorché converranno insieme almeno dieci uomini” (Regola dell’Assemblea II, 17-22). 12 J.G.Frazer, Il ramo d'oro, Newton Compton, 1992; Cap. 50, “il Dio come alimento”.
pagane su un cerimoniale ebreo è stato redazionalmente possibile solo perché lo scrittore era un
gentile che si rivolgeva ad un pubblico gentile.
E, come se non bastasse, che dire di quelle pesanti parole, presenti nel Vangelo secondo Matteo,
con cui la stirpe degli ebrei viene dannata per il futuro a venire, in quanto responsabile della morte
di Gesù13? Possiamo credere che l’ex pubblicano Matteo Levi, figlio di Alfeo, ebreo, abbia voluto
redigere un testo con cui ha maledetto il suo popolo e lo ha esposto all’odio antisemita che, proprio
a causa di questa frase scellerata, ha imperversato per secoli nel mondo cristiano? La risposta è ben
altra e, ancora una volta, consiste nel riconoscere che questo strato della redazione evangelica
appartiene in tutto e per tutto ad un ambiente cristiano che ha già preso le distanze dal giudaismo,
che intende proteggere l’immagine dei romani in Palestina, scagionandoli dall’accusa di aver voluto
giustiziare Gesù, che responsabilizza di ciò gli ebrei, e che nasce nella mente di un gentile. Si tratta
dell’evoluzione di un cristianesimo degiudaizzato, conseguente alla demessianizzazione e
spoliticizzazione che Shaul di Tarso (San Paolo) aveva effettuato sulla figura di Gesù, in pieno ed
aperto conflitto coi suoi discepoli giudeo cristiani.
Un’altra considerazione ci aiuta nella comprensione del processo che ha portato allo sviluppo della
letteratura evangelica. Mi riferisco, questa volta, alla presenza nei testi di alcuni brani finali che
appaiono aggiunti in un momento successivo. Questo si verifica in modo evidente, e largamente
riconosciuto, nei Vangeli di Marco e di Giovanni. Nel secondo, infatti, il capitolo ventesimo porta a
quella che deve essere stata una conclusione primitiva dello scritto14. Ma nel testo canonico, che
oggi leggiamo comunemente, è presente un ventunesimo capitolo, di cui la stessa versione della
Conferenza Episcopale Italiana così annota: “Questo capitolo è un’appendice aggiunta
posteriormente dallo stesso autore o da un suo fedele discepolo”15. In esso sono nominati, per la
prima e l’unica volta in tutto il quarto Vangelo, i discepoli detti “figli di Zebedeo”, espressione
normalmente usata nei Vangeli sinottici con riferimento agli apostoli Giacomo il maggiore e
Giovanni. Inoltre sono riconoscibili elementi concettuali che possono aver motivato l’inserimento di
questo finale aggiuntivo: l’insistenza enfatica sul primato di Simon Pietro, a cui Gesù affida il
compito di succedergli, ripetendo ben tre volte le parole “pasci le mie pecorelle”16.
Ma noi sappiamo che la successione reale nella guida della comunità giudeo cristiana fu quella di
Giacomo il minore, fratello di Cristo, e non, come si pensa di solito, di Pietro. E sappiamo anche
che la redazione degli Atti degli Apostoli, funzionale all’esaltazione della figura di San Paolo, è
13 “E tutto il popolo rispose: “Il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli”” (Mt XXVII, 25). 14 “Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro. Questi sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.” (Gv XX, 30-31). 15 Vangelo e Atti degli Apostoli, Versione ufficiale della CEI, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi), 1987, pag. 295. 16 Gv XXI, 15-17.
stata caratterizzata dall’intento di censurare il ruolo preminente di Giacomo, giacché costui fu
sempre un oppositore inflessibile della predicazione di Paolo.
Per quanto riguarda la conclusione del Vangelo di Marco, non è attualmente molto diffusa la
conoscenza di un fatto importante e significativo: la forma primitiva del testo terminava al verso
16:8 con la descrizione delle pie donne che visitavano il sepolcro, scoprendolo vuoto17, e ometteva
tutta la parte successiva, relativa alle apparizioni di Gesù risorto. Ancora una volta ce lo conferma la
stessa versione CEI, annotando: “I vv. 9-20 sono un supplemento aggiunto in seguito per
riassumere rapidamente le apparizioni”18. I manoscritti più antichi del Vangelo di Marco sono il
Codex Vaticanus (325 d.C.) e il Codex Sinaiticus (370 d.C.), e nessuno dei due ha il finale con le
apparizioni. Lo stesso dicasi per una versione siro-sinaitica (fine del IV sec.), una versione
copto-shaidica (III-IV sec.), e alcune versioni armene e georgiane del V secolo.
Lo stesso storico ecclesiastico Eusebio di Cesarea (265-340 d.C.), ha scritto che al suo tempo
esistevano testi del Vangelo di Marco privi del finale. E così pure San Girolamo (340-420 d.C.), che
tradusse i testi greci in latino (Vulgata latina), affermò che il finale in questione non poteva essere
considerato autentico.
Del resto, i racconti delle apparizioni, nei quattro Vangeli canonici, sono fortemente discordanti, a
sostegno dell’idea che la loro redazione sia il frutto di un momento successivo, in cui si era
instaurata la concezione teologica del Gesù risorto dai morti, in carne ed ossa, in aperta
contraddizione con le idee della comunità giudeo cristiana e dei successivi sviluppi gnostici
indipendenti dall’insegnamento di Paolo, secondo i quali la resurrezione aveva il significato di
un’acquisizione spirituale e non era da intendersi in senso fisico19.
Alla luce di queste riflessioni possiamo tornare a considerare le natività, presenti nei due Vangeli
secondo Matteo e secondo Luca, e renderci conto che il loro inserimento all’interno dei testi è stato
effettuato in un secondo tempo, già abbastanza lontano dalla stessa predicazione paolina. Non
dimentichiamo che Paolo, nelle sue lettere, non conosce la madre di Gesù né, tantomeno, l’idea
della nascita verginale, e si limita a dire che Gesù è “nato da donna”, come tutti i comuni mortali.
Del resto, il cliché della nascita di Gesù, con l’annunciazione da parte dell’angelo Gabriele, si
discosta dai modelli ebraici, nei quali viene solitamente annunciata una nascita prodigiosa da una
donna sterile, e da una coppia anziana, e si dice che il nascituro sarà un uomo santo e dedito al
Signore, ma non si dice certo che l’ingravidamento è verginale, operato dallo Spirito Santo, e il
17 “Ed esse, uscite, fuggirono via dal sepolcro perché erano piene di timore e di spavento. E non dissero niente a nessuno, perché avevano paura.” (Mc XVI, 8). 18 Vangelo e Atti degli Ap., cit., pag. 145. 19 “Coloro che dicono che il Signore prima è morto, poi è risorto, si sbagliano, perché egli prima è resuscitato e poi è morto. Se uno non consegue prima la resurrezione non morirà, perché, come è vero che Dio vive, egli sarà già morto” Vangelo di Filippo, 21; I Vangeli Apocrifi, a cura di M.Craveri, Einaudi, Torino, 1969, pag.514. “Mentre siamo in questo mondo è necessario per noi acquistare la resurrezione, cosicché, quando ci spogliamo della carne, possiamo essere trovati nella Quiete” Ivi, 63; op. cit., p. 523.
nascituro non viene certo riconosciuto come creatura dotata di essenza divina. Anche questi sono
già elementi di una concezione cristiana dichiaratamente extraebraica.
La natività
Sebbene il termine natività abbia una sua accezione generale che significa nascita, origine, genesi,
nell’universo cristiano ha assunto un significato ulteriore, allargato, ben stabilizzato dalla
consuetudine. Di frequente, in modo inequivocabile, indica il racconto della nascita di Cristo. Non è
un caso, dal momento che la parte della narrazione evangelica relativa all’infanzia di Gesù è la più
suggestiva e cara ai fedeli. Essa costituisce la base delle tradizioni natalizie e, nell’imminenza delle
festività di fine anno, è capace di coinvolgere l’intera civiltà occidentale, spiritualmente,
culturalmente, sentimentalmente ed economicamente.
La natività è un condensato di simboli archetipici che appaga l’inconscio umano suscitando calore,
misericordia e commozione. E non potrebbe essere diversamente. L’immagine della giovane donna
che tiene in braccio il bambino è una figura simbolica appartenente alle culture di tutti i tempi e di
tutti i popoli. Legata all’idea della fecondità, della vita, dell’amore, del bene e di tutto ciò che
nell’esistenza umana rappresenta le qualità positive che si oppongono al male e alla morte. La
presenza del padre, nelle sembianze di un uomo forte ma, contemporaneamente, giudizioso, onesto
e premuroso, ha un carattere rassicurante e completa la figura femminile come lo yang completa lo
yin nella simbologia taoista. Il maschio e la femmina, Shiva e Shakti, il dio e la dea, il re e la regina,
il sole e la luna…
Allora, in questo contesto, il bambino offre l’immancabile complemento di uno schema trinitario
universale che attraversa orizzontalmente e verticalmente tutte le civiltà umane: padre, madre e
figlio. Non si dimentichi che la trinità cristiana contempla, accanto alla figura del Padre, quella
dello Spirito Santo che ha una derivazione diretta dalla Ruah ebraica, lo spirito femminile,
nascondendo così, sotto principi solo apparentemente desessualizzati, lo schema del nucleo
familiare monogamico.
Il valore dell’immagine rappresentativa della sacra famiglia è legato senz’altro al primato attuale
del concetto monogamico. Dopo decine o centinaia di migliaia di anni, durante i quali i nostri
antenati, storici ed evolutivi, hanno sperimentato diversi modelli familiari, dal clan caratterizzato da
liberi scambi sessuali, a quello matriarcale, a quello patriarcale poligamico, finalmente il genere
umano è approdato al matrimonio monogamico. Giuseppe e Maria simboleggiano proprio questo:
l’unione coniugale in cui un singolo uomo e una singola donna si impegnano in un legame di
fedeltà reciproca e di continuità, non solo nella prospettiva di garantirsi rispetto, ma soprattutto in
quella di offrire ai figli stabilità affettiva ed educazione. Con tutti gli annessi e connessi che questo
comporta, primo fra tutti il diritto all’eredità e l’appartenenza ad una precisa stirpe.
Ora, per quanto le figure di Giuseppe e Maria rappresentino in modo esplicito ed esauriente le
figure del padre e della madre, tuttavia il nucleo coniugale della sacra famiglia cristiana è
caratterizzato da un principio singolare: l’esaltazione del concetto di verginità. Un principio che
mette in discussione i caratteri del rapporto matrimoniale, nel quale l’uomo e la donna prolificano
attraverso l’esercizio di funzioni naturali, carica di colpa la sfera sessuale e presenta un idealismo
morale che pone l’essere umano in uno stato di conflittualità interiore.
Non si può non osservare che si tratta di un percorso etico innaturale, molto distante da altre forme
di spiritualità che, invece di condannare gli aspetti naturali ed istintivi del comportamento umano,
hanno cercato di sacralizzarli. Evidentemente, nel corso complesso della storia sociale e psicologica
dell’uomo, in certi contesti e non in altri, la verginità ha finito in qualche modo per rappresentare
autenticamente un valore.
Ma le shakti20 di Kajuraho e di Karnak, in India, non vantano certo una sdegnosa estraneità al
contatto fisico col maschio, al contrario, esibiscono il più disinvolto abbandono alla libidine come
espressione di genuina spiritualità. Le giovani donne di molte civiltà del mediterraneo e della
Mesopotamia, ai tempi della religione della grande Madre, erano obbligate ad offrire prestazioni
sessuali nel tempio o, in sostituzione, a subire un umiliante taglio dei capelli.
Ciò nonostante, in palese opposizione all’idea della fecondità come prodotto della sessualità
naturale, il principio della verginità non ha mancato di produrre un fascino collettivo che l’ha
trasformato, dove e quando, in un valore positivo. Al punto da suscitare il mito della nascita
verginale, come segno distintivo di una perfezione sovrumana che appartiene solo alle figure divine,
ma anche come elemento prodigioso che garantisce l’origine sovrannaturale di un determinato
evento. Il mito della nascita verginale, ampiamente al di là di quanto i cristiani sono abituati a
credere, è talmente diffuso nel tempo passato e nello spazio etnico e geografico, da far sì che la
Madonna possa essere definita come l’ultima arrivata di una lunga e ricchissima serie21. Quasi una
semplice imitatrice. Si tratta di una considerazione insopportabile per i cristiani, ma pienamente
corretta.
“Un istruttivo residuo della lunga lotta [tra il mitraismo e il cristianesimo] è rimasto nel
nostro Natale, che la Chiesa sembra aver preso a prestito direttamente dalla sua rivale
pagana. Nel calendario giuliano, il 25 dicembre segnava il solstizio d’inverno ed era
considerato la nascita del sole, poiché le giornate cominciavano ad allungarsi e ad
aumentare il calore del radioso astro. Il rituale della natività [del dio sole], come sembra
20 Nel contesto della teologia indù, a fianco dell’archetipo maschile shiva, la shakti rappresenta l’archetipo femminile esaltato sul piano spirituale, con tutta la sua carica erotica. I bassorilievi dei templi di Kajuraho e Karnak mostrano una concezione religiosa che non intende dissociare la sfera istintiva da quella spirituale ma che, al contrario, suggeriscono l’identificazione del potere divino e di quello naturale. 21 “Come quella di molti altri eroi, anche la sua nascita [del dio Attis] era stata miracolosa. Sua madre, Nana, era una vergine che lo concepì ponendosi in seno una mandorla o una melagrana matura… Questi racconti di madri vergini sono retaggio di un’epoca di ignoranza puerile, quando ancora gli uomini non avevano identificato l’atto sessuale come vera causa della procreazione.” (J. G. Frazer, Il ramo d’oro, Newton Compton Ed., Roma, 1992; pag. 396).
venisse celebrato in Siria e in Egitto, era estremamente interessante. I celebranti si
ritiravano in certi santuari interni, da dove poi uscivano, a mezzanotte, gridando – La
Vergine ha partorito! La luce cresce! –. Gli egizi rappresentavano persino il neonato sole
con l’immagine di un bambino che, nel suo giorno natalizio, cioè quello del solstizio
d’inverno, esponevano ai fedeli. Senza dubbio, la vergine che così aveva concepito e
partorito un figlio il 25 dicembre era la grande dea orientale, che i semiti chiamavano la
Vergine Celeste o, semplicemente, la Dea Celeste; e che, nei territori semitici, era una
delle raffigurazioni di Astarte. Ora, gli adoratori di Mitra identificavano sempre il loro dio
con il sole, il sole invitto, come lo chiamavano. Quindi anche il suo giorno natalizio cadeva
il 25 dicembre”22.
In realtà, l’elemento fondamentale racchiuso nel mito della nascita verginale è un altro, ovverosia
quello dell’incarnazione divina, dell’idea che l’ente supremo abbia voluto farsi carne e vivere il
dramma dell’esistenza umana accanto agli uomini stessi. Per insegnare con le parole e con
l’esempio, per redimere, liberare, salvare. In particolare, nel concetto cristiano, attraverso un
sacrificio personale.
Ecco quindi il primo significato dei racconti della natività nel contesto del Nuovo Testamento, che
altrimenti poteva rimanere troppo implicito e quindi non sufficientemente espresso, in quei Vangeli
che trattano solo della vita adulta dell’uomo Gesù: Dio stesso scende sulla terra e prende forma
umana nella persona del Salvatore. Le natività non aggiungono, nel senso esatto dell’espressione,
ma puntualizzano un elemento teologico che appartiene in modo inequivocabile e irrinunciabile alla
teologia cristiana, così come essa si è definitivamente configurata in occasione del concilio
ecumenico di Nicea (325 d.C.): Gesù è Dio (omoousios = consustanziale), non semplicemente un
suo profeta e ambasciatore.
La tradizione ebraica e quella islamica non conoscono questo genere di uomo-dio: Abramo, Isacco,
Giacobbe, Mosè, Davide, Samuele, Sansone, Maometto… sono araldi del Signore ed esecutori
privilegiati dei suoi piani, talvolta accompagnati nella loro comparsa da segni prodigiosi, come i
miracoli, le gravidanze di madri sterili e l’annunciazione di angeli. Ma la loro natura è e rimane
umana, mentre la divinità compete solo all’ente di cui non si può mostrare effigie e, talvolta, non si
può pronunciare il nome. In questo senso il cristianesimo, con la sua natività protesa a dipingere il
mito dell’incarnazione verginale del dio, rappresenta una forma di paganizzazione dell’ebraismo,
perché utilizza una veneranda tradizione gentile e la applica all’attesa messianica degli ebrei. Per
poi decorarla con un’iconografia ricchissima, anch’essa estranea all’ebraismo e derivata quasi
sempre dai più antichi modelli pagani.
22 J. G. Frazer, Il ramo d’oro, Newton Compton Ed., Roma, 1992; pag. 409
Una delle più curiose caratteristiche della letteratura evangelica è la notevole discordanza fra i testi,
relativamente ad alcuni importanti aspetti della natività: date, luoghi, eventi e circostanze. Si tratta
spesso di divergenze fondamentali, tali da configurare quadri che risultano del tutto inconciliabili,
allorché sottoposti all’esame della ragione e della storia.
Del resto è ben noto quanto la logica e la critica, alla stregua di attitudini blasfeme, siano state
sistematicamente tenute lontane dalla lettura dei testi sacri. A cominciare dal fatto che, per lunghi
secoli, la traduzione in lingua volgare del Nuovo Testamento, la lettura individuale e il semplice
possesso dei libri sono stati rigidamente proibiti dalla chiesa sotto la minaccia e l’attuazione di pene
severissime. Ed è proprio grazie a questo regime culturale, una tirannia nel senso proprio del
termine, nonché all’obbedienza e all’assuefazione popolari, che i contrasti fra i testi hanno potuto
trovare compatibilità e verosimiglianza, con l’aiuto, naturalmente, di una schiera di dotti
conformisti che, eredi della tendenza mistificatoria di Eusebio di Cesarea, il grande apologeta del
periodo costantiniano, hanno piegato la verità storica alle esigenze della teologia dogmatica.
Oggi, modificando l’atteggiamento mentale, ed accettando l’idea che i testi sacri del cristianesimo
possano essere sottoposti all’osservazione critica, è facile accorgersi che gli evangelisti non si sono
incontrati nemmeno su questioni semplici e fondamentali come il luogo ove Gesù sarebbe nato.
Prendiamo ad esempio in considerazione il più antico dei quattro Vangeli, quello secondo Marco. È
il testo più breve, quello in cui mancano molti dei brani più cari ai credenti e significativi per
l’immagine teologica di Gesù. Presenti invece negli altri Vangeli. Si noti un dettaglio significativo:
nel Vangelo di Marco non è mai nominata, per alcun motivo, la città di Betlemme. Né in quanto
città natale di Cristo, né come luogo di origine del grande re Davide. Al contrario, l’origine galilaica
di Gesù è attestata fin dall’inizio23, anche se la città di Nazaret, a voler essere esatti, è nominata una
sola volta, per essere successivamente indicata con l’espressione “sua patria”24 , o per essere
considerata erroneamente implicita nell’aggettivo “nazareno”.
Si tenga presente che all’aggettivo “nazareno”, così frequentemente usato nei testi evangelici, non
può essere attribuito, come di solito si fa, il significato di “cittadino di Nazaret”. Molti fattori lo
rivelano come titolo religioso o settario. Così come lo scritto apocrifo “Vangelo dei nazareni” e il
movimento dei “nazareni”, che esso rappresentava, non avevano alcun riferimento con la città di
Nazaret, la cui esistenza, al tempo di Gesù, è ancora oggetto di discussioni aperte.
Che dire poi del fatto che, nel Vangelo secondo Marco, come abbiamo già osservato, è del tutto
assente la figura tipica della sacra famiglia, come nucleo composto da Gesù, Giuseppe e Maria, così
fondamentale nella fede e nella devozione cristiana? Addirittura il mestiere di falegname (o
23 “In quei giorni Gesù venne da Nàzaret di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni. E, uscendo dall'acqua, vide aprirsi i cieli e lo Spirito discendere su di lui come una colomba. E si sentì una voce dal cielo: “Tu sei il Figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto”.” (Mc I, 9-11) 24 “Partito quindi di là, andò nella sua patria e i discepoli lo seguirono.” (Mc VI, 1)
carpentiere) è attribuito direttamente a Gesù25. Questo testo, come il quarto Vangelo, inizia il suo
racconto a partire dall’età adulta di Gesù, in occasione del battesimo sul Giordano, e non si occupa
in alcun modo della nascita e dell’infanzia.
Abbiamo poi il Vangelo secondo Giovanni, il quale dichiara più volte, in modo perentorio, l’origine
galilaica di Gesù, negando esplicitamente che sia nato a Betlemme, nel momento in cui qualcuno
sostiene che la pretesa messianica di Gesù è vanificata dal fatto di non essere originario del
villaggio di Davide26. La stessa cosa viene detta a proposito del padre, in aperto contrasto col fatto
che in altri scritti del Nuovo Testamento si dichiara l’origine betlemita di Giuseppe27. Sempre il
quarto Vangelo, come quello secondo Marco, usa l’espressione “sua patria” con riferimento alla
regione della Galilea28, inoltre inizia con la vita adulta di Gesù e trascura ogni narrazione relativa a
nascita e infanzia.
Ben diverso è il quadro offerto dai testi secondo Matteo e Luca, che hanno in comune il fatto di
cominciare con un impianto narrativo sulla nascita di Gesù, e sulle coordinate storiche, geografiche
e genealogiche che caratterizzano la sua famiglia. Anche se poi i due evangelisti finiscono per
tessere, a loro volta, un’insanabile rete di contrasti.
Qui, in entrambi i casi, in totale disaccordo con gli altri due evangelisti, il luogo di nascita di Gesù è
Betlemme, il villaggio giudeo situato una decina di km a sud di Gerusalemme. Il fatto è presentato
come requisito messianico, dal momento che Betlemme era la patria di Davide e che, secondo le
profezie, avrebbe dovuto esserlo anche dell’atteso messia. Analizzeremo in seguito quanto sia
fragile questo punto di contatto fra i testi di Matteo e Luca. Infatti, nel primo caso, Betlemme
appare come città di residenza dei fidanzati Giuseppe e Maria, e conseguentemente Gesù nasce
nella propria casa, dove viene successivamente visitato dai magi. Mentre, nel secondo caso, i
genitori abitano a Nazaret, dove si conoscono e si fidanzano, e Betlemme appare come destinazione
di un viaggio obbligato da esigenze amministrative, in occasione del censimento voluto da Cesare
25 “Venuto il sabato, incominciò a insegnare nella sinagoga. E molti ascoltandolo rimanevano stupiti e dicevano: “Donde gli vengono queste cose? E che sapienza è mai questa che gli è stata data? E questi prodigi compiuti dalle sue mani? Non è costui il carpentiere, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non stanno qui da noi?”. E si scandalizzavano di lui. Ma Gesù disse loro: “Un profeta non è disprezzato che nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua”” (Mc VI, 2-4) 26 “All'udire queste parole, alcuni fra la gente dicevano: “Questi è davvero il profeta!”. Altri dicevano: “Questi è il Cristo!”. Altri invece dicevano: “Il Cristo viene forse dalla Galilea? Non dice forse la Scrittura che il Cristo verrà dalla stirpe di Davide e da Betlemme, il villaggio di Davide?”. E nacque dissenso tra la gente riguardo a lui.” (Gv VII, 40-43). “Disse allora Nicodemo, uno di loro, che era venuto precedentemente da Gesù: “La nostra Legge giudica forse un uomo prima di averlo ascoltato e di sapere ciò che fa?”. Gli risposero: “Sei forse anche tu della Galilea? Studia e vedrai che non sorge profeta dalla Galilea”.” (Gv VII, 50-52) 27 “Filippo incontrò Natanaèle e gli disse: “Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti, Gesù, figlio di Giuseppe di Nàzaret”. Natanaèle esclamò: “Da Nàzaret può mai venire qualcosa di buono?”.” (Gv I, 45-46) 28 “Trascorsi due giorni, partì di là per andare in Galilea. Ma Gesù stesso aveva dichiarato che un profeta non riceve onore nella sua patria. Quando però giunse in Galilea, i Galilei lo accolsero con gioia, poiché avevano visto tutto quello che aveva fatto a Gerusalemme durante la festa; anch'essi infatti erano andati alla festa.” (Gv IV, 43-45)
Augusto. Tant’è vero che Gesù non nasce in una casa, ma in un rifugio malamente arrangiato, a
conclusione di un lungo e difficile viaggio a dorso di mulo. La differenza, di solito, non è rilevata
nelle tradizioni natalizie del presepe, che associano la visita dei magi con l’immagine della
capannuccia, e della mangiatoia per gli animali. Ma si tratta di un modo sbrigativo per sorvolare sui
contrasti tra i racconti delle natività.
La natività nel Vangelo secondo Matteo
Il racconto
Quando il cielo è sereno e la luna è nuova, le stelle della notte palestinese non si possono contare.
Nel firmamento scuro brillano a decine di migliaia, e intorno alla via lattea si infittiscono formando
una nube luminescente. L’incanto è sempre profondo, anche per chi è abituato a vegliare.
Attraverso la finestrella della stanza, Maria si lasciava sorprendere da questo spettacolo eterno.
Emozionata dalla promessa che i genitori avevano combinato con Giuseppe, il suo futuro sposo,
interrogava gli astri sulla sua futura felicità. Si domandava che cosa significasse “conoscere”
l’uomo. Pensava che la realtà del matrimonio fosse troppo grande da sopportare, ma era attratta
dall’idea della maternità e dall’immagine di un pargolo da stringere al seno.
Improvvisamente sentì un turbamento, un fremito le scosse il ventre. Ebbe subito la sensazione di
capire: si sentiva gravida. Si carezzò l’addome. Questo pensiero di pura follia le giunse con la
serenità imperturbabile delle cose prudenti e sensate. Era come se una voce rassicurante le avesse
detto: “Non avere paura. La tua innocenza è intatta. Ciò che il Padre vuole da te gli uomini non
potranno impedire”. Non le venne neanche in mente di riflettere su quali assurde complicazioni ciò
avrebbe provocato a se stessa, ai genitori, a Giuseppe, al paese intero, se solo fosse stato vero. Si
addormentò, e trascorse la notte come protetta da una grande pace29.
Alle prime luci dell’alba il villaggio di Betlemme si destava, come sempre, e gli abitanti si
preparavano con lentezza a raggiungere i loro compiti quotidiani. L’aria era colma dei belati delle
capre, del cinguettio degli uccelli, dello starnazzìo delle papere e dei polli. Non appena fu sveglia
Maria si alzò in piedi, portò le mani in grembo, comprimendo la veste sulla pancia, e si guardò per
scoprire se per caso fosse visibile qualche segno dello stato di gravidanza. Poi, finalmente, si stupì,
fu intimorita, ed ebbe la sensazione di avere peccato col pensiero. Capì di avere immaginato cose
sconclusionate e cercò di ricomporre la mente. Doveva andare a prendere l’acqua, doveva
controllare le capre, doveva aiutare la madre30.
Ciò non ostante i pensieri strani non la abbandonavano, sentiva che qualcosa le era successo, e
lasciava che un silenzio inquieto accompagnasse la sua confusione, come in trepida attesa di una
risposta. E la risposta giunse quando il ciclo tardò a presentarsi e percepì il seno teso e tanti altri
indizi nel suo giovane corpo.
29 “Ecco come avvenne la nascita di Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo” (Mt I, 18) 30 “Gesù nacque a Betlemme di Giudea” (Mt II, 1)
La prima persona che intuì la circostanza anomala fu, ovviamente, la madre. Constatò che la figlia
non era in regola coi flussi e, dopo qualche giorno, fu presa da cupi sospetti: forse una malattia, una
maledizione, o l’ombra dell’infamia. Ne parlò col marito ed insieme decisero che era necessario
verificare l’integrità della fanciulla. Non furono trovati segni di colpa. Ma la cosa non fu abbastanza
rassicurante perché l’anomalia persisteva e il dilemma non aveva risposta. Il mese successivo la
mancanza si fece nuovamente notare, insieme a tanti altri fatti che ormai parlavano chiaro: la
fanciulla era in stato interessante.
Il padre volle chiedere a Giuseppe se mai era successo qualcosa, ma ottenne come unico risultato
che al suo dolore si aggiunse quello del promesso sposo. Il quale comprese tutto prima ancora che il
suocero gli svelasse il motivo delle domande.
Su molte persone, a questo punto, era scesa una tenebra d’angoscia. Nessuno sapeva come reagire.
La vergogna, la paura, la rabbia, e tutti i più disperati sentimenti paralizzavano il pensiero.
Giuseppe avrebbe potuto accusare la ragazza, liberando se stesso, ma gettando la famiglia di lei in
un disonore senza riparo, e Maria nel pericolo di essere processata e lapidata31.
Poi, provvidenziale come può essere solo un messaggio dell’Altissimo, Giuseppe ebbe una visione.
Una creatura sovrannaturale gli apparve nel sonno e gli disse: “Giuseppe, della stirpe del re David,
non temere di essere stato tradito. Infatti il seme che ha fecondato Maria viene dallo Spirito Santo.
Il figlio che ella darà alla luce sarà il salvatore del suo popolo, e tu lo chiamerai Gesù”32. Subito
l’uomo si svegliò e seppe che quanto aveva udito era vero. Corse dai genitori della ragazza e spiegò
l’accaduto33.
Quanto gli fu difficile farsi credere! Ma anche la madre di Maria, nel momento in cui vide la
convinzione di Giuseppe, seppe che ciò era vero e, piangendo, si inginocchiò a terra. E fu così che i
due andarono ad abitare nella stessa casa ove, quando i tempi furono maturi, la vergine Maria, dette
alla luce un fanciullo a cui fu dato il nome Gesù34.
Correvano gli ultimi anni del regno di Erode, l’idumeo che aveva saputo conquistare il favore dei
romani e della classe sacerdotale giudea35. Dopo avere ricoperto la carica di tetrarca della Galilea,
era stato eletto re di tutta la Palestina e aveva iniziato a ricostruire il grande tempio di
Gerusalemme. Quello che Salomone aveva fatto edificare quasi mille anni prima, era stato distrutto
dai babilonesi all’epoca della deportazione, e da allora il primo desiderio di ogni ebreo era di vedere
31 “Giuseppe suo sposo, che era giusto e non voleva ripudiarla, decise di licenziarla in segreto” (Mt I, 19) 32 “Tutto questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: “Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio che sarà chiamato Emmanuele”” (Mt I 22-23) 33 “Mentre però stava pensando a queste cose, ecco che gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: “Giuseppe, figlio di David, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati”” (Mt I, 20-21) 34 “Destatosi dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l'angelo del Signore e prese con sé la sua sposa, la quale, senza che egli la conoscesse, partorì un figlio, che egli chiamò Gesù” (Mt I, 24-25) 35 “Gesù nacque a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode” (Mt II, 1)
innalzate, nel cuore della capitale, le mura che avrebbero dovuto mostrare la gloria infinita del
Padre di Israele. Erode, amato quanto odiato, aveva abilità eccezionali e grande scaltrezza. Con
polso di ferro aveva fatto assassinare conoscenti, amici, una moglie e due figli, per timore delle
congiure nei suoi confronti, ma con intelligenza sapeva venire incontro alle richieste dei diversi ceti
della società giudaica, riuscendo a reggere le fila di un regno difficile per ben trentatré anni. Finché
lo colse la morte naturale.
Ora, con grande sorpresa di tutta la corte del grande monarca, erano inaspettatamente giunti alcuni
curiosi quanto illustri personaggi: ministri del culto di Zoroastro i quali, provenienti dalla Persia,
reclamavano di avere seguito la stella del re dei Giudei che era nato – così dicevano – e di essere
venuti per adorare il principe fanciullo36. Erode finse compiacimento ed ebbe riguardo per gli
onorevoli ospiti, ma interrogò rapidamente gli scribi e i sacerdoti venendo a sapere di una profezia
sulla nascita del messia che avrebbe dovuto regnare su Israele37. I sapienti non ebbero dubbi: la città
destinata a dare i natali al futuro sovrano era Betlemme, il villaggio dove, mille anni prima, era nato
David, il grande re degli ebrei che aveva unificato le dodici tribù sotto un’unica nazione e aveva
scelto Gerusalemme come capitale del regno38.
Alquanto turbato da questa notizia, il monarca invitò i Magi a visitare il principe e, in seguito, ad
informarlo sul luogo ove si trovasse, affinché anche lui potesse onorarlo. Ma il suo pensiero, nella
realtà, non era quello di offrire un omaggio di rispetto bensì di sbarazzarsi dell’eventuale pericolo
che incombeva sulla sua sovranità o sulla successione familiare. Erode non credeva alle profezie,
ma sapeva quanto potente fosse la loro suggestione39.
La stella, brillando straordinaria nel cielo di Palestina, si spostava e guidava i nobili pellegrini fino
al paese di Betlemme, verso la casa di Giuseppe e Maria. E quando vi giunsero, trovarono il bimbo
e la madre e si inchinarono come di fronte ad un imperatore, tributandogli gli onori più alti.
Sembrava impossibile che la modesta cornice del piccolo alloggio fosse il teatro di un simile
cerimoniale degno di un palazzo reale. Per quanto Maria fosse consapevole delle qualità eccezionali
del suo pargolo, non poté fare a meno di essere molto colpita dall’inatteso arrivo di quei dignitari,
36 “Alcuni Magi giunsero da oriente a Gerusalemme e domandavano: “Dov'è il re dei Giudei che è nato? Abbiamo visto sorgere la sua stella, e siamo venuti per adorarlo”” (Mt II, 1-2) 37 “All'udire queste parole, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. Riuniti tutti i sommi sacerdoti e gli scribi del popolo, s'informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Messia” (Mt II, 2-4) 38 “Gli risposero: “A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta: E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero il più piccolo capoluogo di Giuda: da te uscirà infatti un capo che pascerà il mio popolo, Israele” (Mt II, 5-6) 39 “Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire con esattezza da loro il tempo in cui era apparsa la stella e li inviò a Betlemme esortandoli: “Andate e informatevi accuratamente del bambino e, quando l'avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch'io venga ad adorarlo”” (Mt II, 7-8)
dei loro segni di devozione e dei loro preziosi omaggi: oro, incenso e mirra. Fu imbarazzata per
l’umiltà della dimora e per non essere in grado di accogliere degnamente gli illustri visitatori40.
E tutto il popolo di Betlemme fu impressionato da questa visita straordinaria e la gente volle riverire
il fanciullo e gli stranieri. La casa di Giuseppe e Maria era così diventata la meta di un silenzioso
ma appassionato pellegrinaggio, perché la notizia dell’evento singolare si era sparsa in men che non
si dica e alcuni per curiosità, altri per sincera devozione, volevano essere presenti e testimoni di un
fatto che, ai loro occhi, appariva magnifico e irrinunciabile.
Conclusa la loro missione, gli uomini ripresero il viaggio, non prima che una creatura celeste li
avesse prudentemente avvertiti delle cattive intenzioni di Erode, e consigliati di evitare
Gerusalemme affinché il monarca non avesse informazioni per rintracciare il predestinato41. Lo
stesso messaggero divino si fece premura di apparire in sogno a Giuseppe per invitarlo a fuggire:
“Erode cerca tuo figlio per ucciderlo, prendi il bambino e la madre e portali in Egitto, dove l’invidia
del monarca non potrà far loro del male”. Giuseppe non se lo fece dire due volte. Nella stessa notte
raccattò poche misere cose, caricò i muli e intraprese il lungo e difficile viaggio, con l’unica
consolazione di adempiere la volontà del Padre e la certezza di essere protetto contro i mille pericoli
del percorso42.
Il silenzio del cielo stellato continuava imperturbabile a vegliare sulla scena della povera famiglia in
cammino nel paesaggio desertico. I passi lenti del mulo sembravano scandire un tempo che non
finiva mai, Maria non parlava, se non quando strettamente necessario, e il bimbo, ignaro delle
fatiche e delle angosce, viveva nutrito d’amore e d’affetto. La fede incrollabile era la forza che li
avrebbe condotti sani e salvi, nel periodo di qualche settimana, alla terra d’Egitto.
Dopo qualche tempo il monarca, resosi conto che i Magi avevano disatteso la promessa e se n’erano
andati senza informarlo sul luogo della visita, fu preso dall’ira43. Sapeva che i saggi di Israele
tenevano in grande considerazione la profezia, e che larghi strati della popolazione attendevano un
Messia che restituisse la libertà al paese, cacciando via gli odiati romani. L’ansia gli logorava i
nervi e gli toglieva la gioia dei suoi successi e della sua posizione. Fu in questo stato d’animo che
concepì il più scellerato dei piani per sbarazzarsi del pericolo incombente: al bimbo non sarebbe
40 “Udite le parole del re, essi partirono. Ed ecco la stella, che avevano visto nel suo sorgere, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella, essi provarono una grandissima gioia. Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, e prostratisi lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra” (Mt II, 9-11) 41 “Avvertiti poi in sogno di non tornare da Erode, per un'altra strada fecero ritorno al loro paese” (Mt II, 12) 42 “Essi erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: “Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto, e resta là finché non ti avvertirò, perché Erode sta cercando il bambino per ucciderlo”. Giuseppe, destatosi, prese con sé il bambino e sua madre nella notte e fuggì in Egitto, dove rimase fino alla morte di Erode, perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: Dall'Egitto ho chiamato il mio figlio” (Mt II, 13-15) 43 “Erode, accortosi che i Magi si erano presi gioco di lui, s'infuriò” (Mt II, 16)
stato utile nascondersi nell’anonimato di un villaggio rurale, e nemmeno il silenzio complice della
gente44.
E fu così che, in una notte bugiarda, la cui quiete nascondeva l’incombenza della sciagura,
Betlemme fu invasa da soldati feroci che la circondarono da ogni parte e, violando le abitazioni,
scovarono tutti i pargoli innocenti e implacabili li passarono a fil di spada. Inutili furono le grida
delle madri e i tentativi di fuga. Vani furono gli eroismi dei padri e le loro esigue difese. Inefficaci i
nascondigli, perché dove non giunse la lama affilata delle spade giunse il fuoco e il fumo, a
seminare morte ingiusta e comunque inesorabile
Quando giunse il mattino i carnefici si erano già dileguati, e l’alba si era stesa sopra un villaggio
straziato, dove le lacrime e il sangue facevano da cornice al canto sommesso di gemiti soffocati.
Infelici coloro che erano sopravvissuti, perché il dolore non avrebbe mai più abbandonato il loro
cuore. Il massacro era stato compiuto. Erode pensava, con questo, di aver annientato una profezia e
di potersi tranquillizzare, fra tante ostilità, almeno mostrando al popolo che il dominio è frutto della
volontà e della forza, non degli oroscopi e delle superstizioni. Né ebbe a confrontarsi di nuovo con
questo grattacapo, finché la malattia lo condusse alla tomba.
E quando questo avvenne, ancora una volta l’angelo del Signore apparve a Giuseppe in Egitto per
esortarlo al ritorno: “Non hai più motivo di nasconderti, prendi il bambino e la madre e riportali in
terra di Israele ”45. Ancora una volta i tre intrapresero il cammino e, giunti in Giudea, vennero a
sapere che nel palazzo regnava Archelao, figlio di Erode. Giuseppe fu intimorito da questo fatto e
non ebbe animo di tornare a vivere a Betlemme, troppo vicina a Gerusalemme. Decise
prudentemente di continuare il viaggio verso settentrione e si stabilì a Nazaret, in Galilea, dove
Gesù ebbe modo di crescere al sicuro, e di apprendere la professione del padre46.
Queste furono le vicende fondamentali dell’infanzia di Gesù, figlio di Giuseppe e, attraverso di lui,
discendente in linea diretta dalla stirpe regale di Salomone e di David47.
44 “e mandò ad uccidere tutti i bambini di Betlemme e del suo territorio dai due anni in giù, corrispondenti al tempo su cui era stato informato dai Magi. Allora si adempì quel che era stato detto per mezzo del profeta Geremia: “Un grido è stato udito in Rama, un pianto e un lamento grande; Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata, perché non sono più”” (Mt II, 16-18) 45 “Morto Erode, un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe in Egitto e gli disse: “Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e va nel paese d'Israele; perché sono morti coloro che insidiavano la vita del bambino”. Egli, alzatosi, prese con sé il bambino e sua madre, ed entrò nel paese d'Israele” (Mt II, 19-21) 46 “Avendo però saputo che era re della Giudea Archelào al posto di suo padre Erode, ebbe paura di andarvi. Avvertito poi in sogno, si ritirò nelle regioni della Galilea e, appena giunto, andò ad abitare in una città chiamata Nàzaret, perché si adempisse ciò che era stato detto dai profeti: “Sarà chiamato Nazareno”” (Mt II, 22-23) 47 "Genealogia di Gesù Cristo figlio di David, figlio di Abramo. Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli, Giuda generò Fares e Zara da Tamar, Fares generò Esròm, Esròm generò Aram, Aram generò Aminadab, Aminadab generò Naassòn, Naassòn generò Salmòn, Salmòn generò Booz da Racab, Booz generò Obed da Rut, Obed generò Iesse, Iesse generò il re David. David generò Salomone da quella che era stata la moglie di Urìa, Salomone generò Roboamo, Roboamo generò Abìa, Abìa generò Asàf, Asàf generò Giòsafat, Giòsafat generò Ioram, Ioram generò Ozia, Ozia generò Ioatam, Ioatam generò Acaz, Acaz generò Ezechia, Ezechia generò Manasse, Manasse generò Amos, Amos generò Giosia, Giosia generò Ieconia e i suoi fratelli, al tempo della deportazione in Babilonia. Dopo la deportazione in Babilonia, Ieconia generò Salatiel, Salatiel generò Zorobabèle,
La natività di Matteo
Il racconto che si trova all’inizio del Vangelo secondo Matteo, nei primi due capitoli, presenta la
nascita di Gesù ambientandola entro precise coordinate spazio temporali. L’epoca è durante gli
ultimi anni del regno di Erode il Grande (74 a.C. - 4 a.C.), detto Ascalonita, in prossimità della sua
morte. Il luogo è il paese di Betlemme, posto qualche chilometro a sud di Gerusalemme, dove i
genitori abitano. Solo al termine del racconto, quando Erode è morto e la sacra famiglia fa ritorno
dall’Egitto, entra in gioco il villaggio galileo di Nazaret con cui Giuseppe e Maria, in precedenza,
non avrebbero avuto niente a che fare. Non si dimentichi questo particolare, perché vedremo quanto
stridente sia la divergenza con la natività di Luca.
Il contributo peculiare di questo racconto alla tradizione natalizia cristiana è quello relativo
all’adorazione dei Magi e alla loro stella prodigiosa, nonché alla persecuzione di Erode, con le
conseguenze della fuga in Egitto e della presunta strage dei bambini di Betlemme. A dir la verità
l’immagine prevalente della natività, come appare nell’arte e nel folclore del presepe, è derivata in
modo assai più deciso dal racconto lucano, dove la nascita si svolge in una stalla, il bimbo è adorato
dai pastori, ecc…
Il periodo indicato dall’evangelista Matteo corrisponde ad un momento di apparente stabilità
politica della Palestina. Soggiogata ormai da decenni al dominio romano, la nazione degli ebrei
aveva trovato un certo equilibrio sotto la sovranità di Erode, detto il Grande, un re passato alla
notorietà come simbolo di cinica crudeltà, ma anche un genio nell’arte di governare e di conciliare
opposte esigenze. Suo padre Antipatro, non giudeo ma idumeo, nel 47 a.C. fu fatto amministratore
della Giudea dai romani. Antipatro aveva tre figli: Fasael, stratega di Gerusalemme, Giuseppe,
prefetto di Masada, Erode, stratega di Galilea. Di costoro il più ambizioso e capace era
quest’ultimo, il quale si impegnava con energia nella lotta contro i nemici del regime di Roma e del
suo capo, in un primo momento Giulio Cesare, in seguito l’imperatore Ottaviano Augusto.
In effetti, in seno alla società palestinese, l’opposizione politico religiosa era tenace, anche perché
fondata sulle numerose profezie che esaltavano il Messia che avrebbe dovuto liberare il paese dagli
stranieri e ristabilire una giusta monarchia, nella figura di un discendente di David, nonché una
degna classe sacerdotale. Sulle rive nord occidentali del Mar Morto i dissidenti hassidici (esseni)
avevano occupato il sito di Kirbeth Qumran, dove avevano creato una comunità ascetica votata alla
salvaguardia della purezza religiosa, ma anche alla preparazione ai tempi promessi della riscossa
politica. Di loro produzione conosciamo i famosi Rotoli del Mar Morto che furono scoperti da
Zorobabèle generò Abiùd, Abiùd generò Elìacim, Elìacim generò Azor, Azor generò Sadoc, Sadoc generò Achim, Achim generò Eliùd, Eliùd generò Eleàzar, Eleàzar generò Mattan, Mattan generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù chiamato Cristo. La somma di tutte le generazioni, da Abramo a David, è così di quattordici; da David fino alla deportazione in Babilonia è ancora di quattordici; dalla deportazione in Babilonia a Cristo è, infine, di quattordici" (Mt I, 1-17)
alcuni beduini dopo quasi venti secoli di giacenza nelle grotte del suddetto sito. Da questi
documenti oggi sappiamo che i Messia attesi dagli Yahwisti48 erano due: uno, detto di David, la
figura politica, il combattente che avrebbe dovuto guidare la rivolta antiromana e diventare re,
l’altro, detto di Aronne, la figura religiosa, che avrebbe dovuto assumere la carica di sommo
sacerdote. Oltre ad occupare l’insediamento sulle rive del Mar Morto, gli esseni avevano creato una
rete clandestina che coinvolgeva numerosi strati della popolazione palestinese in tutto il paese, e
avevano senza dubbio legami con l’altro importante partito della dissidenza ebraica: gli zeloti.
Questi ultimi si erano manifestati inizialmente nel nord della Palestina, e la fiamma del loro
movimento aveva avuto origine nel territorio del Golan, presso la città di Gamla (o Gamala), situata
8 km a nord est del lago di Tiberiade (Kinnereth). Qui, all’epoca in cui il giovane Erode inseguiva
piani ambiziosi (siamo negli anni 40 a.C.) viveva un autorevole Rabbì (maestro o dottore della
legge) di nome Ezechia. Lo storico ebreo Giuseppe Flavio lo descrive come un capo brigante
(archilestes) che infervorava gli animi del popolo con ideali di liberazione nazional religiosa e
organizzava azioni di guerriglia. All’incirca nel 44 a.C. Erode riuscì a tendere un agguato agli
uomini di Ezechia e ad uccidere il ribelle49. Fu un’azione importante, che valse senza dubbio al
giovane idumeo un credito capace di portarlo a diventare tetrarca della Galilea (nel 42 a.C.) e,
successivamente, re su tutta la Palestina (nel 37 a.C.).
Una volta che ebbe conquistato il potere supremo, una delle caratteristiche principali
dell’atteggiamento psicologico di Erode fu l’ossessione per i complotti nei suoi confronti. Egli
sapeva di non essere giudeo e di non avere le caratteristiche attese per il re degli ebrei. Il suo odio e
il suo timore erano rivolti soprattutto ai membri della dinastia asmonea, ovverosia ai discendenti
degli antichi maccabei che, nel secondo secolo a.C. avevano combattuto contro i seleucidi al potere
in Palestina. Ebbe diverse mogli che gli dettero numerosi figli e figlie50. Non si fece scrupolo,
quando credette di averne motivo, di far assassinare la moglie Mariamme (nel 29 a.C.) e i figli avuti
da lei: Alessandro e Aristobulo (nel 7 a.C.).
48 Col termine Yahwisti si intendano gli ebrei integralisti che pretendevano un’applicazione rigorosa della legge sacra e che non tolleravano una sovranità sul paese diversa da quella del Signore di Israele e del suo legittimo rappresentante terreno: l’unto di Yahweh, il messia della dinastia davidica a cui soltanto spettava di occupare il trono di Gerusalemme. Questi dissidenti cospiravano per la liberazione nazional religiosa, cercando di coinvolgere il popolo a partecipare ad un’autentica ribellione armata, ed erano ispirati da profezie sull’avvento del Salvatore che, nel periodo relativo alla nascita e alla vita di Gesù, era considerata imminente. (NdA) 49 “[Erode] che era energico di natura, trovò subito campo per la sua azione. Catturò infatti Ezechia, un capobrigante che con una grossa banda infestava la regione sul confine della Siria, e lo uccise con molti dei suoi. L’impresa fu accolta col più grande favore dagli abitanti della Siria: nelle città e nei villaggi si inneggiava a Erode come al salvatore della pace e dei beni, e questi divenne noto anche a Sesto Cesare, che era parente del grande Cesare e governava la Siria” (Giuseppe Flavio, La guerra giudaica I, 204-205) 50 “aveva infatti nove mogli, e figli da sette di loro: Antipatro da Doris, Erode da Mariamme, la figlia del sommo sacerdote, Antipa e Archelao da Maltace la samaritana, e da questa la figlia Olimpiade che fu moglie di suo nipote Giuseppe, da Cleopatra di Gerusalemme Erode e Filippo, da Pallade Fasael. Di figlie ne ebbe anche altre: Rossane e Salomè, la prima da Fedra, la seconda da Elpis. Due delle mogli non avevano avuto figli, una sua cugina e una sua nipote. Oltre a queste poi le due sorelle di Alessandro e Aristobulo, nate da Mariamme” (idem, I 562-563)
Erode si prodigò nell’organizzare grandi lavori a beneficio della nazione: innanzitutto riscosse
molte simpatie popolari per il fatto di avere iniziato la ricostruzione del grande tempio di
Gerusalemme. Il precedente, infatti, edificato da Salomone figlio di David, era stato distrutto dai
babilonesi all’epoca della deportazione, quattro secoli prima, e tutti gli ebrei sognavano che la città
santa potesse nuovamente ospitare un tempio sfarzoso. Poi fece costruire l’imponente fortezza di
Masada, presso la riva sud occidentale del Mar Morto, dotata di straordinarie vasche termali e di
splendidi affreschi. Quindi, sulla costa settentrionale del paese, fece costruire la città di Cesarea col
relativo porto, che divenne lo scalo più importante per le navigazioni da e per il mediterraneo
centrale. Qui fu eretto un grande stadio per le manifestazioni sportive.
Erode morì di malattia nel 4 a.C. e lo storico Giuseppe Flavio ci racconta della sua crudeltà nel
lasciare esplicita volontà che, al momento della sua morte, tutte le persone presenti nell’ippodromo
fossero passate a fil di spada51.
Nonostante la celebre malvagità del sovrano, non sembra proprio che il racconto del massacro dei
bambini di Betlemme abbia alcun riscontro storico. Non esiste alcuna testimonianza che faccia
cenno ad una vicenda così efferata e ci sono tutte le ragioni per credere che appartenga alla
leggenda della natività, così come è stata concepita dall’autore del Vangelo secondo Matteo.
Durante il regno di Erode gli ardori dei rivoluzionari Yahwisti non furono certo frenati dalla morte
di Ezechia, che il re stesso aveva fatto uccidere. Anzi, da quell’episodio nacque una questione di
rivalità familiare. Infatti il figlio di Ezechia, Giuda, detto di Gamala, o “il galileo”, raccolse l’eredità
del padre e con altrettanta energia si mise ad organizzare il movimento zelota. Aveva pretese
dinastiche, vantando una dignità regale e, in seguito alla morte di Erode, approfittò del momento di
instabilità politica per organizzare rivolte nell’area della Galilea52. Proprio per questo il movimento
degli zeloti, da lui fondato, fu spesso indicato con l’aggettivo “galilaei” che, pur essendo un
appellativo geografico, assunse le tinte fosche del titolo sovversivo. Altri sinonimi del termine
zeloti in latino furono “latrones” e “sicarii”, mentre in greco venivano usati i termini “zelotai” e
“lestai”.
È possibile che questi ribelli delle regioni settentrionali abbiano avuto contatti con i dissidenti
qumraniani del Mar Morto. Innanzitutto va detto che nell’anno 31 a.C. un terribile terremoto
51 “So che i Giudei faranno festa per la mia morte, ma io ho il modo di farli piangere per altri motivi e ottenere un grandissimo lutto, se voi vorrete eseguire le mie disposizioni. Quando io morirò, fate imediatamente circondare dai soldati e uccidere quelli che stanno rinchiusi [nell’ippodromo], sì che tutta la Giudea e ogni famiglia, anche non volendo, abbiano a piangere per la mia morte” (idem, I, 660) 52 “C'era anche un certo Giuda, figlio di quell'Ezechia che era stato capo dei ribelli; il quale Ezechia era un uomo molto forte, ed era stato catturato da Erode con grande difficoltà. Questo Giuda, avendo riunito insieme una moltitudine di esaltati nei pressi di Sefforis, in Galilea, fece laggiù un assalto all'arsenale e sottrasse tutte le armi che ivi si trovavano, e con esse armò tutti quelli che erano con lui, e prese anche tutto il denaro che era stato lasciato in quel luogo; e divenne un capo terribile, tiranneggiando su tutti quelli che gli erano vicino; e tutto ciò in modo da farsi sempre più potente, per un desiderio ambizioso della dignità regale; e sperava di raggiungere questo obiettivo come
distrusse l’insediamento di Kirbeth Qumran e produsse lo spopolamento del sito. In seguito,
probabilmente, qualcuno si è occupato di ristrutturare gli edifici e di favorire il ripopolamento, e
questo può aver causato una trasformazione della comunità da un carattere più ascetico e monastico
ad uno più nazional religioso e interventista. Non mancano gli studiosi che parlano della presenza di
Giuda il galileo a Kirbeth Qumran, anche se, a mio parere, questo non può essere
inequivocabilmente dimostrato. Certo è che il documento qumraniano noto come “Regola della
guerra dei figli della luce contro i figli delle tenebre” appare come un evidente manifesto zelotico,
nel quale si descrivono le modalità della rivolta che, favorita dallo stesso Padre di Israele, avrebbe
dovuto causare la disfatta delle forze di invasione romane.
Una delle caratteristiche principali della natività secondo Matteo è quella di nominare i Magi che
venivano dall’oriente per l’unica volta in tutto il Nuovo Testamento, esclusi naturalmente i testi
apocrifi. Tutto ciò che è detto nel Nuovo Testamento relativamente ai Magi, ad eccezione degli
scritti apocrifi, è questo breve passo:
“Alcuni Magi giunsero da oriente a Gerusalemme e domandavano: “Dov'è il re dei
Giudei che è nato? Abbiamo visto sorgere la sua stella, e siamo venuti per adorarlo”.
All'udire queste parole, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. Riuniti
tutti i sommi sacerdoti e gli scribi del popolo, s'informava da loro sul luogo in cui
doveva nascere il Messia. Gli risposero: “A Betlemme di Giudea, perché così è scritto
per mezzo del profeta: - E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero il più piccolo
capoluogo di Giuda: da te uscirà infatti un capo che pascerà il mio popolo, Israele53 -.
Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire con esattezza da loro il tempo
in cui era apparsa la stella e li inviò a Betlemme esortandoli: “Andate e informatevi
accuratamente del bambino e, quando l'avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch'io
venga ad adorarlo”. Udite le parole del re, essi partirono. Ed ecco la stella, che
avevano visto nel suo sorgere, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove
si trovava il bambino. Al vedere la stella, essi provarono una grandissima gioia. Entrati
nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, e prostratisi lo adorarono. Poi
aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. Avvertiti poi in
sogno di non tornare da Erode, per un'altra strada fecero ritorno al loro paese.”54.
premio non delle sue qualità virtuose nel combattimento ma della sua originalità nel commettere nefandezze” (Giuseppe Flavio, Antichità Giudaiche X, 5) 53 Vedi Mic V, 1 54 Mt II, 1-12
Si tratta di una presenza molto significativa perché mostra la volontà di legare la nascita di Gesù ad
elementi di spiritualità, non ebraica, ma iranico caldea. I Magi, infatti, erano una casta religiosa
persiana di cui è testimoniata l’esistenza, l’autorità e l’attività da numerose fonti antiche, romane,
greche, arabe, orientali e persino da parte degli scribi del cristianesimo antico55. La fonte ispiratrice
delle loro concezioni era senz’altro la religione avestica (dal titolo del testo Zend Avesta), predicata
da Zarathustra, seguita ancora oggi dai Parsi, soprattutto in area indiana56. Intimamente legata a
questa concezione religiosa iranica è la profezia della “stella”.
Gli studiosi moderni sono abbastanza concordi nel ritenere che Zarathustra (o Zoroastro) sia nato
nel 630 a.C. circa, nella città di Battra (oggi territorio afghano), e sia morto nel 550 a.C. circa, nel
Khorasan (nord est iraniano). L’opera di Zarathustra si sarebbe svolta nella prima metà del VI sec.
a.C., proprio quando una parte importante della società ebraica fu deportata in Babilonia. Egli
predicò in Persia una spiritualità monoteistica all’interno della quale si individua però il dualismo
dovuto alla lotta di due principi contrapposti: il bene e il male. Il primo essendo identificato con la
luce del sole (Ahura Mazda o Ormudz), il secondo con le tenebre (Angra Mainyu o Ahriman). Una
visione che sembra ripresa in modo assai fedele dagli esseni ebrei, ritiratisi a Khirbet Qumran nel
periodo a cavallo delle primitive origini cristiane. Essi infatti si consideravano Figli della Luce,
testimoni del bene (che, nel loro contesto, significava autentici seguaci della legge Mosaica), in
lotta contro i Figli delle Tenebre, testimoni del male (pagani ed ebrei di fede e osservanza
discutibili).
La predicazione di Zarathustra comprendeva l’idea che un giorno il conflitto fra le forze del bene e
quelle del male si sarebbe concluso definitivamente a favore delle prime, in corrispondenza con la
venuta di un Salvatore (Saoshyant), figlio di una vergine. È possibile che, durante il periodo
trascorso in esilio in Babilonia, gli ebrei abbiano assimilato parte di queste concezioni, e le abbiano
55 “…dal VI sec. A.C. fino, addirittura, al VII d.C. ed oltre (se non si considerano le regioni circonvicine che non furono subito invase dalla conquista araba), il peso dei Magi sulla vita politica, sociale e religiosa dell’area iranica e di alcune regioni a cultura parzialmente iranizzata fu davvero grande. Le fonti dell’epoca convergono, tutte, sulla loro importanza. Come casta o classe sacerdotale essi si proclamarono seguaci della dottrina di Zarathustra, ossia di Zoroastro…” (Bussagli, Chiappori, I Re Magi, Rusconi, Milano, 1985. Pag. 26) 56 “Secondo Erodoto, i magoi erano una sorta di società segreta persiana, in cui la pratica religiosa si amalgamava a quella divinatoria. Per Seofonte erano ‘esperti in tutto ciò che concerne gli dei’. Il termine greco magheia e il latino magia indicavano le pratiche rituali caldee, spesso in opposizione al culto imperiale e dogmatico. In genere, come noto, magheia (dono) era collegato alla scienza dei Magi persiani, propagatori della dottrina di Zarathistra, a cui il concetto di magia è rimasto indissolubilmente legato per tutta l’antichità e il Medioevo. Secondo l’Enciclopedia cattolica, ‘il nome deriva dai Magi (magoi) che erano una delle sei tribù del popolo dei medi, i cui membri, forse appartenenti alla classe sacerdotale, dovettero osteggiare Zarathustra nella sua opera di riforma dell’antica religione del paese’. Anche l’identificazione della patria dei Magi risulta un’operazione alquanto complessa: in genere ricorrono l’Arabia e Babilonia, ma tra gli autori del passato (Clemente Alessandrino, Origene, Diodoro di Tarso, Crisostomo) era diffusa l’opinione che i Magi provenissero dalla Persia. A confortare queste tesi contribuiva l’attesa, negli ambienti di cultura persiana, della nascita di un ‘soccorritore’ (saushyant), concepito da una vergine in un lago dove si credeva fosse conservato il seme di Zarathustra (kayanseh)” M. Centini, La vera storia dei Re Magi, Piemme, Casale Monf. (AL), 1997
poi incluse nella loro fede, specialmente per quanto riguarda la parte escatologica, ovverosia
relativa all’idea messianica della salvezza.
Ora, poiché la nascita di Zarathustra era stata preceduta da una rara combinazione planetaria,
ovverosia dalla congiunzione di Giove e Saturno nella costellazione dei Pesci (VII sec. a.C.), la
profezia iranica della stella consisteva proprio in questo fatto: allorché tale congiunzione si fosse
ripetuta sarebbe comparso il successore di Zarathustra, a realizzare la vittoria definitiva del bene sul
male. Ebbene, questo evento astronomico ebbe a verificarsi ben tre volte nel 7 a.C., quando in
Palestina regnava Erode il Grande, e non mancò certo di essere osservato da tutti coloro che
scrutavano il cielo interrogandolo sui destini del mondo. Questo è senz’altro il “segno della stella”,
del quale si è voluto vedere il riferimento ad alcune profezie, come quella detta di Balaam:
“Io lo vedo, ma non ora, io lo contemplo, ma non da vicino: Una stella spunta da
Giacobbe e uno scettro sorge da Israele, spezza le tempie di Moab e il cranio dei figli di
Set, Edom diverrà sua conquista e diverrà sua conquista Seir, suo nemico, mentre
Israele compirà prodezze. Uno di Giacobbe dominerà i suoi nemici e farà perire gli
scampati da Ar”57.
Il redattore della natività di Matteo ha inserito l’episodio dei Magi e della stella nel desiderio di
arricchire la figura di Gesù col maggior numero possibile di autorevoli richiami messianici, non
certo per dovere di cronaca storica, e lo possiamo affermare con una certa attendibilità anche
perché, come vedremo in un capitolo successivo, la natività di Luca ignora nel modo più assoluto
tutto ciò, escludendo dal suo racconto i Magi, la stella, la persecuzione di Erode, la fuga in Egitto e
la strage dei bambini di Betlemme. Ciò nonostante l’episodio ha una sua importanza significativa
proprio perché mostra le motivazioni e i riferimenti da cui erano mossi gli autori del Nuovo
Testamento, legati in qualche modo alle idee dell’antica religiosità iranica.
Dobbiamo senz’altro notare che, nel brano di Matteo, non esiste un’indicazione sul numero dei
Magi. Il testo, a questo proposito, dice semplicemente “alcuni”. Al contrario, la tradizione dà per
scontato che i Magi fossero tre, forse per corrispondenza con i famosi doni, oro, incenso e mirra, e
si spinge fino a identificarne i nomi: Gaspare, re dell’India, Melchiorre, re dei Persiani, e
Baldassarre, re degli Arabi, dalla pelle scura. In realtà esistono altre tradizioni, espresse per esempio
nella Cronaca di Zuqnin (Codice Vaticano siriaco 192) e nel Libro dell’Ape di Salomone di
Bassora58, secondo le quali i magi erano dodici, come le costellazioni zodiacali e come gli apostoli.
57 Num XXIV, 17 58 Bussagli, Chiappori, I Re Magi, Rusconi, Milano, 1985. Pagg.64-65
La natività secondo Matteo offre alcune indicazioni relative al periodo in cui sarebbe nato Gesù,
infatti il breve racconto, dalla gravidanza di Maria al ritorno della sacra famiglia dall’esilio in
Egitto, si svolge a cavallo della morte di Erode, che sarebbe avvenuta nel 4 a.C. secondo la
maggioranza degli storici. In particolare, poiché lo storico Giuseppe Flavio (Joseph ben Matthias,
Gerusalemme 37 d.C. ca. - Roma 100 d.C. ca.) ha scritto che nel giorno della morte di Erode si
sarebbe osservata un’eclisse lunare, questo fatto indica la data del 13 marzo di quell’anno. Se però
ci domandiamo quanto prima della scomparsa del monarca sarebbe nato Gesù, la natività secondo
Matteo offre in supporto un altro elemento: la famosa stella che avrebbe guidato i Magi fino
all’abitazione di Giuseppe e Maria, nel villaggio di Betlemme.
Personalmente sono incline ad interpretare il racconto relativo alla visita dei Magi come un inserto
del tutto leggendario ma, non potendo vantare certezze, credo sia opportuno prendere in
considerazione le indagini effettuate a questo proposito e osservare a quali conclusioni possono
condurre. Senz’altro, la migliore corrispondenza tra il racconto della stella e un fatto di comprovata
autenticità si ha con la combinazione planetaria di cui abbiamo già parlato, la congiunzione di
Giove e Saturno nella costellazione dei Pesci. Accettando questo collegamento, la nascita di Gesù
verrebbe a situarsi nel periodo compreso fra il 7 e il 4 a.C., che nel computo latino è il periodo
compreso fra il 747 e il 750 ab urbe condita, cioè dalla fondazione di Roma. E se, come la
narrazione evangelica sembra voler mostrare, la stella era presente e visibile sulla culla del neonato
Gesù, costui allora sarebbe nato proprio nel 7 a.C., un triennio prima che Erode morisse.
Ma, allora, perché il nostro calendario, che in linea di principio pretende di avere come punto di
riferimento la nascita di Cristo, parte con un ritardo di alcuni anni? La risposta deve tenere conto del
fatto che l’occidente cristiano segue attualmente il calendario gregoriano, introdotto nel 1582 da
Papa Gregorio XIII, che inizia a contare gli anni dalla nascita di Gesù. La posticipazione di tale
evento deriva da un errore commesso dal monaco sciita Dionigi il Piccolo (Dionysius Exiguus),
vissuto a Roma fra il V e il VI secolo. Infatti costui, nel 1527, propose di contare gli anni ab
incarnatione Domini nostri Jesu Christi e, nel tentativo di stabilire quando ciò sarebbe avvenuto,
giunse alla conclusione errata che l’anno 1 della nuova era doveva essere identificato con l’anno
754 dalla fondazione di Roma. Questa convinzione fu accettata alcuni anni dopo, nel 1534, dal papa
Giovanni II e, in tal modo, il monaco sciita ebbe l’onore di fornire alla civiltà cristiana, per i secoli a
venire, il punto di inizio per il computo delle date. Il quale, secondo i riferimenti storici emergenti
dalla natività di Matteo, risulterebbe così posticipato da un minimo di 4 ad un massimo di 7 anni.
Anche se, pensandoci seriamente, queste argomentazioni partono dal presupposto che i capitoli I e
II del Vangelo secondo Matteo possiedano un attendibile valore storico, il che è del tutto discutibile.
Un altro importante elemento aggiunto dalla natività di Matteo riguarda il concetto della nascita
verginale. C’è un passo in cui leggiamo:
“Tutto questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo
del profeta: Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio che sarà chiamato
Emmanuele, che significa Dio con noi”59.
Evidentemente l’evangelista ha voluto collegare la nascita di Gesù con una profezia di Isaia, ma lo
ha fatto in modo abbastanza inopportuno. Il passo in questione è tradotto comunemente come
segue:
“Pertanto il Signore stesso vi darà un segno. Ecco: la vergine concepirà e partorirà un
figlio, che chiamerà Emmanuele. Egli mangerà panna e miele finché non imparerà a
rigettare il male e a scegliere il bene”60.
In realtà, là dove noi oggi leggiamo vergine, il testo originale ebraico non usa la parola betulah (che
indica appunto la condizione fisica della verginità), ma almah, che sta per giovane donna in età da
marito. È la traduzione greca, cosiddetta "dei settanta", risalente ai secoli terzo o secondo a.C., che
utilizza impropriamente il termine greco parthenos, cioè vergine, dando adito ad un malinteso.
Inoltre il passo di Isaia non voleva riferirsi alla venuta di un messia liberatore all’epoca della
dominazione romana, bensì ad una situazione simile ma precedente di alcuni secoli, cioè alla
sottomissione degli ebrei al dominio assiro. Questo fatto ci fornisce un’indicazione per pensare che
la natività attribuita a Matteo sia nata originariamente in greco e che il suo autore, un gentile, abbia
fatto riferimento non alle scritture ebraiche, ma alla loro versione greca.
Si faccia caso ad una questione molto importante: nell’unico testo evangelico sicuramente
precedente a quello di Matteo, fra i quattro cosiddetti canonici, ovverosia nel Vangelo secondo
Marco, non è contenuto il benché minimo riferimento al fatto che Maria avrebbe concepito vergine.
Al contrario, viene detto in modo chiaro che Gesù aveva fratelli e sorelle:
“Giunsero sua madre e i suoi fratelli e, stando fuori, lo mandarono a chiamare. Tutto
attorno era seduta la folla e gli dissero: “Ecco tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle
sono fuori e ti cercano”. Ma egli rispose loro: “Chi è mia madre e chi sono i miei
fratelli?”. Girando lo sguardo su quelli che gli stavano seduti attorno, disse: “Ecco
59 Mt I, 22-23 60 Is VII, 14-15
mia madre e i miei fratelli! Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella
e madre”.”61.
“Non è costui il carpentiere, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di
Giuda e di Simone? E le sue sorelle non stanno qui da noi?”. E si scandalizzavano di
lui.”62.
Nel testo greco è utilizzato il termine adelfos, che indica i fratelli di sangue, e si distingue
esplicitamente dal termine anepsios, che significa cugino. In pratica, se ci basassimo
esclusivamente sul testo di Marco, che senz’altro è stato la base per i redattori degli altri
Vangeli, non solo non avremmo alcun elemento per credere nella verginità di Maria, ma non
conosceremmo nemmeno il nome del padre di Gesù: Giuseppe.
Molto similmente dicasi per l’altro testo evangelico che non contiene alcun racconto relativo
alla natività, quello secondo Giovanni. In esso la madre di Gesù è rappresentata come una
madre di famiglia, il cui marito si chiama Giuseppe. Oltre a Gesù ci sono altri fratelli. Indicati in
modo distinto dai discepoli, ad evitare così il frainteso che il termine potesse essere usato per
indicare genericamente i “confratelli”.
“Dopo questo fatto, discese a Cafàrnao insieme con sua madre, i fratelli e i suoi
discepoli e si fermarono colà solo pochi giorni.”63;
“Si avvicinava intanto la festa dei Giudei, detta delle Capanne; i suoi fratelli gli dissero:
“Parti di qui e va nella Giudea perché anche i tuoi discepoli vedano le opere che tu fai.
Nessuno infatti agisce di nascosto, se vuole venire riconosciuto pubblicamente. Se fai
tali cose, manifestati al mondo!”. Neppure i suoi fratelli infatti credevano in lui.”64.
“Ma andati i suoi fratelli alla festa, allora vi andò anche lui; non apertamente però: di
nascosto.”65.
Come possiamo non notare che l’immagine della madre di Gesù, anche in tutti gli altri scritti del
Nuovo Testamento, è quella di una donna normale, estranea al presupposto della verginità?
61 Mc III, 31-35 62 Mc VI, 3 63 Gv II, 12 64 Gv VII, 2-5 65 Gv VI, 10
Addirittura nelle numerose lettere di Paolo la Madonna non esiste, e negli Atti degli Apostoli,
nell’unica citazione in cui appare, figura come una buona madre di famiglia con numerosi figli:
“Tutti questi erano assidui e concordi nella preghiera, insieme con alcune donne e con
Maria, la madre di Gesù e con i fratelli di lui.”66.
Dunque la verginità di Maria si può dedurre soltanto dalle due natività inserite nei Vangeli secondo
Matteo e Luca ma, a voler analizzare la questione in modo accurato, dobbiamo riconoscere che i
due testi mostrano una certa scollatura tra le loro rispettive parte iniziali, riguardanti l’infanzia di
Cristo, e le parti successive che, come i testi di Marco e Giovanni, iniziano col battesimo sul
Giordano, quando Gesù è adulto. Per comodità chiamiamo queste seconde parti “ministeri della vita
pubblica”. Sebbene le due natività, come vedremo, siano racconti del tutto diversi e inconciliabili,
in esse Maria è una protagonista di spicco, mentre nei due ministeri della vita pubblica
improvvisamente diventa evanescente, quasi una comparsa. E, soprattutto, scende dalla cornice
idealizzata e spiritualizzata che la distingue, con tanto di verginità, e acquista caratteri di totale
normalità, in quanto donna e madre, come negli altri Vangeli. Nel ministero di Matteo compare due
volte, ed ha diversi figli e figlie:
“Mentre egli parlava ancora alla folla, sua madre e i suoi fratelli, stando fuori in
disparte, cercavano di parlargli. Qualcuno gli disse: “Ecco di fuori tua madre e i tuoi
fratelli che vogliono parlarti”. Ed egli, rispondendo a chi lo informava, disse: “Chi è
mia madre e chi sono i miei fratelli?”. Poi stendendo la mano verso i suoi discepoli
disse: “Ecco mia madre ed ecco i miei fratelli; perché chiunque fa la volontà del Padre
mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre”.”67;
“Non è egli forse il figlio del carpentiere? Sua madre non si chiama Maria e i suoi
fratelli Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle non sono tutte fra noi? Da
dove gli vengono dunque tutte queste cose?”.”68.
Nel ministero di Luca, Maria compare una volta sola, in un passo in cui, si faccia ben attenzione,
non ha neanche un nome, ma ha figli:
66 At I, 14 67 Mt XII, 46-50 68 Mt XIII, 55-56
“Un giorno andarono a trovarlo la madre e i fratelli, ma non potevano avvicinarlo a
causa della folla. Gli fu annunziato: “Tua madre e i tuoi fratelli sono qui fuori e
desiderano vederti”. Ma egli rispose: “Mia madre e miei fratelli sono coloro che
ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica”.”69.
Dobbiamo onestamente notare la coerenza dei “ministeri della vita pubblica” di tutti e quattro i
Vangeli, e del resto della letteratura neotestamentaria in generale, nel presentare Maria come donna
e madre normale, dalle presenze fugaci, con numerosi figli e figlie. O nel non presentarla affatto, in
disaccordo con le due natività, a loro volta del tutto scollegate l’una dall’altra. Dobbiamo
riconoscere che, se invece dei Vangeli si fosse trattato di scritti appartenenti a religioni
extracristiane, sarebbe stato praticamente automatico, per uno studioso occidentale, parlare di
“inserimenti leggendari successivi di carattere apologetico…”.
La mia convinzione, anche se con questa espressione non voglio riferirmi ad una certezza, ma solo
all’ipotesi a cui attribuisco il maggior carattere di verosimiglianza, è che gli autori delle due
natività, assolutamente ignari l’uno dell’altro, abbiano inventato due racconti molto diversi e
contrastanti, nei quali però si possono individuare elementi di interesse comune. Il primo è che
Gesù sarebbe nato a Betlemme, città nella quale avrebbe dovuto compiersi la profezia relativa
all’atteso messia. Il secondo è che il suo sangue sarebbe appartenuto alla stirpe dell’antico re
Davide. Il terzo è che sarebbe stato concepito per opera dello Spirito Santo nel grembo vergine di
Maria. Il quarto è che sarebbe cresciuto a Nazaret, fino all’età adulta. Quattro concetti comuni. Ma
quanto incompatibili le loro attuazioni dal punto di vista narrativo! Sui piani geografico,
cronologico, genealogico e nella concatenazione globale dei fatti.
Per quanto riguarda il presupposto della nascita verginale, i cristiani di oggi sembrano dimenticare
del tutto che questa caratteristica apparteneva già, nel tempo e nello spazio, ad una ricca serie di
tradizioni religiose precedenti a quella di Gesù. In oriente, per esempio, troviamo in tal senso due
illustri precursori: Krishna e Buddha. Tutti e due annunciati, e generati da una vergine. Per non
parlare poi degli dei egiziani, ellenistici e medio orientali.
Ciò non di meno la somiglianza più impressionante è quella fra la Madonna e Iside, non solo nelle
caratteristiche teologiche – entrambe sono madri vergini di un’incarnazione divina, che muore e
resuscita – ma persino nell’aspetto iconografico, talmente coincidente da generare confusione, come
in effetti è capitato nel passato quando alcuni cristiani adoravano l’immagine di Iside pensando che
si trattasse di Maria.
C’è un passo, della natività di Matteo, di cui dobbiamo analizzare la traduzione che possiamo
leggere nelle moderne versioni, le quali così recitano:
69 Lc VIII, 19-21
“e (Giuseppe) prese con sé la sua sposa, la quale, senza che egli la conoscesse, partorì
un figlio, che egli chiamò Gesù”70,
“e (Giuseppe) prese la sua moglie con sé. E senza che l’abbia conosciuta, diede alla
luce un figlio, e lo chiamò Gesù”71.
Ma se leggiamo i testi latino e greco, troviamo ben altre parole, come:
“Et non cognoscebat eam donec peperit filium suum primogenitum: et vocavit nomen
eius Iesum”72,
la cui traduzione corretta è:
“E (Giuseppe) non la conobbe finché ella non ebbe partorito il suo figlio primogenito, e
gli dette nome Gesù”73.
L’espressione “non la conobbe” significa, com’è uso nella letteratura biblica, “non ebbe con lei
rapporto carnale”, ma l’elemento importante è costituito da quel “finché” che sembra voler limitare
la mancanza del rapporto coniugale alla semplice generazione di Gesù e non di eventuali altri figli,
come potrebbe essere avvalorato dal termine esplicito “primogenito” (ben presente anche nella
versione greca: “prototokon”). I traduttori hanno letteralmente eliminato quella parola
compromettente che, insieme alla successive citazioni di fratelli e sorelle, con tanto di nomi,
contribuisce a rendere sempre più verosimile l’idea che Giuseppe e Maria abbiano avuto più di un
figlio.
Il racconto della fuga in Egitto è un’altra delle peculiarità della natività di Matteo, così come il
drammatico episodio ad esso collegato: l’eliminazione fisica di tutti i bambini di Betlemme, dai due
anni in giù:
“Essi erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe
e gli disse: “Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto, e resta là
finché non ti avvertirò, perché Erode sta cercando il bambino per ucciderlo”. Giuseppe,
70 Vangelo e Atti degli Apostoli, versione ufficiale della CEI, Ed. Paoline, Roma, 1982. 71 La Sacra Bibbia, traduzione dai testi originali, Ed. Paoline, Roma, 1964. 72 Novum Testamentum Graece et Latine, Ist. Bibl. Pontificio, Roma, 1933; Mt I, 25. 73 Mt I, 25.
destatosi, prese con sé il bambino e sua madre nella notte e fuggì in Egitto, dove rimase
fino alla morte di Erode…”74;
“Erode, accortosi che i Magi si erano presi gioco di lui, s'infuriò e mandò ad uccidere
tutti i bambini di Betlemme e del suo territorio dai due anni in giù, corrispondenti al
tempo su cui era stato informato dai Magi…”75.
Nessun altro cenno a fatti di questo genere esiste in tutto il Nuovo Testamento e, soprattutto, non
esiste, storicamente, alcun riferimento ad un gesto così efferato da parte di Erode il grande, sebbene
Giuseppe Flavio si sia dilungato spesso, nelle sue opere, nel descrivere minuziosamente le
molteplici crudeltà del monarca.
Un’ipotesi, destinata senz’altro a rimanere tale, può essere avanzata. Ovverosia quella che la fuga di
Giuseppe, Maria e il fanciullo, riflettano nella realtà una questione analoga, con personaggi
omonimi ma completamente diversi. Mi riferisco al fatto che molte tradizioni sostengono la
condizione matrimoniale di Gesù, il quale, come discendente della stirpe regale di Davide e
aspirante al trono di Israele, sarebbe stato sposato con Maria Maddalena e che costei, gravida di un
figlio di Gesù stesso, e aiutata da un illustre personaggio del sinedrio, all’indomani dell’esecuzione
del marito si sarebbe rifugiata in Egitto, per sfuggire alla persecuzione di cui sarebbe stata
certamente vittima da parte delle autorità di Gerusalemme. La fuga in Egitto, pertanto riguarderebbe
Giuseppe di Arimatea, Maria di Magdala e l’erede ancora da partorire. Di sicuro non possiamo
affermare niente. Tranne che la redazione della natività di Matteo è stata ispirata quasi
esclusivamente da esigenze catechistiche ed apologetiche, piuttosto che da spirito di cronaca.
Ovviamente non possiamo dimenticare che, molti secoli prima, in India, si era scritto del neonato
Krishna, figlio della vergine Devaki e incarnazione del dio Vishnu, che era stato ricercato dal re
Kansa, il quale voleva ucciderlo, e che dovette rifugiarsi fra i pastori per sfuggire alla persecuzione.
Un altro dettaglio di grande importanza del racconto di Matteo, lo abbiamo quando viene detto che
la sacra famiglia, di ritorno dall’Egitto in seguito alla morte di Erode, non si sarebbe fermata a
Betlemme, città in cui risiedeva prima della fuga, ma avrebbe continuato verso il nord della
Palestina, andando a stabilirsi nella città di Nazaret. Tutto questo per paura di Archelao, figlio di
Erode il Grande, che avrebbe potuto perpetuare l’intento persecutorio del padre. Teniamo presente
che, secondo Matteo, solo a questo punto la città di Nazaret sarebbe entrata nello scenario della vita
di Gesù, Giuseppe e Maria:
74 Mt II, 13-15 75 Mt II, 16.
“Morto Erode, un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe in Egitto e gli disse:
“Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e va nel paese d'Israele; perché sono
morti coloro che insidiavano la vita del bambino”. Egli, alzatosi, prese con sé il
bambino e sua madre, ed entrò nel paese d'Israele. Avendo però saputo che era re della
Giudea Archelào al posto di suo padre Erode, ebbe paura di andarvi. Avvertito poi in
sogno, si ritirò nelle regioni della Galilea e, appena giunto, andò ad abitare in una città
chiamata Nazaret…”76.
Possiamo osservare che il nord della Palestina era governato da un alto figlio di Erode il grande,
cioè da Erode Antipa, e che anche questo erede avrebbe potuto, in linea di principio, perpetuare lo
stesso intento persecutorio paterno.
Addirittura il redattore ha sentito ancora una volta la necessità di illustrare il trasferimento nel nord
come compimento di una profezia biblica:
“…perché si adempisse ciò che era stato detto dai profeti: “Sarà chiamato Nazareno”
(Nazoraios nel testo greco)”77.
Ora, ciò che dobbiamo sottolineare è costituito dal fatto che non esiste in tutto il Vecchio
Testamento alcuna profezia in cui si annunci che qualcuno sarà chiamato nazareno, con riferimento
ad una città di nome Nazaret. Nella Bibbia esistono passi, come questo, riferito a Sansone:
“...poiché concepirai e darai alla luce un figlio, sul capo del quale non passerà il rasoio.
Egli sarà Nazireo, fin dalla nascita...”78,
in cui si fa riferimento al cosiddetto nazireato, che è una condizione di purezza religiosa,
temporanea o perenne, a seguito della quale una persona assume determinati voti e li rispetta con
grande impegno. Tuttavia nessun esegeta ha mai preso in considerazione questo passo come
possibile riferimento alla profezia di cui parla Matteo. Anche perché sarebbe stato come ammettere
che l’aggettivo nazareno (nazoraios) non si riferisce alla città di Nazaret, ma al voto di nazireato.
Invece, una spiegazione che è stata tentata dai teologi si richiama al seguente passo di Isaia:
“Un virgulto sorgerà dal tronco di Jesse e un pollone verrà su dalle sue radici”79.
76 Mt II, 19-23. 77 Mt II, 23. 78 Gdc XIII, 5 79 Is XI, 1
Isaia intendeva dire che il futuro liberatore di Israele sarebbe stato un discendente di Davide,
ovverosia un ramo di Jesse (Jesse è, appunto, il padre del grande re Davide). Ebbene, in ebraico la
parola ramo si dice netzer, la cui radice consonantica, NZR, è simile a quella di Nazaret.
L’espediente escogitato nello sforzo di trovare una spiegazione impossibile è fin troppo palese.
Innanzitutto perché Isaia non si riferiva a Gesù e alla sottomissione di Israele al dominio romano,
ma, come al solito, a quello assiro, risalente a molti secoli prima. E poi perché Isaia non intendeva
neanche lontanamente affermare che il liberatore sarebbe venuto dalla città di Nazaret. Ai tempi di
Isaia la città di Nazaret non esisteva e, forse, non esisteva nemmeno ai tempi di Gesù.
Noi possiamo osservare che sia il redattore della natività attribuita a Matteo, sia i successivi
interpreti, hanno effettuato operazioni nelle quali si denuncia l’esistenza di un preciso intento
censorio: il senso originario della parola nazareno non doveva essere riconosciuto.
Questo aggettivo, che nei testi evangelici redatti in greco antico suona nazoraios o nazarenos, nella
tradizione cristiana ha assunto un significato che lo lega indissolubilmente alla città di Nazaret. In
pratica nazareno significa automaticamente “cittadino di Nazaret”. Niente di più inesatto!
Innumerevoli documenti e autori, da molto tempo, lo hanno inequivocabilmente riconosciuto: laici,
ebrei, cristiani, e persino gli stessi cattolici. Riccardo Calimani, nella sua opera ‘Gesù Ebreo’,
afferma:
“Appare difficile, invece, spiegare in modo univoco e convincente l’appellativo
Nazareno. A una prima analisi non sembra che possano sorgere dubbi: nei Vangeli
esistono numerosi passi che collegano intuitivamente Nazareno alla città di Nazareth e
oggi Nazareth è effettivamente una cittadina della Galilea, ma nessun testo pagano o
giudaico fa menzione di Nazareth: questo nome non compare né nella Bibbia, né nella
vasta letteratura talmudica, né nelle opere dettagliate di Giuseppe Flavio; solo Eusebio
ne parla citando Giulio Africano (tra il 170 e il 240), buon conoscitore dei luoghi. Le
perplessità tuttavia restano e sono alimentate dalla difficoltà di collegare nella lingua
aramaica Nazareno, Nazoreo, Nazoreno, tre forme considerate nei Vangeli
intercambiabili, con Nazareth. Qualche studioso ha suggerito che l’originale significato
aramaico dell’attributo Nazareno, di difficile comprensione per seguaci cristiani
ellenizzanti, sia andato perduto e sostituito con una più semplice e immediata
indicazione geografica. Considerazioni linguistiche e filologiche hanno spinto all’ipotesi
che Nazareno potesse voler dire Santo di Dio, anche alla luce del fatto che i fedeli di
Gesù, che continuarono nella terra d’origine a chiamarsi nazareni, in terra greca
inizialmente furono chiamati i santi e solo successivamente prevalse il nome cristiani
dato loro dai pagani di Antiochia. Nazarenos e Nazoraios sono dunque forse nomi legati
a una radice linguistica ebraica natzìr (in aramaico natzirà) che li collegava ai nazirei
“separati” o i “consacrati”, un gruppo che aveva fatto a Dio uno speciale voto di
consacrazione e che costituiva una setta a sé stante che faceva voto di astinenza e di
castità e non si tagliava i capelli. In quesi tempi il nazireato, di origine molto antica (ne
parla il profeta Amos), era considerato la coscienza viva di Israele: Samuele e Sansone
erano stati esempi ammirati di questa particolare scelta di vita… Anche l’individuazione
precisa del luogo di nascita di Gesù è un problema arduo che non trova la sua soluzione
neanche dopo un’attenta analisi delle narrazioni dei Vangeli”80.
Già nel diciannovesimo secolo scriveva il sacerdote Alfred Loisy (Francia, 1857/1940, professore di
ebraico e di sacra scrittura dell'Istituto Cattolico di Parigi, successivamente rimosso dall'incarico):
"La stessa tradizione ha fissato il domicilio della famiglia di Gesù a Nazareth allo scopo
di spiegare così il soprannome di Nazoreo, originariamente unito al nome di Gesù e che
rimase il nome dei cristiani nella letteratura rabbinica e nei paesi d'oriente. Nazoreo è
certamente un nome di setta, senza rapporto con la città di Nazareth..."81.
Ma anche un vangelo gnostico del II secolo dopo Cristo, interpreta il termine nazareno in senso
completamente diverso da quello a cui siamo abituati oggi:
"Gli apostoli che sono stati prima di noi l'hanno chiamato così: Gesù Nazareno Cristo...
‘Nazara’ è la ‘Verità’. Perciò ‘Nazareno’ è ‘Quello della verità’..."82.
E quanti altri studiosi si sono espressi similmente: Elia Benamozegh (Italia, 1823-1900)83, Charles
Guignebert (Francia, 1867/1939) 84 , Ambrogio Donini (Italia, 1903-1991) 85 , Marcello Craveri
80 Riccardo Calimani, Gesù Ebreo, Rusconi, Milano, 1990. 81 A.Loisy, La Naissance du Christianisme 82 Vangelo di Filippo, capoverso 47. 83 "Neppure è improbabile che i primi cristiani siano stati detti Nazareni nel senso di Nazirei, piuttosto che in quello di originari della città di Nazareth, etimologia davvero poco credibile e che probabilmente ha sostituito la prima solo quando l'antica origine dall'essenato cominciava ad essere dimenticata" (Elia Benamozegh, filosofo ebreo membro del collegio rabbinico di Livorno, Gli Esseni e la Cabbala, 1979). 84 "La piccola città che porta questo nome [Nazareth], dove ingenui pellegrini possono visitare l'officina di Giuseppe, fu identificata come la città di Cristo solamente nel medio evo..." (Charles Guignebert, professore di Storia del Cristianesimo presso l'Università Sorbona di Parigi, Manuel d'Histoire Ancienne du Christianisme). 85 "In realtà, per quel che riguarda Nazareth, gli storici non hanno potuto trovar traccia di una città di quel nome sino al IV secolo d.C.; secondo le fonti ebraiche, bisogna scendere addirittura sino al secolo IX. Nei Vangeli non troviamo mai l'espressione Gesù di Nazareth ma soltanto Gesù il Nazoreo, talvolta scritto anche Nazoreno o Nazareno... ora, nessuno di questi appellativi, per quanto si sia cercato di forzarne l'etimologia, può farsi risalire ad un nome come Nazareth... è da questi termini che è derivato il nome della città di Nazareth, e non viceversa" (Ambrogio Donini,
(Italia, vivente)86, E.B.Szekely (Ungheria)87, R.H.Eiseman (California, USA, vivente)88, Daniel
Gershenson (Israele, vivente)89.
Non ci possiamo esimere dal ricordare che molti padri della Chiesa, nelle loro opere finalizzate alla
confutazione delle cosiddette eresie, hanno citato alcuni vangeli che oggi non possiamo consultare,
per la semplice ragione che sono stati fatti sparire ormai da tempo immemorabile, e che fra questi è
da annoverare un testo chiamato “Vangelo dei Nazareni”. Ce ne sono poi altri chiamati “Vangelo
degli Ebioniti” e “Vangelo degli Ebrei”. Si tratta di scritti definiti giudeo cristiani, ovverosia di
seguaci di Gesù che si consideravano pienamente ebrei e che non avevano mai preso in
considerazione l’idea che la loro fede si configurasse come una religione distinta dall’ebraismo. Da
parte di alcuni studiosi è stato proposto che i tre testi fossero in realtà uno solo, redatto in lingua
semitica, o comunque diverse stesure di una medesima fonte. Su questo mancano oggettivamente
elementi per assumere delle certezze.
San Gerolamo (347-420 d.C.), padre della chiesa, scrisse:
“Nel Vangelo usato dai nazareni ed ebioniti, che recentemente ho tradotto dalla lingua
ebraica in greco e che da molti è detto l’autentico (vangelo) di Matteo…”90.
accademico, specializzatosi in ebraico e siriaco presso la Harvard University, USA, è stato docente universitario in Italia, Breve Storia delle religioni, 1959). 86 "El-Nasirah è un villaggio della Galilea, posto a circa quattrocento metri di altezza, nel quale la tradizione cristiana riconosce l'antica Nazareth, patria di Gesù. Secondo vari studiosi, tuttavia, Nazareth - meglio Natzrath o Notzereth - non è mai esistita e l'appellativo Nazareno che accompagna il nome di Gesù negli scritti neotestamentari non indica affatto il suo paese di origine..." (M. Craveri, autore di saggi sulla storia delle cristianesimo, tradotti in diverse lingue e pubblicati in Italia e all'estero, nonché curatore di una raccolta di scritti apocrifi, La Vita di Gesù, 1974). 87 "Le forme Nazoraios, Nazarenos, Nazaraeus, Nazarene, provano tutte che gli scribi ecclesiastici conoscevano l'origine della parola ed erano ben consapevoli che non era derivata da Nazareth... Il nome storico e la posizione geografica della città natale di Cristo è Gamala... questa è la patria del Nazoreo... la montagna di Gamala è la 'montagna' dell'evangelista Luca, la 'montagna' di tutti i Vangeli, che ne parlano incessantemente, senza nemmeno nominarla..." (E.B.Szekely, teologo ungherese che ha frequentato gli studi presso il Vaticano, The Essene Origins of Christianity, IBS, USA, 1980). 88 "É stato Matteo per primo a generare l'equivoco secondo cui l'espressione 'Gesù il Nazoreo' dovesse avere qualche relazione con Nazareth, citando la profezia "sarà chiamato Nazareno (Nazoraios)" che, a conclusione del suo racconto sulla natività, egli associa col passo "ritirandosi in Galilea e andando a vivere in una città chiamata Nazareth". Questa non può essere la derivazione del termine, poiché anche in greco le ortografie di Nazareth e nazoreo differiscono sostanzialmente" (R.H.Eisenman, professore di religioni medio orientali e di archeologia, nonché direttore dell'Istituto per lo studio delle origini giudeo-cristiane alla California State University di Long Beach, James the Brother of Jesus, Penguin Books, 1997) 89 "Io penso veramente che i cristiani non possano affermare che l'espressione 'Gesù Nazareno' significhi 'Gesù cittadino di Nazareth', nello stesso modo in cui l'espressione 'Leonardo da Vinci' significa 'Leonardo cittadino di Vinci'. La forma ebraica per Nazareth è NZRT, che è tarda ed è stata indicata come Nazrat o Nazeret, invece la forma greca 'Iesous o Nazoraios' deriva dall'aramaico Nazorai... la radice NZR (senza T) capita nella traduzione aramaica di Isaia 26:2, nella quale la parola 'emunim' (=fede) deriva dalla radice 'emeth' (=verità), in questo modo risulta chiaro perché nel Vangelo di Filippo si poté dire che 'Nazareno' significa 'della verità'..." (Daniel E. Gershenson, archeologo, docente e ricercatore presso il Dipartimento di Studi Classici della Università di Tel-Aviv, e-mail del 12/05/1998 indirizzata a David Donnini). 90 Gerolamo, In Math., XII, 13; Apocrifi del Nuovo Testamento, a cura di Luigi Moraldi, UTET, Torino.
Dando così ad intendere che i termini nazareni ed ebioniti potrebbero essere sinonimi ma,
soprattutto, che sono titoli settari, non indicazioni geografiche. Altrove possiamo leggere:
“[i nazareni] accettano unicamente il Vangelo secondo gli Ebrei e chiamano apostata
l’apostolo [Paolo]”91.
“Essi [i nazareni] sono Giudei che onorano Cristo come uomo giusto e usano il Vangelo
chiamato “secondo Pietro” ”92.
Lo studioso americano Robert Eisenman tende ad identificare i nazareni e gli ebioniti con la
comunità dei seguaci di Cristo i quali, in seguito alla morte del loro maestro, si sarebbero raccolti
sotto la guida di Giacomo, fratello di Gesù, identificabile, a sua volta, col “maestro di giustizia” di
cui si fa menzione nei celebri manoscritti del Mar Morto. Questa comunità è sempre stata in aperto
contrasto con le concezioni espresse da Shaul di Tarso (San Paolo) e avrebbe inteso la figura di
Gesù come semplicemente umana, non di natura divina.
A noi, in questo momento, interessa sottolineare l’estraneità del termine nazareno rispetto alla città
di Nazaret, ed anche il motivo che avrebbero avuto i cristiani scismatici per camuffare il significato
di quella parola, sconfessando la concezione giudeo cristiana originale, dopo che l’immagine
teologica di Gesù era stata revisionata, divinizzata, e arricchita da elementi extragiudaici ellenistici
ed orientali.
Non ci si meravigli per l’utilizzazione di un riferimento geografico artificioso nel corso di
un’operazione di censura di questo genere. Molte altre ne sono state fatte, come l’impiego dei
termini “cananeo” e “galileo” separati dal loro significato originario, che li lega invece alle sette dei
patrioti yahwisti, combattenti per la libertà di Israele e la purezza del culto.
La natività nel Vangelo secondo Luca
Il racconto
Il villaggio di Nazaret sorgeva nella conca fra i morbidi rilievi della Galilea, nella Palestina
settentrionale, a due giorni di cammino dalle rive del lago di Tiberiade. Carezzato dalle brezze del
91 Teodoreto, Haer. Fabul. Comp. II, 1; Apocrifi del N.T., op. cit. 92 Teodoreto, Haer. Fabul. Comp. II, 1; Apocrifi del N.T., op. cit.
mediterraneo, aveva un clima mite e piacevole, era circondato da terre fertili e vegetazione
rigogliosa, e gli abitanti laboriosi vi conducevano una vita serena.
Qui abitava Maria, una giovane donna, vergine e promessa sposa a Giuseppe, un uomo della
discendenza dell’antico re David. Un giorno, mentre era sola nella casa, dedita alle faccende
domestiche, avvertì una strana presenza. Non ebbe paura. I suoni che udiva erano leggeri, soavi e
inconsueti, e le sensazioni che provava suscitavano meraviglia o, al massimo, stupore. Si spostò
nella stanzetta centrale della casa, che trovò illuminata da un chiarore senza sorgente. Rimase
incantata. Poi, come in una dissolvenza dal nulla, le apparve la figura di un giovane bellissimo, con
la veste rossa e le ali socchiuse sopra le spalle, il quale si presentò come arcangelo Gabriele e la
salutò con parole riverenti.
Maria non capiva cosa stesse succedendo e non credeva ai suoi occhi93, ma fu pervasa da una calma
olimpica. Allora l’angelo le annunciò che ella avrebbe partorito un figlio e lo avrebbe chiamato
Gesù: “Salirà sul trono di David e regnerà sulla casa di Israele”94. Maria sapeva di non sognare, ma
di essere ben sveglia e cosciente. Sapeva anche che quelle parole dovevano essere vere, e che la
loro origine era dall’altissimo Signore di Israele.
Ciò nonostante il suo animo fu traversato da una nube d’inquietudine. Era vergine e fidanzata a
Giuseppe, che osservava rigorosamente le regole di castità, come avrebbe potuto concepire un
fanciullo e, soprattutto, cosa avrebbero pensato tutti coloro che l’avessero saputa incinta prima del
matrimonio?95
E l’angelo, prontamente: “Questa gravidanza è opera dello Spirito Santo. Niente è impossibile alla
volontà divina. Anche Elisabetta, vecchia e sterile, è rimasta incinta già da sei mesi. E il figlio che
tu partorirai sarà detto Figlio di Dio96”. Allora Maria accolse le parole dell’angelo e si dichiarò
serva del Signore97.
93 “l'angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di David, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: “Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te”. A queste parole ella rimase turbata e si domandava che senso avesse un tale saluto” (Lc I, 26-29) 94 “L'angelo le disse: “Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ecco concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e chiamato Figlio dell'Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine”” (Lc I, 30-33) 95 “Allora Maria disse all'angelo: “Come è possibile? Non conosco uomo”” (Lc I, 34) 96 L’aramaico per l’espressione “Figlio di Dio” è bar Abbà (anche nella forma contratta barabba), letteralmente “Figlio del Padre”, dal momento che gli ebrei non potevano pronunciare il nome di Dio e usavano in sostituzione termini come Padre, Altissimo, Signore… (NdA) 97 “Le rispose l'angelo: “Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell'Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio. Vedi: anche Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia, ha concepito un figlio e questo è il sesto mese per lei, che tutti dicevano sterile: nulla è impossibile a Dio”. Allora Maria disse: “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto”. E l'angelo partì da lei” (Lc I, 35-38)
Nel frattempo, lontano da Nazaret, ad Ain Karim, nella regione di Gerusalemme, Elisabetta, cugina
di Maria, viveva insieme al marito Zaccaria. Costui, al tempo in cui era re della Giudea Erode
Archelao, figlio di Erode il Grande98, era un anziano sacerdote. I due non avevano mai avuto figli99.
Un giorno, mentre Zaccaria si dedicava al culto nel tempio, gli capitò il turno di compiere l’offerta
dell’incenso. Entrò così nell’area sacra e, quando si trovò solo, ebbe una visione100. L’uomo fu
spaventato ma subito la creatura celeste lo rassicurò: “Esulta Zaccaria, perché ciò che desideravi si è
avverato: presto avrai un figlio da tua moglie Elisabetta e lo chiamerai Giovanni. Prenderà i voti di
nazireato, sarà santo e benedetto. Ricondurrà molti dei figli di Israele al loro Signore e le sue opere
saranno famose”101.
Il vecchio non si capacitava di ciò che aveva udito: “Com’è possibile che succeda questo a me e mia
moglie, dal momento che finora non è accaduto e adesso siamo così avanti negli anni?”. L’angelo si
irritò per l’incredulità dell’uomo, e si affrettò a rispondere che a Dio tutto è possibile: “Io sono
l’arcangelo Gabriele, sono stato mandato dal Signore, e tu sarai punito per non avere prestato fede
alle mie parole, infatti non potrai parlare fino al giorno in cui tutto questo si avvererà”102 . Il
pover’uomo era sbalordito e indugiò confuso presso l’altare dell’incenso. La gente, nel frattempo,
aveva notato il ritardo e si domandava cosa mai fosse successo. Ed ecco che quando Zaccaria uscì e
ricomparve ai loro occhi, tutti capirono che aveva avuto una visione, perché il vecchio era fuori di
sé e gesticolava senza riuscire a pronunciare una parola103. E fu così che Elisabetta rimase gravida e
si rallegrò per avere ottenuto, quando ormai ne aveva perso le speranze, ciò che aveva sempre
desiderato, e la cui mancanza le procurava vergogna104.
98 Erode il Grande non è mai stato re della Giudea (NdA) 99 “Al tempo di Erode, re della Giudea, c'era un sacerdote chiamato Zaccaria, della classe di Abìa, e aveva in moglie una discendente di Aronne chiamata Elisabetta. Erano giusti davanti a Dio, osservavano irreprensibili tutte le leggi e le prescrizioni del Signore. Ma non avevano figli, perché Elisabetta era sterile e tutti e due erano avanti negli anni” (Lc I, 5-7) 100 “Mentre Zaccaria officiava davanti al Signore nel turno della sua classe, secondo l'usanza del servizio sacerdotale, gli toccò in sorte di entrare nel tempio per fare l'offerta dell'incenso. Tutta l'assemblea del popolo pregava fuori nell'ora dell'incenso. Allora gli apparve un angelo del Signore, ritto alla destra dell'altare dell'incenso” (Lc I, 8-11) 101 “Quando lo vide, Zaccaria si turbò e fu preso da timore. Ma l'angelo gli disse: “Non temere, Zaccaria, la tua preghiera è stata esaudita e tua moglie Elisabetta ti darà un figlio, che chiamerai Giovanni. Avrai gioia ed esultanza e molti si rallegreranno della sua nascita, poiché egli sarà grande davanti al Signore; non berrà vino né bevande inebrianti, sarà pieno di Spirito Santo fin dal seno di sua madre e ricondurrà molti figli d'Israele al Signore loro Dio. Gli camminerà innanzi con lo spirito e la forza di Elia, per ricondurre i cuori dei padri verso i figli e i ribelli alla saggezza dei giusti e preparare al Signore un popolo ben disposto”” (Lc I, 12-17) 102 “Zaccaria disse all'angelo: “Come posso conoscere questo? Io sono vecchio e mia moglie è avanzata negli anni”. L'angelo gli rispose: “Io sono Gabriele che sto al cospetto di Dio e sono stato mandato a portarti questo lieto annunzio. Ed ecco, sarai muto e non potrai parlare fino al giorno in cui queste cose avverranno, perché non hai creduto alle mie parole, le quali si adempiranno a loro tempo”” (Lc I, 18-20) 103 “Intanto il popolo stava in attesa di Zaccaria, e si meravigliava per il suo indugiare nel tempio. Quando poi uscì e non poteva parlare loro, capirono che nel tempio aveva avuto una visione. Faceva loro dei cenni e restava muto” (Lc I, 21-22) 104 “Compiuti i giorni del suo servizio, tornò a casa. Dopo quei giorni Elisabetta, sua moglie, concepì e si tenne nascosta per cinque mesi e diceva: “Ecco che cosa ha fatto per me il Signore, nei giorni in cui si è degnato di togliere la mia vergogna tra gli uomini”” (Lc I, 23-25)
Ora, quando l’anziana donna era incinta di sei mesi, Maria ricevette a Nazaret l’annuncio
dall’arcangelo Gabriele e fu informata che un fatto analogo era capitato alla vecchia cugina. Volle
così andare in visita alla parente e, ottenuto il permesso, si aggregò ad una carovana di persone
fidate che partivano per la Giudea, e raggiunse Elisabetta nella sua casa105. Il viaggio fu lungo e
faticoso ma, dopo quello che le era capitato, Maria si sentiva sicura e protetta. Non le era possibile
trovarsi al centro di una predestinazione e, nel medesimo tempo, temere i colpi della fortuna
avversa. Non appena Elisabetta la vide esultò e con lei il bimbo che portava in grembo, Maria si
fermò tre mesi dalla cugina, prima di fare ritorno a Nazaret106.
Dopo la partenza di Maria, Elisabetta partorì e tutti furono felici per l’evento107. Com’era uso presso
i Giudei l’ottavo giorno dalla nascita venne effettuata la circoncisione e, in quell’occasione, si
decise il nome del fanciullo. La madre voleva chiamarlo Giovanni, come aveva detto l’angelo,
mentre alcuni obiettavano che non c’era nessuno nella famiglia che portava quel nome e insistevano
per chiamarlo come il padre: Zaccaria. Interrogato sul da farsi, l’anziano sacerdote, che ancora non
poteva parlare, scrisse il nome Giovanni su una tavoletta.
Ma ecco che il suo mutismo ebbe fine e cominciò a tessere le lodi del Signore. I presenti furono
molto colpiti dalla quantità di circostanze prodigiose che accompagnavano la nascita del bambino.
La fama di questi fatti si sparse velocemente per tutta la Giudea e la gente si domandava chi mai
fosse questo fanciullo che Dio aveva voluto presentare con tanta enfasi108. E Giovanni crebbe
105 “In quei giorni Maria si mise in viaggio verso la montagna e raggiunse in fretta una città di Giuda” (Lc I, 39) 106 “Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino le sussultò nel grembo. Elisabetta fu piena di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: “Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che debbo che la madre del mio Signore venga a me? Ecco, appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell'adempimento delle parole del Signore”. Allora Maria disse: “L'anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, perché ha guardato l'umiltà della sua serva. D'ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata. Grandi cose ha fatto in me l'Onnipotente e Santo è il suo nome: di generazione in generazione la sua misericordia si stende su quelli che lo temono. Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato a mani vuote i ricchi. Ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia, come aveva promesso ai nostri padri, ad Abramo e alla sua discendenza, per sempre”. Maria rimase con lei circa tre mesi, poi tornò a casa sua.” (Lc I, 40-56) 107 “Per Elisabetta intanto si compì il tempo del parto e diede alla luce un figlio. I vicini e i parenti udirono che il Signore aveva esaltato in lei la sua misericordia, e si rallegravano con lei” (Lc I, 57-58) 108 “All'ottavo giorno vennero per circoncidere il bambino e volevano chiamarlo col nome di suo padre, Zaccaria. Ma sua madre intervenne: “No, si chiamerà Giovanni”. Le dissero: “Non c'è nessuno della tua parentela che si chiami con questo nome”. Allora domandavano con cenni a suo padre come voleva che si chiamasse. Egli chiese una tavoletta, e scrisse: “Giovanni è il suo nome”. Tutti furono meravigliati. In quel medesimo istante gli si aprì la bocca e gli si sciolse la lingua, e parlava benedicendo Dio. Tutti i loro vicini furono presi da timore, e per tutta la regione montuosa della Giudea si discorreva di tutte queste cose. Coloro che le udivano, le serbavano in cuor loro: “Che sarà mai questo bambino?” si dicevano. Davvero la mano del Signore stava con lui. Zaccaria, suo padre, fu pieno di Spirito Santo, e profetò dicendo: “Benedetto il Signore Dio d'Israele, perché ha visitato e redento il suo popolo, e ha suscitato per noi una salvezza potente nella casa di Davide, suo servo, come aveva promesso per bocca dei suoi santi profeti d'un tempo: salvezza dai nostri nemici, e dalle mani di quanti ci odiano. Così egli ha concesso misericordia ai nostri padri e si è ricordato della sua santa alleanza, del giuramento fatto ad Abramo, nostro padre, di concederci, liberati dalle mani dei nemici, di servirlo senza timore, in santità e giustizia al suo cospetto, per tutti i nostri giorni. E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell'Altissimo perché andrai innanzi al Signore a preparargli le strade, per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza nella remissione dei suoi peccati, grazie alla bontà misericordiosa del nostro
confermando quanto l’angelo aveva predetto di lui, fino a ritirarsi nel deserto della Giudea per
condurre vita ascetica109.
Vennero allora i giorni in cui l’imperatore Ottaviano Augusto ordinò il censimento della Palestina,
per disciplinare la riscossione dei tributi. Era il tempo in cui la Siria era governata da Publio
Sulpicio Quirinio110, il quale dette disposizione che la gente avrebbe dovuto farsi censire nel luogo
d’origine della famiglia111. Vi furono così grandi spostamenti di persone che tornavano nella loro
città per essere registrati ed evitare le sanzioni previste dai romani nei confronti di coloro che si
fossero sottratti. Ovunque si potevano trovare carovane in movimento e smisurata era la confusione.
Ora, Giuseppe e la sua promessa sposa Maria, pur abitando a Nazaret, erano originari di Betlemme
e furono costretti ad affrontare il viaggio verso la Giudea, nonostante la gravidanza avanzata della
donna. Prepararono dunque le loro misere cose e si misero a dorso di mulo112. Non appena furono
giunti nel villaggio di destinazione Maria, stanca e affaticata dal percorso, avvertì le doglie del
parto. Non avevano un luogo ove ritirarsi e nemmeno l’albergo disponeva di posti liberi. I due, nella
circostanza urgente e delicata, dovettero trovare un riparo di fortuna, alloggiando in una stalla per i
pellegrini, dove la donna dette alla luce il suo maschio primogenito. Dopo averlo avvolto in panni
occasionali, lo pose in una mangiatoia e riposò sul terreno ricoperto di paglia113.
Nel frattempo alcuni angeli andarono a raggiungere i pastori che stavano vegliando sul gregge ed
annunciarono la nascita del Messia, dicendo loro: “Andate a Betlemme e troverete il bimbo in una
mangiatoia, adoratelo perché egli è il Salvatore”. E quando Giuseppe e Maria videro arrivare tutti
costoro, che erano stati avvertiti dagli angeli, furono pieni di stupore, e la donna meditava in cuor
suo sulla predilezione che aveva ricevuto dal Signore e sulla gloria di essere madre del Salvatore114.
Dio, per cui verrà a visitarci dall'alto un sole che sorge per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell'ombra della morte e dirigere i nostri passi sulla via della pace”.” (Lc I, 59-79) 109 “Il fanciullo cresceva e si fortificava nello spirito. Visse in regioni deserte fino al giorno della sua manifestazione a Israele” (Lc I, 80) 110 Le informazioni degli storici ci fanno capire che il periodo corrisponde al 6/7 d.C., ovverosia dieci/undici anni dopo la morte di Erode il Grande (NdA) 111 “In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando era governatore della Siria Quirinio. Andavano tutti a farsi registrare, ciascuno nella sua città” (Lc II, 1-3) 112 “Anche Giuseppe, che era della casa e della famiglia di Davide, dalla città di Nazaret e dalla Galilea salì in Giudea alla città di Davide, chiamata Betlemme, per farsi registrare insieme con Maria sua sposa, che era incinta” (Lc II, 4-5) 113 “Ora, mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c'era posto per loro nell'albergo” (Lc II, 6-7) 114 “C'erano in quella regione alcuni pastori che vegliavano di notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò davanti a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande spavento, ma l'angelo disse loro: “Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia”. E subito apparve con l'angelo una moltitudine dell'esercito celeste che lodava Dio e diceva: “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama”. Appena gli angeli si furono allontanati per tornare al cielo, i pastori dicevano fra loro: “Andiamo fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere”. Andarono dunque senz'indugio e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, che giaceva nella mangiatoia. E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. Tutti quelli che udirono, si stupirono delle cose che i pastori dicevano. Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore. I
Otto giorni dopo la nascita il bimbo fu circonciso e gli venne imposto il nome Gesù. Quindi fu
portato a Gerusalemme, per la dedica al Signore, com’era uso fare per tutti i maschi primogeniti115.
Allorché Giuseppe e Maria raggiunsero il tempio incontrarono un vecchio, di nome Simeon, che si
avvicinò loro e, prendendo fra le braccia il bambino, iniziò a lodare Dio: “Adesso i miei occhi sono
pronti a chiudersi per sempre, perché hanno visto il Messia che libererà Israele. Che tu sia
benedetta, madre del Salvatore, a cui una spada trafiggerà il cuore”116. Anche una vecchia donna,
Anna, considerata una profetessa, si fermò a lodare il bambino, indicandolo ai presenti come
l’atteso Salvatore. I genitori, stupiti, lasciavano che tutto questo accadesse e sempre di più
comprendevano la gloria a cui erano innalzati. E quando questi fatti furono compiuti, Giuseppe e
Maria col loro bambino intrapresero il viaggio di ritorno alla città di Nazaret 117.
E quando il bimbo ebbe dodici anni, nel corso di un pellegrinaggio pasquale a Gerusalemme, i
genitori lo persero di vista credendo che fosse con altri, nella carovana. Allorché si resero conto che
egli non c’era, dopo una giornata di viaggio verso Nazaret, furono presi da grande sgomento e
tornarono indietro per cercarlo. Dovettero passare tre giorni prima che potessero rintracciarlo. Con
immenso stupore lo trovarono fra gli anziani del tempio, che dissertava con loro e mostrava grande
saggezza. La madre si avvicinò a lui, domandandogli perché mai avesse provocato una simile
angoscia ai suoi genitori. Ma il ragazzo, impassibile, rispose che il suo compito era quello di
occuparsi delle cose che riguardavano il Padre suo, Signore di Israele. Dopo di che partì con loro,
alla volta di Nazaret118.
pastori poi se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com'era stato detto loro.” (Lc II, 8-20) 115 “Quando furon passati gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall'angelo prima di essere concepito nel grembo della madre” (Lc II, 21) 116 “Quando venne il tempo della loro purificazione secondo la Legge di Mosè, portarono il bambino a Gerusalemme per offrirlo al Signore, come è scritto nella Legge del Signore: ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore; e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o di giovani colombi, come prescrive la Legge del Signore. Ora a Gerusalemme c'era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e timorato di Dio, che aspettava il conforto d'Israele; lo Spirito Santo che era sopra di lui, gli aveva preannunziato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Messia del Signore. Mosso dunque dallo Spirito, si recò al tempio; e mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per adempiere la Legge, lo prese tra le braccia e benedisse Dio: “Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola; perché i miei occhi han visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli, luce per illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele”. Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. Simeone li benedisse e parlò a Maria, sua madre: “Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori. E anche a te una spada trafiggerà l'anima”.” (Lc II, 22-24) 117 “C'era anche una profetessa, Anna, figlia di Fanuèle, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto col marito sette anni dal tempo in cui era ragazza, era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme. Quando ebbero tutto compiuto secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nazaret.” (Lc II, 36-39) 118 “Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era sopra di lui. I suoi genitori si recavano tutti gli anni a Gerusalemme per la festa di Pasqua. Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono di nuovo secondo l'usanza; ma trascorsi i giorni della festa, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero. Credendolo nella carovana, fecero una giornata di viaggio, e poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti; non avendolo trovato, tornarono in cerca di lui a Gerusalemme. Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai dottori, mentre li ascoltava e li interrogava. E tutti quelli che l'udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte. Al vederlo restarono stupiti e sua madre
La natività di Luca
L’altra natività presente nel Nuovo Testamento è collocata all’inizio del Vangelo secondo Luca. Già
le primissime parole di questo scritto forniscono un’importante collocazione temporale agli eventi
descritti:
“Al tempo di Erode, re della Giudea”119.
La laconica frase viene interpretata, normalmente, con riferimento a Erode il grande, anche perché
in precedenza Matteo aveva precisato che Gesù era nato sotto il regno di quel famoso e terribile
monarca. In realtà, una difficoltà è determinata già dalla definizione “re della Giudea”, in quanto,
egli non ha mai assunto quel titolo. Infatti, poco dopo che suo padre Antipatro, amministratore della
Giudea, morì assassinato nel 43 a.C., Erode fu eletto dai romani tetrarca (la Palestina era suddivisa
in tetrarchie) o “re della Galilea”
Solo successivamente, nel 37 d.C., dopo alterne vicende che lo videro in contrasto coi membri della
dinastia asmonea, Erode riuscì a farsi eleggere re su tutte le province unificate della Palestina, dalla
Giudea alla Galilea, attraverso la Samaria. E questa volta come monarca, non come tetrarca. A
questo punto non poteva essere definito propriamente “re della Giudea”, ovverosia della sola
provincia che comprendeva Gerusalemme. Sarebbe stato riduttivo. Anche se, per dovere d’onestà,
dobbiamo ammettere che poteva essere invalso l’uso, da parte dei romani, di chiamare
sbrigativamente Giudea tutta la Palestina. In tal caso Luca avrebbe potuto adottare questa
espressione estensiva, sebbene scorretta.
Ma dobbiamo anche aggiungere che un vero “re della Giudea” fu Erode Archelao, figlio di Erode il
grande. Infatti, alla morte del monarca, i romani divisero nuovamente la Palestina, ponendo
Archelao a capo della regione meridionale col titolo di etnarca. Suo fratello Erode Antipa fu
nominato tetrarca della Galilea e della Perea, mentre l’altro fratello Erode Filippo fu posto al
governo della Batanea, della Traconitide e dell’Auranitide.
Luca doveva essere al corrente di queste cose, doveva anche essere consapevole che
quell’espressione era impropria. L’espressione “Erode, re della Giudea” potrebbe benissimo riferirsi
ad Archelao, perché tutti i sovrani di questa dinastia venivano comunemente chiamati Erode. A
gli disse: “Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo”. Ed egli rispose: “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”. Ma essi non compresero le sue parole. Partì dunque con loro e tornò a Nazaret e stava loro sottomesso. Sua madre serbava tutte queste cose nel suo cuore. E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini.” (Lc II, 40-52) 119 Lc I, 5.
conferma di ciò, l'Erode al quale, nella passione secondo Luca, fu condotto il Cristo prigioniero,
poco prima della crocifissione, era Antipa, re della Galilea. Ci sono poi monete, fatte coniare da
Archelao, re della Giudea, recanti l'iscrizione Erodou ethnarchou.
In ogni caso, possiamo essere certi che l‘Erode di cui parla Matteo è il padre, anche perché ci dice
che, dopo la morte del monarca, al ritorno dall’Egitto, la famiglia di Gesù ebbe paura di stabilirsi in
vicinanza di Gerusalemme, dove si era insediato il figlio Archelao.
Apparentemente tutti questi ragionamenti potrebbero sembrare superflui, abbiamo già detto che il
significato estensivo dell’espressione “re della Giudea” spiegherebbe tutta la questione. Se non
fosse per il fatto che lo stesso Luca, successivamente, fornisce un’altra indicazione temporale che,
non solo riapre il dubbio, ma lo rende estremamente attuale. Egli scrive:
“In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di
tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando era governatore della Siria
Quirinio.”120.
Luca si riferisce al periodo immediatamente successivo alla nascita di Giovanni Battista e
nell’imminenza della nascita di Gesù, quando Maria, gravida, era ormai prossima alle doglie del
parto.
Per comprendere adeguatamente il senso di questa indicazione dobbiamo accennare al fatto che
Erode Archelao, nel 6 d.C., era stato deposto ed esiliato nella Gallia, a Vienne. Al suo posto non fu
eletto un etnarca successore, ma fu eseguita una riorganizzazione amministrativa che vedeva la
Giudea diventare una parte autonoma della provincia romana di Siria. Sulla quale era governatore
Publio Sulpicio Quirinio. In particolare la Giudea venne posta sotto la giurisdizione di un
praefectus, nella persona di Coponio, il quale era sottoposto all’autorità del governatore di Siria. A
seguito di questa riorganizzazione ai romani occorreva censire la regione per poter riscuotere le
tasse in denaro, e i riferimenti storici, fra cui la stessa testimonianza di Giuseppe Flavio, ci
informano che il censimento di cui parla Luca, supervisionato da Quirinio, fu effettuato nel 7 d.C.,
ben undici anni dopo la morte di Erode il grande.
Si tratta di un evento famoso, perché il cambiamento amministrativo e fiscale della Giudea scatenò
l’ira di molti ebrei, in particolar modo degli yahwisti che consideravano blasfema la signoria di un
pagano sulla regione, ed anche il pagamento della tassa con una moneta che recava l’effigie
dell’imperatore. Si scatenò all’occasione una grande ribellione, nota come rivolta del censimento,
capeggiata da un certo Zadok e da Giuda il galileo, figlio di quell’Ezechia che, nel 44 a.C., Erode
aveva ucciso. La rivolta fu domata e i suoi capi giustiziati.
120 Lc II, 1-2
Naturalmente lo sfasamento di undici anni fra le natività di Matteo e quella di Luca, ha sempre
gettato gli esegeti del Nuovo Testamento in un grande imbarazzo. Non solo c’è una consistente
distanza temporale, ma sussistono differenze fondamentali: se Erode il grande era morto da undici
anni come avrebbe fatto a perseguitare Gesù, causandone la fuga in Egitto? E perché Giuseppe e
Maria avrebbero temuto la presenza di Archelao sul trono di Gerusalemme, se questi era già stato
deposto ed esiliato?
Qualcuno ha tentato di conciliare i fatti sostenendo che il censimento di cui parla Luca sia stato
eseguito sotto il regno di Erode il grande, e per questo sono state proposte due possibili soluzioni.
Una è l’ipotesi che Publio Sulpicio Quirinio fosse stato nominato governatore di Siria già sotto la
sovranità del monarca ascalonita, anche se le fonti storiche dimostrano che a quel tempo Quirinio
era occupato altrove in ben altri incarichi. L’altra è quella che la frase “questo primo censimento fu
fatto quando era governatore della Siria Quirinio” debba essere tradotta “questo censimento fu
fatto prima che fosse governatore della Siria Quirinio”, alterandone completamente il senso. In
realtà, si tratta di una forzatura voluta per aggiustare le cose a tutti i costi. Il vocabolo greco prote
non è una forma avverbiale (prima che), ma una forma aggettivale (il primo), perfettamente
concordata col termine apografe (censimento). L’arte di arrampicarsi sugli specchi ha trovato, in
questi tentativi, delle performance veramente estreme.
È lo stesso evangelista a fornirci un’altra indicazione per identificare il censimento della natività
con quello del 7 d.C. (se è vero che Luca è l'autore degli Atti degli Apostoli):
“si sollevò Giuda il galileo, al tempo del censimento, e indusse molta gente a seguirlo,
ma anch'egli perì e quanti s'eran lasciati persuadere da lui furono dispersi”121.
Ebbene, la sollevazione di cui si parla nella citazione è proprio quella in cui Giuda e centinaia dei
suoi sicari persero la vita, avvenuta nel 7 d.C. in conseguenza del censimento supervisionato da
Quirinio.
Una delle caratteristiche principali della natività di Luca è quella di correlare le nascite di Gesù e di
Giovanni Battista. Anzi, il racconto lucano inizia proprio con la nascita di quest’ultimo. Si tratta di
un’origine infarcita di segni miracolosi, che riproduce cliché biblici alquanto noti. Innanzitutto la
circostanza assomiglia straordinariamente a quella della nascita di Isacco, dai vecchi Abramo e
Sara, di cui quest’ultima sterile122, ma anche a quella di Sansone123 e di Samuele124. In entrambi
questi due ultimi casi ricorre il tema del nazireato.
121 At V, 37 122 “Dio aggiunse ad Abramo: Quanto a Sarai tua moglie, non la chiamerai più Sarai, ma Sara. Io la benedirò e anche da lei ti darà un figlio; la benedirò e diventerà nazioni e re di popoli nasceranno da lei. Allora Abramo si prostrò con la faccia a terra e rise e pensò: Ad uno di cento anni può nascere un figlio? E Sara all'età di novanta anni potrà
Anche Elisabetta, moglie del sacerdote Zaccaria, era sterile e i due erano anziani. L’angelo Gabriele
annuncia la venuta al mondo del loro figlio e costui è destinato ad una condizione di nazireato
perenne, addirittura fin dalla nascita.
Al sesto mese di gravidanza di Elisabetta, Luca fa annunciare dall’angelo Gabriele la nascita di
Gesù direttamente a Maria, nel villaggio di Nazaret, in Galilea, dove ella abitava ed era fidanzata
con Giuseppe. Questo breve episodio lucano dell’annunciazione a Maria è stato la fonte ispiratrice
di una immensa produzione artistica pittorica, nell’arco di numerosi secoli.
Luca fa compiere a Maria, pur nel suo stato interessante, un lungo viaggio a dorso di mulo per
andare a trovare la parente Elisabetta e, al momento dell’incontro fra le due donne gravide, fa
produrre a Maria un inno poetico125, noto come magnificat. Anche questo cantico costituisce uno
dei momenti più rilevanti della letteratura evangelica, che fin dal medio evo è stato inserito nella
liturgia. E, come l’annunciazione, è stato il punto ispiratore per una grande produzione artistica,
specialmente in campo musicale. È estremamente interessante, in questo passo, la visione del
Signore decantato come colui che
“ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha
innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato a mani vuote i
ricchi”126.
Maria si sarebbe fermata tre mesi dalla parente Elisabetta, e poi sarebbe tornata a Nazaret.
partorire?. Abramo disse a Dio: Se almeno Ismaele potesse vivere davanti a te! E Dio disse: No, Sara, tua moglie, ti partorirà un figlio e lo chiamerai Isacco. Io stabilirò la mia alleanza con lui come alleanza perenne, per essere il Dio suo e della sua discendenza dopo di lui. Anche riguardo a Ismaele io ti ho esaudito: ecco, io lo benedico e lo renderò fecondo e molto, molto numeroso: dodici principi egli genererà e di lui farò una grande nazione. Ma stabilirò la mia alleanza con Isacco, che Sara ti partorirà a questa data l'anno venturo” (Gn XVII, 15-21) 123 “Ora, vi era un uomo d Saraa, della tribù dei Dan, di nome Manoe. Il quale aveva una moglie sterile e senza alcun figlio. A costei apparve l’Angelo del Signore e le disse: - Tu sei sterile e senza prole; ma ecco, tu concepirai e darai alla luce un figlio. Guardati bene però dal bere vino o bevanda inebriante e dal mangiare nulla di immondo, poiché concepirai e darai alla luce un figlio, sul capo del quale non passerà il rasoio. Egli sarà Nazireo, fin dalla nascita e comincerà a liberare Israele Dalle mani dei Filistei” (Gdc XIII, 1-5) 124 “Anna, dopo aver mangiato in Silo e bevuto, si alzò e andò a presentarsi al Signore. In quel momento il sacerdote Eli stava sul sedile davanti a uno stipite del tempio del Signore. Essa era afflitta e innalzò la preghiera al Signore, piangendo amaramente. Poi fece questo voto: Signore degli eserciti, se vorrai considerare la miseria della tua schiava e ricordarti di me, se non dimenticherai la tua schiava e darai alla tua schiava un figlio maschio, io lo offrirò al Signore per tutti i giorni della sua vita e il rasoio non passerà sul suo capo” (I Sam I, 9-11) “Il mattino dopo si alzarono e dopo essersi prostrati davanti al Signore tornarono a casa in Rama. Elkana si unì a sua moglie e il Signore si ricordò di lei. Così al finir dell'anno Anna concepì e partorì un figlio e lo chiamò Samuele” (I Sam I, 19-20) 125 “L'anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, perché ha guardato l'umiltà della sua serva. D'ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata. Grandi cose ha fatto in me l'Onnipotente e Santo è il suo nome: di generazione in generazione la sua misericordia si stende su quelli che lo temono. Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato a mani vuote i ricchi. Ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia, come aveva promesso ai nostri padri, ad Abramo e alla sua discendenza, per sempre” (Lc I, 46-55). 126 Lc I, 51-53.
Anche a Zaccaria, in seguito alla nascita di Giovanni, Luca fa pronunciare un cantico di giubilo nel
quale il neonato viene esplicitamente presentato come il precursore, colui che andrà “innanzi al
Signore a preparargli le strade”, per annunciare al popolo l’imminenza della salvezza, grazie alla
visita di “un sole che sorge per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell'ombra della morte,
e dirigere i nostri passi sulla via della pace”. In tutto e per tutto si configura la subordinazione di
Giovanni a Gesù, come suo semplice araldo.
In particolare l’evangelista intende precisare che il fanciullo crebbe e
“visse in regioni deserte fino al giorno della sua manifestazione a Israele”127,
informazione che unitamente alle sue abitudini alimentari e alla pratica del rito battesimale ci
fornisce solidi indizi per pensare che Giovanni fosse un affiliato della comunità essena degli asceti
di Qumran, sulle rive del Mar morto. Si osservino i seguenti confronti fra la letteratura evangelica e
i Manoscritti del Mar morto:
“Giovanni era vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi, si
cibava di cavallette e miele selvatico”128;
“tutte le specie di cavallette saranno messe nel fuoco o nell’acqua mentre sono vive, tale
è infatti l’ordine conforme alla loro natura”129.
E ancora:
“Ed egli percorse tutta la regione del Giordano, predicando un battesimo di conversione
per il perdono dei peccati, com'è scritto nel libro degli oracoli del profeta Isaia: Voce di
uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri”130;
“…per andare nel deserto a preparare la via di lui, come sta scritto: nel deserto
preparate la via, appianate nella steppa una strada per il nostro Dio”131.
Il racconto vero e proprio della nascita di Gesù, nel Vangelo secondo Luca, occupa un breve spazio
ed ha un carattere molto sintetico:
127 Lc I, 80 128 Mc I, 6 129 Documento di Damasco. 130 Lc III, 3-4.
“In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di
tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando era governatore della Siria
Quirinio. Andavano tutti a farsi registrare, ciascuno nella sua città. Anche Giuseppe,
che era della casa e della famiglia di Davide, dalla città di Nazaret e dalla Galilea salì
in Giudea alla città di Davide, chiamata Betlemme, per farsi registrare insieme con
Maria sua sposa, che era incinta. Ora, mentre si trovavano in quel luogo, si compirono
per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e
lo depose in una mangiatoia, perché non c'era posto per loro nell'albergo.”132.
Ma la quantità di commenti che queste poche righe possono sollevare è ricca. Innanzitutto abbiamo
già fatto notare quanto emerge dai primi due periodi, relativi al censimento, in merito al problema
della datazione e del contrasto che si genera con la natività di Matteo. Ora, se andiamo avanti, ci
troviamo dinanzi ad un’affermazione alquanto discutibile, secondo la quale le persone avrebbero
dovuto essere censite non nel luogo dove vivevano ed esercitavano attività redditizie, ma nel luogo
di origine della famiglia. Si tratta di un’assurdità, dovuta al fatto che l’evangelista doveva in
qualche modo giustificare la nascita di Gesù nella città di Betlemme, soddisfacendo così un
requisito messianico, non ostante che i fidanzati risiedessero in Galilea, a Nazaret.
Se le persone avessero dovuto essere censite nel luogo di nascita, o di origine della famiglia, la
realizzazione del censimento avrebbe prodotto un caos indescrivibile. Folle oceaniche avrebbero
dovuto spostarsi per tutta la Palestina, magari per dichiarare che i loro interessi economici erano
lontani decine o centinaia di km più a nord o a sud. Sarebbe successivamente stata inviata loro una
cartella delle tasse, via posta?
Ma le cose si sono svolte in modo completamente diverso. I romani avevano assoldato un buon
numero di giudei compiacenti, i cosiddetti pubblicani, che conoscevano il territorio e la
popolazione, avevano accesso ad utili informazioni e si occupavano di scovare le persone là dove si
trovavano e generavano redditi significativi133. Per questo i pubblicani erano così odiati dagli ebrei,
perché si comportavano come autentici collaborazionisti e traditori. Prendiamo allora la notizia col
giusto scetticismo e procediamo nell’analisi del breve ma intenso passo.
Giuseppe avrebbe dovuto spostarsi a Betlemme perché era originario di quel villaggio, situato poco
a sud di Gerusalemme, che mille anni prima aveva dato i natali al grande re Davide. Le profezie
131 Regola della Comunità VIII, 13-14. 132 Lc II, 1-7. 133 “Lo Schűrer sostiene infatti che in un censimento provinciale romano finalizzato all’imposizione dei tributa capitis et soli, le motivazioni genealogico tribali avanzate nel vangelo di Luca per spiegare l’iscrizione a Betlemme di Giuseppe e Maria, i quali abitavano a Nazaret in Galilea, non potrebbero trovare spazio alcuno di credibilità.” (G.Firpo, Il problema cronologico della nascita di Gesù, Paideia, Brescia, 1983)
sostenevano che l’atteso messia, che avrebbe dovuto liberare Israele dalla sua schiavitù a potenze
straniere, restituendo al popolo la libertà e la purezza del culto, sarebbe nato a Betlemme e sarebbe
stato un discendente di sangue della dinastia davidica. È per questo motivo che l’evangelista non
manca di precisare che Giuseppe “era della casa e della famiglia di Davide”. Anche se poi i quattro
Vangeli del Nuovo Testamento sembrano impegnarsi in diverse occasioni per alterare il senso
corretto del ruolo messianico di Gesù. In realtà, offuscandone la natura politica e regale, gli scritti
mostrano una contraddizione in termini e l’esistenza di un preciso scopo censorio, che potremmo
chiamare intento di spoliticizzazione.
Ma la contraddizione più grossa si genera nel momento in cui consideriamo che, avendo Maria
partorito vergine ad opera dello Spirito Santo, Giuseppe non avrebbe generato Gesù nella modalità
biologica che avrebbe dato un senso alla sua ascendenza davidica. Gesù non avrebbe ereditato il
sangue “della casa e della famiglia di Davide”.
Ora, i coniugi avrebbero affrontato il lungo viaggio dalla Galilea alla Giudea, nella delicata
condizione di gravidanza terminale di Maria e, una volta raggiunto il paesello, costei avrebbe
accusato le prime doglie del parto. Dobbiamo senz’altro riflettere su un particolare che continua a
gettare una luce sospetta sul racconto di Luca: i due non avrebbero trovato alcun luogo decente in
cui sistemarsi per alloggiare e partorire. Come può conciliarsi una situazione di questo genere col
fatto che essi sarebbero stati originari di Betlemme, al punto da dover essere colà censiti? Quale
legame potevano avere con una città per loro così estranea ed inospitale da non trovare né un
parente, né un amico, né un conoscente… insomma, assolutamente nessuno che potesse avere
compassione di Maria e prendersi cura dei due coniugi?
Se Giuseppe fosse stato veramente di Betlemme, il minimo che avrebbe potuto fare, arrivando lì in
quella circostanza impellente, sarebbe stato di rivolgersi a qualcuno della sua famiglia. E invece no.
Poiché, così come è leggendaria la stessa nascita betlemita di Gesù, inventata al semplice scopo di
applicare su di lui le profezie messianiche, è altrettanto leggendaria la descrizione della nascita nella
mangiatoia, fra i pastori e gli animali, che è stata inserita perché richiama cliché mitologici sulla
nascita del salvatore.
Un altro commento può essere sollevato sulla frase “si compirono per lei i giorni del parto. Diede
alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia ”. Anche
Luca usa il termine primogenito, che nelle traduzioni moderne del Nuovo Testamento, come
abbiamo già visto, è censurato nel testo di Matteo. Evidentemente Gesù aveva avuto fratelli ed
anche sorelle, come è abbondantemente testimoniato nei racconti evangelici della vita pubblica e
negli altri scritti del Nuovo Testamento, come le lettere di Paolo e gli Atti degli Apostoli, e in altri
documenti storici extra testamentari.
Il racconto della visita dei pastori, che dipinge nel testo lucano un quadro di lirismo agreste, evoca
memorie provenienti da altre tradizioni religiose, assai più antiche. Per esempio quella della nascita
di Krishna, incarnazione del dio indu Vishnu:
“...la volontà dei Deva fu compiuta; tu concepisti nella purezza del cuore e dell'amore
divino. Vergine e madre, salve! Nascerà da te un figlio e sarà il Salvatore del mondo.
Ma fuggi, poiché il re Kansa ti cerca per farti morire col tenero frutto che rechi nel
seno. I nostri fratelli ti guideranno dai pastori, che stanno alle falde del monte Meru...
ivi darai al mondo il figlio divino...”134.
Gli elementi di contatto con la tradizione cristiana sono riscontrabili nella nascita verginale, nel
ruolo di salvatore, nell’essere perseguitato da un re che vuole eliminarlo, nel nascere fra i pastori e,
infine, nella natura divina.
Luca, descrivendo l’esecuzione delle pratiche rituali di purificazione del neonato, attraverso
l’offerta al tempio di una coppia di colombe, testimonia un clima sereno, su cui non incombe
l’ombra di alcuna persecuzione. Un duplice episodio deve essere notato: due personaggi di aspetto
profetico incontrano nel tempio il bambino e lo riconoscono come l’atteso messia135. Si tratta del
vecchio Simeone, il quale ringraziò il Signore per avergli consentito di vivere abbastanza da aver
potuto vedere il Salvatore, e che predisse a Maria la sofferenza che avrebbe dovuto sopportare a
causa di suo figlio. C’è poi la profetessa Anna, vedova e dedita alla devozione, che si mise a lodare
il bambino come liberatore di Gerusalemme.
Anche queste immagini appartengono ad un cliché rappresentativo della nascita dei grandi salvatori:
ce ne dà esempio la storia di Buddha, nell’episodio del vecchio saggio Asita Kaladevela che,
secondo la leggenda, visitò il palazzo in cui si festeggiava la nascita del piccolo Siddharta.
Anch’egli, come il vecchio Simeone, prese in braccio il bambino e si dispiacque di non poter vivere
abbastanza da ascoltare i suoi insegnamenti, una volta che fosse cresciuto. Non possiamo fare a
meno di aggiungere che Buddha fu generato miracolosamente dalla vergine Mahamaya, ingravidata
in sogno dall’immagine di un grande elefante bianco a sei zanne che sarebbe entrato nel suo corpo.
Ella avrebbe poi partorito da un fianco, conservando così la sua integrità.
La natività lucana si conclude con l’unico episodio, presente in tutto il Nuovo Testamento, che
faccia riferimento ad un’età giovanile di Gesù, prima dell’inizio della sua manifestazione
pubblica136. È quello in cui la famiglia si sarebbe recata a Gerusalemme, durante una festa pasquale,
col figlio dodicenne. Durante il ritorno, mentre i genitori pensavano che si trovasse sulla carovana
134 E. Shurè, I grandi iniziati, Bari, 1941. 135 Lc II, 25-38.
insieme a loro, il ragazzo si sarebbe trattenuto nel tempio a dissertare coi saggi del tempio, dando
prova di una sapienza esemplare. Come, del resto, anche il giovane Siddharta aveva fatto, a suo
tempo, mostrando una straordinaria intelligenza nello studio e nel commento dei Veda.
136 Lc II, 41-52.
I contrasti fra le natività.
Il nostro presepe cristiano affonda le sue radici più remote nelle tradizioni dei lares familiares, già
presenti nell’antica Roma e fra gli Etruschi. Verso la fine di dicembre si festeggiavano i lari,
ovverosia gli antenati defunti, con riti che ricorrevano alla disposizione di statuine nella casa e allo
scambio fra parenti di regali, detti sigilla. Con l’avvento e la diffusione del cristianesimo, molte
feste pagane furono semplicemente mutate nel significato, ma conservate nei costumi e nelle
esteriorità. Il Dies Natalis, già celebrazione della rinascita, o resurrezione, del dio sole, che veniva
festeggiato il 25 dicembre, tre giorni dopo il solstizio invernale, diventò il Natale cristiano e assorbì
molti degli usi già esistenti.
Il praesepe era un piccolo recinto (anche greppia, mangiatoia) in cui venivano poste le effigi dei
lari, il cui aspetto, talvolta imitava un paesaggio agreste. Abitualmente si attribuisce a San
Francesco d’Assisi il merito di aver voluto inscenare, per la prima volta nel 1223, a Greccio, una
rappresentazione vivente della nascita di Gesù secondo quanto indicato dalle natività evangeliche.
Ma sarebbe stato Arnolfo di Cambio, intorno al 1290, a creare le prime statue del presepe scolpite a
tutto tondo. Poi l’usanza si diffuse nelle chiese e, dal diciassettesimo secolo, persino nelle case dei
nobili e del popolo. Fino ai giorni nostri e nella nostra moderna civiltà, dove si perpetua per il suo
indiscutibile e irresistibile fascino.
I tratti caratteristici di un presepe sono: la capannuccia o la grotta, la mangiatoia, la stella, il
bambino con Giuseppe e Maria, il bue e l’asino, i tre re magi coi doni, i pastori e gli altri visitatori,
tutti rappresentanti di una società contadina e artigianale, inseriti in un paesaggio rurale. Tranne il
bue e l’asino, che non sono citati nelle narrazioni evangeliche, il presepe contiene gli elementi
fondamentali delle natività di Matteo e di Luca, fondendole insieme come se i due racconti fossero
compatibili l’uno con l’altro. I re magi, che nel racconto di Matteo si muovono sullo sfondo storico
del regno di Erode il grande, sono affiancati all’umile rifugio che la famiglia avrebbe dovuto
adottare a Betlemme, alla fine del suo viaggio da Nazaret, sullo sfondo storico della terribile rivolta
del censimento. Ci si dimentica totalmente di queste parole di Matteo:
“Entrati nella casa, [i magi] videro il bambino con Maria sua madre, e prostratisi lo
adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra”137.
Infatti, si ricordi, secondo Matteo i genitori di Gesù abitavano a Betlemme prima della nascita del
bambino, in una casa ovviamente, e si sarebbero trasferiti a Nazaret solo al ritorno dall’Egitto,
137 Mt II, 11.
mentre, secondo Luca, abitavano a Nazaret fin dal tempo in cui erano fidanzati, e si sarebbero recati
a Betlemme solo per la registrazione fiscale.
Le coordinate sono inequivocabilmente discordanti: oltre cento kilometri di distanza nello spazio,
dalla Giudea alla Galilea; undici o più anni di differenza nel tempo, dal 4 a.C., o prima, al 7 d.C.;
due quadri storici profondamente mutati, dal regno di Erode il Grande, che comprendeva tutta la
Palestina, alla nuova suddivisione in tetrarchie, successiva alla deposizione di Archelao, che vedeva
Gerusalemme sotto l’amministrazione diretta del praefectus Iudaeae.
Ora, la tradizione del presepe può essere giustificata nella sua inesattezza, tenendo presente che ha
un carattere evocativo fondato sulle emozioni e sulla pietà religiosa, dove la correttezza storica
passa decisamente in secondo piano. Ma le numerose moderne opere cinematografiche che hanno
trattato l’argomento, hanno eseguito e continuano ad eseguire questa stessa operazione di fusione
fra le natività, come se non esistessero già abbondanti consapevolezze per dissociare i due racconti
e contribuendo così a mantenere l’ignoranza popolare su questo importante argomento.
Evidentemente questi stessi film vogliono essere soltanto dei “presepi in pellicola”.
Come possono conciliarsi due frasi di questo genere?
“Avendo però saputo che era re della Giudea Archelào al posto di suo padre Erode,
ebbero paura di andarvi [a Betlemme, loro precedente dimora]. Avvertito poi in sogno,
si ritirò nelle regioni della Galilea e, appena giunto, andò ad abitare in una città
chiamata Nazaret”138,
“Quando ebbero tutto compiuto secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea,
alla loro città di Nazaret. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la
grazia di Dio era sopra di lui”139.
Ovviamente nella natività lucana non c’è alcuna persecuzione da parte di Erode il grande, non c’è la
strage dei bambini di Betlemme, non c’è la fuga in Egitto, non ci sono i magi venuti dall’oriente,
non c’è il ritorno dall’Egitto e il trasferimento di città. C’è, però, la presenza fondamentale della
figura di Giovanni Battista, che manca completamente nella natività di Matteo.
L’autore della natività lucana è già un rappresentante di quella tradizione che desidera porre la
figura di Giovanni in una posizione subordinata rispetto a quella di Gesù. Noi sappiamo che questo
è stato un presupposto caratteristico della catechesi di San Paolo140, del quale possiamo ricordare
138 Mt II, 22-23. 139 Lc II, 39-40. 140 At XVIII, 25; XIX, 3-4)
che i nazareni e gli ebioniti, ovverosia i giudeo cristiani che rappresentavano i veri seguaci di Gesù,
lo respingevano in modo assoluto.
“La testimonianza che Giovanni avrebbe reso a Gesù, presentandosi come il precursore
del messia oppure designando espressamente Gesù come il messia atteso, è un'altra
finzione, concepita dall'apologetica cristiana per attenuare o dissimulare la dipendenza
originaria del cristianesimo dalla setta battista... Sembra certo che Giovanni si sia
presentato come inviato da Dio, come il profeta del novissimo giorno: come un profeta
la cui missione non era subordinata a quella di nessun altro, nemmeno a quella del
messia. Non era il precursore di altri fuor che di Dio”141.
Il desiderio di fondere le due natività in un unico quadro narrativo potrebbe diventare legittimo nel
momento in cui si prendesse coscienza della natura leggendaria di queste storie. In tal caso, poiché
il mito ha una funzione rappresentativa ed educativa che prescinde dalla veridicità del racconto, non
c’è niente di male nel creare una tradizione intorno alla quale si raccoglie l’immaginario collettivo e
si fondano le basi di una civiltà etica. In effetti, nella moderna epoca tecnologica, non è giusto
trasmettere i valori attraverso l’ignoranza e l’ottundimento dell’intelligenza, ed è solo la piena
consapevolezza che può avvalorare il significato delle tradizioni, renderle funzionali e compatibili,
risolvendo le contraddizioni che, ancora oggi, contrappongono la spiritualità alla razionalità.
I filosofi del cristianesimo dovrebbero capire che la fede non ha altro da ricavare che un vantaggio
dal confronto con la verità. Purtroppo, invece, la maggioranza dei fedeli e degli ecclesiastici pensa
che le basi del credo cristiano verrebbero irrimediabilmente a mancare se non dovesse essere
considerato storicamente credibile il racconto evangelico. Una fiaba non può bastare! O si tratta di
fatti reali, o di inutili fantasie. Senza apparire in modo palese, una forma di materialismo invisibile
si cela dietro questa mentalità morbosamente legata al concreto degli eventi, incapace di rendersi
conto della larghissima misura in cui i miti, di ogni genere, già operano nel guidare il pensiero dei
popoli e le scelte degli individui.
A questo si aggiunga il fatto che le istituzioni ecclesiastiche rappresentanti della sapienza religiosa
hanno sempre privilegiato le ragioni della propria egemonia, su quelle della verità, e hanno sempre
temuto l’emancipazione dei fedeli, insistendo per lasciarli in una condizione di subordinazione e
persino di ignoranza che, nel corso dei secoli, non ha riguardato solo la dimensione spirituale ma
anche quelle economica, politica, sociale e culturale.
Da qui le antiche proibizioni di leggere la Bibbia, solo apparentemente paradossali; la necessità di
ricorrere al dogma, all’autoritarismo sfrenato, alla caccia alle eresie; la difesa incondizionata della
141 A. Loisy, Le Origini del Cristianesimo, Il Saggiatore, 1984.
dottrina come corpus intoccabile, effettuata da schiere di teologi, esegeti ed apologeti che hanno
elaborato un’abilità straordinaria nell’arrampicarsi sugli specchi pur di giustificare in qualche modo
ogni possibile contraddizione. Tranne che secondo un limpido e sereno criterio di verità.
Un ulteriore esempio di tutto ciò ci è offerto dall’esame delle genealogie di Gesù Cristo, presenti in
entrambi i Vangeli. Matteo ne offre una all’inizio del suo scritto. Luca alla fine del terzo capitolo,
dopo l’episodio del battesimo sul Giordano.
Si tratta di due elenchi completamente diversi. Lasciando perdere il fatto che Luca preferisce partire
dalla creazione dell’umanità, cioè da Adamo, includendo i nomi dei grandi patriarchi della Genesi,
mentre Matteo si contenta di partire da Abramo, possiamo notare che le due genealogie hanno in
comune solo la parte che si conclude con Davide. Da qui in poi, relativamente ad un periodo di
mille anni, gli elenchi divergono pesantemente nei nomi e nel numero complessivo dei medesimi.
Matteo contempla ventotto nomi (due volte quattordici) passanti attraverso il figlio di Davide che
gli succedette sul trono, Salomone, e costituenti una lista di personalità regali. Luca contempla
quarantadue nomi (tre volte quattordici) passanti attraverso il figlio di Davide che fu sacerdote,
Natan, e costituenti una lista di personalità sacerdotali. Saltano evidenti le esigenze apologetiche
che i redattori si erano imposti, e che hanno ispirato la loro redazione al di là di qualunque criterio
di veridicità. Anche i criteri numerologici hanno ispirato queste redazioni ma, più che altro, il fatto
che ciascuno desiderasse sottolineare un aspetto dell’eredità genealogica di Gesù: politico in un
caso, religioso in un altro. È estremamente curioso notare che al centro di una divergenza quasi
completa si incontrano due nomi concordanti: Salatiel e Zorobabel, poi i due elenchi si staccano di
nuovo l’uno dall’altro per reincontrarsi solo con Giuseppe, padre di Gesù.
Ovviamente molti hanno cercato soluzioni per spiegare la spaventosa divergenza, dal momento che
il padre di Giuseppe figura come Giacobbe, nell’elenco di Matteo, e come Eli, in quello di Luca. In
questo si è distinto Eusebio di Cesarea, apologeta del cristianesimo al tempo di Costantino, che ha
avanzato l’ipotesi del levirato per spiegare come Giuseppe potesse essere contemporaneamente
figlio di Giacobbe e di Eli. Il levirato era una legge ebraica secondo la quale una vedova poteva
concepire prole col fratello del marito defunto. In pratica il bambino sarebbe stato figlio del padre
defunto, secondo la legge, e figlio del padre reale, secondo la natura. Se non che, in tal modo,
Giacobbe ed Eli avrebbero dovuto essere fratelli, mentre le genealogie li danno come figli,
rispettivamente, di Matthan e Mattat. Ed ecco che lo storico costantiniano ha avanzato l’idea che
costoro fossero figli della stessa donna, ma di due padri diversi, Eleazar e Levi.
Non si è mai voluto ammettere ciò che appare evidente dall’esame delle due natività e delle
genealogie. I punti di interesse comune dei due autori sono riconducibili solo all’idea della nascita
verginale, all’origine betlemita e all’appartenenza alla stirpe di Davide. Per il resto tutto è diverso.
In particolare, la diversa attribuzione della residenza di Giuseppe e Maria all’epoca del loro
fidanzamento, contribuisce ad alimentare sensibilmente il dibattito sul fatto che Nazaret fosse
realmente la città di Gesù o, addirittura, sul fatto stesso che questa città esistesse al tempo di Gesù.
Ha senz’altro un impatto drammatico la constatazione che, per Matteo, Nazaret entra nella vita di
questa famiglia quando Gesù ha già qualche anno d’età, per un fatto accidentale, che è la necessità
di tenersi prudentemente lontano da Gerusalemme e da Erode Archelao. Mentre Luca ambienta già
il magnifico quadro dell’annunciazione a Nazaret. Ora, abbiamo già considerato il fatto che
l’aggettivo nazareno, così frequentemente usato nei racconti evangelici, senz’altro molto più spesso
dello stesso nome della città di Nazaret, non ha il significato che gli viene comunemente attribuito –
cittadino di Nazaret – ma è un titolo religioso e/o settario che corrisponde all’ebraico ha nozri o
all’aramaico nazorai.
La domanda che ci possiamo legittimamente porre è la seguente: la città di Nazaret esisteva, al
tempo di Cristo, ed è stata usata per uno spostamento opportunistico di significato del titolo
nazareno? Oppure la città non esisteva affatto, ed è stata letteralmente inventata in seguito per
dirottare non solo l’interpretazione del titolo, ma per denaturare completamente tutte le coordinate
relative alla personalità storica di Gesù?
Questa seconda ipotesi, senz’altro destinata a rimanere tale, almeno per il momento, sembra
estremamente azzardosa ma non lo è affatto, nel momento in cui si analizza una lunga serie di
questioni, non solo sull’assenza totale della città nei resoconti degli storici 142 e sulle sue
caratteristiche archeologiche143, ma anche sulla sua configurazione geografica che, dai racconti
evangelici, sembra discostarsi molto dalla Nazaret che oggi possiamo visitare in Galilea 144 .
Personalmente non intendo negare definitivamente che Nazaret esistesse nel primo secolo, ma
semplicemente considerare aperta la questione. In fin dei conti, l’uso strumentale di questa
residenza non veritiera, nel racconto evangelico, può benissimo avere risposto all’esigenza di
contraffare il senso del titolo nazareno, attraverso un meccanismo di dissimulazione che abbiamo
già visto usare coi termini cananeo e galileo, sempre attributi associati agli zeloti e alle sette dei
patrioti yahwisti.
Senz’altro i racconti evangelici nel loro complesso, e non solo le natività, mostrano un chiaro
intento censorio nei confronti del titolo nazareno, che aveva un esplicito riferimento alla setta
giudeo cristiana da cui l’insegnamento cristiano ellenizzato, derivato dalla predicazione di Paolo,
aveva preso le distanze con decisione. I nazareni e gli ebioniti dovevano identificarsi con quei
seguaci di Giacomo, il fratello carnale di Gesù, che aveva assunto il ruolo leader della comunità
142 Lo stesso Giuseppe Flavio, che ha minuziosamente descritto ogni angolo della Galilea nei suoi scritti, ha sistematicamente dimenticato Nazaret. 143 Archeologicamente parlando Nazaret sembra una città bizantina, priva di testimonianze significative dell’epoca di Gesù.
dopo l’esecuzione di Cristo. Si trattava probabilmente dei cosiddetti giusti (zaddikim) che, almeno
dopo la morte di Cristo, possono essere riconosciuti negli esseni occupanti il sito di Khirbet
Qumran, sulle rive del Mar morto. Da cui lo stesso Giovanni battista si muoveva per accogliere
nuovi adepti tramite il rito battesimale.
Tornando al problema sollevato dall’analisi delle due genealogie, ovverosia alla duplice personalità,
regale e sacerdotale, non possiamo fare a meno di osservare che il messia singolo della predicazione
paolina evoca le figure dei Soter ellenistici, se non addirittura del Saoshyant persiano e dei
Krisha/Buddha indiani, mentre la più ortodossa aspettativa degli ebrei, rappresentata proprio dagli
autori dei manoscritti del Mar morto, riguardava, come abbiamo già osservato, due figure
messianiche distinte: una di carattere politico ed una di carattere sacerdotale.
Può forse essere che Giovanni Battista e Gesù fossero stati identificati come i due messia attesi? Ci
limitiamo rigorosamente a porlo come semplice domanda, perché non esistono gli elementi per
giungere ad una risposta sicura. Ma vedremo in seguito, dall’analisi di alcuni scritti apocrifi, come
possano essere correlati, in tal senso, i ruoli dei due personaggi.
Riassumiamo dunque le divergenze fra le due natività in un quadro schematico:
1) il momento della nascita differisce di almeno undici anni,
2) le città di residenza della famiglia prima della nascita sono completamente diverse,
3) il luogo di nascita è una casa, in un caso, e un rifugio occasionale, nell’altro,
4) in un caso si ignora Giovanni Battista, nell’altro si correlano le due nascite,
5) in un caso si parla dei magi venuti dall’oriente, nell’altro caso no,
6) la persecuzione e la fuga in Egitto competono solo alla natività secondo Matteo,
7) in un caso c’è un cambio della residenza, nell’altro no,
8) in un caso si propone una genealogia regale, nell’altro una genealogia sacerdotale.
E i punti di contatto:
1) la nascita betlemita,
2) l’appartenenza alla dinastia di Davide,
3) la verginità di Maria,
4) il fatto di essere cresciuto a Nazaret.
Quali conclusioni possiamo trarre da queste analisi? Innanzitutto abbiamo individuato abbastanza
precisamente la mappa dei punti di contatto e di divergenza fra le due natività, ma abbiamo anche
144 Vedi D.Donnini, Gesù e i Manoscritti del Mar Morto, Coniglio Editore, 2006, Roma.
notato le differenze sostanziali che allontanano le natività evangeliche dai racconti riguardanti la
vita adulta di Gesù, che abbiamo chiamato ministeri della vita pubblica. Nelle natività si insiste
sulla personalità di Gesù come emanazione divina, generato ad opera dello Spirito Santo, e si
attribuisce un ruolo importante alla madre Maria, che offre la figura della vergine diventata in
seguito, nella teologia cattolica, la “madre di dio”.
Il culto mariano, così rilevante nelle tradizioni cristiane, non avrebbe potuto svilupparsi sulla base
dei ministeri della vita pubblica di Gesù, o di altri scritti del Nuovo Testamento (abbiamo già
nominato le lettere di Paolo), in cui Maria è rappresentata come una donna del tutto normale, alla
cui verginità non si accenna mai ma, piuttosto, la si rappresenta spesso affiancata ai suoi numerosi
figli e figlie.
Già questo è sufficiente per comprendere che i Vangeli primitivi, quelli giudeo cristiani, redatti in
lingua semitica, dovevano essere privi dei racconti sulla nascita di Gesù, i quali hanno un carattere
estraneo alla concezione religiosa degli ebrei, all’interno della quale non si sarebbe mai potuto
attribuire ad un qualunque messia una natura sovrumana, alla pari di dio, legata alle immagini dei
salvatori ellenistici e orientali.
Se alle contraddizioni fra le natività e i ministeri aggiungiamo le contraddizioni fra le natività
stesse, le quali mostrano come sui quattro presupposti ideologici comuni siano state tessute delle
leggende assolutamente libere, ci rendiamo conto di quale sia stato il meccanismo redazionale
apologetico, che ha soddisfatto non il bisogno di cronaca, ma quello di creare una predicazione a
tutti gli effetti riferita ad un Gesù Cristo spirituale, nato non in una capannuccia o in una casa da un
parto verginale, ma dalla più pura creatività teologica. Al punto che l’operazione di andare a
considerare gli elementi storici dello scenario di fondo, come il segno della stella, il regno di Erode,
la circostanza del censimento, ecc…, per cercare una possibile datazione della nascita di Gesù,
appare come un tentativo ridicolo incapace di portare a qualsivoglia risultato attendibile.
Il cristiano non ha niente da perdere nel riconoscere la distanza tra il Cristo della storia e quello
della fede. Anche perché il processo di identificazione forzata delle due figure è stato funzionale
alle ragioni dell’egemonia ecclesiastica assai più di quanto non lo sia stato per il valore spirituale
della fede. La storicità del racconto evangelico non aggiunge nulla a questo valore, poiché esso
riposa sui contenuti del messaggio, i quali scaturiscono in tutta la loro integrità ed efficacia anche
da un supporto simbolico. Rinforzati dalla consapevolezza degli sviluppi storici, politici, sociali,
umani e religiosi che hanno portato alla nascita di quel messaggio e alla composizione di quelle
scritture.
Fratelli e sorelle di Gesù.
Nel paragrafo relativo alla natività di Matteo abbiamo già affrontato il problema dei fratelli e delle
sorelle di Gesù, in un contesto finalizzato a mostrare che il presupposto della verginità di Maria
appartiene ad uno strato della redazione evangelica successivo a quello che vide la primitiva stesura
del Vangelo secondo Marco. Abbiamo visto numerose citazioni presenti in tutti i testi canonici,
dalle quali scaturiscono complessivamente quattro nomi: Giacomo, Joses (Giuseppe), Giuda e
Simone.
Evidentemente, quando venivano scritte queste cose, non si era ancora formata la convinzione che
Gesù fosse nato da un parto verginale, e la composizione reale della sua famiglia non suscitava
alcun imbarazzo. Addirittura nel Vangelo secondo Marco, la figura del padre non esiste, il
falegname è Gesù stesso: “Non è costui [Gesù] il carpentiere?”145, e la madre, forse una vedova,
accompagna spesso i figli nei loro movimenti al seguito di Gesù.
Ma, già nel Vangelo secondo Matteo, le cose sono leggermente cambiate: “Non è egli forse il figlio
del carpentiere?”146 . Si noti un fatto importante: Matteo conosce il nome del padre di Gesù,
Giuseppe, solo nella natività, dove costui è nominato ben otto volte. Ma nel ministero della vita
pubblica il nome del padre è totalmente sconosciuto e la sua figura è citata una sola volta, come
carpentiere, in quella che sembra un’alterazione deliberata della fonte marciana da cui ha attinto
l’autore di Matteo. È abbastanza naturale pensare che, in questo testo, le discrepanze fra la natività e
il ministero della vita pubblica, a riguardo delle figure di Maria e di Giuseppe, della loro importanza
e della loro condizione, siano dovute al fatto che la natività appartiene ad una redazione posteriore,
che è stata inserita successivamente nel Vangelo secondo Matteo.
Luca esegue un altro passo avanti, nel suo Vangelo la frase diventa: “non è il figlio di
Giuseppe?”147 ma, si noti bene, esattamente come nel Vangelo secondo Matteo, il padre non è mai
più citato nel ministero della vita pubblica, né per nome, né anonimo. Compare solo nella natività e,
se non fosse per la modifica rispetto al testo di Marco, anche questa volta il buon padre di Gesù non
esisterebbe affatto.
Come abbiamo già detto, in tutte le citazioni evangeliche riguardanti i fratelli, il termine greco
usato, adelphos, è quello specifico per indicare proprio i fratelli, non i cugini, pertanto l’obiezione
posta da alcuni, che si trattasse dei figli di un fratello o di una sorella di Maria o di Giuseppe, cade
automaticamente. Rimane, ovviamente, l’ipotesi che si trattasse di fratellastri, ovverosia di figli
avuti da Giuseppe in un precedente matrimonio.
145 Mc VI, 3. 146 Mt XIII, 55. 147 Lc IV, 22.
San Paolo, nelle sue lettere, non mostra alcun interesse per la natività e, nell’unico punto in cui si
occupa della nascita di Gesù, si limita ad affermare: “Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato
sotto la legge”148. Sarebbe stato molto strano se il sedicente apostolo si fosse regolarmente astenuto
dal dire che Gesù era nato da una vergine, qualora una simile caratteristica gli fosse già stata
attribuita. Avrebbe costituito un silenzio inspiegabile. Ma, a noi, il fatto indica una verità che si
impone in modo abbastanza chiaro: verso la metà del primo secolo, e fino al periodo successivo alla
disfatta di Israele conseguente alla guerra degli anni 66/70, ovverosia fino al momento della
redazione del testo marciano, il presupposto della nascita verginale non esisteva proprio, ed è stato
creato successivamente per adattare la figura di Gesù ad altre figure teologiche dell’universo
religioso pagano.
Sempre nella lettera ai Galati, San Paolo parla esplicitamente del fratello Giacomo:
"Solo tre anni dopo andai a Gerusalemme per conoscere Pietro e non vidi nessuno degli
altri apostoli, ad eccezione di Giacomo, il fratello del Signore..."149.
E aggiunge, nella prima lettera ai Corinzi:
“Non abbiamo il diritto di portare con noi una donna credente, come fanno anche gli
altri apostoli e i fratelli del Signore e Cefa?”150,
mostrandosi così del tutto sereno nel rappresentare i normali rapporti di parentela di Gesù.
Ma le citazioni relative ai fratelli esistono anche nelle fonti extratestamentarie. Nella prima metà del
quarto secolo d.C., lo scriba ufficiale di Costantino, Eusebio di Cesarea, compose in greco una
celebre opera apologetica, la Storia della Chiesa (Historia Ecclesiastica), nella quale ha nominato
Giacomo per tre volte, senza dimenticare di specificare che si trattava del fratello di Gesù:
“Poi egli comparve a Giacomo, uno dei cosiddetti fratelli del Salvatore”151;
“In quel tempo Giacomo, detto fratello del Signore, poiché anch'egli era chiamato figlio
di Giuseppe, e Giuseppe era padre di Cristo ... soprannominato dagli antichi anche il
148 “Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge” (Gal IV, 4). 149 Gal I, 18,19. 150 1Cor IX, 5. 151 Eus. di Cesarea, Hist. Eccl. I, 12, 5.
Giusto in virtù dei suoi meriti, fu il primo, dicono, ad occupare il trono episcopale della
Chiesa di Gerusalemme.”152;
“Giacomo, fratello del Signore, succedette all'amministrazione della Chiesa insieme con
gli apostoli. Dal tempo del Signore fino a noi, egli fu da tutti soprannominato il
Giusto...”153.
Confermando, tra l’altro, che questo fratello era uno degli apostoli, e che fu lui a succedere a Gesù
nel primato sulla comunità e non, come si pensa spesso, Simon Pietro. Ci sono altri importanti passi
di Eusebio, nei quali si parla di un altro fratello di Gesù, da cui possiamo ricavare informazioni
significative:
“Quando lo stesso Domiziano ordinò di sopprimere i discendenti di Davide, un’antica
tradizione riferisce che alcuni eretici denunciarono anche quelli di Giuda, che era
fratello carnale del Salvatore, come appartenenti alla stirpe di Davide e alla parentela
del Cristo stesso”154;
“Egesippo riporta queste notizie, dicendo testualmente: “Della famiglia del Signore
rimanevano ancora i nipoti di Giuda, detto fratello suo secondo la carne, i quali furono
denunciati come appartenenti alla stirpe di Davide. L’evocatus li condusse davanti a
Domiziano Cesare, poiché anch’egli, come Erode, temeva la venuta di Cristo””155.
Due sono gli aspetti che dobbiamo sottolineare. Il primo riguarda il fatto che questo Giuda era
considerato fratello carnale di Gesù. Il secondo riguarda la questione dinastica, ovverosia
l’appartenenza alla stirpe davidica come elemento turbativo dell’ordine pubblico romano.
Evidentemente la persecuzione anticristiana messa in atto da questo imperatore non era mossa da
un’ostilità pregiudiziale nei confronti della teologia, ma dal fatto che i cristiani erano conosciuti
come i seguaci dell’ideale messianico degli ebrei, che così spesso e così gravemente avevano agito
contro i romani, nel proposito di liberare la Palestina e restaurare la dinastia davidica sul trono di
Gerusalemme. L’ostinazione messianista era arrivata sino a provocare la tragica guerra degli anni
66/70 e la disfatta completa di Israele. Dopodiché i romani si auguravano bene che non dovessero
risorgere i movimenti yahwisti, e tenevano ben d’occhio coloro che rivendicavano una discendenza
152 Ivi II, 1, 2. 153 Ivi II, 23, 4. 154 Ivi III, 19. 155 Ivi III, 20, 1.
davidica, come soggetti potenzialmente molto pericolosi. È importante la frase di Eusebio in cui si
afferma che l’imperatore Domiziano “…come Erode, temeva la venuta di Cristo”. Ovviamente in
qualità di aspirante re dei Giudei, non certo come predicatore pacifista.
Anche Giuseppe Flavio fa riferimento a Giacomo, fratello di Gesù, nella sua monumentale opera
Antichità Giudaiche:
“[Anania, sommo sacerdote] convocò una sessione del Sinedrio e vi fece comparire il
fratello di Gesù detto Cristo che si chiamava Giacomo”156.
Ora, dal momento in cui è stato introdotto il principio della nascita verginale e sono state composte
le natività fondate su quest’idea, le numerose testimonianze dell’esistenza di fratelli e sorelle di
Gesù ponevano un problema assai scomodo, andavano a colpire direttamente l’immagine di Maria
come donna rimasta vergine per tutta la vita. Questo fatto ha dato luogo a numerosi interventi volti
a spiegare in qualche modo la presenza dei fratelli.
La dottrina cristiana ortodossa adotta come interpretazione più attendibile quella che i cosiddetti
fratelli siano in realtà i figli avuti da Giuseppe in un suo precedente matrimonio, con una moglie di
cui sarebbe rimasto vedovo. Questa ipotesi è già presentata nel Papiro Bodmer V (o Protovangelo di
Giacomo), risalente, forse, al secondo secolo.
I cattolici sono fortemente legati all’opinione che si tratti di cugini, nati da un certo Alfeo/Cleofa,
fratello di Giuseppe, e dalla moglie di lui, detta Maria di Cleofa. Naturalmente ciò implica l’idea
che il termine greco adelphos possa essere inteso anche con l’accezione cugini, la qual cosa crea
non poche difficoltà. Qualcuno, come è stato sostenuto da uno studioso tedesco157, pensa addirittura
che i quattro fratelli siano due cugini per parte di madre (Giacomo e Giuseppe) e due cugini per
parte di padre (Simone e Giuda).
È certo che i cristiani dei primi secoli hanno ampiamente discusso su queste diverse soluzioni, come
ci mostra una frase di Girolamo:
“Giacomo, chiamato fratello del Signore, soprannominato il Giusto, alcuni ritengono
che fosse figlio di Giuseppe con un'altra moglie ma a me pare piuttosto il figlio di Maria
sorella della madre di nostro Signore di cui Giovanni fa menzione nel suo libro”158.
In questo caso, si noti, la madre dei cosiddetti fratelli sarebbe una sorella di Maria, madre di Gesù.
Forse Alfeo/Cleofa, fratello di Giuseppe, aveva sposato una sorella di Maria, con lei omonima?
156 Flavio Giuseppe, Antichità Giudaiche, XX, 200. 157 Josef Blinzler, I fratelli e le sorelle di Gesù, Paideia, Brescia 1974.
Personalmente, avendo osservato numerosi casi di contraffazione delle identità nei testi evangelici,
nonché di sdoppiamenti o di convergenze159, non mi meraviglio che il proposito di salvaguardare il
principio della verginità di Maria abbia prodotto effetti simili.
Nei testi evangelici questa evenienza appare in tutta la sua plausibilità durante il racconto della
passione di Cristo, con riferimento alle donne che assistettero alla crocifissione, alla morte, alla
deposizione e alla sepoltura. Nella tradizione popolare sono conosciute come “le tre Marie”, ma i
testi dei quattro vangeli canonici sembrano non essere d’accordo sull’identità di queste donne e
producono una grave confusione. L’unica che risulta costantemente presente, in tutte le narrazioni
di tutti gli autori, è Maria Maddalena.
Marco e Matteo scrivono che, durante l’agonia di Gesù sulla croce, erano presenti Maria di
Magdala, Maria madre di Giacomo il minore e di Ioses, e Salome, madre dei figli di Zebedeo160,
Luca preferisce lasciare anonime tutte le donne “che lo avevano seguito fin dalla Galilea”161. È
molto curiosa l’assenza della madre di Gesù, che manca anche nelle fasi successive, compresa la
sepoltura, a cui Marco e Matteo continuano a far presenziare le donne già nominate162. E così anche
per la visita al sepolcro vuoto, dove Marco e Matteo insistono sulle solite persone163, mentre Luca,
che finalmente fa nomi espliciti, è d’accordo su Maria di Magdala e Maria madre di Giacomo e
Giuseppe, ma aggiunge una terza inaspettata presenza: Giovanna moglie di Chuza, intendente di
palazzo di Erode164.
Il quadro offerto dal Vangelo secondo Giovanni è completamente diverso: sarebbero state presenti
Maria di Magdala, Maria la madre di Gesù, e Maria di Cleofa, sorella di sua madre165. Dobbiamo
innanzitutto osservare che, come hanno spesso obiettato anche gli esegeti cattolici, è abbastanza
improbabile che due sorelle portassero lo stesso nome, pertanto è difficile credere che Maria di
Cleofa fosse la sorella di Maria madre di Gesù. Nella elencazione dei dodici apostoli, presente nei
vangeli sinottici166, figurano Giacomo di Alfeo e Giuda di Giacomo, da intendersi come fratello di
Giacomo, e quindi figlio di Alfeo/Cleofa. Anche perché fra le lettere apostoliche che completano il
Nuovo Testamento, proprio la Lettera di Giuda inizia così: “Giuda, servo di Gesù Cristo, fratello di
Giacomo”167.
158 Girolamo, De viris illustribus 159 Ci sono sdoppiamenti possibili nelle figure degli apostoli, in quella di Maria di Magdala/Betania, in quella del discepolo prediletto… Vedi David Donnini, Gesù e i Manoscritti del Mar morto, Coniglio ed., Roma, 2006. 160 Mc XV, 40-41; Mt XXVII, 55-56. 161 Lc XXIII, 49. 162 Mc XV, 47; Mt XXVII, 61. 163 Mc XVI, 1; Mt XXVIII, 1. 164 Lc VIII, 2-3; Lc XXIV, 9-10. 165 Gv XIX, 25. 166 “Quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede il nome di apostoli: Simone, che chiamòanche Pietro, Andrea suo fratello, Giacomo, Giovanni, Filippo, Bartolomeo, Matteo, Tommaso, Giacomo d'Alfeo, Simone soprannominato Zelota, Giuda di Giacomo e Giuda Iscariota” (Lc VI, 13-15) 167 Lettera di Giuda, 1.
In pratica, possiamo dedurre che Maria [moglie] di Cleofa, fosse la madre di Giacomo, Joses, Giuda
e Simone, fratelli di Cristo, ovverosia la stessa persona che i Vangeli sinottici definiscono, appunto,
Maria di Giacomo e di Joses. Il quarto vangelo la distingue nettamente dalla madre di Gesù, perché
la nomina a parte, come Maria di Cleofa, sorella di sua madre. Ma quel che è strano è il fatto che i
Vangeli sinottici non citano la madre di Gesù, facendo pensare due possibili cose. La prima è che la
madre di Gesù fosse veramente assente ma, in tal caso, come può il quarto vangelo dirci che Gesù
morente si sarebbe rivolto alla madre e al discepolo prediletto, lì presenti ai piedi della croce, per
affidare a lui la donna168? La seconda è che la madre fosse presente nella persona di Maria madre di
Giacomo e Joses, in quanto madre di Gesù e dei suoi fratelli. Il che ci porta a supporre che
Alfeo/Cleofa, marito di questa donna e padre dei fratelli di Gesù, sia l’identità reale del Giuseppe,
padre di Gesù, che le lettere di Paolo e il Vangelo di Marco non conoscono affatto e che il Vangelo
di Matteo conosce come Giuseppe solo grazie alla natività, che sappiamo essere un’aggiunta
posteriore. Insomma, il Giuseppe del presepe potrebbe essere semplicemente una creazione
posticcia, prodotta al semplice scopo di nascondere la vera famiglia di origine di Gesù e di generare
la leggenda della nascita verginale.
Si osservi questo verso del Vangelo gnostico di Filippo:
“Erano tre che andavano sempre con il Signore: sua madre Maria, sua sorella, e la
Maddalena, che è detta sua consorte. Infatti era Maria sua sorella, sua madre, e la sua
consorte”169.
In esso le tre Marie che accompagnano sempre Gesù sono configurate in modo diverso dalle
identità che troviamo negli scritti canonici, appaiono come una cerchia di parenti strettissime,
casualmente omonime: la madre, la sorella e la moglie. Ammesso che, naturalmente, il termine
consorte debba essere inteso come moglie.
Questa osservazione ci induce a riflettere sul fatto che la cosiddetta Maria di Cleofa potrebbe essere
intesa, non come moglie di Cleofa, ma come figlia e, in tal caso, sarebbe proprio la sorella di Gesù
che compare nel terzetto delle Marie del Vangelo di Filippo.
È importante notare che questi ragionamenti ci portano verso una conclusione a cui ormai diversi
studiosi sono giunti170: alcuni degli apostoli erano fratelli di Gesù, e l’istituzione della comunità dei
dodici, invece che una creazione voluta da Gesù raccogliendo qua e là discepoli selezionati, o anche
168 “Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Clèofa e Maria di Magdala. Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: “Donna, ecco il tuo figlio!”. Poi disse al discepolo: “Ecco la tua madre!”. E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa.” Gv XIX, 25-27. 169 Vangelo di Filippo, 32 (I vangeli apocrifi, a cura di M. Craveri, Einaudi, Torino 1969). 170 Vedi R. Eisenman, Giacomo il fratello di Gesù, Edizioni Piemme, Casale Monferrato (Al), 2007.
degli emeriti sconosciuti incontrati casualmente per la strada, deve essere storicamente
reinterpretata come una sorta di califfato islamico, una famiglia con ambizioni di dignità regale.
Uno degli apostoli fratelli di Gesù, Giacomo, è stato il suo successore. Che dire del fatto che anche
l’apostolo Matteo è definito figlio di Alfeo?
Le natività apocrife.
Già nel capitolo precedente abbiamo accennato alla problematica del rapporto intercorso fra
Giovanni battista e Gesù. Riconoscendo che la subordinazione del primo al secondo appare come
un presupposto catechistico generato con tutta probabilità dagli sviluppi del cristianesimo gentile
(extraebraico), che ha preso le mosse dalla predicazione di San Paolo, in contrapposizione alla fede
dei giudeo cristiani, nazareni e/o ebioniti.
In realtà, alcuni interessanti scritti apocrifi, tendono a correlare le due figure in modo alquanto
diverso, mostrando alcuni aspetti della figura di Giovanni battista, che sembrano recuperarne il
prestigio e l’importanza verso un ruolo più paritario rispetto a quello di Gesù. Gli scritti apocrifi, se
tralasciamo i Vangeli giudeo cristiani e quelli gnostici, sono piuttosto tardi, per questo scarsamente
attendibili, e spesso mostrano la facilità con cui si tendeva ad arricchire di leggenda la figura di
Gesù, esaltandone le facoltà sovrannaturali e la capacità di compiere miracoli. Ciò nonostante, in
alcuni di essi, compaiono notizie e descrizioni che potrebbero avere una derivazione da tradizioni
antiche, dimenticate nei Vangeli canonici, o volutamente scartate perché ritenute poco funzionali, o
addirittura dannose, al profilo teologico della dottrina che andava affermandosi.
Uno scritto che merita interesse, in tal senso, è il cosiddetto Papiro Bodmer V, un testo in lingua
greca che, nel sedicesimo secolo, fu scoperto e tradotto in latino da un certo Guglielmo Postel,
studioso francese. Più comunemente, al giorno d’oggi, è chiamato Protovangelo di Giacomo, in
quanto il testo stesso si autoattribuisce a Giacomo il minore, apostolo e fratello di Cristo. Si tratta,
in sostanza di una natività di Maria, con riferimento alla madre di Gesù, dai vecchi Gioacchino e
Anna. Dei nomi dei genitori della Madonna non si fa cenno negli scritti del canone
neotestamentario, e scaturiscono solo dalla letteratura apocrifa.
La datazione dello scritto prende le mosse dalla constatazione che alcuni antichi autori cristiani lo
citano, a partire addirittura da Giustino (morto nel 165 d.C.). Si pensò infatti, in un primo tempo,
che il protovangelo potesse datare al secondo secolo ma, in seguito, ci si rese conto che il testo cui
fece riferimento Giustino potrebbe essere stato una versione ridotta che, nei secoli successivi,
sarebbe stata ampliata. A seconda degli studiosi la versione attuale risalirebbe almeno al IV secolo
d.C., al V, o addirittura al VI.
Questo protovangelo contiene, nelle sue parti centrale e finale, anche un resoconto della nascita di
Gesù, nonché della strage degli innocenti e della morte di Zaccaria. Ed è su quest’ultima parte che
desideriamo porre l’attenzione adesso.
“Essendo stati avvertiti [i magi] da un angelo di non entrare nella Giudea, se ne
tornarono al loro paese per un’altra via. Accortosi di essere stato giocato dai magi,
Erode si adirò e mandò dei sicari, dicendo loro: - Ammazzate i bambini dai due anni in
giù -. Maria, avendo sentito che si massacravano i bambini, prese il bambino, lo fasciò e
lo pose in una mangiatoia di buoi. Anche Elisabetta, sentito che si cercava Giovanni, lo
prese e salì nella collina guardandosi attorno, ove nasconderlo; ma non c’era alcun
posto come nascondiglio. Elisabetta, allora, gemendo, disse a gran voce: - Monte di
Dio, accogli una madre con il suo figlio -. Subito il monte si spaccò e l’accolse. E
apparve loro una luce, perché un angelo del Signore era con loro per custodirli. Erode,
nel mentre, cercava Giovanni, e mandò dei ministri a Zaccaria, dicendo: - Dove hai
nascosto tuo figlio? - Rispose loro: - Io sono un pubblico ufficiale di Dio e dimoro
costantemente nel tempio del Signore, non so dove sia mio figlio -. Adiratosi, Erode
disse loro: - È suo figlio colui che regnerà su Israele! -. Mandò, perciò, di nuovo da lui
per dirgli: - Dì proprio la verità: dov’è tuo figlio? Sai bene che il tuo sangue sta sotto la
mia mano -. Zaccaria rispose: - Se tu spargerai il mio sangue, io sarò un testimone di
Dio… - … Allo spuntare del giorno Zaccaria fu ucciso”171
Possiamo già notare che in questo scritto le due natività canoniche, quella di Matteo e quella di
Luca, tendono ad essere fuse, perché al racconto dei magi venuti dall’oriente è unito un
collegamento con Giovanni battista.
Ma soffermiamoci su alcuni interessanti dettagli. Innanzitutto, alla notizia che Erode intende
eseguire un massacro dei bambini dai due anni in giù, non segue alcuna fuga in Egitto, bensì Maria
prende suo figlio e si limita a nasconderlo in una mangiatoia per i buoi. Questo è tutto ciò che viene
detto di Gesù. Ben più grande attenzione, invece, è dedicata a Giovanni. Anche la madre di costui,
Elisabetta, “sentito che si cercava Giovanni”, cercò di nasconderlo sulla collina, dove fu aiutata da
un evento miracoloso, e dalla presenza di un angelo custode. A questo punto viene precisato che
Erode cercava proprio Giovanni e che, nel tentativo, mandò a Zaccaria dei sicari, dicendo loro: “ È
suo figlio colui che regnerà su Israele!”.
Se riflettiamo su quanto abbiamo letto, ci rendiamo conto che Maria avrebbe nascosto Gesù, non
perché suo figlio fosse il destinatario specifico della persecuzione, ma solo perché apparteneva alla
fascia di età dei bambini in grave pericolo di vita. Le parole successive del protovangelo indicano il
ricercato specifico nella persona di Giovanni, nei confronti del quale Erode sarebbe arrivato ad
affermare che si trattava del predestinato al trono di Israele.
Osserviamo quanto segue. Se leggiamo la natività secondo Matteo, vediamo che Giovanni non è
neanche nominato e la persecuzione riguarda solamente Gesù, con la conseguenza che la famiglia
deve fuggire in Egitto. Se leggiamo la natività secondo Luca, c’è un’intima correlazione fra
171 Papiro Bodmer V; XXI, 4 - XXIII, 3. Apocrifi del Nuovo Testamento, a cura di L. Moraldi, UTET, Torino, 1975
Giovanni e Gesù, però non c’è alcuna persecuzione. Giovanni è presentato subito come un
personaggio secondario a Gesù, e a quest’ultimo “il Signore darà il trono di Davide, suo padre”. Se
leggiamo il Papiro Bodmer V, Giovanni e Gesù sono correlati, c’è una persecuzione ma non c’è la
fuga in Egitto, Gesù non appare come il perseguitato specifico bensì sembra che costui sia proprio
Giovanni, il quale è “colui che regnerà su Israele”. Si tratta di un’immagine abbastanza
sorprendente che, ancora una volta, ci ricorda la duplice aspettativa messianica della comunità di
Khirbet Qumran: il messia di Davide e quello di Aronne. Erano forse questi i ruoli dei due
personaggi più alti della narrazione evangelica?
Quanto abbiamo letto nel Protovangelo di Giacomo si trova anche in altri testi, come il codice
Hereford 0.3.9, e il codice Arundel 404. Questi furono scoperti nel 1927 da M. Rhodes James, come
manoscritti in lingua latina, comprendenti rispettivamente 100 e 102 capitoli. Uno era una copia del
XIII secolo d.C., l’altro del XIV secolo. Oggi si pensa che la redazione originale non possa essere
fatta risalire a prima del VI secolo. In essi possiamo leggere:
“Erode dunque, adirato, disse a coloro che gli avevano riferito questo: - Zaccaria si
beffa di noi perché suo figlio sta per regnare in Israele con il Cristo -”172;
“Ma quando i servi del re ritornarono e gli riferirono la risposta di Zaccaria, il re
furibondo disse ai suoi: - Zaccaria si beffa di noi perché spera che suo figlio regni con il
Cristo in Israele -”173.
Il riferimento alla duplice aspettativa messianica, per quanto ipotetico, sembra apparire dall’idea
che Giovanni avrebbe dovuto regnare su Israele con il Cristo.
Se volessimo elencare i Vangeli apocrifi della natività e dell’infanzia, oltre ai tre documenti di cui
abbiamo già parlato possiamo nominare:
1) la Natività di Maria, versione armena incompleta la cui redazione originale sembra non
posteriore al V secolo;
2) il Vangelo sulla nascita di Maria, che data probabilmente all’epoca carolingia;
3) il Vangelo dello pseudo Matteo, di cui una parte poteva esistere già in latino nel IV secolo,
mentre la versione attualmente conosciuta dovrebbe risalire al VI, VII secolo;
172 cod. Arundel 404, 99; Apocr. del N. T., op. cit. 173 cod. Hereford 0.3.9, 99; Apocr. del N. T., op. cit.
4) il Vangelo di Tomaso (da non confondere col testo copto noto come Vangelo gnostico di
Tomaso), che pare esistesse già alla fine del II secolo, dal momento che Ireneo, morto nel
202 d.C., lo cita;
5) il Vangelo arabo sull’infanzia del Salvatore, la cui redazione originale siriaca potrebbe
essere anteriore al V secolo;
6) la Storia di Giuseppe falegname, che può essere fatta risalire al IV, V secolo.
Questi scritti tendono ad attribuire molta importanza alla figura di Maria, madre di Gesù, e a
costruire fantasiose leggende relative alla questione della concezione verginale. Come la storia
dell’acqua di gelosia che appare in diversi degli scritti che abbiamo nominato. Qui possiamo
leggerne una versione presente nel Vangelo dello pseudo Matteo:
“Mentre [Giuseppe] pensava di levarsi, di nascondersi e di abitare in luoghi nascosti,
quella stessa notte gli apparve in sogno un angelo del Signore, dicendo: - Giuseppe,
figlio di David, non temere. Prendi Maria come tua moglie: infatti, quanto è nel suo
utero, proviene dallo Spirito santo. Partorirà un figlio e il suo nome sarà Gesù: egli,
infatti, salverà il suo popolo dai suoi peccati. Giuseppe, alzatosi dal sonno, rese grazie a
Dio e narrò la sua visione. Si rallegrò rispetto a Maria, dicendo: - Ho peccato avendo
nutrito qualche sospetto a tuo riguardo -. Dopo di questo si diffuse la voce che Maria
fosse gravida. Allora Giuseppe fu afferrato dagli inservienti del tempio e con Maria
condotto dal pontefice che, insieme con i sacerdoti prese a rimproverarlo, dicendo: -
Perché hai ingannato una tanta e tale vergine, che fu nutrita dagli angeli di Dio nel
tempio, che mai volle vedere o avere un uomo, che aveva un’istruzione ottima nella
legge di Dio? Se tu non le avessi usato violenza, ella sarebbe ancora nella sua verginità
-. Giuseppe assicurò, con giuramento, che non l’aveva mai neppure toccata. Il pontefice
Abiatar gli rispose: - Quant’è vero che Dio vive, ora io ti farò portare l’acqua della
bevanda del Signore, e subito si svelerà il tuo peccato. Si radunò allora
un’innumerevole moltitudine di popolo, e Maria fu condotta al tempio. I sacerdoti, gli
affini e i parenti, piangendo, dicevano a Maria: - Confessa ai sacerdoti il tuo peccato.
Tu infatti eri come una colomba nel tempio di Dio e ricevevi il cibo dalla mano di un
angelo -. Di nuovo Giuseppe fu chiamato all’altare e gli fu data l’acqua della bevanda
del Signore: il bugiardo che l’avesse gustata, dopo che aveva compiuto sette giri intorno
all’altare, riceveva da Dio un qualche segno sulla faccia. Giuseppe dunque dopo aver
bevuto sicuro, compì i sette giri intorno all’altare, e in lui non apparve alcun segno di
peccato. Allora tutti i sacerdoti, gli inservienti e la folla lo dichiararono giusto,
esclamando: - Sei stato beatificato perché in te non fu trovata colpa alcuna -. E,
chiamata Maria, le dissero: - E tu che scusa puoi avere? Qual segno apparirà in te
maggiore di questa gravidanza del tuo ventre che ti tradisce? Poiché Giuseppe a tuo
riguardo è puro, da te domandiamo soltanto questo, che tu confessi chi è colui che ti ha
tradito. Poiché è meglio che ti sveli la tua confessione, piuttosto che l’ira di Dio ti
manifesti in mezzo al popolo imprimendo un segno sulla tua faccia -. Maria allora,
intrepida, disse fermamente: - Signore Dio, re di tutti, che conosci i segreti, se in me vi è
qualche macchia o qualche peccato, o una concupiscenza o impudicizia, tu scoprimi al
cospetto di tutti i popoli affinché a tutti io diventi esempio di emendazione -. Così
dicendo si appressò fiduciosa all’altare del Signore e bevve l’acqua della bevanda, fece
sette giri intorno all’altare, e in essa non si trovò macchia alcuna.”174
In alcuni degli scritti apocrifi che abbiamo precedentemente elencato ricorre la vicenda delle
ostetriche che hanno assistito Maria durante il parto. Si tratta di racconti nei quali è evidente
l’intenzione di soddisfare una certa morbosità popolare, attenta a dettagli anche confidenziali
relativi alla conservazione dell’integrità verginale da parte di Maria. La narrazione è caratterizzata
da un clima intensamente prodigioso. Segni straordinari di ogni genere accompagnano gli eventi, a
voler confermare, ad ogni piè sospinto, la loro qualità sovrannaturale.
Uno di questi, di gusto molto infelice, riguarda l’atto compiuto dall’ostetrica Salomè, che avrebbe
voluto ispezionare personalmente l’integrità di Maria. Un atteggiamento che rispecchia quello
dell’apostolo Tommaso175, il quale non avrebbe creduto alla resurrezione di Gesù se non avesse
toccato personalmente le ferite del suo costato. Questa volta il contatto riguarda le parti intime, ed è
descritto in termini fin troppo espliciti. In conseguenza di ciò, la sfiducia della donna sarebbe stata
punita con l’inaridimento della mano, successivamente guarita grazie al contatto col piccolo Gesù
bambino.
“Vidi una donna discendere dalla collina e mi disse: - Dove vai, uomo? – Risposi: -
Cerco una ostetrica ebrea - E lei: - Sei di Israele? - Si - Le risposi - E lei proseguì: - E
chi è che partorisce nella grotta? - La mia promessa sposa - Le risposi. Mi domandò: -
Non è tua moglie? - Risposi: - È Maria, allevata nel tempio del Signore. Io l’ebbi in
sorte per moglie, e non è mia moglie, bensì ha concepito per opera dello Spirito santo -
La ostetrica gli domandò: - È vero questo? - Giuseppe rispose: - Vieni e vedi - . E la
ostetrica andò con lui. Si fermarono al luogo della grotta ed ecco che una nube
174 Vangelo dello pseudo Matteo, X, 1 – XII, 3; Apocr. del N. T., op. cit.
splendente copriva la grotta. La ostetrica disse: - Oggi è stata magnificata l’anima mia,
perché i miei occhi hanno visto delle meraviglie e perché è nata la salvezza per Israele -
Subito la nube si ritrasse dalla grotta, e nella grotta apparve una gran luce che gli occhi
non potevano sopportare. Poco dopo quella luce andò dileguandosi fino a che apparve
il bambino: venne e prese la poppa di Maria, sua madre. L’ostetrica esclamò: Oggi per
me è un gran giorno, perché ho visto questo nuovo miracolo -. Uscita dalla grotta
l’ostetrica si incontrò con Salomè, e le disse : - Salomè, Salomè! Ho un miracolo
inaudito da raccontarti: una vergine ha partorito, ciò di cui non è capace la sua natura
– Rispose Salomè: - [Come è vero che] vive il Signore, se non ci metto il dito e non
esamino la sua natura, non crederò mai che una vergine abbia partorito. Entrò
l’ostetrica e disse a Maria: - Mettiti bene. Intorno a te, c’è, infatti, un non lieve
contrasto - Salomé mise il suo dito nella natura di lei, e mandò un grido, dicendo: -
Guai alla mia iniquità e alla mia incredulità, perché ho tentato il Dio vivo ed ecco che
ora la mia mano si stacca da me, bruciata - E piegò le ginocchia davanti al Signore,
dicendo: - Dio dei miei padri, ricordati di me che sono stirpe di Abramo, di Isacco e di
Giacobbe. Non fare di me un esempio per i figli di Israele, ma rendimi ai poveri. Tu,
Padrone, sai, infatti, che nel tuo nome io compivo le mie cure, e la mia ricompensa la
ricevevo da te -. Ed ecco apparirle un angelo del Signore, dicendole: - Salomè, Salomè!
Il Signore ti ha esaudito: accosta la tua mano al bambino e prendilo si, e te ne verrà
salute e gioia -. Salomè si avvicinò e lo prese su, dicendo: - L’adorerò perché a Israele è
nato un grande re – E subito Salomè fu guarita e uscì dalla grotta giustificata. Ed ecco
una voce che diceva: - Salomè, Salomè! Non propalare le cose meravigliose che hai
visto, sino a quando il ragazzo non sia entrato in Gerusalemme -”176.
Il testo che segue, appartenente al cosiddetto Vangelo dello Pseudo Matteo, tratta del viaggio
compiuto durante la fuga in Egitto e mostra un Gesù bambino che già compie miracoli di ogni tipo,
risolvendo spesso le difficoltà del tragitto. Vi sono infatti brani, successivi a quello che stiamo per
leggere, in cui leoni, lupi e leopardi si inchinano al passaggio della famiglia e la accompagnano nel
suo cammino. In seguito Gesù fa scaturire fonti di acque fresche e limpide e, di fronte alla
pericolosa arsura del deserto, fa percorrere il cammino di trenta giorni in un giorno solo.
“Giunti a una certa grotta volevano riposarsi in essa e la beata Maria discese dal
giumento e, seduta, teneva il fanciullo Gesù nel suo grembo. Con Giuseppe c’erano tre
175 “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò” (Gv XX, 25)
ragazzi e con Maria una ragazza che facevano la stessa strada. Ed ecco che
improvvisamente dalla grotta uscirono molti draghi: i ragazzi, vedendoli, furono presi
da gran timore e gridarono. Allora Gesù scese dal grembo di sua madre, e stette dritto
sui suoi piedi davanti ai draghi: essi allora adorarono Gesù e se ne andarono via da
loro. Si adempì allora quanto era stato detto dal profeta David, con le parole: Dalla
terra lodate il Signore, o draghi, draghi e abissi tutti. Ma egli, il bambinello Gesù,
camminando davanti ad essi, ordinò loro di non fare più male a nessun uomo. Maria e
Giuseppe temevano assai che il bambinello fosse leso dai draghi. Ad essi, perciò Gesù
disse: - Non temete, e non pensate che io sia un bambinello. Io infatti sono sempre stato
perfetto e lo sono tuttora: è necessario che tutte le bestie selvatiche davanti a me
diventino mansuete.”177.
In queste ultime righe possiamo notare il concetto dell’incarnazione divina. Il piccolo dichiara
apertamente di mostrarsi come bambino solo nell’aspetto esteriore, ma di essere, in realtà, un
principio perfetto eterno, incarnato e manifestato. Possiamo capire quanto sarebbe stato impossibile
che un giudeo, come il presunto autore Matteo, presentasse un’idea simile, del tutto estranea alla
religiosità ebraica, che pone una distanza incolmabile fra la natura divina e quella umana. Il dio
degli ebrei interviene spesso nelle vicende umane, ma sempre dall’alto della sua superiorità
incorporea. Gli uomini possono essere scelti, favoriti, aiutati, protetti, o puniti e fatti oggetto di
vendetta. Mai comunque la natura divina e quella umana possono mescolarsi, come è comune in
altre concezioni religiose pagane. Da qui anche il divieto di creare rappresentazioni idolatre del dio
in forma animale o umana.
Alcuni scritti apocrifi si dilungano su avvenimenti dell’infanzia di Gesù, ovverosia su quel periodo
oscuro che la letteratura canonica sfiora semplicemente col breve episodio del bambino dodicenne
fra i dottori del tempio. In essi la tendenza a rappresentare Gesù come artefice di miracoli si
moltiplica a dismisura facendo compiere al fanciullo ogni genere di prodigi, e finendo per
dipingerlo come una sorta di stregone. Assai spesso la sostanza di questi racconti decade verso
fantasie di gusto macabro che deteriorano l’immagine di Gesù come principe della saggezza e della
misericordia, perché gli attribuiscono tutti gli impulsi dell’orgoglio, della rabbia e della vanità
umana, lasciando apparire le sue facoltà sovrannaturali come se fossero abilità diaboliche piuttosto
che attributi della divinità. Si nota così come, nella redazione di questi scritti, abbia prevalso il
desiderio di colpire l’emotività popolare con le suggestioni dei prodigi, lasciando scadere il valore
spirituale. In effetti, in epoca medievale, questi scritti apocrifi, pur essendo ufficialmente dichiarati
176 Papiro Bodmer V; XIX, 1 – XX, 4. Apocr. del N. T., op. cit. 177 Vangelo dello pseudo Matteo, XVIII, 1; Apocr. del N. T., op. cit.
non autentici dalla chiesa, hanno esercitato un certo peso sulle tradizioni popolari e sono stati alla
base di alcune diffuse credenze. I tre testi che seguono appartengono al cosiddetto Vangelo di
Tomaso, recensione greca “A”, di cui si arriva a supporre che una versione primitiva potesse già
esistere alla fine del II secolo.
“Dopo di ciò [Gesù fanciullo] camminava attraverso il villaggio, quando un ragazzo,
correndo, andò a urtare contro la sua spalla. Gesù irritato, gli disse: - Non percorrerai
tutta la tua strada! - E subito cadde morto. Ma alcuni, vedendo ciò che accadeva,
dissero: - Dov’è nato questo ragazzo, che ogni sua parola è un fatto compiuto? -. I
genitori del morto, andati da Giuseppe, lo biasimavano dicendo: - Tu, che hai un tale
ragazzo, non puoi abitare nel villaggio con noi. Oppure insegnagli a benedire, e a non
maledire. Egli, infatti, fa morire i nostri ragazzi -. Giuseppe, chiamato in disparte il
ragazzo, lo ammoniva dicendo: - Perché fai tali cose? Costoro ne soffrono, ci odiano e
perseguitano - Gesù gli rispose: - Io so che queste tue parole non sono tue, tuttavia starò
zitto per amor tuo; ma quelli porteranno la loro punizione -. Quanti videro questo, si
spaventarono fortemente, restarono perplessi e dicevano, a proposito di lui, che ogni
parola che pronunziava, buona o cattiva che fosse, era un fatto compiuto. E divenne una
meraviglia. Vedendo che Gesù aveva fatto una tale cosa, Giuseppe si levò, gli prese
l’orecchio e glielo tirò forte. Ma il ragazzo si sdegnò e gli disse: - A te basti cercare e
non trovare. Veramente non hai agito in modo sensato. Non sai che sono tuo? Non mi
molestare!”178.
“Alcuni giorni dopo, mentre Gesù giocava sulla terrazza di un tetto, uno dei bambini che
giocavano con lui cadde dalla terrazza e morì. Gli altri ragazzi, visto ciò, fuggirono e
Gesù rimase solo. Venuti i genitori del morto, l’accusavano di averlo gettato giù… Ma
quelli lo maltrattavano. Gesù allora scese precipitosamente giù dal tetto, si fermò vicino
al cadavere del ragazzo e gridò a gran voce: - Zenone - questo era il suo nome - alzati e
dimmi: sono io che ti ho gettato giù? - E subito, alzatosi, rispose: - No, Signore, tu non
mi hai gettato giù, ma mi hai risuscitato -. I presenti rimasero attoniti. Mentre i genitori
del ragazzo glorificarono Dio per il segno avvenuto, e adorarono Gesù.”179.
“Suo padre era falegname e, in quel tempo faceva aratri e gioghi. Una persona ricca gli
ordinò di fare un letto; ma una delle assi, quella detta trasversale, era troppo corta e
178 Vangelo di Tomaso, recens. gr. A; IV, 1 – V, 3. Apocr. del N. T., op. cit. 179 Vangelo di Tomaso, recens. gr. A; IX, 1 – 3. Apocr. del N. T., op. cit.
Giuseppe non sapeva che fare. Il ragazzo Gesù disse allora a suo padre Giuseppe: -
Metti in terra le due assi e pareggiale da una delle due parti -. Giuseppe fece come gli
aveva detto il ragazzo: Gesù si pose dall’altra parte, afferrò l’asse più corta e la tirò a
sé rendendola pari all’altra. A tale vista, suo padre Giuseppe rimase stupito e
abbracciava il ragazzo e lo baciava esclamando: - Me felice, giacché Dio mi ha dato
questo ragazzo! -”180.
Un interessante scritto apocrifo è il cosiddetto “Vangelo arabo sull’infanzia del Salvatore”. Si tratta
di un testo in lingua araba di cui possediamo alcuni manoscritti arabi e siriaci non anteriori al secolo
tredicesimo. Uno dei più antichi fra questi è il Codex Orientalis 32, conservato presso la bibioteca
laurenziana di Firenze. L’opinione prevalente degli studiosi è che la versione araba sia, in realtà, la
traduzione di un testo composto originariamente in siriaco, anche se si pensa che il Vangelo arabo
che conosciamo sia il risultato di un lavoro compilativo e che, pertanto, quello che leggiamo oggi
possa essere fatto risalire al massimo all’ottavo o al nono secolo.
Le varie parti denunciano fonti diverse: la sezione relativa alla nascita di Gesù sembra collegata al
Papiro Bodmer, quella relativa alla fuga in Egitto al Vangelo dello pseudo-Matteo, i miracoli di
Gesù bambino sembrano essere stati presi dal Vangelo di Tomaso e, infine, la conclusione sembra
riferita alle natività dei Vangeli canonici.
Ci sono anche disomogeneità stilistiche, per esempio il gran numero di miracoli e di guarigioni di
cui si parla in questo testo vedono quasi sempre l’intervento mediatore di Maria e la figura del
bambino è benevola e mite, tranne nei capitoli dal 46 al 49, in cui Gesù mostra di usare i suoi poteri
sovrannaturali per compiere feroci azioni vendicative:
“Un’altra volta mentre, di sera, il signore Gesù ritornava a casa con Giuseppe gli venne
incontro, correndo, un ragazzo e lo urtò così violentemente da farlo cadere. Il signore
Gesù gli disse: “come è svanita quest’acqua, così svanisca la tua vita”. E
immediatamente quel ragazzo restò secco.”181;
“Lo condussero allora a un altro maestro più dotto. Questi appena lo vide gli disse:
“Pronuncia l’alef”. Pronunciato che ebbe l’alef il maestro gli ordinò di pronunciare
bet. Ma il signore Gesù gli rispose: “Dimmi prima il significato di alef, poi io
pronuncerò bet”. Avendo il maestro alzato la mano per fustigarlo subito la mano inaridì
180 Vangelo di Tomaso, recens. gr. A; XIII, 1 – 2. Apocr. del N. T., op. cit. 181 Vangelo arabo dell’infanzia del Salvatore XLVII, 1; Apocr. del N. T., op. cit.
ed egli morì. Allora Giuseppe disse alla padrona Maria: “di qui in poi non lasciamolo
più uscire di casa. Chiunque infatti lo contraria è colpito a morte””182.
Nel capitolo 7, quando si parla dei magi, è fatto esplicito riferimento ad una profezia di Zarathustra,
confermando il collegamento fra le figure dei magi e la religiosità avestica iraniana:
“Nato il signore Gesù in Betlemme di Giuda, al tempo di re Erode, ecco che dei magi
vennero a Gerusalemme, come aveva predetto Zeradusht, portando seco dei doni, oro,
incenso e mirra; lo adorarono e gli offrirono i loro doni”183.
In particolare, il manoscritto laurenziano conservato a Firenze è più ampio su questo particolare, e
afferma che Zarathustra aveva profetizzato che una vergine avrebbe generato un bimbo in Israele, il
quale successivamente avrebbe dovuto sacrificarsi per il suo popolo, e che una stella sarebbe
apparsa al momento della sua nascita per guidare i magi a Betlemme.
Il Vangelo arabo narra di una curiosa tradizione relativa al prepuzio di Gesù bambino, collegato con
l’ampolla di olio di nardo che sarebbe stata usata da Maria, sorella di Lazzaro, durante l’episodio
dell’unzione di Betania:
“Lo circoncisero dunque nella grotta: quella vecchia ebrea [che era stata chiamata da
Giuseppe in aiuto al parto] prese questa membrana, secondo altri invece essa prese il
cordone ombelicale, e lo mise in una ampolla di vecchio olio di nardo. Aveva un figlio
profumiere e affidandogli quell’ampolla gli disse: guardati dal vendere quest’ampolla di
olio di nardo, anche se per essa ti offrissero trecento denari. Questa è l’ampolla
comprata da Maria peccatrice e versata sul capo e sui piedi del Signore nostro Gesù
Cristo asciugati poi con i capelli del suo capo”184.
Nello scritto sono fatti comparire ben tre futuri apostoli di Gesù, i quali beneficiano di qualche
prodigio che li guarisce da una malattia, da un morso di serpente velenoso o da una possessione
demoniaca:
“Quando lo pose sul letto ove giaceva Cristo, era ormai morto alla vita e aveva chiuso
gli occhi. Ma subito quel fanciullo fu colpito dal profumo delle vesti del signore Gesù
182 Vangelo arabo dell’infanzia del Salvatore XLIX, 1-2; Apocr. del N. T., op. cit. 183 Vangelo arabo dell’infanzia del Salvatore VII, 1; Apocr. del N. T., op. cit. 184 Vangelo arabo dell’infanzia del Salvatore V, 1; Apocr. del N. T., op. cit.
Cristo, aprì gli occhi e, chiamando a gran voce la madre, le chiese del pane … Questo
fanciullo guarito è quello che nel Vangelo è chiamato Bartolomeo”185.
“Questo ragazzo che percosse Gesù e dal quale uscì satana sotto forma di cane, era
Giuda Iscariota che lo consegnò ai Giudei. E il lato percosso da Giuda è quello stesso
nel quale i Giudei confissero la lancia”186.
“Egli disse: “Va e succhia tutto il veleno che hai iniettato in questo ragazzo. Il serpente
si avvicinò al ragazzo e succhiò tutto il suo veleno”. Poi il signore Gesù lo maledisse e
subito scoppiò. Il ragazzo, invece, accarezzato dalla mano del signore Gesù, guarì. E
avendo cominciato a piangere, il signore Gesù gli disse: “Non piangere, presto sarai
mio discepolo”. Questo è Simone il cananeo del quale parla il Vangelo”187.
Il Vangelo arabo ebbe grande diffusione e fu usato anche dai musulmani, si pensa addirittura che le
sue versioni più antiche possano aver avuto influenza sulla genesi delle tradizioni coraniche relative
a Gesù. Fu usato dai siri nestoriani, dai persiani, dagli egiziani copti e arabi.
185 Vangelo arabo dell’infanzia del Salvatore XXX, 2; Apocr. del N. T., op. cit. 186 Vangelo arabo dell’infanzia del Salvatore XXXV, 2; Apocr. del N. T., op. cit. 187 Vangelo arabo dell’infanzia del Salvatore XLII, 3-4; Apocr. del N. T., op. cit.
La nascita di Gesù nelle tradizioni ebraiche
A seguito della predicazione paolina, la cui prerogativa fondamentale è stata la dissociazione
della figura di Gesù dal contesto politico e religioso messianico in cui si è svolta l’attività dei
primi giudeo cristiani, ebioniti e nazareni, la nuova fede ha iniziato a svilupparsi in modo
autonomo lungo molteplici correnti, dai caratteri alquanto diversi, ma con un elemento in
comune: la distanza crescente dall’ebraismo e la contrapposizione ad esso. Già nei Vangeli
canonici troviamo evidenti segni di questo fatto. Lo abbiamo visto nella celebre maledizione
della stirpe giudaica188, e ne abbiamo un’altra testimonianza, nello stesso Vangelo, fra le ultime
righe:
“Mentre esse erano per via, alcuni della guardia giunsero in città e annunziarono ai
sommi sacerdoti quanto era accaduto. Questi si riunirono allora con gli anziani e
deliberarono di dare una buona somma di denaro ai soldati dicendo: “Dichiarate: i suoi
discepoli sono venuti di notte e l'hanno rubato, mentre noi dormivamo. E se mai la cosa
verrà all'orecchio del governatore noi lo persuaderemo e vi libereremo da ogni noia”.
Quelli, preso il denaro, fecero secondo le istruzioni ricevute. Così questa diceria si è
divulgata fra i Giudei fino ad oggi.”189.
In particolare notiamo che l’espressione “questa diceria si è divulgata fra i Giudei” pone una
tale distanza e avversione fra l’evangelista e gli ebrei, da rendere palese che questi testi non
possono essere nati nella mente di un ebreo, né possono essere stati concepiti per un pubblico
ebreo. Sembra che l’autore si sentisse in dovere di confutare le obiezioni che, in ambiente
giudaico, erano già sorte intorno alla figura di Gesù e alle convinzioni dei cristiani.
Nel tentativo di comprendere queste dinamiche non possiamo dimenticare che, già nella prima
metà del primo secolo d.C., le sette messianiche avevano prodotto una serie ininterrotta di disagi
al popolo, confluita poi nella degenerazione in conflitto totale, nel 66, e nella catastrofe
completa della nazione, nell’estate del 70, quando Tito espugnò Gerusalemme e saccheggiò il
tempio. In seguito a questi fatti, una buona parte degli israeliti conservava un forte rancore nei
confronti dei seguaci di Gesù, prima, e di suo fratello Giacomo, poi, cioè delle prime forme di
cristianesimo giudaico non ancora configuratosi come religione separata.
Ma quando i seguaci di San Paolo iniziarono a produrre elementi teologici esterni, ad assimilare
sincretisticamente dalle spiritualità pagane, ad individuare nei giudei i colpevoli della condanna
188 Mt XXVII, 25. 189 Mt XXVIII, 11-15.
di Gesù, allora l’ebraismo, dalla posizione di grave svantaggio in cui era improvvisamente
venuto a trovarsi nell’impero romano, iniziò a sua volta a produrre potenti anticorpi contro la
religione che era diventata ostile e pericolosa per la stessa identità etnica e culturale dei figli di
Israele.
L’ebraismo del tempio e dei sacerdoti sadducei era morto, i discendenti dei farisei si
adoperavano con ogni energia per rimettere in piedi una tradizione che, adesso, aveva come
punto di riferimento la sinagoga e l’insegnamento rabbinico. È stata inevitabile, in questo
contesto, la nascita di credenze relative alla scomoda figura di Gesù, così paradossalmente ebreo
per nascita e per educazione, e diventato così maledettamente gentile per fisionomia teologica e
per pubblico di seguaci.
“Schema Yisrael Adonai Elohenu Adonai Echod”190, così recita il credo fondamentale degli
ebrei, nel quale si ribadisce in modo inequivocabile il concetto dell’unicità di dio, del tutto
incompatibile con una teologia di carattere trinitario, com’è quella cristiana, in cui a Gesù viene
addirittura attribuita una consunstanzialità con la natura divina del padre celeste. Per la fede
cristiana sviluppatasi a partire dalla revisione paolina Gesù condivide natura divina ed umana,
cosa che per gli ebrei costituisce una blasfemia insopportabile. Per gli ebrei è eretico il solo fatto
che qualcuno pretenda di essere anche semplicemente parte di dio o figlio di dio. Ed è per
questo che l’ebraismo respinge nel complesso la figura teologica del Gesù cristiano.
Analogamente dicasi per l’attribuzione a Gesù di una dignità messianica, dal momento che il
messia atteso in conformità alle profezie che lo annunciano deve dare concretamente inizio ad
un’era di pace e prosperità per il suo popolo, sconfiggendo i suoi nemici, ricostruendo il tempio
di Gerusalemme, stabilendo una condizione in cui la “conoscenza di dio riempie il mondo”, e le
nazioni riconoscono i loro torti nei confronti di Israele. Per gli ebrei la caratteristica
fondamentale che deve distinguere un autentico messia è il raggiungimento del successo nella
propria missione. Perché ciò mostra la reale presenza di Dio a guida e sostegno del suo
prescelto.
Ma un presunto figlio di Davide che annuncia la realizzazione del “regno di Dio”, e poi finisce
crocifisso in mezzo a due latrones191, lasciando una schiera di seguaci disperati che continuano
a promettere una salvezza che non arriva, appare come un millantatore fallito, destinato a cadere
nell’oblio o nel disprezzo. Tanto più che, a posteriori dell’opera messianica di Gesù e dei suoi
seguaci, la nazione e il popolo di Israele furono precipitati nella catastrofe e il tempio fu
letteralmente raso al suolo.
190 “Ascolta Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è l’unico Dio” 191 Si tenga presente che, per i romani, il termine latrones, come i termini sicarii e galilaei, era indicativo dei ribelli yahwisti che credevano nell’imminente compimento delle profezie messianiche.
Gesù non era caduto nell’oblio. Sebbene totalmente ridisegnato nel suo profilo ideologico e
spirituale, aveva offerto il punto di riferimento per un nuovo culto e una nuova religione, che
aggiungevano alle già terribili disgrazie degli ebrei un’ulteriore mole di difficoltà e di
sofferenze. Prima fra tutte quella di essere odiati per il semplice fatto di essere ebrei.
Nacquero allora racconti e tradizioni a carattere denigratorio che, con tutta probabilità,
circolavano già, in forma orale e forse anche scritta, nel secondo secolo. Abbiamo una
testimonianza di Giustino martire (giustiziato a Roma intorno al 168 d.C.), il quale ha scritto nel
suo “Dialogo con Trifone” che gli ebrei mandavano in giro predicatori che mettessero in guardia
gli israeliti contro l’inaccettabile eresia cristiana. Non sappiamo cosa ciò significhi esattamente,
ma ne possiamo dedurre comunque un impegno attivo degli ebrei contro il cristianesimo. In
questo impegno dobbiamo individuare le radici primitive di ciò che, alcuni secoli più tardi,
prenderà la forma di una tradizione scritta sotto il nome di Toledoth Jeshu (le storie di Gesù),
nella quale si attribuisce al sedicente messia una nascita illegittima, un’attività da “mago”, e una
morte disonorevole. Noi sappiamo che questi libri esistevano senz’altro nel nono secolo perché,
a quell’epoca, un certo Agobardo192, vescovo di Lione, ne ha testimoniato l’esistenza. Le prime
redazioni dovevano essere state composte in aramaico, ma poi ne furono prodotte versioni in
ebraico, giudeo persiano, arabo, yiddish e giudeo spagnolo, che ebbero ampia circolazione in
Europa e nel vicino oriente.
Per lungo tempo i cristiani hanno ignorato queste opere, non solo nel senso di non attribuire loro
alcuna importanza, ma anche in quello di non conoscerne nemmeno l’esistenza. Poi, nel
tredicesimo secolo, un certo Raimondo Martì193 si prese cura di tradurle in latino. Le reazioni
del mondo cristiano furono di estremo scandalo e, non raramente, furono usate come pretesto
per fomentare il rancore antisemita: la teoria opportunistica era quella che, non solo gli ebrei
avevano provocato la morte di Gesù, ma continuavano a indirizzargli calunnie vergognose,
mostrando così una natura irrimediabilmente perversa.
La prima edizione stampata delle Toledoth Jeshu fu quella del 1681, curata da Wagenseil, che
definiva l’opera come “nefandum et abominabilem libellum”, “cacatus a Satana”. Nel 1705 fu
pubblicata da Huldreich un’altra versione, diversa. E nel 1902 un’altra versione ancora, da parte
di Krauss, che eseguì un importante studio filologico su questi scritti ebraici.
Confrontando le versioni, possiamo notare quanto siano diverse le interpretazioni dei fatti che
avrebbero riguardato il concepimento di Gesù da parte di Maria, anche se l’elemento comune è
quello di far apparire Gesù come il frutto di una relazione illegittima. Compare sempre il nome
192 Agobardus Lugdunensis (778-840 d.C.), De Iudaicis Superstitionibus. 193 Raimondo Martì o Martini, nato intorno al 1215 nei pressi di Barcellona, forse di origini ebraiche e convertito al cristianesimo, ma si tratta di un’ipotesi non confermata. Fu frate domenicano impegnato nel tentativo missionario di conquistare musulmani ed ebrei alla fede cristiana.
Pandira, o Pandera, o Panther, che già era stato nominato da Celso, filosofo greco anticristiano,
nel suo libro “Discorso Vero”, del 178 d.C. circa. In questo scritto l’autore ha affermato che
Maria era stata ingravidata da un soldato romano chiamato Pantera, e successivamente ripudiata
dal marito. Il padre della chiesa Origene (185-254 d.C.), nella sua opera “Contra Celsum”, si è
sentito in dovere di confutare puntigliosamente tutte le opinioni di Celso.
Ora, sembra proprio che il nome Pantera fosse ricorrente fra i soldati romani, e alcuni studiosi
hanno avanzato l’ipotesi che l’espressione Jeshu ben Pantera (Gesù figlio di Pantera) sia un
irriverente gioco di parole che ironizza sull’idea che Gesù fosse figlio di una vergine, parthenos
in greco. Non possiamo sapere quanto ciò sia vero, dal momento che esistono prove del fatto
che l’espressione “Gesù figlio di Pantera” era usata dagli ebrei, già dalla fine del primo secolo, o
dall’inizio del secondo, per indicare Gesù194, senza il significato denigratorio che associa il
nome Pantera ad un soldato romano.
Il testo che segue, chiamato manoscritto di Strasburgo, rappresenta Maria come fidanzata a un
certo Jochannan, discendente di Davide, che viene violentata da un vicino di casa, tale Josef ben
Pandera, il quale la mette incinta, sebbene ella si trovi nel periodo del ciclo. Venendo a
conoscenza del fatto, il fidanzato Jochannan ritiene di essere profondamente disonorato e, per
la vergogna, parte e si stabilisce definitivamente a Babilonia. Quindi Maria partorisce un figlio
maschio e lo chiama Jehoshua, poi semplificato in Jeshu.
“Inizio della creazione di Jeshu. Sua madre Miriam era ebrea e aveva un marito che
era della stirpe di David [si riferisce alla condizione di fidanzamento, ovverosia al
periodo iniziale in cui, secondo l’usanza ebraica, ai coniugi non sono consentiti rapporti
sessuali (nda)]; si chiamava Jochannan, ed era un uomo colto e molto timorato del
Signore. C’era vicino alla sua porta di casa, di rimpetto, un uomo di bell’aspetto, …
Josef ben Pandera. Aveva messo gli occhi su di lei, ed una notte, all’uscita del Sabato,
passò davanti alla sua porta ubriaco; entrò da lei e lei pensò che fosse suo marito
Jochannan; si nascose il volto e provò vergogna… Egli la abbracciò, mentre lei gli
diceva: “Non toccarmi, che sono mestruata”; non pensò e non si preoccupò delle sue
parole e giacque con lei e lei rimase incinta di lui. A mezzanotte arrivò suo marito R.
Jochannan; lei gli disse: “Cos’è questo? Non c’era una simile abitudine dal giorno che
mi hai sposato, di venire da me due volte in una notte”. Le rispose: “È per la prima
volta che vengo da te questa notte”. Lei disse: “Sei venuto da me e ti ho detto che ero
mestruata e non te ne sei preoccupato e hai fatto ciò che volevi e te ne sei andato”.
194 Tosefta Palestinese e Talmud Babilonese.
Appena sentito ciò, egli riconobbe subito che Josef ben Pandera le aveva messo gli
occhi addosso e che era stato lui a compiere quell’azione…”195.
Nel manoscritto siglato K2, appartenente ai cosiddetti “testi italiani”, è presente una storia molto
simile a quella che abbiamo appena visto, con la differenza che i personaggi sono letteralmente
scambiati. Il fidanzato è Josef Pandera, mentre il malvagio stupratore si chiama Jochannan, ed è
un vicino di casa:
“…c’era un uomo della stirpe della casa di David, chiamato Josef Pandera; aveva una
moglie di nome Miriam; egli era timoroso di Dio ed era discepolo di R. Shimon ben
Shatach. Abitava vicino a queso Josef un malvagio, di nome Jochannan il malvagio,
tresgressore ed adultero. Miriam era una donna di bell’aspetto, ed il malvagio
Jochannan aveva puntato gli occhi su di lei, volendo possederla. Così seguiva sempre la
modesta donna, in modo che non si accorgesse di nulla. E così avvenne il fatto nel mese
di Nisan, alla fine della Pasqua, all’uscita del Sabato, a mezzanotte. Poiché Josef era
andato nella scuola, questo malvagio si alzò nottetempo e si fermò vicino alla porta di
casa; e dopo che Josef uscì, il malvagio entrò in casa e trovò Miriam che giaceva
separata dal marito, perché era mestruata. Il malvagio si mosse e giacque con lei,
mentre lei gridava a lungo, pensando che fosse suo marito, dicendo: “Mio signore, mio
signore, non lo sai che sono mestruata ed impura? Allontanati e non fare questa orribile
azione, e non suscitare l’ira divina”. Alla fine il malvagio giacque con lei e lei rimase
incinta di lui…”196.
L’ultimo manoscritto che esaminiamo è la cosiddetta versione Huldricus, secondo l’edizione del
1705. Esso offre una versione ancora diversa dalle precedenti. Questa volta Maria appare
fidanzata ad un certo Pappos, che è molto geloso e costringe la donna a rimanere chiusa in casa.
Il responsabile di adulterio è un certo Josef Pandera di Notzrì, dove l’espressione “di Notzrì”
mostra un evidente errore dell’autore, che confonde l’aggettivo ebraico che significa nazareno
(come titolo religioso) col nome stesso della città di provenienza. In realtà gli ebrei chiamavano
Gesù Jehoshua ha Notzrì o, parlando in aramaico, Jeshu Nazorai, senza intendere con questo la
sua provenienza geografica, ma indicando un’appartenenza settaria.
195 Riccardo Di Segni, Il Vangelo del Ghetto, Newton Compton Editori, Roma, 1985, pagg. 51-52. 196 Idem, pag. 67.
“Durante il regno di Erode il proselita c’era un uomo di nome Pappos ben Jehudah che
aveva una moglie di nome Miriam, figlia di Qlopas; questa Miriam prima di sposarsi
faceva la parrucchiera, ed era sposata a Pappos secondo la legge di Mosè e di Israele
ed era molto bella; era della tribù di Beniamino. Suo marito Pappos non la lasciava
uscire di casa e le chiudeva la porta, per impedire che gente senza scrupoli facesse
adulterio con lei. Ci fu un giorno, il giorno del digiuno di Kippur, che passò davanti alla
sua finestra Josef Pandera di Notzrì, un uomo empio e di bell’aspetto; quando egli vide
che non c’era nessuno in casa di lei, alzò la voce e le gridò: “Miriam, Miriam, fino a
quando te ne starai prigioniera a farti vedere dalla finestra?”. Gli rispose: “Josef,
Josef, salvami”. Josef andò a prendere una scala e Miriam uscì dalla finestra e
fuggirono entrambi da Gerusalemme a Betlemme nel giorno del digiuno di Kippur e
dimorarono a Betlemme per molto tempo, senza che alcuno li riconoscesse. Josef
giacque con Miriam nel giorno del digiuno di Kippur e costei concepì e gli partorì,
passato l’anno, Jeshua Notzrì; e concepì ancora e partorì figli e figlie...”197.
Nel seguito della storia, il marito legittimo Pappos viene avvertito che la moglie lo aveva tradito
con Josef Pandera, che aveva avuto prole da lui e che viveva a Betlemme. Addirittura Erode
sarebbe stato informato dell’adulterio, dopodiché il regnante in persona si sarebbe preoccupato
di cercare Josef, Miriam e i figli per punirli. Non avendoli trovati avrebbe ordinato l’assassinio
di tutti i bambini di Betlemme. Abbiamo così una versione estremamente curiosa, sia del
massacro di Betlemme, sia della fuga in Egitto. Dal momento che Josef, avvertito del pericolo
incombente, sarebbe fuggito in Egitto con tutta la famiglia.
La causa della fuga e del massacro, che nel Vangelo di Matteo è individuata nella personalità
messianica del bambino e nella paura del monarca che Gesù potesse mettere in pericolo la sua
sovranità su Israele, è completamente alterata. Di personalità messianica non si parla proprio, e
su Gesù rimane semplicemente l’infamia di essere figlio adulterino e bastardo. Quando poi egli
stesso avrebbe scoperto la propria origine, in un impeto di rabbia avrebbe ucciso il padre Josef.
“Quando Jeshua si rese conto che era bastardo, e per questo i sapienti lo avevano
segnato, andò alla città di Notzrì dalla madre e fece finta di soffrire di mal di denti.
Disse alla madre: “Quando studiavo a scuola ho sentito che c’è questa cura per il mal
di denti: che la madre del malato vada a mettere i suoi seni tra i cardini e la porta e il
malato succhi dai suoi seni e guarisca”. La madre gli disse: “Alzati figlio mio e lo
farò”. Appena lo fece, Jeshua si alzò e chiuse il seno di lei nella porta, dicendo: “Non ti
197 Idem, pag. 84.
lascio fino a che non mi dici come sono nato e quali sono le tue azioni”. Gli rispose:
“Sei bastardo, perché ho un altro marito, di nome Pappos; tuo padre Josef mi ha preso
senza divorzio da mio marito Pappos e tutti i miei figli sono bastardi”. Quando Jeshua
sentì quelle parole, preso da ira uccise suo padre Josef; fuggì quindi nella regione di
Giudea.”198.
198 Idem, pagg. 86-87.
La nascita di Gesù nel Corano
Alle origini della sintesi coranica, operata principalmente da Maometto nel settimo secolo d.C.,
deve essere riconosciuta la volontà, non tanto di creare una nuova religione, ma di rivelare che
l’autentico creatore dell’universo e dell’umanità, Allah, era lo stesso unico dio in cui avevano
già creduto uomini come Abramo, Mosè e Gesù. Il concetto primitivo dell’Islam era quello che
Maometto si inserisse in questa serie di profeti, come messaggero di Allah, e che tutto ciò
potesse essere accettato anche dagli ebrei e dai cristiani, coi quali condivideva l’ideale
monoteistico e molte delle tradizioni antiche. Maometto aveva sentito parlare delle antiche
scritture degli ebrei e dei cristiani, la Torah (Tawrat) e il Vangelo (Injil), anche se,
probabilmente, non conosceva le lingue in cui erano scritte, ebraico, greco, latino, e non le
aveva lette di persona. Ciò nonostante Maometto avrebbe derivato parte del suo pensiero
teologico proprio dalle tradizioni ebraica e cristiana. Si pensa che abbia potuto attingere, per
quanto riguarda il cristianesimo, a testi come il “Vangelo arabo sull’infanzia del Salvatore”
piuttosto che ai Vangeli canonici. L’antagonista naturale del pensiero di Maometto,
inizialmente, era il politeismo arabo preislamico, ovverosia la molteplice religiosità tribale
adottata dai popoli che abitavano nella penisola araba.
Certo è che l’islam non ha mai potuto accogliere la credenza che un uomo in carne ed ossa,
come Gesù si sarebbe manifestato, potesse condividere la natura umana e quella divina, o che
potesse essere figlio esclusivo di dio, dal momento che Allah è considerato uno, unico, distinto
dagli uomini, e non ha figli specifici. L’islam nega dunque la concezione teologica trinitaria,
tipica del cristianesimo, e l’idea che Gesù fosse il “figlio di dio”.
L’ambizione di una sintesi che potesse conciliare tutti i popoli del libro fu presto disillusa e non
ci volle molto perché sorgessero aperti conflitti con gli ebrei e coi cristiani. Ciò nonostante, il
Corano contempla Gesù fra i grandi profeti di Allah, riconoscendogli un ruolo privilegiato, al
pari di un “novello Adamo”, in quanto non avrebbe avuto un padre umano, ma sarebbe stato
generato miracolosamente attraverso un intervento diretto di dio.
La differenza fondamentale fra il Gesù evangelico e quello coranico non è tanto nella nascita,
quanto nella morte. Il cristianesimo, infatti, crede nella resurrezione di Gesù, dopo la morte per
crocifissione, mentre l’islam non solo non ammette il racconto evangelico della resurrezione,
considerata inaccettabile nel suo principio, e delle successive apparizioni, ma rifiuta il fatto
stesso che Gesù sia stato crocifisso, affermando che qualcun altro, al suo posto, avrebbe subito
l’atroce esecuzione. Gesù, al contrario, sarebbe stato innalzato al cielo, verso Allah.
Nel Corano Gesù è definito Isa ibn Maryam, `abd-Allāh (Gesù figlio di Maria, servo del
Signore), mentre Giovani Battista è definito Yahya ibn Zakariyya (Giovanni figlio di Zaccaria).
Già nella Sura III (capitolo terzo del Corano) compare un racconto della nascita di Maria, di
Giovanni e di Gesù, di evidente derivazione dalla letteratura apocrifa cristiana:
“Quando la moglie di 'Imrân disse: “Mio Signore, ho consacrato a Te e solo a Te quello
che è nel mio ventre. Accettalo da parte mia. In verità Tu sei Colui che tutto ascolta e
conosce!”. Poi, dopo aver partorito, disse: “Mio Signore, ecco che ho partorito una
femmina”, ma Allah sapeva meglio di lei quello che aveva partorito, “Il maschio non è
certo simile alla femmina! L'ho chiamata Maria e pongo lei e la sua discendenza sotto la
Tua protezione contro Satana il lapidato”. L'accolse il suo Signore di accoglienza bella,
e la fece crescere della migliore crescita. L'affidò a Zaccaria e ogni volta che egli
entrava nel santuario trovava cibo presso di lei. Disse: “O Maria, da dove proviene
questo?”. Disse: “Da parte di Allah”. In verità Allah dà a chi vuole senza contare.
Zaccaria allora si rivolse al suo Signore e disse: “O Signor mio, concedimi da parte
Tua una buona discendenza. In verità Tu sei Colui che ascolta l'invocazione”. Gli angeli
lo chiamarono mentre stava ritto in preghiera nel Santuario: “Allah ti annuncia
Giovanni, che confermerà una parola di Allah , sarà un nobile, un casto, un profeta, uno
dei devoti”. Disse: “O mio Signore, come mai potrò avere un figlio? Già ho raggiunto
la vecchiaia e mia moglie è sterile”. Disse: "Così! Allah fa quel che vuole”. “Signore”,
disse Zaccaria, “dammi un segno”. “Il tuo segno, disse [il Signore], sarà che per tre
giorni potrai parlare alla gente solo a segni. Ma ricorda molto il tuo Signore e
glorificaLo al mattino e alla sera”. E quando gli angeli dissero: “In verità, o Maria,
Allah ti ha eletta; ti ha purificata ed eletta tra tutte le donne del mondo. O Maria, sii
devota al tuo Signore, prosternati e inchinati con coloro che si inchinano”. Ti riveliamo
cose del mondo invisibile, perché tu non eri con loro quando gettarono i loro calami per
stabilire chi dovesse avere la custodia di Maria e non eri presente quando disputavano
tra loro. Quando gli angeli dissero: “O Maria, Allah ti annuncia la lieta novella di una
Parola da Lui proveniente: il suo nome è il Messia, Gesù figlio di Maria, eminente in
questo mondo e nell'Altro, uno dei più vicini. Dalla culla parlerà alle genti e nella sua
età adulta sarà tra gli uomini devoti”. Ella disse: “Come potrei avere un bambino se
mai un uomo mi ha toccata?”. Disse: “È così che Allah crea ciò che vuole: quando
decide una cosa dice solo Sii ed essa è”. E Allah gli insegnerà il Libro e la saggezza, la
Torâh e il Vangelo. E [ne farà un] messaggero per i figli di Israele [che dirà loro]: “In
verità vi reco un segno da parte del vostro Signore. Plasmo per voi un simulacro di
uccello nella creta e poi vi soffio sopra e, con il permesso di Allah, diventa un uccello. E
per volontà di Allah, guarisco il cieco nato e il lebbroso, e resuscito il morto. E vi
informo di quel che mangiate e di quel che accumulate nelle vostre case. Certamente in
ciò vi è un segno se siete credenti! [Sono stato mandato] a confermarvi la Torâh che mi
ha preceduto e a rendervi lecito qualcosa che vi era stata vietata. Sono venuto a voi con
un segno da parte del vostro Signore. Temete dunque Allah e obbeditemi. In verità Allah
è il mio e vostro Signore. AdorateLo dunque: ecco la retta via”. Quando poi Gesù
avvertì la miscredenza in loro, disse: “Chi sono i miei ausiliari sulla via di Allah?”,
“Noi, dissero gli apostoli, siamo gli ausiliari di Allah. Noi crediamo in Allah, sii
testimone della nostra sottomissione. Signore! Abbiamo creduto in quello che hai fatto
scendere e abbiamo seguito il messaggero, annoveraci tra coloro che testimoniano”.
Tessono strategie e anche Allah ne tesse. Allah è il migliore degli strateghi! E quando
Allah disse: “O Gesù, ti porrò un termine e ti eleverò a Me e ti purificherò dai
miscredenti. Porrò quelli che ti seguono al di sopra degli infedeli, fino al Giorno della
Resurrezione”. Ritornerete tutti verso di Me e Io giudicherò le vostre discordie. E
castigherò di duro castigo quelli che sono stati miscredenti, in questa vita e nell'Altra, e
non avranno chi li soccorrerà. Quelli che invece hanno creduto e operato il bene,
saranno ripagati in pieno. Allah non ama i prevaricatori. Ecco quello che ti recitiamo
dei segni e del Saggio Ricordo. In verità, per Allah Gesù è simile ad Adamo che Egli
creò dalla polvere, poi disse: “Sii” ed egli fu. [Questa è] la verità [che proviene] dal tuo
Signore. Non essere tra i dubbiosi””199
La Sura XIX riprende e amplia questi racconti, seguendo uno schema narrativo che è
sostanzialmente quello del Vangelo secondo Luca. Il Corano sembra ignorare l’impostazione
della natività di Matteo, secondo la quale Gesù sarebbe stato perseguitato da Erode e, in
conseguenza, la famiglia sarebbe fuggita in Egitto. Non conosce nemmeno la visita dei Magi:
“[Questo è il] racconto della Misericordia del tuo Signore verso il Suo servo Zaccaria,
quando invocò il suo Signore con un'invocazione segreta, dicendo: “O Signor mio, già
sono stanche le mie ossa e sul mio capo brilla la canizie e non sono mai stato deluso
invocandoti, o mio Signore! Mia moglie è sterile e temo [il comportamento] dei miei
parenti dopo di me: concedimi, da parte Tua, un erede che erediti da me ed erediti dalla
famiglia di Giacobbe. Fa’, mio Signore, che sia a Te gradito!”. “O Zaccaria, ti diamo la
lieta novella di un figlio. Il suo nome sarà Giovanni. A nessuno, in passato, imponemmo
lo stesso nome.” Disse: “Come potrò mai avere un figlio? Mia moglie è sterile e la
vecchiaia mi ha rinsecchito”. Rispose: “È così! Il tuo Signore ha detto: Ciò è facile per
199 Corano, Sura III, 35-60
me: già una volta ti ho creato quando non esistevi”. Disse [Zaccaria]: “Dammi un
segno, mio Signore! ”. Rispose: “Il tuo segno sarà che, pur essendo sano, non potrai
parlare alla gente per tre notti”. Uscì dall'oratorio verso la sua gente e indicò loro di
rendere gloria [al Signore] al mattino e alla sera. “O Giovanni, tienti saldamente alla
Scrittura.” E gli demmo la saggezza fin da fanciullo, tenerezza da parte Nostra e
purezza. Era uno dei timorati, amorevole con i suoi genitori, né violento, né
disobbediente. Pace su di lui, nel giorno in cui nacque, in quello della sua morte e nel
Giorno in cui sarà risuscitato a [nuova] vita.”200.
Il brano seguente riguarda l’annunciazione a Maria, il parto, e la presentazione ai parenti, con un
Gesù neonato che parla, compie un primo miracolo (sfama Maria con frutti che cadono da un
albero) e si presenta ai parenti come servo di Allah, a giustificazione dello stupore e dello
scandalo che la nascita ha suscitato:
“Ricorda Maria nel Libro, quando si allontanò dalla sua famiglia, in un luogo ad
oriente. Tese una cortina tra sé e gli altri. Le inviammo il Nostro Spirito che assunse le
sembianze di un uomo perfetto. Disse [Maria]: “Mi rifugio contro di te presso il
Compassionevole, se sei [di Lui] timorato!”. Rispose: “Non sono altro che un
messaggero del tuo Signore, per darti un figlio puro”. Disse: “Come potrei avere un
figlio, ché mai un uomo mi ha toccata e non sono certo una libertina?”. Rispose: “È
così. Il tuo Signore ha detto: Ciò è facile per Me... Faremo di lui un segno per le genti e
una misericordia da parte Nostra. È cosa stabilita”. Lo concepì e, in quello stato, si
ritirò in un luogo lontano. I dolori del parto la condussero presso il tronco di una
palma. Diceva: “Me disgraziata! Fossi morta prima di ciò e fossi già del tutto
dimenticata!”. Fu chiamata da sotto: “Non ti affliggere, ché certo il tuo Signore ha
posto un ruscello ai tuoi piedi; scuoti il tronco della palma: lascerà cadere su di te
datteri freschi e maturi. Mangia, bevi e rinfrancati. Se poi incontrerai qualcuno, dì: ho
fatto un voto al Compassionevole e oggi non parlerò a nessuno”. Tornò dai suoi
portando [il bambino]. Dissero: “O Maria, hai commesso un abominio! O sorella di
Aronne, tuo padre non era un empio, né tua madre una libertina”. Maria indicò loro [il
bambino]. Dissero: “Come potremmo parlare con un infante nella culla?”, [Ma Gesù]
disse: “In verità, sono un servo di Allah. Mi ha dato la Scrittura e ha fatto di me un
profeta. Mi ha benedetto ovunque sia e mi ha imposto l'orazione e la decima finché avrò
vita, e la bontà verso colei che mi ha generato. Non mi ha fatto né violento, né
200 Corano, Sura XIX, 2-15
miserabile. Pace su di me, il giorno in cui sono nato, il giorno in cui morrò e il Giorno
in cui sarò resuscitato a nuova vita”. Questo è Gesù, figlio di Maria, parola di verità
della quale essi dubitano.”201.
201 Corano, Sura XIX, 16-34
La nascita di Gesù nella tradizione indo-buddista
Fra l’episodio lucano, che colloca il Gesù dodicenne nel tempio di Gerusalemme a discutere
dottamente con gli anziani, e l’episodio del battesimo sul fiume Giordano, i Vangeli lasciano il
silenzio completo su quella che sarebbe stata la vita dell’aspirante Messia di Israele. Stando alle
cronologie abituali si sarebbe trattato di un periodo di diciotto anni, o poco più. In realtà alcune
considerazioni storiche, sull’età di Gesù all’epoca del suo ministero e della sua passione, aprono la
possibilità che questo periodo sia più ampio, fino a raggiungere o superare i ventiquattro anni. Si
tratterebbe dei cosiddetti “anni oscuri”, un vuoto che diversi autori hanno riempito nei modi più
svariati.
La tradizione comune lo immagina a Nazareth, in seno alla famiglia, intento a crescere, istruirsi e
lavorare come carpentiere. Altre tradizioni lo vogliono in Egitto, a studiare con i Terapeuti; o nelle
isole britanniche insieme a Giuseppe di Arimatea, dove oggi sorge Glastonbury; o nel deserto di
Giuda, presso il monastero degli esseni di Qumran; o in viaggio verso l’oriente, attraverso la Persia,
fino all’India brahmanica e buddista. È a quest’ultima affascinante ipotesi, probabilmente
leggendaria, che vogliamo fare riferimento in questo capitolo.
La figura principale a cui è associata l’idea di una presenza di Gesù in India è senz’altro quella di
un aristocratico russo, Nicola Notovich (n. 1858), di origini ebree, che avrebbe visitato il Tibet
meridionale (Ladhak) e, in seguito ad un incidente, sarebbe stato ospitato nel monastero buddista di
Hemis. Egli sostiene che il lama superiore del tempio gli avrebbe mostrato un manoscritto tibetano
tradotto dal pali (l’antica lingua dei testi buddisti): “Vita del santo Issa, migliore tra i figli
dell’uomo”. Tornato in occidente, Notovich avrebbe pubblicato la traduzione del manoscritto in
Francia, col titolo “La vie inconnue de Jesus Christ”, che non ha mancato di suscitare accese
polemiche sulla sua autenticità. Sembra addirittura che lo stesso lama di Hemis abbia voluto
sconfessare le affermazioni di Notovich.
In realtà, prima ancora dell’opera dell’autore russo, nella cittadina indiana di Qadian (Punjab), era
nato un movimento islamico chiamato Ahmadiyya, fondato nel 1889 da Mirza Ghulam Ahmad che,
fra le tante cose, sosteneva che Yuz Asaf (Gesù) non era morto sulla croce (coerentemente con
quanto insegna il Corano), e si era recato nel Kashmir, dove aveva vissuto a lungo ed era morto.
Ancora oggi, recandosi nel distretto Kanjar della città di Srinagar, capitale del Kashmir, è possibile
trovare una sorta di mausoleo, chiamato Rozabal, che riscuote l’interesse di ben tre comunità
religiose: indù, musulmani e buddisti. In esso si trovano almeno due tombe, una di un celebre
musulmano del luogo, la quale rispetta le caratteristiche richieste dalle sepolture islamiche, una più
antica, di un personaggio che sembra essere ebreo, perché è sepolto secondo certi requisiti del
costume ebraico. Secondo alcuni si tratterebbe proprio della tomba di Yuz Asaf, il saggio che, dopo
aver molto sofferto in Israele, sarebbe vissuto e morto in Kashmir lasciando anche una discendenza.
In vicinanza della tomba un bassorilievo scolpito sulla roccia ritrae l’impronta dei piedi del santo,
con l’evidente traccia delle ferite lasciate dai chiodi della crocifissione. Numerosi autori hanno
speculato anche sul fatto che l’apostolo Didimo Giuda Tommaso, considerato fratello gemello del
Messia, avrebbe compiuto opera missionaria in India, e questo rinforzerebbe l’idea che Gesù lo
abbia raggiunto e si sia soffermato in Kashmir.
La questione di Gesù in India sembra basata su presupposti molto evanescenti e, a mio parere, ha i
caratteri di una bellissima leggenda, anche se esistono testimonianze serie di un contatto fra
l’ebraismo e la religiosità indo buddista. Una di queste ce la fornisce lo stesso Giuseppe Flavio, nel
momento in cui descrive il discorso finale che Eleazar ben Jair avrebbe tenuto agli assediati di
Masada, ormai condannati ad una imminente sconfitta da parte dei romani, nel 73 d.C., per
convincerli ad effettuare un suicidio di massa202 . Non sappiamo come abbia fatto Giuseppe a
conoscere le parole di Eleazar, visto che non si trovava a Masada in quei giorni, ma a Roma, e che
gli assediati morirono tutti (circa novecento persone).
Se anche il discorso fosse un’invenzione di Giuseppe, ci dimostra comunque che egli era
perfettamente al corrente di certi usi e costumi funebri degli indù, come le cremazioni che venivano
effettuate su grandi cataste di legna presso le rive del Gange. Il presunto discorso di Eleazar non si
limitava a descrivere questi riti, ma entrava nel merito della concezione religiosa, secondo cui
l’anima aspettava di svincolarsi dal corpo mentre la vera sofferenza era costituita dalla vita
materiale piuttosto che da quella spirituale. Personalmente, se volessi difendere l’ipotesi di Gesù in
India, darei più peso a certi parallelismi filosofici e religiosi, anziché fidarmi dei racconti e delle
presunte reliquie.
La parte del presunto manoscritto buddista contenente indicazioni sulla nascita di Gesù è il capitolo
IV, che riportiamo integralmente qui di seguito:
“[1] Giunse l’ora scelta dal Giudice di Clemenza per incarnarsi in un essere umano. [2] E
lo Spirito Eterno, che dimorava in uno stato d’inazione completa e di suprema beatitudine,
si destò e si distaccò, per un periodo indeterminato, dall’Essere Eterno, [3] onde indicare,
rivestendo un’immagine umana, i mezzi d’identificarsi con la Divinità e di pervenire
all’eterna beatitudine. [4] E per mostrare, col suo esempio, come si possa giungere alla
purezza morale e separare l’anima dal suo sviluppo corporeo materiale per poter
raggiungere la perfezione necessaria al passaggio nel regno dei Cielo, che è immutabile, e
dove regna la felicità eterna. [5] Un fanciullo meraviglioso nacque allora nella terra di
202 Giuseppe Flavio, Guerra giudaica, VII, 8.
Israele; Dio stesso parlò, per bocca di questo fanciullo, delle mieserie della carne e della
grandezza dell’anima. [6] I genitori del nato in povertà appartenevano ad illustre famiglia
che, con opere di pietà, obliava l’antica grandezza terrena onde celebrare il nome del
Creatore e ringraziarlo delle sventure con le quali Egli si compiaceva provarla. [7] Per
ricompensarla di non essersi lasciata stornare dalla via della verità, Dio benedisse il
primogenito di questa famiglia, lo scelse per suo eletto e lo inviò in sostegno di coloro che
erano caduti nel male ed a guarire i sofferenti. [8] Il divino fanciullo, cui venne dato il
nome di Issa, cominciò sin dalla più tenera età a parlare del Dio unico ed invisibile,
esortando le anime traviate al pentimento per la purificazione dei peccati dei quali si erano
resi colpevoli. [9] Da ogni luogo venivano ad ascoltarlo e tutti erano meravigliati dei
discorsi che pronunciava la sua bocca infantile; tutti gli Israeliti dovettero convenire che lo
Spirito Eterno risiedeva in quel fanciullo. [10] Allorché Issa raggiunse i tredici anni, epoca
in cui ogni Israelita deve sposare, [11] la casa in cui i suoi genitori lavoravano per
guadagnarsi la vita mediante un modesto lavoro, cominciò ad essere luogo di ritrovo per la
gente ricca e nobile che avrebbe voluto imparentarsi col giovane Issa, già celebre per i suoi
edificanti discorsi nel nome del Potentissimo, [12] fu allora che Issa lasciò di nascosto la
casa paterna, uscì da Gerusalemme ed in compagnia di mercanti si diresse verso il Sind.
[13] Nell’intento di perfezionarsi nella divina parola e di studiare le leggi dei grandi
Budda.”203.
Già nelle prime righe si riconosce una concezione tipica del cristianesimo extra-giudaico e, in
particolare, della teologia del primo concilio di Nicea: Gesù è un’incarnazione di Dio e nella sua
persona condivide natura umana e divina. Tutto questo è ben lontano dalla concezione ebraica, ma
anche da quella buddista, perché i Budda non sono incarnazioni divine come il Krishna indù
(incarnazione di Vishnu) e il Gesù cristiano, ma semplici uomini illuminati, dotati di uno spirito
molto puro, ma non consustanziali (omoousios fu il termine usato a Nicea) con Dio. Inoltre non
ricordo, leggendo i sutra buddisti, di aver mai visto nominare Dio.
Dettagli episodici sulla nascita non ce ne sono. Non si nominano località, case, capannucce o
mangiatoie, stelle annuncianti, magi o pastori adoranti, persecuzioni da parte del re Erode e
conseguenti fughe in Egitto. Un particolare solo: il bambino nasce “in povertà”, ma i suoi genitori
“appartenevano ad illustre famiglia”.
Coerentemente con la natività lucana, ma anche con le leggende relative al Budda, il fanciullo
mostra una virtù precoce nell’argomentare di cose sacre suscitando lo stupore del suo popolo.
203 N.Notovich “Il Vangelo Buddista della Vita di Gesù”, Editrice Atanor, 1985, Roma. Cap. IV.
E infine la sorpresa che sembra colmare i vuoti lasciati dai Vangeli canonici: all’età in cui un
Israelita diventa adulto, il giovane Gesù decide di partire nascostamente per l’oriente, si unisce a
una carovana di mercanti e si dirige verso l’India.
Contenuti, linguaggio e stile tradiscono una realtà molto probabile: Notovich ha ampiamente
lavorato di fantasia, ha forse attinto dalle affascinanti credenze degli Ahmadiyya, che ha collegato
alle tradizioni riguardanti San Tommaso e a certi scritti arabi che parlano di Yuz Asaf, santo
itinerante, arbitrariamente collegato con Gesù. Ma si ricordi che Gesù nella tradizione araba è
chiamato Isa ibn Maryam, non Yuz Asaf, denominazione questa che, verosimilmente, deve essere
interpretata come Josaphat.
Se le cose stanno come penso, ciò che abbiamo letto nella citazione non è la nascita di Gesù nella
tradizione buddista, ma semplicemente la nascita di Gesù nella mente fantasiosa di Nicola
Notovich. Del resto, quante altre nascite di Gesù appartengono nella realtà alla libera creatività di
chi le ha scritte?
Dov’è nato Gesù, un’ipotesi coraggiosa
La questione delle coordinate di nascita di Gesù è subordinata ad altre questioni, che non possono
non essere poste in precedenza, senza che la discussione sul luogo e sul tempo diventi un vaniloquio
privo di fondamento. Le domande sono queste: a partire da quale, o quali supporti storici, è stata
costruita la figura del protagonista della narrazione evangelica, Gesù Cristo? In altre parole: la
composizione teologica che, nell’arco di un tempo piuttosto esteso, ha creato la figura di Cristo,
così come è rappresentata oggi nel catechismo cristiano e nelle scritture del Nuovo Testamento, fa
riferimento ad un singolo personaggio realmente esistito, di nome Gesù? O ha prelevato frammenti
di personalità storica appartenuti, nella realtà, a più individualità diverse?
Non ci si meravigli di questa domanda, relativa ad una possibile molteplice individualità storica del
personaggio Gesù Cristo. Le fusioni e gli assemblaggi di questo genere, nella genesi delle scritture
religiose, nel Nuovo e nel Vecchio Testamento, ma anche in altre aree religiose fuori dal
cristianesimo e dall’ebraismo, sono assolutamente comuni e ricorrenti. Mosè, per fare un esempio, è
uno dei principali candidati a questo tipo di elaborazione. Alcuni degli apostoli, altrimenti fratelli
carnali di Gesù, sono stati sdoppiati, così come Maria di Betania, e la madre di Gesù, suo padre,
ecc… La confusione delle individualità, sia nel senso della dissociazione che della fusione, è stato
uno dei meccanismi di costruzione dei personaggi delle narrazioni bibliche. Eccellenti sono, a
questo proposito, gli studi e le pubblicazioni di Robert H. Eisenman204. Egli ha mostrato in modo
chiaro i meccanismi di costruzione delle personalità evangeliche e gli equilibrismi effettuati sui loro
nomi. In effetti sono presenti sia dissociazioni, che danno l’impressione di trovarsi di fronte a due o
tre personalità diverse, quando invece si tratta sempre della medesima, sia fusioni, che attribuiscono
ad una sola persona i ruoli di due o più individualità storiche.
Domandarsi se la stessa cosa può valere per Gesù Cristo è pienamente legittimo. Rispondere con
certezza è tutt’altra questione, probabilmente non risolvibile. Ciò nonostante la domanda è
necessaria per comprendere quanto sia inopportuno pensare che si possa porre la questione delle
coordinate di nascita di Cristo, dando semplicemente per scontato che egli sia stato un singolo
personaggio storico, ben identificabile. Se non altro possiamo renderci conto di come certe
elucubrazioni dotte che fanno riferimento alla congiunzione di Giove e Saturno nella costellazione
dei Pesci, o al conto dei mesi che avrebbero separato la nascita di Giovanni da quella di Gesù,
204 Professore di archeologia e religioni del Medio oriente, nonché direttore dell’Istituto per le origini giudeo-cristiane presso la California State University di Long Beach; membro dell'Albright Institute of Archeological Research a Gerusalemme. Ha contribuito energicamente, nel corso degli anni ’80, affinché i Rotoli del Mar morto, tenuti segregati dal gruppo di studiosi cattolici diretto dal sacerdote R. de Vaux, fossero resi accessibili alla comunità internazionale. Egli stesso ha lavorato agli scavi nel sito di Kirbeth Qumran, effettuando interessanti scoperte. La casa editrice Piemme (Casale Monferrato, AL) ha pubblicato in lingua italiana i suoi seguenti libri: R.H.Eisenman, M.Wise, Manoscritti segreti di Qumran (1994); R.H.Eisenman, Giacomo il fratello di Gesù (2007); R.H.Eisenman, Codice Gesù (2008).
ecc…, abilmente sviluppate da astronomi, scienziati, storici ed altri accademici, per giungere ad una
conclusione sulla data di nascita di Cristo, non sono altro che patetiche illusioni fondate sulla base
inconsistente del mito e della leggenda. Sarebbe come domandarsi in quale punto esatto di
Betlemme sia nato Gesù, senza domandarsi se è nato davvero a Betlemme, e senza capire, come
invece sostengono anche molti studiosi cattolici, che la nascita betlemita è puramente leggendaria.
Come abbiamo affermato più volte, i redattori delle natività, entrando in contraddizione diretta coi
ministeri della vita pubblica, hanno piazzato la nascita di Gesù a Betlemme spinti da una ragione
apologetica: per attribuirgli un forte requisito di natura messianica.
Personalmente, preferisco dichiarare apertamente che non ho raggiunto alcuna certezza su quanto,
della figura evangelica di Cristo, appartenga ad una personalità storica e quanto alla creatività
teologica, e tanto meno se le personalità storiche a cui si fa riferimento siano state una o due. Tanto
più che il problema sollevato dall’analisi del ballottaggio fra Gesù e Barabba, di cui i Vangeli
raccontano in occasione del processo che si sarebbe svolto di fronte a Ponzio Pilato, ripropone
drammaticamente il problema della duplice individualità, con una concretezza che non può essere
trascurata.
In questa sede sono costretto ad illustrare la questione, almeno brevemente, anche se nei miei
precedenti scritti l’ho già fatto più volte205. Desidero ricordare che il termine Barabba non è altro
che la condensazione dell’espressione aramaica bar Abbà, che significa “figlio del Padre”,
alternativa a “figlio di dio”. Come è largamente testimoniato dalla consuetudine in uso per secoli
nella liturgia latina: “filius Patris”, espressione riferita a Gesù stesso col significato, appunto, di
“figlio di dio”. Si tenga presente che gli ebrei non possono pronunciare il nome di dio e che, al suo
posto, usavano e usano tuttora termini alternativi, come possiamo osservare in questo passo del
Vangelo di Marco: “E diceva: - Abbà, Padre! Tutto è possibile a te…”206.
Dunque, il prigioniero famoso che si trovava sotto processo a fianco di Gesù, portava lo stesso titolo
del suo sfortunato compagno, ed evidentemente non era il suo nome, come spesso ci viene lasciato
credere. A queste mie considerazioni sono state mosse le più acrobatiche obiezioni, nel corso di
innumerevoli discussioni telematiche, ma puntualmente giunge la conferma da parte di insigni
accademici, come il prof. Daniel Gershenson, che ho avuto modo di incontrare personalmente alla
Tel Aviv University, e lo stesso prof. Robert Eisenman:
“Tutti questi soprannomi (Barsabba, Barnaba e Barabba) sono importanti e spesso
collegati ai nomi dei membri della famiglia di Gesù. Per esempio, nei Vangeli Barabba
205 Vedi D.Donnini, Cristo una vicenda storica da riscoprire, liberamente reperibile on line al seguente URL: http://www.nostraterra.it/cristianesimo_.html . Oppure D.Donnini, Gesù e i Manoscritti del Mar Morto, Coniglio Editore, Roma, 2006.
è una specie di controfigura di Gesù. In alcuni testi troviamo addirittura ‘Gesù
Barabba’: in aramaico Barabba vuol dire ‘figlio del Padre’”207.
Il vero nome di questo misterioso prigioniero, che sarebbe stato scarcerato, appare da antichi
manoscritti greci del Vangelo secondo Matteo, nei quali è detto esplicitamente che Barabba si
chiamava Gesù208. Il prigioniero rilasciato sarebbe stato Gesù Barabba, alias Yeshu bar Abbà, Gesù
il figlio di dio. Col piccolo inconveniente che anche il prigioniero condannato e crocifisso sarebbe
stato Gesù il figlio di dio. Ecco un altro più che evidente, quanto misterioso, esempio di
contraffazione delle personalità e dei nomi.
Questo per osservare quanto la narrazione del processo appaia sospetta di contenere manipolazioni,
tra i cui scopi ci può essere quello di nascondere la reale identità dei personaggi e la possibile
doppia identità dei messia a cui la sintesi evangelica avrebbe fatto riferimento. In effetti tutto il
racconto evangelico è caratterizzato da un’ossessione redazionale, quella che abbiamo definito
intento di spoliticizzazione, cioè la volontà di nascondere ogni collegamento tra il movimento
giudeo cristiano e i gruppi della dissidenza nazional religiosa yahwista.
Se dunque il Cristo crocifisso a Gerusalemme da Ponzio Pilato, alla vigilia di una Pèsah ebraica fra
gli anni 30/36, era uno dei due messia individuati dagli esseno zeloti, in particolare quello detto di
Davide, potrebbe anche non essere stato quello che si chiamava Gesù. Tanto più che gli storici
romani che hanno parlato di lui, Tacito, Svetonio, Plinio, lo hanno sempre citato come Cristo o
Cresto, senza dar segno di conoscere il nome Gesù209. Gesù avrebbe potuto essere l’altro, quello
scarcerato: un iniziato? un maestro spirituale? un sacerdote esseno? Ammesso che non sia
leggendaria tutta la descrizione del ballottaggio.
Nelle considerazioni che seguono, relative alla possibile individuazione del luogo di nascita, faccio
riferimento alla personalità storica che fu arrestata nottetempo sul monte degli ulivi, processata di
fronte a Pilato, con l’accusa di volersi fare re dei Giudei, e giustiziata mediante crocifissione. A me
rimane il dubbio, per ora non risolvibile, se costui si chiamasse Gesù, o se Gesù fosse un altro.
206 Mc XIV, 36. 207 R.Eisenman, Giacomo il fratello di Gesù, Piemme, Casale Monferrato (Al), 2007. 208 Vedi Novum Testamentum Graece et Latine, a cura di A. Merk, Istituto Biblico Pontificio, Roma, 1933, pag. 101; riferito a Mt XXVII, 16. 209 “...furono puniti i cristiani, un gruppo di persone dedite ad una superstizione nuova e malefica. Quel nome essi derivarono da Cristo, che sotto il regno di Tiberio fu mandato a morte dal procuratore Ponzio Pilato. Quella funesta superstizione, soffocata per breve tempo, riprendeva ora vigore diffondendosi non solo in Giudea, luogo d'origine di quel male, ma anche a Roma, dove da ogni parte confluiscono tutte le atrocità e le vergogne, trovandovi grande seguito...” (Tacito, Annales XV, 44). “...egli [l'imperatore Claudio] scacciò da Roma i Giudei che, istigati da Cresto, erano continuamente in lotta...” (Svetonio, Claudius XXV, 4). “...erano soliti riunirsi alle prime luci dell'alba, ed innalzare un canto a Cristo, come se fosse un dio...” (Plinio il giovane, Epistolae, 96).
Spesso nei miei precedenti scritti ho avanzato un’ipotesi: il Cristo giustiziato da Pilato avrebbe
potuto essere un membro della famiglia di Giuda il galileo, uno degli esponenti di quella fazione
messianista intransigente che già all’epoca del censimento aveva dato molto filo da torcere ai
romani. Ed anche prima, al tempo della morte di Erode il grande, quando i cosiddetti galilaei
avevano assalito gli arsenali regi di Sefforis per prelevare armi e rifornire i propri adepti. Ripeto,
onde evitare fraintesi, desidero considerare quest’idea come una semplice ipotesi, a favore della
quale esiste una vasta serie di indizi. Lo stesso professor Eisenman afferma a questo proposito:
“…sono evidenti i parallelismi fra la famiglia di Giuda il galileo e quella di ‘Giuseppe e
Maria’ o ‘Cleofa e Maria’. Ma quali sono i legami tra questi individui e in che modo si
sovrappongono? A meno di una descrizione non falsificata di questo periodo,
indubbiamente non lo sapremo mai”210.
Giuda il galileo, figlio di quell’Ezechia che Erode aveva ucciso nel 44 a.C., aveva fondato il partito
degli zeloti insieme ad un certo Saddok, e cercava di coinvolgere la popolazione ebraica della
Palestina in un progetto di restaurazione messianica, facendo leva sulla protesta fiscale, sull’ideale
di libertà e sulla purezza del culto religioso. Giuda stesso era morto, lasciando in eredità ai suoi figli
la causa messianica, nel corso della rivolta del censimento avvenuta nel 7 d.C., epoca nella quale
Luca ambienta la nascita di Gesù. In effetti i figli si mostrarono seguaci dello stesso impegno
ideologico che aveva contraddistinto il padre e il nonno e, a quanto ci risulta dagli scritti di
Giuseppe Flavio, tutti o quasi persero la vita per la causa. Due di costoro si chiamavano Giacomo e
Simone, e furono arrestati e giustiziati negli anni fra il 46 e il 48 d.C.211, in un’epoca non identica
ma nemmeno lontana da quando sarebbero stati arrestati due apostoli e fratelli di Cristo: Giacomo e
Simone. Ma i testi dei Vangeli e degli Atti degli Apostoli mostrano a più riprese il vizio di slittare
gli eventi.
Un altro figlio, probabilmente, era il Giuda detto Teuda, o Taddeo, che aveva cercato di sollevare
una rivolta, intorno al 45 d.C., ed era stato catturato e ucciso dal procuratore Fado212. Di lui parlano
210 Robert Eisenman, Giacomo il fratello di Gesù, Edizioni Piemme, Casale Monferrato (Al), 2007. 211 “Oltre a ciò, i figli di Giuda il galileo furono uccisi; intendo di quel Giuda che produsse una rivolta di popolo, quando Quirino censì le proprietà dei giudei, come abbiamo mostrato in un libro precedente. I nomi di quei figli erano Giacomo e Simone, che Alessandro aveva fatto crocifiggere.” (G. Flavio, Antichità Giudaiche, XX, cap. 5, 2). 212 “Capitò che, mentre Fado era procuratore della Giudea, un certo mago, il cui nome era Teuda, persuase una gran parte del popolo a prendere le loro cose e seguirlo al fiume Giordano; poiché aveva detto di essere un profeta e che, al suo comando, avrebbe fatto aprire il fiume per consentire loro un facile passaggio; e molti furono ingannati dalle sue parole. Comunque, Fado non consentì loro di trarre vantaggio dal tentativo, ma spedì una squadra di cavalieri contro di loro che, aggredendoli di sorpresa, ne uccise molti e molti li prese prigionieri. Catturarono vivo anche Teuda, e gli tagliarono la testa, portandola poi a Gerusalemme” (G. Flavio, Ant. Giu., XX, cap. 5, 1).
anche gli Atti degli Apostoli213. Potrebbe trattarsi di quel Giuda, detto Lebbeo, o Taddeo, ma
anche Giuda Zelota, Giuda [fratello] di Giacomo, Giuda Tommaso detto Didimo, il terzo fratello di
Gesù. Un altro si chiamava Menahem il quale, coerentemente con l’ossessione messianica che
aveva caratterizzato tutta la famiglia da oltre un secolo, nel corso della fatidica guerra contro i
romani degli anni 66/70 si insediò sul trono di Gerusalemme indossando la veste regale, finché non
fu ucciso da avversari ebrei seguaci di altre fazioni214.
Ora, considerato il fatto che molti studiosi hanno mostrato come il gruppo degli apostoli di Gesù
sarebbe stato in realtà la cerchia dei suoi fratelli, talvolta moltiplicati in più personalità215, l‘ipotesi
che in passato ho preso in considerazione è quella che il Cristo crocifisso da Pilato potesse essere il
primogenito tra i figli di Giuda il galileo.
Alla genesi di questa supposizione concorrono una lunga serie di indizi fra cui:
1. le omonimie fra i fratelli di Gesù e i figli di Giuda il galileo;
2. la vicinanza cronologica fra l’arresto di Giacomo e Simone, apostoli di Gesù, e l’arresto di
Giacomo e Simone figli di Giuda, nonché il loro destino simile a quello di Cristo: la
crocifissione;
3. l’evidente censura ideologica operata nel corso della redazione evangelica tendente a
scorporare la personalità zelotica dagli apostoli, nel tentativo di farli apparire totalmente
estranei ad ogni interesse nella causa messianica;
213 “Qualche tempo fa venne Teuda, dicendo di essere qualcuno, e a lui si aggregarono circa quattrocento uomini. Ma fu ucciso, e quanti s’erano lasciati persuadere da lui si dispersero e finirono nel nulla. Dopo di lui sorse Giuda il galileo, al tempo del censimento, e indusse molta gente a seguirlo, ma anch’egli perì e quanti s’eran lasciati persuadere da lui furono dispersi” (At V, 36); si noti curiosamente l’inversione dei tempi relativi alla comparsa dei due personaggi, in effetti Teuda operò una quarantina d’anni dopo la rivolta del censimento. Questo ci mostra ancora una volta come i redattori degli scritti neotestamentari siano abituati a compiere operazioni di slittamento nel tempo degli eventi di cui parlano. 214 “La distruzione delle opere fortificate e la morte del sommo sacerdote Anania avevano esaltato Menahem fino alla ferocia, ed egli, ritenendo di non avere rivali come capo, si comportava da tiranno insopportabile. Ma contro di lui si levarono i partigiani di Eleazar, ripetendosi l’un l’altro che non era il caso di ribellarsi ai romani spinti dal desiderio di libertà per poi sacrificarla ad un boia paesano, e sopportare un padrone che, se anche non avesse fatto nulla di male, era pur sempre inferiore a loro; e ammesso pure che ci dovesse essere uno a capo del governo, questo compito spettava a chiunque altro più che a lui; così si misero d’accordo e lo assalirono nel tempio; vi si era infatti recato a pregare in gran pompa, ornato della veste regia e avendo i suoi più fanatici seguaci come guardia del corpo. Come gli uomini di Eleazar si furono scagliati su di lui, anche il resto del popolo tutto infuriato afferrò delle pietre e si diede a colpire il dottore, ritenendo che, levatolo di mezzo, sarebbe interamente cessata la rivolta; gli uomini di Menahem fecero un po’ di resistenza, ma quando videro che tutta la folla era contro di loro, fuggirono dove ognuno poté, e allora seguì una strage di quelli che venivano presi e una caccia a quelli che si nascondevano. Pochi trovarono scampo rifugiandosi nascostamente a Masada, e fra questi Eleazar figlio di Giairo, legato a Menahem da vincoli di parentela, che in seguito fu capo della resistenza a Masada. Quanto a Menahem, che era scappato nel quartiere detto Ofel e vi si era vigliaccamente nascosto, fu preso, tirato fuori e dopo molti supplizi ucciso, e così pure i suoi luogotenenti e Absalom, il principale ministro della sua tirannide” (G.Flavio, Guerra giudaica, II, 17, 442-448). 215 Simone detto Pietro e Simone detto zelota, Giacomo di Zebedeo e Giacomo di Alfeo, Giuda Tommaso e Giuda Taddeo. Per non parlare poi degli apostoli con nomi greci, come Andrea e Filippo. O di quello che compare nei sinottici ma non nel quarto Vangelo: Matteo. E viceversa: Natanaele. Anche gli Atti degli Apostoli mostrano l’evidenza di personalità sdoppiate o confuse.
4. le censure e i tagli sulle identità dei personaggi216;
5. la censura del significato del termine nazareno;
6. l’adozione di città fittizie come luoghi di nascita o di residenza di Cristo;
7. l’inadeguatezza della città di Nazaret rispetto a certe descrizioni geografiche presenti nella
narrazione evangelica, per esempio la questione del precipizio217, unitamente al fatto che la
discussione sull’esistenza di Nazaret al tempo di Cristo è ancora argomento aperto;
8. il comune nome di setta: galilaei218;
9. la comune politica di obiezione fiscale219;
10. la comune ambizione messianica220.
Purtroppo ho riscontrato spesso una grande difficoltà nel far capire ai miei lettori che, nel corso di
un lavoro di indagine su una materia complessa e sfuggente come questa, così ricca di aspetti
irrimediabilmente contraddittori, che ad ogni piè sospinto sembrano confermare un’idea per poi
riconfutarla, può essere utile avanzare ipotesi che mostrano alcuni elementi di verosimiglianza,
anche senza essere disposti a sostenerle in modo assoluto e definitivo. Con troppa insistenza il
pubblico mostra l’esigenza di ricevere risposte che diano l’impressione di avere finalmente
raggiunto un risultato definitivo e appagante. Con troppa facilità si pensa che colui che propone
un’ipotesi sia il suo incondizionato patrocinatore.
Al di là delle argomentazioni storiche, archeologiche e filologiche221 che gettano sospetti sulla città
di Nazaret, quando la visitai, sulle morbide colline della Galilea, fui colpito in modo concreto dal
fatto che, per molti aspetti, essa non sembrava corrispondere alle descrizioni evangeliche del
villaggio in cui i Vangeli ambientano la vita di Gesù adulto. Innanzitutto perché a Nazaret si nota la
più totale assenza di rovine risalenti all’epoca di Cristo, che invece abbondano altrove. Dove sono
216 Per esempio, i Vangeli sinottici si sono impegnati a far praticamente scomparire l’importante famiglia di Betania, quella di Lazzaro e delle sorelle Marta e Maria, in particolare quest’ultima è stata reinserita nelle narrazioni sinottiche, ma solo dopo un cambio di identità, chiamandola Maria Maddalena, o di Magdala. 217 Lc IV, 14-30. 218 “In verità, anche questo era con lui; è anche lui un galileo” (Lc XXII, 59); “Una serva gli si avvicinò e disse: Anche tu eri con Gesù, il galileo!” (Mc XXVI, 69). Si tenga presente che Giuda era chiamato “il galileo” senza che nemmeno lo fosse realmente, a dimostrazione di quanto si fosse affermato il significato dell’attributo, con riferimento alla setta degli zeloti, dopo che costoro, a Sefforis, in Galilea, nel 4 a.C., erano riusciti, con una straordinaria operazione militare, a depredare gli arsenali regi. 219 “Abbiamo trovato costui che sobillava il nostro popolo, impediva di dare tributi a Cesare…” (Lc XXIII, 2). Questo, nonostante che gli stessi Vangeli si adoperino, altrove, a far credere che Gesù avesse preso una esplicita posizione lealista nei confronti della questione del tributo a Cesare. In realtà, la ragione che lo portò a morire sulla croce, fu proprio l’adesione al tema caratteristico della protesta zelotica avviata da Giuda di Gamala. 220 “…e affermava di essere il Cristo re” (Lc XXIII, 2); “Erano le nove del mattino quando lo crocifissero. E l'iscrizione con il motivo della condanna diceva: Il re dei Giudei” (Mc XV, 25). 221 Né la Bibbia, né il Talmud, né Filone Alessandrino, né Giuseppe Flavio, hanno mai nominato la città di Nazaret. Nessun contemporaneo di Gesù, o persona vissuta nei periodi successivi, nel primo secolo, ha mai conosciuto questa città. Eppure Giuseppe Flavio è stato comandante generale delle truppe ebraiche in Galilea, e nei suoi scritti ha fornito dettagliati resoconti di ogni centro abitato della Galilea. Si tratta di una prova in negativo, cioè non si tratta di una prova, nel senso corretto del termine. Ma le conclusioni sembrano volersi imporre in modo abbastanza robusto.
finite le mura, le case e la sinagoga del primo secolo, di cui invece esistono i resti visibili, in altre
località della Palestina? Come si spiega che, percorrendo in macchina il tragitto da Nazaret al lago
di Tiberiade, si comprende quanto sarebbe stato difficile per gli abitanti seguire il maestro quando si
recava a predicare sulla riva del lago? 36 km, con un dislivello di circa seicento metri. L’andata e il
ritorno avrebbero richiesto giorni di faticoso cammino. Non sarebbe stato così semplice ed
immediato, come appare invece dai racconti evangelici. E poi perché la città di Cristo, con una certa
insistenza, è descritta come “una città sul monte”, mentre la Nazaret ove oggi sorge la basilica della
natività è posta nell’avvallamento fra i colli? E ancora perché Luca, nel suo Vangelo, parla
esplicitamente di un precipizio che avrebbe dovuto trovarsi a fianco del paese?
“All'udire queste cose, tutti nella sinagoga furono pieni di sdegno; si levarono, lo
cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte sul quale la loro città
era situata, per gettarlo giù dal precipizio. Ma egli, passando in mezzo a loro, se ne
andò”222.
Nella Nazaret moderna, dove si svolgono innumerevoli pellegrinaggi dei fedeli cristiani, non ci
sono resti di sinagoghe, né traccia di precipizi. Alcuni esegeti commentano che Luca non aveva una
buona conoscenza geografica dei luoghi di cui scriveva, ma l’episodio in cui la gente minaccia
apertamente di gettare l’uomo dal precipizio non sembra poter dipendere da una conoscenza
imprecisa, perché la mancanza del precipizio esclude la sostanza del fatto stesso.
Al contrario, per me fu abbastanza intenso l’impatto col sito archeologico della città di Gamla (o
Gamala), nel Golan, dopo avere già acquisito una buona serie di ragioni per pensare che questa
potesse essere la città d’origine dell’aspirante messia che Pilato aveva fatto crocifiggere. Non
appena ebbi posteggiata l’auto e mi fui affacciato dall’alto sulla vallata di Gamla, molti dei paesaggi
e degli eventi descritti dalla narrazione evangelica sembrarono acquistare finalmente uno scenario
in cui potevano ambientarsi naturalmente.
Il termine gamla significa cammello, ed è diventato il nome del villaggio perché questo è situato
sulla ripida fiancata di un colle, in prossimità della cima, come adagiato su una schiena di
cammello. Un’autentica “città sul monte”. Nel primo secolo a.C. era la città di quell’Ezechia di cui
abbiamo già parlato, autorevole rabbì e padre di Giuda il galileo, che fomentava rivolte antiromane
e che fu definito da Giuseppe Flavio col termine dispregiativo di archilestes, capo brigante. Si
faccia attenzione ad un fatto importante: Giuda era chiamato “il galileo” non perché fosse originario
della Galilea, in realtà era golanita, ma perché le sue gesta sovversive si erano svolte inizialmente
nei territori della Galilea, e l’aggettivo, oltre ad essere affibbiato a lui, finì per diventare un attributo
222 Lc IV, 28-30.
comune della setta degli zeloti. A quel tempo, pronunciare in Gerusalemme un’espressione come
“Gesù il galileo” avrebbe potuto suscitare significati compromettenti, ben oltre la semplice
indicazione geografica. Questo fatto deve essere chiaramente inteso e tenuto presente, se non si
vuole rischiare di travisare completamente la comprensione del clima politico in cui si sono svolti i
fatti della narrazione evangelica.
Gamla era fortificata con una cinta di mura robuste di cui ancora oggi restano evidenti
testimonianze. Gli scavi archeologici, iniziati da parte del governo israeliano dopo la guerra del
1967 che aveva portato alla conquista di parte del territorio del Golan, hanno mostrato la sua
struttura e hanno offerto la possibilità di identificare quel sito con la città di Gamla, di cui Giuseppe
Flavio aveva scritto copiosamente, ma la cui collocazione, fino a quel momento, era ritenuta
sconosciuta. Si noti, a questo proposito, una passo del Vangelo copto di Tomaso:
“...Gesù disse: “Nessun profeta è benvenuto nel proprio circondario; i dottori non curano i
loro conoscenti... una città costruita su un'alta collina e fortificata non può essere presa, né
nascosta...””223.
È interessante confrontare questo passo di un testo gnostico, appartenente alla collezione reperita a
Nag Hammadi a metà del secolo scorso, con un analogo passo dei Vangeli canonici:
“Ma Gesù disse loro: “Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa
sua””224,
Cristo si riferisce alla sua città, dove non è riconosciuto dalla gente comune per il suo
insegnamento. La frase successiva del Vangelo copto di Tomaso parla di una città situata sul monte
e “fortificata”, come lo era Gamla, ma la frase analoga, nel Vangelo secondo Matteo,
“non può restare nascosta una città collocata sopra un monte”225,
è stata allontanata da quel passo ed è stata privata del riferimento alle fortificazioni. Come se
l’evangelista si fosse preoccupato di non lasciar intravedere che la città di Cristo era situata su un
monte ed era fortificata.
Gli scavi archeologici hanno evidenziato la presenza di monete, inesistenti altrove, che
inneggiavano alla “liberazione di Gerusalemme la santa”. Non ce ne meravigliamo: Gamla era la
223 Vangelo copto di Tomaso, 31-32. 224 Mt XIII, 57
patria d’origine del movimento dei galilaei, i terribili zeloti che insanguinarono la Palestina per
decenni e che, alla fine, provocarono la scintilla della grande guerra degli anni 66/70 e, con essa, la
distruzione completa di Israele.
Ma c’è di più. I romani conoscevano bene questa città, perché le legioni di Vespasiano, guidate dal
futuro imperatore, la dovettero cingere d’assedio, per mesi, prima di riuscire ad espugnarla ed
annientare questo pericoloso focolaio di ribelli. Giuseppe Flavio ci racconta i particolari
dell’assedio durissimo ed anche di azioni di combattimento in cui lo stesso Vespasiano rischiò la
vita. Di notevole importanza è la condotta degli abitanti della città che, vistisi perduti, preferirono
suicidarsi in massa, proprio come i ribelli di Masada, passandosi a fil di spada o gettandosi giù dalla
scarpata. Un tipico comportamento zelotico.
Qui esiste veramente un precipizio! Ed esistono anche i bellissimi resti della sinagoga, a breve
distanza dalla scarpata. Ed è qui che il racconto Lucano della folla inferocita, che voleva scagliare
Gesù nel baratro, avrebbe potuto realmente ambientarsi. Così come sarebbe stato possibile che gli
abitanti seguissero il Cristo allorché si recava a predicare sulla riva del lago, dal momento che fra
Gamla e il lago c’è un percorso diretto di circa 8 km, lungo una valle solcata da un torrente. In
meno di due ore chiunque avrebbe potuto discendere lungo il torrente e raggiungere la riva nord
orientale del lago, presso il villaggio che costituiva l’accesso naturale di Gamla alle acque di
Tiberiade: Betsaida.
Purtroppo, su mappe presenti in alcuni libri di storia del cristianesimo primitivo, ed anche in alcuni
siti web, la posizione della città di Gamla (e talvolta anche di Betsaida) è indicata in modo molto
impreciso: spesso allontanata dal lago e spostata verso sud. Non saprei dire se ciò deriva da
semplice ignoranza o, talvolta, dal desiderio di staccare quel luogo dalle aree di frequentazione di
Gesù. Al fine di togliersi ogni dubbio è sufficiente consultare l’immagine satellitare offerta da
Google Earth, per verificare che Gamla è molto vicina al lago di Tiberiade, che si trova in
prossimità della costa nord est e che da essa scorre un torrente che sfocia nel lago, nelle vicinanze di
Betsaida di Galilea.
In pratica, nei loro movimenti, i cittadini di Gamla dovevano comunque scendere verso Betsaida e
poi, eventualmente, proseguire in barca. Questo fatto lega intimamente Gamla e Betsaida, anche
considerando il fatto che, ai tempi di Gesù, l’economia di Gamla si basava sulla produzione di olio
di oliva e che, certamente, Betsaida era il centro di smistamento della merce che partiva per le varie
destinazioni. È anche possibile che, per coloro che vivevano affacciati sulle rive del lago di
Tiberiade, l’espressione “andare a Betsaida”, cioè prendere un’imbarcazione ed approdare a
Betsaida, fosse implicitamente sinonimo di “andare a Gamla”.
225 Mt V,14.
Il silenzio intorno a Gamla, nella letteratura neotestamentaria, è assoluto e categorico. Praticamente
la città non esiste. Mentre esiste abbondantemente nei resoconti storici, specialmente quelli di
Giuseppe Flavio. Negli scritti evangelici esiste invece una città situata sul monte, tale da non poter
rimanere nascosta, fortificata, con una sinagoga vicina ad un precipizio, abbastanza vicina al lago di
Tiberiade da consentire spostamenti verso la riva in tempi reali. Ma questa città si chiama Nazaret, e
non esiste affatto nei resoconti storici. E in realtà non ha alcun precipizio, nessuna sinagoga, non è
fortificata, è molto lontana dal lago di Tiberiade. E si pretende anche, contro ogni evidenza, che
nazareno significhi cittadino di Nazaret! Si ricordi che gli autori delle due natività, i presunti
Matteo e Luca, hanno fatto nascere Gesù a Betlemme e l’hanno fatto crescere a Nazaret, ma si
prenda in considerazione la possibilità che entrambe le attribuzioni siano del tutto leggendarie.
Si noti adesso quanto segue:
“Filippo era di Betsaida, la città di Andrea e di Pietro”226.
Veniamo cioè a sapere, attraverso il quarto Vangelo, che una scena di reclutamento di nuovi
apostoli si svolge proprio a Betsaida, e che Simon Pietro, Andrea e Filippo sarebbero stati originari
di quel paese, che sorgeva ai piedi di Gamla. Ora, molti elementi fanno capire che, al di là di certe
apparenze della narrazione evangelica, alcuni degli apostoli erano fratelli fra loro e fratelli di Cristo
e, fra questi, anche Simone detto Pietro, il barjona – non figlio di Giona ma, secondo la lingua
aramaica, latitante, fuorilegge, ribelle227. Come abbiamo già detto, fratelli di Cristo erano anche
Giacomo e Giuda Tommaso, o Taddeo/Teuda.
“Ordinò poi ai discepoli di salire sulla barca e precederlo sull'altra riva, verso Betsàida,
mentre egli avrebbe licenziato la folla. Appena li ebbe congedati, salì sul monte a pregare.
Venuta la sera, la barca era in mezzo al mare ed egli solo a terra”228;
“Giunsero a Betsàida, dove gli condussero un cieco pregandolo di toccarlo”229;
“Allora si mise a rimproverare le città nelle quali aveva compiuto il maggior numero di
miracoli, perchè non si erano convertite: “Guai a te, Corazin! Guai a te, Betsàida. Perché,
226 Gv I, 44 227 Si vedano i miei già citati scritti ed anche i già citati lavori di R. Eisenman. 228 Mc VI, 45-46 229 Mc VIII, 22
se a Tiro e a Sidone fossero stati compiuti i miracoli che sono stati fatti in mezzo a voi, già
da tempo avrebbero fatto penitenza, ravvolte nel cilicio e nella cenere”230;
“Allora li prese con sé e si ritirò verso una città chiamata Betsàida. Ma le folle lo seppero e
lo seguirono. Egli le accolse e prese a parlar loro del regno di Dio”231;
“Guai a te, Corazin, guai a te, Betsàida! Perché se in Tiro e Sidone fossero stati compiuti i
miracoli compiuti tra voi, già da tempo si sarebbero convertiti vestendo il sacco e
coprendosi di cenere. Perciò nel giudizio Tiro e Sidone saranno trattate meno duramente
di voi. E tu, Cafàrnao, sarai innalzata fino al cielo? Fino agli inferi sarai precipitata!”232;
“Tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa, c'erano anche alcuni Greci. Questi
si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli chiesero: “Signore, vogliamo
vedere Gesù””233.
Le tre città, Betsaida, Corazim e Cafarnao, che evidentemente rappresentano luoghi in cui Gesù si
trovava spesso, mostrano un’assidua frequentazione del versante nord e nord orientale del lago di
Tiberiade. Tanto più che i suoi apostoli fratelli erano di Betsaida. È qui che Gesù aveva compiuto
“il maggior numero di miracoli”, è proprio contro queste città che si è scagliato quando, infervorato
dall’ira, lanciava oscure maledizioni. Non ha inveito contro Nazaret, o Cana, Magdala, luoghi
comuni della Galilea centrale. Non possiamo non capire che questa zona, a cavallo fra la Galilea
settentrionale e il Golan, era l’area dei suoi spostamenti comuni. Invece, l’accesso naturale di
Nazaret al lago, pur tenendo conto della distanza non indifferente, è sul versante sud occidentale.
Betsaida era il porto di Gamla, e questo ci dimostra che Gesù doveva avere avuto a che fare con la
fatidica città fortificata sul monte, che i romani ricordavano come uno dei luoghi maledetti della
loro attività politica e militare in Palestina.
Confessare, nelle scritture evangeliche, che Gesù frequentava questo villaggio o, addirittura, che era
originario di Gamla, sarebbe stato come riconoscerlo immediatamente collegato ai movimenti zeloti
e alla famiglia di Giuda il galileo. Molto meglio allontanarlo da quel luogo e, nello stesso tempo,
denaturare il significato del titolo nazoraios, facendolo passare per cittadino di Nazaret.
230 Mt XI, 20-21 231 Lc IX, 10-11 232 Lc X, 13-15 233 Gv XII, 20-21
Natale.
Alcuni anni fa fui invitato ad un congresso anticlericale, nel corso del quale un relatore esordì
affermando, in modo categorico e sbrigativo, che le religioni sono inutili e dannose. Alla sua
dichiarazione fecero seguito vivaci espressioni di entusiasmo da parte del pubblico. Provai
istintivamente una sensazione fastidiosa, ebbi la percezione di un clima culturalmente scorretto,
ideologicamente schierato, nel quale è facile abbandonarsi al fanatismo.
Quando arrivò il mio turno per parlare, feci notare che, se dovessimo trovare un punto, nel cammino
evolutivo della nostra specie, in cui possiamo immaginare che l’animale sia diventato uomo, questo
potrebbe essere individuato nella fase in cui i neandertaliani iniziarono a sviluppare un complesso
culto dei morti, manifestando così il senso del sacro. L’atto di nascita dell’umanità, a mio parere,
piuttosto che da certi risultati del progresso tecnologico, è rappresentato dalla comparsa della
spiritualità. Non ci furono contestazioni, ma un sorpreso silenzio che riconosceva il peso di queste
parole, sebbene in un contesto non molto disponibile alle arringhe in difesa della spiritualità.
L’uomo, essere pensante e creatura sociale, ha bisogno di simboli e di riti, e la verità ha bisogno del
supporto della fantasia, la quale spesso produce immagini rappresentative, atte a comunicare e
insegnare e non, come da qualche parte si vorrebbe credere, semplici bugie. È così che gli adulti
insegnano ai bambini, attraverso la suggestione delle fiabe, le quali sono destinate, un giorno, a
perdere la loro cornice fantastica per conservare il valore psicologico, etico e culturale in generale.
Non credo che qualcuno accuserebbe di disonestà essenziale coloro che hanno creato i miti religiosi
dell’antica Grecia, o di altri popoli, pensando che lo abbiano fatto con la precisa volontà di
ingannare la gente. O che un’infamia di questo genere possa essere attribuita ad Omero, nel
momento in cui, componendo l’Iliade e l’Odissea, le infarciva di leggenda e di magia. Così come
non credo che sia stato un atto di disonestà la nascita del mito cristiano, anche se spesso si è svolto
mediante una libera reinterpretazione della storia. Almeno fintantoché ciò non è diventato una
strumentalizzazione ai fini del potere. Di questo, senz’altro, ci ha dato testimonianza l’ispirazione
che mosse Costantino nel condurre il Concilio di Nicea, nel corso del quale fece il possibile per
adattare la dottrina della chiesa alle esigenze e alle convenienze del governo dell’impero.
In effetti lo spirito combattivo e la partigianeria degli anticlericali può trovare giustificazione nelle
violenze effettuate sul senso del sacro, negli abusi dell’autorità religiosa, e nei dispotismi dottrinari,
ma non è autorizzato per questo ad estendersi verso una pretesa radicale di eliminazione della
spiritualità, una sorta di crociata abrogativa della religione.
Non esiste un popolo senza religione. Non può esistere un popolo che, in un modo o nell’altro, non
abbia una tradizione religiosa e un sistema di riti legati al senso del sacro. Non può esistere una
cultura che faccia a meno del mito e, da questo punto di vista, possiamo affermare che la dottrina
cattolica, da una parte, e l’ateismo materialista, dall’altra, commettono uno sbaglio fondamentale: la
prima non volendo riconoscere l’immagine di Gesù come mito, il secondo rifiutando a priori il mito
in quanto tale. In effetti entrambi, per motivi diversi, accettano che la società evolva in una
direzione che impoverisce comunque il senso della spiritualità, perché coinvolge l’uomo in una
corsa sfrenata verso un benessere materiale esagerato, irresponsabile, accecante, capace di
demotivarlo sempre di più dall’alzare lo sguardo verso la luce fragile delle stelle.
Ma il Natale giunge puntualmente ogni anno nelle città dell’occidente cristiano, generalmente
associato al clima invernale, anche se molti paesi, in America latina e in Australia, lo festeggiano in
una cornice decisamente estiva. Il Natale fa parte della civiltà occidentale da molto prima che
nascesse il cristianesimo. Abbiamo già parlato del fatto che il 25 dicembre fosse una festività
affermata e diffusa nel mondo pagano mediterraneo, riferita alla nascita del dio sole. Persino il
presepe e il costume dei doni natalizi hanno un’origine precristiana.
In effetti, così come non è possibile immaginare una civiltà senza religione, non è possibile neanche
immaginarla senza una tradizione che faccia riferimento all’archetipo della nascita, della maternità
e della famiglia. A questo proposito aggiungerei anche “della paternità”, spinto da un’attitudine che
mi costringe ad associare nella loro complementarità naturale i ruoli della madre e del padre. Ruoli
che l’immagine evangelica distorce, lasciando alla donna il compito biologico di custodire il
nascituro nel suo grembo, anzi, contribuendo a sacralizzare questa funzione, ma privando il maschio
del suo ruolo, e determinando così due rovinose conseguenze. Una è quella di dipingere l’archetipo
del padre come semplice tutore familiare, buon amministratore e protettore, l’altra è quella di
misconoscere totalmente l’importanza della sessualità, al contrario, di associarla indissolubilmente
all’idea del peccato e di produrre una fortissima inibizione nei confronti della gioia fisica
dell’unione coniugale.
Ma non è questo l’aspetto del Natale cristiano su cui vogliamo porre la nostra attenzione,
intendiamo piuttosto domandarci cosa e quanto significa ancora questa festa nella civiltà moderna
occidentale. E, naturalmente, la risposta deve avere un carattere articolato. La società non è
omogenea, le persone hanno culture, credenze e atteggiamenti diversi, e il senso del Natale
rispecchia questa molteplicità. Certo è che, se cerchiamo di generalizzare, non possiamo non
rilevare che l’aspetto più appariscente, e forse anche preponderante, è diventato quello
consumistico. Veicolato dai mass media i quali, accanto ad uno sforzo modesto per ricordare il
senso religioso delle natività evangeliche, si dedicano con energia a rappresentare il Natale come
una grande festa dello shopping, dei regali, delle riunioni familiari a base di pasti pantagruelici,
delle vacanze invernali, dei viaggi, e quant’altro.
Mi domando se l’eventuale mortificazione del Natale è realizzata in modo più nocivo, e persino
inafferrabile, dall’esecuzione di un’analisi storica che vuole distinguere gli aspetti leggendari da
quelli storici, o piuttosto dallo stabilirsi di una suggestione consumistica collettiva che ne distorce
l’immagine spirituale e l’insieme dei valori che questa ricorrenza dovrebbe rappresentare.
Da più parti si risponde che il Natale come gioia, come festa, come incontro, è coerente col suo
spirito originario, anche nel fatto stesso di pensare, una volta l’anno, a regalare qualcosa a parenti,
amici e conoscenti. E questo potrebbe essere vero, se non fosse che, in realtà, la dimensione
consumistica fagocita tutto in modo così arrogante da produrre un inevitabile, e talvolta
irrimediabile, effetto psicologico. Personalmente ritengo che questo equivalga ad una dissacrazione
del Natale assai peggiore di quella che può essere effettuata da studi storici che mostrano gli aspetti
mitologici della tradizione.
E, viene inevitabilmente domandarsi, in quale misura i rappresentanti della dottrina cristiana, si
adoperano, al di là di qualche debole sporadico intervento verbale, per insistere affinché il Natale
sia vissuto dalla collettività in modo coerente coi valori che dovrebbe trasmettere? O non
preferiscono piuttosto tollerare, rassegnati ad una logica di convenienza, che il Natale si associ,
nella realtà dei fatti, all’idea dell’abbondanza, dell’ostentazione e dello spreco? Contentandosi di
salvaguardare gli aspetti liturgici e le abitudini cultuali, per poi cedere il posto ad un atteggiamento
secolarizzante, ormai ben consolidato.
Per quanto leggendari possano essere i racconti della natività, essi trasmettono alcune precise scelte
ideologiche e religiose che non possono essere facilmente travisate. La nascita del dio incarnato, o
del re messianico, non si ambienta nella cornice opulenta adeguata ad una concezione faraonica, che
glorifica la grandezza spirituale attraverso la grandezza materiale. Al contrario, la famiglia in cui è
generato Gesù è dipinta nella sua caratteristica umiltà e, se nella natività di Matteo il bambino vede
la luce in una modesta abitazione, in quella lucana è partorito addirittura in un serraglio per gli
animali, e posto in una mangiatoia, come la più dimessa delle creature.
Tutto ciò non incoraggia l’immagine di un Natale opulento, né si confà con la filosofia di fondo
dell’occidente cristiano, che guida il mondo intero coi suoi modelli di consumo, trascinando nella
corsa al benessere materiale, o purtroppo semplicemente nell’ambizione ad esso, i paesi di tutto il
pianeta, a qualunque tradizione e cultura essi appartengano.
Questa consapevolezza è incorporata anche nella moderna contestazione anticlericale, fondata su
una concezione di derivazione marxista. Ma, al posto delle tradizioni religiose, e al calore che esse
portano nello scorrere delle stagioni, quale legame propone il materialismo storico con le nostre
origini culturali e spirituali? E quali espressioni sociali del nostro anelito istintivo ad una
dimensione di sacertà che possa essere vissuta collettivamente?
Buona parte dell’anticlericalismo moderno rappresenta la volontà sommaria di cancellare la
tradizione religiosa, e invita ad una visione materialistica della vita, esaltando il principio della
ragione, o meglio della razionalità, come unico riferimento a cui ispirare i valori dell’esistenza. Si
tratta, a mio parere, di una posizione infantile, più immatura di quella che, millenni fa, già
caratterizzava il pensiero dei filosofi greci. Non possiamo certo rimproverare loro di aver
sottovalutato l’importanza della ragione. La principale affermazione pitagorica era che “il mondo
intero fosse armonia e numero”. Ciò nonostante i filosofi greci non hanno mai costruito sistemi di
pensiero all’interno dei quali razionalità e spiritualità fossero destinate a confrontarsi così
conflittualmente. Almeno nel modo in cui si sono confrontate, a partire dal diciassettesimo secolo,
nell’occidente cristiano.
È proprio l’occidente cristiano che ha coltivato questa contraddizione, attraverso un plurisecolare
connubio fra chiesa e potere, fra religione ed economia, che ha portato a circostanze di autentica
dittatura culturale, in cui l’autorità ecclesiastica pretendeva, e in buona misura pretenderebbe ancora
oggi, di avere il monopolio e il controllo assoluto sulla conoscenza scientifica, sulle verità dello
spirito, sull’etica sociale. Il razionalismo materialista è una conseguenza di questa realtà, scusabile
in quanto tale, ma senz’altro da compatire per la povertà essenziale del suo valore,
irrimediabilmente insufficiente a rappresentare le esigenze dell’uomo e la complessità della sua
interiorità.
Credo che l’uomo moderno abbia bisogno di compiere una maturazione, nel senso di superare
questa antica contraddizione, e di recuperare la compatibilità fra la ragione e il senso del sacro. È
difficile, da un lato, perché le consuetudini sono radicate, ma non è difficile, dall’altro, perché ciò
rappresenta un’esigenza sentita, in modo consapevole o meno, da tutti.
Quando chiedo alle persone, principalmente di estrazione laica e di educazione aconfessionale, se il
Natale significa in qualche modo, per loro, una circostanza che tocca l’animo, che suscita emozioni,
che rappresenta qualcosa, la risposta può anche essere formulata in modo critico, ma c’è sempre un
sì che appare, esplicitamente o meno, a dimostrazione del fatto che l’importanza e la suggestione
del Natale non risparmiano nessuno. Non foss’altro perché ognuno è legato ai ricordi della sua
infanzia, all’affetto dei genitori, dei nonni, degli zii, ai regali, al folklore, ai colori delle luminarie,
degli alberi decorati, ai paesaggi del presepe, ai suoni delle zampogne.
Gli anticlericali vorrebbero relegare la ricorrenza religiosa agli spazi riservati che una società
laicizzata, ma democratica, può permettersi di concedere ai credenti. Come quando una legge
consistente di follia pura decise di abrogare, per fortuna provvisoriamente, la festa dell’Epifania.
Ma la Befana si è presa la rivincita sul giudizio dei legislatori, ed è rientrata nel calendario. Il 6
gennaio a scuola si era trasformato spontaneamente in una celebrazione in cui i primi entusiasti,
nostalgici e pronti a cavalcare scope volanti, erano gli insegnanti.
Nessuno, nella civiltà occidentale, seguirà gli inviti dei campioni del raziocinio laico, e tutti
continueranno a festeggiare, nella santa notte, la nascita del bambinello Gesù. Nei secoli a venire. Il
problema non è quello della laicizzazione, anche perché, di fatto, il processo di globalizzazione
commerciale agisce già come una forte laicizzazione, nel senso più lato del termine. Il problema è
quello dell’attribuzione del significato alle cose e, nel nostro caso, alla ricorrenza del Natale.
Personalmente sono convinto che la liberazione del Natale dai vincoli di un’impostazione
dottrinaria dogmatica, erede degli sviluppi passati di un’istituzione ecclesiastica che spesso ha
smerciato il sacro in cambio del profano, non può che aprire le porte ad un arricchimento spirituale,
e al recupero dei valori autentici del Natale. Non posso fare a meno di ripetere, a questo proposito,
un concetto già espresso: di un Natale che non ha solo duemila anni, ma molti di più.
Il problema è la lettura delle cose e la conoscenza delle loro radici. Allora l’uomo può conoscere se
stesso e migliorarsi. Il Natale è senz’altro una delle porte attraverso le quali dobbiamo continuare a
passare. Da svegli.