dedico questo libro se un giorno vorrà leggerlo b.g. · oreste, quarantadue. mi accettarono come...
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Dedico questo libro A mio nipote Nicola.
Se un giorno vorrà leggerlo Troverà un poco delle sue radici.
B.G.
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CAPITOLO PRIMO
Prime ribellioni
Vi presento Bianca Grasso, nata a Vercelli l'11 agosto 1926.
Quando nacqui, mia madre, Rita, aveva quarant'anni e mio padre,
Oreste, quarantadue. Mi accettarono come una grazia dal cielo, ma con un
po' d'imbarazzo per la loro età avanzata (mio fratello Remo aveva sedici
anni e mia sorella Egle quindici). Tanto è vero che la mamma, preoccupata e
timida, andò a partorire in ospedale.
La prima tragedia fu il parto. L'ostetrica mi procurò un trauma alla
spalla destra, da cui derivò una paralisi permanente alla quale non fu più
possibile trovare un rimedio.
Mi volevano dare un nome diverso, ma il regime fascista non lo
permetteva, perché era un nome russo.
Mio padre, bracciante, aveva partecipato alle lotte sindacali, era un
attivo sostenitore del circolo cooperativo del rione Isola. Venne poi assunto
in una fabbrica di prodotti chimici. Con la guerra del 1915, a trentun anni,
sposato con due figli, fu mandato al fronte, presso Monfalcone, per quattro
anni. Mia madre lo sostituì in fabbrica, a fare lavori massacranti, per dodici
ore al giorno. Mio padre, al fronte, nelle ore di tregua faceva diversi lavori
con i bossoli vuoti delle cartucce e delle bombe, costruiva accendini,
tagliacarte, braccialetti, che vendeva ai suoi compagni ricavandone soldi da
mandare a casa, alla famiglia. In quel periodo scrisse un diario, che
conservo tuttora e che è stato pubblicato e commentato sulla rivista
"L'Impegno".
Tagliacarte costruito a mano
da mio padre, col rottame
di un aereo austriaco abbattuto
da Francesco Baracca
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Mia madre aveva sempre lavorato in risaia, sin da quando le mondine erano
costrette a prestare la loro opera dall'alba al tramonto, percorrendo a piedi vari
chilometri al giorno. Partecipò alle lotte contadine del 1905-1909 per le otto
ore, con sua nipote, Margherita Baucero detta Tin. Durante una delle
manifestazioni di protesta, le guardie regie a cavallo scatenarono una carica e
mia madre fu ferita al petto da una lancia; per evitare un ematoma applicò sulla
lesione una fetta di lardo, come si usava a quei tempi. Dovette rimanere
nascosta con altre scioperanti per più giorni, per sfuggire alle ricerche della
polizia. Dopo qualche giorno, poiché non c'era niente da mangiare e la fame
diventava insopportabile, mia madre mangiò la fetta di lardo che aveva usato
come medicazione. Per quanto dedicò in difesa della dignità, della famiglia,
per le sue lotte, mi sento orgogliosa di lei.
Nel 1927, mia sorella Egle, sedicenne, fu arrestata dai fascisti, perché
in casa nostra, nel corso di una delle frequenti perquisizioni a cui erano
soggette le abitazioni degli antifascisti, avevano trovato tra le sue cose dei
volantini di opposizione al regime. Data la sua giovane età, fu condannata
a soli tre mesi di carcere, che scontò a Novara (allora nostro capoluogo di
provincia). Era iscritta al PCI e aveva contatti con Nino Baltaro, Domenico
Facelli (poi mandati al confino), Giuseppe Rimola (Nero) di Novara (poi
emigrato in Russia), Maria Seccatore e altri antifascisti.
***
A cinque anni fui portata all'asilo Filippi, ma l'ambiente non mi
piaceva. Dopo sette giorni di quella brutta esperienza, scappai con un
bambino diventato mio amico, pure lui con un'imperfezione fisica. Ci
facemmo "scaletta" (una sulle spalle dell'altro), per arrivare a tirare il
chiavistello del portone, uscimmo e andammo a giocare nei giardini della
vicina piazza del duomo. Ci trovarono seduti tranquillamente tra le ali delle
aquile del monumento. Non mi mandarono più all'asilo, rimasi a giocare
nella mia "Bella Venezia", il grande caseggiato popolare del rione Isola.
In quel periodo fui colpita dal virus della difterite, una malattia
infettiva di cui c'era un'epidemia. Mi portarono in ospedale, con mia madre,
nel reparto isolamento, dove rimasi per quaranta giorni (la quarantena). Mi
riempirono di siero, finché guarii. A sei anni subii un intervento alle tonsille
per le adenoidi.
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Frequentando la prima elementare dovetti constatare che i bambini
possono essere crudeli. Mi deridevano per il mio braccio diverso dagli altri, mi
chiamavano brass a'stort (braccio storto).
***
Il giorno della "Befana fascista" radunarono nella grande palestra tutti
i bambini del plesso scolastico (circa quattrocento); ogni scolaro venne
chiamato per nome e ricevette il "pacco", che conteneva una palla o un
trenino per i bambini, una bambolina per le bimbe e cioccolatini, biscotti,
mandarini. Soltanto io venni esclusa, perché i miei genitori si erano rifiutati
di iscrivermi all'Opera Balilla e di farmi portare la divisa da piccola italiana
(gonna nera e camicetta bianca). Tornai a casa triste, arrabbiata e umiliata;
le compagne e le amiche erano tutte felici per i doni ricevuti, ma anch'esse
incapaci di capire perché io sola ero stata esclusa. Vedendomi così infelice
e piangente, i miei cercavano di consolarmi, ma io non riuscivo a capire.
Arrivò mio fratello, che mi spiegò le ragioni per cui, il primo maggio, la
polizia aveva preso lui, papà, la Egle e tanti altri lavoratori, trattenendoli in
guardina per tutto il giorno. Non si trattava di una gita, ma di una misura di
sicurezza per impedire la festa del lavoro, che sarebbe stata una
manifestazione contro il fascismo.
- Il fascismo - proseguì Remo - è quello che tu hai visto. Ci vorrebbe
fatti tutti allo stesso modo e pronti ad applaudire quando gli fa comodo. Il
fascismo è il partito dei padroni, quelli che si prendono la maggior parte
delle ricchezze guadagnate con il faticoso lavoro delle mondine come la
mamma e degli altri operai. I fascisti sono quelli che hanno dato i pacchi
della Befana ai bambini, per influenzarli, educarli con le parole d'ordine del
duce: credere, obbedire, combattere.
Compresi meglio quando mi spiegarono che la Egle era stata
imprigionata a Novara per tre mesi perché attivista comunista. Posso dire
che il mio antifascismo nacque quel giorno, con la vicenda della Befana.
Quell'episodio fu l'inizio della mia ribellione.
***
Alle scuole elementari non ero un disastro, però non avevo voglia di
fare quello che mi dicevano, un po' per ripicca, un po' perché ero diversa
dagli altri; almeno, gli insegnanti e il direttore mi consideravano diversa, a
parte la maestra Maria Grosso (pure lei un po' discriminata perché di
religione protestante) che all'occasione prendeva le mie difese. Ero sovente
in castigo in corridoio e, non sapendo che fare, aiutavo il bidello ad
annaffiare i vasi dei fiori.
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Per andare alle scuole Carducci si doveva percorrere tutta la via Trento,
detta anche "strada rossa", poiché ai suoi margini una fabbrica di concimi
depositava enormi cumuli di cenere rossa che arrivava fino al Cervetto, un
canale che sfocia nella Sesia. D'inverno, quando nevicava, noi ragazzi
andavamo su quelle montagnole e, sedendoci sulla cartella, facevamo grandi
scivolate. Un gioco pericoloso, perché avremmo potuto sbandare e finire
nell'acqua.
Sul sentiero che costeggiava il Cervetto crescevano un'infinità di rovi
e piante di more, di cui facevamo scorpacciate. Un giorno, la Renata ed io,
mentre le coglievamo, ci spaventammo alla vista di una enorme biscia verde
con la cresta di colore rossastro. Si immergeva e ricompariva, finché
scomparve sotto il ponte. Rimasi talmente traumatizzata da conservare per
tutta la vita un terrore invincibile per qualsiasi tipo di serpe.
***
Mio padre aveva conseguito la patente di guida e faceva l'autista da
quando io nacqui. Era pagato molto bene, per quei tempi, guadagnava 126
lire alla settimana e un "pintone" (bottiglione di circa sette litri) di vino.
Facevamo la spesa nel negozio di alimentari del Clemente, vicino a casa
nostra, e ogni settimana pagavamo il conto che si teneva su un apposito
libretto. Alla domenica mattina avevo il compito di andare a comprare la
carne al mercato coperto di San Marco, con uno o due "scudi" d'argento da
cinque lire (da un lato c'era raffigurata un'aquila, per cui la moneta veniva
chiamata anche "aquilotto").
Mia sorella sposò Bruno Gentile e da essi nacque Nerina, la mia prima
nipotina. Era bellissima, ma piccola piccola; mio fratello Remo, con delle
perline di legno, le costruì una mini-culla, che fu sistemata accanto alla
stufa, da cui la piccina poteva ricevere il calore necessario.
Nel 1935 mio fratello sposò Giulia, che abitava a Strona. Il matrimonio
si celebrò nel comune di residenza della sposa e per andarci mio padre
affittò un'auto, una "Balilla", nella quale riuscimmo ad entrare in otto
persone. La povera vettura arrancava nelle salite di montagna, ma fu un
viaggio appassionante. Da loro, nel 1937, nacque Mirella, la mia seconda
nipotina, bionda e bellissima.
Quando terminai le scuole elementari, la dittatura fascista e il clero
obbligarono i miei genitori a farmi ricevere i sacramenti (ero stata solamente
battezzata). Mi fecero confezionare un vestito bianco con della fodera a
buon mercato e mi comprarono un paio di scarpe bianche da tennis.
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La mia
prima comunione,
a dieci anni
Alla cerimonia, che si svolse nel duomo, oltre che per il vestito
scadente spiccavo tra gli altri bambini per la mia statura. L'età media degli
altri comunicandi era di sei anni ed io ne avevo dieci. Finita la funzione,
saltai a cavallino tutti i paracarri davanti al duomo. Era consuetudine
portare i bambini al bar a prendere la cioccolata in tazza con i biscotti.
***
Le condizioni economiche piuttosto buone della mia famiglia
consentirono a mio padre, nel 1939, di comprare un apparecchio radio, che
allora costava parecchio; il nostro, pur essendo di seconda mano, funzionava
perfettamente.
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Eravamo tra i pochi fortunati che disponevano di due camere in affitto;
certe famiglie composte da sei-otto persone vivevano in una sola camera.
Per ascoltare buona musica, canzonette, opere e commedie, i vicini
affollavano il nostro alloggio, si facevano anche turni di otto-dieci persone.
Quando eravamo soli, riuscivamo a captare le stazioni estere, in special
modo "Radio Londra", rigorosamente vietata, perché si trattava di una
trasmissione antifascista in lingua italiana. La radio forniva l'occasione di
stare insieme, stringere rapporti cordiali ed amichevoli.
***
Dopo le elementari, ci riunivamo in squadre di dieci, quindici ragazzi e
ragazze, dedicandoci a tutta una serie di giochi e svaghi. Andavamo spesso
alla Sesia (mio padre mi aveva insegnato a nuotare quando ero molto
piccola). Si partiva al mattino, accompagnati da qualche adulto, portandoci
qualche panino, e si tornava alla sera, trascorrendo le giornate a giocare,
nuotare, prendere il sole e a fare tutte le cose che si fanno da giovani per
stare allegri.
C'erano i cubi di cemento per rafforzare gli argini contro le piene, dai
quali ci tuffavamo. Un giorno, Rosanna, della nostra squadra, ammirando le
nostre esibizioni, mi domandò :
- Pensi che sarei capace di farlo anch'io ?
- Certo, non è difficile; hai visto, no ?
Tutta entusiasta, si tuffò, ma quando riemerse si mise a gridare :
- Non so nuotare, venite a prendermi...!
In quel punto l'acqua era molto alta; per fortuna alla domenica la
spiaggia era frequentata da intere famiglie. Vicino c'era mio padre, che si
tuffò e la trasse in salvo. Rosanna era imprevedibile, ignoravamo che non
sapesse nuotare. Ma da quel giorno imparò.
Un giorno attraversai il fiume facendo una gara con i ragazzi più grandi
- mi accettavano volentieri e ci si sfidava a vicenda.- Salii sulla sponda
opposta, passando una specie di guado con pietre molto grosse, per tornare
dal lato di partenza che chiamavamo "il boschetto". Quando arrivai a circa
dieci metri dalla sponda vidi una grossa biscia che dalla riva veniva verso
di me. Svenni per lo spavento e mi dovettero ripescare perché l'acqua mi
stava trascinando via.
***
Papà e mamma erano angosciati vedendo quanto soffrivo per il mio
difetto al braccio. Durante l'infanzia mi avevano portata da diversi
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specialisti, perfino a Firenze (a quei tempi non era facile spostarsi, sia per la
spesa che per la distanza), ma tutti dicevano che ero affetta da paralisi
infantile, perciò non emendabile. Tra i cinque e i sei anni venni sottoposta a
lunghissimi cicli di applicazioni elettriche, tanto dolorose (ancora oggi, se
appoggiassi un dito sull'omero, risentirei il dolore e le vibrazioni elettriche).
Tutto era stato inutile.
Avevo dodici anni quando arrivò da Torino un rinomato chirurgo, il
professor Pecco. Papà mi portò pure da lui, pagando una parcella
salatissima. Terminata la visita, il professore dichiarò che avevo una frattura
tra la spalla e l'omero, bastava praticare subito un bendaggio e
l'articolazione sarebbe andata a posto.
- Come chirurgo - disse,- tenterei l'operazione; come padre, la lascerei
così; intanto, vede, il braccio lo usa bene. Un intervento adesso, con questa
anchilosi, potrebbe paralizzare l'articolazione. Un giorno, forse, sarà
possibile...
Fu così che la nostra grande speranza tramontò definitivamente.
***
A quattordici anni, mio fratello cominciò ad affidarmi alcuni compiti di
responsabilità. Con la mia cartella di scuola, non sospettabile come gli
adulti, potevo trasportare dei libri messi all'indice dal fascismo, che ci
procurava il signor Giovanni Giovannacci, la persona più gentile e affabile
che io conobbi, un libraio antifascista che aveva il negozio sotto i portici di
piazza Cavour. Portavo i libri a Nino Baltaro, Pino Graziano, Mario Serassi
e altri militanti antifascisti. Erano libri proibiti e questa mia attività mi
inorgogliva, perché mi attribuiva una eccezionale responsabilità.
Mio fratello mi aiutava, era informato di tante cose tramite
l'organizzazione clandestina del partito. Era abbonato alla rivista "Relazioni
internazionali", obbiettiva e democratica, che dopo qualche anno venne
soppressa dal regime fascista. Lessi alcuni dei libri, "Il tallone di ferro" di
Jack London e "Il capitale" di Marx, ma ne capivo ben poco. Più tardi, nelle
formazioni partigiane, quando si faceva l'ora politica e il commissario
leggeva e spiegava brani di questi libri, compresi il significato di quelle
pagine che a quattordici anni trovavo incomprensibili.
***
Con papà iniziai presto, nelle domeniche d'estate, a fare lunghe gite in
bicicletta. Le strade erano di terra battuta e cosparse di ghiaietta, sulla quale
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Mio padre Oreste
a 47 anni,
in tenuta
da ciclista
era facile slittare e sbucciarsi le ginocchia. Per il "giro dei laghi", di 183
chilometri, si partiva al mattino alle cinque; il percorso comprendeva
Gattinara, il Lago d'Orta, Omegna, Fondo Toce e Intra. A Pallanza si
sostava e si faceva il bagno. Al ritorno passavamo da Stresa, una bella
cittadina con molti turisti, quasi tutti svizzeri, perché dalle nostre città erano
ben pochi a potersi permettere una gita sul lago. Dopo il pranzo si girellava
ammirando il paesaggio; un altro bagno, una merendina e poi in sella:
Arona, Novara e Vercelli. Si arrivava a casa verso le otto di sera.
Papà, bravissimo nel "fai da te", pensò di costruire un tandem, unendo
le varie parti di due biciclette. Ne costruì due perfetti. Con questi facemmo
una gita fino ad Oropa, con le mie amiche Silvia e Giovanna.
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Ci fermammo a dormire all'ospizio del santuario, dove si affittavano
camere ai turisti e pellegrini. Per due giorni compimmo scalate e lunghe
passeggiate, fino al Mucrone. Al ritorno, scendendo da Oropa, la discesa era
talmente ripida che aiutavamo i freni tenendo un bastone schiacciato sul
pedale e premuto contro il suolo, come facevano i montanari. Ad un tratto si
ruppe la forcella anteriore, che univa il manubrio al telaio del tandem su cui
viaggiavamo Giovanna ed io. Facemmo un brutto volo, per fortuna senza
farci alcun male.
Riuscii a formare un gruppo di cinque ragazze per una gita ai laghi, ma
giunte a Gattinara, che distava trentacinque chilometri, le mie amiche si
fermarono, dicendomi che erano stanche e sarebbero tornate a casa.
A Vercelli, quando avevo quindici anni, portare i calzoncini corti era
considerato scandaloso; eravamo solo in due ragazze, in città, a portarli, io e
la figlia di un commerciante di motociclette. Quando la gente ci vedeva in
tale succinto costume, ci indirizzava qualche parolaccia, ma nel mio rione
nessuno si scandalizzava, conoscevano la mia famiglia e ci rispettavano. Le
mie coetanee mi invidiavano:
- Sei fortunata, ad avere genitori che ti permettono una tenuta così
sportiva e comoda. I calzoncini noi li portiamo solamente quando andiamo
allo stadio Robbiano a fare ginnastica.
I miei famigliari mi permettevano di fare gite anche da sola, talvolta
con la bicicletta da corsa di mio fratello. Un giorno decisi di fare il solito
giro dei laghi. Avevo un po' di soldi e tante idee, per esempio quella di
pranzare a Stresa in qualche bel ristorante. Prima di pranzo, cercai una
spiaggia per fare un bagno. Ne vidi una deserta, attraverso un cancelletto
aperto sulla strada. Non c'era nessun cartello con divieti, misi dentro la mia
bicicletta, discesi alla spiaggia e mi tuffai. Stavo risalendo sulla riva,
quando mi sentii apostrofare da un uomo molto irritato:
- Voi, che cosa ci fate, qui dentro ? E' proprietà privata - (con il regime
autoritario fascista era stato abolito il "lei" e reso obbligatorio l'uso del
"voi").
- Ho visto il cancello aperto - risposi, - non c'era nessun divieto. Mi
sono meravigliata e non mi pareva di commettere qualche infrazione,
perciò sono scesa. Vi chiedo scusa.
Quella gente doveva essere ricca per avere anche un motoscafo.
Comunque, quel signore fu ragionevole e comprensivo. Infine ci salutammo
con una stretta di mano.
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Tornai al mio programma, avvicinandomi ad un bell'albergo, con un
giardino sul davanti. Una larghissima gradinata portava ad uno spiazzo con
dei tavolini, alcuni occupati da turisti che stavano pranzando. Non c'era
molta gente (le macchine erano rarissime, in maggioranza svizzere).
Parcheggiai la bicicletta e mi avviai per pranzare, ma i miei calzoncini corti
destavano indignazione. Si avvicinarono due camerieri, mi guardarono
dall'alto al basso con evidente disapprovazione e mi domandarono che cosa
volevo.
Chiesi di pranzare. Alla fine di una piccola discussione, mi fecero
accomodare ad un tavolino piuttosto appartato. Là seduta me la ridevo; fu
veramente una vittoria contro i pregiudizi di mezzo secolo fa.
***
Mia sorella aveva mandato sua figlia Nerina, che aveva otto anni meno
di me (io ne avevo sedici) in colonia a Brolo, sul Lago d'Orta. Ero molto
affezionata alla mia nipotina, perché dormiva nella mia camera ed era
molto timida e delicata. Qualche giorno dopo la sua partenza, pensai di
andare a farle visita. Dissi a mia sorella :
- Senti, Egle, vorrei andare a trovare la Nerina, che ne dici?
- Oh, bene, và pure. E' la prima volta che va lontano da casa ed è sola.
Se non le piace, se non vuole più restare, sei capace di riportarla qui ?
La rassicurai. Presi la bicicletta da uomo, infilai un cuscino nello zaino
e mi misi in viaggio, arrivando a Brolo in mattinata. Alla colonia, gestita
dalle suore, mi presentai, declinando le mie generalità e la mia qualità di zia
della piccola. Le suore chiamarono la cuoca, la signora Giuseppina (zia di
Nerina dalla parte di suo padre), e questa mi accompagnò lungo un viale,
finché vidi la piccola, sola, seduta su un cordolo del giardino. Appena mi
vide, mi corse incontro, esclamando:
- Zia Bianca, sei venuta a prendermi ?
- Perché, non ti piace stare qui ?
- No. Mi fanno dire le preghiere quattro volte al giorno e non mi danno
da mangiare quello che io desidero. Vorrei tornare a casa mia, non mi piace
stare qui. Non ci sono le mie amiche, queste non le conosco nemmeno.
Che potevo fare ? Ascoltai la bambina per un po', cercando di
convincerla. A un certo punto, visto che il posto non piaceva nemmeno a
me, mi rivolsi alla direttrice:
- Senta, la mamma della bambina mi ha autorizzata a riportarla a casa,
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se non fossi riuscita a convincerla a rimanere. Torniamo a Vercelli tutte e
due.
- Ma voi non potete, dove la mettete ? Non andate mica a casa a piedi...
- Per quello ci penso io, suora.
Accompagnai Nerina a raccogliere le sue cose, tirai fuori il cuscino
dallo zaino, lo sistemai sulla canna della bici e vi caricai la bambina.
Salutammo tutti e partimmo.
Per strada, le domandai:
- Non hai mai visto il Lago Maggiore, vero ? Ti piacerebbe vederlo ?
- Si, zia, vedo sempre solo questo, che è sempre grigio...
Mi avviai verso Fondo Toce e quindi a Pallanza. A Stresa mangiammo
i panini che avevo con me e ci riposammo, con i piedi immersi nell'acqua
del lago. Nel pomeriggio feci un bagno in previsione di tutti i chilometri
che dovevo coprire.
Arrivate ad Arona, scoppiò un grande temporale. Ci fermammo in un
bar, per ripararci e prendere un bicchiere di latte. Un signore e sua moglie ci
guardarono, colpiti dal fatto che eravamo inzuppate d'acqua, e ci
domandarono :
- Ma da dove venite, bambine ?
Raccontai un po' la storia della colonia e del nostro ritorno con visita al
Lago Maggiore.
- Dovete andare a Vercelli ? Sentite, noi abbiamo un camioncino per
trasportare merce e siamo diretti ad Alessandria; per tornare a casa
passiamo da Vercelli. Anche rischiando di prendere una multa, possiamo
caricare dietro la bicicletta e farvi salire con noi in cabina.
Così, un po' pigiati, ma al riparo, ci portarono fino a Vercelli; passato il
ponte della Sesia, a Porta Milano, la pioggia era cessata. Ringraziai i signori
per la loro gentilezza e tutto finì bene.
Facevo grande uso della bicicletta di papà, mi capitava di fare gare di
corsa o lunghi giri. Un giorno caddi e sfasciai tutta la ruota davanti. Mio
padre mi somministrò un sonoro ceffone. Era la prima volta che mi
percuoteva e fu anche l'ultima.
In bicicletta mi recavo spesso a Tronzano, dove c'erano i miei zii e mio
cugino Walter con i suoi amici. Qualche volta andavamo tutti assieme fino
al lago di Viverone, dove si facevamo lunghe nuotate.
Nel mio caseggiato, bambini e ragazzi erano tantissimi. Norma aveva
otto fratelli, Maria ne aveva sette. Eravamo molto affiatati, quasi tutti figli di
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operai, braccianti e mondine; di studenti tra noi ce n'erano pochi, perché a
quei tempi gli studenti erano figli dei ricchi, i soli con le possibilità di
pagare le tasse e le spese scolastiche. Noi li guardavamo con profonda
avversione, anche perché quando era scoppiata la guerra di Abissinia quasi
tutti gli studenti si erano pronunciati a favore del conflitto, per la "conquista
dell'impero", inneggiando alla guerra con sfilate e gagliardetti.
Tra i nostri giochi c'era la costruzione di casette sugli ippocastani;
imitando Tarzan, ci issavamo sugli alberi con le corde. Si giocava alla
"settimana" e a "guardie e ladri"; si andava a pescare le "sgrappe" (cobiti)
nei fossi e ci si divertiva in molti altri modi.
Ero forse l'unica ragazza del rione che giocava al pallone con i ragazzi.
C'era una squadra, con Nino, Ennio, Bruno, Lucio, Tonino, che andava a
giocare al campo di Marte, oltre il fiume Sesia, in un grande campo di calcio
aperto a tutti i ragazzi di Vercelli, che lo usavano a turno.
Un altro tipo di svago era costituito dal cinematografo. Il cinema che,
con le mie amiche, frequentavo di più era il Corso, molto popolare;
prendevamo i biglietti dei primi posti per non essere esposte a rischi e
molestie.
Qualche
mio dipinto
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CAPITOLO SECONDO
Alba di guerra
Mi piaceva dipingere e disegnare. Un giorno portai i miei disegni
all'Istituto delle Belle Arti, dal professor Cerallo. Dopo averli esaminati,
disse che col tempo e con una buona educazione artistica, un indirizzo
diverso, avrei potuto accedere all'Accademia Albertina.
Dopo qualche breve e amara riflessione, scartai la pur bella prospettiva.
Come avrei potuto accedere all'Accademia, se mi erano vietate le scuole
medie, che dovetti frequentare da privatista?
Papà tuttavia, volle incoraggiare la mia vocazione e mi mandò a scuola
da suor Ester, una sua nipote di secondo grado, delle monache di Maria
Ausiliatrice. Era una brava professoressa di pittura, di pianoforte e di
francese. Esaminò i miei disegni e fu lieta di avermi come allieva per poter
arricchire la mia formazione artistica. Mio padre era soddisfatto, sperava
che imparassi qualche cosa.
In quindici giorni dipinsi tre quadretti, sempre nature morte in un
portafrutta. Erano buoni quadri, suor Ester insegnava bene. La scuola era un
istituto di suore per ragazze, a pagamento (si pagava molto caro). Il difficile
era l'ambiente; dovevamo vestire un grembiule con le maniche lunghe,
calze lunghe, tutto in nero, in piena estate; sia all'entrata che all'uscita
dovevamo recitare le preghiere.
Dopo due settimane mi ero stancata del grembiule e di tutto il resto; le
nature morte mi erano venute tanto in odio che non ne dipinsi più in tutta la
mia vita. Così incominciai a marinare metodicamente la scuola. Uscivo al
pomeriggio con papà e ci lasciavamo all'angolo di via Trento; anziché
recarmi all'istituto, me ne andavo in bicicletta fino a Novara, distante una
ventina di chilometri, a prendere il gelato al caffè Coccia, il più grande e
rinomato della città. Il tempo dell'andata e del ritorno corrispondeva
esattamente alle quattro ore di scuola. Dopo quindici giorni di questi
sotterfugi, suor Ester interpellò mio padre, domandandogli se ero malata,
poiché non mi vedeva da due settimane. Papà mi chiese spiegazioni.
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Gli dissi che ero stanca del grembiule, delle calze, delle preghiere e
delle nature morte, non ci sarei più andata. Papà capì la situazione e mi
concesse pacificamente di concludere questa esperienza.
***
Quando, nel 1939, Mussolini venne a Vercelli, ci fu una grande
manifestazione, con tutta la città imbandierata. La piazza Mazzini, un
grande prato senza alberi sul quale si affacciava il balcone della Prefettura,
era affollatissima; la gente si accalcava come le acciughe nel barile. Tutte le
donne avevano il cappello di paglia delle mondine, con la scritta "viva il
duce". Vercelli era (come oggi) la capitale europea del riso, perciò
bisognava essere all'altezza della situazione e presentare le mondine, come
simbolo della provincia; gli uomini avevano il fez, Erano ridicoli. Mentre
monologavo a voce alta su questi argomenti, si avvicinò un giovane, coi
capelli rossi. Mi domandò perché imprecavo e non applaudivo. Risposi che
non mi importava nulla di quell'uomo e di tutta quella gente, che ritenevo
tutto una farsa. Era un poliziotto in borghese; mi prese per un braccio e mi
avviò verso la questura, ma dopo pochi passi mi lasciò andare, dicendomi :
- Va’ via. In fondo, anch'io non condivido tutto questo.
In quell'occasione, mio fratello Remo era stato tenuto in guardina per
tutto il giorno, come tanti altri antifascisti, quale misura precauzionale a
scanso di incidenti e attentati.
***
L'Italia entrò in guerra e Mussolini dispose la raccolta di oro, argento,
rame e ferro. Mamma nascose nel "baraccone" che serviva da ripostiglio
tutto il rame che possedevamo, padella, paiolo, mestolo, dichiarando di
non avere alcun oggetto da offrire. Quanto all'oro, spiegò che non portava
l'anello per via dell'artrite e non poteva consegnare nulla, che non ne
possedeva. In realtà aveva anelli, catenella, spilla, orecchini d'oro, che mi
regalò poi, per farli fondere e ricavarne le vere per me e mio marito, quando
ci sposammo.
In periodo di guerra si faceva tanta fame, tutti i generi alimentari erano
razionati. Avevamo duecento grammi di pane al giorno (trecento per chi
lavorava), cento grammi di riso o pasta e pochissimi altri generi; lasciavo
volentieri una parte del mio pane a papà, che lavorava. In quegli anni
mangiai grandi quantità di patate, cucinate in diversi modi: bollite, tagliate e
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condite con conserva di pomodoro e sale, oppure in insalata, con olio e
aceto. Il sale era scarso e difficilissimo da reperire; l'olio era di semi di
ravizzone, con un orribile e inspiegabile sapore di petrolio. Per integrare gli
insufficienti viveri razionati, si doveva ricorrere alla borsa nera spendendo
moltissimo. Anche se papà aveva una buona paga, i soldi non bastavano
mai.
In estate e in autunno, quasi tutti noi del rione andavamo a spigolare il
grano, il riso, il mais. Qualche volta non si spigolava soltanto, ma si
prelevava dai covoni o si mieteva direttamente. D'altra parte, era tutta roba
che gli agricoltori dovevano poi conferire all'ammasso, per il governo
fascista. Un giorno, con mia sorella, dopo aver riempito un sacco ciascuna
di pannocchie di mais, ci accingevamo a saltare la Sesietta, una roggia larga
più di due metri, che si trovava sulla via del nostro ritorno. Ma i sacchi
erano pesanti e il balzo non era tanto facile. Mia sorella lanciò il suo sacco
sull'altra riva e saltò; quando sentiti i cani del padrone che stavano
sopraggiungendo, mi buttai il sacco in spalla, e saltai al volo dall'altra parte,
certamente battendo un record.
Per il riscaldamento, si andava a tagliare alberi per fare legna da
ardere, oppure nelle discariche della stazione a raccogliere il carbone
scartato dalle locomotive. Mamma non usciva mai, era sofferente di artrite,
e dovevamo mantenere in casa un minimo di tepore.
***
Nel rione circolava una serie curiosa e divertente di ambulanti. Veniva
il carro che portava la biancheria, lenzuola, coperte, camicie. Di solito erano
confezionate in valigie che l'ambulante metteva in vendita, contrattando il
prezzo con il suo linguaggio colorito. Passavano l'arrotino con la sua mola a
pedale, il vetraio con i vetri in una specie di gerla che teneva sulle spalle,
l'ombrellaio che annunciava la sua professione con un allegro motivetto
musicale. C'era lo spazzacamino, di solito accompagnato da un bambino
che mi faceva tanta tristezza; forse prendeva con sé un bambino perché
poteva andare su per il camino con la scopa di ferro.
Quando venivano nel rione il teatro dei burattini o i saltimbanchi, per
noi ragazzi erano grandi avvenimenti. Erano i nostri svaghi.
***
Nel 1942 andai a lavorare per la prima volta, nella fabbrica che allora si
chiamava Chatillon. Ero nel turno dalle quattordici alle ventidue, nel reparto
28
rocche (così si chiamavano le grandi macchine che avvolgevano il filato).
Dovevo badare a sette macchine. Nel reparto c'era un rumore d'inferno, così
assordante da spaccare i timpani. Il capo reparto era un fascista che le
donne chiamavano Cordini, ma io ignoravo che fosse un soprannome.
Quando ebbi bisogno di lui, già tutta fuori fase per quel rumore inconsueto,
andai a cercarlo; lo vidi in fondo al capannone, che stava per uscire. Lo
chiamai ad alta voce:
- Signor Cordini !
Lui mi si avvicinò e disse:
- Che vuoi, figlia di puttana ? Io non mi chiamo Cordini, chi ti ha detto
questo nome?
- Tutto il reparto vi chiama con questo nome. Ma il 'figlia di puttana' lo
tenete per voi, maleducato.
Potevo rispondere a quel modo perché non temevo di essere mobilitata.
A quei tempi, infatti, i lavoratori potevano essere arruolati a forza
nell'organizzazione Todt, soggetta ad una disciplina rigidissima. Ero esente
dalla mobilitazione perché munita di una certificazione medica attestante
l'inabilità al lavoro a causa del mio braccio. Tornai alle mie macchine e
all'ora di cena, preso il mio pacco del cibo, mi rinchiusi nel gabinetto fino
alle dieci, senza mangiare, quindi tornai a casa.
Trovai tutta la famiglia riunita in attesa, con mia madre agitatissima.
Era la prima volta che andavo a lavorare e sapevano che nel reparto delle
rocche il lavoro era un inferno. Mio padre mi domandò com'era andata.
Ero furibonda e anche un poco intimorita, non sapevo se mi avrebbero
fatta ritornare là dentro. Raccontai il fatto accadutomi e che avevo saltato la
cena.
- Non mi sarebbe andata giù. Mi ha chiamata 'figlia di puttana'. Ero
così arrabbiata che avrei voluto ucciderlo, ma non sapevo come fare, non ho
potuto.
- Non andarci più - sentenziò mio padre.
Mi licenziai, presentando la mia certificazione di invalidità. Così si
concluse il mio primo giorno di lavoro.
***
Ebbi un'altra esperienza. Giovanna ed io avevamo letto l'inserzione di
una piccola fabbrica tessile e andammo a vedere. Si diceva che questo
signore assumeva molte ragazze, anche sei o sette per volta, ma alla fine
della settimana non le pagava, sostenendo che erano state in prova e, non
29
essendo risultate idonee, non avevano diritto alla paga. Insomma, ogni
settimana aveva sette-otto ragazze che lavoravano gratuitamente. Ci
consultammo:
- Beh, adesso vediamo come si comporta.
Infatti, fummo assunte e lavorammo per una settimana. Al sabato, il
proprietario non c'era e la caporeparto ci comunicò che non eravamo
idonee.
- Ritorneremo lunedì a prendere il grembiule e a parlare col padrone.
Lunedì il proprietario non era presente La capa confermò che, non
avendo superato la prova, non ci spettava alcuna paga.
- Va beh, andiamo a prendere i nostri grembiuli.
Quando fummo nel reparto, dove non c'era nessuno, proposi a
Giovanna di sabotare i motori di alcune macchine, infilando robusti
uncinetti di metallo nei fori di lubrificazione. Così il cavaliere si trovò
costretto a sostituire buona parte del suo macchinario.
***
Dopo quell'episodio, andai a lavorare alla riseria Bianchi, nel reparto in
cui si produceva il surrogato di caffè, rimanendovi per dieci mesi. Ero
addetta alla macinazione della liquirizia, uno degli ingredienti del surrogato.
Nel reparto eravamo circa una sessantina di operaie. Ogni tanto, qualche
ragazza mi chiedeva un po' di liquirizia ed io, di nascosto, glie ne lanciavo
qualche pezzetto. Un giorno sbagliai il lancio e la liquirizia finì sulla
scrivania del caporeparto, il signor Emilio, che tra l'altro era cugino del
padrone. Questi si infuriò e volle sapere chi era l'autore del lancio. Le
operaie non mi denunciarono. Ad un certo punto il capo minacciò di dare a
tutte venti soldi di multa se non si rivelava il nome della colpevole.
Preferivano subire la punizione piuttosto che denunciarmi. Una sola alzò la
mano e disse il mio nome. Si chiamava Giovanna (non la mia amica,
un'altra Giovanna). Subito le dissi che era una brutta spia e che l'avrei
aspettata fuori.
Quando uscimmo a mezzogiorno, non ascoltai le raccomandazioni
delle compagne, che mi dicevano di lasciare perdere, non le avrebbero più
parlato, era protetta. L'aspettai davanti alla fabbrica fino alla mezza, quando
uscì con gli impiegati, in bicicletta. La invitai a fermarsi per parlare con me,
ma lei rispose in malo modo. A quel punto l'afferrai per una spalla tirandola
giù dalla bicicletta. Naturalmente cadde ed io la presi a pugni, allo
stomaco. Nella mia foga - certamente eccessiva, pensandoci adesso - colpii
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anche un impiegato, intervenuto per dividerci, rompendogli gli occhiali. Mi
avviai verso casa, agitata ma soddisfatta.
Per qualche giorno Giovanna non venne a lavorare. Fui convocata dalla
polizia, dovevo recarmi in Questura alle cinque per un colloquio.
Mi presentai puntualmente, mi introdussero nell'ufficio del questore (o
capo della "mobile"), dottor Panvini, un uomo grassoccio, dal viso roseo,
con radi capelli grigi. Non aveva un'espressione tanto rassicurante. Vicino a
lui era seduta una signora bellissima, con folti capelli neri e ricci. Il
funzionario cominciò l'interrogatorio, chiedendomi le generalità:
- Dove abiti, che lavoro fai, dove lavori ?
Risposi a tutte le sue domande.
- E vai in giro a picchiare le bambine ?
- Ma io amo i bambini, ho una nipotina, ce ne sono nel mio caseggiato,
ma non ne ho mai picchiati.
La signora intervenne furibonda:
- Hai picchiato la mia bambina !
Il dottor Panvini cercò di calmarla, mentre io continuavo a non capire:
- Ma quale bambina e quando l'avrei picchiata? Come si chiama ?
Infine il funzionario sbottò:
- Si chiama Giovanna.
- Giovanna una bambina? - Ma Giovanna ha la mia stessa età, siamo
coetanee. Se è una bambina lei, allora sono una bambina anch'io.
Il dottore si rivolse alla signora incuriosito
- Sì - rispose lei. - Ma mia figlia è ancora una bambina.
- Se fosse una bambina, perché verrebbe a lavorare? Lavoravamo
insieme alla riseria Bianchi.
Il dottor Panvini calmò la signora, assicurandole che sarei stata punita.
Poi si rivolse a me, dicendomi di non picchiare più nessuno, perché la
"bambina" era a casa da cinque giorni con male allo stomaco ed ero anche
colpevole di avere rotto gli occhiali ad un impiegato.
Spiegai il motivo della colluttazione, avevo agito d'impulso perché la
ragazza aveva fatto la spia. Infine venni rilasciata e ripresi il lavoro.
Mi cambiarono reparto, nel magazzino della riseria c'erano anche delle
pezze di maglia felpata di cotone, che forse usavano per imballare. Una
operaia, con tre figli e il marito in guerra, ne aveva sottratto un pezzo,
evidentemente per farne delle camiciole per i suoi bambini. L'ammanco
venne scoperto e il capo reparto, signor Emilio, essendo io un po'
responsabile, pretese che denunciassi la compagna.
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Sapendo quale punizione avrebbe colpito quella donna tanto bisognosa,
non rivelai nulla, anche quando il capo mi disse che se non avessi fatto il
nome dell'autrice mi avrebbe licenziata. Così avvenne (Renata e Mariuccia
Caccina ricordano questo episodio ancora oggi).
***
Fra le tante mie attività, seguii anche un corso di difesa personale. Non
si devono confondere le condizioni di vita attuali con quelle di cinquant'anni
fa; le sole persone dalle quali ci si doveva difendere erano i fascisti. Mio
fratello Remo parlò con un suo amico pugile, Mario Sarasso, e questi mi
accolse come allieva, facendomi praticare il pugilato per una settimana nella
palestra Mazzini, allora Gil. (Gioventù italiana del littorio). Indossavo una
fascia molto spessa, strettamente legata sui seni, ma questi erano abbondanti
e certi colpi mi facevano piuttosto male. Non fu un lungo allenamento, ma
poteva bastare; anche col mio braccio invalido imparai a difendermi bene.
Le domeniche pomeriggio, in inverno, accompagnavo papà al caffè
Barolo, sul corso principale. Io andavo al cinema e quando ritornavo
passavo a riprenderlo; mi pagava la cioccolata calda e rincasavamo
insieme.
A mio padre piaceva vestirsi bene, era sempre elegante; aveva un
cappotto di panno nero, con il collo di pelliccia marrone, e le ghette grigie
(una volta di moda). Anche quando andava al lavoro, portava la camicia
bianca e sul lavoro indossava la tuta. Era un poco snob.
Non ho mai avuto la gioia di uscire con mamma. Le gambe non la
reggevano e il suo cuore era sempre in pericolo. Ma da lei scaturiva
un'immensa bontà. Anche da anziana, mamma non si vestiva mai in nero
come le donne della sua età, indossava vestiti chiari e portava sempre il
grembiule sui fianchi. Sovente, io e mio fratello ci divertivamo a
slacciarglielo tirando il capo di una fettuccia; si ribellava minacciandoci con
il mestolo.
***
Iniziai la scuola serale da privatista, dalla professoressa Wanda, una
brava insegnante. Eravamo in dieci tra ragazzi e ragazze, molto affiatati.
Avevo deciso di studiare da privatista perché se fossi andata alla scuola
pubblica mio padre avrebbe dovuto ancora scontrarsi con i fascisti. Inoltre,
non volevo essere chiamata "studente" e confusa con gli altri figli di papà
che inneggiavano alla guerra. Papà preferì pagare le lezioni private. Si
trattava di un corso di avviamento professionale industriale che in nove mesi
avrebbe sostituito i tre anni della scuola pubblica preparandomi per ottenere
32
la licenza.
A scuola andavo bene, però commisi un grave errore, imparai a
fumare la mia prima sigaretta e continuai per molti anni.
Avevo una difficoltà nell'aritmetica scritta. Il mio insegnante di
matematica, professor Colombo, non riusciva a spiegarsi perché mi
bloccavo quando dovevo mettere per iscritto quanto avevo elaborato in
orale, peraltro esattamente e correttamente. Perciò nel mese di giugno fui
bocciata in matematica e rimandata per l'esame di riparazione a settembre.
***
Eravamo nel 1943. C'era la guerra e grandi masse di operai e
braccianti venivano obbligati a lavorare per la Todt. Mio padre, per non
essere mobilitato, si fece operare per una punta d'ernia inguinale, così potè
evitare di essere mandato in Germania. Infatti, anche se aveva
cinquantanove anni, era un autista soggetto al reclutamento.
Mio cognato Bruno era stato richiamato e si trovava nella caserma di
artiglieria di Asti. Anche mio fratello Remo era stato richiamato ed
assegnato alla Venaria di Torino, ma si rese irreperibile nel giugno-luglio,
quindi lo ricercavano come disertore. I carabinieri venivano quasi tutti i
giorni a cercarlo in casa nostra, ma la mamma e mia cognata dicevano
sempre che ignoravano dove fosse. Infatti di nascosto aveva già iniziato la
sua lotta antimilitarista e antifascista, con altri compagni comunisti.
Si giunse così all'armistizio dell'otto settembre, e molta gente l'accolse
come la fine di tanti drammi, ritenendo che la guerra fosse finalmente
terminata. La mia famiglia era al corrente di quanto sarebbe potuto
succedere, grazie ai contatti che manteneva con il Partito comunista
clandestino.
33
CAPITOLO TERZO
Lotta clandestina
L'otto settembre 1943, quando si diffuse il proclama di armistizio, la
gente correva per le strade, cantava e gridava:
- Finalmente è finita !
Con mia sorella dalla finestra continuavamo ad avvertire:
- Badate che non è finita. Guardate che il pericolo deve ancora venire,
sarà una cosa tremenda, noi abbiamo i tedeschi in casa.
Ma nessuno ci ascoltava. Era finita la guerra, il sollievo e la gioia
erano così grandi che nessuna previsione pessimistica poteva essere
ascoltata. Non sapevano ancora del pericolo incombente, o non volevano
crederci.
Ormai i tedeschi invasori avevano occupato l'Italia, si erano
impossessati della nostra terra, che i fascisti avevano venduto. Ci fu qualche
comandante molto coscienzioso e intelligente il quale, quando seppe che i
tedeschi stavano per giungere, organizzò una difesa più o meno efficace;
qualcun altro smobilitò i soldati e li invitò a scappare a casa, a non farsi
prendere. Altri, invece, rinchiusero i militari nelle caserme e consegnarono
sia i soldati che le armi ai tedeschi. Questa sorte toccò anche a mio cognato
Bruno.
Quelli che riuscivano a sfuggire ai tedeschi erano accolti dalla
popolazione con sollecita solidarietà e vestiti con abiti borghesi per evitare
che venissero identificati e catturati.
I tedeschi avevano occupato le caserme e fatti prigionieri i soldati
italiani che rifiutavano di arruolarsi con le truppe germaniche. Caricavano
sui carri bestiame i nostri ragazzi e li portavano nei campi di prigionia in
Germania. I soldati erano stipati nei vagoni merci, dove di solito si trasporta
bestiame. Al posto di venti cavalli erano ammucchiati settanta-ottanta
militari, senza bere, senza mangiare, senza aria, perché i due finestrini non
erano sufficienti ad ossigenare l'interno per tante persone.
34
Quando le tradotte entravano nella nostra stazione cercavo di essere
sempre presente, insieme a molti altri cittadini che andavano a vedere se
c'era qualche loro famigliare, parente o amico, oppure se qualcuno poteva
dare qualche notizia. Se non conoscevano nessuno, potevano sempre dare
una mano agli altri, porgere un po' d'acqua o un po' di frutta, magari
raccogliere qualche biglietto di quei poveri sventurati, anche soltanto un
indirizzo, un nome, per mandare qualche notizia ai loro famigliari, sfidando
le frequenti raffiche di mitra delle guardie nazi. Una volta raccolsi un
biglietto trovato per terra, calpestato, certamente lanciato dal finestrino da
uno dei militari deportati con la speranza che qualcuno lo vedesse. C'era un
nome, Luisa Vanini, e un indirizzo di Como (che ho dimenticato), e queste
brevi parole: "Mi portano in Germania. Aspettami. Ildebrando."
Spedii il piccolo messaggio all'interessata, accompagnandolo con un
mio breve scritto. Lei mi rispose, ringraziandomi; ci tenemmo in
corrispondenza per un paio d'anni. Finita la guerra mi recai a trovarla a
Como. Ci conoscemmo e ci abbracciammo. Era più anziana di me,
piccolina, un viso dolce, triste e sofferente. Ildebrando le aveva scritto un
paio di volte, poi fu silenzio, non fece più ritorno.
***
Un mattino piovoso e freddo, in stazione c'era una tradotta
proveniente da Torino, carica di prigionieri, ferma per qualche motivo. I
prigionieri erano assiepati davanti ai finestrini e ai portelloni. I tedeschi
erano scesi dalle loro vetture, ben lontani dai carri, e si sgranchivano le
gambe. Mi trovavo con un gruppo di cittadini proprio davanti al cancello
che dà sui giardini della stazione, di fronte ai vagoni dai quali si sporgevano
centinaia di mani che chiedevano aiuto.
Ci guardammo intorno: un tedesco era lontano un centinaio di metri.
Ben presto riuscimmo ad aprire il pesante portellone, con una rapida azione
che prese alla sprovvista gli aguzzini. Parecchi prigionieri riuscirono a
saltare giù, prima che cominciassero ad echeggiare le raffiche di mitra.
Fuggimmo tutti, disperdendoci nei dintorni e portandoci dietro i militari
liberati. Alla stazione andavo sempre con la bicicletta da uomo di mio
padre, perché occasioni come quella, di trasportare qualche fuggitivo, si
presentavano non poche volte, perciò la bici era provvidenziale.
Caricai uno dei militari sulla canna di questa e filai velocemente in
mezzo agli alberi dei giardini, verso il passaggio a livello che imboccava la
strada del mio rione, dove saremmo stati al sicuro. Nel bosco del Vola, sulla
riva della Sesia, un gruppo di antifascisti ci attendeva per organizzare i
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fuggitivi nei primi nuclei di partigiani, diretti in montagna, a combattere
contro i nazifascisti.
***
Con l'armistizio i tedeschi erano subentrati ai soldati italiani nella
custodia dei prigionieri alleati angloamericani. In particolare, alla cascina
Coltellino, presso l'Isola, era stato istituito un campo di lavoro agricolo per
i prigionieri australiani e inglesi. Gli avevano applicato un triangolo rosso
sulla camicia per distinguerli dagli altri militari. Uno dei compiti di noi
antifascisti nelle città e nei paesi era quello di far fuggire questi militari
stranieri. Non era facile, perché nei campi di lavoro ai quali erano assegnati
erano rigorosamente sorvegliati dai nazifascisti, ma azioni del genere
riuscirono spesso.
Qualche volta, gli "evasi" venivano rifugiati provvisoriamente
nell'Ospedale Maggiore di Vercelli, dove le infermiere avevano dato vita ad
un eccellente lavoro clandestino, che si concludeva, quando il ricovero non
era più sicuro, con il trasferimento degli ex prigionieri nel bosco del Vola.
A me era stato assegnato il compito di operare questi trasferimenti.
Dovevo andare in una certa stanza, conoscerli, farli uscire come se fossero
stati cittadini vercellesi qualsiasi, vestiti con abiti borghesi procurati dalla
organizzazione clandestina. Dall'ospedale, dovevo portarli al Vola.
Un giorno, come facevo da un paio di settimane, entrai
nell'accettazione dell'ospedale, accolta dalla Maria Fracassi Pastore,
infermiera addetta alle entrate e uscite clandestine, e indossai il camice e la
cuffietta da infermiera che mi forniva la sua collega Primina. Andai da
Giorgio Caldwel, l'australiano ventenne che visitavo quotidianamente,
perché malato grave, di reuma al cuore. Stavamo aspettando che migliorasse
un po' per portarlo via, ma si aggravava ogni giorno di più; non era
nemmeno sorvegliato, perché i tedeschi sapevano come noi che era
pericoloso muoverlo. Come ogni giorno, mi scongiurò di non lasciarlo
prendere dai tedeschi, assicurando che non sarebbe stato di peso, che
sarebbe guarito. Purtroppo era assolutamente impossibile trasportarlo e
dovemmo rinunciare a farlo evadere. Lo calmai con qualche pietosa bugia.
Morì pochi giorni dopo.
Incontrai due altre nostre infermiere, Irene Cafasso e Zaira, le quali,
preoccupate, mi dissero che era urgente portare via altri due australiani,
Alan, che nel suo paese era allevatore di bestiame, e Mac. Infatti, il giorno
dopo i tedeschi avrebbero operato una perquisizione e nessuno era in grado
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di dire che fine avrebbero fatto se li avessero trovati. In una minuscola
stanzetta incontrai i due, e mi venne un accidenti. I vestiti che indossavano
erano assolutamente inadatti per Alan, che era alto circa due metri:
pantaloni e camicia gli andavano ridicolmente corti e stretti, si vedeva
lontano un miglio che era uno straniero, e io lo dovevo condurre per le vie
della città ! Ero perplessa, incerta, ma la paura che all'indomani li potessero
requisire mi fece ben presto decidere.
Era essenziale assicurarsi che mi seguissero sempre, che non
parlassero mai e non compissero alcun gesto che potesse tradire la loro
identità. Uscimmo dall'ospedale e percorremmo un pezzo di strada senza
fare brutti incontri. Arrivati ai giardini di piazza del duomo, vidi avanzare
dalla mia sinistra tre tedeschi. I due australiani si bloccarono di colpo;
reagii immediatamente; fingendo di scherzare, presi i due sottobraccio e
ripresi a camminare come se niente fosse. I tedeschi erano di fianco e non
potevano notare lo strano abbigliamento di uno di noi, nè il nostro pallore.
Oltre il passaggio a livello dell'Isola, il mio rione, eravamo salvi.
Accompagnai i due nel bosco del Vola, dove iniziò la loro partecipazione
alla lotta partigiana con i vercellesi.
Tornata in ospedale, mi attendeva Teresa Roncarolo (Gina) con un altro
compito da assolvere. Le brave infermiere sapevano organizzare tutto.
Dovevo recarmi nella stanzetta dove si trovava un militare italiano, che
qualche giorno prima era fuggito da una tradotta mentre transitava sul ponte
della Sesia. Passando attraverso un finestrino rotto, era saltato sul ponte e da
lì si era buttato nel fiume; purtroppo, i tedeschi lo avevano visto e gli
avevano sparato, ferendolo alle gambe. Era stato portato all'ospedale e
operato a entrambe le ginocchia; ovviamente, non era in grado di
camminare.
Lo sorvegliava un militare austriaco che alla mezza andava a mangiare
in un'altra stanza coi suoi commilitoni. La guardia aveva quarantacinque
anni e si era confidata con la Gina, ricordando suo figlio militare che
assomigliava al ragazzo da lui piantonato. Non volli né dovevo sapere altro,
poiché era compito della brava infermiera organizzare il resto.
Aiutata da Gina, mi caricai il ferito in spalla e mi calai dalla finestra, al
piano rialzato del vecchio ospedale (erano quasi tre metri di dislivello). Col
mio fardello attraversai in fretta il cortile, entrai nei sotterranei della
camera mortuaria, dove mi attendeva un carretto con della biancheria sulla
quale adagiai il ferito. Il giovane venne portato a casa di qualcuno che lo
curò, con l'aiuto prezioso dei medici nostri collaboratori. Del piantone
austriaco non si seppe più nulla, non fu più visto in ospedale.
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Non seppi più nulla nemmeno del ragazzo che avevo portato in salvo,
finché, pochi anni or sono, ne riparlammo con Gina, l'infermiera, durante
l'incontro delle donne della Resistenza in occasione del cinquantenario della
Liberazione. La trasmissione della rubrica "I fatti vostri", grazie alla quale
un signore aveva potuto realizzare il desiderio di ritrovare due suoi
compagni di prigionia, mi spinse a tentare di rintracciare quel giovane,
conoscere la conclusione della sua storia e magari rivederlo. Scrissi a Frizzi
e, con mia somma sorpresa e soddisfazione, ricevetti la risposta, sotto forma
di un invito esplicito a partecipare alla trasmissione in diretta del 23 aprile
1993, negli studi della Rai-Tv a Roma.
Quando mi sedetti al tavolino e Frizzi cominciò ad interpellarmi, il
timore e l'imbarazzo che mi assillavano sparirono, mi concentrai nei ricordi
e risposi scioltamente alle domande. Fui applaudita, forse per la singolarità
dell'episodio. L'esito della trasmissione non fu quello sperato, forse quel
ragazzo non aveva visto il programma, o forse era scomparso, altrimenti
avrebbe raccolto il mio appello e si sarebbe fatto sentire. Ma mi sentii
onorata e commossa quando due giornali di Vercelli citarono la trasmissione
e mi intervistarono, rievocando ed esaltando l'episodio di una donna della
Resistenza vercellese.
***
Mio fratello Remo, già disertore, dopo l'otto settembre si impegnò nella
resistenza attiva contro i nazifascisti. Con lui altri compagni, Pietro Camana,
Bruno Bellotti, Nino Baltaro, Enrico e Giulio Casolaro. Furono i primi a
formare i nuclei di partigiani, con renitenti alla leva, fuggiaschi delle
caserme ed ex prigionieri alleati, che diedero poi vita al Battaglione
Vercelli.
La mia attività di antifascista a contatto coi comunisti, cominciata con
la circolazione dei libri clandestini e con l'organizzazione dei militari
fuggiaschi, continuava con altre iniziative.
Un giorno tenevo sulla bicicletta da uomo una cassa di fucili che mi
aveva consegnato il Giovannacci e stavo attraversando la piazza del duomo
per andare verso il Covo, un boschetto dove c'era un ballo estivo, e portarmi
sull'argine verso il bosco del Vola, quando vidi avanzare da piazza
d'Angennes un gruppo di quattro o cinque fascisti in divisa. Dai loro cenni
capii che probabilmemte intendevano rincorrermi per vedere che cosa
portavo, perché sospettavano la nostra attività, specialmente quella di mio
fratello. Allora mi misi a pedalare quanto potevo per distanziarli. Mi guardai
bene attorno e, visto che avevo "seminato" gli inseguitori, proseguii fino a
destinazione.
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Una delle prime formazioni partigiane.
Qui erano raccolti i militari scappati, e tra essi c'erano due dei
prigionieri australiani che avevamo fatto fuggire dalla cascina Coltellino.
Uno di loro faceva il cuoco e da borghese faceva anche il pugile; era alto
due metri e grosso in proporzione. Quando arrivai, lasciata giù la mia cassa
di fucili, mi trattennero per il pranzo (avevo anche una gran fame).
I viveri per questi militari che scappavano erano offerti da quasi tutta
la popolazione del rione Isola. Il ragionier Ferraris dava la marmellata, la
frutta, il miele; altri portavano galline, oche. Da mangiare non ne mancava,
perché tutti offrivano qualcosa, in una generosa gara di solidarietà, anche se
possedevano pochissimo. Attorno a una tavolata costruita con assi, con
alcuni piatti, un pentolone pieno di minestra e un altro grosso recipiente con
l'insalata, c'erano ventiquattro o venticinque uomini, diretti da Pietro
Camana, il futuro comandante Primula del Battaglione Vercelli.
Primula mi disse:
- Ora ti fermi a mangiare con noi.
Io felicissima, risposi: - Sì, bene, bene.
- Però mangi tutto quello che ti danno, sai ?
- Si, come no ? - Tutti sorrisero e io non riuscivo a capire.
Il prigioniero alleato mi porse un piatto, ci versò un mestolo di minestra
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e aggiunse l'insalata, nella quale aveva vuotato due vasetti di miele. Mi si
rivoltò lo stomaco solo a vedere. Tutto orgoglioso, l'australiano mi disse:
- Mangia.
Cercai di evitare quella tragedia dicendo che dovevo andare via. Mi
mise una mano sulla spalla rimettendomi a sedere e insistendo:
- No via, tu giovane, fame, prima devi mangiare.
Gli altri ridendo mi dissero:
- Sono tre giorni che noi mangiamo così. Adesso mangia tu, almeno
una volta.
Vuotai il piatto per metà poi lasciai tutto, pensando: "Adesso basta, si
arrabbi fin che vuole, io me ne vado."
***
Verso la fine di settembre arrivò una segnalazione da parte di un nostro
collaboratore che faceva parte della milizia. Mi disse di allontanarmi da casa
perché probabilmente sarebbero venuti a prendermi, sospettando la mia
attività antifascista, anche per avere informazioni su mio fratello Remo, che
risultava disertore.
Partii in treno e mi recai presso la famiglia di mia cognata Giulia a
Quiesa, nella provincia di Lucca. Ma non sospesi la mia attività. Prendevo il
treno al mattino e andavo a Lucca, vicino al distretto militare. Là si
aggiravano tanti giovani che non sapevano che fare, cercando di capire dove
andare anziché arruolarsi nelle forze armate repubblichine. In genere erano
meridionali e non potevano più ritornare a casa. Consigliavo loro come
potevano fare. A due ragazzi consegnai il mio anello, che aveva incise le
mie iniziali, e fornii l'indirizzo di casa mia; se andavano in Piemonte, dalle
mie parti, potevano consegnarlo ai miei famigliari, che li avrebbero aiutati.
Persi l'anello; quei ragazzi non sono mai arrivati a casa mia e non so che
fine abbiano fatto.
La sera ritornavo a Quiesa. Il mangiare era sempre scarso. Subii una
indigestione di castagnaccio e melone; ogni pomeriggio spendevo due lire
per un chilo e mezzo di castagnaccio e quattro meloni. Avevo una fame del
diavolo.
Dopo circa una settimana tornai a Vercelli per dare gli esami di
avviamento industriale, che erano stati rimandati di qualche giorno per
intervento del professor Colombo, il quale conosceva la mia attività e aveva
ottenuto il rinvio "per motivi di salute". Passai gli esami a Trino e fui
promossa, ottenendo il diploma.
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La mia lotta clandestina continuò nei gruppi che avevamo a Vercelli,
organizzati nel Fronte della Gioventù. Ne facevano parte studenti, operai,
artigiani; tra gli altri, c'erano Ugo Donati, Sergio Mauri, Alcide Brusa,
Giovanni Acquadro, Giovanna Michelone, Maria Scarparo, Rosanna
Mignone, Olga de Bianchi, Rosina Corradino e Francesca Ferraris.
Nell'inverno del 43- 44 uscivamo di sera e quando ci andava bene
ritornavamo con qualche pistola sotto il cappotto, ottenuta con diversi
espedienti. Nascondevamo le armi per mandarle poi in montagna, quando
venivano giù le staffette o pattuglie partigiane per prendere viveri, armi e
indumenti.
Una sera - faceva molto freddo - rientrai a casa dopo le dieci, ora del
coprifuoco. Mio padre mi sgridò aspramente. Cercai di giustificarmi:
- Ho fatto tardi, lo so. Scusa papà, non lo farò più.
In quella aprii il cappotto e mi caddero due pistole. Mio padre le
guardò e mi domandò da dove venivano, che cosa avevo fatto. Gli risposi:
- Papà, queste sono cose che non ti riguardano, non devi sapere niente,
altrimenti diventa pericoloso per te e per la mamma.
Mi diede della sciocca, facendomi presente che doveva sapere tutto,
per aiutarmi. Se io ero antifascista, dovevo a lui anche questo. Ci
spiegammo nei termini più esaurienti e da allora collaborammo, lui fu
sempre al corrente della mia attività.
Mia madre, col suo intuito materno, talvolta ci diceva:
- Non cercate di tacermi tante cose, mi fate più male che dirmele
apertamente, perché mi inducete a fare tante congetture, magari peggiori
della realtà, e starei ancora più male. Le lotte che ho fatto io prima di voi
non erano poi tanto diverse.
Aveva ragione. Intanto si aiutava pregando davanti all'effige della sua
"Madonnina di Lourdes", nella quale credeva sinceramente.
Sopra il letto, i miei genitori tenevano anche uno di quei ritratti di Gesù
di Nazareth con la tunica rossa. Ma i fascisti, durante una ennesima visita
alla ricerca di mio fratello, ce lo fecero togliere, perché, dicevano, era un...
socialista.
***
Un altro motivo di apprensione per la nostra famiglia era costituito
dalla situazione di Bruno, il marito di Egle. Con l'otto settembre era stato
internato in Germania, a Schwering, una città sul mar Baltico. Per sua
fortuna gli facevano fare il muratore, che era il suo mestiere. Gli
41
mandavamo ogni mese i pacchi consentiti, con maglie, calze di lana e
tabacco, che poteva scambiare presso i suoi compagni con qualcosa da
mangiare. Nel pacco inserivamo anche molte gallette, confezionate da noi,
con farina comprata alla borsa nera, e cotte nel forno del nostro panettiere
Clemente, il quale, col regime fascista, per simili collaborazioni rischiava
parecchio.
Cartolina spedita da mio cognato Bruno Gentile, dal Lager numero E 823, in Germania.
42
Un giorno, con due compagni, compimmo una delle nostre più
importanti azioni di sabotaggio. Si doveva cercare con qualsiasi mezzo di
ritardare il transito di un treno di tedeschi che doveva arrivare sulla linea
Casale-Vercelli, perché il convoglio avrebbe ostacolato una azione che i
partigiani dovevano condurre. Dovevamo ostacolare il treno per almeno tre
o quattro ore. Siccome le rotaie della ferrovia erano fissate alle traversine e
tra loro con morsetti e grossi bulloni, noi ci eravamo muniti di grosse chiavi
adatte alla bisogna, fatte nell'officina di Acquadro, un nostro compagno.
Tra Vercelli e Asigliano, togliemmo i bulloni a due rotaie, una da una parte
e una dall'altra, lasciandole al loro posto affinché le vedette dal treno non
notassero il sabotaggio. La locomotiva, il tender e le due prime carrozze
andarono fuori binario e il treno tedesco rimase fermo per diverse ore.
Con il ciclostile nascosto nella casa di Ugo Donati, facevamo volantini
che, alla sera, andavamo ad affiggere agli alberi e ai muri. Ad esempio, un
ragazzo e una ragazza fingevano di fare l'amore appoggiandosi al muro o ad
un albero, e l'altro, col pentolino della colla o con le puntine da disegno,
affiggeva i manifestini dei partigiani, che richiamavano l'attenzione della
popolazione e incitavano alla lotta contro i fascisti e i tedeschi. Nei
cinematografi, al Verdi, al Civico e al Viotti, lanciavamo di nascosto piccoli
volantini e restavamo a sedere come se niente fosse.
Cercavamo collegamenti con altre persone disposte ad aiutare i
partigiani e le formazioni dei GAP (Gruppi di azione patriottica) e delle
SAP (Squadre d'azione partigiane). Mi incontravo spesso con le ragazze del
mio gruppo, sulle panchine di piazza del Tribunale, e portavo volantini con
direttive e parole d'ordine da far circolare in fabbrica.
Si facevano diverse riunioni clandestine, alle quali partecipavano
Guido Sola Titetto (poi sindaco di Vercelli), Angelo Cavalli, Maria
Scarparo, Giovanna Michelone e Olga De Bianchi. Alcune di queste
riunioni si tenevano nel cimitero di Vercelli, accanto ad una cappella a
quattro colonne con una bellissima e alta scalinata, sopra la quale si
appostava una vedetta, pronta a dare l'allarme se si fosse avvicinato
qualcuno. Era un posto sicuro, molto appropriato per incontrarci, per
discutere, per avere informazioni e direttive sulle lotte e le iniziative da
sviluppare, per avere notizie dei compagni, dei partigiani e degli amici che
combattevano in montagna.
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CAPITOLO QUARTO
Resistenza sulla Serra
Una domenica, il 28 maggio 1944, suonò l'allarme e la gente scappò
verso la campagna. Si udiva un lontano rombo di aerei che si avvicinava,
capivamo che erano bombardieri carichi e molto numerosi, non si trattava
del solito Pippo. Pippo era un aereo solitario che quasi tutte le sere veniva a
mitragliare o bombardare dove vedeva qualche luce. Gli aerei che
sentivamo avvicinarsi facevano un rumore assordante e ben presto furono
sopra di noi. Vicino a casa nostra c'erano molti bersagli da bombardare: la
centrale elettrica dell'Ovesticino, la stazione ferroviaria, i due ponti sulla
Sesia, la Chatillon e le altre grosse fabbriche.
Cominciarono a cadere le bombe, a tappeto, ma mancarono gli obiettivi
più importanti. Colpirono il campo dove eravamo noi, presso la villa
Guarneri, e, di sbieco, il nord di Vercelli, distruggendo la casa di Rosanna
Mignone, i magazzini generali dietro la Pettinatura Lane e altri edifici di
abitazioni civili, uccidendo molte persone, senza toccare o scalfire le grandi
fabbriche.
Dopo quel massacrante e indiscriminato bombardamento, la mia
famiglia e poche altre furono messe al corrente delle misure precauzionali
da prendere. Tramite la nostra organizzazione clandestina e il collegamento
con i comandi di zona partigiani, ci comunicarono che se suonava l'allarme
durante il giorno, non ci sarebbe stato alcun pericolo, ma se le sirene
suonavano dopo le ore diciotto si doveva scappare subito nei rifugi o in
campagna, perché sarebbe avvenuta l'incursione.
***
Nel settembre 1944, durante l'attività clandestina, Mario, il nostro
collaboratore nella Guardia nazionale repubblicana, ci avvisò, tramite sua
moglie, che ero stata segnalata come attivista collaboratrice dei partigiani e
che sarebbero venuti ad arrestarci, io e mio padre, verso le quattro. Papà
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era andato a trovare i nostri famigliari, sfollati nella cascina Casone. In casa
tenevo dei volantini, già pronti per la distribuzione della sera, nascosti
dietro la lamiera del mio letto; li affidai a mia cugina Tin, che abitava
accanto me, raccomandandole di consegnarli alla Rosanna e dirle che
dovevo andarmene, che continuassero loro il lavoro clandestino. Rosanna
avrebbe riferito agli altri compagni, anche per la redistribuzione dei compiti.
Non sapendo quando saremmo ritornati, presi da casa quello che
ritenevo utile e necessario; le cose più preziose le consegnai alla Tin e ai
coniugi Gentile, suoceri di mia sorella.
I fascisti arrivarono con un quarto d'ora di anticipo e per poco non mi
sorpresero. Uscii di casa scavalcando la ringhiera del ballatoio e calandomi
sul tetto del gabinetto al pianterreno. Inforcai la bicicletta che tenevo in
cortile e scappai attraverso l'orto del Carlin Rosso (l'ortolano che ci dava il
ribes quando ero piccola), raggiungendo le donne alla cascina. Da lì, papà
ed io salutammo la mamma, preoccupata per la nostra sorte, prelevammo
qualcosa per cambiarci, un vestito per me, un paio di pantaloni e una giacca
per papà e partimmo in bicicletta.
Percorremmo la strada dal Canadà per Biella. A Busonengo lasciammo
la provinciale, seguendo una strada di campagna fino a Casanova Elvo e
procedendo per Carisio, fino al bivio che portava a San Damiano. Lì c'era
mio fratello, che ricopriva l'incarico di intendente della V divisione
Garibaldi; insieme con Giovanni Cavagliano e Rita Rosso operavano in
quella zona per procurare viveri ai partigiani garibaldini.
Quando giungemmo a San Damiano era già notte. Fummo ospitati nella
cascina della marchesa di Masino e dormimmo sui sacchi del riso. Si
sentivano piccoli rumori e squittii; qualcosa di morbido mi passò sul viso e,
palpando con la mano, sentii che era un topo molto grosso. Non avevo paura
dei topi ma lo dissi ugualmente a papà, il quale replicò:
- Guarda che i topi non ci fanno tanto male, tutt'al più mordono; i
fascisti invece ci ammazzano. E' meglio un topo. Dormi, ché domani
dobbiamo pedalare un bel po'.
Il giorno dopo riprendemmo la strada, accompagnati da mio fratello
Remo, noi in bicicletta e lui con la "doma" (piccolo calesse basso, aperto,
trainato da un cavallo). Ci guidò fino al castello di Masino, proprietà dei
marchesi di Masino e conti di Valperga, persone gentili e affabili. Ci
ospitarono nel cosiddetto palazzo, a fianco del castello, consistente in
diverse camere riservate al personale addetto ai servizi e ai cavalli (ne
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possedevano molti, anche di razza, e un ricco parco di carrozze). Ci
abitavano anche Domenico e Domenica, marito e moglie; lui autista e lei
guardarobiera del castello.
Nel castello erano rifugiate circa una trentina di persone, in genere
giovani renitenti alla leva militare ed ebrei, tutti nobili o ricchi. I marchesi
avevano un figlio quattordicenne, Luigino, e la governante, Carla Novellis.
Per la gente del luogo noi eravamo sfollati da Torino, città soggetta ai
bombardamenti.
Masino era un piccolissimo comune del Canavese con circa centotrenta
abitanti, senza gioventù, soltanto anziani. Il castello era situato su una altura
tra Vestignè e Caravino, da cui si snodavano strade verso Borgomasino,
Moncrivello, Cigliano e Ivrea; era il punto di partenza per tante
destinazioni, quindi logisticamente e strategicamente molto importante per
le formazioni partigiane. Noi "ospiti" lo utilizzavamo come punto di
riferimento delle pattuglie che scendevano in pianura per missioni di ogni
tipo, attacchi a posti di blocco e caserme, azioni di sabotaggio alle linee di
comunicazione. Noi assicuravamo ai partigiani rifornimenti e alloggio.
Dopo il nostro arrivo al castello, mio fratello ci portò anche mamma,
Egle e la nipotina Nerina. Disse che i fascisti avevano incarcerato Giulia,
sua moglie, tenendola in ostaggio per costringerla a rivelare dove si trovava
il marito e con quali formazioni partigiane operava. Quando la prelevarono
dall'abitazione si trovava con la bambina, Mirella di 7 anni; l'avrebbero
lasciata sola in casa se non fosse stata accolta da una zia.
In carcere con Giulia c'era la madre dei due fratelli partigiani Attilio e
Giovanni Tempia (nomi di battaglia Bandiera I e II), poi trucidati dai
nazifascisti.
Giulia venne poi rilasciata in seguito ad una specie di scambio di
prigionieri tra le parti avverse e venne ospitata con la figlia a San Damiano,
nel Cascinotto della Grangia.
***
Pochi giorni dopo sentimmo in lontananza una furiosa sparatoria,
proveniente da sud, oltre Borgomasino. Non sapevamo che cosa succedeva,
rimanemmo all'erta. Verso sera arrivarono da noi una quarantina di uomini,
tra i quali riconobbi subito il loro comandante Primula con il figlio
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quattordicenne, Tino, che aveva una guancia tutta gonfia causata da un dente
cariato; poi Fulmine, Carnera, Saetta ed altri partigiani di Vercelli.
La formazione proveniva da Maglione, che aveva costituito la sua base
per una lunga serie di azioni nella zona, comprendente diversi centri come
Cigliano, Carisio, Santhià, nonché l'autostrada. I garibaldini avevano
attaccato e disarmato presidi fascisti e tedeschi, teso imboscate agli
automezzi nemici, prelevato armi, esplosivi e anche catturato qualche
tedesco per farne scambio con prigionieri partigiani.
I comandi tedeschi non avevano nessuna stima nè considerazione per i
loro alleati fascisti, tanto è vero che se trattavano con noi per lo scambio di
prigionieri accettavano soltanto tedeschi in cambio di partigiani, i fascisti
per loro non avevano alcun valore.
Poi Maglione era stata accerchiata dalle forze germaniche, dotate dei
micidiali mortai da 81 millimetri. Il distaccamento partigiano aveva
contrattaccato con una furiosa sparatoria, riuscendo a sfondare
l'accerchiamento ed a portarsi in salvo verso la collina, raggiungendo
Masino Castello e noi, felici di poter prestare loro i primi soccorsi.
Col distaccamento c'era pure una giovane donna, un'ostetrica chiamata
Ferida, che non si sentiva tanto bene e non era in grado di proseguire a piedi
con il reparto, fino a Sala. Primula me l'affidò, raccomandandomi di non
perderla di vista, poiché era incerto sulla sua affidabilità; quando si fosse
ristabilita, avrei dovuto accompagnarla al comando di Sala. Partimmo
qualche giorno dopo, dandoci il cambio a pedalare sull'unica bicicletta che
avevamo, per tutti i trenta chilometri circa del percorso. Tutto si risolse per
il meglio (Ferida diventò in seguito la compagna di un capo pattuglia
garibaldino).
***
Arrivata a Sala, non ero solamente stanca, ma anche affamata. Mi recai
nell'orto della cascinetta di Speranza, nel centro del paese, dove vidi dei
pomodorini, molto piccoli, a grappoli, sembravano grappoli d'uva. Li
mangiai tutti (e pensare che a casa non mi piacevano, ma in questa
situazione contingente tutto mi andava bene). Speranza, recandosi nell'orto e
non vedendo più nemmeno un pomodoro, si rivolse a Primula. Nel
frattempo, quei pomodori avevano fatto effetto sul mio stomaco, vuoto da
tanto tempo, con una dissenteria che non smetteva più. Perciò non avevo
potuto udire che il comandante aveva messo tutto il reparto in punizione,
tenendolo senza rancio fino alla scoperta di colui che aveva fatto man bassa
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nell'orto.
Quando rientrai nel cortile per cercare Pina e dirle che stavo male, vidi
che tutti stavano attorno al calderone del rancio e nessuno mangiava. Ne
chiesi il motivo e mi spiegarono quanto era successo, lasciandomi
costernata: non credevo di aver commesso uno sbaglio così grande. Subito
confessai che ero stata io a mangiare i pomodori e che ero sofferente.
Speranza mi rimproverò: se le avessi chiesto un pezzo di pane, come le altre
volte, non sarebbe successo niente. Fiamma, tornando da una visita e saputo
della mia indisposizione, mi somministrò un farmaco adatto per il mio caso;
Primula e Pina furono molto comprensivi, ma dovetti sorbirmi le
canzonature dei ragazzi per la mia "indisposizione". Tuttavia, da allora
mangio volentieri i tumatic, come si dice da quelle parti.
Quella era proprio una giornata no, e anche la notte. Dormivo in una
stanzetta sopra la stalla, con Pina e Renata, quando queste si misero ad
urlare a squarciagola, i visi terrorizzati volti in alto a guardare verso la
parete. Scorsi sopra il filo della luce, fermo, sembrava seduto, un topolino
grosso come il pollice, la causa degli urli terrificanti delle mie compagne.
Mi fecero alzare e staccare il letto dalla parete, per paura che il topo ci
cadesse addosso. Mentre spostavo quel pesante trabiccolo di legno, sulla
scala, che dalla stalla sottostante portava alla nostra stanza attraverso una
botola, comparve Primula, seguito da qualche altro partigiano, con il mitra
spianato. Le urla di Pina e Renata avevano allarmato tutti e d'un balzo erano
corsi a vedere di che cosa si trattava. Quando tutto fu chiarito, Primula si
irritò seriamente minacciando moglie e figlia perché avevano svegliato gli
uomini già stanchi del pesante servizio.
***
Tutti i partigiani avevano un nome di battaglia, ovviamente per evitare
di essere identificati dal nemico, che avrebbe potuto perseguitare i familiari
rimasti a casa. Io assunsi il nome di "Bruna".
Le nostre forze garibaldine presidiavano le basi della zona tra
Mongrando, Sala e Zubiena. Il battaglione Vercelli, trasformato poi in 182.a
brigata, era composto quasi tutto da vercellesi; c'erano anche altre
formazioni, i distaccamenti della 75.a e della 76.a, di cui era commissario
politico il giovane Saverio Tutino (Nerio), a quei tempi grande ammiratore
di Primula, ora noto giornalista e scrittore.
Primula era il comandante del battaglione Vercelli, che faceva parte
della V divisione, comandante Piero Germano (Gandhi) e commissario
48
Io, in divisa
Da partigiana garibaldina.
(Fotocronisti Baita)
politico Nino Baltaro (Nino). Il comando di zona era composto da
Quinto Antonietti (Quinto), Silvio Ortona (Lungo), Amore Bruno Salza
(Mastrilli), Anello Poma (Italo), Elvo Tempia (Gim), Walter Carasso (Tito),
Ugo Anselmo (Bruno). Inoltre c'erano i medici Francesco Ansaldi (Ceck),
Anna Marengo (Fiamma), entrambi dell'ospedale di Vercelli, il dottor
Spirito, forse di Biella, e Carlo Savino (Nestore).
Nel vicino territorio canavesano operavano altre formazioni partigiane
al co
mando di "Diavolo Rosso", molto aggressivo.
Avevamo alle spalle le Alpi, un posto strategicamente molto valido,
perché quando c'erano incursioni e rastrellamenti nazifascisti le montagne
ci facevano da scudo contro gli assalitori e facilitavano la difesa. La Serra
era piena di boschi, i tedeschi e fascisti non vi si inoltravano tanto volentieri,
perché erano posti da lupi, dove era facile tendere imboscate.
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Il mio compito consisteva nel mantenere contatti con le donne della
zona, prestare attività di infermiera, formare i "gruppi di difesa della
donna", avvicinare collaboratrici, attiviste, sarte, magliaie e portaordini.
Spesso scendevo a Bornasco, nel nostro magazzino, a prelevare
scarponi, maglioni e altri indumenti per chi ne aveva bisogno. Dovevo
sempre discutere con Tarzan, il magazziniere, che era scrupoloso, tirchio
come pochi. Anche di fronte alle richieste firmate dai comandanti, aveva
sempre qualcosa da ridire. Quando arrivai a Sala, Primula mi guardò le
calzature e si scandalizzò. Avevo scarpe di tela grigia (comunissime in
tempo di guerra), con la suola di cartone pressato così consumata che
perdeva i pezzi. Mi scrisse la richiesta e andai da Tarzan. Questi si arrabbiò
perché avevo il piede piccolo e lui disponeva solo di scarpe grandi.
Remo mi consegnò una piccola pistola, calibro 6,35. Le parole che mi
disse in quell'occasione - ribadite anche dal comandante Primula - le
ricorderò sempre:
- Speriamo che tu non la debba mai usare. Se dovesse succedere
qualcosa di grave, l'ultima pallottola tienila per te. Non lasciarti prendere
viva.
Per fortuna non ebbi modo di usare quella pistola.
Un giorno chiesi a Primula se potevo formare un gruppo di azione
femminile. Primula non respinse l'idea, ma disse che dovevamo procurarci
le armi, perché quelle che avevano i partigiani se le erano guadagnate con
tanti sacrifici. Inoltre, se durante le azioni qualcuna del nostro gruppo fosse
rimasta uccisa avrei dovuto assumerne la responsabilità e subirne le
conseguenze. Rinunciai, perché sarebbe stato impossibile garantire il
rispetto di siffatte condizioni, anche se avevo l'entusiastico consenso di
Alba, Marta, Carla, Stella, Gioia, Mammola, Amata, decise anche loro a
formare un gruppo di donne combattenti. Era un compito troppo arduo e non
ci sentimmo di esaudire quel desiderio che ci entusiasmava.
Eravamo riunite nel salone della scuola di Sala, quando Gandhi venne a
dirci che era arrivata la figlia di Mauro Scoccimarro; aspettavamo di
conoscerla, sperando che ci portasse nuove esperienze, che stesse con noi e
ci aiutasse magari a formare quel benedetto gruppo armato che tanto
desideravamo. Sapevamo del padre, comunista, grande combattente
antifascista, e speravamo che la figlia fosse della sua stoffa. Quando ce la
presentarono restammo un po' deluse: non era ome noi, della montagna,
50
era tutta... stile, una vera cittadina. Non ci furono scambi di esperienze
(forse era venuta per portare qualche messaggio al comando), con noi si
pose su di un piano così staccato che sembrava quasi volesse darci la
caramella (non fu solo la mia impressione, ma di tutto il gruppo). Ci
guardammo in viso tutte quante e le domandammo se si sarebbe fermata per
molto. Alla sua risposta negativa tirammo un sospiro di sollievo. Partì
presto e fu meglio così.
***
Un giorno arrivò trafelata la staffetta Lia, della 75.a brigata, dicendo che
c'era stato un attacco e i feriti dovevano essere trasportati subito nel nostro
piccolo ospedale, che si trovava nella villa Rivetti, tra Zubiena e Sala, in
territorio presidiato dalle nostre formazioni. L'ospedaletto, allestito per i casi
di emergenza, disponeva di quattro stanzette con due lettini ciascuna e
relative attrezzature, nonchè di un locale arredato come una vera e propria
sala operatoria, compreso un lampadario; purtroppo, il pavimento era di
legno, difficile da disinfettare. Quasi tutto il materiale era stato fornito dai
medici dell'ospedale di Vercelli e dalle nostre bravissime infermiere, Teresa
Roncarolo, Maria Fracassi, Carmela Pertusi, Maria Bolla, Edmea Bisio,
Firmina Casalino, Maria Caldera, suor Teresita, suor Teofila, Rosanna
Ansaldi, una Marina del Pronto soccorso, il dottor Gennaro e tanti altri di
cui non ricordo il nome. La loro opera fu tanto preziosa, ammirevole e
insostituibile, nei drammatici giorni dell'otto settembre e per tutto il periodo
della lotta di liberazione, che dovremmo sempre ricordarla.
I feriti erano Sicula, Pompeo e Renè. Sicula aveva preso una pallottola
nell'inguine, Pompeo era stato colpito alla spalla e Renè ferito da un
proiettile che gli aveva trapassato un polmone.
Io avevo il compito di aiutare Fiamma e Ceck. I tre feriti vennero operati
e curati con esito positivo e rimasero ricoverati il tempo strettamente
indispensabile a raggiungere l'autosufficienza: non c'era proprio tempo per
la convalescenza.
***
Ogni tanto mi torna in mente la curiosa faccenda di Renè (Rinaldo
Starda, che abitava nel mio rione). Il ragazzo, che si teneva molto curato,
mi chiese di fargli la barba. Avevamo un solo rasoio di sicurezza con una
sola lametta molto usata, perfino un po' arrugginita, era praticamente
impossibile raderlo senza tagliuzzarlo. Glielo dissi. Ma lui insistette: pur
51
Il partigiano
Rinaldo Starda ( Renè),
capo pattuglia.
essendo immobilizzato a letto voleva essere sbarbato e pettinato.
- Non importa - diceva, - tu prova. Non pensarci se mi tagli, io non
voglio stare con la barba lunga.
Una volta sbarbato, tutto un po' tagliuzzato che mi faceva una gran pena,
si guardò allo specchio e disse:
- Va benissimo.
Poi chiese la brillantina, perché quando era a casa si curava bene la
persona proprio come esigeva la moda. Lo informai che di brillantina non ce
n'era. Lui disse di provare a prendere un po' di grasso dal mozzo della ruota
di un carro.
- Ma guarda che puzza, è cattivo.
- Non importa, va bene così, vedrai che capelli brillanti mi verranno.
Prelevai un po' di grasso da un mozzo, quello meno sporco, ma tuttavia
gialliccio e puzzolente, e glie lo spalmai sui capelli. Feci del mio meglio,
alla fine aveva i capelli belli lucidi e lisci, sembravano stirati; però
52
puzzavano. Tutti lo deridevano. Fu una delle note allegre di quei giorni.
***
Ho ritrovato Renè in questi giorni (dicembre 1995, nel cinquantenario
della Liberazione) e insieme abbiamo rievocato questo episodio. Ne ho
approfittato per farmi rilasciare una testimonianza più completa sulle sue
vicende nel movimento partigiano. Eccola:
"Sono della classe 1923 e abitavo nel rione Isola, in via Spagna, nello
stesso caseggiato di Nino Zavattaro. Con lui ho cominciato la mia
partecipazione alla lotta antifascista. L'8 settembre ero militare
all'aeroporto di Cameri e riuscii a tornare a casa. C'era già il coprifuoco e
tutte le limitazioni di quel periodo; ci riunivamo all'osteria del Vintebbio,
io, il Lodo Novilio e tutti gli amici e si parlava di andare sù coi partigiani.
Così stabilimmo rapporti con un gappista, certo Guasco, che operava
dalle nostre parti, concordando che lui ci avrebbe fatto strada. Partimmo
in diversi, tra cui il Lodo e Gigi Crepaldi. Costeggiando la Sesia, passando
dalle parti di Sandigliano, ci portammo verso la Valsesia. Il nostro primo
incontro coi partigiani avvenne a Gattinara, dove c'era il comandante
Pesgu, che ci destinò ad una formazione dalle parti di Rima. Era l'inizio
del l944. Il periodo invernale lo passammo poi nella zona di Sordevolo. Poi
avvenne quel famoso rastrellamento, in seguito al quale furono disfatti tutti
i distaccamenti. Ci dissero:
" - Cercate di nascondervi, ci ritroveremo dopo.
"Tornammo giù e rimanemmo a casa per un po' di tempo, finché
organizzammo quella famosa azione alla caserma della Guardia di finanza,
Nino Zavattaro, il Lodo (Black), Guido De Bianchi ed io. Prelevammo
numerosi moschetti, che caricammo su un triciclo e sotterrammo vicino a
casa nostra, presso il muro di cinta dell'Ovesticino (l'attuale centrale Enel
di via Trento). Con la collaborazione del sappista Guasco, ci segnalarono
l'arrivo di una pattuglia della 75.a brigata e allora dissotterrammo le armi
e le portammo al Comando della brigata sul Mombarone, risalendo il
fiume Sesia e transitando per San Damiano. Quì c'era il comandante
Mastrilli e fummo inquadrati nel distaccamento del Tigre. Visto il successo
della nostra azione, ci promossero, io comandante di pattuglia e Lodo vice
comandante.
"Rimanemmo insieme per un certo periodo di tempo, finché arrivò il
rastrellamento e il nostro distaccamento venne attaccato a Muzzano.
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I nostri avevano una bombarda che non funzionò e rimasero bloccati
fino al giorno dopo, perché si trovavano proprio di fronte al presidio
nazifascista. Noi risalimmo per congiungerci al distaccamento e
rimanemmo lì ad aspettare di poter entrare. Il giorno dopo, sabato, 11
ottobre o giù di lì, del 1944, stavano arrivando i tedeschi, un centinaio e
più. Il comandante mi mandò giù con la mia pattuglia (Sicula, Pompeo,
Lodo e un altro) a vedere se per caso i nazi stavano per venire su. Noi
scendemmo; nessuno in paese ci avvisò che stavano arrivando e ci
accerchiarono proprio dove c'è il santuario di Graglia; noi chiusi in mezzo
e loro che sparavano un'iraddidio. Resistemmo, scaricando le armi finché
finimmo le munizioni. Poi intervenne il distaccamento che ci era vicino; si
misero a sparare anche loro e poi ci raccolsero e ci portarono a Netro.
"Noi tre feriti (io, Sicula e Pompeo) fummo accolti dalle donne del
paese, che ci prestarono le prime cure, ci ospitarono e ci nascosero. Al
mattino, ci caricarono su un'ambulanza della Croce Rossa - o almeno era
un furgone proprio come la Croce Rossa - e ci portarono nell'ospedaletto di
Sala, cioè lì nei dintorni. Il giorno dopo arrivarono la dottoressa Marengo
(Fiamma), il dottor Ansaldi (Ceck) e le infermiere: già conoscevo te,
Bianca, poiché abitavamo vicino, e la figlia del Primula, Renata; c'era
anche una 'Ferida', che non so come si chiamasse. Mi visitarono e non si
capiva se c'erano due pallottole o una. Ad ogni modo la Marengo disse che
era stato leso anche il polmone, infatti avevo avuto uno sbocco di sangue.
Mi curarono alla bell'e meglio, come si poteva, e poi Ceck mi disse:
"- Quando sarai a Vercelli, se avrai la possibilità di conoscere qualcuno
al Distretto che ti faccia un documento fasullo, dovresti andare al
Dispensario, dalla Ferrero, e farti fare una radiografia per sapere quali
sono realmente le tue condizioni.
"Infatti per parecchi giorni ebbi un po' di febbre. Come hai scritto tu, in
effetti ho voluto che tu mi sbarbassi eccetera; a queste cose io ci tenevo.
"Poi ritornai a Graglia, dove c'erano sempre Tigre, il comandante del
distaccamento, e il vice comandante Marino. Mi mandarono presso una
famiglia che mi curò e mi assistette come si doveva. Poi, quando stetti
meglio, il Comando di distaccamento, preoccupato per la sicurezza mia e
dei compagni (forse pensavano che stando al paese potevo essere indotto a
fare la spia anche senza volerlo) e anche perché c'era un grande bisogno
di uomini, mi mandò a chiamare. Tutta la 75.a brigata e la divisione
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erano di stanza vicino a Graglia, e quì trovai Ricu Casolaro, che mi
disse:
"- Perché non vieni alla 182.a brigata ?
"Così ne parlò al Comando, che mi autorizzò ad andare con loro. Mi
misero nel distaccamento comandato da Prete (Bruno Bellotti). Da lì ci
portavamo a Zimone, o a San Sudario e giù in pianura, facendo le cose che
si facevano allora, cioè combattere i nazifascisti.
"Poi, quando venne la Liberazione, il nostro reparto si fermò di stanza
ad Olcenengo, perché c'era quella famosa colonna tedesca che aveva fatto
una strage a Santhià.
"Ecco, la mia storia sarebbe questa."
***
A volte, al mattino, ero assalita da una struggente malinconia. Pensavo
ai pericoli e alle preoccupazioni che gravavano sui miei cari lontani, a tutte
quelle mamme che avevano i figli chissà dove. Sentivo la nostalgia della
mia casa, delle piccole e grandi cose lasciate; nell' insieme mi invadeva la
preoccupazione per i compagni che in pianura lottavano affrontando rischi
maggiori dei nostri (noi avevamo le montagne per rifugiarci e le armi per
difenderci, loro no). Mi domandavo : "Quando finirà ?".
Per fortuna, fra tante brutte cose c'era la natura che un poco mitigava la
mia tristezza, con i suoi panorami ricchi di paesaggi dolcissimi, il sole che al
suo sorgere formava contrasti stupendi di luci, tra le foglie bagnate di
rugiada che sembravano pagliuzze d'oro, impreziosite com'erano
dall'ingiallire dell'autunno. In una molteplicità di mutazioni, i colori
variavano a seconda del tipo di albero, dal verde intenso al giallo pallido
all'arancio all'amaranto, enormi mazzi di fiori nella maestosità delle Prealpi.
Sembravano dire: "Uomini, guardateci. Come potete pensare a sopprimere,
ad uccidere, quando la nostra bellezza inebriante, il frusciare del vento tra le
nostre foglie sembrano musica che invita a una danza universale di pace e di
amore ? Uomo stolto, non fare piangere la natura !"
A volte indugiavo tra simili pensieri quando i miei occhi miravano
quelle bellezze e si inumidivano.
***
Nel nostro piccolo ospedale avvenne un altro episodio, questa volta
finito tragicamente.
Eravamo a Sala Biellese, nell'ottobre del 1944. Lia, la brava staffetta
partigiana, corse dal comandante Primula:
55
- Hanno portato tre feriti in infermeria - disse.- Non sono della nostra
brigata. Due sono feriti agli occhi e uno ai piedi.
Si cercarono immediatamente i medici; io corsi subito in infermeria,
nella villetta dei Rivetti, curiosa ed ansiosa di rendermi utile. Arrivarono
subito i medici partigiani Anna Marengo e Francesco Ansaldi. I partigiani
che portarono i feriti ci spiegarono i particolari del disastro occorso ad un
loro distaccamento. Erano stati attaccati dalle forze nazifasciste, che
avevano fatto saltare un ponte mentre i partigiani vi si trovavano sopra. Il
bilancio era di un morto e tre feriti.
I dottori dissero che bisognava operare subito il ferito ai piedi, aveva
perso molto sangue e minacciava una cancrena; gli altri due, secondo la
diagnosi dei medici, avrebbero riacquistato completamente la vista in una
decina di giorni.
Il ferito al piede era un giovane carabiniere, che era entrato nelle
formazioni garibaldine venti giorni prima portando con sè diversi fucili e
assumendo il nome di battaglia di "Trimoncino".
Il verdetto dei medici fu terribile, dovevano tagliargli un piede e cercare
se era possibile salvare l'altro.
- Bruna - mi disse Fiamma,- te la senti di aiutarmi ? I ragazzi sono
molto coraggiosi, ma assolutamente digiuni in fatto di chirurgia; tu qualcosa
ne capisci.
Col cuore che mi batteva in gola, accettai, e i preparativi ebbero inizio.
In quel momento avevamo poco alcool; data l'urgenza, i dottori furono
costretti ad usare la grappa. Con quella si disinfettò tutto il pavimento di
legno. L'odore del liquore era opprimente.
Trimoncino delirava, aveva la febbre altissima, tuttavia bisognava
operare per salvargli la vita. Mancava anche la sega, se ne trovò una dal
macellaio di Sala. Infine l'intervento ebbe inizio. Fiamma e Ceck operavano,
Ferida, l'ostetrica, porgeva loro i ferri e io fungevo da anestesista. Sotto la
guida di Fiamma, gli somministravo l'anestetico spruzzandolo a piccole dosi
sul pezzo di garza che gli avevamo applicato sulla bocca e che, gelando, si
imbiancava come se fosse brina. Contemporaneamente dovevo badare che
al ferito non mancasse l'aria e che non inghiottisse la lingua.
Alle voci dei medici che chiedevano i ferri si alternava la voce di
Trimoncino.
- Mamma - ripeteva, - mamma, non lasciarmi, non lasciarmi, mamma!
Sotto l'anestesia, mi aveva scambiata per la sua mamma.
56
La dottoressa ogni tanto mi chiedeva:
- Ce la fai, Bruna ? Resisti ancora ?
Forse capiva dal mio pallore che ero al limite della resistenza. Mi
vergognavo di sentirmi tanto debole, lo sforzo mi spezzava il cuore, ma alle
invocazioni del paziente dovevo una risposta e lo assecondai, fingendomi la
sua mamma, confortandolo amorevolmente.
Le mani dei medici si muovevano leste, precise ed esperte. Un piede
venne amputato e l'altro, leso al calcagno, lo salvarono. L'operazione, in
quella difficile situazione, ebbe termine. Sperando che non subentrasse
un'infezione, Trimoncino era salvo.
Uscii per prima dalla saletta e non seppi rispondere alle domande dei
garibaldini, che attendevano per conoscere l'esito dell'intervento. Svenni.
L'odore della grappa, l'ansia e la paura mi avevano annientata.
Alla sera lo stato di allarme si propagò nella zona. I feriti vennero
nascosti nel vecchio mulino di Bornasco. Tutte le attrezzature del piccolo
ospedale furono riposte in casse foderate di zinco e sotterrate nelle buche da
noi già approntate nel giardino della villa, per occultarle ad una eventuale
incursione fascista. Tutti i distaccamenti dovettero "sfollare"; ai feriti
avrebbero pensato i medici, che si tenevano nascosti nelle vicinanze.
***
Il battaglione Vercelli si trasferì da Sala nella valle di San Sudario, ai
piedi della Serra. La caccia all'uomo, i rastrellamenti in grande stile, erano
cominciati con l'autunno, quando le foglie gialle lasciavano i rami degli
alberi amici che ci occultavano quando dovevamo fuggire. L'intera zona era
in stato di allarme e gli attacchi si susseguivano.
Eravamo rimaste a Sala la Pina, Renata ed io con due garibaldini. Anche
noi eravamo pronte per partire, per raggiungere la formazione. D'un tratto,
in lontananza scoppiò una furiosa sparatoria. Chi sparava, se i nostri erano
già sfollati ? L'automezzo che doveva venirci a prendere era stato avvistato
e assalito ?
La spiegazione venne mezz'ora dopo da tre uomini del Comando,
arrivati trafelati e bagnati come pulcini. Uno di essi reggeva una grande
borsa di cuoio, che la pioggia aveva tutta inzuppata.
- Brio, che cosa è successo ? Da dove venite ? Che cos'erano quegli spari
? - domandò Pina.
- Non c'è tempo per le spiegazioni ! C'è qualche garibaldino, qui ?
- No, perché ? Che cosa vi occorre ? Potete dire a noi. Intanto posa
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questa borsa, che pesa, no ?
- Questa borsa vale più di tutti noi messi assieme. Il Comando è stato
attaccato e noi siamo fuggiti con tutti i documenti. Nello scompiglio ci
siamo dispersi ed ora dobbiamo assolutamente ricongiungerci al resto della
formazione e portare in salvo la borsa. La zona è infestata dai briganti neri e
noi dobbiamo trovare il passaggio libero per portarci nella valle di San
Sudario.
Brio e Marinaio si rivolsero a me:
- Tu sei Bruna, la sorella di Remo, l'intendente di divisione, vero ?
Allora ascolta. Bisogna perlustrare la strada, precederci; insomma, fare
l'avanguardia. Te la senti ?
- Certo che me la sento - risposi, come se non aspettassi altro.- Era ora
che mi prendeste in considerazione. Che cosa c'è da fare ?
- Brava. Prendi la tua pistola e va avanti. Noi ti seguiremo a circa
quindici minuti di distanza, se tutto andrà bene. Se tu dovessi fare brutti
incontri, spara un colpo in aria e scappa. Per qualsiasi ragione, non tornare
indietro. Stà attenta, per un pezzo devi fare la strada maestra ed è
pericoloso. Vai cauta. Poi sai che dietro la chiesa di Zubiena si taglia nel
bosco, sul sentiero che porta nella valle di San Sudario. In bocca al lupo,
Bruna.
Pina era preoccupata.
- Senti - mi disse,- passa a chiedere a Quinto di accompagnarti. Non
andare sola, è meglio essere in due.
Mi seccava dividere con un altro la mia missione, sinceramente avrei
voluto fare da sola. Ma la Pina, per me, era sempre stata tanto saggia e
materna che ascoltai il suo consiglio.
Quinto Quaglino era un bravo e robusto montanaro del posto. Nella
formazione aveva due figli, Alba, che lavorava con me a Sala, e suo
fratello, che militava in un distaccamento di Primula. Lo trovai in casa.
- Perbacco, Bruna, vengo subito. Ma vedi come piove ? Aspetta, che
prendo l'ombrello.
Ci incamminammo senza sentire altro che il tamburellare dei goccioloni
sul parapioggia. Nella mia qualità di "avanguardia" mi sentivo un po'
menomata da quell'aggeggio borghese. Ma come avrei potuto impedire a
Quinto di usarlo ? In fondo era un bravo collaboratore, ma... in borghese.
Nessuno gli impediva di ripararsi sotto un ombrello. Io pensavo: "Però,
questa pioggia dell'accidenti che risuona su 'sta lobbia', non ci lascia sentire
niente. Devo dirgli di chiudere l'ombrello. Qui non bastano gli occhi,
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bisogna tenere le orecchie ritte".
I miei pensieri furono interrotti bruscamente dalla vista di una donna che
correndo verso di noi urlava sbracciandosi:
- I tedeschi, i tedeschi!
Dalla curva, a poco più duecento di metri, spuntarono camion e
motociclette. Il tamburellare della pioggia sulla tela dell'ombrello ci aveva
impedito di sentirli e quelle maledette curve della strada chiudevano la
visuale. Come risultato, ecco tutta quella canaglia che stava per piombarci
addosso.
Senza dire una parola, Quinto mi prese per mano e di corsa
attraversammo la strada, infilandoci sotto gli alberi del bosco che
fiancheggiava la carrozzabile. La nostra fuga improvvisa era più che
sufficiente per denunciarci agli sguardi dei tedeschi. Dai camion, che erano
cinque, i soldati spianarono le armi. Esitammo un attimo davanti ad un
crepaccio che ci eravamo trovati dinnanzi, dal fondo minacciosamente buio,
ma non c'era altro da fare. Ecco la prima fucilata. Saltammo, affidandoci
alla nostra stella. Quella era fortuna: nel fondo non c'erano sassi, ma tanto
fango che ci sommerse fino alla cintola. Cercammo di uscirne, di
allontanarci al più presto dal crepaccio, ma la mota era viscida e pesante. Se
qualche pallottola ci avesse raggiunti, non avremmo più avuto bisogno di
alcuna sepoltura.
I tedeschi spararono un po' di colpi, poi proseguirono. Non eravamo
preda per loro. "Benone," pensammo, "con le schioppettate hanno avvisato i
partigiani, che certamente si saranno allontanati per un'altra strada".
Arrivati a Zubiena, dovevamo passare per forza sul prato sotto il
campanile della chiesa, per scendere a valle. Ci guardammo. Quinto, pallido
come un morto, mi disse:
- Lo sai, vero, che poco tempo fa, proprio qui, dall'alto del campanile i
tedeschi hanno ucciso tre partigiani ?
- Si, lo so. - risposi.
- Bene, ora facciamo finta di niente e attraversiamo questo prato. Se mi
dovesse capitare qualcosa, và a casa mia e dì a mia moglie che i nostri soldi
sono nascosti dietro i due mattoni nel camino; dopo l'allarme di oggi gli ho
cambiato posto, lei non era in casa e non lo sa.
- Va bene - risposi.- Però se succede qualcosa a me dì a mio fratello
Remo che gli voglio bene...
Dopo queste "raccomandazioni" ci avviammo sul prato; io mi chinavo
ogni tanto con noncuranza a raccogliere qualcosa di verde, mentre lui mi
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teneva per mano. Giunti sotto gli alberi, ci stavamo stringendo così forte le
mani che la mia era tutta crampi. Non guardammo il campanile, eravamo
troppo contenti, il cuore ci batteva da impazzire.
Si presentava un altro ostacolo: bisognava attraversare il torrente Viona,
che con tutta la pioggia caduta era in piena, ma in quel tratto le due sponde
erano abbastanza vicine. Quinto divelse due alberelli e affrontammo il salto
con l'asta, come gli sportivi. Prima saltò Quinto, poi saltai a mia volta. Con
un po' di fortuna ce l'avevamo fatta; finite le preoccupazioni, subentrava
l'entusiasmo. Tirammo un sospiro di sollievo e ci abbracciammo.
Arrivammo al comando dopo molte ore, stanchi morti e inzaccherati fino
al collo. Primula ci accolse con gioia, ma non nascose la sua ansia.
- Perché siete qui soli ? Gli altri dove sono ? Che cosa vi è accaduto ?
Gli raccontammo di Brio, della borsa e della colonna nazifascista. Il
comandante mandò subito una pattuglia alla ricerca dei due uomini del
Comando, della moglie e della figlia. Ero preoccupata e sentivo un certo
rimorso. Chissà se la pattuglia aveva sentito i colpi ? Non avevo dato il mio
segnale, perché altrimenti quei dannati avrebbero mangiato la foglia e
avrebbero setacciato tutta la zona, rischiando di chiudere in trappola i nostri
compagni.
La cascina Zona in Valle Mulino di San Sudario.
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Il mio tormento durò per un paio d'ore, finché la sentinella gridò:
- Arrivano tutti insieme. C'è Brio con la borsa, Marinaio, Yanez. Ci sono
tutti, anche Pina e Renata, con la pattuglia che era andata a cercarli.
Corsi loro incontro scusandomi per non averli avvisati. Mi presero quasi
in braccio, dicendomi:
- Sta’ zitta, che ci hai fatto prendere una paura da matti, quando abbiamo
sentito quegli spari. Avevamo tutta l'impressione che vi avessero mandati in
Svizzera senza scarpe (in gergo partigiano, voleva dire "ammazzati",fatti
fuori). Noi siamo scesi per Torrazzo. E' stata un po' lunga, specialmente per
la Pina, ma in compenso niente brutti incontri. Le loro forze erano tutte
concentrate sulla strada di Zubiena, quella che avete percorso voi.
Ero felice dell'esito della mia missione. Ma c'era un punto nero.
"Accidenti a quell'ombrello !"
Alla Zona (una cascina presso San Sudario) c'era lo stato di allarme.
Ci appostammo nei punti strategici. Qualcuno mi diede in mano una
"Machinepistola" e mi disse:
- Con la tua pistolina non ti difenderesti abbastanza. Sta attenta che a
questa manca la sicura, appena premi il grilletto parte il colpo, quindi datti
da fare, occhio.
Era un falso allarme. Pietro, il proprietario della Zona, aveva scambiato
per fascisti una nostra pattuglia di garibaldini che rientrava, composta da sei
uomini, tra i quali Bruno Salvai (Pantera). Tutto finì bene, ma Pietro ebbe
da Primula una strigliata coi fiocchi.
***
Il rastrellamento tedesco si concluse dopo due giorni, poi la nostra
staffetta Lia ci raggiunse dicendoci come avevano ridotto Trimoncino.
Fiamma e Ceck l'avevano trovato nel rifugio dove era nascosto, morto, con
una baionetta piantata in bocca.
Mi sentii morire, lo rivedevo mentre lo operavano e chiamava la sua
mamma ed io piangendo fingevo di essere lei. Non seppi più resistere, urlai
e maledii chi l'aveva ucciso.
Scoprimmo che la spiata era stata fatta da uno sfollato di Torino. Venne
arrestato, processato dal comando partigiano e condannato a morte.
Ricordando la penosa vicenda dell'intervento a Trimoncino, le sue
invocazioni alla mamma, chiesi di essere io ad eseguire la sentenza.
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Veduta aerea della Serra, con il Comune di Magnano.
(Foto g.c. dall’architetto Pietro Foddanu)
Primula mi guardò accigliato e disse:
- Sei giovane, Bruna. Capisco quello che senti dopo quanto hai provato
durante l'intervento e quando hai saputo di come l'hanno trucidato. Ma
pensa, non scorderesti mai un atto del genere, per tutta la vita, ed io me ne
riterrei responsabile.
La sentenza venne eseguita nel modo più semplice. La spia fu
accompagnata lungo un sentiero da un partigiano che lo affiancava, e due
altri che lo seguivano gli spararono un colpo alla nuca. Mi resi conto,
assistendo all'esecuzione, che quel tale non si era accorto di nulla.
***
Nella Valle di San Sudario, ai piedi della Serra, l'acqua veniva estratta
da un pozzo artesiano; purtroppo in quell'epoca, dopo il trasferimento, non
piovve per tanto tempo e il pozzo divenne quasi asciutto. Per fare da
mangiare al nostro distaccamento, composto da circa quarantacinque
uomini, si era costretti a prelevare l'acqua da una cisterna della capacità di
una ventina di metri cubi, situata dietro alla cascina, che raccoglieva l'acqua
piovana. Anche quella però era scarsa, sul fondo ne restava circa trenta
centimetri, grigiastra con tanti insetti. Io, che ero astemia, la bevevo dopo
averla filtrata, fatta bollire e poi ancora filtrata, rammentando le
62
raccomandazioni della dottoressa Fiamma. Certo mi faceva un pessimo
effetto, ma non c'era altro. Per fortuna, si mise a piovere, prima che quella
scorta finisse.
***
Venne un po' di calma e vennero le belle giornate, serene e piene di sole,
anche se eravamo in ottobre. Il cielo di un blu intenso era una meraviglia.
Certi tramonti incantavano. Sembrava che la vita cominciasse quando il
sole spariva, con tutte quelle luci, quei riflessi gialli, oro, arancio, indaco;
con le nuvole che sembravano balzare e saltellare, mutando di forma e di
colore. A volte sembravano soffici palloni bianchi, a volte cavalli che
volavano nel cielo come Pegaso. In cielo i più bei colori del mondo.
Pensavo: "Perché la guerra ? Perché la vita deve essere così piena di mali, di
torture, di morti, di pianti, quando la natura che ci circonda è così bella da
far desiderare solo la gioia e la serenità, di stare bene, uniti con tutti ?"
Erano i sentimenti che viaggiavano, quelle cose che tu hai dentro, e a volte è
meglio ascoltarle, tirarle fuori, parlarne. Talvolta, quando sei sola e vedi
queste cose, ti viene un groppo in gola, perché non hai nessuno al quale dire
tutto quello che senti.
Il castello di Masino, luogo della battaglia del febbraio 1945.
63
CAPITOLO QUINTO
Primula
Silvio Ortona (Lungo), che faceva parte del Comando Zona, compose
una canzone partigiana:
Portiamo l'Italia nel cuore,
abbiamo il moschetto alla mano.
A morte il tedesco invasore
e noi vogliamo la libertà.
A morte il fascio repubblican,
a morte il fascio siam partigian !
Il ritornello di questa canzone era utilizzato da noi come segno di
riconoscimento. Uno fischiettava le note di: "A morte il fascio
repubblican..." e l'altro rispondeva: "A morte il fascio siam partigian". Me lo
aveva insegnato Ken (Carlo Serravalle).
L'autunno avanzava rapidamente e i rastrellamenti si susseguivano. Pina,
Renata ed io fummo portate al castello di Masino, raggiungendo mamma e
papà, Egle e Nerina. Remo ci portò anche Mirella, la sua bambina di 7 anni,
perché potesse stare in compagnia e giocare un po' con la cuginetta. Nel
cascinotto della Grangia, dove stava nascosta con mia cognata, non
potevano avere contatti con nessuno e la bimba era molto sola. Stette con
noi alcune settimane.
Avevamo della farina per il pane, ce lo confezionava di nascosto un
panettiere di Caravino (paese a due chilometri sotto Masino, in pianura).
Gran parte dei viveri erano forniti da mio fratello Remo, sia per noi che per i
partigiani che transitavano.
Un pomeriggio Pina, Egle io, scese a Caravino con le due bambine,
scorgemmo un giovane che era stato nella nostra brigata per qualche tempo
(il suo nome di battaglia era Vito) e poi era scappato; avevamo saputo che
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si trattava di una spia della brigata nera, venuto tra noi per carpire dati e
notizie sulle nostre postazioni e sulle armi a nostra disposizione;
probabilmente conosceva la zona dove eravamo rifugiate, sia la moglie e la
figlia di Primula che io e la mia famiglia.
Facemmo in tempo a nasconderci prima che ci vedesse e chiedemmo
informazioni al nostro fido panettiere. Ci disse che quel tizio da qualche
giorno andava e ritornava; era di Borgo d'Ale e stava cercando certe sue
amiche. Tornammo a Masino di volata e il mattino dopo, molto presto,
partii a piedi con una compagna per portare la notizia a Primula, al
comando.
Percorrendo la strada di Caravino, Albiano e Bollengo, raggiungemmo
la Serra (la lunga collina di natura morenica che divide il Canavese dal
Biellese), affrontando una strada in salita piena di tornanti. In pianura non
avevamo fatto brutti incontri, ero un po' tranquilla, in giro non c'era tanta
gente ed io avevo una carta d'identità falsa, secondo la quale mi chiamavo
Gorini Bruna di Giuseppe. Ma dopo qualche tornante ci bloccammo: a circa
cento metri c'era un uomo abbigliato come "l'uomo mascherato" (il
protagonista di un fumetto del giornalino "L'avventuroso", che faceva furore
fino a qualche anno prima), con tanto di mascherina nera. Lo guardai
stupita, anche perché faceva tanto freddo e lui era pochissimo vestito. Non
passava nessuno per accompagnarci e andare avanti; dovevamo a tutti i costi
raggiungere i partigiani, ma con una apparizione del genere non sapevamo
che fare.
Riflettemmo rapidamente. Se non era un fascista non poteva farci del
male; però, se fosse stato un pazzo? Concludemmo che in caso estremo
avrei potuto sparare, quindi proseguimmo con molta cautela. Quel giovane
(avrà avuto 25-30 anni), vedendoci, scappò tra i cespugli di felci che
costeggiavano la strada. Noi camminavamo guardando a destra e a sinistra,
per evitare sorprese. Lo rivedemmo al tornante successivo, fermo a
guardarci; per un minuto circa restammo ad osservarci a vicenda, poi lui
fuggì di corsa tra le felci e non lo rivedemmo più. Non sentivamo più
nemmeno la stanchezza, anche se avevamo percorso quasi venti chilometri
a piedi oltre la salita della Serra.
Arrivate al distaccamento, riferii di Vito, che era di Borgo d'Ale e ci
stava cercando a Caravino, mentre a nostra volta cercavamo lui. Poco dopo,
raccontai dell'uomo mascherato sulla Serra e i ragazzi ci derisero, dandoci
scherzosamente delle visionarie. Protestai, finché due partigiani mi diedero
ragione; loro abitavano a Magnano e sapevano che si aggirava sulla Serra
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un tipo del genere, l'avevano visto altre persone. Era uno squilibrato,
insensibile al freddo, ricercato dai carabinieri e mai scovato; viveva
rubacchiando qua e là per cibarsi, ma non aveva mai fatto male a qualcuno,
era solo ed era piuttosto protetto dalla gente, che gli lasciava di che nutrirsi
vicino alle case da lui visitate di nascosto.
Qualche tempo dopo la Liberazione, lessi su un giornale che la polizia
l'aveva individuato e internato in un ospedale. Alba Quaglino, di Sala,
ricorda ancora oggi quel singolare personaggio.
Con la notizia che avevo portato, Primula fece partire subito una
pattuglia alla ricerca della spia fascista.
***
Ci trovavamo in una località ai piedi della Serra (ma non a San Sudario),
dove si erano riuniti i comandi di diverse formazioni per incontrarsi con la
missione inglese Cherokee, onde discutere e concordare gli eventuali "lanci"
con aerei alleati, predisposti con messaggi speciali via radio. Il primo
comandante della missione fu il maggiore Mac Donald, poi caduto
prigioniero; liberato alla fine della guerra, tornò a trovarci a Borgosesia
pochi anni or sono. Il secondo comandante era il maggiore Redhead. Faceva
parte della missione anche il tenente Patrik Amoore, poi capitano; era
sempre con noi, era il nostro "capitano Pat". Quando morì, nel 1993, volle
che si seppellissero le sue ceneri a Sala, dove aveva vissuto una parte tanto
importante della sua vita, ma il suo desiderio attende ancora di essere
esaudito causa lungaggini burocratiche.
Bisognava preparare da mangiare per tutti e i cuochi (Fra Diavolo e
Dick) si misero al lavoro. Folgore ed io fummo incaricati di attingere acqua
al pozzo, per rifornire la cucina. Ma in quel compito eravamo
completamente inesperti. Al capo della corda era fissata una specie di
spirale di ferro, nella quale si doveva infilare il manico del secchio; ma
non sapevamo che bisognava inserirlo per almeno due giri della spirale e
succedeva che il recipiente, urtando contro l'acqua, si sganciava. Così
perdemmo tre secchi. Quando arrivò Dick per vedere se avevamo fatto il
nostro lavoro, lo informammo che di acqua non ce n'era e che i secchi erano
rimasti nel pozzo.
Dick andò a prendere un altro secchio, lo tirò sù traboccante e ci
minacciò energicamente: avrebbe riferito al comandante che per colpa
nostra eravamo in ritardo per il pranzo.
Io e Folgore ci nascondemmo dietro una catasta di legna da ardere e ci
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rimanemmo per oltre un'ora, temendo la punizione di Primula, che era molto
severo. Non sapevamo se avrebbe avuto comprensione per la nostra
inesperienza. Pina e il comandante ci cercavano:
- Dove è finita la Bruna ?
Quando Primula fu informato della faccenda dei secchi, ci chiamò a
voce alta, chiedendoci di uscire dal nostro nascondiglio e promettendo che
non ci avrebbe puniti fino alla prossima volta. Allora ci decidemmo a
presentarci, mentre gli altri ridevano divertiti. Non era poi così severo come
si credeva.
***
Il secondo inverno era alle porte; la neve e il freddo si avvicinavano
inesorabilmente e ai garibaldini occorrevano indumenti e soprattutto armi.
Gli uomini non avevano niente di pesante da indossare. Molti garibaldini
avevano ancora i pantaloni corti e già soffrivano i morsi del freddo.
Bisognava avere la possibilità di vestire gli uomini per affrontare l'inverno e
anche avere le armi per difenderci, che scarseggiavano seriamente. I
partigiani di G.L. (Giustizia e Libertà) avevano vestiti di gabardine e un
mitra Sten o Thompson ciascuno, mentre i garibaldini dei nostri
distaccamenti erano poco vestiti e avevano poche armi, soltanto tanto
coraggio, tanta fede e tanta speranza.
Le donne dei paesi avevano fatto camicie con la seta dei paracadute che
erano stati lanciati in precedenza alle formazioni GL e che alcuni garibaldini
erano riusciti a prelevare, insieme ad alcuni vestiti di gabardine, battendo sul
tempo i destinatari giellini. Ma si trattava di ben poca roba.
A questo proposito ricordo un gustoso episodio. Durante un incontro con
Primula, il capitano Monti, delle GL, aveva espresso le sue vive, ma garbate
rimostranze per l'indebita appropriazione. Porgendo la mano, disse:
- Piacere, capitano Monti delle GL. - Poi, battendo una mano sulla spalla
di Primula:- Questo è il nostro gabardine.
Di rimando, Primula rispose:
- Piacere mio. Riformato Primula, gabardine garibaldino.
In quel tardo autunno del 1944 venne diramato il proclama del generale
Alexander, comandante delle forze alleate in Italia, in cui si dichiarava che i
partigiani dovevano smobilitare e nascondere le armi, per riprenderle poi in
condizioni più favorevoli. Era semplicemente pazzesco. Quel proclama
67
Pietro Camana ( Primula),
comandante del
Battaglione Vercelli,
poi 182^ Brigata Garibaldi.
venne discusso nel comando, in tutti i distaccamenti e fu respinto. La
missione Cherokee si schierò con noi e intensificò la sua attività per ottenere
i lanci di rifornimenti dagli alleati.
Il primo dei lanci che ci interessavano fu realizzato a Baltigati il 24
dicembre del '44, gli altri sulla Serra, vicino a Torrazzo. Poi non ci furono
più messaggi speciali, la missione Cherokee comunicava direttamente con la
base in Puglia, usando un codice cifrato.
(Le notizie sulla missione Cherokee sono state precisate sulla scorta di
una informazione fornitami recentemente dal comandante Silvio Ortona).
***
Quando ci riportarono a Masino, il giorno successivo alla riunione con la
missione inglese, io non stavo tanto bene. La dottoressa Marengo disse a
Primula e a mio fratello Remo che mi dovevo fermare a Masino con i miei
genitori, poiché ci sarebbero stati attacchi e rastrellamenti; le nostre
pattuglie, nelle loro soste al castello, avrebbero certamente avuto bisogno di
assistenza. Pina e Renata stettero ancora qualche tempo con noi, poi furono
portate in altro posto. Eravamo tutte famiglie divise: Giulia, mia cognata,
era al cascinotto della Grangia, dove era tornata anche sua figlia Mirella
(che un brutto giorno cadde e si fratturò un'anca); mamma, papà, Egle e
Nerina erano a Masino con me; Remo nelle formazioni garibaldine; Bruno,
il marito di Egle, deportato in Germania.
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Mia madre Rita,
mia sorella Egle
e sua figlia Nerina,
nel parco del castello
di Masino.
Noi occupavamo cinque stanze al primo piano del "palazzo", alle quali
si accedeva dall'interno, passando dall'una all'altra. Accanto al nostro
c'erano l'alloggio di Pitetto, lo stalliere del castello che curava le scuderie e
la "citronera", e quello di Domenico, l'autista, con la moglie. Fuori c'era il
ballatoio a ringhiera.
A Masino, non avendo più compiti importanti come quelli di infermiera
e portaordini, nè contatti con i gruppi delle compagne per le attività di
volantinaggio e confezione di indumenti per i ragazzi, mi sembrava di
impazzire. Nerina aveva dieci anni e in paese non c'era una scuola; io le
insegnavo qualche cosa, ma ne mancavano tante altre.
Quando sentivamo sparare per gli attacchi dei nazifascisti alle nostre
postazioni (lo si capiva malgrado la lontananza), la mamma era tutta in
agitazione.
- Oh, cara Madonnina - esclamava.- Chissà quei ragazzi, chissà Remo...
Con tutta l'ansia per i nostri compagni che combattevano, per mio
fratello, avevamo anche tante preoccupazioni per lei. Fino a quando il suo
cuore malato avrebbe retto ? Ma la sua fibra era già temprata dalle dure
battaglie per le otto ore combattute con papà. Di genitori di questa pasta c'è
di che essere orgogliosi.
69
Nel negozietto di Masino avevo comprato dei colori a pastello e un
foglio di carta da disegno; per ingannare il tempo, la tristezza e l'ansia, mi
rifugiavo nell'incavo di un enorme tronco di castagno quasi morto,
disegnando e riflettendo. Era un ottimo posto di osservazione; la distesa del
Canavese sembrava ai miei piedi e l'eco di ogni conflitto al di là della Serra
(la nostra zona) veniva portato dalle onde sonore fino a noi, poiché eravamo
posti in alto. Lasciai un poco della mia vita tra la landa canavesana, la Serra,
la neve e le lacrime.
Avevo fatto amicizia con "Renè" (Enrico Odisio), uno dei giovani di
Masino che si tenevano nascosti per non essere arrestati dai fascisti o
internati in Germania (poi si arruolò nella 182.a brigata). Lavorava con
Pitetto. Nel dicembre del '44 c'era tanta neve. Dovevo scendere a Caravino a
prendere il pane; il sentiero era impraticabile e la strada lunga, a tornanti.
Renè mi diede i suoi sci e mi spiegò come usarli. Partii, zaino in spalla, ma
alla prima curva tirai diritto e mi impiantai in un mucchio di neve e roccia,
sfasciando uno sci. Fu la prima e ultima volta che misi quelle cose. Andai a
piedi, più sicura.
***
Quando stavo nel mio rifugio, dentro l'incavo dell'albero, facevo qualche
riflessione sul passato, sul presente, sul futuro; ricordavo lo stato d'animo, la
combattività dei ragazzi che andavano di pari passo con gli eventi e le
battaglie che si combattevano in Unione Sovietica e in altre parti del mondo.
Quando sentivamo "tum-tum-tum-tum, qui radio Londra" ascoltavamo con
ansia vivissima le notizie dell'Armata Rossa che aveva respinto su tutti i
fronti le truppe tedesche, delle divisioni naziste che erano in rotta, degli
Alleati che sbarcavano in Normandia iniziando la liberazione della Francia.
Allora il nostro entusiasmo si risvegliava, si esprimeva con parole e gesti
festosi e spingeva a combattere, alle azioni più temerarie.
Combattevamo per respingere il tedesco invasore con i suoi scagnozzi
fascisti, ma se questi non venivano sconfitti su tutti gli altri fronti, in special
modo dove i nazi avevano impegnato il maggior numero di uomini, per noi
la lotta sarebbe stata ben più lunga, anche con lo sbarco degli Alleati ad
Anzio. La lotta partigiana in Italia aveva la sua grande importanza per
determinare la fine dell'invasione germanica ed accelerare la conclusione
del conflitto.
70
***
Nevicava da qualche giorno; eravamo pieni di freddo e di ansie, non
sapevamo niente dei combattimenti che si udivano in lontananza. C'era tanta
neve che attutiva i rumori per la strada e nel cortile. Una sera arrivò Pitetto,
trafelato, gridando:
- I tedeschi ! Sono nel cortile !
Pitetto, che sapeva tutto di noi, era corso ad avvisarci, pover'uomo,
anche col buio. Io avevo la mia pistola e dovevo nasconderla. Corsi
nell'ultima stanza, aprii la finestra e lasciai cadere l'arma sul tetto di un
ripostiglio coperto di neve. Stavo per chiudere la finestra quando mi arrivò
alle spalle un orribile mongolo, in divisa da tedesco. Mi prese per una spalla
e mi girò, domandandomi cosa facevo alla finestra.
- Ho sentito degli spari e volevo vedere che cosa fossero.
La mia scusa non lo convinse, e disse che soltanto loro potevano sparare
e non l'avevano fatto, quindi, perché stavo affacciata?
Il brutto mongolo, che nel frattempo era stato raggiunto da altri quattro,
guardò fuori dalla finestra. Sul davanzale c'era un pacco di burro, che pochi
giorni prima ci aveva portato la staffetta con altri alimenti, perché da casa
nostra passavano continuamente i partigiani di pattuglia e bisognava
rifocillarli. Il mongolo aprì il pacco e sorrise soddisfatto; probabilmente
credeva che io volessi nascondergli il burro. Diede il pacco ad un altro
mongolo, brutto come lui. Poi mi mise una mano sul seno. Non ci vidi più,
non pensai alle conseguenze e istintivamente gli mollai un ceffone. Subito
quell'essere mise mano alla pistola; per fortuna lo fermò un ufficiale tedesco
che seguiva i mongoli. Gli parlò molto duramente, lo convinse a lasciarmi
perdere e ad unirsi agli altri, che stavano perquisendo la casa, buttando
all'aria i materassi e gli armadi.
Mentre uscivano, passando in cucina dove c'erano papà, mamma, Egle e
Nerina, un altro mongolo si fermò ad ammirare la mia nipotina con occhi
bramosi, che non ispiravano niente di buono. D'istinto, mia sorella disse che
il papà della bimba era in Germania; quel coso non capì che Bruno era un
internato, certamente lo credette un nazi; lasciò il braccio di Nerina e le
diede un buffetto su una guancia.
Se ne andarono portando via solamente il chilo di burro, qualche chilo
di riso e un po' di sale. Le provviste importanti erano celate sotto una botola
vicino alla stalla, introvabili. Avevamo provato una grande paura, io in
special modo. Ringraziai il tenente tedesco, il quale mi disse:
71
- Bona, bona, sinorina.
Mamma dovemmo metterla a letto e farle una iniezione per il cuore.
Il mattino dopo andai a recuperare la mia pistola e scesi a Masino. Tutti i
paesani parlavano dell'accaduto, della razzia dei tedeschi. Dalla sarta, la
buona Teresa, le donne avevano fatto crocchio e descrivevano quanto
avevano loro sottratto: maiali, oche sotto strutto, lardo, a tutti avevano
portato via qualcosa.
Per fortuna, erano soltanto razziatori. Cercavano da mangiare requisendo
quanto trovavano.
Io stavo sempre un po' più male, non mangiavo ed ero stanca (non
sapevamo, allora, che avevo una pleurite secca).
Passarono gli uomini di Quinto, comandante della I Zona. Dopo uno
sganciamento, andavano a Cossano e poi alle Cascine d'Arei. Andai a
trovarli, non erano tanto lontani, qualche chilometro, forse sei o sette. Era
bello stare un po' con loro.
***
Arrivò il due febbraio 1945. Si sentivano i colpi dei mortai, le raffiche
delle mitragliatrici, i "tac-pum" dei terribili fucili tedeschi di precisione. Era
un susseguirsi di colpi che ci spezzavano il cuore. Si capiva che la battaglia
era a Sala, ma ignoravamo quali proporzioni avesse assunto, certo enormi,
data la gran quantità di detonazioni che si udivano. Non riuscivamo ad
avere notizie, l'attesa era snervante, densa di timori.
Il giorno dopo Egle ed io andammo a Caravino per fare provvista di
tanto pane, perché pensavamo che senz'altro sarebbero arrivati i nostri
ragazzi e bisognava rifocillarli. Risalendo, scorgemmo in cima alla strada un
gruppo di uomini, ma tra il bianco accecante della neve, il freddo e la paura,
era difficile riconoscerli. Ci fermammo indecise e solo allora sentimmo
chiamare:
- Bruna, vieni, siamo noi. Sono Fra Diavolo, con Brio, Marinaio,
Ricovo, Dick.
Era una nostra pattuglia. Ci erano venuti incontro per strada perché i
miei genitori avevano loro detto dove eravamo andate. Domandai:
- Perché siete qui ? Che cosa è accaduto ieri l'altro a Sala ? Che cosa è
successo ? Dove sono gli altri ?
Tutti si chiusero in un silenzio opprimente, più doloroso di un grido.
- Che cosa c'è? Parlate !
72
La lapide commemorativa di Primula a Sala Biellese, sul luogo dove morì in combattimento.
Fra Diavolo disse:
- Primula è stato ucciso dai tedeschi e Ricu ferito durante il
combattimento a Sala. Noi, con Carnera, Pace e Rapid, eravamo con lui.
Siamo riusciti a sganciarci senza altre perdite, aiutati dal buio. Però
nell'attesa siamo quasi congelati.
Non ricordo il tono della mia voce, ma ero disperata. Continuavo a
ripetere:
- No, non può essere, lui non può morire. Primula non deve morire,
sarebbe tutto finito.
Fra Diavolo mi prese tra le braccia e piangemmo insieme; tutti si
asciugavano gli occhi, i visi stravolti dal dolore, dalla stanchezza, dalle
fatiche.
Andammo a casa, si scaldarono un poco e mangiarono qualcosa, poi
partirono per raggiungere altri gruppi dislocati un po' ovunque in pianura.
In casa eravamo tutti annientati, sembrava che il mondo ci fosse crollato
addosso, che tutto finisse con Primula. Mi rifugiai nel mio tronco d'albero;
attraverso quel sentiero in mezzo alla neve, non sentii più nemmeno il
freddo.
Mi aiutai ricordando e ripetendo il famoso canto di Goethe:
73
Pensiero vile
Dubbio ed affanno,
Timor donnesco,
Cruccio e pianto,
Non scaccia pena,
Nè ti riscatta !
Alla violenza far fronte altiero,
Non mai piangere, mostrarsi forte,
Cosi s'invoca degli dei l'aiuto !
Pensavo a Pina, Renata, Tino, il ragazzino di quattordici anni, diventato
uomo nell'attimo in cui aveva visto il babbo abbattersi straziato ai suoi
piedi; a sua richiesta gli era stato affidato il mitra del padre.
Dopo qualche giorno Remo venne a trovarci con due uomini, anche per
tranquillizzare la mamma. Ci descrisse un poco la battaglia. Quando
Primula cadde, i garibaldini lo spogliarono (non potendo portarlo via)
perché non fosse riconosciuto come il comandante Primula; lo posero su di
un tavolo dell'osteria-bar di Daria, poi si ritirarono a causa delle
preponderanti forze naziste. I tedeschi riconobbero ugualmente la salma e
la straziarono, infierirono selvaggiamente sul corpo inerme con tante
percosse. Ma gli eroi non si distruggono, si valorizzano. Camana era prima
di tutto un padre, un amico, un confidente, un combattente di prima qualità e
un grande stratega (pur non avendo nemmeno fatto il militare perché
riformato).
Remo ripartì coi suoi uomini, doveva stare sempre all'opera per rifornire
quelle masse di ragazzi in continuo movimento. La popolazione collaborava
coi partigiani - guai se non fosse stato cosi ! - ma non poteva certamente
dare sostentamento a migliaia di uomini. Ecco perché c'era la sussistenza.
***
Passarono i giorni e continuava a nevicare, le strade erano sempre più
impraticabili.
Un pomeriggio una pattuglia proveniente dalle cascine d'Arei mi portò
un messaggio del comandante Quinto, il quale chiedeva la mia opera
(finalmente qualche cosa potevo fare, dopo tanti giorni di forzato riposo).
Mi dissero che dovevo portare un biglietto al comandante Nerio (Saverio
Tutino) della 76.a brigata, che si trovava con la sua formazione nel paese di
74
Io,
alla base partigiana
di Sala Biellese.
Palazzo, ai piedi della Serra, sulla provinciale tra Ivrea e Biella. Non
potevano mandare nessun altro, dovendo tenere tutti gli uomini a
disposizione in vista di eventuali, probabili attacchi nemici.
Partii immediatamente. Scesi fino a Caravino e fin qui andò bene, poi
imboccai la strada per Azeglio, ma questa era irriconoscibile, sommersa
dalla neve. Per di più mi avevano detto che non dovevo percorrere le strade,
ma i sentieri. Non si capiva niente, ero in un deserto bianco. Avevo percorso
quella zona solamente due volte, ma allora non c'era la neve, si vedevano
anche i sentieri trasversali e le foglie degli alberi, tanto importanti quali
punti di riferimento. Persi l'orientamento e non incontrai nessuno per
chiedere indicazioni. Infine vidi un casolare e mi avvicinai, domandai ad
una donna affacciata alla finestra quale strada dovevo prendere per Palazzo.
Mi indicò una direzione e mi avviai verso i ruderi di una vecchia cascina,
con intorno qualche albero rinsecchito. Vidi di spalle un uomo appoggiato
ad uno di questi tronchi e gli dissi :
- Scusate, mi potreste insegnare la strada...
Non finii la frase, perché l'uomo si voltò e vidi che era uno della "San
Marco" o della "Ruggine", non ricordo di quale banda fascista fosse. Fatto
sta che per poco non mi venne un colpo.
- Che cosa fai da queste parti con un tempo simile ? - mi apostrofò.-
Dove vuoi andare ?
- Cerco la strada per andare a Ivrea, in farmacia, a comprare medicine
per mia madre, che è malata di cuore.
- Da questa strada vai, e non da Albiano ?
- Non sono di qui, siamo sfollati di Torino e non conosco nessuno, tanto
meno la strada, e mia madre ha bisogno delle medicine.
- Perché non vai con la corriera ?
75
- Perché non viaggia, con un tempo simile.
- Ora stai qui con gli altri, poi ti porteremo a Ivrea e vedremo come te la
caverai.
Dietro i ruderi di un fienile si tenevano al riparo dal vento altre otto o
dieci persone. C'erano pure due camion con cinque o sei fascisti. Poco dopo
ne arrivarono altri due su una moto e presero a discutere coi loro compari,
mentre da lontano echeggiavano degli spari.
Infine si rivolsero a noi con voce minacciosa :
- Per ora andate pure, ma non fatevi più sorprendere un'altra volta,
perché sarà peggio per voi.
Mi parve che avessero una paura del diavolo, che quegli spari li avessero
terrorizzati al pensiero dei partigiani che si aggiravano da quelle parti.
Intanto tra una cosa e l'altra era arrivato il buio ed io non sapevo dove
andare; sospettavo anche che la donna alla quale avevo chiesto la strada mi
avesse ingannata, mandandomi a bella posta verso i fascisti.
Non avrei più potuto portare il messaggio, perché mentre il fascista mi
parlava lo avevo distrutto: infilandolo nel buco della tasca predisposto in
precedenza, lo avevo fatto cadere lungo la gamba dei pantaloni e quando
era giunto al suolo lo avevo calpestato con gli scarponi nella neve.
Decisi di ritornare a Masino, sperando che Nerio avrebbe risolto il
problema senza di me. Adesso bisognava ritornare indietro con quella gente,
che abitava un po' a Caravino, un po' a Cossano e un po' a Masino, senza
farci sorprendere per strada da nessuno. C'erano i fascisti che con la paura
potevano scambiarci per partigiani e i partigiani che potevano scambiarci
per fascisti. L'unica soluzione che mi venne in mente fu quella di cantare,
proprio a squarciagola, canzoni "neutrali". Tutti furono d'accordo, si
rivolgevano a me con fiducia, pareva che sapessero chi ero.
Per quei sei o sette chilometri cantammo "La montanara".
Rientrai a casa alle otto di sera; stavo veramente male e rabbrividivo per
il freddo, ma anche per il senso di colpa che mi tormentava per non aver
portato a compimento la missione affidatami.
***
La sera del 16 febbraio 1945, mentre risalivo la rampa del castello per
vedere se si scorgeva qualcosa sulla Serra, vidi attraverso i vetri di una
finestra qualche figura che prontamente si ritraeva. Pensai a qualche ospite
che si teneva nascosto, ma non notai nessun altro movimento anormale.
Il giorno successivo il buon Pitetto ci disse che al castello c'erano i
partigiani. Rimasi stupita dal fatto che non si fossero fatti riconoscere,
76
La lapide commemorativa
Del Caduto partigiano
Dero Azeglio (Turiello),
al castello di Masino,
sul luogo della battaglia.
non fossero venuti da noi. Pitetto disse che erano tanti, tanti. Pensai che
fossero della GL.
A mezzogiorno del 18 cominciammo a sentire raffiche di mitra da ambo
le parti. Il combattimento durò per un po' di ore, finché scese la sera e tornò
il silenzio. La marchesa, alle mie domande, rispose preoccupata che non
conosceva quei partigiani, sapeva soltanto che erano del Biellese. Ero
sempre più stupita. Mentre risalivamo la rampa del castello, Egle ed io
trovammo i cadaveri di due fascisti, molto giovani (dalle nostre informatrici
sapemmo poi che erano stati reclutati al Ferrante Aporti di Torino, casa di
correzione per giovani delinquenti).
I fascisti fuggiti avevano dato l'allarme e i tedeschi arrivarono il giorno
dopo, con camion e grandi forze. Piazzarono una mitragliatrice pesante sul
campanile della chiesetta di San Rocco, all'inizio del paese. La nostra casa si
trovava proprio sulla traiettoria della mitragliera, in direzione del castello, e
le prime raffiche tedesche colpirono le nostre finestre; i colpi entrarono e si
conficcarono nella parete di fronte (per fortuna eravamo nell'altra stanza). I
nazisti alzarono il tiro e mirarono al castello, ma non ci furono risposte. I
partigiani erano riusciti ad aprirsi un varco dalla parte posteriore del castello
e ad allontanarsi verso Vestignè. Ma avevano lasciato un morto, Dero
Azeglio (Turiello).
Eravamo stupite di non vedere nemmeno uno degli ospiti nascosti nel
castello. Prima c'erano il conte Vagnone, il barone Mazzonis, il marchese di
Valperga. Si erano dileguati. I lavoranti pensavano ad una galleria del
castello che andava chissà dove. Per questa ragione i tedeschi non trovarono
nessuno.
77
CAPITOLO SESTO
Ritorno a casa
Nel castello erano rimasti soltanto la marchesa, il figlio Luigino con la
governante Novellis, qualche altro bambino e una anziana contessa. La
marchesa si rendeva perfettamente conto che erano possibili altre incursioni
di nazifascisti, ma era una donna coraggiosa e intelligente. Stette a vedere
che cosa sarebbe successo.
Infatti, il mattino successivo arrivarono due camion e diverse auto di
tedeschi. Saccheggiarono il castello, colmarono i camion di quadri,
argenteria, arazzi, suppellettili di valore e viveri.
Li vedemmo partire tutti soddisfatti. Il comandante salutò la marchesa
con una impeccabile battuta di tacchi. Lei, che conosceva il tedesco e il
francese, rispose con il sorriso sulle labbra:
- Adieu, grand cochon (addio, grande porco).
Eravamo tutti costernati. Domandai alla marchesa dove erano finiti i
suoi ospiti ed ella mi rispose garbatamente che anche lei, come me, aveva i
suoi segreti.
C'era il problema dei viveri; in castello non era rimasto più niente,
nemmeno un grammo di farina. Portammo i bambini, compresi Nerina e
Luigino, nell'asilo delle suore del paese, dove si potè allestire una specie di
mensa, anche per qualche anziano, la vecchia contessa, la marchesa con il
figlio, la governante e la mia famiglia. Per qualche giorno furono utili le
nostre provviste, specialmente la farina per il pane, finché la marchesa
mandò a fare rifornimento di vettovaglie presso i suoi fattori, a San
Damiano e in altre sue cascine.
***
Qualche giorno dopo, temendo altre incursioni o rappresaglie dei
nazifascisti, feci portare mia madre e Nerina a Borgomasino, nella casa di
Domenico, l'autista, con l'auto che la marchesa ci mise a disposizione. Io e
78
Egle le accompagnammo. Ma dopo tre giorni di permanenza nella nuova
abitazione la mamma si sentiva male, e noi non sapevamo come fare.
Intanto Remo mandò a dire che sarebbe venuto a prenderci appena
possibile, poiché sia lui che il comando ritenevano che a Masino, dopo la
battaglia, non eravamo più al sicuro.
Partii con Domenico e andai a prendere mamma e Nerina. Quando mi
videro piansero di gioia, si sentivano sole e abbandonate, in preda alla
paura accumulata in quei giorni.
Al ritorno, tra Borgomasino e Vestignè, scorgemmo un uomo in
bicicletta, il cantoniere, che ci faceva strani cenni additando il cielo con la
mano. Guardammo, e capimmo il pericolo: due aeroplani alleati (Pippo?)
stavano prendendo quota e miravano alla nostra auto. Domenico fermò
immediatamente, scese, prese per mano sua moglie e scappò lontano,
saltando al riparo dietro il ciglio della strada. Ero disperata, gridai a Nerina
di scappare, ma la piccola, terrorizzata, mi rimase accanto; aveva paura ad
allontanarsi da sola.
Camminare era difficile, la strada era ghiacciata, si scivolava; la mamma
era pesante, non si reggeva in piedi, e il primo aeroplano si stava
abbassando per mitragliare. Ci buttammo giù, sulla strada, ma ci trovavamo
a pochissima distanza dalla macchina (il cantoniere, dopo l'incursione,
misurò lo spazio fra noi tre e l'auto, che risultò di tre metri).
Cercai di coprire Nerina buttandomi su di lei, mentre mamma mi stava
Il mitragliamento dell’auto che portava mia madre, Nerina ed io al castello, tra
Borgomasino e Vestignè, in un mio dipinto ad olio.
79
accanto. Sentimmo la prima raffica dell'aereo e, vedendo che aveva colpito
soltanto l'auto e non noi, mi sentii un poco rinfrancata. Pensai: "Se il primo
aereo è riuscito a evitarci, speriamo che anche l'altro sia così bravo."
Il secondo aereo dovette accorgersi che eravamo soltanto due donne e
una bambina, fece due giri a vuoto, dandoci il tempo di allontanarci. Ci
buttammo giù dalla scarpata della strada, quasi al riparo. Nerina era
terrorizzata, cercava di nascondersi premendo il viso sulla neve ghiacciata,
scorticandosi le guance e il naso e gridando:
- No, no, basta !
Mamma tremava, non diceva nulla, era ammutolita. In verità anch'io ero
costernata; sarebbe stato proprio da sciocchi morire a causa di un insulso
mitragliamento.
Dopo due sventagliate, entrambi gli aerei se ne andarono. Domenico e
sua moglie si avvicinarono, aiutandomi ad alzare la mamma e chiedendomi
mille volte scusa per essere scappati senza darmi una mano per aiutarmi. In
quelle condizioni, avrei voluto rispondergli male, ma poi capii che la paura
era stata più forte dell'altruismo.
Portammo mia madre e Nerina in una vicina chiesetta dedicata a un
santo (Domenico e sua moglie fecero poi fare un quadro che appesero in
quella cappella, per ringraziare qualcuno che li aveva salvati). Mamma era
svenuta; andai alla macchina e presi la borsa con i medicinali (l'unica cosa
rimasta intatta, poiché l'auto era ridotta come un colabrodo per le raffiche
degli aerei).
l cantoniere, che nel frattempo si era allontanato, ritornò a vedere che
cosa ci era successo e prestò la sua bicicletta a Domenico, che andò al
castello in cerca di aiuto per la mamma.
Papà, Egle e la marchesa avevano seguito le evoluzioni degli aerei con
preoccupazione. Sapevano che a quell'ora solo noi potevamo essere il loro
bersaglio, poiché altre auto, a parte quelle dei nazifascisti, non potevano
viaggiare senza il permesso speciale che, nei dintorni, aveva soltanto la
marchesa.
Quando arrivammo al castello, sulla carrozza che ci aveva mandato la
marchesa, papà, pover'uomo, ci abbracciò tutte e tre, piangendo.
***
Dopo qualche tempo Remo venne a prenderci con due "dome". Mi disse
che i due partigiani in borghese che lo accompagnavano mi avrebbero
80
portata in una cascina di Livorno Ferraris, la Spinola, una tenuta modello. Mi
raccomandò di stare tranquilla, anche se poco tempo prima, il 1° marzo, in
quella cascina avevano catturato numerosi partigiani, uccidendone poi la
maggior parte a Salussola. Non erano stati i proprietari a denunciarli, ma una
donna della cascina Morone, al di là del canale Cavour.
Remo mi raccomandò di tenere sempre la pistola a portata di mano e di
stare sempre in compagnia di qualcuno della famiglia.
Mamma piangeva spesso, ma si tranquillizzò quando seppe che
l'avrebbero portata a Tronzano con papà, Nerina e Egle, dove abitavano due
fratelli di mio padre, zio Umberto e zio Luigi, capoguardia del Comune (ma
a quell'epoca si trovava in carcere a Vercelli da qualche mese, per attività
antifascista e collaborazione con i partigiani). Suo figlio, Valter, era
impiegato nel Comune di Biella.
La zia Pierina aveva affittato due camere per i miei genitori, in una casa
poco distante da lei, dicendo che erano parenti di Torino, sfollati per paura
dei bombardamenti. Tante altre famiglie facevano così, quindi nessuno nutrì
qualche sospetto sulla loro identità.
Io restai per una settimana alla cascina Spinola, proprio una azienda
agricola modello, con alloggi e corridoi da fare invidia, quasi roba da film.
Mi tenevo sempre la pistola a portata di mano e stavo sempre vicino a
Dionisia, una maestra con qualche anno più di me; dormivamo nella stessa
camera. Sentivo di peggiorare, il dolore alla schiena diventava più forte.
Inoltre ero troppo isolata, malgrado la lettura di buoni libri e le
conversazioni. Quella non era la mia vita, mi sentivo come un bruco nel suo
bozzolo.
Un giorno non ne potei più; salutai tutti, mi feci prestare una bicicletta e
partii per Tronzano, distante dieci chilometri circa. Quando arrivai vidi
mamma un poco più tranquilla, stava meglio.
***
Grazie ai membri della locale SAP (Squadre d'azione partigiane), mi
misi in contatto con Ugo, Alcide Brusa e altri militanti del Fronte della
Gioventù di Vercelli. Un giorno, con Egle, decidemmo di andare a vedere
la nostra casa. Partimmo da Tronzano in bicicletta, passando per San
Germano e Olcenengo, quindi dal mulino della Cantarana e dal Canadà;
percorrendo la "strada della catena", costeggiammo la cascina Bruciata,
l'orto del Volpara e quello del Carlin Rosso, di fronte a casa nostra.
81
Andammo da mia cugina Tin. L'incontro fu commovente, ma la Tin e
suo marito Toiu (Vittorio) provarono tanta paura per noi, temendo che
qualcuno ci avesse viste e magari fatto una spiata. Noi li rassicurammo,
perché avevamo calcolato di arrivare quando ormai faceva buio, così
sarebbe stato difficile vederci.
I miei cugini avevano in custodia le chiavi di casa mia, ma non
servirono, perché i fascisti, quando ci cercarono, l'anno precedente, non
trovandoci avevano sfasciato la porta e tutto il mobilio. Rimanevano ancora
in piedi mezzo armadio e il letto di ferro dei miei genitori, un po'
bruciacchiato. Il piumone del letto grande, qualche lenzuolo, la trapunta, il
grammofono con i dischi e la radio erano salvi, la Tin li aveva messi al
sicuro, un poco da lei e un poco dai Gentile, i nonni di Nerina.
Ci fermammo da loro a dormire e al mattino presto tornammo a
Tronzano.
***
Finalmente arrivò il 25 aprile.
La notizia che i partigiani avanzavano verso i paesi e le città ci inondò di
sollievo e di entusiasmo; avremmo potuto ritornare alle nostre case. Lo
straniero era sconfitto, il fascismo abbattuto, annientato. La volontà del
popolo sano trionfava sulla dittatura, lo schiavismo, il razzismo. La guerra
era FINITA.
Il 29, Egle ed io tornammo a Vercelli in bicicletta. Indescrivibile
l'accoglienza che ci fece la gente del nostro rione. Non so come, la voce del
nostro arrivo si era sparsa con estrema rapidità da una casa all'altra. Mentre
percorrevamo la via principale che conduceva a casa nostra, molte persone,
per la maggior parte donne, correvano ad abbracciarci, piangevano, ci
ringraziavano, sapevano più di noi come i fascisti ci avevano ridotta la casa.
La mamma di Ermanno Agosti, un partigiano che fu ucciso dai fascisti
in montagna, mi venne incontro con le braccia tese, come se invocasse
chissà quale grazia, esclamando:
- Sei tornata, grazie a Dio, almeno tu sei tornata, Bianca, almeno tu sei
qui, hai gli anni del mio Ermanno e mi sembra di averlo qui abbracciando
te.
Sentii un groppo alla gola, non sapevo che Ermanno era morto. Dopo un
istante di imbarazzo, abbracciai quella madre con il viso inondato di lacrime
e mi sentii parte di lei. Emanava tanto dolore e tanto amore da farmi sentire
82
quasi colpevole, perché io ero tornata e suo figlio no.
Raggiungemmo la nostra casa, finalmente alla luce del sole (beh, il sole
era poco, perché piovigginava e faceva freddo, ma era bello ugualmente).
Lasciai Egle dalla Tin e dalle sue amiche, che la circondarono subissandola
di domande, e tornai in strada.
Dai partigiani del rione seppi dove si trovava il comando di piazza e lo
raggiunsi. Chiesi di mio fratello Remo e appena lo vidi ci abbracciammo.
Per riportare a casa mamma, papà e Nerina, mi fece rilasciare dal
comandante di piazza, Spartano, un permesso speciale di transito per
superare i posti di blocco che i partigiani avevano istituito sulle strade
principali che portavano in città. C'era un grave pericolo, una colonna
dell'esercito tedesco ormai sconfitto non si era arresa, voleva consegnarsi
solo alle forze alleate, americane o inglesi. I nazi avevano minacciato di fare
terra bruciata al loro passaggio, perciò eravamo permanentemente all'erta.
Mi misero a disposizione un camioncino e due partigiani di scorta e
partimmo per Tronzano, la Egle ed io. Tutto andò liscio fino ad un posto di
blocco all'ingresso di San Germano. Ci fermarono chiedendoci il
lasciapassare; poi guardarono all'interno del camioncino, coperto da un
telone poiché piovigginava, mi videro con Egle ed io li salutai festosamente.
Vederli cosi in libertà era veramente bello. Però la mia gioia durò poco: un
gappista del gruppo mi guardò ed esclamò:
- Guardate chi c'è qui; abbiamo preso una spia, finalmente l'abbiamo
beccata.
Tutti si sporsero per guardare dietro il telone; io mi voltai per vedere di
chi stavano parlando, ma il soggetto, quella che chiamavano la spia, ero io.
Il piccolo uomo, con un fucile più alto di lui, ce l'aveva con me. Mi presero
per un braccio, mi trascinarono giù in malo modo e mi tolsero la pistola. A
nulla valsero le proteste dei due partigiani, nostre guardie del corpo, che
esibirono ancora il lasciapassare ripetendo che il documento era firmato da
Spartano, comandante della piazza di Vercelli, che ero la sorella di Remo e
che garantivano la mia qualifica di partigiana. Furono disarmati anche loro
e piantonati.
Mi domandarono chi era la donna che stava con me; risposi che non la
conoscevo (ignoravo la sorte che mi attendeva e, se la cosa avesse preso una
brutta piega, almeno Egle avrebbe potuto andare da mamma e papà a
riferire l'accaduto). Ma Egle di rimando disse:
- Ma non fare la stupida. Come, non mi conosci? Ehi voi, sono sua
sorella.
83
- Allora vieni giù anche tu.
Tenendomi in mezzo a loro, mi portarono sù e giù lungo la strada
principale del paese, gridando che avevano preso "la spia internazionale".
Cose dell'altro mondo! Ci sarebbe stato di che morire dal ridere, ma per me
tutto ciò si stava trasformando in un incubo. Mentre passavo le donne mi
prendevano a schiaffi e mi sputavano in viso, sia all'andata che al ritorno. Se
non mi venne allora un colpo apoplettico, non mi verrà mai più.
Dopo quella passeggiata allucinante, malgrado le mie proteste la
situazione non migliorò. Ci portarono nella caserma dei carabinieri,
presidiata dal GAP e dalla SAP. Il piccolo uomo incitava gli altri affinché
fossi fucilata. Era incredibile, non riuscivo a capacitarmi di una simile
situazione e di esserne proprio io la protagonista.
Qualcuno, più intelligente, propose:
- Aspettiamo che arrivi il comandante.
Dopo circa un'ora si aprì una porta ed entrarono cinque o sei persone; io
pensai: "Ora viene il bello". Ero veramente preoccupata, l'euforia poteva far
commettere sbagli irreparabili, in special modo da persone che avevano
bevuto un po' troppo. Ma uno dei nuovi arrivati disse:
- Ciao, Bruna, come va ?
Io non lo ricordavo bene, ma poi mi sovvenni, era il professore che
parlava inglese, venuto al comando quando c'era la missione Cherokee per
discutere la proposta assurda del generale Alexander; si chiamava Giuseppe
Bellaguardia. Soggiunse:
- Dov'è la donna, la spia ?
Il piccolo uomo mi indicò dicendo che ero io. Giuseppe andò su tutte le
furie, specie quando gli raccontai quanto era successo e avevo subìto.
Confermò che ero la sorella di Remo (conosciutissimo, perché operava
anche da quelle parti) e non sapeva come questi avrebbe reagito appena
informato di quel che mi avevano fatto.
Ci fecero tante scuse e ci restituirono le nostre armi. In verità la mia
pistola l'avrei usata volentieri contro quel piccolo uomo. Risalimmo sul
nostro camioncino, dove i due partigiani ci attendevano preoccupatissimi
per la mia sorte, e ripartimmo per Tronzano.
***
Mamma e papà quando videro la nostra casa piansero, era peggiore di
quanto io e Egle gli avevamo detto.
Per rimetterla in piedi, qualcuno ci diede un armadio, qualcuno un
cassettone, altri un tavolo e tirammo avanti, eravamo a casa nostra.
84
Scarseggiava il cibo, Remo era nella sussistenza, ma non ci portava a
casa mai niente. Un giorno venne a fare visita alla mamma Nino Baltaro, il
commissario politico della nostra divisione, che era anche un nostro lontano
parente; saputo che Remo non portava a casa nulla, ci fece avere un po' di
generi alimentari e anche del sale, pressoché introvabile.
Pure per il vestire era veramente un problema. Non avevamo più una
lira, i vestiti da uomo li avevamo dati ai militari che scappavano l'otto
settembre, anche quelli di Bruno, perché allora era più urgente salvare i
fuggiaschi dai nazifascisti che pensare di conservarli per noi. Gli indumenti
da donna, già scarsi, li avevamo consumati.
Qualche giorno dopo la Liberazione vennero scarcerati i detenuti
politici, compreso lo zio Luigi che fu condotto a casa sua a Tronzano, dove
fu accolto festosamente.
***
Quando si divulgò la notizia della tragica uccisione delle sorelle Elsa e
Laura Scalfi e della loro nonna, insieme allo zio Luigi Bonzanini, rimasi
indignata. Conoscevo le giovani, abitando nello stesso rione, sapevo che il
loro padre era un sottufficiale e attivista fascista, ma da quanto mi risultava
le figlie erano ragazze a posto come tante altre. Durante il periodo da me
trascorso in montagna non avevo mai saputo nulla al loro riguardo. La
sentenza emessa dal comando partigiano, che dispose la fucilazione
immediata dell'esecutore del massacro, Felice Starda detto "Bugia", fu
esemplare.
***
Ero a disposizione del comando di piazza; un giorno fui mandata ad un
posto di blocco presso la Manifattura Rondo, presidiato dai ragazzi della
182.a brigata. C'erano Carnera, Fulmine, Marinaio, Brio, Ricovo, Pace,
Folgore e tanti altri. Vidi una motocicletta e domandai se potevo provarla;
mi dissero di sì e mi indicarono le marce, l'acceleratore, i freni e via di
seguito; mi dovettero spingere perché la moto partiva solamente con la terza
marcia. Sembrava una gara di corsa. Così partii, ma non sapevo fare altro se
non andare diritto.
Mentre sfrecciavo veloce arrivò mio fratello, mi fece inseguire da Brio e
Marinaio con un'altra motocicletta per darmi istruzioni e andò tutto bene. Fu
così che mi innamorai delle moto, che per tanti anni furono la mia più
grande passione.
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I giorni passavano, Egle stava con i volontari della Croce Rossa, che
andavano con i camion al confine con l'Austria ad attendere il rimpatrio
degli internati. Bruno fu scaricato a Pescantina e finalmente portato a casa.
Quando arrivò, pesava trentotto chili, ma era salvo. Disse che, nei lager, i
nazisti avevano dichiarato che se volevano ritornare in Italia potevano farlo,
firmando l'arruolamento nelle forze armate repubblichine. Lui, Carlo
Casalino, Dino Fornaro e gli altri di Vercelli non firmarono, preferirono
restare là, magari morire, piuttosto che venire a combattere contro di noi.
Quella era stata una decisione veramente eroica.
Dal comando piazza avevo avuto l'incarico di cercare e scovare le
donne (se non erano ancora fuggite con i resti delle truppe fasciste) che
avevano collaborato con i nazifascisti in città. Ne conoscevo un paio, e tra
queste la Bianca Molinaro; era di una crudeltà indicibile, lavorava al Bel
Giardino (un albergo sequestrato dai fascisti, luogo di triste memoria, dove
si trovava l'UPI, Ufficio politico investigativo); per le torture utilizzava
anche i cani. Proprio la Molinaro possedeva un lupo tedesco al quale si
accompagnava quando andava ad arrestare qualche antifascista. Rividi
quella ragazza cadavere nella camera mortuaria dell'ospedale di Vercelli.
Probabilmente qualcuno l'aveva giustiziata.
Per fortuna arrivò anche il caldo, cosi potevo fare asciugare in fretta i
vestiti che indossavo e rimetterli, perché non ne avevo di ricambio. Mio
padre non aveva un lavoro, nel frattempo era stato licenziato dal suo
principale, che aveva giustificato il suo gesto sostenendo che papà si era
assentato per troppo tempo e che ormai era in età pensionabile (aveva 61
anni). Il padrone conosceva le vicende della nostra famiglia, anche lui
aveva contribuito a nascondere i prigionieri alleati, però aveva sottratto i
loro numeri di matricola per poi gloriarsene davanti alle autorità del CLN
(Comitato Liberazione Nazionale). La liquidazione che pagò a mio padre fu
una somma irrisoria, dopo ventisei anni di attività quale camionista. Papà
vendette il grammofono e tanti dischi a Gaspare Montobbio per comperare
dei viveri.
Un giorno un ragazzo arrivò a casa mia e consegnò a mia madre un
pacco con un biglietto, sul quale era scritto: "Scusami se mi permetto di
inviarti queste piccole cose, so come ti hanno ridotto la casa e non hai di che
cambiarti d'abito. Ti prego di accettare quanto ti dono, è poca cosa in
confronto a quello che ha fatto la tua famiglia. Ti abbraccio. Un'amica." Nel
pacco c'erano una gonna, una camicetta, una maglietta, un vestito, una
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giacca, due canottiere, tre paia di mutandine, due paia di calze, due camicie
da notte.
Cercai di rintracciare la donatrice, tramite la Maria Scarparo, una
collaboratrice della Resistenza. Riuscii a risalire fino alla quarta delle
persone che si erano tramandato il pacco, poi più nulla. Su un giornale
locale feci pubblicare un ringraziamento alla ignota "amica". Ancora oggi le
sono grata, non ho mai dimenticato quel gesto di solidarietà.
***
Collaborai subito con il Partito comunista della città (ero già iscritta dal
1944). Si costruiva l'organizzazione, si tenevano riunioni e comizi. Chiesi
ed ottenni di presenziare ad un comizio di partigiani nel salone delle scuole
di San Germano. Dopo quanto mi era successo, volevo, in un certo qual
modo... riabilitarmi. Quella sera l'assemblea era veramente imponente, era la
prima volta, dopo ventitré anni di dittatura fascista, che si poteva parlare
liberamente. Mi presentò Giuseppe Bellaguardia, il comandante del GAP
locale che mi aveva salvato la vita poco tempo prima.
- Vi presento la compagna partigiana Bianca Grasso - disse, - con il
nome di battaglia Bruna. Poche settimane or sono, in questo paese, è stata
scambiata per una spia, e di conseguenza maltrattata da voi tutti. Mi sento in
dovere di farle le più sentite scuse da parte vostra per l'enorme errore
commesso.
Vi fu uno scroscio di applausi. Chi mi si avvicinava e mi baciava, chi mi
invitava a casa sua. Prima di iniziare il comizio, dissi:
- Vorrei parlare con quell'uomo che mi arrestò.
Diedi i suoi connotati, ma sembrava che nessuno lo conoscesse; vidi
due uomini che erano con lui quel giorno, ma dissero che non ricordavano
chi fosse, non sarebbero stati in grado di trovarlo. Ero furiosa. Lo cercai
altre volte, ma non lo trovai mai. Ancora oggi ho stampato quel viso nella
memoria e se non fosse invecchiato sarei certa che vedendolo lo
riconoscerei.
In giugno mi sentii improvvisamente prudere tutto il corpo: avevo la
scabbia. Incredibile. In montagna non avevo mai sentito niente e mi si era
sviluppata a casa, dove mi potevo lavare senza preoccupazioni di
economizzare l'acqua come succedeva a volte in montagna.
Il medico mi prescrisse la terapia da seguire: fare il bagno tutti i giorni
con sapone allo zolfo; impomatarmi tutta con crema allo zolfo; indossare
una camicia lunga; cambiare le lenzuola tutti i giorni e farle bollire con la
camicia. Per dieci giorni seguii tutta quanta la terapia, ma senza esiti
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apprezzabili. Mi ricoverai nel reparto infettivi dell'ospedale. Era pieno di
partigiani, anche per altre malattie più importanti. Suor Teofila, che
conoscevo quale collaboratrice nelle vicende dell'otto settembre, era uno
spasso; ci canzonava per come ci si grattava. Passeggiavamo con un
camicione lungo fino ai piedi, con maniche lunghissime per coprire le mani;
puzzavamo tutti di zolfo (al buio, con un poco di fantasia e con quell'odore,
si poteva immaginare che fossimo usciti da un girone dell'inferno).
Questo supplizio durò per quindici giorni; poi, ristabilita, tornai alla mia
tanto sospirata casa.
Il partito mi chiese se volevo andare alla sua scuola, fare un corso di sei
mesi. Consultai i miei genitori, furono d`accordo e accettai. Ma le mie
condizioni di salute mi impedirono di fare questa esperienza.
In luglio il mio dolore alla schiena stava aumentando. Fiamma mi
osservò e un giorno disse:
- Bruna, stai perdendo troppo peso; fà una cosa buona, và a farti fare una
radiografia dei polmoni all'ospedale.
Ogni tanto tossivo, avevo una tosse stizzosa e a Fiamma non piaceva,
non potevo rifiutarmi. Andai all'ospedale. Il medico radiologo guardò la
lastra e diagnosticò:
- Cuore di ferro, polmoni d'acciaio.
Fiamma si rassicurò un poco, ma nei primi giorni di settembre mi disse,
molto garbatamente:
- Senti, Bruna, le radiografie che hai fatto in ospedale non mi
soddisfano, stai veramente preoccupandomi. Oltretutto devi andare alla
scuola di partito e io vorrei che tu partissi sana, "mens sana in corpore
sano". Perciò fammi un favore, và al dispensario a farti visitare dal dottor
Re. Non avrai mica dei pregiudizi contro il dispensario, vero ?
- No, no, Fiamma, è fatto apposta per aiutare, curarci e guarirci; quanto
dice la gente non ha importanza.
Poiché la maggior parte della gente, se sentiva che qualcuno andava in
dispensario, lo bollava subito come tisico e cosi veniva un po' emarginato.
Questo accadeva cinquant'anni or sono, quando la penicillina in Italia era
ancora pressoché sconosciuta.
Il mattino successivo andai al dispensario; il dottore mi visitò, mi chiese
quali sintomi avevo e poi disse:
- Non si è curata la pleurite ?
- Quale pleurite ?
- Non ha mai avuto dolori alla schiena, in basso, dalla parte sinistra ?
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- Si, che li sentivo, eccome; ma non gli davo tanta importanza.
- Aveva una pleurite secca, ed ora ha una brutta ricaduta. Lei è sola ?
- No, ho i miei genitori, una sorella e un fratello. Ma che cosa vuol dire ?
- E` venuta qui sola, oggi ?
- Si, ma perché mi dice questo ? Senta, dottore, io so che sono malata,
per questo sono qui; dove mi trovavo prima, in montagna con i partigiani,
non era possibile curare una pleurite; ci si fermava quando c'erano ferite più
gravi. Ora, se sono tbc me lo dica, se sono ancora curabile tanto meglio, ma
non si preoccupi d'altro. L'unica mia angoscia è che procuro a mia madre,
già tanto provata, un altro dolore.
- Capisco. Senta, l'abbiamo presa in tempo, però deve ricoverarsi
immediatamente in ospedale, da domani. Forse ce la farà prima che venga
intaccato il polmone.
Salutai e andai dalla Fiamma, dicendole tutto. Della scuola di partito,
neanche parlarne. Al posto mio ci andò la Luigina, che dopo la scuola
divenne una buona militante.
Il problema era di come spiegarmi con mia madre senza farla tanto
soffrire. Come potevo intavolare un discorso per non colpirla troppo ?
Quello stesso giorno venne a pranzo da noi zio Luigi, che qualche anno
prima era stato ricoverato in sanatorio per circa due anni e poi era guarito.
Perciò, durante il pranzo, per avviare il discorso, gli domandai:
- Zio, quando ti sei ammalato di pleurite, come ti sentivi? Avevi la
febbre ?
- Si, avevo sempre un po' di febbre. Mi sentivo sempre un po' stanco,
svogliato.
- Mangiavi normalmente ?
- No, proprio pochino. Perché me lo chiedi ?
- Cosi, tanto per curiosità.
Non sapevo andare avanti nel discorso. A questo punto mia sorella
intervenne, chiedendomi la ragione di tutte quelle domande.
- Senti, Bianca, un motivo valido devi averlo, per fare tante indagini
sullo zio. Altrimenti non entreresti in argomenti così personali.
- E va bene - risposi.- Ecco di che cosa si tratta. Mamma, tu e papà
eravate d'accordo che io andassi a scuola di partito e sarei stata lontano da
casa per sei mesi. Invece, ora non vado più tanto lontano, starò a Vercelli e
voi potrete venire a trovarmi tutti i giorni. Devo ricoverarmi in ospedale da
domani, per una ricaduta della pleurite avuta in montagna. Ecco, questo è il
motivo, non sapevo come dirvelo.
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CAPITOLO SETTIMO
Nostalgia della montagna
Venni ricoverata in ospedale nella corsia di medicina. L'ospedale era
vecchio, ma proprio vecchio (del 1200), aveva le corsie disposte a crociera,
da un lato la medicina, dall'altro la chirurgia, da un altro l'otorino e infine
l'urologia e la cardiologia. I letti erano uno vicino all'altro, ci si poteva
vedere da ogni angolo, niente riservatezza, niente intimità, neanche la più
elementare; si era praticamente esposti alla curiosità di tutti, dai malati ai
visitatori.
Al centro della crociera, nel reparto uomini, ben piantato, c'era pure
l'altare. Tutti i giorni, al mattino e alla sera, si recitava il rosario; alla
domenica, la messa.
L'altezza dell'interno era enorme; in alto scorreva tutt'intorno un
ballatoio a ringhiera. Le finestre erano così in alto che nessuno andava mai a
pulirle o a spolverarle, tanto è vero che le ragnatele cadevano giù. La pulizia
dei letti, peraltro, era impeccabile, ma l'igiene generale molto discutibile;
l'assistenza era valida, i dottori pure, però le suore imperavano.
Il primario e il suo aiuto erano nostri collaboratori; con molti altri
medici, avevano rifornito di medicinali le nostre piccole infermerie in
montagna.
Mi sistemarono in un letto vicino alla saletta delle visite. Era un posto
strategico, potevo vedere in tutte le corsie. Almeno quel posto mi piaceva.
Stetti ricoverata per tre mesi; il primo mese dovevo persino mangiare
stando coricata, senza mai sedermi; dal quindicesimo giorno potevo alzarmi
solamente per andare in bagno. Ero veramente messa male.
Ogni giorno, anche fuori orario, venivano tante persone a farmi visita;
ero ben coccolata, mi portavano zucchero, caramelle, creme, biscotti,
giornali, libri. Le infermiere erano meravigliose, mi conoscevano per la loro
collaborazione nell'attività clandestina ed erano a conoscenza di tutto quanto
90
avevano fatto i fascisti alla mia abitazione e alla mia famiglia. In breve, mi
subissarono di premure (anche perché stavo male). Ricordo Primina,
Rosanna, Francesca, Maria, Edmea, quante altre? E poi suor Teresita, suor
Guglielmina, piccola, anziana, magra, sembrava una bambolina di biscuit. I
medici erano molto premurosi, mi facevano tante di quelle iniezioni che
sembravo un colapasta.
Un giorno accadde un brutto episodio. Avevo sul comodino un libricino
tascabile tratto da un periodico femminile, che descriveva la storia di due
giovani; sulla copertina c'era la figura dei due innamorati, con le guance
appoggiate l'una all'altra; il titolo era "Un grande amore". Passò una suora e
mi disse:
- E' il vostro ?
Ci davamo del voi come in tempo di fascismo.
- No, me lo hanno prestato.
- L'avete già letto ?
- No, ma se vi interessa lo potete prendere, io lo leggerò dopo.
Apriti cielo ! Sembrava una furia; avevo interpretato le sue domande
come una sottintesa richiesta, invece lei mi voleva sottrarre il libro e basta.
- Come osate farmi una simile proposta ? Questo libro è scandaloso; lo
prendo e non lo vedrete più.
- Eh, no ! Non potete farlo; primo, perché il libro non è vostro e sarebbe
appropriazione indebita; secondo, non è un libro indecente come dite voi,
poiché è in vendita liberamente. Guardate che lo devo restituire.
- E' finito il tempo in cui potevate fare tutte le sconcezze che volevate,
comprese le uccisioni.
Non ci vidi più. Replicai:
- Sentite, suora, avete tempo per restituirmelo fino a domani sera alle
sette, quando lascerete il servizio, dopo di che verrò a prendermelo.
Ero fuori di me, indignata. Le degenti nei letti vicino al mio avevano
sentito tutto, anch'esse sorprese e amareggiate. Mi calmarono dicendomi che
scherzava, che mi avrebbe senz'altro restituito il libretto.
Il giorno dopo feci rapporto, denunciando quel fatto al direttore
dell'ospedale. Alla sera, la suora passò davanti al mio letto per andarsene,
avendo finito il turno. Le chiesi il libro e lei mi rispose:
- Ve l'ho detto ieri, non rivedrete più quel libello.
- Adesso basta! - Non ero in grado di alzarmi, però vicino a me sostava
il carrello dei piatti puliti; ne presi uno e glie lo lanciai, colpendola alla
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schiena; il piatto cadde e si infranse; la suora se ne andò. L'infermiera di
servizio, la Primina, vide e sentì tutto.
Il mattino dopo venne a farmi visita il direttore, un nostro compagno,
con il libro che la suora mi aveva sottratto.
- Ecco - disse,- il libro è qui; però tu non dovevi tirarle il piatto, non è
bello ciò che hai fatto; il piatto rotto lo devi pagare, è proprietà
dell'ospedale.
- Va bene, io pago il piatto, ma se voi tollerate soprusi del genere da
parte di chi ha sempre abusato del suo potere, che vuole limitarci e
controllare le nostre scelte, allora di libertà ne abbiamo conquistata
veramente ben poca.
Da quel giorno diventai la beniamina della suora. Mi portava tante
leccornie, quelle che davano ai malati paganti: creme, zabaglioni, cervella
fritte, budini, a qualsiasi ora del giorno. Questo peraltro faceva parte della
terapia, mangiare sovente, molto e bene.
Stetti ricoverata dai primi di ottobre fino alla vigilia di Natale. Quando
mi dimisero mi raccomandarono di fare una convalescenza di due mesi a
mezza montagna, per respirare aria pura. Per un anno non dovevo andare in
bicicletta, non sudare, non fare bagni in acqua fredda, non lavorare a maglia
con i ferri; era un supplizio.
Dopo Natale andai a Pianceri Alto, in Valsessera, ospite dei miei cugini.
Anche il loro figlio Franco era stato partigiano, con Gemisto. La solidarietà
e l'affetto di quella famiglia mi furono di grande aiuto.
Quante passeggiate in mezzo alla neve ! Mio cugino Franco mi
accompagnò ad Ailoche per farmi vedere una miniera di ferro. La strada era
brutta e il ritorno lo feci in sella a un mulo della miniera,
Ritornai a casa a fine febbraio e mi sottoposi al controllo del dispensario
ogni tre mesi, per un anno. Tutto procedette bene, ero guarita.
***
Ripresi la mia vita normalmente. Lavoravo presso l'UDI (Unione donne
italiane), ma lo stipendio era poco ed io dovevo pensare ai miei genitori.
Remo aveva fatto l'autista per il partito per un po' di tempo, poi riprese il
suo lavoro da carpentiere: anch'egli doveva pensare alla sua famiglia. Il suo
aiuto ai genitori non poteva che essere modesto.
Venne bandito un concorso per ex partigiani all'INPS di Vercelli.
Presentai subito la domanda alla direzione, che aveva sede in via Cagna.
92
Vercelli, la manifestazione del 25 aprile 1946. Io apro il corteo.
(Fotocronisti Baita, g.c. dal partigiano Giovannimario Vaccino (Olmo), medaglia di bronzo
al V.M.)
Mi ricevette il direttore, il quale, dopo aver letto i documenti, mi disse:
- Una legge vi permette di presentare la domanda di assunzione, ma se
credete di poter entrare qui dentro vi sbagliate. Finché ci sarò io nessuna
persona che abbia fatto parte di quella banda di assassini avrà accesso in
questo istituto.
Rimasi esterrefatta. Mi feci ripetere le ultime parole, credevo di aver
capito male, ma quando risentii per la seconda volta quel discorso inaudito,
risposi:
- Io non entrerò qui dentro, come voi dite, ma dovrete lavarvi la bocca e
il vestito.
Presi il sottomano, sul quale stava appoggiato anche il calamaio
(cinquant'anni fa non esistevano ancora le biro) e glie lo rovesciai tutto
addosso, sporcandogli il vestito e, sperai, anche i pantaloni.
Salutai e me ne andai. Sulla porta dell'ufficio due impiegati si ritrassero;
evidentemente non volevano che il direttore li citasse come testimoni.
Anche questo era un segno di solidarietà.
Non avrei avuto l'impiego, anche se mi spettava per legge, ma non avevo
saputo tollerare gli insulti alle forze partigiane. Quei morti lasciati lassù non
me lo avrebbero perdonato.
93
***
La mia militanza nel partito fu sempre attiva; avevo un po' il pallino
dell'organizzazione e tenevo frequenti contatti con la base. La sera si partiva
con la macchina della federazione in quattro o cinque, e per ognuno di noi
c'era un paese dove tenere riunioni o assemblee.
Fu indetto il referendum del 2 giugno 1946, per la scelta tra monarchia e
repubblica, e partecipai con passione alla campagna di propaganda. A volte
si veniva anche alle mani, perché gli attacchini dei nostri avversari politici
coprivano i nostri manifesti con i loro; noi ne avevamo pochi e non
potevamo permettere che ci distruggessero il nostro già misero materiale. Il
giorno dell'apertura dei seggi fu una vera lotta. Presidiavamo i locali per
timore di sabotaggi da parte dei facinorosi giovani monarchici o fascisti. Io
mi trovai "di guardia" per tutta la notte del sabato, con altri compagni, al
seggio che eravamo incaricati di presidiare, nei vecchi locali del posto di
ristoro mondariso in piazza del Duomo.
Avevo un diavolo per capello; ero stata partigiana, avevo contribuito a
realizzare quanto si stava per compiere in quei seggi; quel giorno si poteva
decidere la sorte degli italiani; ma non mi era concesso il diritto di esprimere
la mia volontà, perché ero giovane. Per poter votare bisognava aver
compiuto ventun anni, questa era la legge, e io ne avevo soltanto venti.
Le elezioni andarono bene, vinse la Repubblica e fu nominata
l'Assemblea costituente, con presidente il comunista Umberto Terracini, che
era stato incarcerato dai fascisti nel 1928 e liberato nel 1943. Il primo
gennaio 1948 entrò in vigore la Costituzione della Repubblica italiana.
***
Nel mese di luglio del '46 entrai come operaia nella Manifattura Rondo,
un complesso di trecento persone circa. Ero addetta al rammendo di
pesantissime pezze di cotone felpato. Venni eletta segretaria delle tre cellule
del partito. La collaborazione e l'affiatamento con le compagne di lavoro e
anche con la commissione interna erano eccellenti. Il direttore, ingegner
Mazzinari, era un'ottima persona, comprensiva, tollerante, amica.
Volli recuperare gli anni perduti, un po' per il fascismo e poi per la
guerra partigiana. Alla sera, dopo il lavoro, presi a frequentare una scuola
privata con una buona insegnante, la professoressa Fassetta Seeman. Per
94
pagarmi la scuola senza pesare sul bilancio familiare, lavoravo dalle sette
del mattino alle diciannove di sera, con un intervallo di mezz'ora per il
pranzo alla mensa della fabbrica. Alla sera, per cena, mangiavo budini o
dolci, per fare in fretta. Andavo a scuola dalle otto e mezza alle undici,
tornavo a casa e studiavo fino alle due di notte. Per stare sveglia prendevo la
simpamina. Dormivo fino alle sei e mezza, poi via in bicicletta, in fabbrica.
Un giorno, dalla professoressa, incontrai il direttore della fabbrica, anche
lui doveva studiare francese e nell'ora di lingue ci trovavamo assieme. Da
quella sera seppe il motivo per cui avevo chiesto di fare il lavoro
straordinario (la mano d'opera scarseggiava): per pagarmi la scuola. Fu
molto comprensivo, mi diede un lavoro meno massacrante, quasi da
impiegata.
Dopo nove mesi di studio (mi stavo preparando per le prime tre classi
magistrali), nel mese di maggio 1947, svenni per ben cinque volte in un
giorno, ero sfinita. Non volevo ammettere di stare male, avevo lavorato
troppo, non potevo lasciare tutto proprio alla fine, ma dovetti arrendermi.
Ero diminuita di peso di ben tredici chili in dieci mesi. In sostanza, soffrivo
di esaurimento nervoso e deperimento organico.
Passai due mesi e mezzo a Bologna, nel convalescenziario per ex
partigiani di Villa Altura. Ero proprio depressa, non dormivo mai, chiudevo
gli occhi solamente quando svenivo. Le compagnie erano ottime, ma io mi
estraniavo completamente. Un giorno arrivò un professore per visitare una
degente paralizzata, che aveva una scheggia nel midollo spinale, dovuta allo
scoppio di una bomba lanciatale dai fascisti quando era con i partigiani in
Romagna.
Il professore, che si chiamava Scaglietti, era un luminare dell'ortopedia.
Mi vide, mi fece fare una radiografia alla spalla (per via del mio braccio
anchilosato) e disse:
- Senti, figliola, per ora posso solamente allungarti il braccio, se vuoi,
ma per la spalla non ci sono tecniche in grado di aiutarti. Sono sicuro che un
giorno si perfezioneranno e guarirai.
Gli risposi un po' sgarbatamente:
- Se non può fare niente per la spalla, il braccio sta com'è. Così, più
corto, mi fa risparmiare la stoffa per la manica.
Chissà perché, quell'omone alto e grosso accolse la mia logica così
indiscutibile con una fragorosa risata.
Dopo più di un mese cominciai ad affiatarmi con l'ambiente, i degenti, i
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Con i miei familiari nel 1965.
medici, le inservienti e il direttore, tutti partigiani. Non c'erano suore.
Cominciai a pensare, mangiare, imparare a giocare a ping-pong (divenni
anche brava, pur giocando da mancina).
Ritornai a casa alla fine di agosto.
Ripresi il lavoro alla Rondo, ma non andai più a scuola; non rammentai
più nulla di quanto avevo imparato studiando con passione e sacrificio. Fu
la rinuncia al mio obbiettivo agognato. Avevo chiesto troppo a me stessa,
mi ero fidata troppo delle mie risorse naturali.
***
Finalmente, alle votazioni del 18 aprile 1948 partecipai anch'io, per la
prima volta. Ero emozionata, felice. Purtroppo, l'esito di quelle votazioni
truffaldine mi fece subire una grande delusione. Il Partito comunista e i suoi
alleati del Fronte democratico popolare subirono una cocente sconfitta. Il
progresso del popolo italiano subì un arresto da non potersi dimenticare.
Pochi mesi dopo, il 14 luglio, ci fu l'attentato a Togliatti. La protesta si
tradusse in una grande mobilitazione popolare, in cui mi sentii coinvolta
come se fossi ancora con i partigiani in montagna. Impiegai in quella lotta
tutte le mie energie e tanta rabbia. Ma tutto finì nel nulla, mentre ancora
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oggi penso che l'azione rivoluzionaria in quel momento avrebbe potuto
cambiare radicalmente e permanentemente la situazione.
***
Venne agosto, il mese delle ferie. La montagna era rimasta la mia
passione e chiesi ai miei genitori se non avevano niente in contrario a che
mi recassi da sola a ripercorrere i sentieri sui monti che conoscevo, a
rivedere le cascine che avevo abitato e la gente che mi voleva bene.
Conoscendo le mie stranezze, non mi negarono il loro consenso, pur
colmandomi di raccomandazioni. Mi equipaggiai con calzoncini corti,
scarponi, zaino, e via !
Con la "littorina" raggiunsi Biella e con il trenino andai a Mongrando.
Come prima tappa feci visita a Barbìs, partigiano, comandante di un
distaccamento della 182.a brigata. Salutai e ripartii subito a piedi arrivando
a Graglia, dove dormii da Giovanna e Gaia, dopo aver trascorso la serata
raccontandoci le nostre vicende dei tre ultimi anni.
Al mattino salii al Santuario, alla "Bausla" e al monte San Carlo.
C'erano pure i lamponi e ne feci una scorpacciata.
Il giorno dopo, scesa a Bornasco, passai a visitare il mulino dove era
stato scoperto e trucidato dai nazifascisti il povero Trimoncino. Mi recai a
Sala da Amata, diventata poi la moglie del comandante partigiano Enzo
Pezzati (Ferrero), anche lei non proprio in ottima salute. Non so descrivere
il suo stupore e la sua gioia; andò a chiamare anche le altre compagne e
amiche e si fece una piccola festa, naturalmente ricordando sempre il
passato partigiano.
Quindi raggiunsi la Speranza, la proprietaria della cascinetta in pieno
paese di Sala, dove pernottavamo quando il distaccamento era in "ferma".
La donna mi offrì latte, panna e biscotti fatti in casa, e mi ricordò quel
giorno, quando ero arrivata con il distaccamento alla cascinetta e le avevo
mangiato tutti i pomodori.
Dormii dalla Speranza, sempre squisitamente ospitale; andai anche da
Daria e Italo nel loro bar. Ripartii al mattino e andai da Alba, la figlia di
Quinto, quel papà che mi aveva accompagnato con l'ombrello quando
eravamo andati in avanguardia alla Zona. Si parlò, si rivangarono quei pochi
anni passati, si rivissero le stesse scene, quelle belle, quelle tristi e quelle
disperate.
Ritornai alla cascina tra Graglia e Bornasco. Da Giovanna c'erano altri
pastori; era bello vedere le loro facce sane, bruciate dal sole; sono burberi,
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ma con un cuore immenso.
- Ciao, sei arrivata ? Come va ? Vuoi del latte ? Senti, ormai è tardi, ti
fermi a dormire ? Vai con Giovanna e Gaia.
Dissi che volevo dormire nella stalla ma loro rifiutarono decisamente.
Prima di ritirarci chiacchierammo di tante cose; poi mi trattenni un po'
fuori all'aperto. C'era una lieve brezza. Contemplavo quelle montagne che si
stagliavano contro il cielo arancione del tramonto e mi tornavano in mente i
visi tesi, preoccupati o lieti, a volte sognanti, di quei ragazzi partigiani,
volontari della libertà.
Dopo la colazione con latte, panna e pane di meliga abbrustolito, con
una scorta di salame di "bec" (maschio di pecora) che mi vollero dare a tutti
i costi, scesi a Sala. Dissero che ben pochi erano tornati a trovarle; erano
felici di rivedermi e che mi fossi ricordata di loro, speravano che mi
fermassi un poco. Avevo il mio programma, ma promisi che sarei tornata
un'altra volta.
Sempre con il mio zaino in spalla (era un poco pesantuccio, ma la forza
dei miei giovani anni rendeva lieve la fatica), scesi verso Zubiena per vedere
la villetta che avevamo trasformata in ospedaletto. Ma c'erano i proprietari e
il cancello era chiuso. Mi limitai a guardare il giardino, dove nascondevamo
tutta l'attrezzatura e i medicinali quando scattava l'allarme per i probabili
rastrellamenti e incursioni nazifasciste.
Arrivata a un bivio dalle parti di Vermogno, non ricordavo bene se
andare a destra o a sinistra, chiesi informazioni ad un vecchio contadino:
- Per favore, quale sentiero devo prendere per andare alla Zona?
- Và, và, marunha, che tla sè mei ad mi (và, và, ragazza, che lo sai
meglio di me).
Così mi salutò e se ne andò, senza dirmi altro. Lo rincorsi, mi disse che
il sentiero l'avevo percorso troppe volte e non potevo averlo dimenticato.
Aveva capito che ero stata partigiana, ma non voleva capire che non mi
ricordavo quel percorso, perché di lì ero passata una sola volta, con Pina,
quando ero andata a prenderla alla stazione di Vergnasco, ed era quasi buio.
Mi orizzontai con il sole e presi il sentiero a destra, quello giusto.
Arrivata a San Sudario, piccolo agglomerato di casette, andai da Maria e
Remo, suo marito, che mi riservarono una accoglienza meravigliosa, come
soltanto loro sanno fare. Mi fermai per qualche giorno. Aiutavo Maria
nell'orto, accudivo alle galline, andavo al negozietto di alimentari e
tabaccheria a fare la spesa; girai un poco da tutte le parti che conoscevo.
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A un certo punto mi trovai al mulino, dove era di stanza il distaccamento
di Caruso (Aldo Bosetti). Con mia grande sorpresa lo trovai lì con la
famiglia. Ci scambiammo saluti, abbracci, e via. Altri posti. Alla Zona,
andai a rivedere la cisterna dell'acqua piovana dietro la cascina (mi era
rimasto impresso quanto era stata utile in tempo di siccità).
Osservai il buco nella parete di mattoni e pietre della cucina, dove i
partigiani nascondevano le macchinette per farsi la barba, perché le lamette
scarseggiavano e chi riusciva a prenderne una nuova per primo se la
nascondeva.
Quelle ferie durarono diciotto giorni. Per tre anni consecutivi le trascorsi
in quel modo meraviglioso. Quanti bei ricordi, ripercorrendo quelle
mulattiere e sentieri, rivedendo le note cascine !
***
In occasione del Carnevale 1950, durante una gita in moto con Nino
Zavattaro, nostro amico di famiglia, rimasi vittima di un grave incidente,
riportando una commozione cerebrale i cui postumi perdurarono per lungo
tempo. La mia amica Ines, saputo quanto mi era accaduto, mi invitò a
passare la convalescenza da lei ad Aosta. Il suo fidanzato ci portò al casinò
di San Vincent; rimasi sbalordita vedendo quanta gente sprecava i soldi.
Con la mia amica Ines Pavia.
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Ci condusse in alta montagna, nei cantieri della sua segheria. Un giorno
ci portò all'Ospizio del Gran San Bernardo. I famosi cani da neve
impressionavano, tanto erano grossi, ma il loro sguardo dolce e mite
stimolava il desiderio di accarezzarli.
Quella convalescenza mi offrì l'opportunità di tornare sulle montagne
che tanto amavo, perché in montagna ho vissuto la parte più importante
della mia esistenza, temprato la mia personalità, esaltando in me la forza
della solidarietà, indispensabile per il rispetto del prossimo.
***
A questo punto concludo il mio racconto, non perché non abbia più
niente da dire, ma perché ce ne sarebbe ancora troppo. Desideravo far
conoscere la vita di una antifascista, di una partigiana combattente, di una
comunista. Come ho scritto nell'apertura, le ansie, le gioie, le disperazioni
sono tutte qui dentro. Sono fiera di essere come sono ed orgogliosa di essere
una donna vercellese che qualcosa ha dato per la libertà.
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Otto marzo 1993 e 1994.
Gli incontri delle donne
Della Resistenza di Vercelli
Nel Cinquantesimo anniversario della Liberazione.
(Foto Renato Greppi)
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