‘delitti senza movente’ dal pensiero magico all’azione

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1 Stefano Pica ‘Delitti Senza Movente’ - dal Pensiero Magico all’Azione Criminale - Introduzione Spesso la psicologia forense e la giurisprudenza si imbattono in delitti assurdi, efferati, a volte privi di un movente apparente. Ciò può suscitare nell’osservatore un senso di vertigine simile a chi osserva un abisso oscuro con la paura di finirci dentro, per questo il delitto senza un movente apparente viene bollato spesso come “folle” anche in assenza di adeguati criteri valutativi di natura psicodiagnostica. Con questo scritto vorrei fornire degli spunti interpretativi che possano aiutare a

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Page 1: ‘Delitti Senza Movente’ dal Pensiero Magico all’Azione

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Stefano Pica

‘Delitti Senza Movente’

- dal Pensiero Magico all’Azione Criminale -

Introduzione

Spesso la psicologia forense e la giurisprudenza si imbattono in delitti assurdi, efferati, a volte privi

di un movente apparente. Ciò può suscitare nell’osservatore un senso di vertigine simile a chi

osserva un abisso oscuro con la paura di finirci dentro, per questo il delitto senza un movente

apparente viene bollato spesso come “folle” anche in assenza di adeguati criteri valutativi di natura

psicodiagnostica. Con questo scritto vorrei fornire degli spunti interpretativi che possano aiutare a

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leggere tali fenomeni criminali come il prodotto di un determinato funzionamento mentale, di cui

dovrà essere accertata poi (in sede peritale) una eventuale componente psicopatologica.

Nel 1972 Colin Wilson fu uno dei primi ad occuparsi di delitti senza movente definendoli “delitti

da risentimento” e “delitti magici” dove il movente risulterebbe intrinseco alla sfera soggettiva del

reo ela vera domanda da porsi non è perché l’azione illecita sia stata agita, ma perché le difese

dell’Io non si siano attivate al fine di inibirla.

Nella sfera soggettiva del reo rientrano le seguenti variabili:

1) il Carattere di personalità del soggetto

2) le sue Emozioni

3)le sue Fantasie

4) le sue Esperienze e l’Ambiente socioculturale di provenienza.

Nel dettaglio:

1) Il Carattere di personalità rappresenta un’inclinazione del soggetto e non va confuso con un

disturbo. Esistono dei caratteri che sono più a rischio di altri nella possibilità di commettere

reati, questi sono il carattere Impulsivo/Aggressivo e quello Immaturo/Dipendente, questo a

causa della loro scarsa tolleranza alla frustrazione.

Il carattere Narcisista può essere anche esso a rischio specialmente in fase di

scompensazione, perché lo sbilanciamento avviene in senso paranoide- persecutorio. Tra

questi caratteri si può ipotizzare che il più incline a commettere ‘delitti senza movente’ o ‘da

risentimento’ sia il carattere Immaturo/Dipendente e quello Narcisista: il primo per la

possibile presenza di una modalità immaginativo fantastica compensatoria alla realtà e il

secondo per una tendenza all’acting out, aggressivo e sadico, in risposta alla frustrazione,

ma anche per un possibile sbilanciamento paranoide.

Il carattere Narcisista può assumere inoltre, nelle forme più gravi, un connotato

‘maligno’. I primi che hanno contribuito a definire il “Narcisismo maligno” sono stati il

filosofo Erik Fromm e lo psicologo Otto Kernberg. Per Fromm il narcisismo malvagio

sarebbe caratterizzato dal pregiudizio e dall’esaltazione per qualcosa che si possiede già. Lo

psicologo Kernberg, invece definisce il narcisismo maligno come un costrutto della

personalità e sarebbe caratterizzato da:

-un Disturbo Narcisistico di Personalità

-una condotta Antisociale

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-Aggressività egosintonica o sadismo rivolto verso gli altri, ma anche verso se stessi con

tendenze suicide, autolesionismo, ecc…

- un Orientamento paranoide molto accentuato.

Gli individui affetti da narcisismo maligno presentano da un punto di vista

psicodinamico aspetti strutturali di personalità con un Super Io non integrato (a causa di

precursori sadici), presenza di un Sé grandioso (integrato ma patologico, onnipotente,

crudele e malvagio). Dal punto di vista delle relazioni oggettuali, questo disturbo di

personalità presenta una vistosa scissione tra oggetti buoni, considerati come deboli,

inaffidabili e svalutati e gli oggetti cattivi, percepiti come potenti, ma persecutori e

pericolosi perché sadici; quindi anche se gli oggetti cattivi sono visti come inaffidabili,

sarebbero necessari per la sopravvivenza e per evitare la sofferenza. Più in generale la

relazione con gli oggetti esterni viene vissuta come onnipotente e malvagia.

2) le Emozioni di un soggetto che commette un reato sono quasi sempre Emozioni Distruttive o

maligne che lo psicologo Daniel Goleman classifica in: ostilità, odio, rabbia, desiderio,

attaccamento, ignoranza, orgoglio (Daniel Goleman‘Emozioni distruttive’Bur, Milano, 2001, pag.104-135 -140).

3) Le Fantasie sono molto importanti a livello clinico specialmente per i delitti senza movente. In

questi casi sarebbe interessante valutare la qualità delle fantasie: ad esempio se sono fantasie

egocentriche o altruistiche, ma anche la quantità, ovvero se ci sono fantasie ricorrenti e quante volte

vengono evocate dal soggetto prima di commettere l’atto e/o in quali occasioni particolari. Inoltre

sarebbe interessante indagare se tali fantasie vengono evocate dal soggetto in relazione a particolari

episodi frustranti. L’analisi delle fantasie può servire nella ricostruzione del crimine partendo dal

pensiero che lo ha concepito. Per esempio lo psicologo statunitense Joel Norris sottolinea come nei

serial killer il comportamento omicida venga anticipato da una ‘fase aurorale’: “in cui il soggetto si

distaccherebbe gradualmente dalla realtà elaborando fantasie sadiche, di controllo ed onnipotenti,

che aiutino il soggetto a riproporre, in modalità fortemente simboliche, le situazioni di grande

impatto vissute nell’infanzia dal soggetto che costituiscono nello stesso tempo uno scarico emotivo

e sessuale”(Joel Norris cit. in Carlo Lucarelli, Massimo Picozzi “Serial Killer” Mondadori Milano 2003, pag. 64)

4) le Esperienze e l’Ambiente socio-culturale possono essere considerate l’antefatto nell’esistenza

di un individuo. Esse rappresentano il background della personalità e i suoi valori culturali di

riferimento. Nel caso di un ‘delitto senza movente’ risulterebbe interessante, a livello peritale,

indagare sul vissuto emotivo che lega l’individuo e la sua azione deviante ad una determinata

esperienza e ad uno specifico contesto socio-culturale, in quanto sia le esperienze che il contesto

ambientale possono contribuire ad attivare comportamenti devianti. In particolare lo psicologo

sociale Philip Zimbaldo afferma che“ la realtà sociale ha il potere di costruire la realtà” ed

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aggiungerei anche il potere di costruire l’azione-reazione. Per esempio un evento come

un’esperienza traumatica che si colloca alla base di un crimine, può diventare un indicatore

importante per comprendere il senso dell’azione stessa.

I Delitti Senza Movente

A Colin Wilson(1972) spetta il merito di aver dato una definizione significativa ai ‘delitti senza

movente’ che lui stesso definisce “delitti da risentimento” o meglio ancora “delitti magici” ossia

azioni criminali guidate dal ‘pensiero magico’.

Il pensiero magico non deve essere considerato come una categoria diagnostica, ma come una

modalità di funzionamento del pensiero dove a farla da padrone è l’immaginazione e la fantasia

sostenuta da un forte tono emotivo.

L’immaginazione risulta essere una funzione molto importante del pensiero umano in quanto

consente di anticipare eventi, progettare soluzioni, inventare, ecc… ovvero di estendere il pensiero

umano oltre una normale esperienza di tipo sensoriale – percettivo. Però questa funzione di

amplificatore della coscienza, oltre i limiti del reale, che appartiene all’immaginazione, può

determinare anche un progressivo allontanamento dalla realtà stessa e spingere verso un isolamento

sostenuto da un’oggettività illusoria. In questo caso ci troveremo di fronte a quello che alcuni

studiosi hanno chiamato “Pensiero magico”.

1) Il Pensiero Magico

Il Pensiero magico va distinto dalla Magia perché la magia è una forma di conoscenza che va

identificata nelle sue radici psico-antropologico-storiche, ma non nella sua pratica rituale che spesso

ne ha corrotto i principi originari. Il Pensiero magico, antropologicamente parlando, rappresenta

quel tipo di conoscenza filtrata attraverso pratiche rituali e cerimoniali, di cui oggi ne è stata presa

l’essenza, per diventare un metodo con cui generare manipolazione, ossia una sorta di meno K

bioniano.

La funzione manipolatoria del Mago consiste nell’individuare un soggetto per poi farlo

diventare oggetto, perché la ritualistica nella pratica magica esiste in virtù dell’assoggettamento.

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L’assoggettamento è un piano psicologico asimmetrico dove c’è un ‘sopra’ (attivo) e un

‘sotto’ (passivo) e il sistema funziona perché c’è un sotto che crea le condizioni psicologiche per

questo. La funzione di assoggettamento esercitata dal pensiero magico deriva da una riflessione

basata sul ‘come’ e sulla ‘quantità’ e si distingue ad esempio dal pensiero logico e simbolico che

invece ci porta a ragionare sul ‘perché’ e sulla ‘qualità’.

Il pensiero magico quindi si fonda su codici automatici e arcaici, esprime giudizi e pregiudizi

allontanando la mente dalla comprensione del mondo e dalla comunicazione con l’alterità.

I codici del pensiero magico possono essere riassunti in cinque punti:

1) Astrazione: togliere energia al reale, rendendo la realtà insignificante, povera, noiosa.

Questo può avvenire in condizioni di grande frustrazione per cui succede come nel

proverbio della volpe e dell’uva; “la volpe che non riesce ad arrivare all’uva disse che era

acerba”.

2) Estrazione: togliere l’individuo dalla realtà, vissuta come insignificante perché frustrante.

3) Ostruzione: chiudere le porte all’alterità restando imprigionati all’interno di uno schema

rigido.

4) Istruzione: fondata sullo schema dicotomico domanda/risposta.

5) Distruzione: nei casi più estremi porta all’eliminazione dell’soggetto/oggetto ritenuto causa

del proprio malessere e/o all’autoeliminazione di se stessi.

Una definizione interessante di pensiero magico è quella fornita da Malinowsky (1945) il quale

afferma che “la magia si fonda sull’esperienza specifica di stati emozionali nei quali l’uomo non

osserva la natura, ma se stesso e nei quali stati la verità è rilevata non dalla ragione, ma dal gioco

delle emozioni nell’organismo umano”(Bronislaw Malinowsky “Magia, scienza e religione” a cura di Maria

Arioti Newton Compton Roma 1976 pag.91).

Quindi l’essenza psicologica della ‘magia’ consiste nell’assumere come punto di osservazione la

propria soggettività e non la realtà oggettiva, con la conseguente costruzione di una verità personale

frutto delle emozioni e non della ragione. Questo porterebbe l’individuo ad abbandonare la logica in

virtù di un senso magico fino a scambiare un atto simbolico per realtà concreta.

Un altro punto di vista interessante che contribuisce a definire il pensiero magico proviene

dagli scritti di J.P.Sartre in particolare nel suo saggio ‘L’immaginazione’ egli afferma che: “Ogni

situazione concreta e reale della coscienza nel mondo è gravida d’immaginario in quanto si

presenta sempre come un superamento del reale. Da ciò non segue che qualsiasi percezione del

reale debba invertirsi in immaginario ma, essendo la coscienza libera, possiede in ogni momento la

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possibilità concreta di produrre qualcosa di irreale. Sono le diverse motivazioni a decidere se la

coscienza sarà realizzante o formerà immagini. L’irreale è prodotto fuori dal mondo da una

coscienza che rimane nel mondo e l’uomo produce immagini solo perché è trascendentalmente

libero”(Jean Paul Sartre “L' immaginazione. Idee per una teoria delle emozioni” ed. Bompiani Milano 2004 pag.34).

Dal contributo di Sartre si deduce che nel pensiero magico sia determinate il ruolo giocato dalla

‘coscienza a partire dalle motivazioni che la animano’. Se le motivazioni sono “egocentriche o

malefiche” (D.Goleman 1999) c’è da ipotizzare che la coscienza sarà orientata ad appagare gli aspetti

più intimi del soggetto formando delle immagini per sublimare, in fantasia, il desiderio, mentre

partendo da una motivazione altruistica, molto probabilmente, la coscienza si orienterà verso la

realtà concreta.

La libertà della coscienza genera un processo creativo con cui si può migliorare il mondo o

distruggerlo e le motivazioni possono determinare la tendenza (costruttiva o distruttiva) di questo

processo, che come scrisse Carotenuto: “la tendenza che scaturisce dal richiamo della creatività

può trasformarsi in una condizione aliena di scontro, rifiuto o disprezzo nei confronti della

normalità…e può tradursi nella sensazione di essere al di sopra della morale o della legge […]ed è

proprio la carica eversiva che non riesce a coniugarsi ad alcun sentimento di appartenenza che

trascina questi uomini fino alla giustificazione più radicale dell’odio o del crimine”(Aldo Carotenuto

“Le lacrime del male” ed. Bompiani, Milano 1996 pag.38).

Quando la creatività si trasforma in una condizione aliena di scontro e diviene distruttiva, alla base

vi saranno sicuramente delle motivazioni egocentriche che spingono l’individuo verso la

soddisfazione dei suoi più intimi appetiti al di sopra di ogni cosa: della morale, della legge e della

vita stessa.

Lo scarto tra costruttività e distruttività del processo creativo si misura nel confronto con la realtà

contingente e con le motivazioni soggettive presenti nell’individuo agente.

Per esempio la frustrazione della creatività è un’esperienza traumatica che può generare

fantasie e comportamenti distruttivi, per cui dal desiderio di creare nasce il desiderio opposto,

quello di distruggere. La distruttività cresce sotto la spinta del fallimento dell’ambizione artistica

che si coniuga con il desiderio narcisistico di dominare gli altri, di sedurli e ciò può trasformare

anche una persona carica di buone intenzioni in un dittatore ossessionato dallo sterminio, il quale

incanterà le masse popolari non più con l’arte, ma con il miraggio dell’ideologia e la violenza della

propaganda. Per questo non stupisce che Adolf Hitler fosse un pittore fallito, Mussolini uno

scrittore fallito e Charles Manson un cantante fallito.

Ora per capire la natura intrinseca del Pensiero Magico è necessaria l’analisi delle motivazioni e

delle emozioni che lo animano.

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2) Motivazioni ed Emozioni: ‘nella magia la verità è frutto delle emozioni’

Sia le motivazioni che le emozioni possono essere considerate lo sfondo o il contesto su cui si

articolano i processi di pensiero. Secondo il filosofo J.P.Sartre le emozioni sarebbero da

considerarsi puramente illusorie, magiche ed in particolar modo nel saggio ‘idee per una teoria

dell’emozione’ (1939) possiamo leggere affermazioni molto interessanti sul ruolo dell’emozione.

Sartre ci parla di un’emozione come fenomeno trascendentale puro, senza rivolgersi ad emozioni

particolari, ma cercando di cogliere e di esplicitare l’essenza trascendentale dell’emozione come

“tipo organizzativo di coscienza”; più semplicemente possiamo affermare che le emozioni diano un

colore alle nostre esperienze di vita e ai nostri pensieri.

D. Goleman afferma che i centri dell’emozione derivano dalla parte più primitiva del cervello, (il

tronco encefalico). Dai centri emozionali si sono poi sviluppate le aree del cervello pensante che

costituiscono i livelli cerebrali superiori. Sempre secondo Goleman “prima di esistere un cervello

razionale ne esisteva già uno emozionale”(Daniel Goleman “Intelligenza emotiva” Bur, Milano, 1999 pag. 29).

Le emozioni infatti hanno avuto ed hanno il ruolo evolutivo di garantire la sopravvivenza, non solo

nell’uomo, ma in tutti gli altri esseri cerebrati e tra queste vanno distinte le emozioni benevole da

quelle distruttive che Goleman identifica in:“ ostilità, odio, rabbia, desiderio, attaccamento (ovvero

aggrapparsi al proprio modo di percepire le cose che porta a vedere le cose come non sono),

ignoranza (ovvero non conoscenza di se stessi e degli altri, consapevolezza non maturata), orgoglio

(ovvero sentirsi superiori agli altri)” (Daniel Goleman “Emozioni distruttive” Bur, Milano pag.104-135 -140).

Si tratterebbe di emozioni che oscurano e limitano la libertà dell’individuo concatenando i pensieri

in modo da costringerci a pensare, parlare e agire in base a dei condizionamenti.

Per esempio il desiderio, quale emozione distruttiva, è assai vicino al concetto di appetito e illusione

che è portatrice in potenza di un conflitto con la realtà, in quanto la stessa realtà: “impone agli

uomini di rinunciare al piacere,… Ma i sintomi nevrotici, così come il sogno[ed io aggiungerei le

fantasie], ci mostrano che le frustrazioni procurateci dalla realtà non possono distruggere i

desideri che sono l’essenza del nostro essere”.(Aldo Carotenuto “Le lacrime del male” ed. Bompiani, Milano

1996 pag.16).

Quindi non si può distruggere il desiderio, ma è possibile negare una realtà che non lo soddisfa,

attraverso una condotta magica che sostenga l’illusione onnipotente del: “desiderio d’infinito…

[eliminando]…da sé tutto ciò che viene definito male e che viene proiettato all’esterno”(Aldo

Carotenuto op. cit. pag. 32-42), sul mondo e sulla realtà.

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La costruzione del pensiero maligno inizierebbe a strutturarsi attraverso la negazione magica della

realtà a vantaggio di una realtà soggettiva sostenuta da motivazioni egocentriche ed emozioni

distruttive; perché: “con l’emozione sfuggo alla necessità di cercare nuove vie…o di superare gli

ostacoli che mi si parano dinnanzi. Mi comporto magicamente verso il mio mondo e verso l’oggetto

cui sono rivolto, con lo scopo di annullarlo…[e]…di negarlo. Il mondo nuovo che ho costruito non

è vissuto da me come una finzione in quanto esercito una credenza verso di esso, mi getto in esso,

lo vivo direttamente”(Jean Paul Sartre “L'immaginazione. Idee per una teoria delle emozioni” ed. Bompiani Milano

2004, pag.50) e quindi, aggiungerei, posso scambiare un miraggio e una illusione per realtà concreta

ed agire di conseguenza anche con un comportamento deviante.

Analisi dell’Azione

Le motivazioni e le emozioni derivano entrambe da parole latine che indicano movimento

(motivazione da motus= movimento; emozione da ex-moveo, muovere fuori), quindi esse sono

intrinsecamente coinvolte nell’azione, insieme ad altre importanti funzioni psichiche, come il

pensiero e la volontà. Alla base di ogni azione vi è un pensiero e una volontà che danno senso di

realtà all’azione stessa. Secondo Kuelpe il pensiero è un atto interiore della volontà e gioco

automatico di rappresentazioni, mentre per il filosofo francese Maurice Blondel (1893) la volontà

rappresenta il nucleo centrare attorno al quale si articola l’azione stessa.

Per Blondel l’azione rappresenta lo strumento necessario per conoscere la realtà e arricchire

l’esperienza e a questo proposito scrisse che: “L’azione è sempre un al di là… agire vuol dire

evocare altre energie, chiamare testimoni, offrirsi, imporsi alla società degli spiriti …

soddisfacendo il desiderio di espandersi e accrescersi, che così facendo tende all’infinito” (Marc

Leclerc, Il destino umano nella luce di Blondel, ed. Cittadella (collana Orizzonti Nuovi), Assisi 2000, pag. 216).

Una cosa interessante è che la ‘filosofia dell’azione’ di Blondel si fonda sulla volontà, ‘voglio

quindi agisco’ e non sulla ragione.

Quindi la dialettica della volontà indicherebbe un orientamento rivolto a soddisfare i bisogni e i

desideri soggettivi anche contro la ragione, contro la morale, contro gli altri individui e la società

stessa.

Nell’azione l’Io dell’individuo, la sua volontà e il suo desiderio diventano il centro di tutto.

Il soggetto diviene attore di un dramma in cui egli stesso ne è anche il regista e lo spettatore. Le

energie interiori evocate dalla volontà sono spesso ‘titaniche’ ovvero ribelli e sovversive “ed è

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proprio la carica eversiva che non riesce a coniugarsi ad alcun sentimento di appartenenza che

trascina gli uomini fino alla giustificazione più radicale dell’odio e del crimine” (Aldo Carotenuto

op.cit. pag.39).L’energia titanica della volontà richiama alla mente la figura mitica di Prometeo, il

titano che incarna la spinta libertaria e creativa alla ricerca dell’elisir della vita, della sapienza e

della conoscenza, ma la sua interpretazione psicologica evidenzia: “l’alterigia, la tracotanza dell’Io

che vuole sfuggire alle leggi della finitudine umana e farsi simile al dio.…Prometeo incarna

l’archetipo del ribelle che rifiuta di sottomettersi alla logica vigente…[ma]…le sue azioni non

erano dettate esclusivamente dall’emotività, ma erano premeditate” (Aldo Carotenuto op.cit. pag.39),

ovvero erano determinate dalla volontà, dal desiderio di espandersi ed accrescersi all’infinito,

minando l’adesione alle regole e alla realtà.

Sia l’azione che l’immaginazione sono due strumenti che aiutano l’individuo nel percorso di

conoscenza. Agire in modo creativo implica trovare nuove soluzioni e strategie per conoscere

meglio il mondo e arricchire la propria esperienza personale. Naturalmente si può agire in modo

creativo sia per costruire qualcosa che per distruggerla (come possiamo osservare nella creatività

omicida dei serial killer organizzati). Sia l’azione che l’immaginazione possono manifestarsi in

una duplice natura, costruttiva o distruttiva, naturalmente, come abbiamo già detto in precedenza,

questo dipende dalle motivazioni e dalle emozioni che le animano, ma anche dalla realtà

contingente e dalle sue regole. Se la realtà contingente fornirà all’azione e all’immaginazione una

direzione coerente essa permetterà una crescita personale dell’individuo in seno alle regole di

convivenza e al rispetto degli altri; in caso contrario, con un contenitore di realtà difettoso e

contradditorio (vedi il “doppio vincolo” più avanti) ci troveremo innanzi ad una spinta creativa che

può portare alla negazione della realtà e del mondo e ad un’estrema rivolta contro le sue leggi.

Il legame che unisce l’azione con l’immaginazione fu sottolineato nel 1970dall’intellettuale

giapponese Yukio Mishima il quale scrisse che: “L’immaginazione umana quando si proietta nel

futuro corre fino alla morte che l’attende oltre l’ignoto e quando si tende verso il mistero del

passato può giungere alle esistenze primordiali, al fondo delle oscure e abissali memorie

dell’umanità. La fantasia mina dunque l’azione, riduce il coraggio, suscita esitazioni e nello stesso

tempo è proprio la fantasia a generare tensione e ad incitare l’essere umano all’azione e

all’avventura. La fantasia ci dipinge in modo vivido gli aspetti angoscianti dell’azione che

affronteremo, ma come sappiamo, l’ignoto affascina è questo il concetto principale su cui si basa la

psicologia dell’azione … le angosce che l’ignoto suscita divengono la forza motrice

dell’azione”.(Yukio Mishima “Lezioni spirituali per giovani samurai” ed. Feltrinelli, Roma, 1970, pag.76-77-78).A

livello psicodinamico, l’azione può essere interpretata come una difesa dall’angoscia suscitata

dall’ignoto, ma un aspetto interessante, della bellissima osservazione di Mishima, è il rapporto che

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lega l’immaginazione alla pulsione di morte e all’angoscia. Questi tre aspetti collegati tra loro

fornirebbero un importante indizio anche per comprendere l’azione criminale ed in particolare

quella dei delitti senza movente.

L’azione delittuosa, stimolata dalla pulsione di morte, diventerebbe al tempo stesso una

reazione contro-fobica all’angoscia e a livello psichico tutto ciò può essere integrato all’interno di

fantasie egocentriche (di potere, di controllo) sostenute da emozioni negative. Questo fenomeno

sottolinea, per dirla alla Sartre, come: “l’istinto distruttivo sia il tentativo dell’uomo di vivere come

realtà la propria libertà”, cioè, essere colui che compie l’azione invece di colui che la subisce, per

cui chi teme di essere perseguitato si trasformerà in persecutore.

L’impulso distruttivo spinge l’immaginazione a confrontarsi con le abissali memorie

dell’umanità o meglio con l’Ombra, la parte più oscura della personalità umana.

A questo proposito Carotenuto scrive che: “l’integrazione dell’ombra comporta l’abbandono della

morale collettiva e la maturazione di un’etica personale…ci si scopre così insieme beati e dannati,

teneri e crudeli, è il confronto con l’Ombra, con le parti meno conosciute di noi stessi, là dove si

annida la rabbia, l’invidia, la paura, la vergogna di desideri che noi stessi riteniamo riprovevoli,

degni solo di condanna”(Aldo Carotenuto op. cit. pag. 96). Allo stesso tempo la nostra Ombra ci

permette di riscoprire la nostra unicità senza essere vincolati eccessivamente all’etica collettiva che

ostacola lo sviluppo della nostra individualità. L’Ombra quindi consente una spinta creativa verso la

conoscenza di noi stessi e del mondo, verso la costruzione della nostra libertà personale, ma se si

diventa schiavi di essa allora si può sperimentare l’opposto, diventando prigionieri della propria

soggettività.

1) Ecologia dell’Azione

Come abbiamo visto l’azione può coincidere con il tentativo di sfuggire ad una situazione

angosciante e di fatto insostenibile dal punto di vista emotivo. L’azione quindi può essere indotta

non solo dalla volontà dell’individuo di compiere un certo atto, ma anche da una particolare

situazione ambientale, sociale e politica. Ciò apre una questione sulla dimensione ecologica

dell’azione stessa che risulta determinata anche dalla situazione contestuale in cui l’individuo si

trova. Per cui, in una circostanza caricata da un forte tono emotivo si possono mettere in atto azioni

estreme.

Per capire meglio questo concetto ritengo significativo citare una parabola Zen, enunciata tra l’altro

dallo stesso Bateson nel libro Ecologia della mente, che narra di un maestro e del suo allievo:

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- un maestro zen siede innanzi al suo allievo mostrandogli un bastone, dopo di che pronuncia

questa frase ‘se dici che questo bastone è reale te lo darò in testa, se dici che questo bastone

non è reale te lo darò in testa, ma se anche non dirai nulla, te lo darò in testa lo stesso ! -

La situazione, che si presenta davanti all’allievo, è estremamente minacciosa ed apparentemente

priva di soluzioni razionali, ma anche carica di un forte tono emotivo di tipo angoscioso e

persecutorio. Da un punto di vista psicodinamico il problema presenta due possibili prospettive:

‘impazzire o agire’ ossia, fuggire verso la follia o agire nella realtà.

Se l’allievo sceglierà di agire potrà optare su due livelli: Azione Saggia o Azione Deviante.

L’azione saggia, descritta nella seconda fase della parabola zen, consiste nell’allievo che strappa

dalle mani del maestro il bastone per poi spezzarlo in due ed esclamare “questo non è più un

bastone!”, ovvero l’azione saggia è quella in cui la frustrazione e la forza pulsionale vengono

canalizzate e contenute all’interno di un sistema logico- relazionale aderente all’esame di realtà.

L’allievo che agisce saggiamente sposta la sua attenzione sull’oggetto minaccioso che causa

frustrazione, ma non sul soggetto; rompe il bastone lasciando del tutto indenne la relazione con una

figura significativa per lui, quella del maestro. Nell’ipotesi di un’azione deviante l’allievo

risponderebbe con la violenza al quesito posto dal maestro zen, magari aggredendolo fisicamente,

perché l’azione deviante attacca la relazione compromettendola irreparabilmente.

In conclusione, quando l’azione non è guidata dal senso di responsabilità e soprattutto dall’esame di

realtà, può essere posseduta da fantasie egocentriche e da pulsioni. Ciò può generare i presupposti

per cui un’azione possa diventare deviante, portando all’eliminazione fisica di coloro che hanno

causato una situazione paradossale e frustrante.

2) L’Azione Deviante

Nel parlare nello specifico di azione deviante è opportuno considerare che il crimine non esiste

come fatto naturale; esso è soltanto un “ente giuridico, una libera scelta che rompe il patto

sociale”(Carrara 1860) e di conseguenza, un’azione deviante è un comportamento che viola un

sistema normativo, il quale è composto da aspetti legali, morali ed etici. Si potrebbe dire che la

devianza sia il misconoscimento del diritto di un individuo, da parte di un altro individuo agente

l’abuso.

Nella valutazione dell’azione deviante vanno considerate la struttura dell’azione che deve essere

ricostruita partendo dall’accaduto per poi orientarsi su altri elementi come: “il comportamento

manifesto(parzialmente) guidato da cognizioni coscienti, che a loro volta sono in parte di origine

sociale; in tal modo la società, attraverso il controllo delle cognizioni (parzialmente) produce e

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controlla l’agire dell’individuo che, d’altra parte, attraverso le proprie azioni, modifica le strutture

sociali(Michael von Cranach “Theory of action” trad. in Psicologia dizionario enciclopedico a cura di R. Harrè, R.

Lamb,L. Mecacci, Roma-Bari, Laterza, 1986, pag. 106-109 ).

Diciamo che nel valutare l’azione deviante nella sua completezza sarebbe utile includere anche una

prospettiva interpretativa di stampo ecologico e psicosociale, per la ricerca di quegli elementi

‘situazionali’ che possono fornire l’innesco al comportamento criminale. Infatti G. De Leo scrive

che: “nella realtà sociale…l’uomo non è il capitano solo e l’ambiente non è un canale da

navigare… i suoi comportamenti incontrano altre intenzioni e altri comportamenti e interagiscono

a un livello che non è solo pragmatico, ma invia ai contesti simbolici e di significato che

definiscono le regole dell’interazione”(Gaetano De Leo “L’analisi dell’azione deviante” ed. il Mulino Bologna

2004 pag.7).Per questo bisogna dare torto a Timothy Mc Veigh, il dinamitardo di Oklahoma City,

che, nel momento della sua esecuzione disse: “Sono il padrone del mio destino, il capitano della

mia anima”(verso tratto della poesia Invictus di William Henley).

Il ragionamento di De Leo pone l’accento sull’incontro tra due Sistemi organizzati e contrapposti il

Crimine ed il Controllo.

La dimensione del Controllo non è relativa solo al sistema sociale (il controllo sociale è indicato tra

gli elementi di deterrenza) ma anche ai sistemi interni dell’individuo, come le difese dell’Io. Per

questo il vero movente non è tanto il perché di un determinato atto, ma il cosa non abbia funzionato

sia a livello individuale che situazionale.

Tutto ciò allarga la visione del crimine, spostando l’analisi non solo sulle responsabilità individuali

di chi rompe il patto sociale attraverso l’azione deviante, ma anche sul Sistema Sociale-Situazionale

che permette a questo individuo di sentirsi legittimato a farlo.

3) Ecologia dell’Azione Deviante:

- Il Delitto D’onore

In Italia il delitto d’onore o raptus della gelosia è stato per molti anni considerato un’attenuante,

oggi non più, in quanto gli stati emotivi e passionali non diminuiscono l’imputabilità e non la

escludono (vedi art.90 c.p.).

La motivazione o movente di tale azione delittuosa era da ricercarsi in particolari dinamiche sociali

che spesso affondano le radici in un maschilismo esasperato. Il delitto infatti veniva giustificato in

virtù dell’onore ferito, un’onta da lavare col sangue come per essere riammessi nella comunità

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maschile. Infatti Lewis in ‘The Inner Ring’ scrisse che: “nella vita di molti uomini…uno degli

elementi più dominanti sia il desiderio di far parte della Cerchia locale e il terrore di essere

lasciati fuori. …. Di tutte le passioni, la passione per la Cerchia Esclusiva è quella che

maggiormente può spingere un uomo che non è malvagio a fare cose malvage”(Clive Staples Lewis

“The Inner Ring” Memorial Lecture, University of London, 1944).Quindi con il delitto d’onore l’uomo ‘fatto

cornuto’ veniva riammesso psicologicamente e moralmente nella cerchia maschile.

Le dinamiche sociali contribuiscono a costruire la realtà e possono rappresentare la forza

motivante e il movente per commettere un delitto.

Zimbaldo scrive che: “le motivazioni e i bisogni che di solito ci sono utili possono anche fuorviarci

quando sono suscitati, amplificati o manipolati da forze situazionali di cui non riconosciamo la

potenza. Ecco perché il male è così pervasivo.”(Philip Zimbaldo L’effetto Lucifero Raffaello Cortina Editore

Milano 2008, pag.383).

Tutti questi elementi possono essere importanti in sede peritale per spiegare la natura psicosociale

di un crimine e per accertare la responsabilità del reo e la sua pericolosità sociale.

- Assassini in divisa: il Distintivo e il Passamontagna

Il proverbio ‘l’abito non fa il monaco ’ potrebbe non essere corretto specialmente se lo

confrontiamo con quanto scritto dallo psicologo sociale Philip Zimbaldo nel libro ‘L’Effetto

Lucifero’, il quale ha osservato che mascherare il proprio aspetto esteriore può influenzare i

processi comportamentali. Zimbaldo, attraverso l’esperimento della Prigione di Stanford, ha

verificato come la divisa indossata dagli ‘studenti guardie carcerarie’ aumentasse il rischio di de-

individualizzazione nei confronti degli ‘studenti detenuti’, rendendo questi ultimi facile oggetto di

abusi spesso immotivati. Quindi un determinato look come una divisa o una maschera può essere

uno strumento di de-individualizzazione e di disimpegno morale, ossia, indossare certi costumi

faciliterebbe la disattivazione delle auto-sanzioni psichiche.

“La de-individualizzazione crea uno stato psicologico unico in cui il comportamento passa sotto il

controllo di richieste situazionali immediate e di stimoli ormonali, biologici. Al pensiero si

sostituisce l’azione, la ricerca del piacere immediato prevale sulla gratificazione procrastinata e

alle decisioni attentamente controllate subentrano insensate risposte emotive”(Zimbaldo op.cit.

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pag.442).Diventando schiavi della situazione, che può essere indotta anche attraverso l’uso di una

divisa o un determinato modo di vestire, si possono commettere azioni devianti anche efferate.

Da fatti di cronaca emerge il Caso di Luigi Spaccarotella, agente della Polstrada, che l’11

novembre del 2007 ha sparato uccidendo Gabriele Sandri durante un’azione di polizia dai contorni

oscuri. Quel giorno poco prima delle 9.00 un'auto di tifosi juventini, nel piazzale di sosta, viene

avvicinata da alcuni supporter laziali, armati di spranghe. Scoppia una rissa, l'incidente richiama

l'attenzione di due pattuglie della Polstrada, che si trovano sul piazzale dello stesso autogrill, ma

dall'altra parte della carreggiata a oltre 50 metri di distanza. Gli agenti raggiungono il bordo della

carreggiata e da lì azionano le sirene delle loro auto. Ma la rissa continua, a questo punto,

Spaccarotella decide di sparare. Il poliziotto spara due volte e un colpo raggiunge al collo Gabriele

Sandri che si trova seduto in mezzo sul sedile posteriore della Megane Scenic. Il tifoso della Lazio

muore poco dopo.

La sentenza della Cassazione ha confermato che Spaccarotella sparò per uccidere. La Cassazione,

dunque, ha sposato in pieno la tesi della pubblica accusa che nella requisitoria aveva sottolineato

che il poliziotto “voleva colpire la macchina e l'ha colpita”. Si tratterebbe di una circostanza dove

l’agente Spaccarotella sembra non aver esaminato la situazione nella sua dinamica reale, ne

ponderato i rischi di un’azione repressiva a mano armata. Egli avrebbe preso come punto di

riferimento se stesso, la sua soggettività, sentendosi legittimato probabilmente dalla divisa e dal suo

ruolo. Di fatto l’agente Spaccarotella si è reso protagonista dell’omicidio di un soggetto inerme ed

inoffensivo.

Il passamontagna nell’immaginario collettivo può essere considerato la ‘divisa del

criminale’ tanto da indurre il leader di Autonomia Operaia Tony Negri a scrivere: “Immediatamente

sento il calore della comunità operaia e proletaria, tutte le volte che mi calo il passamontagna.

Questa mia solitudine è creativa”(Tony Negri “Il dominio e il sabotaggio” ed. Fetrinelli, Roma, 1977 pag.20).E’

con questa espressione che Tony Negri ha celebrato se stesso come ‘intellettuale armato’. Si tratta

di una frase che sembra dare un potere animista ad un manufatto con determinate caratteristiche

funzionali, quella di rendersi irriconoscibili agli occhi degli altri, come fa del resto una maschera.

Una maschera può essere definita psicologicamente come il diaframma che separa il Sé dal non Sé,

ovvero il soggetto dall’oggetto che attraverso la maschera si vuole rappresentare (l’uomo dal

criminale).

Il passamontagna, così come altri manufatti per coprirsi il volto, assumono nel crimine vari

ruoli, quello strumentale di rendersi irriconoscibili, ma anche quello psicologico di spersonalizzare

la relazione con la vittima del reato.

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“Il passamontagna come la maschera assume il ruolo di un diaframma che altera una

situazione spazio-temporale per celebrare simbolicamente il rito del crimine in cui l’autore ne è il

gran sacerdote”(Stefano Pica tratto da articolo su rivista Zeus, Roma 25 marzo 2007) .

A questo proposito Kereny scrisse che: “La maschera nasconde, la maschera spaventa,

soprattutto però essa crea una relazione tra l’uomo che la porta e l’essere che la rappresenta… la

maschera è lo strumento di una trasformazione unificatrice lo è in senso negativo, in quanto essa

elimina i limiti divisori…tra i vivi e i morti”(Karoly Kerenyi “ Miti e Misteri” ed. Boringhieri, Torino, 1979,

pag. 444- 445).

Una maschera presenta, secondo le più antiche credenze animiste, una propria anima che si

incarna in chi la indossa, ma soprattutto, essa rappresenta un mezzo di comunicazione tra gli uomini

e le divinità; infatti attraverso l’utilizzo di una maschera viene ad alterarsi la dimensione spazio-

temporale che ci proietta in un altro mondo: divino, mistico, occulto o criminale. Indossare una

maschera implica la perdita della propria identità personale per assumerne una rituale, per questo

nell’antichità, durante i sacrifici l’esecutore dell’atto indossava spesso una maschera. Accadeva

presso i Celti che la classe sacerdotale dei Druidi, prima di perpetrare un atto sacrificale, si copriva

il volto con una maschera fatta di legno. Inoltre è noto a molti, che in epoche più moderne, il boia

che si appresta ad eseguire una condanna a morte si mostrava sul patibolo con un cappuccio che ne

celasse il volto.

Il rapporto tra maschera e morte si rafforzò soprattutto nel mondo ellenistico ed all’interno

dei culti misterici dell’antica Roma: per esempio la maschera di Sileno (celebre satiro perennemente

ubriaco, figlio di Pan ed emblema della lascività) divenne uno dei simboli della morte iniziatica.

“Così la maschera, per la sua rigidità inerente, viene messa in connessione anzitutto con i

morti che essa, nella sua applicazione arcaica, rappresenta presso diversi popoli. Essa crea un

rapporto tra i vivi e i morti. Gli uni si trasformano negli altri, o più esattamente la maschera

determina una loro unione che si compie nell’anima del portatore della maschera”(Karoly Kerenyi op.

cit. pag 444). Così avvenne per il passamontagna di Franco Anselmi, un militante dell’estrema destra

romana, intriso del sangue dei suoi amici camerati morti ammazzati.

Fu lo stesso Anselmi ad intingere il suo passamontagna nel sangue ancora caldo di Franco

Bigonzetti, un camerata ucciso proprio vicino a lui durante la manifestazione di Acca Larenzia a cui

entrambi stavano partecipando. Circa tre anni prima, su quello stesso passamontagna, si posò

dell’altro sangue, quello di Mikis Mantakas, un altro camerata colpito alla testa da una pallottola

sparata da un autonomo. Così quel passamontagna, battezzato con il sangue, divenne come una

maschera carica di uno psichismo rituale capace di rievocare i caduti e su cui materializzare i

sentimenti di vendetta e di rivolta.

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- Finestre rotte: la situazione che corrompe l’individuo

Nel 1969, presso l’Università di Stanford, negli Stati Uniti, il professor Philip Zimbaldo condusse

un esperimento di psicologia sociale. Lasciò due auto abbandonate in strada, due automobili

identiche: stessa marca, modello e colore. Una la lasciò nel Bronx, zona povera e conflittuale di

New York l’altra a Palo Alto, zona ricca e tranquilla della California. Due vetture identiche

abbandonate, due quartieri con popolazioni molto diverse ed un team di specialisti in psicologia

sociale a studiare il comportamento delle persone in ciascun sito. Si scoprì che l’automobile

abbandonata nel Bronx cominciò ad essere smantellata dopo poche ore, via le ruote, il motore, gli

specchietti, l’autoradio e tutto il resto. Tutti i materiali che potevano essere utilizzati furono presi

mentre quelli non utilizzabili vennero distrutti. Al contrario, l’automobile abbandonata a Palo Alto,

rimase intatta. È comune attribuire le cause del Crimine alla povertà e alla deprivazione.

Tuttavia, l’esperimento in questione non terminò in questo modo e andò avanti.

Dopo aver constatato che la vettura abbandonata nel Bronx era stata praticamente smantellata

mentre quella lasciata a Palo Alto dopo una settimana era ancora intonsa, i ricercatori decisero di

rompere un vetro di quest’ultima. Il risultato fu l’inizio dello stesso processo che si era verificato a

New York. In breve tempo, furti, violenza e vandalismo ridussero il veicolo ad uno stato pietoso,

così come era accaduto nel Bronx. La domanda che sorge è: perché il vetro rotto di una macchina

abbandonata, in un quartiere presumibilmente sicuro, è in grado di provocare un processo

criminale?

La povertà non c’entra perché è qualcosa che ha a che fare con la psicologia, con il comportamento

umano e con le relazioni sociali. Il vetro rotto di un’auto abbandonata trasmette un senso di

deterioramento, disinteresse, noncuranza, oltre a sensazioni di rottura dei codici di convivenza,

assenza di norme e regole. Si tratta di una dimensione metapsicologica di una ‘Idea’ che

contribuisce ad attivare latenti agiti distruttivi. Ogni nuovo attacco subito dall’auto ribadisce e

moltiplica questa ‘Idea’, fino all’escalation di atti sempre peggiori, incontrollabili con il risultato

finale di una violenza irrazionale.

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In esperimenti successivi, James q. Wilson e George Kelling hanno sviluppato la “Teoria delle

finestre rotte”, con la stessa conclusione da un punto di vista Criminologico ossia che la criminalità

non è legata solo alle scelte devianti di singoli individui, ma anche a determinati contesti

‘facilitatori’.

La criminalità infatti è più sviluppata nelle aree in cui l’incuria, la sporcizia, il disordine e l’abuso

sono maggiormente diffusi come descritto nei seguenti punti:

1) Se si rompe il vetro della finestra di un edificio e questo non viene prontamente riparato,

saranno presto rotti tutti gli altri.

2) Se una comunità presenta segni di deterioramento, cosa che sembra non interessare a

nessuno, allora la criminalità troverà campo libero.

3) Se vengono tollerati piccoli reati come parcheggiare in divieto di sosta o superare i limiti di

velocità, molto presto si svilupperanno crimini più gravi.

4) Se parchi ed altri spazi pubblici vengono gradualmente danneggiati e nessuno interviene,

questi luoghi saranno abbandonati dalla maggior parte delle persone per essere progressivamente

occupati da criminali e balordi.

La “Teoria delle finestre rotte” può essere utile a comprendere la degenerazione della società, la

mancanza di attaccamento ai valori universali, la mancanza di rispetto per l’altro e per il codice

etico del “bene comune” con la conseguente perdita di fiducia nelle Autorità.

La “Teoria delle finestre rotte” fu applicata per la prima volta, verso la metà degli anni

Ottanta, nella metropolitana di New York City.

Si cominciò, combattendo le piccole trasgressioni: graffiti sui muri, sporcizia, ubriachezza molesta,

evasione del pagamento del biglietto, piccoli furti.

I risultati furono evidenti: partendo dalla correzione delle piccole trasgressioni, si riuscì a fare della

Metro un luogo più sicuro.

Successivamente, nel 1994, Rudolph Giuliani, sindaco di New York, basandosi sulla teoria in

oggetto e sulla pregressa esperienza della metropolitana, promosse la politica della “Tolleranza

Zero“.

La strategia era quella di creare comunità pulite ed ordinate, non permettendo violazioni alle leggi e

agli standard della convivenza sociale e civile. Il risultato pratico fu l’enorme decremento del tasso

di criminalità in tutta la metropoli.

Il termine “tolleranza zero” suona come una sorta di soluzione autoritaria e repressiva, ma in realtà

si tratta di una politica finalizzata alla prevenzione ed alla promozione di condizioni sociali di

sicurezza. Non è necessario agire violenza nei confronti dei trasgressori, le forze dell’ordine devono

semplicemente far rispettare le norme vigenti a beneficio dell’intera collettività.

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La tolleranza zero va manifestata nei confronti del reato, non della persona che lo commette.

L’obiettivo è di creare comunità pulite, ordinate, rispettose della legge e delle regole che sono alla

base della civile convivenza.

Questa analisi psicosociale ed ecologica della devianza pone in evidenza come determinati fattori

ambientali possano attivare comportamenti devianti anche in individui che non sono degli

antisociali.

4) Il Trauma nell’eziopatogenesi della devianza

Il Trauma è un evento non abituale, sconosciuto che investe l’individuo. Si tratta di una effrazione,

il frammento di una scheggia interna penetrata in profondità nel mondo interiore di un individuo e

che di fatto lo tiene in scacco. Il trauma è ciò che non può essere assimilato e che non si può

integrare nella propria vita; esso rappresenta una mancata conferma della propria esistenza, del

proprio diritto ad esistere, un mancato riconoscimento che provoca vergogna, colpa e vissuti

persecutori.

Un evento simile può essere il fattore scatenante di futuri comportamenti devianti che possono

configurarsi come risposta contro fobica ad un trauma subito e come protezione da un’ulteriore

vittimizzazione.

Sebbene non sia sostenibile un rapporto diretto tra trauma e devianza, studi clinici (Cauffman,

Feldman, Waterman, & Steiner, 1998) ed epidemiologici (Abram, 2004), indicano che almeno tre

giovani su quattro, afferenti al sistema giudiziario minorile statunitense, sono stati esposti ad una

qualche forma di vittimizzazione traumatica.

Le vittimizzazioni traumatiche, molto diffuse tra i giovani reclusi nel sistema giudiziario minorile

americano (Abram 2004), possono essere ritenute, a ragione, importanti fattori di rischio rispetto

all’evoluzione in senso deviante e delinquenziale della persona (Dodge, Pettit, Bates, & Valente, 1995).

Secondo alcuni autori vi sarebbe una correlazione diretta tra esperienza di vittimizzazione e

successiva condotta abusante, mentre per altri la relazione tra abuso pregresso e comportamento

deviante non sarebbe sufficiente a spiegare i reati.

In conclusione le traumatizzazioni pregresse possono rappresentare dei precursori di

condotte devianti, ma solo in relazione con altri fattori predisponenti, come difficoltà sociali e

fattori soggettivi tra cui la vulnerabilità dei soggetti. In particolare è proprio Stanghellini a

sottolineare il legame tra l’evento traumatico e la vulnerabilità:“ i quadri morbosi sono l’immagine

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che il conio antropologico imprime sul metallo della vulnerabilità”(Stanghellini Rossi Monti 2009) per

cui un evento per essere traumatico deve colpire la persona nel suo punto debole.

Quindi l’azione violenta o criminale può essere un modo per allontanare da sé quella sensazione di

impotenza che l’evento traumatico pone in essere come fatto reale, innegabile alla coscienza e che

ci fa sentire indifesi.

In un ‘delitto senza movente’ il trauma può essere presente come amplificatore di una condotta

magica già presente nell’individuo agente. Tale condotta amplificata sarà poi usata per eludere

l’esperienza traumatica risignificandola a vantaggio del proprio Ego, per vivere un intimo miraggio

di libertà attraverso l’impulso distruttivo, ossia diventare colui che compie l’azione invece di colui

che la subisce.

A questo proposito sono interessanti i casi che vedono correlato il PTSD (disturbo post

traumatico da stress)a comportamenti violenti anche omicidi.

I primissimi studi risalgono addirittura alla Guerra di Secessione Americana, ma raggiungeranno un

significativo approfondimento nei veterani americani della guerra del Vietnam.

Secondo alcuni dati emerge che gli autori di reato hanno più elevati livelli di Disturbo da Stress

Post-Traumatico (PTSD), nelle popolazioni forensi la percentuale di PTSD è molto maggiore

rispetto alla popolazione generale, tuttavia i meccanismi specifici sono poco esplorati in letteratura.

Ci sono fattori ed esperienze che determinano queste traiettorie fin dall’infanzia, dando origine alla

‘carriera criminale’: comportamenti antisociali nell’infanzia, devianza nell’adolescenza e

comportamenti criminali nell’età adulta. Non ci sono individui predisposti naturalmente

all’antisocialità, ma esistono alcune circostanze che rendono gli individui più vulnerabili ad essa. Il

trauma è un importante fattore che aumenta questa vulnerabilità. Il costante stato di allarme e le

aspettative di maltrattamento tipiche del PTSD generano una sregolazione emotiva, in particolare

della rabbia, a fronte di ciò la strategia di coping preferenziale è la messa in atto di comportamenti

violenti per proteggersi, acquisire un certo controllo sulla situazione ed uscire dal ruolo di vittima;

inoltre si può ipotizzare che il trauma contribuisca a congelare nell’individuo la sua capacità di

mentalizzare gli stati emotivi.

Questi meccanismi sono aspetti fondamentali nella genesi delle condotte antisociali.

Diversi studi mostrano come gli offender, rispetto alla popolazione generale, abbiano alti livelli di

rabbia, impulsività, traumi e dissociazioni (esperienze frequenti nel PTSD complesso).

Gli psicopatici, in particolare, rispetto ad altri offenders, hanno traumi più frequenti, traumi infantili

più precoci e maggiori esperienze dissociative.

Una ricerca shock pubblicata dalla famosa rivista ‘The Lancet’ (il18 marzo 2013) sottolinea

come i militari siano tre volte più violenti dei cittadini normali nella proporzione di: “su 100

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cittadini qualunque in media solo sei o sette saranno condannati per reati violenti

(dall’aggressione verbale all’omicidio) ma tra i giovani arruolati nelle forze dell’ordine

britanniche il numero sale a 20”. La situazione risulterebbe peggiore per i veterani di guerra,

soprattutto se al fronte per più di una volta.

Questo studio sulla violenza nelle forze dell’ordine e militari sta facendo il giro della Gran Bretagna

e del mondo: poliziotti e militari – soprattutto i più giovani – sono decisamente più propensi a usare

la violenza dal resto della popolazione, tanto che vengono condannati per reati violenti tre volte più

del resto della cittadinanza e quando si parla di veterani di guerra la probabilità è più alta del 53%

rispetto a chi non è stato al fronte. La ricerca in questione, condotta dal King’s College di Londra, è

stata svolta su quasi 14 mila militari del Regno Unito, alcuni dei quali avevano servito la nazione in

due delle ultime operazioni della Nato: la guerra in Afghanistan e quella in Iraq.

In particolare la ricerca ha considerato un campione di 13.856 militari registrati nel Police National

Computer britannico, database che registra i dati del personale di tutti i reparti di polizia sul

territorio, i militari, i servizi segreti, ecc. I ricercatori hanno studiato i tassi di crimini violenti

(esclusa però la violenza domestica) e hanno cercato di rapportarli alla presenza di disordini da

stress post-traumatico, stati di ansietà, depressione o altre patologie dell’umore.

In questo modo, hanno scoperto che tra poliziotti e militari, il tasso di condanne per reati violenti è

dell’11%, contro il 6,7% riscontrabile tra i cittadini comuni. Ma quando si considerano solo i 2700

uomini under 30, in servizio nelle forze armate, la percentuale sale a uno su cinque (20,6%). Inoltre,

come già detto, gli uomini che hanno combattuto in Iraq e Afghanistan hanno una probabilità

maggiore del 53% di commettere reati che vanno dall’aggressione verbale all’omicidio rispetto a

quelli mai stati al fronte e nel caso di persone richiamate a combattere più volte in più guerre, la

percentuale sale addirittura al 70/80%.

Uno tra gli autori dello studio, Deirdre MacManus, ha osservato che esiste una profonda

correlazione tra la propensione a commettere reati violenti e la presenza di disordini post traumatici

da stress, ma non solo; la ricerca indica anche che i militari che fanno parte di alcuni reparti non

vengono scelti a caso. In Gran Bretagna le truppe di fanteria tradizionalmente hanno promosso

l’aggressività come ‘tratto desiderabile’, nonché spesso hanno reclutato individui socialmente

emarginati e con basso livello di educazione e che spesso vantano una storia di aggressività

precedente all’arruolamento, quindi per queste persone il combattimento in guerra e le esperienze

traumatiche funzionavano solo come innesco al comportamento violento.

In conclusione possiamo considerare le variabili ecologiche (ambientali, situazionali,

traumatiche) come una sorta di innesco ad una situazione psicologica predisponente al

comportamento violento e non come le determinanti primarie di esso. Questa considerazione può

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essere utile a livello processuale per stabilire il grado di responsabilità del reo e la sua pericolosità

sociale.

L’Azione Deviante nei Delitti senza movente

Il modello G.D.A. (Goal Directed Action = azione diretta ad uno scopo) afferma che non esistono azioni

senza scopo, semmai si può distinguere fra azioni con scopo esplicito e azioni con scopo implicito;

infatti è possibile trovare uno scopo persino nelle azioni apparentemente non pianificate, come i

raptus o gli acting out. In questi casi l’attenzione deve essere rivolta al sistema cognitivo del reo che

dà senso allo scopo. Persino nelle persone con problemi psichiatrici si può individuare e

comprendere lo scopo di un’azione prendendo in esame il Sistema-Persona.

L’azione deviante è stato un tema largamente studiato dal prof. Gaetano De Leo che considerava

“la devianza come forma potente, particolare ed estrema di comunicazione”(Gaetano De Leo “L’analisi

dell’azione deviante” ed.il Mulino Bologna2004 pag.7) quindi ogni azione deviante deve essere considerata

come un’azione comunicativa.

Ma cosa si comunica attraverso la devianza? Si comunicano le proprie intenzioni e cosa si è capaci

di fare (effetti espressivi), ciò che si vuole ottenere concretamente attraverso l’atto criminale (effetti

strumentali), comunicare a se stessi la propria autoefficacia che può contribuire a sostenere una

identità deviante (effetti Sé), una ridefinizione dei ruoli e del potere personale tra soggetto attivo

(reo) e soggetto passivo (vittima), ma anche gli aspetti legati alla propria sfera immaginativo-

fantastica.

Personalmente ritengo che un’azione violenta possa essere interpretata psicologicamente anche

come il tentativo di un individuo di vivere il suo personale miraggio di libertà, nello sforzo

disperato ed illusorio di raggiungere una condizione migliore rispetto a quella vissuta nel qui ed ora.

Naturalmente tutti i miraggi hanno la caratteristica di dissiparsi quando irrompe la realtà, nella sua

immediatezza, e di lasciare spazio ad un vuoto esistenziale che sarebbe, citando Galimberti,

“un deserto di senso”.

In particolare nei ‘Delitti senza movente’ il deserto di senso è una caratteristica dominate, ma

questo non vuol dire assenza di significato. Nel delitto senza movente il motivo non è assente, ma

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va ricostruito all’interno di un’indagine psicologica, basata anche sull’utilizzo della metodologia

narrativa che permette di individuare la forma del pensiero che ha costruito una determinata azione.

A questo proposito scrive De Leo: “ Il resoconto di ogni azione umana è infatti informato e reso

intellegibile da una struttura narrativa, che ne orienta la variegata molteplicità alla luce delle

intenzioni dell’attore-narratore… gli essere umani pensano, percepiscono immaginano e sognano

secondo una struttura narrativa. Dati due o tre impulsi sensoriali, un essere umano li organizzerà

all’interno di una storia o almeno nella cornice di una storia; in altri termini l’individuo da agli

eventi un ordine e una trama ponendo così le basi per una descrizione narrativa delle realtà. La

narrazione quindi può essere considerata come un modello mentale cioè un modalità di percepire e

organizzare la realtà rendendola realtà interpretata”(Gaetano De Leo “L’analisi dell’azione deviante” ed. il

Mulino Bologna 2004 pag.30) e ciò risponde al bisogno dell’individuo di comprendere e interiorizzare la

realtà circostante, attraverso un lavoro interpretativo che gli permetta di diventare parte integrante

della realtà semplicemente raccontandola.

Nella tipologia dei delitti senza movente possono essere inclusi:

1) i delitti entro le mura domestiche di appartenenti al proprio nucleo familiare di cui il nostro Paese

detiene il primato europeo.

2) i cosiddetti delitti passionali (che dovrebbero essere chiamati delitti da possesso).

3) i delitti da risentimento.

4) gli omicidi compulsivi di massa.

1) Delitti entro le mura domestiche: il caso di Carlo Lissi e del suo miraggio di libertà

Carlo Lissi nel 2014 è stato autore dello sterminio programmato della sua famiglia: della moglie

Cristina Omes, di 38 anni, e i suoi due figli Giulia e Gabriele, di 5 anni e di 20 mesi. Si tratta di un

grave delitto che presenta le caratteristiche di un delitto senza un movente logico. A raccontarlo

sono stati, nel corso di una conferenza stampa, il procuratore capo di Pavia Gustavo Cioppa e il

comandante provinciale dei Carabinieri di Milano, Maurizio Stefanizzi. “Non c'è stato un raptus o

un elemento scatenante come una lite, o una brutta notizia; Lissi ha agito in modo lucido,

nonostante il folle gesto”. Sono circa le 23 quando Carlo e la moglie Cristina si trovano nel

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soggiorno della villa. I bambini dormono di sopra. I due hanno un rapporto sessuale, poi lei si

adagia su un divano, a guardare la tv, e lui si alza e va in cucina. Un gesto normale, come per bere

un bicchiere d'acqua, ma quando torna impugna un lungo coltello, si porta silenziosamente alle

spalle della moglie e la colpisce di punta tra la gola e le spalle. Lei scatta in avanti, barcolla, si gira,

lo guarda negli occhi e gli chiede “Carlo che stai facendo... perché?”, grida aiuto (la sua voce verrà

sentita dai vicini ma scambiata per un urlo per la partita, anche se non era ancora cominciata) ma

come risposta ottiene un pugno che la fa stramazzare al suolo. Una volta a terra lui la colpisce

ancora uccidendola. A questo punto l'uomo sale al piano di sopra, dove ci sono la camera

matrimoniale e le due camerette dei bambini. Prima va in quella della figlia di 5 anni per ucciderla

epoi va nella camera grande, dove il fratellino abitualmente viene fatto addormentare per poi essere

spostato in cameretta, per uccidere anche lui. Quindi scende in cantina si fa una doccia, risale, si

veste. Ha un appuntamento con un amico per vedere la partita dell'Italia. Come niente fosse si

prepara, sale sull'auto, si ferma alcune centinaia di metri dopo, si sbarazza del coltello gettandolo in

un tombino, arriva al pub dell'appuntamento, saluta l'amico e guarda la partita. Poi alle 2 torna a

casa, e inscena il ritrovamento dei corpi e il panico per la strage della sua famiglia da parte di

presunti rapinatori. L'uomo alla fine confesserà ai carabinieri il triplice omicidio. Tutti e tre sono

stati sgozzati e sui loro corpi sono state trovate numerose altre lesioni che non fanno escludere un

accanimento.

Questo lo hanno comunicato i carabinieri del Comando provinciale di Milano che hanno condotto le

indagini. Possiamo considerare questo delitto un ‘delitto senza movente’ o meglio un delitto dove il

movente è interno alla sfera soggettiva del reo. Secondo il prof. Paolo Capri la famiglia Lissi

sarebbe caratterizzata da una forte connotazione conformistica che entrerebbe in contrasto con

l’autonomia individuale, sociale e ludica che Lissi Carlo avrebbe mantenuto. Dal materiale a

disposizione si evince che il funzionamento cognitivo di Lissi Carlo sia organizzato in una

ideazione spesso non aderente ai processi logico formali compatibili con i dati normativi. Si

ipotizza inoltre un sistema familiare caratterizzato dall’ipercontrollo percettivo confinato in rigidi

schemi di riferimento. C’è da ritenere che la moglie Cristina rappresenti l’aspetto logico razionale

della famiglia mentre in Lissi prevale un aspetto narcisistico con un pensiero magico strutturato su

un pensiero infantile. Ciò è evidenziato in particolare dalla confabulazione e dallo staging, ossia

dall’aver inscenato una finta rapina. Trattandosi di un pensiero immaturo vi è da escludere la

premeditazione perché egli ha agito sul “qui e ora”, mentre l’aver fatto sesso con la moglie prima

dei delitti e l’essersi addormentato subito dopo sarebbe sintomo di una scissione. Il Movente di

questo delitto è intriso di ‘magia’, si tratta dell’illusorio tentativo di Lissi di ritrovare la propria

libertà attraverso l’impulso distruttivo rivolto in particolare contro i suoi legami di sangue. Un

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desiderio di libertà dominato da un’ebbrezza nichilista guidata dal pensiero magico che nel caso

specifico è innestato sull’infantilismo e quindi appare disfunzionale. Si tratta quindi di un

narcisismo disfunzionale perché innestato su base immatura e infantile che si manifesta con una

dissociazione. In questo caso possiamo osservare come Lissi Carlo abbia vissuto il suo miraggio di

libertà eliminando magicamente tutti i legami senza rendersi conto delle conseguenze della sua

azione nella realtà.

Nei delitti senza movente sembra che la costruzione del progetto omicida avvenga quasi sempre

sulla base di una componente ecologica legata ad un’esperienza reale del soggetto reo che funge da

innesco per la successiva componente psicologica. Nel caso specifico di Lissi compare una collega

di lavoro di cui lui si sarebbe invaghito e a cui lui faceva insistentemente la corte. La donna lo ha

sempre respinto a causa del legame coniugale del Lissi. L’elemento di realtà in questo caso può

rappresentare la base su cui si insinua il pensiero magico che impedisce di fatto una visione

coerente e logica della realtà. La ragione viene quindi sabotata in virtù di un miraggio reso possibile

soltanto attraverso una soluzione finale, l’omicidio.

2) Delitto da Possesso: il caso del marchese Casati.

Si tratta di un delitto che risale al30 agosto del 1970 e che coinvolge il marchese Camillo

Casati Stampa, sua moglie Anna Fallarino e il suo amante Massimo Minorenti. Si è trattato

di un duplice omicidio con suicidio: il marito Camillo Casati uccise la moglie e l’amante per

poi si togliersi la vita; l’arma usata un fucile browning calibro 20. A prima vista sembra un

delitto passionale, marito scopre la moglie con l’amante e perde la testa, ma non fu così. Il

marchese Casati aveva una perversione, amava osservare la moglie fare sesso con altri

uomini e ci sono delle foto a testimoniarlo. Nella perquisizione emersero centinaia di foto

con Anna Fallarino ritratta nuda in pose provocanti, con scatti che la sorprendono impegnata

in prestazioni sessuali con uomini diversi. Camillo Casati aveva anche l’abitudine di

annotare in un diario tutti i particolari delle avventure sessuali della moglie. Non si tratta di

un delitto passionale. Il marchese Casati era artefice e prigioniero di una sorta di cerchio

magico di cui solo lui doveva possederne la chiave e scriveva nel suo diario: ”mi piace

quando sei a letto con un altro uomo, sento di amarti ancora di più”. Si tratta di voyeurismo

di tipo candaulesimo ossia il piacere di guardare il proprio partner durante l’atto sessuale

con un'altra persona, la moglie e i suoi amanti erano come degli oggetti manipolati

all’interno di un copione scritto e diretto dal soggetto dominate, divenuto poi assassino per

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disperazione. Il movente di questo ‘delitto da possesso’ è la rottura di questo metaforico

cerchio magico sorretto da un pericoloso equilibrio sado/masochista. La rottura è avvenuta

a causa dei sentimenti che la moglie Anna ha iniziato a provare per il suo ultimo amante

Massimo Minorenti; infatti poco importava al marito Camillo che la moglie avesse rapporti

coinvolgenti e soddisfacenti sul piano fisico con il suo amante, purché non si innamorasse di

lui o provasse sentimenti di affetto per lui. In questo caso il sottile equilibrio viene

sovvertito con la conseguente distruzione psicologica del regista di questo gioco perverso, a

cui non resterà altra via che uccidere e uccidersi.

3) Delitti da risentimento:

1) Omicidio di un benzinaio: A Palermo nel 2015un pensionato di 63 anni, Mario Di

Fiore, ex manovale, ha ucciso con un colpo di pistola (calibro 7,65 detenuta

illegalmente) alle spalle un benzinaio Nicola Lombardo, di 44 anni, dopo un litigio

per il prezzo del pieno. La motivazione: pensava di essere stato truffato dal

benzinaio, cosa risultata non vera. Si tratta di un delitto a cui il P.M. Ennio Petrigni

ha contestato l’aggravante dei futili motivi. Da un punto di vista psicologico

giuridico i futili motivi possono consistere nella presenza di una logica del miraggio

o condotta magica, che avrebbe indotto il reo a commettere un’azione immotivata

sotto l’influenza di visioni alterate della realtà e connesse con il vissuto di

impotenza legato alla sensazione di essere imbrogliato; questo avrebbe reso il reo

incapace di mentalizzare e contenere emozioni distruttive.

2) Strage per un parcheggio: Un altro delitto da risentimento è quello commesso

dall’agente penitenziario Luciano Pezzella e costato la vita a 4 persone, tre delle

quali erano suoi vicini di casa. Il motivo scatenante della furia omicida è stato il

parcheggio occupato da un furgoncino da lavoro usato dalle vittime, situazione che

accadeva frequentemente scatenando l’ira del Pezzella. In questi casi vi è sempre un

elemento di realtà scatenante, vissuti intollerabili che vanno a colpire i punti deboli

dell’ego e questi punti deboli riguarderebbero ‘ la sensazione destabilizzante di

essere vittime di un ingiustizia che dovrà essere stabilizzata attraverso l’azione

violenta’. Nel caso del benzinaio, essere vittima di un imbroglio per un prezzo

troppo alto e nel caso della strage per il parcheggio potrebbe essere il vissuto legato

alla violazione del proprio spazio vitale.

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3) Strage al Tribunale di Milano: Il 9 aprile 2015, l'imprenditore Claudio Giardiello si

è reso protagonista di ‘un giorno di follia’ uccidendo tre persone al tribunale di

Milano. Il movente del Giardiello è stato il rancore contro chi pensava fosse la causa

di tutte le ingiustizie subite. Insomma si tratta di un “movente magico”. Dalla cella

il reo ha affermato di sentire un grande vuoto nel petto. Giardiello non ha mai

spiegato come sia riuscito a entrare in Tribunale armato, come abbia beffato i

controlli all'ingresso e sia arrivato indisturbato nell'aula dove si sarebbe celebrata

l'udienza del processo in cui era imputato per la bancarotta della sua società,

l'Immobiliare Magenta. Interrogato dalla procura, prima di Milano e poi di Brescia,

dove è stata trasferita l'indagine, non ha mai aiutato pm e carabinieri del Nucleo

investigativo di Milano a ricostruire la dinamica di quella mattina. Comparso nei

fotogrammi delle telecamere dell'ingresso posteriore di via San Barnaba, presidiato

dal metal-detector, Giardiello entrò in tribunale già alle 8.40. Chi dovrebbe fermarlo

non si accorge di quell'uomo in caduta libera, precipitato da un passato di milioni

facili nella "Milano da bere" a un presente in cui elemosina un lavoro e una casa

popolare al comune di Garbagnate Milanese.

Il 9 aprile, dopo aver vagato tra i corridoi, raggiunge l'udienza. In aula litiga col suo

avvocato, il legale annuncia davanti a tutti la rinuncia al mandato, ma la Corte lo

invita a continuare nella difesa. È in questi secondi che qualcosa scatta nella mente

del killer e scatena la sua furia omicida. Forse la sensazione di essere stato

abbandonato e che tutto fosse perduto ? Allora Giardiello estrae la sua Beretta

semiautomatica e fa fuoco contro il suo ex legale, il giovane avvocato Lorenzo Claris

Appiani, 37 anni, chiamato a testimoniare proprio su insistenza dell'imputato, come

nella pianificazione di una trappola. Appiani viene colpito a morte quando è ancora

in piedi davanti al banco dei testimoni. Poi la sete di vendetta si sposta contro gli

altri ex soci e coimputati. Giardiello spara prima contro il nipote, Davide Limoncelli,

40 anni, che rimane ferito poi ancora contro Giorgio Erba, 60 anni, centrato al petto e

ucciso. Ma nella paranoica lista di morte c'è anche il giudice fallimentare Ferdinando

Ciampi, che Giardiello fredda con due colpi nel suo ufficio. Mentre scappa, incontra

per caso il commercialista Stefano Verna e lo gambizza sulle scale. Infine, ricercato

in tutta la provincia, Giardiello va in scooter a caccia di un altro ex socio, salvo solo

perché i carabinieri lo bloccano prima.

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4) Omicidi compulsivi di massa: il massacro al Virginia Polytechnic Institute

Il 16 aprile 2007 lo studente Cho Seung-Hui, sudcoreano di 23 anni, compie una strage presso il

Virginia technic Institute. Si tratta di una delle più gravi stragi in istituti scolastici compiute in

America con un bilancio di 33 morti compreso il killer che si è suicidato. Si è trattato di un attacco

programmato in stile paramilitare sottolineato anche dall’abbigliamento del killer vestito con una

tuta mimetica. Tra i possibili moventi vi sarebbero i gravi atti di bullismo di cui è stato vittima

durante la scuola media e la scuola superiore per via dei suoi disturbi psichici. In terza media, a

Seung-Hui Cho è stato diagnosticato un disturbo depressivo maggiore e mutismo selettivo associato

ad una grave forma di fobia sociale che lo ha inibito a parlare. La famiglia di Cho ha cercato la

terapia per lui e ha ricevuto l'aiuto periodicamente durante la scuola media e scuola superiore. Altre

notizie riportarono invece che il gesto fosse il risultato di una disputa avvenuta internamente al

campus fra Cho e colei che sarebbe stata in passato una sua fidanzata, Emily Hilscher (è stato

tuttavia successivamente appurato che la ragazza non aveva mai avuto alcuna relazione con Cho).

Durante le investigazioni della polizia nella camera del dormitorio in cui alloggiava l'assassino fu

trovata dagli inquirenti una lettera che descriveva come la sua vita fosse un inferno e nella quale

motivava il folle gesto: "È tutta colpa vostra", "mi avete spinto a farlo", scriveva. Se la prendeva

inoltre con i figli dei ricchi presenti nell'ateneo, definendo i loro comportamenti indecorosi. Non

mancavano inoltre accuse ai professori dell'ateneo, quelli che nella lettera definiva dei ciarlatani.

L'Università aveva anche ottenuto da un magistrato locale (a causa delle lamentele di due sue

compagne di classe che indicavano di aver ricevuto messaggi minacciosi) un ordine di detenzione

temporanea che gli permetteva di ricoverare Cho in una struttura medica. Il ragazzo fu inserito nel

dicembre 2005 nell'ospedale psichiatrico Carilion St. Albans. Il giovane assassino era inoltre stato

segnalato in precedenza alle autorità del posto per comportamenti violenti. Non raramente infatti,

Cho seguiva donne all'interno del campus e sarebbe stato anche il responsabile di un incendio

appiccato in uno dei dormitori dell'ateneo. Un professore anonimo definì il lavoro scolastico di Cho

come molto adolescenziale e malato, mentre la professoressa Lucinda Roy rimase colpita da 2

canzoni che Cho scrisse per un corso d'inglese, canzoni caratterizzate da testi molto violenti. Per

questo motivo interpellò diverse volte alcuni ufficiali all'interno del campus, i quali però risposero

alla donna che in assenza di una minaccia vera e propria, nulla poteva essere fatto per non violare

la libertà di espressione del ragazzo. L’insegnante consigliò a Cho di seguire una terapia

psicologica, consiglio che lui non prese mai in considerazione. Nella stessa intervista concessa alla

ABC la professoressa Lucinda Roy definì Cho come un ragazzo “straordinariamente solo”…“la

persona più sola ed isolata che abbia mai incontrato in vita mia". Aggiunse che era abitudine del

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ragazzo indossare sempre occhiali da sole scuri e cappucci, inoltre in classe parlava sempre a voce

bassa e si prendeva diversi secondi prima di rispondere alle domande dei professori. Un'altra

professoressa di Cho, Nikki Giovanni durante un'intervista alla CNN parlò del modo di scrivere di

Cho: “Non era una brutta poesia. Era intimidatoria... c'era qualcosa di cattivo in quel ragazzo. Era la

cattiveria, ho avuto giovani problematici e persone pazze, ma era la cattiveria che mi preoccupava”.

Da queste testimonianze sembra emergere una personalità immatura con tratti paranoidi e un

carattere impulsivo-aggressivo, ma questo non basta a giustificare una strage di queste proporzioni.

Nella vicenda c’è soprattutto una ‘cornice magica’ che è il movente dell’azione distruttiva e questo

è lo stesso assassino a fornircelo attraverso foto di se stesso vestito con una mimetica mentre

impugna due pistole e con alcune testimonianze video in cui afferma di essere stato costretto a fare

ciò; ma costretto da chi e da cosa? Dal suo mondo magico, l’unica dimensione all’interno della

psiche di Cho che lo faccia sentire meno solo, che lo faccia sentire forte, sicuro di sé, che lo

trasformi da timido ragazzo problematico a killer spietato, da preda a predatore.

5) Uccidere per noia:

Il pensiero magico è un pensiero senza un‘perché’, ma fatto solo di ‘come’ e “uccidere per noia” è

un ‘come’ che non ha un ‘perché’.

Un simile evento tende a prendere forma in una dimensione esistenziale dominata dalla frustrazione

e dall’apatia. Lo stesso Wilson (1972) rilevò questo aspetto dicendo che per una mente senza

impegni concreti e dominata dal tedio e dalla noia, anche un pelo può diventare un serio problema.

Non stupisce quindi che gli psicopatici abbiano una forte propensione alla noia e che per questo

abbiano bisogno di stimoli sempre più forti, elemento che può diventare una motivazione a

commettere delitti. L’apatia è una tendenza che porta l’uomo a scegliere la via più facile senza

sforzo. Questo può essere il risultato di una deprivazione che avviene anche a causa di sistemi

educativi che tendono a levare il tempo, la fatica e gli strumenti alla comprensione (di se stessi e del

mondo). Il tempo in particolare è la base funzionale su cui si organizza l’attività del pensiero,

quindi mancando il tempo si riduce lo spazio per pensare; si tratta di una questione concettuale e

pedagogica che sarebbe da affrontare a scopo preventivo.

Nell’era contemporanea del postmodernismo ci troviamo innanzi ad un mondo vuoto popolato più

da fantasmi, da nickname che da persone in carne ed ossa. Un mondo in bilico tra l’affermazione

dell’ontologica vuotezza e la negazione di questa (operata spesso dalle logiche del mercato). Non

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stupisce che alla relazione con il vuoto si preferisca il possesso di un oggetto ad ogni costo. La

questione è infatti dominata da due strade: la prima che mira a ridurre la scena del mondo a un

orpello estetico e la seconda che è orientata verso l’apprendimento pratico e porta ad un rapporto

più autentico con il proprio essere.

La via degli orpelli estetici presenta un’inconsistenza reale, fonte di tedio e noia, si tratta di un

limite che diviene anche un ostacolo. Il limite può determinare un’angoscia terribile, una feroce

paura, ma è in questa radicalità dell’angoscia che il limite si sente come possibilità di superamento,

questo però avviene nell’assenza di un rapporto realizzante con l’alterità, quindi non sarà la ragione

a togliere il disagio, ma l’immaginazione. La strada immaginaria fornisce l’illusione di varcare il

limite, ma in realtà essa non ha alcuna direzione e per citare Pessoa porta chi la percorre “a varcare

la monotonia di se stesso”!

Credo che questo percorso mentale ed esistenziale sia alla base di un delitto motivato dalla noia o

meglio dal senso di vuoto per un’esistenza priva di scopi concreti e coerenti con il proprio essere.

Quesiti Peritali nei Delitti senza movente

1) Capacità di Intendere e di Volere nei Delitti senza movente

La capacità di intendere e volere (art.85 c.p.) si basa sull’accertare l’imputabilità del soggetto reo

nel momento in cui ha commesso il fatto.

Spesso nei delitti senza movente viene facile attribuire l’epiteto di folle a qualcosa che non rientra

nella sfera razionale e quindi appellarsi al “vizio totale o parziale di mente” senza considerare che in

questi casi il movente viene generato da un complesso di eventi che si susseguono all’interno della

sfera psichica dell’individuo, ma che hanno sempre un legame con un evento della realtà concreta,

spesso frustrante.

Ad esempio Charles Manson iniziò a predicare la fine del mondo e lo sterminio (chiamati da lui

stesso ‘bagni di sangue rituali’ ) dopo aver ricevuto una telefonata dal produttore discografico Terry

Melcher (proprietario della villa in cui poi verrà massacrata Sharon Tate) che aveva di fatto negato

a Charles la pubblicazione del suo disco da solista. Nel caso di Charles Manson il fattore di realtà

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scatenante ‘il delirio omicida’ è stato la fine del suo sogno di essere un cantautore famoso. Per una

ulteriore valutazione credo sia determinante esaminare il periodo di latenza che trascorre tra il

pensiero e l’agito. Più è lungo questo tempo e più è possibile escludere che il soggetto sia incapace

di intendere e volere.

A questo proposito è interessante notare che gli psicopatici hanno una notevole capacità di

trattenere gli impulsi, di congelarli per metterli in atto al momento opportuno, quindi non agiscono

quasi mai in preda ad un raptus e possono essere considerati capaci di intendere e volere.

Un soggetto che agisce lucidamente all’interno di un meccanismo magico lo fa mantenendo

la sua capacità di intendimento e la sua volontà; queste infatti pascolano entrambe nel recinto della

magia e del miraggio autoindotto, come rifugio della mente da una situazione reale percepita come

devastante. Riguardo ai delitti senza movente si può ipotizzare la presenza di un periodo di

incubazione (un delirio strutturato) fatto di fantasie ricorrenti a carattere violento che finisce con

irrompere nella realtà attraverso l’atto omicida. Credo sia molto importante osservare questo tempo

di latenza, scandagliando tutti gli indizi che hanno molto spesso degli agganci nella realtà concreta.

Possiamo dire che i vestiti dell’assassino prima di essere indossati rimangono appesi, per un certo

tempo, ai ganci dell’attaccapanni della realtà che metaforicamente corrisponde ad episodi reali

precedenti all’atto.

Sul caso di Lissi Carlo, il prof. Paolo Capri (2015) fa notare che: “l’infermità potrebbe essere

presa in considerazione partendo dall’esame della sfera cognitiva del soggetto, caratterizzata da un

narcisismo con una onnipotenza fallimentare. Per cui solo dinnanzi ad un narcisismo disfunzionale

o psicopatia disfunzionale (che si manifesta con una disorganizzazione) si potrebbe sostenere

l’ipotesi di un vizio parziale di mente. Al contrario nel caso di un soggetto che presenti un delirio

strutturato paranoide e che comincia ad avere un delirio di gelosia verso la compagna, ma anche di

persecuzione, non si può chiedere l’infermità mentale in quanto il delirio è strutturato e lucido”.

Quindi per sostenere l’incapacità di intendere e di volere occorre accertarsi che il soggetto,

al momento in cui ha commesso il delitto, sia in uno stato disfunzionale e di disorganizzazione

mentale. Parafrasando Hannah Arendt (1987) possiamo dire che l’azione criminale con vizio

parziale o totale di mente sia frutto “della mancanza di pensiero” in cui l’aspetto deviante sarebbe il

risultato di una deriva psicotica. Una tale situazione potrebbe essere maturata, come disse Jeammet

(1992), a causa di continue “rotture del senso di continuità del soggetto e delle sue basi

narcisistiche” (Philippe Jeammet “Psicopatologia dell'adolescenza” Borla, Milano,1992 pag.56); si tratta di

‘rotture’ che rendono il soggetto impotente di fronte ad un ambiente imprevedibile, nei confronti del

quale svilupperebbe dipendenza e reattività massiva. In questi casi l’agito sembra inseguire una

necessità rappresentativa oltre a quella di colmare rapidamente un ritardo evolutivo attraverso

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un’improvvisa maturazione. In questo senso l'acting ha una valenza reintegrativa oltre che

comunicativa. Ciò sarebbe indicativo di immaturità patologica che potrebbe giustificare il vizio

parziale di mente in quanto l’area difettuale precoce riguarderebbe l’aspetto evolutivo e le capacità

simboliche; è proprio nel punto d’incontro tra situazioni di scacco pregresse e circostanze

contingenti che avviene il cortocircuito del pensiero. Questo cortocircuito del pensiero aprirebbe le

porte all’agito deviante.

Al contrario il pensiero magico, alla base di un’azione criminale, è portatore di una lucida follia, di

una logica nichilista che trova il suo perché nell’eliminazione dell’oggetto su cui le proiezioni e le

fantasie attecchiscono meglio. A mio avviso risulta difficile parlare di incapacità di intendere e

volere o vizio parziale o totale di mente, perché l’oggettività del comportamento omicida è

indicativa di una volontà di annichilimento dell’oggetto destabilizzatore, che viene scelto spesso

con cura, non a caso. L’Oggetto bersaglio spesso possiede delle caratteristiche che agli occhi

dell’offender sono determinanti e fonte di ispirazione per commettere il reato. Cho Seung-Hui,

l’omicida compulsivo del Virginia technic Institute, ha definito sul web le sue future vittime come

“giovani ricchi e dissoluti “ e “ciarlatani disonesti” ossia con toni dispregiativi e pregiudiziali tipici

di una condotta magica, ma adeguati con una dimensione concreta, anche se delirante, perché fa

riferimento a persone precise e situazioni reali. Il pensiero magico sembra stabilizzare e definire i

confini del delirio in una sorta di alchimia uroborica, il cui miraggio autoindotto viene rigenerato in

una circolarità ossessiva come antidoto contro il vuoto.

Pericolosità sociale nei Delitti senza Movente

Nei delitti senza movente ossia dove il movente è interno alla sfera soggettiva del reo è ipotizzabile

che vi sia la possibilità di reiterazione del reato e che il soggetto possa essere considerato

pericoloso. Se un soggetto uccide la fidanzata durante una “crisi di gelosia” è auspicabile che ciò

possa accadere anche con un’altra fidanzata futura. Naturalmente non è da escludere che attraverso

un lungo percorso di detenzione e con una adeguata e costante attività di sostegno psicologico il reo

possa riabilitarsi o quanto meno stabilizzarsi.

Quindi ogni indulto o sconto di pena per buona condotta deve essere considerato un ‘atto

criminoso’ sia su di un piano morale che etico perché espone la collettività alla possibilità di

ritrovarsi una cellula cancerogena in circolazione.

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Spesso la normativa giurisprudenziale, agli occhi del cittadino comune, sembra tutelare più i

carnefici che le vittime; per cui per il reo esiste sempre una speranza che alla vittima non è quasi

mai concessa.

Bibliografia

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INDICE

Introduzione pag. 1

I Delitti Senza Movente pag. 4

1) Il Pensiero Magico

2) Motivazioni ed Emozioni: ‘nella magia la verità è frutto delle emozioni’

Analisi dell’Azione pag. 8

1) Ecologia dell’Azione

2) L’Azione Deviante

3) Ecologia dell’Azione Deviante

-Il Delitto D’onore

-Assassini in divisa: il Distintivo e il Passamontagna

-Finestre rotte: la situazione che corrompe l’individuo

4) Il Trauma nell’eziopatogenesi della devianza

L’Azione Deviante nei Delitti senza movente pag.21

1) Delitti entro le mura domestiche: il caso di Carlo Lissi e del suo miraggio di libertà

2) Delitto da Possesso: il caso del marchese Casati.

3) Delitti da risentimento

4) Omicidi compulsivi di massa: il massacro al Virginia Polytechnic Institute

5) Uccidere per noia

Quesiti Peritali nei Delitti senza movente pag.29

1) Capacità di Intendere e di Volere nei Delitti senza movente

2) Pericolosità sociale nei Delitti senza Movente