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DESIGN AMORE MIO 2 PREFAZIONE Sono passati pochi anni da quando scrissi e pubblicai Design Amore Mio, pensando che sarebbe rimasta l’unica testimonianza della mia esperienza di scrittore. Il libro voleva dare alcune semplici risposte a domande ricorrenti poste da neo diplomati designer, ma anche di persone semplicemente interessate a questo mestiere, su come si inizia a farlo, come si può incontrare un produttore delle proprie idee, in che modo proteggerle e anche come farsi pagare. Dopo quella pubblicazione, volutamente leggera ed ironica, più di qualcuno mi ha suggerito di farne un’altra, basata sulle mie esperienze lavorative e che andasse più a fondo su argomenti specifici come i cambiamenti e le strategie, le evoluzioni nel rapporto tra il designer e le industrie committenti, sia a livello tecnico e tecnologico che economico. Data la fatica dell’opera prima, l'idea di avventurarmi in un nuovo progetto di questo genere mi preoccupava.. Eppure quella prima esperienza mi aveva portato molte soddisfazioni, sia per i complimenti ricevuti sia per le critiche costruttive poste dai lettori, che sono state, per me, un prezioso spunto di crescita. In Design amore mio avevo volutamente tralasciato molti argomenti del lavoro del designer, ripeto: era un testo più autobiografico. Oltre al riconoscimento per aver portato a conoscenza dei lettori alcuni temi specifici della professione, ho anche ricevuto lamentele per averne trascurati altri, ad esempio per non aver parlato dei ruoli con i quali la mia professione interagisce. Il tempo che passa e fa dimenticare le cose negative, il desiderio tutto senile di raccontare in un nuovo modo la mia avventura, mi hanno infine suggerito di riprovarci.

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Page 1: Design Amore Mio 2 - lencidesign.com · Sono passati pochi anni da quando scrissi e pubblicai Design Amore Mio , pensando che ... domani". La rubrica affrontava diversi argomenti,

DESIGN AMORE MIO 2

PREFAZIONE

Sono passati pochi anni da quando scrissi e pubblicai Design Amore Mio, pensando che

sarebbe rimasta l’unica testimonianza della mia esperienza di scrittore. Il libro voleva dare

alcune semplici risposte a domande ricorrenti poste da neo diplomati designer, ma anche

di persone semplicemente interessate a questo mestiere, su come si inizia a farlo, come

si può incontrare un produttore delle proprie idee, in che modo proteggerle e anche come

farsi pagare. Dopo quella pubblicazione, volutamente leggera ed ironica, più di qualcuno

mi ha suggerito di farne un’altra, basata sulle mie esperienze lavorative e che andasse

più a fondo su argomenti specifici come i cambiamenti e le strategie, le evoluzioni nel

rapporto tra il designer e le industrie committenti, sia a livello tecnico e tecnologico che

economico. Data la fatica dell’opera prima, l'idea di avventurarmi in un nuovo progetto di

questo genere mi preoccupava.. Eppure quella prima esperienza mi aveva portato molte

soddisfazioni, sia per i complimenti ricevuti sia per le critiche costruttive poste dai lettori,

che sono state, per me, un prezioso spunto di crescita.

In Design amore mio avevo volutamente tralasciato molti argomenti del lavoro del

designer, ripeto: era un testo più autobiografico. Oltre al riconoscimento per aver portato

a conoscenza dei lettori alcuni temi specifici della professione, ho anche ricevuto

lamentele per averne trascurati altri, ad esempio per non aver parlato dei ruoli con i quali

la mia professione interagisce. Il tempo che passa e fa dimenticare le cose negative, il

desiderio tutto senile di raccontare in un nuovo modo la mia avventura, mi hanno infine

suggerito di riprovarci.

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Questo libro racconta le mie considerazioni pratiche, rivolte a tutti coloro che si trovano

all'inizio della loro professione di designer e ancora non sanno come diffondere e

difendere le proprie idee in questo mondo professionale complesso. Si tratta di semplici

spunti, che non pretendono di descrivere una filosofia del design, soprattutto perché la

mia esperienza nel settore, iniziata oltre quarant'anni fa, ha ben poco di teorico e si fonda

essenzialmente sull'esperienza. Ho voluto quindi integrare in questo libro anche le

riflessioni pubblicate nella rubrica mensile Workshop della rivista "Il bagno oggi e

domani". La rubrica affrontava diversi argomenti, non solo quelli legati all'ambiente

bagno, che da semplice area di servizio si è oggi trasformato in un angolo di benessere

all'interno delle nostre case. Infine, ho anche inserito nel testo alcune considerazioni nate

da scambi d'opinione con colleghi e amici e alcuni dati derivanti dall'interazione formale

con le aziende, che un giovane designer agli esordi potrà trovare utili.

È noto l'episodio del calabrone, che in base ai calcoli e gli studi di un gruppo di ricercatori

della NASA, l’ente americano di ricerca aerodinamica sul volo, non dovrebbe poter

volare! Il calabrone non conosce i risultati di queste ricerche e cosi , per istinto, vola e

anche bene! Io mi sento un calabrone - designer. Ho deciso di scrivere questo libro

basandolo sulla mia esperienza di volo, anziché sulle teorie un po' astratte di chi non ha

mai volato nel grande spazio del design. Sono teorie verso le quali nutro il massimo

rispetto, ma sulle quali non sono mai riuscito a fondare i miei atti pratici, basati solo su

memorie di esperienze vissute per decenni di attività professionale. Iniziata negli anni

sessanta, la mia attività di designer si fondava su esperienze condivise con mio padre

industriale e costruttore edile, sulla mia attività di giovane arredatore , di commerciante di

mobili moderni e dalla preparazione scolastica del disegno tecnico.

CAPITOLO PRIMO

Ho diviso questo mio scritto in tre sezioni; la prima rivolta maggiormente al designer come

consigli sull’operatività rivolta alla creazione e allo sviluppo del progetto, la seconda parte

è una presa di conoscenza da parte dello stesso designer delle strutture aziendali verso

le quali si dovrà interfacciare per sviluppare il proprio progetto. La terza parte presenta

alcuni progetti del mio studio sui quali descriverò le caratteristiche e le motivazioni che

hanno determinato il loro sviluppo produttivo e commerciale.

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Italiani un popolo di designer

Ai tempi del governo Craxi noi designer, soci ADI, avanzammo la richiesta di essere

tutelati e d'essere oggetto d'iniziative a favore della nostra professione. Ci risposero che,

essendo appena 600-700, il nostro numero era talmente esiguo da non suscitare alcun

interesse politico.

Ma si trattava proprio di quel piccolo numero di designer che ha reso famosa l'Italia nel

mondo, grazie a prodotti ed espressioni anche artistiche in ogni settore, dalle auto

all'abbigliamento e fino all'arredamento. Stiamo parlando, in poche parole, dello stile

italiano nel mondo.

Allora non esistevano ancora corsi universitari, ma solo poche scuole private a Milano.

Oggi il mondo politico ha preso coscienza del valore economico rappresentato dal design

e le università da qualche hanno attivato corsi di laurea e di diploma universitario in molte

città come Milano, Roma, Firenze, Napoli, Pescara, Camerino, Ascoli Piceno e altre. Con

qualche migliaio di laureati ogni anno e una maggiore consapevolezza da parte degli

imprenditori sul valore aggiunto del design, lo stile italiano sta riconquistando quella fama

che aveva corso il rischio di perdere.

La legittima domanda suscitata da tale meccanismo è se questi neo laureati troveranno

un lavoro. Io sono ottimista. Molti architetti finiscono per fare i lavori più disparati e

apparentemente non legati alla loro specifica formazione. Lavorano come impiegati negli

uffici pubblici e privati con mansioni burocratiche, mediatori immobiliari, disegnatori di

moda ecc.. Ma le loro competenze non potranno che contribuire a diffondere la cultura

dell'architettura negli ambienti diversi in cui si troveranno ad operare. Così, qualunque

possa essere la strada seguita, molti futuri designer contribuiranno con le loro

conoscenze tecnico-stilistiche dei prodotti che ci circondano, a creare una cultura più

evoluta sull'uso e la selezione degli oggetti. Questo contribuisce a migliorare la qualità

della vita di tutti noi.

È un meccanismo che interessa chi lavora come designer, ma incide anche nella vita

quotidiana dei semplici utilizzatori, sensibilizzando chi lavora nell'amministrazione

pubblica e nel settore dell'industria privata, e anche coloro che diventeranno politici o

insegnanti. Si tratta di settori che spesso hanno ignorato le tematiche del bello e dell'utile,

nonché il fondamentale tema della sicurezza nella progettazione degli oggetti quotidiani.

Essere designer è dunque un approccio mentale che è applicato a qualsiasi professione:

il designer continua a progettare elementi di miglioramento per la vita di tutte le classi

sociali.

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Gli strumenti culturali

La creatività è un concetto ed una filosofia comportamentale che affascina anche chi non

la pratica. Quando poi si viene a conoscenza degli strumenti e delle cognizioni progettuali

per attuarla, specialmente dopo aver conseguito un percorso formativo e relativo

attestato, si ha voglia ed entusiasmo di vedere concretizzate le proprie idee. Qui

cominciano spesso ad arrivare le prime difficoltà. Dopo le prime esperienze con dei

produttori, in molti giovani. Ho percepito una certa delusione verso un mestiere che non

sembra dare giusto valore ai loro progetti e alle loro ambizioni. Alcuni, talvolta, mi hanno

chiesto perché. Mi sono così reso conto che c’è bisogno di approfondire le informazioni

riguardanti la pratica del design, moderando alcune illusioni derivate dal successo di

alcuni personaggi presenti nel mondo delle grandi “firme”.

Il successo, per chi comincia, è l’obiettivo da raggiungere, e l’analisi dei possibili metodi è

lo scopo che si prefigge questo testo. Non devono essere presi come metodi sicuri, ma

sono solo come spunto di riflessione su considerazioni di chi le ha sperimentate. Questo

libretto potrebbe essere considerato una specie di tutore del dopo laurea, una

chiacchierata fra amici vecchi e nuovi, nel piacere dei vecchi di raccontare le proprie

esperienze.

A chi mi chiede perché il mondo del design sia così duro e per quale motivo appaia così

complesso ottenere risultati, dico che ci vuole tempo, volontà, grinta ma anche molta

umiltà e sacrificio del proprio tempo libero e del proprio denaro. Sono problemi comuni a

molte professioni, ma nel design forse pesano un po' di più per la vastità della materia e

per il continuo peregrinare tra le varie aziende. Perciò, a fronte di tali e tanti sacrifici, molti

si scoraggiano e abbandonano la professione designer dopo qualche anno d'infruttuosi

tentativi. Questo non è un "mestiere" qualsiasi. È prima di tutto una passione che deve

pervadere ogni spazio della propria vita, perché il designer continuamente traduce in

idee, la sintesi di ciò che gli interessa (e che sia traducibile in progetti) nel mondo che lo

circonda. E’ anche un mestiere in cui ogni punto d’arrivo non è altro che uno nuovo da

cui partire: si sa, non si finisce mai d’imparare. C’è sempre da studiare su come

avvengono e su che cosa si basano i successi e gli insuccessi, capire come rimediare a

questi ultimi senza scoraggiarsi mai. Non bisogna illudersi di aver già finito una volta che

si è preso un diploma o una laurea. Oltre una buona cultura di base ed una tecnica, per

fare design occorrono anche una serie di conoscenze progettuali in senso lato: saper

disegnare, saper reperire informazioni, saper gestire risorse umane e materiali ed infine,

ma non ultima, saper usare le risorse informatiche.

Poi si comincia a fare esperienza pratica.

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L'esperienza

Sono sempre disponibile ad avviare un dibattito costruttivo e a fornire altri elementi utili

alla conoscenza del mestiere di designer ed alle sue molte competenze, soprattutto

quelle con le quali si svolge l’iter di sviluppo del prodotto che io chiamo “interfacce del

designer”. Con questo spirito, da alcuni anni, insegno ai corsi di design industriale del

LUDI (Laurea Universitaria in Design Industriale) presso l'Università La Sapienza di

Roma.

Nonostante l'impegno di progettazione nelle attività della mia azienda e il fatto che

economicamente non sia certo un vantaggio, considero l'impegno didattico come un

dovere morale e sociale nel trasferire ciò che ho imparato con una pluriennale esperienza

di professione. Un'ambizione forse senile, ma che vorrei vedere realizzata, è quella di

contribuire a formare le nuove generazioni di designer. Vorrei anche vedere lo sviluppo di

una cultura del design anche nelle regioni del centro sud, dove fino a pochi anni fa era in

sostanza del tutto sconosciuta.

Certamente chi comincia oggi è più fortunato di chi, come me, perito industriale

meccanico, nato e vissuto a Roma, ha cominciato quando il design era del tutto ignorato

e le industrie che facevano prodotti di design qui non esistevano proprio. Mio padre

stesso, industriale del legno, non ha mai capito bene che mestiere facessi; pensava che

vivessi di fortunosi e saltuari espedienti rivolti a piccole imprese del Nord. Per anni ho

impegnato le mie risorse fisiche ed economiche per dare valore e riconoscimento al mio

mestiere di designer. Oggi la situazione è molto cambiata, anche se la cultura del design

non è ancora un patrimonio così comune come si potrebbe pensare o sperare.

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Gli "arnesi” di lavoro

Quando ho cominciato a progettare il design era intuito come segno ed i suoi strumenti

erano un carboncino ed un foglio di compensato. Così passai anch’io per matite, tiralinee,

penne a china e tavolo da disegno, realizzando disegni e rappresentazioni dei progetti

sempre più raffinati. Ero preciso, meticoloso e dettagliato. Dopo qualche tempo ho

assunto una logica da “artista” del design e ho incominciato a disegnare con il pennarello.

Erano tavole di un certo effetto e convincenti, perché emozionavano il committente che

poteva vedere il futuro oggetto carico d'effetti speciali "astutamente" dosati. Poi vennero i

computer. Ne comprai uno costosissimo pensando che fosse un mezzo moderno e di

grande aiuto alla progettazione. Con ponderosissimi manuali cominciai ad usarlo

personalmente. Dopo una settimana, con otto o dieci ore d'impegno giornaliero, avevo

fatto un progetto che al tavolo da disegno mi avrebbe preso al massimo alcune ore. Non

fu questo il motivo per il quale mi venne un sentimento di rigetto verso questo

“elettrodomestico da disegno”. Dovevo andare a Milano per presentare un progetto di cui

andavo veramente orgoglioso, ma la sera prima della partenza, per colpa di un paio di

tasti sbagliati premuti per stanchezza, mi sparì tutto il lavoro fatto, sia dallo schermo sia

da hard disk. Ogni tentativo di recuperare il materiale fu vano e dovetti lavorare tutta la

notte al tavolo da disegno. Quando la mattina dopo partii per Milano, giurai di non usare

più quell’oggetto infernale. Ho, a tutt’oggi, mantenuto il giuramento per quanto riguarda le

mie mani ma non per il mio studio perché, incantato da abili venditori, ho speso centinaia

di milioni delle vecchie lire per hardware e software, più o meno utili, in grado di far

operare tantissimi ragazzi, che chiamo affettuosamente e per invidia “smaneggiatori”, su

complicati software CAD 3D. Mi sbalordiscono sempre con le loro capacità, anche se

spesso ,davanti a clienti e ingegneri, con colpi d'esile matita correggo in pochi secondi

linee o forme equivalenti ad ore di elaborazione al CAD. È come prendersi una piccola

vendetta sulle mie stesse incapacità, ma non si può fermare il progresso. Non significa un

rifiuto del mondo informatico, né che l'innovazione si debba arrestare anzi, oggi il design

professionale, si può fare solo con il computer e con i più sofisticati! Posso solo

considerare che non esistono strumenti che possano sostituire la mente umana e anche il

computer più potente non garantisce il risultato. A ciascuno le sue armi…

A me è rimasta la matita ma mi sto aggiornando.

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Bozzetto a matita di vasca ad angolo in acrilico per TEUCO con vetro e idromassaggio .

Le parti in azzurro sono in E.V.A. La cascata è ottenuta da 3 getti sorgenti dietro il

sedile. Il prototipo fu poi realizzato senza la cascata ritenuta troppo originale.

Questa specie di cabina, qui presente in un negozio di abbigliamento, è uno scanner per

ridigitalizzare in 3D un prodotto modificato manualmente dopo la prima modellazione al

CAM. Il negozio lo usava per determinare le misure antropometriche del cliente.

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Il genio del design

Parliamo allora di quello che possiamo definire un "successo". Dopo oltre 500 pezzi

immessi nei mercati nazionali ed esteri mi sento abbastanza realizzato come designer

partendo dal fatto che non ho frequentato nessuno studio ne nessun corso per formare le

mie capacità. Per questo,e solo per me stesso, posso dire che è stato un successo. Ciò

deriva solo dalla mia volontà, dal mio impegno costante nelle verifiche progettuali, nelle

evoluzioni dei mercati, nei materiali, reinvestendo quasi tutti i miei utili nella ricerca e

nell’innovazione.

Non credo nel "colpo di genio" in un progetto, salvo per piccole intuizioni, ma una

continua analisi dei dati pre progettuali e verifiche tecnico costruttive e concettuali. Non

credo ai geni naturali, salvo casi particolari di persone con un”imprinting” generato in un

contesto educativo impregnato di una determinata cultura o, particolarmente sensibilizzati

verso una creatività formale e/o tecnica. Nel mio caso, devo a mio padre questa creatività

per il fatto di non avermi mai regalato un giocattolo, e cosi, quando ero ragazzo, mi sono

costruito gli oggetti di gioco nelle officine paterne. Quelle prime esperienze manuali,

sono state molto formative. Esistono indubbiamente delle persone geniali, ma si tratta di

casi molto rari. Nella maggior parte degli altri casi, chi si definisce un genio è un

comunicatore in grado di enfatizzare le proprie idee e di venderle come se fossero

effettivamente geniali. Fanno ottima "vendita" di sé stessi, si propongono a prezzo

carissimo, come se fossero unici, e sono dunque molto richiesti e spesso i loro prodotti si

vendono anche bene.

Altri riescono a produrre ottimi oggetti grazie ad una struttura di studio ben coordinata e

con competenze specifiche articolate e adeguate attrezzature. Proprio queste ultime

strutture sono quelle che, secondo me, sono più in grado di realizzare prodotti "geniali",

creati da un team di menti pensanti in grado di concorrere alla creazione del prodotto

vincente in un mercato sempre più competitivo.

Riunioni periodiche di studio dove si scatenano le creatività individuali per la concettualità

del prodotto in elaborazione. Un coordinatore responsabile seleziona le varie proposte da

portare avanti per la presentazione al committente.

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Massa cerebrale e massa critica

Lo sviluppo economico e sociale e l'ambiente naturale, nel contesto evolutivo della mente

e delle etnie umane, sono cronologicamente connessi con lo sviluppo del peso del

cervello umano. Un amico antropologo mi ha riportato un dato interessante; L'Homo

Sapiens, negli ultimi 150mila anni, ha accresciuto la propria massa cerebrale di appena

un etto. Le interconnessioni neuronali sono cresciute invece in misura esponenziale,

portando al conseguente sviluppo della capacità di pensiero e del linguaggio, nelle sue

forme espressive.

Ad un rapido calcolo risulta evidente come, mettendo insieme due cervelli con la stessa

competenza e capacità di elaborare dati, si otterrebbe la capacità mentale di un essere di

duemilioni di anni più evoluto rispetto a noi. Pensate dove si arriverebbe con tre cervelli

uniti: un super mostro di intelligenza!! Naturalmente questo è un parallelismo puramente

teorico. Due cervelli, su due esseri umani distinti non fanno una doppia capacità

d'elaborazione, perché lo scambio d'informazioni è molto più lento rispetto alla capacità

d'elaborazione sinaptica interna ad ogni cervello. Due menti ben coordinate su un

risultato fanno comunque meglio di una sola.

Ma continuando ad aumentare il numero di componenti del team, tre, quattro o più si

raggiunge una massa critica sempre più improduttiva, a causa della difficoltà di mettere in

comune le informazioni, dell’incapacità dei singoli a gestire, nei tempi comuni,

l'espressione delle proprie idee, la compatibilità con quelle degli altri componenti del team

ma, più di ogni altro motivo, la voglia tutta umana, di emergere ed imporsi sugli altri. Il

risultato progettuale, spesso, non è il migliore, ma il frutto della persona che si è imposta

di più.

Il numero ottimale per un gruppo di lavoro conta da tre a sette persone, che

possibilmente vantino competenze variegate sulle attività relative allo sviluppo della

produzione e della commercializzazione dei prodotti industriali. Un team di questo

genere, che operi in parallelo fin dall’inizio del processo creativo e progettuale, è

potenzialmente capace di produrre oggetti di successo nel design più evoluto: i cosiddetti

prodotti "geniali" che fanno la storia del design. Devo solo aggiungere che nel gruppo ci

deve essere un coordinatore responsabile, con potere decisionale, tanto saggio e

competente da scegliere le migliori soluzioni oggettive.

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Professionista o imprenditore?

Il riconoscimento delle idee, la paternità del prodotto, ha un peso economico e morale

non indifferente e va gestito bene. Può essere marcato o con il nome della persona fisica

o con una griffe.

Nonostante ancora esista il mito della firma sul prodotto, e per molti giovani sia questa

un'ambizione, è meglio parlare di marchio o logo. L’essere umano, per sua natura, non è

immortale, e peraltro la carriera operativa rimane legata ad un tempo più o meno limitato,

determinato dalla sua massima capacità espressiva.

E’ opportuno in molti casi, specialmente se si ha uno studio importante, sostituire o

modificare la semplice firma con un marchio o logo, anche se porta il nome del fondatore.

Se questo per vari motivi si è ritirato o ha seguito il suo destino umano, l'azienda gli è

sopravvissuta e può continuare il suo iter operativo con un salto generazionale o con la

cessione dell’attività al migliore acquirente. Quando il marchio è sul mercato e si è

affermato, quando la griffe vive vita autonoma, talvolta assume un valore indipendente

dalla stessa qualità dell'oggetto "firmato". Una griffe ben amministrata è in grado di

produrre molti utili e numerose imitazioni. Il designer come persona, a quel punto, non

conta quasi più. Assume invece un peso la struttura che lui stesso ha creato. Per questo

motivo sono passato dall'attività personale alla costituzione di una impresa.

Il più famoso riconoscimento di qualità del Design Italiano ottenuto con la TEUCO nel

’98. Altre segnalazioni le ho ricevute successivamente per altri prodotti della stessa

azienda. Un’ulteriore segnalazione è stata per una specchiera della FRATELLI GUZZINI.

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Impresa di design

Per essere comunque competitivi e fare ricerca, è consigliabile trasformare lo studio

professionale in impresa di progettazione con la potenzialità di produrre prototipi e fare

ricerca avanzata fruendo, magari, dei fondi Europei stanziati appunto, per la ricerca e

l’innovazione. Per un’impresa di questo tipo occorre però un organico composto da

designer, tecnici, meccanici, modellisti, ricercatori, grafici, industrializzatori. Occorre

inoltre completare l’organico con personale amministrativo, addetti alla comunicazione e

relazioni con l’esterno, nonché un account per il reperimento di nuovi clienti.

La gestione di una tale struttura non risulta essere dissimile da quella necessaria a

rendere efficiente un azienda di piccole o medie dimensioni.

Alla base di quest’impresa ci deve essere un designer responsabile che abbia il potere

della decisione finale. Intendo dire che l’ultima parola su tutto deve essere di una sola

persona; già in due c’è il rischio di entrare in competizione se non addirittura in conflitto

ideologico, che può generare polemiche, discussioni, rotture di rapporti. Come nel campo

artistico, ogni creativo ha la propria filosofia progettuale che diventa la firma nella quale lo

studio di design si riconosce ed è riconoscibile all’esterno. Questo “Cheof designer”

coordina a livello creativo altri designer, responsabili progettuali delle varie aziende

committenti. Poi ci sono i tecnici, ingegneri o periti di diverse competenze che servono

per dare fattibilità al progetto. Sono necessari anche un project "supervisor" in grado di

coordinare designer dei vari progetti ed un capo settore della modellazione che abbia

conoscenza di tutte le tecniche di prototipazione, dai compositi alle lavorazioni

meccaniche in generale.

Per essere un buon project - supervisor, secondo alcuni consulenti giapponesi che ho

avuto modo di ascoltare, bisognerebbe avere le seguenti caratteristiche:

- conoscere le potenzialità dei progettisti che coordina;

- aumentare le conoscenze tecniche dei progettisti con visite alle aziende, a fiere e

convegni;

- conoscere le metodologie progettuali più idonee allo svolgimento del progetto da

sviluppare;

- stabilire tempi totali e parziali di esecuzione del progetto, tenendo conto delle

risorse interne ed esterne ma considerando un congruo margine di imprevisti;

- coinvolgere i progettisti perché si esprimano con le proprie idee, senza disperdere

tempo se queste hanno tempi lunghi di verifica;

- avere un atteggiamento mentale aperto a comprendere e gestire idee innovative.

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- controllare sempre che lo sviluppo del progetto corrisponda agli input della

committenza;

- disporre di mentalità progettuale portata alla massima semplificazione del prodotto

e del successivo processo produttivo;

- assumere un atteggiamento rilassato, lasciando i propri problemi personali a casa;

- memorizzare e riportare su altri progetti i concetti che hanno portato al successo

altri precedenti prodotti ed eliminare quelli negativi.

- Non addossare la colpa degli insuccessi a nessuno se non a se stesso.

- Riconoscere i meriti a coloro che si impegnano ed hanno buone idee.

- considerare che lo studio di progettazione deve comunque fare profitto;

- quando è possibile, intercambiare alcuni elementi dei gruppi di lavoro, per un

giusto alternarsi di esperienze;

- fare riunioni periodiche di verifica dei progetti;

- fare in modo che ci sia armonia e soddisfazione nello svolgimento del progetto, tra

tutti i componenti del gruppo di lavoro;

- mai essere troppo sicuro delle proprie capacità perché non si è mai infallibili e la

presunzione può dar fastidio ai propri collaboratori.

Non è sempre facile, ma con buona volontà, con l’aiuto di consulenti, con tempo e

pazienza si arriva al giusto metodo. Metodo che deve essere personalizzato visto che

ogni impresa ha le sue caratteristiche. Oggi anche le imprese di design, come tutte le

altre, formano i propri dipendenti con corsi specifici di computer grafica, lingue e

comunicazione interna ed esterna. Spesso questi studi o imprese di design, ne generano

altre, che poi diventano temibili concorrenti, ma questo accade in tutti i settori. Anzi la

competizione fa bene, ed è stimolante trovarsi di fronte chi è riuscito intelligentemente a

lasciare l’azienda madre e a crearsi una propria identità.

Anche le imprese hanno i propri metodi progettuali e le proprie filosofie. Qualche anno fa,

quando ero presidente del CNAD (Consiglio Nazionale Associazioni di Designer) e come

tale partecipavo alle riunioni del CNEL (Consiglio Nazionale Economia del Lavoro) per

una verifica delle nuove realtà professionali, è emerso, in una di questi incontri,

l’interrogativo se esercitare l’attività intellettuale significhi “fare professione” o “fare

impresa”. Il CNEL, infatti, aveva classificato la professione di designer come servizio

all’impresa ma si tendeva anche ad inquadrare le attività professionali di questo tipo

come attività d’impresa.

Il presidente dell’ADI (Associazione Designer Italiani) di allora, non più tra noi, il Prof.

Morello, parlò dell'evoluzione di alcuni studi professionali come una nuova realtà di

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aggregazione multi disciplinare con competenze quasi totali nell’area del prodotto

industriale come marketing, grafica, design prodotto, comunicazione, fotografia,

industrializzazione e didattica. Fu molto interessante per me partecipare a questi dibattiti,

in quanto avendo in mente un’evoluzione dello studio verso questi concetti, intrapresi la

strada verso l’”impresa di design” anche se meno articolata nei campi di applicazione.

Nutrivo il dubbio che l’aumento dei costi di studio consequenziali alla struttura di

coordinamento, per altre singole attività, avrebbe generato una minore competitività con

gli studi di singoli professionisti che naturalmente sostenevano costi minori.

Ma a questo si sopperisce con una maggiore qualità dell’offerta alle imprese committenti

completata anche con un attrezzato laboratorio di prototipazione.

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Modello in polistirolo verniciato di una minipiscina con vari idromassaggi. L’elemento

verticale è previsto per una cascata, una TV ed una lampada per cromoterapia. Il

prodotto di serie, per 4/6 persone, è stata realizzata senza la cascata e senza monitor.

Il modello è stato realizzato nel nostro laboratorio

Il prodotto perfetto

Per quanto il designer sia bravo, l’azienda produttrice sia "di design" e super attrezzata, il

prodotto risultante non è mai perfetto. Il concetto del prodotto perfetto mi assilla da anni, è

qualcosa d'irraggiungibile, quasi astratto. E’ una filosofia che mi tormenta spesso, anche

inconsciamente giorno e notte al lavoro ed in vacanza. A parte tutte le considerazioni

filosofiche sulla perfezione della natura, dell’universo, di alcune regole matematiche ecc.

passando per le credenze religiose, tutti argomenti di lunghe discussioni e riflessioni,

vorrei concentrarmi sul design o meglio sul progetto di design. Mi si permetta una battuta

esemplare; un prodotto quasi perfetto lo ha fatto la natura quando dopo milioni di anni di

evoluzione ha fatto la donna. Un prodotto a diffusione globale, talvolta bellissimo ,di

grande richiesta, funzionale, con capacità interattive ma, anche difficilmente gestibile e

costoso. Se riuscissi a progettare un prodotto con queste caratteristiche mi sentirei un Dio

del design. Nel nostro lavoro, un prodotto di design perfetto deve essere bello, funzionale,

relativamente economico, facilmente trasportabile, facilmente mantenibile, con

imballaggio contenuto ma sicuro e riciclabile, come il prodotto stesso. Ma più ci si

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avvicina a questo e più i costi di progettazione aumentano in modo esponenziale. Allora

nonostante attrezzature sofisticate di ricerca, progettazione, sperimentazione,

prototipazione, produzione e collaudo per rendere il prodotto più vicino possibile alla

perfezione, ad un certo punto bisogna comunque arrendersi, perché i costi diventano

insopportabili ed i tempi d'immissione del prodotto nel mercato si allungano troppo. Il

difficile è proprio definire, prima di progettare, il punto in cui ci si deve fermare in base a

tempi e costi preventivati.

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Styling

Progettando l’estetica della forma di un oggetto si può migliorare il prodotto nel suo

insieme, esaltando la visibilità delle funzioni che diventano più facili da gestire da parte

del fruitore finale. Talvolta, per fare un prodotto bello, dalle linee pulite, si occultano o

quasi le parti dove si deve interagire, come maniglie, chiavi, leve di funzioni,ecc., con il

risultato che l’acquirente, se non legge bene le istruzioni - e non le legge quasi mai - non

riesce a usare l’oggetto. Ma l'estetica, unita alla tecnologia idonea a darle la forma giusta,

incide anche su i processi produttivi e sull’eventuale manutenzione, oltre che per il

riciclaggio. In questo processo è più difficile fare un prodotto semplice e funzionale.

esteticamente pulito e valido, che fare un prodotto più complesso, più elaborato

esteticamente, più “ricco” come immagine. In sintesi, è più facile fare un prodotto

complicato di uno semplice a parità di funzioni. Quello che dico sempre ai miei

collaboratori è: semplificare al massimo i progetti anche se sono multifunzionali. Ma

bisogna prestare attenzione a non confondere la semplicità progettuale con il

minimalismo, dimenticando la filosofia progettuale e scadendo in un approccio illogico,

manierista ed opportunistico, sebbene decantato da autori tanto comunicativi quanto

poco progettuali.

Il successo di un prodotto è condizionato dalla sua estetica, come abbiamo già detto, ma

che può essere fortemente condizionato dal tipo di prodotto stesso. Se il prodotto è del

tipo destinato ad essere sostituito ogni 10 – 15 anni avrà un'estetica del tutto differente da

uno di durata stagionale o annuale. Ad esempio una serie di servizi da bagno, un divano

di pelle, una cabinato a motore o a vela avranno linee estetiche non condizionate da

mode come un telefonino cellulare o un piccolo apparecchio elettronico. In generale,

questi oggetti, si devono adeguare alle tendenze stilistiche vincenti e del momento a ciò

che l’innovazione tecnologica impone come “must” in termini di ergonomia e funzionalità.

Quando progettiamo un prodotto nel nostro studio abbiamo l’abitudine di esplorare, come

ricerca commissionata e non, ogni possibile scenario applicativo, formale e d’uso. In

questa ricerca di studio, fatta con tutti i miei collaboratori a cadenza settimanale,

proponiamo idee anche divertenti, in quanto escono soluzioni talvolta assurde e piene di

comicità applicativa ma che servono alle menti dei creativi per sviluppare idee più

immediatamente realizzabili. A questo proposito, la regola è che lo sforzo creativo deve

essere contenuto entro le due ore giornaliere e per il resto del tempo si fa una semplice

verifica grafica su quello che si è ideato. Credo che questo nostro sistema sia

fisiologicamente adatto alle normali potenzialità cerebrali.

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Se si parla di styling, si parla comunque di fare cose belle: nonostante la bellezza sia

soggettiva, resta l’obiettivo principale dello styling.

Talvolta l'estetica è influenzata dalla moda o da culture etniche, altre volte da correnti di

pensiero o religiose. Molti scritti e pubblicazioni sono stati realizzati sull’argomento

bellezza: sulla domanda, cioè, di quali siano le caratteristiche di un oggetto bello. Alcune

di queste pubblicazioni sono state oggetto delle mie attenzioni, ma devo dire che quasi

nessuna mi ha convinto del tutto. Allora ho dovuto fare alcune considerazioni che poi

sono state fondamentali nel mio lavoro ed ho pubblicato in proposito un articolo sulla

rubrica nella rivista “Il Bagno” che qui trascrivo.

Bozzetto a matita per una rubinetteria in alluminio verniciato. La bocca di erogazione è in

silicone colorato anticalcare con uscita dell’acqua semicircolare. Questo modello da

lavabo fa parte di una collezione mai andata in produzione.

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Sexy design. Ovvero cosa fa bello un oggetto

La capacità di lasciare testimonianza delle proprie idee e sensazioni ha riempito

biblioteche e pinacoteche di opere impegnate più o meno direttamente a descrivere cos’è

la bellezza. Esito a parlare di bellezza umana, perché non è l’argomento di questo scritto.

Anche se in proposito avrei qualcosa da dire, dato che in qualche modo rientra nel

concetto del bello degli oggetti e delle cose che ci circondano. Molto si è detto e scritto

sulla bellezza degli oggetti artigianali e, successivamente, dei prodotti industriali. Ma che

cos’è il bello, quale sensazione ci proviene da un bell'oggetto? Per molto tempo si è

identificato il bello con la natura, imitata e ricreata nei decori, nei fregi, nelle stilizzazioni,

nei colori e nelle forme di molti oggetti. L’estrema razionalizzazione dei nostri tempi ha

rarefatto sempre più le citazioni della natura, riconoscendo sempre maggior valore alle

forme geometriche pure. Come dire che l’evoluzione culturale e industriale ha pulito linee

e forme, facendoci perdere quei riferimenti sui quali abbiamo codificato il nostro concetto

di bellezza per molti secoli. Qualche decennio fa, quando ho cominciato a fare il designer,

mi sono chiesto dove avrei potuto trovare i riferimenti per l'elaborazione di progetti,

funzioni, tecnologie e materiali che mettono un oggetto in grado di sedurre il consumatore

spingendolo all’acquisto. Una prima risposta l’ho ricavata dall’interpretazione della teoria

Freudiana sulla figura materna e sugli inconsci riferimenti al sesso.

Tenendo presente che i riferimenti alla maternità e al sesso nella coscienza collettiva non

tramontano mai, il richiamo all’imprinting delle rotondità materne, del suo calore e colore,

dalla sicurezza e dal piacere che queste forme ci davano, è stato un preciso riferimento,

quasi istintivo. Faccio spesso, lavorando su questi concetti, forme morbide, smussate,

raccordate tra loro con inserti di materiali soffici, accoglienti, che oltre ad essere funzionali

sono anche considerati particolari piacevoli e belli. Considerando poi che in noi c’è anche

un po’ di narcisismo e siamo portati a fare coppia, aggiungo cristalli, specchi, vasche e

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docce a “due piazze”. La natura la riprendo ancora con i suoi profumi, con le varianti

cromatiche della luce del sole, dall’alba al tramonto, con il colore dei boschi in autunno

,con il colore del mare e del cielo. Cosi nei progetti, da molti anni specialmente nel bagno,

aggiungo aromaterapia, vapori e luci cromoterapiche che ricreano sensazioni di

benessere e intimità, che ognuno interpreta a suo piacimento. Ovviamente all’inizio, oltre

trent’anni fa, incontrai una certa resistenza da parte delle aziende produttrici ai miei

riferimenti, cosi diversi dal classico concetto di bello. Perseverando diabolicamente nella

mia convinzione, la risposta positiva me l’hanno data gli ottimi riscontri provenienti dal

mercato.

Sempre più spesso il mercato dà per scontato che la tecnologia abbia raggiunto una

maturità di prestazioni e sicurezza che supera ogni diffidenza del pubblico. Perciò è

normale che l’attenzione dell’acquirente si rivolga verso ciò che piace come le forme, il

colore, la moda, orientandosi spesso verso prodotti status symbol, il cui contenuto tecnico

è spesso sconosciuto (a meno che la tecnologia non sia la caratteristica su cui punta tutta

la comunicazione). A questo proposito parlo di un fatto personale. Sono socio di una

società di progettazione navale e fra i soci c'è un bravissimo ingegnere navale. Quando

un armatore ci commissiona una barca, generalmente sopra i 25 metri, indica una serie di

caratteristiche per l’oggetto dei suoi desideri: lunghezza, numero di cabine, velocità,

autonomia ecc. Io m'interesso del design, cioè della linea esterna e l’ingegnere di tutto il

resto a partire dal tipo di carena, motorizzazione, materiali, strutture, impianti, prove su

modelli. Nei primi incontri, spesso anche nei successivi, quello che interessa l’armatore è

solo l’aspetto estetico, se piace a lui o a sua moglie (o alla sua amante). Solo

distrattamente chiede qualcosa circa la potenza dei motori. Naturalmente questo fa molto

dispiacere ai progettisti che elaborano i vari esecutivi tecnici e si prendono le loro

soddisfazioni solo alla fine, mostrando i risultati dei collaudi e delle prove in mare a barca

varata. Ma torniamo allo styling o, in altre parole, all’estetica del prodotto e alla morfologia

degli oggetti (la loro forma). E’ importante per un designer lavorare su settori di mercato

diversi, in quanto riesce a cogliere le filosofie stilistiche che possono essere applicate

nell’ambito del suo interesse in quel momento. Questa capacità di percezione è

sicuramente vincente, in quanto analizza gli atteggiamenti ed i gusti del compratore, che

ricercherà inconsciamente quelle linee anche in altre tipologie di prodotti. Per fare un

esempio, chi compra un tipo di macchina con linee piuttosto squadrate e geometriche,

comprerà anche una vasca da bagno o un frigo con le stesse linee che a lui piacciono. Si

chiamano "matrici di successo", sono schemi di analisi di mercato che prendono spunto

dalle forme e dalle linee prevalenti in un dato momento. È almeno altrettanto importante

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trasmettere con il proprio design quell'emotività, quell'impulso all’acquisto che nasce da

un bisogno non reale ma psicologico di possedere quell’oggetto a tutti i costi.

Questo concetto sembra agire sulla manipolazione dei consumatori. In realtà il marketing

non crea desideri, li fa emergere. Si chiamano "insights", desideri che il consumatore

possiede ma non sa di possedere. Questo schema per far riemergere gli insights è oggi

alla base del mondo occidentale, un approccio economicamente vincente e di cui non si

può non tenere conto quando si progetta per l'industria. La creatività, o meglio la

"caratterizzazione" della creatività, è un fatto soggettivo o di griffe di studio. Ed è giusto

che sia così, perché per la riconoscibilità del prodotto e la sua differenziazione nel

mercato, considero importante che la firma abbia un valore riconosciuto.

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Bozzetti per copricostume griffato TEUCO. In spugna con bordature verde TEUCO, fa

parte di una collezione da proporre nei centri di vendita TEUCO insieme ad altri prodotti

griffati.

.

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Il design per il lusso

Nella mia carriera, ho vissuto alcuni periodi di crisi economiche, nazionali e globali.

Ho potuto constatare in queste occasioni, che i miei progetti di alta gamma non subivano

quelle crisi di vendita che investivano principalmente i prodotti di fascia media e medio -

bassa. I prodotti economici, in quei periodi e statisticamente parlando, subivano solo lievi

flessioni commerciali, evitando i crolli finanziari delle aziende produttrici. Erano, queste

aziende, generalmente non orientate al design ma solo fabbriche di oggetti facilmente

producibili, con grandi numeri di pezzi e con poco valore aggiunto. Avendo pochi utili,

naturalmente non investivano in ricerca e innovazione ma, anzi , andavano su prodotti

scopiazzati da altri presenti sul mercato da anni, apportando solo piccole modifiche per

non incorrere in rivendicazioni legali per plagio.

In quest’ultima crisi, quella chiamata più o meno impropriamente “crisi dell’Euro”, le cose

stanno leggermente cambiando. Il mercato basso e medio basso se lo è accaparrato

l’oriente, come Cina, Corea e India facendo anche prodotti di buona qualità. Ma di questo

ne parleremo più avanti. Il prodotto di fascia media ha subito un crollo di vendite derivato

dal fatto che le fasce sociali alle quali erano rivolti, vivono un’insicurezza economica

notevole che non invoglia all’acquisto. Rimane la fascia alta, il vertice della piramide

bocconiana del mercato. E’ la fascia del lusso, delle grandi firme e di chi , nella crisi,

vuole dimostrare che può, che appartiene ad una classe sociale di pochi eletti. Questo

segmento del nuovo lusso, chiamato dagli esperti col termine inglese di trading up,

rappresenta una delle poche speranze delle industrie occidentali per arginare il pericolo

giallo. Questo mercato è formato da prodotti di numero limitato di pezzi, stilisticamente

innovativi, frutto di ricerca tecnologica nei materiali e nelle funzioni, con alto valore

aggiunto. Prodotti griffati, molto comunicati nei giusti media, se li contendono i rampolli

della new generation che avendo ereditato i capitali creati dai loro genitori, preferiscono

goderseli piuttosto che reinvestirli nell’azienda. E’ un fenomeno naturale, presente in ogni

generazione della nostra storia economica. Il ciclo attuale è derivato dalla ricostruzione

post bellica dove l’economia partiva da zero, dove gli uomini che l’hanno creata, oggi

non esistono più, almeno in termini operativi.

Quanto detto sopra è più un discorso di marketing che sembra esuli dai concetti di

design, ma non è proprio così. Il settore del lusso è spesso un mercato dove la cultura del

design è fortemente presente. Anche nei mercati ad economia emergente, come Russia

e Asia, gli oggetti di marca rappresentano uno status symbol e sono in forte espansione.

Quello del lusso è un mercato raffinato di prodotti griffati, ambito anche da chi non vi può

accedere, ma che comunque rappresentano un riferimento anche per le fasce medie. Ed

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è nei prodotti firmati che i designer devono, di più che in ogni altro settore, impiegare tutte

le loro risorse creative e culturali. Per l’Italia il ” trading up” è una grossa opportunità.

Esposizione della Minipiscina con oblò TEUCO all’evento EUROPEAN EXHIBITION SPA presso il Forum Grimaldi con l’intervento del Principe Alberto di Monaco.

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Materiali nobili ed eco-compatibilità

Nel dare al prodotto tutte quelle caratteristiche di esclusiva emotività, il designer deve

anche tenere conto nel progetto anche del rispetto dell’ambiente, impiegando materiali

non inquinanti ed eco compatibili. Questo non è solo un problema dei produttori ma

anche di noi designer che dovremo dare tutte le indicazioni sui materiali e sui sistemi

ecosostenibili. E’ anche una questione di cultura progettuale e di coscienza per il futuro

del nostro ambiente. Da diversi anni navigo con il mio trimarano e devo purtroppo notare

che anche i mari più remoti e apparentemente ignoti al turismo di massa, sono inquinati

da plastiche che vagano per anni, trasportate dalle correnti. Sono plastiche che potevano

essere riciclate per farne altri oggetti di uso pubblico e privato, come arredi urbani,

contenitori vari per la casa e l’industria,ecc.. Mi sono quindi sentito tirato in causa in

qualità di progettista, pensando attivamente a soluzioni di recupero e riciclo di plastiche a

fine uso. Ci sono moltissime iniziative politiche e private rivolte a sensibilizzare l’opinione

pubblica e l’imprenditoria privata verso questo problema. Già da qualche anno alcune

aziende producono oggetti per diversi usi, con materiali riciclati e quasi tutte le case

automobilistiche riciclano i componenti in plastica delle auto in rottamazione più volte.

Questo significa che questi componenti in plastica, in ogni riciclo, vengono impiegati per

fare componenti sempre meno importanti, meno visibili e meno sollecitati strutturalmente.

Quando questi sistemi o meglio,questa cultura industriale, saranno abituali in ogni

impresa, forse le qualità ambientali miglioreranno ma solo se accompagnate da quella

cultura sociale evoluta che dia un alto rapporto di recupero differenziato dei rifiuti

industriali e urbani. Alcuni ecologi disprezzano le materie plastiche (ma il petrolio da cui

derivano si trova in natura) a favore di materie naturali come legno, vetro, marmo, metalli

ecc.. Forse però non tutti sanno che tagliare il legno dei boschi per fare oggetti d’uso su

grande scala non significa rispetto dell’ambiente, ma un implemento per la

desertificazione, verso la quale ci stiamo rapidamente muovendo, pena di mettervi un

freno sostanziale tramite rimboschimenti e coltivazioni controllate.

Per i sostenitori delle materie naturali come il legno, queste essenze di facile crescita

sarebbero in grado di sopperire al fabbisogno di molti settori industriali, dal mobile

all’edilizia. Statisticamente ciò non è per niente vero. Inoltre, la maggior parte delle volte

questi materiali non sono esteticamente gradevoli, perché danno un'impronta troppo

rustica, o "tenera", perché sono facilmente deperibili, specialmente se non trattate.

Alcuni di questi materiali poi, come il vetro e i metalli, impiegano tecnologie di

trasformazione ad energia termica di alto impatto. Per le materie plastiche serve solo il

10% dell’energia necessaria per la trasformazione commerciale di vetri, metalli o

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ceramiche. Il problema delle plastiche va rivisto socialmente, attuando ed insegnando

comportamenti di rispetto dell’ambiente, dapprima nelle scuole e poi nel mondo lavoro.

Progettualmente parlando, rispetto a qualche decennio fa, le cose si sono evolute. Un

esempio pratico: spesso nell’assemblare i componenti di macchine fabbricati con

materiali molto diversi tra loro si ricorreva all’incollaggio. Il risultato era che una volta

esaurita la “vita” del prodotto, non era più possibile recuperare i componenti e l’unica

soluzione per smaltirli era quella di gettarli via in una discarica. Oggi si progetta il prodotto

di serie pensando al riciclaggio, sia tramite l'assemblaggio con viti, incastri e altri sistemi

di facile scomposizione dei componenti, omogenei o compatibili, per il riutilizzo, sia

pensando ad un prolungamento del ciclo di vita del prodotto, attraverso la progettazione

avanzata: un più attento calcolo delle sollecitazioni in gioco, la riduzione della quantità di

materia prima, l'aggiornamento di componenti che mantengono il prodotto sempre

competitivo e nell’interesse del fruitore sono alcuni dei punti salienti della progettazione

"eco-attenta".

Questi concetti, fin troppo divulgati da ricercatori e mass media, ma poco attuati da

imprenditori e progettisti di piccole aziende, dovrebbero essere stabiliti per legge e non

arbitrariamente applicati da poche aziende di medio - grandi dimensioni. Aziende come

Teuco hanno fatto investimenti in questo campo, che incidono notevolmente sul costo dei

prodotti. Il beneficio è poco visibile per il consumatore, che spesso guarda solo alla

politica di prezzo di altre industrie, specialmente orientali, che non prestano alcuna

attenzione al riguardo. Sono noti i disagi della manodopera, l’inquinamento ambientale e

la mancanza di normative di sicurezza in cui operano le industrie cinesi, coreane e

indiane. Anche questa è una forma di concorrenza, più subdola e sleale. Credo tuttavia

che nella coscienza di tutti, specialmente imprenditori, progettisti e designer, sia più

sentito il rispetto del contesto ambientale nostro e delle future generazioni. Ogni

cambiamento ha un prezzo, dobbiamo pagare un po’ di più quei prodotti che rispettano

l’ambiente, fino a che tutti non si comporteranno nello stesso modo!

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Normative e marchio di qualità

Ogni volta che si progetta un oggetto dove è presente l’elettricità, oppure un giocattolo

per bambini, o una macchina utensile, ancor di più un mezzo di trasporto e tante altre

cose d’uso quotidiano, occorre tenere presente alle normative in vigore in quei settori

specifici. Sono regole create per rendere più sicuri gli oggetti che fanno parte del nostro

ambiente, evitando, per quanto possibile incidenti causati dall’ oggetto stesso nel suo

uso. Se l’impianto elettrico non è fatto, come si dice, a regola d’arte, per cui può

provocare un corto circuito con principio d’incendio, oppure un giocattolo è costruito con

un materiale non idoneo o peggio ancora nocivo per la salute, il prodotto non può essere

immesso sul mercato. Quasi tutti i prodotti industriali devono passare il collaudo di

certificazione che in Europa è contrassegnato con il marchio CE come Comunità Europea

e non il simile come Cina Export. Questi collaudi e i relativi marchi sono eseguiti e

rilasciati da istituti di certificazione presenti nel territorio nazionale oppure dalle stesse

aziende produttrici a loro volta certificate nella loro idoneità a fare prodotti che rispondano

a quelle normative di sicurezza. Il tutto marcato e descritto nel manuale d’uso

obbligatorio, di cui è corredato il prodotto. Attenzione a non confondere il Marchio di

Qualità sul prodotto con il Certificato di Qualità ISO 9000, rilasciato all’azienda

produttrice che certifica il processo produttivo e non il prodotto.

A questo punto, un lettore apprendista designer dirà: ma questi problemi sono più di uso

ingegneristico che di design!

Ciò è corretto, ma il designer è utile che sappia dell’esistenza di tali problematiche sia per

cultura personale, sia per meglio impostare ed ottimizzare un progetto a monte, in

quanto, molte volte, risultano essere fortemente condizionanti nei confronti del design di

un oggetto.

Il designer è invece totalmente responsabile nel rendere sicuro l’utilizzo di un oggetto,

attraverso le forme ed i materiali impiegati.

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Design sicuro

Da qualche anno e solo nel settore arredamento la filosofia progettuale di moda è il

minimalismo. C’è stata, e ancora prosegue, una fioritura di prodotti dalle linee semplici,

squadratissime, spigolose e con pochissime funzioni. Prodotti puliti, belli da vedersi,

ispirati al tradizionale stile giapponese ma surdimensionati rispetto a questi, che hanno

riscosso un buon successo di mercato, specialmente nel settore alto. Non credo di

sbagliarmi se dico che questo stile è nato da architetti che sono entrati nel design

mettendo nei loro progetti quella cultura architettonica edile di tipo cubista, dalla

geometria elementare. Facile da progettare, anche con strumenti semplici e tradizionali,

non occorre da parte del progettista, una competenza verso i materiali tradizionali del

design, come ad esempio le materie plastiche e le loro tecnologie produttive.

Io non ho mai disegnato prodotti di questo tipo perché, anche se piacevoli, ritengo che

nella maggior parte dei casi sono mobili ed oggetti pericolosi. In casa, in ufficio e ancor

più in bagno ci si muove non con abiti dotati di paraurti e battere contro quei spigoli

acutissimi è sicuramente fonte di piccoli e talvolta grandi traumi. Quei letti bordati da

tavole dagli angoli acuti e quelle mensole da bagno con le stesse caratteristiche dove ci si

approccia a pelle nuda, dovrebbero essere venduti con una polizza assicurativa anti –

infortuni. I designer dovrebbero avere una deontologia professionale basata anche sulla

sicurezza d’uso dei prodotti ideati. Quella minimalista è una filosofia che crea dei

bellissimi prodotti da vetrina ma che portati a casa, oltre che pericolosi sono anche poco

pratici. Non si sa dove mettere le proprie cose se non in bella vista e in balia della

polvere, con il piacere di aumentare i problemi di pulizia Molte industrie, specialmente

quelle piccole, non tengono conto di tutto questo ; per loro è importante vendere senza

porsi tanti problemi fino a che qualcuno li chiama in causa per danni fisici. Le grandi

industrie automobilistiche mondiali non producono auto squadrate, spigolose e

minimaliste, fatte con i cosiddetti materiali nobili tipo legno o acciaio inox. Loro le prove di

pericolosità, verifiche ergonomiche, riciclaggio dei componenti le fanno e le fanno per un

corretto e sicuro uso da parte di quegli esseri umani che comprano poi gli oggetti

d’arredo minimalista e che vivono nello stesso ambiente naturale Oggi, il mercato o

meglio dire il compratore, compie l’acquisto spesso non per bisogno ma per l’emotività

che emana l’oggetto, magari di moda, dal quale scaturisce il desiderio di possesso che

non ti fa vedere i lati negativi e pericolosi dell’oggetto stesso. Questo fenomeno mentale è

lo stesso che vale per il fumo delle sigarette, per le droghe in generale e…per l’amore.

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Non per quest’ultimo ma per gli altri fenomeni irrazionali, lo Stato interviene, perché non

potrebbe pensare a regolamentare anche il design? Credo che si potrebbero pensare

anche a delle normative sull’estetica dei prodotti d’arredo per avere una maggiore

sicurezza d’uso. Già mi vedo le reazioni e le ire funeste a queste mie considerazioni. .

Questo scrittoio faceva parte di una collezione di pezzi (scrittoio, librerie componibili,

fioriere, panchette,ecc.) realizzati in amianto e cemento. Li avevo disegnati negli anni ’70

in uno dei periodi di crisi di petrolio e con il desiderio di un materiale alternativo alle

materie plastiche e che fosse più ecologico. In un’incontro con l’architetto Nervi, uno dei

grandi geni dell’architettura strutturale di quegli anni, mi parlò di alcuni esperimenti che

stava facendo , mescolando cemento e resina poliestere per costruire imbarcazioni per

lavori costieri. Gli parlai delle mie ricerche di nuovi materiali e lui mi suggerì di andare

dalla ETERNIT di Alessandria, produttrice del materiale omonimo, e di proporre quelle mie

idee per fare arredi per la casa e l’ufficio. I dirigenti di quella società accolsero con

entusiasmo l’idea e realizzarono dei modelli per esporli in Triennale a Milano. Nello stesso

giorno di apertura della mostra tutti media pubblicarono la notizia che l’amianto era

fortemente cancerogeno!

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Design etnico

La materia del design, come si è visto, è molto complessa. Design in inglese significa

progetto, progetto in italiano significa disegnare una forma, un oggetto, determinare le

sue caratteristiche estetiche e funzionali. Tutto questo può essere più o meno

approfondito e complesso ma alla base bisogna capire cosa disegnare, cosa progettare e

perché, con quali caratteristiche e per quale mercato. Oggi è fondamentale, prima di

prendere la matita in mano (o meglio: il mouse),sapere in quali mercati sarà distribuito il

prodotto che stiamo progettando. Ormai in ogni parte del mondo ci sono aziende

produttrici, ognuna delle quali ha un suo mercato specifico invaso da prodotti provenienti

da altri paesi. Spesso un oggetto che riteniamo di produzione locale e per cui ha anche

valore di ricordo,dall’etichetta (non sempre presente) ci rivela che l’oggetto è fabbricato in

un’altra parte del globo. Si è fatto un gran parlare di globalizzazione, di prodotti presenti in

quasi tutti i mercati mondiali, fabbricati con grandi investimenti, a basso costo. Questi

prodotti vengono poi distribuiti con imballaggi sicuri e complessi che incidono

sensibilmente sul prezzo dell’oggetto. Se nei prodotti elettronici, nel campo delle auto e

delle macchine utensili ancora è così, ed è giusto che sia cosi dato l’alto valore

tecnologico insito in questi casi, nei prodotti più semplici come l’oggettistica e l’arredo, o

anche l’abbigliamento e l’alimentare, le cose stanno leggermente cambiando. Gli esseri

umani, per loro natura, hanno bisogno di riconoscersi in etnie e culture d’appartenenza e

solo una minima percentuale accetta di normalizzarsi in uno standard, ad esempio di tipo

occidentale, europeo o americano. Le attività artigianali condotte con attrezzi

caratteristici, con materiali locali elaborati, tramandate nei secoli da molte generazioni,

sono indicatori estetici da recuperare. Perderle significa cancellare per sempre quelle

culture originarie che sono patrimonio storico non più recuperabile. Perché allora non

fare un design che tenga conto delle tradizioni proprie di ogni popolo o regione? Si può

fare un progetto che consideri quei valori, applicandoli ai processi industriali, magari

meno complessi e con l’utilizzo di mano d’opera tradizionale, le cui conoscenze non si

esauriscono nel passaggio da padre a figlio, ma diventano valore aggiunto dell’azienda. Il

design etnico può dare qualità al prodotto locale che agirà principalmente sui mercati

regionali, ma non solo, garantendo qualità e origini controllate, ben progettati nella loro

funzionalità e sicurezza d’uso. Agendo nell’area d'interesse della cultura nella quale si

riconosce si eviterebbe l’aggiungersi di troppi imballaggi costosi ed inquinanti, di sempre

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più difficile smaltimento. Una percentuale di questi prodotti, con un adeguato packaging e

campagna pubblicitaria, potrebbe essere oggetto d’interesse turistico e di comunicazione

di cultura, da quei territori d’origine. Per individui lontani dalla loro terra

d’origine,piacerebbe ritrovare nel design, anche la loro cultura nella nuova terra di

residenza. Tutti concetti, questi, enunciati da illuminati sociologi in diversi convegni,

mostre e manifestazioni, molte organizzate dai miei amici designer del Sud Italia, in

particolare da AD CALABRIA, associazione calabrese.

Quando ero Presidente del CNAD (Consiglio Nazionale Associazioni Design), quella più

attiva fra le varie associazioni federate, con iniziative finanziate in proprio, era appunto

AD CALABRIA. Dinamismo, voglia di concretizzare le proprie idee nella cultura e nel fare

design caratterizzavano quel gruppo di architetti guidati da loro presidente, Nunzio

Tripodi. Parlo volentieri di questa associazione anche per dislocare il design italiano non

solo nel territorio lombardo ma spalmarlo nel resto dell’Italia. E’ sempre stato un mio

impegno al di fuori di particolari interessi di potere e forse solo perché non sono milanese.

Il loro coinvolgente entusiasmo mi ha sempre fatto sentire uno di loro, ma data la mia

lunga esperienza professionale mi hanno attribuito qualche responsabilità morale in più

verso la professione e la cultura del design. La missione, di cui a volte mi sento

interprete, è quella di fare di Reggio Calabria un polo di riferimento per il design

mediterraneo che va da quello milanese a quello del nord Africa, dove il termine "design"

è quasi sconosciuto. A questo proposito, tra le principali iniziative degli entusiasti amici

reggini c’è stata la fondazione di una scuola di design, che riunisca le culture del bacino

del Mediterraneo per confrontarle con quelle di altre zone europee e per accogliere i suoi

studenti, preparandoli con sistemi didattici avanzati, docenti preparati ad una progettualità

nella quale si intravede l’interpretazione della cultura locale in una moderna filosofia di

prodotto dove estetica e funzionalità sono ben miscelate. Sempre là dove è fortemente

presente quel design etnico di cui parlano anche gli operatori economici, immersi

quotidianamente nel problema di superare il gap tra teoria e pratica che spesso si verifica

tra scuola e lavoro. Chi uscirà da questa scuola di design sarà immediatamente pronto ad

operare nella catena dei processi industriali, con un bagaglio di esperienze conoscitive

ma anche pratiche, fornite da lezioni e workshop operativi. Sarebbe di certo un’ottima

soluzione per far crescere un’economia semi - industriale in luoghi dove disoccupazione,

arretratezza economica ed imprenditoriale rendono difficile un modello produttivo di tipo

mitteleuropeo, che il design nord italiano caratterizza in modo efficace.

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Il benessere

Fino a qualche anno fa, fare design significava creare un prodotto di serie che unisse

funzionalità, styling e tecnologia con caratteristiche di innovazione e originalità. E’ una

regola di base ancora valida per fare design ma, come ogni regola, può evolversi nel

tempo adeguandosi alle nuove situazioni, anche sociali. Così nella facile analisi dei

problemi quotidiani che ci coinvolgono (malessere, inquinamento, tensione, stress, cattiva

alimentazione e disagi di ogni tipo), i designer stanno orientando i loro progetti sempre di

più verso il “benessere”. Inteso come creazione di prodotti che migliorano le condizioni di

vita in casa, in ufficio, nei mezzi di trasporto, nella comunicazione, nel gioco,

nell’intrattenimento e cosi via. E, da qui, automobili sempre più comode, silenziose,

meno inquinanti, più ergonomiche e sicure. Arredi più facili da usare, più confortevoli, più

facili da pulire, anche più profumati. Poltrone massaggianti con musicoterapia, oggetti

elettronici per aromaterapia naturale e rilassante, docce e vasche con cromoterapia,

idromassaggi con saune, bagni turchi, magnetoterapia, prodotti da home fitness od office

fitness. Si creano sempre più nuovi scenari di mercati e di economia. E’ da qualche

decennio che lavoro su questi concetti e sui quali faccio le mie analisi e considerazioni.

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Ci sono alcuni prodotti, come questo nella foto chiamato semplicemente TV a pedali,

concepiti solo per comunicare un concetto, una filosofia, o magari solo per esprimere

una propria opinione come questa: Perché dissipare l’energia umana che si sviluppa

quando una persona fa la ciclette? Perché non recuperarla, producendo energia elettrica

per alimentare p. es. una TV? La TV stessa potrebbe mostrare programmi registrati di

fitness o di paesaggi da visitare come quando si va in giro pedalando con una vera bici. Il

tutto contenuto e occultabile in un mobile ad angolo perfettamente integrato nell’arredo

domestico. Eseguito nel nostro laboratorio in occasione della rassegna veronese “Abitare

il tempo “ del ’99.

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I CICLI: storia e approccio

Nel corso delle mie ricerche professionali ho sempre trovato molto interessante lo studio

della vita dei prodotti. Il ciclo di vita di un prodotto si estende dal momento in cui questo è

immesso sul mercato fino a quello della sua uscita. Ma non soltanto di ciclo economico si

parla, esistono anche e soprattutto i cicli storici. Questo preambolo intende introdurre una

riflessione personale, nata alcuni anni or sono mentre analizzavo il “sistema bagno”. Non

è semplicemente un’area domestica, quella del bagno, che continua a svilupparsi e

seguire la moda. Il concetto di bagno come luogo di cura personale ha avuto origine nelle

terme dell’antica Roma. Quello del bagno è un ciclo di cultura sociale che dura perlomeno

da alcuni millenni. Dopo il Medioevo, anni nei quali l’igiene e la cura del corpo

rappresentavano a volte un momento di conflitto con la morale religiosa, la situazione

oggi è fortunatamente molto diversa. Le terme sono state riscoperte, così come tutte le

attività collaterali legate al raggiungimento del benessere e perfino della gioia. Dal fitness

al wellness e fino all’attuale “joyness”: forma fisica, benessere, gioia. Tutte queste parole

sintetiche includono una serie di funzioni che vanno dall’idromassaggio alla cromoterapia,

dalla musicoterapica ad aromaterapia e cristalloterapia eccetera. I progetti di prodotti da

bagno e per impianti termali includono saune, bagni turchi, cascate, massaggi vibranti e

shiatsu per finire, appunto, nel joyness: il concetto di piacere. Forse prima o poi

arriveremo a livelli di commistione funzionale così avanzati da approdare al concetto di

felicity o all’ecstasy, che non è la droga sintetica ma una serie di sensazioni quasi

paradisiache, che potrebbe chiudere il ciclo storico dell'impatto della religione sull'igiene

personale in modo sorprendente.

Sappiamo che gli antichi romani avevano a disposizione più acqua pro-capite rispetto a

noi, circa 270 litri contro i 70/100 attuali per le zone occidentali di clima temperato e

socialmente sviluppate. Nel “sistema romano” le funzioni di benessere erano garantite

dall’impiego di schiavi, impiegati per provvedere a ogni aspetto, dai massaggi alle

ventilazioni, dagli impacchi caldi e freddi con erbe varie, fino alle profumazioni ambientali.

Oggi queste figure sono state sostituite da schiavi meccanici, sofisticati meccanismi

gestiti da un'elettronica sapiente “incastonata” in materie plastiche di ogni qualità e

aspetto. Dalle superfici color bianco candido al finto marmo, dagli accessori morbidi agli

inserti in finto legno, si spazia tra infiniti disegni ornamentali.

Tuttavia, la fondamentale differenza tra l’epoca romana e quella odierna è che la nostra

tecnologia, tendente a miniaturizzare i sistemi, riesce a trasportare quasi tutte le

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funzioni,un tempo fruibili solo nei centri benessere fino al privato, in casa. Nei tempi

antichi solo le grandi ville private potevano allestire luoghi di benessere come quello che

oggi è tranquillamente realizzato in pochissimi metri quadri all’interno delle nostre

abitazioni. La rivoluzione portata dalla tecnologia è, evidentemente, dovuta alla possibilità

per il ceto medio e non solo per chi dispone di redditi elevati, di avere un piccolo centro

benessere privato o a portata di mano, visto la grande diffusione nel territorio.

Nei nuovi centri hanno anche fatto la loro comparsa numerose macchine che

abbronzano, disintossicano, massaggiano, rilassano, coccolano, insomma, ti rivitalizzano

e ti profumano. Si stanno diffondendo sempre di più nei paesi occidentali, sempre di più si

attrezzano con sofisticatissime macchine di benessere che trasmettono sensazioni come

quelle che madre natura ti fa vivere solo in luoghi tropicali di cultura esotica, o nei sogni

promossi dalle agenzie di viaggi.

Anche i nomi degli attrezzi richiamano questi concetti: docce tropicali, poltrone shiatsu di

cultura orientale, percorsi sensoriali ludico-dinamici, saune finlandesi, distributori di tisane

tonificanti, tutti contribuiscono a sognare situazioni paradisiache nelle quali immergersi

completamente.

La continua ricerca da parte dei grandi produttori come Teuco, Jacuzzi, Albatros ecc.,

tanto per citarne alcuni nazionali, sta nel produrre attrezzature di “benessere domestico”

che si avvicinano sempre di più a quelle professionali presenti nei centri benessere.

Queste strutture che vanno sostituendo le vecchie palestre, che miravano al semplice

sviluppo muscolare degli iscritti.

Credo che sia interessante, per chi sta leggendo queste righe, sapere quali sono le nuove

tendenze e quale è la disponibilità di attrezzi presenti sul mercato per rimodernare il

proprio bagno o per crearsene uno nuovo, quasi un piccolo stabilimento termale privato.

C’è veramente "di tutto e di più": dalla cura dell’igiene a un vero processo di

rigenerazione psicologica. Superato l’uso semplicemente quotidiano, la vasca da bagno

si è dapprima evoluta fino all’idromassaggio con ultrasuoni. Oggi fa piacere pensare di

impiegare una vasca anche per passare piacevolmente il tempo libero in un'ora di relax.

Meglio se doppia ed attrezzata: ci si annoia di meno e se si ha un giardino o un patio o

una terrazza con solaio resistente, una bella minipiscina da usare come salotto acquatico.

E’ il massimo piacere per la famiglia e gli amici che si possono immergere nell’acqua

abbandonandosi alla terapia dell’idromassaggio. I modelli più grandi permettono di

effettuare esercizi di fitness acquatico con cyclette immersa e nuoto controcorrente, e

sono attrezzati con TV con megaschermo e con una cascata che ricorda un ambiente

naturale. Godibili dalla primavera all’autunno, non occupano molto spazio (circa 6 mq) e

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hanno impianti autonomi di disinfezione e filtraggio dell’acqua. Queste mini - piscine con

molti accessori sono l’ultima tendenza per chi può permettersi di investire nella

realizzazione di ambienti che non sono più soltanto dei “bagni”, ma spazi un tempo

appartenuti al “salotto” o al soggiorno. Oggi contengono macchinari evoluti e complessi

che potremmo ancora chiamare docce anche se la funzione-doccia è solamente una

delle tante disponibili.

Caldaie, luci riscaldate, radio ecc. ne fanno oggetti che, con attrezzature fitness e saune

turche e finlandesi, permettono alla famiglia di passare ore in vere terme domestiche,

luoghi di cura del corpo e della psiche.

Quale futuro nei nostri “bagni”?

La fase attuale è quella del “trasparentismo”: docce tutte di cristallo, vasca con cristallo

per la visione sott’acqua, piscine con tanti cristalli trasparenti, saune trasparenti. Sono

prodotti apparentemente semplici e con poco impatto visivo, che aiutano a superare il

senso di claustrofobia che alcuni prodotti precedenti potevano trasmettere ai soggetti

sensibili.

Angolo palestra in ambiente bagno. E’ un prodotto , insieme ad altre proposte per

TEUCO, di trasformare da luogo di igiene a luogo di benessere anche fisico le cosiddette

stanze da bagno. Una rievocazione domestica personalizzata delle antiche terme

romane.

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L'utenza ampliata

Altro sistema di progettare per allungare il tempo d’uso e di vita di alcuni prodotti

industriali è quello di progettare per la cosiddetta “ utenza ampliata” o

“intergenerazionale” o “transgenerazionale”.

Questo vuol dire allargare la fascia dei consumatori a categorie diverse, per esempio, da

quei quarantenni in piena forma fisica, che acquistano per impulso emotivo o perché

l’oggetto rappresenta uno status symbol riconosciuto nel suo ambiente, alla nonna con

limitata abilità motoria o ai piccoli nella loro vivacità. Oggi gli arredi non tengono conto di

queste fruizioni ma seguono solo indicazioni modaiole. E’ il classico modello di mercato

consumistico che, se da una parte sviluppa economia, dall’altra crea problemi di

smaltimento, d'inquinamento ed anche di estetica ambientale. Ma se quest'oggetto,

quando è possibile, potesse essere riusato da tutta la famiglia in modo

intergenerazionale, dai bambini agli anziani, alle persone con handicap temporanei

(causati da incidenti) o permanenti, ecco che la sua vita si allungherebbe nel tempo.

Questa diversa filosofia progettuale potrebbe risolvere molti problemi, lasciando in ogni

caso grandi spazi ad articoli altamente specializzati. Dobbiamo prendere atto che l’età

media dell’uomo si è allungata, e sarà sempre più necessaria una certa facilità d’uso

anche, semplicemente, degli elettrodomestici più comuni. Ciò non comporterà la

creazione di strumenti d’ausilio ma prodotti facilmente usabili da chiunque nella massima

sicurezza. Secondo me è questa la sfida del nuovo millennio per progettisti e designer, in

un campo dove l’elettronica ricoprirà uno spazio sempre più grande con un uso sempre

più semplificato. Vorrà dire progettazioni sempre più complesse e sofisticate, più vicine a

consumatori finora non considerati, con un loro specifico potere d’acquisto. Si dovrà

rinnovare il metodo di fare ricerca, di avere e consultare banche dati, di progettare, di

realizzare prototipi e di verificarne la rispondenza.

Dovrà cambiare la filosofia concettuale di base. Non fare progetti ,poco accattivanti,

riconosciuti come prodotti esclusivi per chi ha problemi fisici, realizzati da poche industrie

e venduti ad altissimo prezzo dato l’esiguo numero di pezzi prodotti, o progetti per

persone adulte, abili fisicamente, magari anche pericolosi, ma fare un design fruibile

nello stesso modo dall’intera famiglia. Una progettualità diversa, più ampia, che dovrebbe

rientrare nel corso degli studi come materia di base nelle Università o negli Istituti

professionali. Tutto questo non è ovviamente solo un problema di design ma,

principalmente del marketing che dovrà valutare i settori produttivi con la filosofia del

prodotto “per tutte le utenze”.

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Rendering CAD di una vasca-doccia intergenerazionale. La finitura esterna è prevista

con più materiali, dal legno compensato curvato , al Duralite, al mosaico o in acrilico

termoformato. Il design intergenerazionale o transgenerazionale sarà, per me, insieme a

quello etnico, la nuova del design. Questo rendering di qualche anno fa è molto

semplice, tipo stylife. Oggi sono richieste immagini molto più definire, tipo fotorealistico

ambientato.

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Chi parla e chi agisce

Ultimamente, su Rai Tre, è andata in onda una serie di trasmissioni del Dipartimento

Scuola Educazione, sul Design. Si è trattato di circa 50 “Lezioni di Design”, così erano

intitolate, trasmesse alle 9,30 e da me registrate in quanto a quell’ora, ormai non più

studente, sono affaccendato a “fare design”. Ogni tanto la sera mi rivedo alcune di quelle

lezioni, ritrovando un po’ di vecchie facce conosciute e tante, tante parole. Sono tenute

quasi tutte da professionisti milanesi e da qualche straniero che lavora a Milano, quasi

esclusivamente nel design del mobile.

Le lezioni mi sono sembrate per la maggior parte costituite da molte parole e poche idee

innovative, dove ai termini pratici si sono sostituiti quelli teorici, volutamente rivolti alla

trasgressione, all’antifunzionalismo, alle filosofie comportamentali, alle politiche sociali.

È un approccio che rispetto, ma che non riesco a fare mio. In certi casi ritengo che

l’immagine del design risulti troppo distante dalla realtà operativa. In molti casi parlano

quei designer che amano autocelebrarsi, che si parlano addosso con tante parole che

non dicono niente. Spesso mi chiedo se sono stati loro a fare quegli oggetti di successo.

Forse sono solo il risultato di quella cultura locale di cui fanno parte. circoscritta ad un

unico ambito regionale (nella fattispecie quello milanese), o ad una sola Associazione

(l’ADI), che ha pur sempre una sua valenza storica, quella milanese, ma non costituisce

tutto il mondo del design. Sarebbe stato però il caso di menzionare, soprattutto in uno

spazio televisivo nazionale, tutte le realtà produttive, professionali e associative, che

operano, producono e fanno cultura nel design nel resto del territorio nazionale e delle

quali nessuno parla.

Il problema delle parole non è una questione di gusti. La comunicazione può anche

funzionare da traino di mercato, davanti a certi committenti che si lasciano convincere da

parole non sono supportate dai fatti concreti. Parlo dei riscontri di mercato; questo porta

a dare credito solo a quei pochi che sono molto abili a parlare, ignorando il resto

dell’offerta che magari lavora ugualmente bene ma parla di meno, o in modo meno

appariscente.

Non sto certo disprezzando la comunicazione né coloro che sono bravi a farla. Però non

bisogna dimenticare che ci sono in Italia tanti professionisti validi, designer che lavorano

in settori diversi producendo, oltre ad oggetti utili e belli, economia e mercato, che non

sono stati mai menzionati perché non sono milanesi, non parlano ma agiscono bene anzi,

spesso meglio di quelli che parlano tanto .

In settori diversi , decine di ottimi designer hanno fatto tanta e tale innovazione che nel

settore del mobile neanche se la sono immaginata. Molto è stato fatto anche nel settore

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cucina, specialmente nell’elettrodomestico ma, anche di questo non parla praticamente

nessuno. Forse occorre introdurre qualcuno più bravo a parlare anche in questi settori?

Concorsi di design

Data la mia non più giovane età, indicatore presumibile di molta esperienza e forse di

saggezza, mi chiamano spesso a fare da giudice di elaborati in concorsi di design. Mi

trovo a fianco di giornalisti anche non di settore, filosofi, artisti, amici degli organizzatori,

che considerano le idee progettuali più come una manifestazione di grande creatività che

progetti per un prodotto industriale.

Il mio disagio nello scrutinio è dovuto al fatto che si finisce spesso con il premiare progetti

senza futuro, disorientativi, non producibili, da premiare perché gli altri membri della giuria

li giudicano emotivamente diversi. Io, fautore di un design più concreto, funzionale,

facilmente producibile con le attuali risorse, trasportabile e facile da distribuire in un

mercato pronto a recepirlo, dovrei valutare non giudicabile e non pertinente al design, il

90% degli elaborati presentati. Ogni volta che m'informo, a posteriori, sugli esiti dei

progetti premiati, ricevo sempre conferma che non hanno avuto alcun esito produttivo. Mi

chiedo allora se ci sono alla base ragioni valide a questo genere di iniziative o se invece,

come qualcuno sostiene, si organizzano per avere nuove idee a buon mercato, o per

avere pubblicità con mezzi diversi o per rendersi visibili come produttori attenti e sensibili

ad aiutare i giovani ad emergere. Iniziativa encomiabile se non avesse spesso come

risultato di illudere molti giovani portandoli ad un’idea di design non realistico.

Ritengo che la scelta dei membri della giuria debba essere più oculata ed i bandi di

concorso più precisi e chiari, per ottenere il giusto ritorno dell’investimento e dare vere

opportunità ai partecipanti di avere un riscontro commerciale. Ciò sarebbe utile sia

all’azienda che al progettista, in termini pubblicitari ed economici. Circa 35 anni fa

partecipai ad un concorso per un sistema di arredo componibile. Analizzai che tipo di

cultura avevano i membri della giuria, e presentai un progetto che ritenevo perfettamente

centrato per la loro cultura ma meno ottimizzato per l’uso reale del prodotto stesso e

perciò di minimo successo commerciale. Vinsi il premio “Fiera di Trieste”; ma appena

finita la cerimonia di premiazione (naturalmente con l’assegno del premio in tasca) lo

stracciai, anche se soddisfatto del successo dell’esperimento.

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Passaparola

Esistono, nel calcio, nel cinema, nell’arte, alcuni personaggi che fanno a tempo pieno o

casualmente gli scopritori di talenti. Penso che nel Design ci vorrebbero dei talent scout

per le aree e i settori dove il design non è sufficientemente rappresentato, anche laddove

è ben sviluppato. Bisognerebbe che i grandi centri di cultura e comunicazione del design

fossero a conoscenza della sua esistenza.

L’ADI, la grande e storica associazione dei designer italiani, fino a pochissimi anni fa si

occupava solo del design per il settore arredo e trasporti con poca conoscenza di ciò che

accadeva in altri settori produttivi. Nel settore bagno, ad esempio, c’è voluto l'intervento

dell'amico Oscar Colli (Direttore de "Il bagno oggi e domani") per far scoprire a

quest'associazione che esisteva anche un design-bagno. C’è stato un mio contributo

indiretto per far conoscere il design nautico, forse ce ne sarà uno più diretto per far

scoprire un altro settore del design: quello del benessere e fitness. Esistono tante

pubblicazioni specializzate e molto belle su queste materie, ma non è concepibile che le

associazioni e i mass media e soprattutto i politici responsabili del settore produttivo, non

ne parlino mai.

Eppure questi settori sono quelli che danno grossi contributi all’economia e

all’occupazione nonché un buon bilancio positivo all’esportazione. Passate parola anche

a casa nostra, visto che in altri paesi esteri pare che la voce circoli decisamente meglio.

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Conoscere o ignorare

Mi sono capitati ultimamente due tipici casi di incarico progettuale da due aziende

operanti in settori diversi. Una è impegnata principalmente nel contract, dotata anche di

una distribuzione a rivenditori qualificati ed una serie di prodotti molto eterogenei,

difficilmente riconoscibili da una linea di design ma, a detta del direttore marketing, di più

facile scelta per consumatori di gusti diversi. La prima azienda si avvale di

designer/architetti che progettano prodotti da inserire nei complessi da loro progettati.

L’altra azienda invece opera in un solido mercato internazionale, con una rete distributiva

molto qualificata. La prima, nel propormi l’incarico, mi ha chiesto un prodotto da inserire

nel proprio catalogo senza fornire altri dettagli sulle proprie tecnologie, sul mercato di

riferimento, sul tempo ed il prezzo di distribuzione. “Meglio non sapere niente” diceva il

direttore marketing “cosi si è meno condizionati e le proposte possono essere più

originali”. La seconda azienda, invece, è stata fin troppo generosa di informazioni sul suo

mercato, sui propri successi e insuccessi, sui desideri dei propri rappresentanti; mi ha

fatto partecipare alle riunioni con gli agenti di commercio, mi ha informato sui desideri del

titolare dell’azienda. Quale delle due ha ragione? Ho accettato l’offerta della seconda

azienda, rifiutando l’incarico della prima, anche perché, dall’analisi del suo catalogo, ho

avuto la sensazione di una massa informe di prodotti non identificabile con un’immagine

aziendale precisa. In una situazione simile è impossibile fare design professionale, si

rischia di impantanarsi in esercitazioni più o meno sterili di progettualità didattica, un po’

come avviene nei concorsi di design. Come ogni mamma, anche le aziende devono

riconoscersi nei propri figli. E’ come se i geni del nostro DNA non tenessero conto dei

caratteri ereditari e creassero un essere strano, non riconosciuto della famiglia.

Insomma… un po’ un figlio di!

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Di chi è il progetto?

Di chi lo ha ideato e fatto o di chi lo ha brevettato? Se è la stessa persona non ci sono

dubbi, è suo a tutti gli effetti. Ma se è l’azienda che paga il brevetto anche se questo è

intestato al designer, di chi è il progetto? In questo caso, è il caso di parlare dello

sfruttamento dell’idea. Pur non essendo un esperto di diritto e legislazione, metto al

servizio del lettore l'esperienza di “bottega” del progetto accumulata nella mia attività. Al

fine di evitare l’insorgere di spiacevoli contestazioni, conviene cautelarsi immediatamente

depositando o brevettando o il modello ornamentale o l’invenzione che troverà

applicazione nel prodotto / novità. E’ pero fondamentale stabilire, in sede di stipula di un

contratto, quali siano i soggetti e l’oggetto del rapporto, individuando così in maniera

automatica a chi attribuire la titolarità di un progetto o di un’invenzione. La questione è:

diritto al brevetto o diritto di brevetto? Intendendo nel primo caso “chi” ha il diritto di

ottenere il brevetto, nel secondo a chi spetti il diritto di sfruttamento del brevetto dopo

averne ottenuto titolo (proprietario e "sfruttatore" del brevetto, colui che lo mette in

produzione o in commercio). In un rapporto di lavoratore dipendente, il diritto al brevetto

spetta al lavoratore che abbia conseguito l’invenzione di propria iniziativa, pur se

attraverso l’uso dei mezzi disponibili in azienda. Quest’ultima, può esercitare un diritto

d'opzione per l’acquisto del brevetto stesso, manifestando la propria intenzione entro tre

mesi dal deposito della relativa domanda e corrispondendo al dipendente/inventore

l’equivalente del prezzo. Di contro, appartengono al datore di lavoro i diritti dell’invenzione

conseguita da un lavoratore nell’ambito di un rapporto di lavoro che preveda l’attività

inventiva come oggetto dell’attività dovuta dal dipendente, spettando a quest’ultimo solo il

diritto morale di essere riconosciuto come autore.

In linea generale, l’invenzione conseguita nell’ambito di un rapporto di committenza,

regolato da apposito contratto, rientra, invece, nel patrimonio del committente che,

sostenendo costi e rischi dell’opera commissionata, ne acquisisce il diritto di utilizzazione

economica attraverso la cessione del diritto allo sfruttamento da parte dell’inventore.

Vorrei a questo punto fare un distinguo fondamentale; se l’idea è venuta al designer e se

questo è pagato a royalties, la proprietà del brevetto è la sua anche se l’azienda ha

pagato i costi di deposito del brevetto nelle varie aree commerciali dove è interessata

l’azienda. Questa ha il diritto di sfruttamento in esclusiva fino che è interessata al

prodotto, dopodiché questo può ritornane alla disponibilità del designer. Se invece il

designer vende l’idea al produttore con pagamento della cifra pattuita, e l’azienda ne

paga il brevetto, il progetto rimane di totale proprietà di quest’ultima e il designer rimane

anche in questo caso l’inventore morale.

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Designer e azienda: partner o concorrenti?

È passato oltre mezzo secolo da quando le prime collaborazioni tra piccoli artigiani e

architetti o designer hanno cominciato a diventare una norma. Allora quella del designer

era una professione sconosciuta. I prodotti nascevano dall'incontro giornaliero di figure

pionieristiche attorno ad un tavolo, con utensili, strumenti e pennarelli. Parole come ufficio

tecnico o product management erano del tutto inesistenti, né si poteva pensare a

processi dipendenti da computer o concept design, co-design e marketing.

Oggi le cose sono cambiate. La competitività globale e gli investimenti elevati, i prodotti

complessi richiedono professionalità più specifiche. Gli artigiani si sono evoluti in piccoli

industriali, talvolta in possesso di capacità produttiva più ampia. Il designer si deve perciò

confrontare con numerose figure professionali di settori diversi ma collegati, ad esempio

con il marketing, che spesso fornisce al progettista gli input concettuali. Il settore di

produzione industriale contribuisce tramite i tecnici di progettazione, che indicano le

caratteristiche tecnologiche dei prodotti, e gli specialisti di produzione, imballaggio,

distribuzione e manutenzione. Grande importanza è attribuita anche ad esperti di

comunicazione, grafici e fotografi, che pur lavorando indipendentemente dal progetto

forniscono dati e necessitano di continui scambi d'informazioni, per capire il prodotto e

comunicarlo nella maniera corretta, cogliendo le caratteristiche vincenti sulle quali ha

lavorato il designer.

Visione del piccolo laboratorio fotografico del nostro studio. Talvolta è importante che il

designer assista al servizio fotografico per indicare al fotografo le caratteristiche da

mettere in risalto nelle immagini talvolta trascurate senza la dovuta assistenza del

progettista.

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Immagine della zona CAD dello studio. E’ importante lo studio del l’illuminazione di questo

ambiente per evitare che la luce naturale o artificiale non si rifletta sugli schermi. Sono

anche importanti dei divisori tra le diverse stazioni di lavoro e dei soffitti a isolamento

acustico. La foto non fa testo.

Laboratorio per la prototipazione industriale dello studio, attrezzato con tutte le principali

macchine utensili per lavorazioni meccaniche e con tecnici modellisti esperti in compositi.

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Cultura del nord e quella del sud Italia

In una serata tra amici designer l'argomento design è prevalente, ma in quella di cui vi

parlo si affrontava l'argomento delle differenze tra il design del nord Italia e quello del sud.

Alcuni amici notavano come, in base a esperienze recenti, le aziende del nord assumano

un atteggiamento completamente diverso nei confronti dei designer rispetto a quelle che

si collocano più a sud, anche se operano da diversi anni con i medesimi designer.

Le aziende del nord si mostrano orgogliose dei prodotti a firma dei designer, magari

famosi, e mettono in evidenza il loro nome in qualsiasi comunicazione di prodotto. Quelle

del sud evitano troppo spesso che il nome del designer sia pubblicizzato o quantomeno

conosciuto. Da quella serata non è emersa una spiegazione precisa di questo fenomeno,

ma solo alcune ipotesi. Ché la figura del designer sia oggetto d'invidia commerciale? O si

teme che il suo nome oscuri il nome dell’azienda produttrice? Che il designer acquisti più

forza contrattuale e richieda compensi più elevati per il proprio lavoro? Forse ci sono

anche altri oscuri motivi che mi sfuggono, ma posso dire che dalla conversazione di

quella sera è emersa una riflessione che non avevo fatto prima. All'inizio della mia

esperienza lavorai per più di dieci anni con aziende del nord e a malincuore devo

ammettere che in seguito, con alcune aziende del sud, a volte mi sono trovato a disagio.

Alcune volte mi sono perfino sentito mortificato sul piano umano, per alcune furbizie

contrattuali. Ho anche rilevato e ammesso che certi atteggiamenti vessatori mi hanno

disturbato nell'esprimere al meglio le mie capacità progettuali. In quei casi mi sono

limitato ad accontentare i desideri del committente.

Presumo che atteggiamenti diversi tra nord e sud siano un fatto di cultura. Essendo

peraltro abituato a muovermi in ambienti aziendali del centro sud, ad alcune differenze

non avevo dato peso, considerandole parte dell'ambiente e della cultura presente in

queste regioni. Qui si ha la paura di perdere qualcosa dando più credito al designer, di

perdere quel potere tanto caro all’uomo del sud, che è più individualista che collaborativo.

Si tende più al miglioramento del proprio stato sociale che al miglioramento qualitativo

della propria impresa, delegando pochissimo ad altrui saperi e competenze. Credo che

sia questo il motivo del mancato sviluppo delle grandi imprese del sud. Ricordo sempre le

parole di Virgilio Guzzini; “il segreto del mio successo è stato ed è quello di circondarmi di

persone più brave di me”. Trovo spesso invece imprese con dirigenti che si circondano di

persone meno capaci per poterle controllare meglio e non perdere la propria poltrona,

che va mantenuta anche a discapito degli interessi aziendali. Guai se un subalterno di

questi quadri aziendali prende una iniziativa o una piccola decisione migliorativa al

prodotto o al processo produttivo, se questa non porta la firma e il merito al dirigente! E’

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giusto rispettare le filiere burocratiche ma occorre tenere presente anche gli interessi

aziendali che portano ad una crescita parallela di tutti i componenti.

Naturalmente non è un discorso universale o riferito a tutte le aziende del sud. Si tratta di

un clima, che però pregiudica anche il legittimo diritto di un designer, o per chi ha

"inventato" un prodotto, di vederselo riconosciuto. I riconoscimenti al nome del designer

rappresentano, in effetti, anche un vantaggio per l'azienda. Nel corso degli anni la

situazione sta migliorando. Vediamo come.

L’invasione dei prodotti orientali, parlo di Cina, India e Corea, nei mercati occidentali,

caratterizzati dal basso costo, senza griffe e originalità, porterà ad una riqualificazione

dell’originalità e delle idee. E le idee vengono da chi ce l’ha e sa che costano fatica,

impegno e denaro, spesso con una struttura fatta da persone capaci che meritano di

essere riconosciute tali. Ma di ciò ne parleremo più avanti.

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Mai proporsi con una propria idea

….. anche se si pensa sia brillante, se prima non si è trovato un committente che voglia

investire su un progetto almeno simile al vostro. E se non è interessato, spesso conviene

rinunciare alla propria idea in favore della sua. Ho verificato che pochi sono disposti ad

investire totalmente sulle idee altrui, salvo quelli che le copiano. Se poi si ritiene che la

propria idea sia quella giusta e da sfruttare, i casi sono due; o si bypassa l’idea, tramite

un’abile azione psicologica, a persone vicine al responsabile del marketing aziendale che

poi egli ti ripropone ,dopo poco tempo, come sua, o diventi imprenditore della tua idea.

Comunque, a meno che non si voglia rischiare di rimetterci del denaro, è meglio andare

sul sicuro con l’idea del committente. Questa affermazione è dettata dalle esperienze

vissute, ma è una regola di buon senso non sempre rispettata. Spesso è offuscata da

quel meccanismo mentale che si chiama orgoglio, o presunzione. Prima o poi ogni

progettista, o designer o inventore o consulente, ci casca e quando se ne accorge è

troppo tardi per uscirne, si trova invischiato in problemi o preoccupazioni economiche

senza rendersene conto. Credo che ognuno debba fare il proprio mestiere, senza mai

dimenticare la capacità di prendere al volo quelle occasioni che qualche volta capitano

nella vita. Quando ti passa davanti un treno che ti porta a traguardi lontani è davvero un

peccato perderlo per restare rigidamente attaccato alla propria professione!

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Nei primi anni ’90, su suggerimento di un mio amico ristoratore, progettai un sistema di

mezzi di trasporto urbano a trazione elettrica. Un sistema molto innovativo composto da

tre modelli di mezzi mobili a tre ruote e da uno scambiatore automatico di batterie.

Questo era un carosello di cestelli di accumulatori elettrici posti sotto carica, rivestito da

pannelli in VTR, con frontale attrezzato per ospitare due mezzi mobili per la sostituzione

delle batterie scariche. I veicoli , differenziati dalle dimensioni in funzione del numero dei

trasportati da uno ,due ,tre posti, erano coperti e motorizzati con sistemi brushless a

recupero energetico in frenata, posti nelle ruote. Uno dei pochi brevetti registrati in proprio

dal mio studio, sul quale ho fatto notevoli investimenti, finanziando la ricerca e

prototipazione dell’intero sistema.

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Ikeizzare

“Ikeizzare” è un neologismo che indica la modalità commerciale della multinazionale

svedese IKEA. Il suo successo internazionale riconosciuto è legato alla possibilità di farsi

un arredamento con componenti da assemblare, molto razionale, semplice ma

personalizzato, a costi contenuti e qualità di materiali e finiture più che buoni. Per operare

la riduzione dei costi, IKEA ha lavorato sull’eliminazione dell’assemblaggio finale e il

montaggio a domicilio.

È finito il tempo degli arredamenti già pronti e di stile predefinito, così come si è

ridimensionato il prestigio degli status symbol per tutti, che ha in parte caratterizzato gli

anni Ottanta.

Una nuova cultura minimalista di ispirazione a metà tra il tecnologico e l’orientale è

attualmente più in voga, il grande pubblico preferisce spendere di meno e personalizzare

di più. A livello di marketing gli effetti si sono fatti sentire. Le strategie di vendita

focalizzano il target e cercano di offrire prodotti mirati alle varie utenze. In termini pratici

significa che i prodotti molto decorativi e fantasiosi non pagano più come un tempo. Vorrà

forse anche significare che la firma del designer tende a sparire dal mercato?

Assolutamente no, ma vediamo perché. Primo: i prodotti IKEA portano nel catalogo la

firma e spesso la foto del progettista. Secondo : si diffondono le copie, le imitazioni e i

prodotti a basso costo di importazione orientale. La qualità di questi prodotti non è

nemmeno troppo scarsa, per il momento manca soltanto a quei prodotti la mano del

designer. La parte del leone la sta facendo la Cina. Non possiamo competere con gli

standard di questo mercato, nel quale già cominciano a crescere capacità progettuali.

Parliamo di paesi caratterizzati da fame di crescita e grande aggressività commerciale.

Ma anche nei mercati che si stanno ikeizzando non manca lo spazio per i prodotti di

qualità, caratterizzati da prodotti griffati e distribuiti con stile e cura in boutique che offrono

anche un servizio di interior decorator. I prodotti a firma “importante” conservano quindi

sia il proprio prestigio che la garanzia di essere stati pensati anche dal punto di vista della

sicurezza e del rispetto ambientale. Su questo terreno si combatte la nuova battaglia del

design contemporaneo. Ci sono poi aree commerciali come quella del bagno che non si

potranno ikeizzare facilmente. I materiali richiesti sono comunque costosi e tecnicamente

difficili da trattare. Stiamo poi parlando di un ambiente che ha attraversato vere e proprie

rivoluzioni negli ultimi anni e la cui specifica particolarità non ha bisogno di essere

sottolineata.

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Da semplice luogo per l’igiene personale ad area fitness (un luogo per tenersi in forma),

dal wellness (benessere) fino all’ultima tendenza: joyness. Un’area domestica nella quale

semplicemente star bene, trascorrere del tempo, rilassarsi, perfino un modo nuovo per

accogliere gli amici. Le minipiscine consentono di stare a mollo tutti insieme e scambiare

due parole. È ovvio che per prodotti di questo livello non si può evitare di ricorrere a un

professionista del design. Ed ecco che la sua firma appone una garanzia di

professionalità ed esperienza sui progetti, diventando una specie di certificato di qualità.

La nostra professionalità e la nostra firma sarà sempre più interessante per la gamma

alta del mercato. La globalizzazione, troppo spesso intesa come appiattimento, non potrà

incidere sul lavoro di chi ha fatto della qualità la propria professione ma solo sulla

creazione di prodotti con esigenze d’altro tipo. C’è ancora spazio per tutti.

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Venti dall’Est

Essendo appassionato di mare e navigatore da qualche decennio, ho acquisito quella

conoscenza dei venti che, anche senza bollettini meteorologici o strumentazione

sofisticata, ti porta ad intuire situazioni difficili, talvolta prevenendo i momenti più critici.

Parlo di atmosfera ma anche delle tendenze degli ambienti commerciali.

Da qualche tempo sto tentando di capire se il “vento” che viene dall’Est sarà portatore di

positivi cambiamenti di mercato e conseguentemente agirà sul mondo del design, o se ci

metterà in condizione, in un prossimo futuro, di dover affrontare situazioni più difficili di

quelle attuali.

L’Est ha la necessità di recuperare cultura, benessere ed economia piuttosto

rapidamente, ed avendo a suo vantaggio la possibilità di manodopera a basso costo può

accaparrarsi i mercati dell’Ovest per la fascia di mercato medio - bassa. L’unica difesa

per contrastare il gioco al ribasso, è quella data dal valore aggiunto del nostro design

innovativo. In questo campo siamo ben qualificati, ma bisogna stare attenti a non perdere

questo valore aggiunto per mancanza di strutture adeguate.

Con questo intendo dire che ci vogliono design, tecnologia e ricerca, tesi verso un

mercato di alta gamma. L’esempio ci viene dal settore delle calzature: il mercato stava

crollando e si è potuto risollevare solo grazie a prodotti di qualità, nati dalla ricerca e

dalla tecnologia di profilo elevato. Da buon marinaio dico quindi che è meglio prevenire il

cattivo tempo e correre ai ripari incentivando proprio i settori della ricerca in vista di un

incremento della qualità, anche se il vento dall’Est oramai sta soffiando su di noi già da

qualche anno. Per noi designer, con la nostra capacità creativa, la nostra cultura del

bello, non ci mancherà l’occasione di collaborare con industrie cinesi per prodotti firmati

italiano. Credo che in questo modo si possono avere prospettive positive sia per i

designer che per i prodotti fatti in Italia dagli stessi designer. Ci sarà sempre un mercato

per oggetti D.O.C. firmati da designer famosi nel mondo.

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Innovazione

Già da qualche anno economisti, politici, consulenti, parlano sempre più spesso di

innovazione, parola ripetuta frequentemente in tutti i settori ma applicata veramente solo

in pochi, come quello dell’elettronica. Trent’anni fa quando cinema e letteratura

raccontavano il futuro, il 2000 era rappresentato in modo talmente avanzato da far

pensare che oggi avremmo dovuto avere tutti automobili volanti! Ma, forse

fortunatamente, non è stato cosi. Grossi cambiamenti ci sono stati anche se in maniera

meno eclatante, e non sempre per il meglio. Molti passi in avanti sono stati fatti in

tecnologia e ricerca, nell’elettronica, nei trasporti, nella comunicazione, nella medicina

applicata. Tutti settori in cui il designer interviene spesso nel dare “bellezza” alle funzioni

tecnologiche. Questo valore aggiunto, se ben fatto, crea elemento primario di successo,

addirittura al di sopra della stessa tecnologia. Il designer può apportare vere e proprie

innovazioni ai prodotti, con quella capacità di osservare globalmente il mercato che, unita

alla preparazione tecnico-stilistica, gli consente di individuare alcuni anni in anticipo le

nuove tendenze ed a proiettarle nel progetto in corso. Una volta individuato il trend e

concepita la filosofia da immettere nei nuovi prodotti, è bene che questi non si fermino ad

uno o due modelli ma che si creino delle “famiglie”, differenti come dimensioni, estetica e

funzioni, ma riconoscibili in quanto appartenente alla stessa filosofia concettuale. Nel

progettare queste nuove “famiglie” o linee di prodotti è bene usare componentistica

comune, anche con grandi investimenti in nuove tecnologie, e invece fare “carrozzeria”

per le parti che sono visibili e che fanno estetica, con tecnologia a basso investimento, in

quanto facilmente rinnovabili e comunque presenti in una gamma con minor numero di

pezzi. Infatti, più è alto il numero dei pezzi da produrre più conviene investire in

attrezzature (stampi, macchine automatiche ecc.), cosi da tenere basso il costo di ogni

singolo componente. Per un numero relativamente medio di pezzi si usano robot con

apprendimento simulato, mentre più è basso il numero dei pezzi e più conviene utilizzare

bassa tecnologia e più manodopera. Da quanto mi risulta l’uomo è ancora più intelligente

dei robot! Il singolo componente costerà leggermente di più, anche senza il costo

d’ammortamento delle attrezzature specifiche di quel prodotto, ma sarà più facilmente

diversificabile. Su questo concetto oggi piccole e medie aziende riescono a produrre e a

rinnovare velocemente e spesso la gamma dei modelli da immettere sul mercato e solo

così riescono a crearsi i loro spazi commerciali. Per le aziende dai grandi numeri, quelle

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automobilistiche ad esempio, questo sistema è meno evidente in quanto quasi tutti i

componenti sono altamente industrializzati con forti investimenti.

Lavorando svincolati da esigenze interne di produzione e da metodi codificati

condizionanti, si riescono a creare oggetti innovativi, sistemi e funzioni diversi, originali a

comuni prodotti presenti sul mercato, spesso anche con idee non producibili perché

troppo costose o troppo avanzate. In questo caso, se ci sono le premesse, è utile

convincere le aziende a verificare, all’interno e all’esterno, queste idee innovative con dei

prodotti d’immagine. Questo argomento, trattato anche nel mio precedente libro, l’ho

ripreso in seguito a recenti esperienze vissute. Fino a qualche anno fa ho sempre

consigliato alle aziende di fare ricerca tecnologica, anche in funzione di manifestazioni

particolari, (come fiere, mostre ecc..) dove sarebbe stato opportuno presentarsi come

struttura all’avanguardia, anche per motivi di concorrenzialità nel mercato. Talmente

convinto della validità di questa ipotesi, qualche anno fa decisi di vivere in proprio una

esperienza imprenditoriale. Sollecitato da un amico a realizzare una sua idea sulla

propulsione elettrica per veicoli leggeri da città, decisi di progettare e prototipare tutto il

sistema di veicoli in tre versioni, monoposto, biposto e promiscuo e in più il distributore

automatico di batterie o loro sostituzione quando scariche. Dopo un lungo lavoro di

studio, produssi i prototipi e il sistema di scambio batterie pensando che, dopo una

presentazione alla stampa e a pubblici amministratori, potevo ottenere un giusto

successo, vista l’estetica avanzata e molto piacevole. Ma non è stato cosi facile.

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Prototipazione/ Industrializzazione del prodotto

Mi è capitato di iniziare una collaborazione con aziende che non avevano avuto rapporti

con i designer e mancavano di quelle strutture di cui sopra. In quel caso spesso mi è

stata richiesta la prototipazione del progetto selezionato. Il mio team di modellisti è in

grado di costruire il prototipo funzionante da mostrare al committente. In presenza del

prototipo definito in ogni particolare a volte ci sentiamo dire che quel prototipo è "pronto

per essere prodotto in serie". Niente di più inesatto! Quel prototipo, per diventare un

prodotto competitivo in qualità e prezzo e rispondere alle normative esistenti, necessita di

un'ulteriore fase di industrializzazione. Deve cioè passare per una definizione progettuale

che permetta la messa in produzione tramite processi compatibili con le attrezzature

presenti in azienda. Il processo d'industrializzazione assume grande rilevanza, talvolta

perfino superiore alla fase creativa operata dal designer.

Dall’evoluzione del rapporto designer – committente, gli studi di design si stanno

organizzando per fornire alle aziende pacchetti personalizzati sulle loro esigenze, che

vanno dal marketing al design, dalla modellazione alla prototipazione fino alla parziale

industrializzazione. Parlo di parziale industrializzazione in quanto quella definitiva può

essere fatta solo all’interno dell’azienda produttrice o dai fornitori dei componenti, perché

solo loro hanno la perfetta conoscenza della capacità e delle caratteristiche dei propri

impianti o di chi possa essere incaricato di produrre i componenti mancanti. Ma

principalmente, il processo di industrializzazione, deve essere compatibile con le capacità

e con i sistemi usati dalle maestranze addette alla produzione. Spesso gli studi che

offrono la totale industrializzazione non forniscono un servizio soddisfacente, mentre in

azienda si individuano i materiali e le tecnologie più corretti, grazie a database specifici

interni all’azienda stessa. Ai giovani che ancora non hanno avuto mai a che fare con gli

uffici tecnici vorrei spiegare che per database si intende quella lista dei componenti d'ogni

prodotto industriale, che include la descrizione d'ogni componente nei minimi particolari

(dimensione, materiale, finitura, riferimenti d'assemblaggio, produttore e cosi via).

Esistono talvolta uffici tecnici esterni all’azienda, formati da dipendenti che sono

comunque a perfetta conoscenza delle strutture interne aziendali. La fase

d'industrializzazione non compete al designer, ma questo, nell’elaborare il progetto

esecutivo del prototipo, può avvicinarsi molto a semplificare il processo se ha una

perfetta conoscenza dell’azienda committente.

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Bozzetto di un gommone volante anfibio biposto affiancato. Il sostentamento

aerodinamico è previsto con il sistema autogiro con prenotazione a cavo o elettrica. Il

motore ad elica spingente è un ROTAX 105 c.v. 4t. L’illustrazione si riferisce al modello

proposto alle Capitanerie di Porto.

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Direzione artistica

Anni fa, un’azienda mi chiese di interessarmi di tutti gli aspetti, dal marketing alla

comunicazione, dalla grafica alla progettazione e, ovviamente, del design. Dopo una

titubanza iniziale accettai, pensando al fatto che quando progetto un prodotto, in

mancanza di input precisi dal marketing, me li do da solo compiendo approfondite

ricerche. Seguo sempre tutte le fasi della progettazione, per focalizzare meglio le

caratteristiche vincenti del prodotto stesso. In quel caso mi si chiedeva una responsabilità

totale del successo e del destino dell’impresa produttrice. Anche il carico morale, quindi,

non era poco. Il vantaggio è che fai ciò che ritieni giusto senza troppi filtri e che puoi

spingere l'azienda a sperimentazioni più intense rispetto a quelle che suggerirebbe un

interno. Ma il tempo da trascorrere in azienda è cospicuo, oltre alla responsabilità e alla

necessità di una struttura più ampia della mia per far fronte a ogni eventuale problema.

Quest'esperienza si è comunque rivelata molto positiva e stimolante, anche se limitata

nel tempo.

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PRESENTAZIONE LAVORI Arriva prima o poi il momento di presentare un lavoro. E’ sempre come un esame, sia

che si tratti di un nuovo cliente quanto di uno con il quale già si lavora : in questo caso si

spera ci sia stato dato un brief sufficientemente preciso.

Ad ogni modo qui di seguito cercherò di illustrarvi un buon metodo per procedere.

Credo che oggi occorra pensare in modo nuovo a presentazioni articolate e complete,

destinate ad organizzazioni importanti, che potrebbero diventare nuove committenti.

E’ un’esigenza che nasce dall’esperienza fatta e dall’osservazione di ciò che ci accade

intorno.

Molte cose sono cambiate nei rapporti e nelle relazioni lavorative. Altri metodi occorrono

negli approcci e abbiamo visto che hanno maggior impatto le presentazioni articolate,

anzi questo e’ sicuramente un metodo necessario.

I committenti hanno maggiori aspettative, specialmente a livello emozionale e la

professionalità deve tenere il passo.

Occorre dunque fare ricerche, informarsi, documentarsi e supportare le presentazioni con

dati, tendenze, filosofie e tutto quanto può servire alla completezza delle immagini.

Penso ad una articolazione così concepita:

1) ANALISI DEL MERCATO DI RIFERIMENTO ESISTENTE

2) PROSPETTIVE CORREDATE DA DATI PERCENTUALISTICI

3) PROPOSTE MOTIVATE

4) PROPOSTE ILLUSTRATE

5) ASPETTATIVE

1) Analisi del mercato di riferimento esistente

Panoramica della situazione riferita ad abitudini consolidate e a tendenza previste.

Si rapporti tutto al Paese di competenza o anche Europa o Asia o America: questo si

dovrà determinare di volta in volta. In questo caso Internet sarà molto utile.

2) Prospettive corredate da dati percentualistici

Di conseguenza avremo i dati che ci consentono di motivare esigenze vere o sollecitate,

nuove realtà che si prospettano per configurare settori di mercato e nuovi business.

Dati che dovrebbero convincere il committente ad affrontare nuovi investimenti.

L’uso di diagrammi potrebbe essere un buon ausilio.

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3) Proposte motivate

Sarà utile perciò motivare la necessità di sperimentare nuove tecnologie, che daranno

spinta e immagine e costituiranno un tema prioritario per la comunicazione e la pubblicità

Ad es. sarebbe interessante differenziare le proposte secondo l’uso e i costumi dei paesi

di riferimento.

4) Proposte illustrate

Avendo individuato il settore operativo, si presenteranno rendering accattivanti, a colori,

semi-ambientati e ambientati. Questo è un punto di grande rilievo perché fondamentale al

convincimento definitivo.

5) Aspettative

La filosofia che motiva tutto il lavoro fatto fin qui deve emergere chiara e per far si che il

cerchio si chiuda, si dovranno prospettare possibili scenari di utenza e ipotizzare fruitori

disponibili. Tutto quanto detto dovrebbe essere presentato in un book che sarà

l’espressione del professionista o dello Studio, nel logo e nell’immagine.

Rendering al CAD per un gazebo attrezzato, in legno lamellare, per minipiscine. E’

previsto in versione aperta estiva o chiusa per il vento o l’inverno. L’oblò in alto è

sollevabile per una maggiore areazione. La versione definiva e semplificata, è andata in

produzione dalla TEUCO.

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Trait d’Union

Un ruolo particolare riveste chi si trova al centro fra chi propone un progetto e chi

necessita di un progetto.

Una figura che si può chiamare in molti modi: account, procacciatore, trait d’union

appunto, che sempre deve porre attenzione alle necessità di una e dell’altra parte.

E’ una sfida continua per cogliere le esigenze reali degli uni e saper suscitare bisogni

negli altri; si perché l’economia è anche questo: indurre delle necessità.

Non sembri un discorso pragmatico o provocatorio, ma è pur vero che questo è

il ruolo della pubblicità o della buona comunicazione.

Far sentire il bisogno di un oggetto è più di un desiderio.

Al di là del facile moralismo, senza sconfinare nel consumismo, questo meccanismo è la

base su cui poggiano l’economia, la produzione, la filiera distributiva, l’uso e lo

smaltimento di ogni oggetto.

E’ questo ciò che ci consente di lavorare, produrre, acquistare, vendere, progettare,

vivere.

Il trait d’union deve essere pronto a vagliare ogni aspetto, commerciale, tecnico,

estetico, produttivo.

Occorrono conoscenze di marketing, sensibilità psicologiche, antenne alzate per captare

le tendenze e molto equilibrio.

In riferimento al marketing, non sempre e’ necessario avere una laurea alla Bocconi,

anche se apprezzabilissima, ma una discreta cultura e un’esperienza commerciale

diretta, possono essere già un buon punto di partenza.

Per quanto riguarda la sensibilità psicologica, occorre precisare che la cosa e’

soggettiva. Si e’ facilitati quando ci si allena all’ ascolto degli altri, a cogliere le inclinazioni

individuali e a cercare di comprendere anche ciò che non viene espressamente detto.

Le antenne poi sono assolutamente indispensabili, perché le informazioni arrivano

continuamente anche da ciò che sembra non rivestire grande importanza.

L’equilibrio infine, e’ annoverabile con il tanto auspicabile “buon senso” che, per quanto

scontato possa sembrare, a volte e’ difficile da trovare.

Tutte queste doti non convivono facilmente in una persona.

Inoltre e’ necessaria una continua documentazione; visitare fiere, consultare riviste,

leggere tanto di tutto.

Coltivare interessi e tenere aperta la mente, aiuta a relazionarsi con gli interlocutori; un

impegno continuo.

Un discorso a parte poi, andrebbe riservato alla memoria.

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Si, perché questo valore aggiunto e’ sempre utile in ogni situazione ma, quando si

devono incamerare tante informazioni, e’ di certo un grande apporto, un bacino cui

attingere risorse preziose.

In qualche occasione occorre anche saper ricucire relazioni incrinate da malintesi.

In questi casi sembra che ci si trovi di fronte ad una sconfitta e forse è così, ma l’unica

soluzione e’ reagire e ricominciare da capo.

Mai farne un caso personale: sarebbe un vero errore.

Per questo e’ necessario costruire rapporti onesti, basati sulla fiducia e sul rispetto.

Quando, infine, si trovano soluzioni interessanti e utili per tutte le parti in causa, allora il

percorso incontra momenti di vera gratificazione.

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CAPITOLO SECONDO

Questa seconda parte riguarda principalmente l’organizzazione delle aziende produttrici.

E’ giusto parlarne perché ognuno che fa o farà design si deve o si dovrà interfacciare con

le strutture aziendali ed è per questo che io le chiamo, appunto, “interfacce del designer”.

Perciò credo che sia giusto conoscere come è organizzata una moderna azienda che

produce anche oggetti di design. Sono settori aziendali maturati dalle grandi aziende

americane ma anche e specialmente giapponesi, dopo la seconda guerra mondiale,

creando una vera e propria rivoluzione industriale anche nelle nostre fabbriche europee.

La mia è comunque una semplice descrizione, quanto basta a noi designer, lasciando a

chi vuole approfondire gli argomenti ampio spazio per ulteriori conoscenze tramite una

vasta letteratura tecnica organizzativa.

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L’Ufficio marketing

Parlo e scrivo di marketing perché si tratta del primo contatto del designer con l'azienda.

Da quest'ufficio provengono input progettuali, di cui il designer dovrà rispondere con un

progetto il più vicino possibile al prodotto ottimale che marketing, industria e mercato si

aspettano da lui. Il rapporto tra uomo-marketing e designer è spesso basato sullo

scambio reciproco e sulla collaborazione: entrambi collaborano al successo del prodotto

e ne verificano la rispondenza alle richieste dell’ufficio commerciale. Talvolta il rapporto

marketing-designer è conflittuale ed in caso d'insuccesso del prodotto, le reciproche

accuse di scelte sbagliate o d'incapacità possono perfino portare alla rottura della

collaborazione.

Capita che sia più facile dire che il designer, in quanto creativo, abbia sbagliato progetto.

Spesso è vero, ma altrettanto spesso il risultato negativo è frutto di input erronei. Molto

utile, a scopo precauzionale, farsi fare una lettera di incarico dall’azienda, nella quale

siano descritte le caratteristiche richieste per il prodotto, i tempi di verifica e di consegna

dei progetti finali, le condizioni economiche riferite all’incarico specifico, i relativi rimborsi

spese per eventuali ricerche, modelli, trasferte, verifiche su tecnologie da applicare e cosi

via. È fondamentale, anzitutto, definire il posizionamento del prodotto nel mercato, quindi

fare un'analisi della concorrenza in quella fascia e per quella tipologia di progetto.

Vorrei riaprire, per l’ennesima volta, una piccola polemica. Da qualche decennio a questa

parte, da quando il marketing è entrato nell’organico di molte aziende, a noi designer

rimane il compito principale di fare i “tappabuchi”, cioè quelli che devono fare un prodotto

in risposta ad un successo della concorrenza, nel più breve tempo possibile, più “furbo"

ed economico possibile, ma sempre più bello di quello del concorrente! È un lavoro

competitivo, ma perdente, perché il concorrente è uscito prima e ha già conquistato il

mercato, con tutto il tempo necessario per una giusta progettazione, industrializzazione e

comunicazione. In questi casi al designer non resta neanche la possibilità e la

soddisfazione di essere originale. Per questo motivo non mi piace il benchmarking, che

porta all'appiattimento della progettazione e non stimola la crescita di molti settori

produttivi.

Finalmente si ricomincia a parlare di innovazione e di ricerca, anche in senso formale. Ci

sono tuttavia molte difficoltà, dovute ai costi elevati e alla mancanza di fondi per

finanziare le attività, oltre alla difficoltà di dedicare apposite strutture allo scopo. In questi

casi il marketing cerca di ottenere i risultati a costi bassi con investimenti minimi, ma i

miracoli di questo tipo non sono semplici da ottenere. Ma ho una ricetta personale: gli

uomini di marketing dovrebbero frequentare anche un corso di design, spingendosi nella

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conoscenza dei valori creativi, esercitando sensibilità e competenza specifica nel settore

nel quale operano. Questa conoscenza li porterebbe a meglio intuire le tendenze del

mercato e non considerare come riferimento solo i prodotti già commercializzati dalla

concorrenza. Soprattutto devono saper dare indicazioni chiare ai creativi, cercando di

capire in che modo opera un concept - designer e a sintonizzare la propria azienda con il

mercato.

Per noi designer, il prodotto - nostro o altrui - appena immesso sul mercato è gia

superato, è un semplice mattone alla base del nostro prossimo progetto. Un creativo non

vuole imitare ciò che già esiste, ma preferisce sempre pensare a qualcosa di originale

che "cavalchi" il mercato. Gli piace pensare che il proprio prodotto che uscirà entro due

anni, tempo medio che intercorre tra il dato fornito dal marketing e l’immissione sul

mercato, sia innovativo o almeno all’altezza dei migliori concorrenti. Sarebbe anche utile,

per chi fa marketing acquisire alcune nozioni di come opera e su quali basi il designer

crea il progetto, tanto per abituare la sua mente a vedere ciò che ancora non esiste ma

che risponde a tendenze di quel mercato.

In genere trascorrono quattro o cinque anni tra l’individuazione del prodotto realizzato

dalla concorrenza, la sua verifica di mercato, la realizzazione del prodotto di risposta e la

sua commercializzazione. Il risultato è che il prodotto così concepito, quando esce è già

vecchio e superato. La vita media di un prodotto industriale, infatti, in genere non supera i

cinque anni. Chi ha realizzato il prodotto di riferimento, sicuramente ha già in corso di

verifica altri progetti più avanzati che annullano ogni risposta concorrenziale. Si crea un

continuo rincorrere il successo con risultati in genere scadenti. Capita poi che qualche

furbo venda il prodotto di risposta a un costo inferiore. Ciò produce una riduzione degli

utili aziendali e del budget per la ricerca. Molte aziende subiscono forti perdite se non

addirittura il fallimento, non correndo in tempo ai ripari. In molte occasioni, è capitato

anche a me. I responsabili di queste aziende tentano di riparare al danno chiamando un

designer, pensando che il design risolva tutti i problemi e sia l’ultima speranza di

successo. Quando mi sono trovato in queste situazioni ho rifiutato, ringraziando,

l’incarico, in quanto il designer non può essere l’ultima spiaggia per aziende in crisi. Un

professionista offre valore aggiunto al prodotto ed apporta un “servizio all’impresa”, ma

deve essere supportato da altre strutture interne o esterne, come un ufficio tecnico

adeguato, uno di ricerca e sviluppo, comunicazione e grafica oltre che, appunto, del

marketing. Occorre avere quelle strutture anche culturali che non si improvvisano da un

momento all’altro

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L’ufficio commerciale

Ho già accennato come il successo di un prodotto, oggi, dipenda anche e soprattutto dai

rapporti di competenza specifici che si stabiliscono tra chi esprime l'idea del prodotto di

design e le altre aree che normalmente ne determinano il successo commerciale.

Abbiamo parlato di aziende di design. Per loro, l'ufficio commerciale rappresenta un'area

di fondamentale importanza, assieme all'ufficio marketing. Dalla loro congiunta attività

dipende gran parte del successo di un prodotto. È indiscutibile il vantaggio competitivo di

un prodotto sviluppato tenendo conto dei dati relativi alle tendenze di mercato, alla

concorrenza, alle vendite nelle varie aree geografiche, a tutti i dati utili per l’orientamento

delle progettazioni attuali e future del designer.

Queste attività appartengono al marketing, ma io consiglio anche al designer di prenderle,

quando è possibile, direttamente dalla distribuzione commerciale. Lo scambio di

informazioni pratiche sono molto utili per realizzare prodotti di successo commerciale.

Talvolta queste informazioni sono importanti per concepire idee alternative a quelle

presenti nel mercato medesimo.

Consiglio vivamente ai giovani designer di non sottovalutare mai il parere del settore

commerciale, soprattutto a monte della progettazione. I sensori di un agente di

commercio, maturati nell'esperienza direttamente esercitata sul campo, difficilmente

sbagliano sulle previsioni di successo di un prodotto.

Le idee di un designer possono essere le migliori in assoluto, come ottimo può essere il

prodotto risultante a fine industrializzazione, ma se l’azienda non dispone di un ufficio

commerciale competente e di una rete di rappresentanza valida, difficilmente

riscuoteranno il giusto successo. Questa competenza fa sì che un buon agente di

commercio possa condividere con il designer molti argomenti e approcci. Un piccolo

suggerimento: un buon rapporto con i rappresentanti consente anche di farsi un'idea del

fatturato nelle diverse aree geografiche. Può quindi rappresentare una verifica sulla

misura delle royalties.

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L’ufficio tecnico

Nel contesto attuale l’ufficio tecnico è divenuto indispensabile in qualunque azienda che

non sia artigianale o semplicemente a conduzione familiare. Ma se un'impresa, anche

piccola, vuole crearsi un minimo di catalogo di prodotti da immettere sul mercato, deve

necessariamente organizzarsi con l’ufficio tecnico, responsabile dell'industrializzazione

dei progetti del designer. Se l'azienda inoltre vuole fare anche innovazione ecco allora

che un ufficio di “Ricerca e Sviluppo”, acquisisce un’importanza sempre più rilevante. È

un dato statistico accertato che il numero di ingegneri all'interno di un'azienda aumenta

proporzionalmente al fatturato annuale e che i designer devono sempre di più fare

riferimento ad essi. Intanto vanno approfonditi alcuni concetti e considerazioni sul

rapporto tra il designer esterno all’azienda e i progettisti interni alla stessa. Una volta

definito il “brief”, cioè le istruzioni sulla realizzazione del progetto, e la conseguente

filosofia di prodotto, bisogna procedere a continue verifiche nel corso della progettazione

di studio, di comune accordo con l’ufficio tecnico aziendale. L’armonia e talvolta l’amicizia

e il reciproco rispetto delle competenze tra designer e tecnici è fondamentale.

Qualche tempo fa, quando ero presidente del CNAD (Consiglio Nazionale delle

Associazioni per il Design) volevo organizzare una tavola rotonda tra designer e

progettisti dell’AIPI (Associazione Italiana Progettisti Industriali) per stabilire il confine di

competenza fra designer/progettisti ed industriali. Questo confine, sensibilmente variabile

da produttore a produttore e da designer a designer, è generalmente definito, oltre che

dalle rispettive competenze e preparazione, anche dagli accordi che si definiscono

durante lo sviluppo del prototipo.

Qui entra in gioco, tra i due soggetti in campo, la tendenza a scaricarsi od assumersi

impegni e responsabilità e ad evitare la fatica. E’ nella natura umana evitare la fatica,

specialmente se ciò concorre al proprio successo. Voglio dire, nel caso specifico, che se

il designer fornisce meno particolari costruttivi al responsabile dell’ufficio tecnico, si

scrolla di dosso molte problematiche. Viceversa, se l’ufficio tecnico ottiene dal designer

indicazioni chiaramente definite sull’industrializzazione del prodotto, per lui ci sono meno

responsabilità, meno fatica e tempi di messa in produzione più brevi.

Naturalmente non sempre il bilancio è così immediato. Molte volte si stabilisce,

specialmente quando la collaborazione con l’azienda produttrice è frequente e riguarda

più prodotti, un rapporto di fiducia e stima reciproca, dove le rispettive competenze

diventano un fatto acquisito. Questa armonia è spesso determinante per il successo dei

prodotti industriali e l’argomento primario di ogni designer dovrebbe essere la ricerca

della massima collaborazione reciproca.

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Per instaurare questa collaborazione ho constatato che è sempre meglio cercare di

imparare dagli altri, mettendo da parte l’orgoglio e la presunzione di essere più colti,

preparati e intelligenti. E’ necessario coinvolgere l’ufficio tecnico fin dal primo sviluppo del

progetto, subito dopo le scelte del marketing. Bisogna saper delegare una parte della

creatività, specialmente quella tecnica, atto fondamentale per conciliare lo sviluppo delle

funzioni dell’oggetto con l’estetica. Chi meglio dell’ufficio tecnico conosce le potenzialità

tecnologiche dell’azienda? Conviene quindi non sovrapporsi ad esso nelle competenze

assegnategli dai quadri aziendali. Spesso si fanno riunioni con tutti i responsabili delle

varie aree aziendali. L'ufficio commerciale, l'ufficio tecnico, le aree di produzione, il

controllo qualità, la rispondenza alle normative e l'ufficio legale, la customer satisfaction,

l'imballaggio e le spedizioni, la manutenzione e l'ufficio reclami. Un gruppo di persone di

cultura aziendale eterogenea da ascoltare e da capire, con le loro rivendicazioni,

proposte o talvolta con la volontà di scaricare competenze agli altri. Molte delle loro

considerazioni sono frutto di esperienze precedenti, talvolta utili e altre volte meno,

soprattutto quando i conflitti ideologici o personali portano a lunghe e sterili discussioni. Si

è rivelata molto utile la capacità di sdrammatizzare le situazioni di tensione, che si creano

quando la “tempesta” di cervelli non approda a quella soluzione brillante che ci si

aspettava. Una battuta o una divagazione dal tema è sicuramente utile per allentare il

nervosismo reciproco.

Per quanto riguarda le strategie delle aziende produttrici risulta, da indagini eseguite da

società di consulenza come la giapponese J-Consiel, che i progettisti interni alle aziende

hanno, come compito principale, quello del continuo miglioramento dei prodotti e dei

processi produttivi, mentre l’innovazione è generalmente frutto di collaborazioni esterne,

ovvero del designer. Riepilogando i concetti sopra espressi con una terminologia da

consulenti, è giusto che i progettisti interni facciano il “kaizen”, che in giapponese significa

miglioramento continuo, mentre i designer esterni facciano “breakthrough”, che in inglese

significa innovazione.

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Co - design e just in time

La fase di design del prodotto vive quindi di scambi continui tra il marketing, che si

incarica di rilevare le esigenze del mercato, e il designer o il suo studio. Queste

informazioni bilaterali non arrivano oltre la fase di prototipazione. Qui termina l’intervento

del designer, dopo di che, come si è detto, inizia il progetto di industrializzazione. Per

questo ,le grandi aziende impiegano anche più studi contemporaneamente, o mettono in

contatto le proprie strutture interne con studi esterni per realizzare progetti in co - design.

Ciò consente una drastica riduzione dei costi di progettazione interna e dei tempi della

messa in produzione. Il capitale investito e la gestione degli spazi di magazzino risultano

quindi più contenuti. Naturalmente i costi finali del prodotto non lo sono, poiché il

componente è fornito dal “terzista” ad un prezzo più alto in quanto ricerca, prototipazione,

attrezzature e rischio risultano a suo carico. Tuttavia, con questo metodo si abbassa il

rischio d’impresa per i nuovi prodotti.

Dall'applicazione sistematica di queste procedure derivano però alcuni problemi a lungo

termine. Grandi aziende come la FIAT, ad esempio, ne hanno ad esempio risentito. Si è,

infatti, perso il concetto d'innovazione e ricerca interna all’azienda, che è il vero know-

how vincente nel mercato globale. Il vero valore di un’azienda non è tanto nel fatturato,

né come molti affermano, negli utili che questa produce, quanto nella cultura della ricerca

applicata senza soste, tramite anche il re-investimento degli utili prodotti.

Del “just in time” ne farò solo un accenno in quanto è solo un puro sistema di

organizzazione produttiva che esula dalle competenze del designer ma che ritengo bene

sapere cosa significa. E’ un sistema che esclude lo stoccaggio di magazzino dei

componenti di un prodotto provenienti da terzisti e che vengono assemblati direttamente

nella catena di montaggio. Con questo sistema si riduce fortemente l’investimento

produttivo e lo spazio necessario alla produzione. E’ necessario, con questo sistema

produttivo, un’ottima organizzazione interna tra i vari reparti e l’ufficio acquisti, nonché la

piena fiducia dei fornitori terzisti.

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Le esigenze dell’azienda:

Progettare veloce in parallelo o a cascata?

Una volta il passaggio del progetto tra le varie aree aziendali avveniva con il metodo “a

cascata”, dall’alto in basso. I vertici, attraverso il marketing, passavano il “progetto-idea”

al settore ricerca e sviluppo. Questo, dopo la raccolta dati, lo passava al designer, poi alla

prima fase di progettazione interna, poi all’industrializzazione, poi alla prototipazione, poi

al settore impianti ecc. Spesso con questo sistema, quando un settore di competenza

trovava difficoltà faceva tornare indietro il progetto, rifacendo tutti i passi precedenti.

I tempi di immissione sul mercato del nuovo prodotto potevano essere lunghissimi con il

risultato che talvolta la concorrenza, magari con un progetto simile ma meno evoluto,

usciva prima, bruciando molti spazi interni per la ricerca. Oggi il problema è stato

superato, ormai da alcuni anni, con la progettazione “in parallelo”. Questa consiste, una

volta che il marketing ha dato gli input, nel far procedere l’iter progettuale in

contemporanea in tutti i settori, eliminando in tempo reale modifiche e cambiamenti

sconosciuti ai precedenti reparti. Si consente inoltre ad alcuni settori aziendali, come

marketing e ricerca e sviluppo, di osare idee più innovative in quanto verificabili subito

con i reparti di competenza specifica. Spesso si evita di attuare delle innovazioni per

paura degli alti costi di verifica, ma con l’immediato coinvolgimento di tutte le competenze

si può valutare, quasi in tempo reale, ma comunque in modo approssimativo, il costo

dell’investimento. Occorre anche quantizzare i tempi di queste riunioni.

Si dice che alcune aziende giapponesi usino, come metodo per le loro riunioni quello di

far restare in piedi tutti i responsabili delle varie aree, in modo che, per stanchezza,

prendano decisioni veloci, senza inutili polemiche o rivalse.

Specialmente per aziende leader è fondamentale pensare anche in modo futuribile

ricorrendo, come ho accennato in un altro capitolo, a consulenti esterni, sia per la ricerca

scientifica ed universitaria, sia per la progettazione ed il design.

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Organizzazione dell'azienda / progettare per agevolare la

produzione

Tra i fattori di successo in una azienda produttrice c’è l’organizzazione interna

sopraccennata. Abbassare gli investimenti su impianti produttivi dedicati ad un solo

modello, ricorrendo sempre di più a macchine a controllo numerico e a robot di

produzione. Queste macchine veloci possono essere programmate per realizzare modelli

diversi e consentono anche di non fare magazzino dei semilavorati.

Concetti scontati per competenti di produzioni industriali, un po' meno per i nuovi

designer, che dovrebbero sempre informarsi di come saranno realizzate in serie le loro

idee. Con i sistemi di co-design è nata anche la figura del designer leader. Nelle medio

grandi aziende produttrici di mezzi di trasporto, terrestri, navali, di macchine per vari usi

industriali,ecc. dove,oltre che vari progettisti, ci sono anche diversi designer interni,

magari con diverse opinioni stilistiche. In questo caso occorre un coordinatore che unisca

le diversità estetiche e filosofiche dei vari designer in un’unica soluzione stilistica

coordinata tra i vari componenti del prodotto finito. E’ una posizione di grande

responsabilità ed è la sua firma che dà l’immagine ai modelli da immettere nel mercato e

la sua riconoscibilità. Inoltre il designer-leader deve spesso collaborare o dare indicazioni

stilistiche anche ai designer o progettisti dei fornitori della componentistica , quando

questa è visibile nel prodotto finito.

La tendenza al co-design ha, dal canto suo, portato alla produzione per blocchi. Il

fornitore non invia più all’azienda singoli componenti, ma blocchi assemblati di

componenti già collaudati. Ciò riduce ulteriormente i tempi di assemblaggio della linea di

prodotto. Questa tendenza è propria anche ai settori interni alle aziende, che sempre più

producono blocchi provenienti dai vari reparti per trasferirli a quelli successivi, con

elementi assemblati e collaudati.

Tutto ciò fa parte dell'organizzazione interna dell'azienda e per un designer, che lavora

per piccole e medie aziende, la conoscenza di questi processi è sempre stata poco

interessante. Le cose cambiano quando si lavora per industrie di grandi dimensioni, ed il

designer diventa uno specialista integrato in un evoluto sistema produttivo, dove il

progetto diventa sofisticato e estremamente definito nei dettagli, elaborato da software

sempre più potenti. È essenziale che il designer conosca le procedure per la

realizzazione dei prodotti. In questo modo potrà agevolare le fasi di sviluppo del prototipo

ed acquisire un vantaggio competitivo professionale più elevato rispetto a chi progetta

senza curarsi di tutte ciò che non riguarda il proprio intervento diretto. Quando il designer

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crea un oggetto, specialmente se complesso, deve necessariamente conoscere come

sarà realizzato: internamente all’azienda, tutto o parzialmente all’esterno, a blocchi

assemblati dai terzisti e cosi via. Lo sviluppo dell’idea progettuale, infatti, sarà influenzata

proprio da queste condizioni. Quando ci si addentra in prodotti complessi, lo ripeto

continuamente, conoscere le capacità produttive e gestionali di un’azienda diventa

fondamentale, tanto quanto lo è il rapporto con i progettisti interni all’ufficio tecnico.

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Come entrare nei mercati globali

Che il design sia un valore aggiunto al prodotto credo sia ormai fuori discussione. Chi,

oggi, non l’ha ancora capito probabilmente non ha neanche la pur minima conoscenza di

marketing, base di ogni impresa che si presenta sul mercato. Ultimamente, il

cambiamento delle condizioni politiche e socio economiche di alcuni stati,

prevalentemente dell’est, ha portato a stravolgere le strategie produttive dei classici paesi

industrializzati. In molti settori merceologici, infatti, in paesi come l’Italia la strategia

vincente era quella del basso costo del prodotto. A questo si era arrivati con un costo di

manodopera molto contenuto, buone attrezzature, buona tecnologia, lunghe tradizioni di

una cultura artigiana poi diventata industria. Oggi con la facilità di trasporto, con la

possibilità di acquisire tecnologie da chi le produce e l’informazione tecnica a portata di

mano, molte delle nostre fabbriche hanno perso diversi mercati nazionali ed esteri, non

essendo più competitivi sul prezzo. Per riconquistare quei mercati ecco allora la grande

risorsa del design, sempre più innovativo. Facile a dirsi, molto più difficile farlo. Non

perché ,come dicono alcuni poco consapevoli del problema, i designer non hanno più

idee di tipo innovativo. Il problema è che per fare innovazione bisogna investire , sia in

termini umani, cioè in designer e tecnici, sia in attrezzature per la ricerca. Ma la domanda

è: il design, come le tecnologie, si può comprare? Certo, molti colleghi hanno lavorato per

paesi orientali, in particolare il Giappone, negli anni 60 – 70 ed i giapponesi, che sono

bravi imitatori e forti organizzatori, capita l’importanza del design, hanno creato università

e scuole specializzate da dove è venuta fuori una generazione di designer molto bravi.

Perciò nel panorama mondiale si sono creati due forti poli: l’Europa, con Italia, Germania

e Finlandia, specializzata in arredo casa, ufficio e auto, ed il Giappone con l’elettronica

applicata e le moto. A questi si contrappongono gli Stati Uniti, che conquistano i mercati

nei campi della ricerca elettronica, software e aviazione, con poco design ma con enormi

risorse economiche. Da questo sintetico panorama si deduce che i mercati si conquistano

o con grandi mezzi, tecnologie avanzate e costi bassi di manodopera, o con l’estetica dei

prodotti, lo styling ed il design. Noi italiani, non avendo i primi, possiamo solo contare sui

secondi. Un esempio: i nostri produttori di scarpe stavano perdendo tutti i mercati esteri;

da qualche anno hanno puntato solo sul design, riuscendo a riconquistarli, incrementando

valore aggiunto e utili. Ma quello che manca più di tutto in Italia è una categoria di

dirigenti veramente preparati a fare il loro mestiere di responsabili principalmente del

marketing e imprenditori che abbiano il coraggio di investire i propri capitali nella ricerca,

invece di fare intrallazzi capitalistici con banche e imprese fallimentari.

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Aziende di design o design oriented

È dunque un fatto di volontà, cultura, tecniche e strumenti, il fatto di diventare un designer

di successo? Tutti questi aspetti, essenziali, riguardano la persona del designer. Ma una

volta che la capacità di progetto è stata determinata e si è accresciuta, con chi deve

trattare il designer? Ovviamente tratterà con le aziende produttrici, senza le quali non si fa

niente. Il designer senza produttore è una mente che, per quanto creativa, all'atto pratico

resta sterile. E’ come un motore senza carburante; non produce lavoro. Ma dove trovare

un produttore delle proprie idee? In termini logistici occorre cercarle dove sono.

Tralasciamo momentaneamente i centri più ricchi d'aziende, collocati prevalentemente al

centro nord, nei quali è più facile trovare un interlocutore. Al sud le aziende sensibili al

design sono ancora rare. Manca soprattutto la mentalità, come si dice. Spesso è la paura

dell’incognito, di ciò che il designer chiede economicamente per la propria collaborazione

a quelle aziende che non hanno mai operato nel design. In questi casi manca

l’informazione di ciò che il designer può dare al produttore e al tipo di rapporto

consequenziale. Del design si parla in termini di cultura e valore aggiunto, identificando

questi argomenti con i prodotti di successo o con personaggi più o meno creativi e noti, o

infine con le griffe. Per far crescere e comunicare questa cultura, si punta sul tema,

certamente importante, della formazione. Università per il design, scuole di design, studi

specializzati nei settori più disparati e stage. Spesso, dove non c’è la cultura anche

estetica del prodotto, le aziende sono considerate (a volte si considerano esse stesse)

semplici produttori d'oggetti, arredi, mezzi di trasporto ecc. Si rapportano al design in

modo casuale, perché operano in settori dove il design non è riconosciuto elemento di

successo. In questo modo l'azienda finisce per subire il design senza capirlo, o nutre

l'aspettativa d'enormi successi commerciali. Dopo i primi insuccessi, che vanno sempre

messi nel conto, escludono il design dai processi aziendali e ne parlano malissimo.

Questo capita a quelle aziende impreparate al design e che non possono essere

identificate come aziende di design.

Un'azienda di design possiede la cultura, le risorse umane, le strutture tecniche per

produrre categorie di prodotti orientati al design. Il design è, per loro, una parte della

strategia aziendale di produzione e promozione. In ogni altro caso il design è solo un

inciampo, un incidente di percorso imprenditoriale che anche se produce un successo

non si sa come ripetere, un risultato che emerge in modo casuale da un terreno

fondamentalmente arido. Ma come si struttura un'azienda di design, come funziona?

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TEUCO: un’azienda di successo nata dal design

Per citare un esempio di un’azienda “design oriented”, vorrei citarne una che conosco

abbastanza bene: la Teuco.

Questa è una di quelle poche aziende ad essere nate con i cromosomi del design nel

proprio DNA. Già all'atto della sua costituzione, i primi progetti che ne hanno fatto la

storia, avviavano il cambiamento dello spazio bagno: da luogo di semplice igiene

corporea ad ambiente per il benessere fisico, rappresentativo dello stato sociale del suo

proprietario. E’ stato un cambiamento radicale della nostra cultura dell’abitare. Questa

fase si è totalmente sviluppata nei pochi anni successivi al 1970, anno di costituzione di

Teuco . A questo passaggio, alla quale ho contribuito fin da principio, vado molto

orgoglioso. Come tutti i cambiamenti, l’inizio non è stato facile. C’èra molta diffidenza

verso quei nuovi prodotti in materia plastica, pieni di attrezzi e appoggi per migliorare la

funzionalità dell’ambiente bagno e la sua estetica. Ma con il coraggio di Virgilio Guzzini

ad accettare ed investire su quelle mie idee e una continua collaborazione con

quest'azienda che dura ancora oggi, con una continuità di sviluppo e coerenza negli

stimoli della ricerca che credo valga la pena di sottolineare come caso d'eccellenza in

una partnership progettuale. L'aggiornamento tecnico e funzionale dei prodotti si è

avvalso, in questi anni, della valorizzazione delle precedenti filosofie progettuali,

continuamente innovate e perfezionate e mai rinnegate. La cura dell'aspetto formale,

l'innovazione nei materiali, i miglioramenti nelle finiture e nella qualità dei componenti, la

funzionalità dei prodotti (sperimentata e collaudata al meglio) creano l'ambiente ideale

per una progettazione congiunta. Oggi, ma già da un paio di decenni, molte aziende

hanno seguito quelle filosofie progettuali e se ne contano a centinaia, anche orientali.

Teuco ha già spiccato un salto generazionale e la dimensione "umana" del passato si è

arricchita in una struttura professionale e tecnica. Resta la filosofia Teuco, alla quale ho

dato il mio costante contributo negli anni.

Con Teuco ho potuto seguire la mia personale linea progettuale, che privilegia linee

ispirate alla natura e alla morbidezza plastica delle forme antropomorfe, derivate anche

dalle tecnologie costruttive. Una progettazione che evita gli eccessi di decorazione per

privilegiare la ricchezza delle funzioni. Queste ultime devono essere correttamente ed

armoniosamente distribuite nelle forme e negli spazi disponibili, rispettando termini

ergonomici e coerenza stilistica e senza trascurare l'integrazione degli accessori nel

corpo del prodotto ideato.

Sul piano formale tengono sempre conto delle tendenze stilistiche evidenti in diversi

settori, da quello automobilistico a quello navale e aeronautico. In questo tipo di

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progettazioni, le forme sono determinate dalla compatibilità estetica con elementi come

acqua e vento ma anche dalla sicurezza, dall’ergonomia e dalla facilità di manutenzione.

Per quanto riguarda la sicurezza, secondo me rappresenta un concetto da tenere nella

massima considerazione, ho sempre prediletto forme arrotondate ed elementi morbidi per

i sedili e la testa.

Tutti questi concetti sono da sempre presenti nella progettazione dei prodotti per Teuco,

concetti che valgono ancora oggi e sono stati anche oggetto d'imitazione da parte di

produttori nazionali ed esteri. La collaborazione con quella "forza della natura" , come ha

definito un politico Virgilio Guzzini e l'esperienza strategica di Antonio Renzi quale

direttore commerciale, è stata per me e per loro un'ottima occasione di vedere i prodotti

disegnati dal mio studio e realizzati da Teuco riscuotere un notevole successo. Mi resta

la soddisfazione, come quella di un padre che vede i propri figli ottenere dei risultati, di

aspettare ulteriori miglioramenti per il prossimo futuro. Mi rendo conto che questo brano

suona immodesto, quasi trionfalistico, ma ogni tanto, specie ad una certa età, sono le

soddisfazioni e i meriti del proprio lavoro, specialmente del passato, che ti danno un

senso alla vita e la voglia di continuare a dare ai giovani il proprio sapere.

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Terzo capitolo

In questa terza parte vorrei parlare di design con l’ausilio delle immagini, anzi per prodotti

di cui conosco perfettamente la storia in quanto autore o co-autore.

Al di là dei concetti sopra descritti, credo che parlare sugli oggetti stessi o sulle loro

immagini, renda più facile l’ apprendimento dell’iter progettuale dal quale sono scaturiti

ed elaborati. Naturalmente descriverò in modo molto sintetico la loro storia ed in

particolare la loro gestazione pre–seriale perché, ad esempio, quest’ultima ha un tempo

medio come quella di un essere umano, da 7 a 9 mesi. Per descrivere le molte

vicissitudini di questo tempo, per ogni prodotto, dal concepimento alla immissione nel

mercato, ci vorrebbe una pubblicazione a parte. In questo capitolo ho selezionato solo

alcuni dei prodotti de me disegnati (sono, a tutt’oggi, qualche centinaio) o come ho

accennato, alcuni in collaborazione con altri designer, miei ex-allievi come Giovanna

Talocci e Carlo Urbinati. Molti dei “pezzi” che descriverò sono prodotti particolari ,quasi

pezzi unici, progettati e realizzati allo scopo di comunicare un’azienda, nelle sue ricerche

funzionali e di design avanzato. Sono serviti appunto come una pagina ,o più pagine

pubblicitarie, per far conoscere e comunicare al mercato il potenziale tecnico e

l’innovazione verso la quale l’azienda sta andando. Spesso queste operazioni danno più

ritorni d’immagine aziendale che l’equivalente spesa per una campagna pubblicitaria.

Classico esempio di ciò è la Ferrari che investe quasi tutte le risorse pubblicitarie in

esemplari super tecnologici di F1 da far correre in pista, ricavandone un ritorno, di fama

mondiale, sugli esemplari di serie. In taluni casi, quando si ha nel cassetto un’idea

fortemente innovativa ma contenente dei presupposti di successo commerciale, conviene

,con un po’ di coraggio imprenditoriale, investire in un sistema produttivo per una verifica

di mercato. Spesso, come dice il proverbio, la fortuna aiuta gli audaci. Porto anche qui un

esempio e non a caso , proprio per riprendere l’ultimo paragrafo del capitolo precedente, i

primissimi prodotti Teuco. Eccoli nella prima foto del 1971.

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Virgilio GUZZINI, consocio d’una azienda produttrice di lastre di polimetilmetacrilato, mi

chiese di sviluppare nuove applicazioni di quelle lastre termoformabili. Un suo socio,

chimico, mi parlò d’una vasca da bagno di produzione inglese fatta con quel materiale ma

bruttina e poco convincente. Dopo un’analisi accurata del materiale , che comunque gia

conoscevo per aver progettato lampade in PMMA , ritenni quel materiale idoneo per un

set bagno, anche se decisamente più costosi di quelli già presenti sul mercato fatti con

altri materiali. Presentai una serie di idee ,dalle vasche da bagno alle docce, da W.C. a

lavabi, tutti fortemente innovativi per quell’epoca . Oltre che per l’aspetto formale, si

differenziavano dalla presenza di accessori incorporati nei singoli oggetti che cosi

riuscivano ad essere competitivi con atri set bagno in ceramica o cristallo e ottone. Quelli

mostrati in foto sono i pezzi scelti e prodotti dalla neonata Teuco. Oggi alcuni di questi

pezzi sono presenti nei maggiori musei mondiali di design.

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Nel 1972 fu prodotta dalla TEUCO la Doccia tonda con pareti a porta scorrevole. Pannello di fondo attrezzato con vani portaoggetti, portasapone e scaldasciugamani schermato. Esposta al Museum of Modern Art di NEW YORK, anni 1973-1975 Materiale: Metacrilato

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Questa vasca da bagno, fruibile da due persone naturalmente intime, era frutto d’una mia

idea dell’74, e che condivido ancora oggi, che fare il bagno in due è più piacevole che

farlo da soli. Il progetto fu oggetto di considerazioni vagamente lussuriose e poco

proponibile al mercato anche per le sue dimensioni. Fu solo la mia insistenza sulla bontà

dell’idea a indurre la Teuco a produrla sotto indicazione della stessa di fiasco

commerciale clamoroso. Oggi dopo 30 anni è ancora in produzione con qualche migliaio

di pezzi ogni anno, e per di più presente, nella versione vasca doccia mostrata qui sotto,

in collezioni di oggetti della storia del design italiano del museo di arte moderna di

Philadelphia!.

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Anche questa vasca ad angolo fa parte della serie di prodotti “One –off” concepiti per una

esposizione fieristica e rappresentativa come quella del World-Expo di Brisbane, in

Australia, nell’88. Fu esposta in uno stand dell’ICE (Istituto Commercio Estero) in

rappresentanza del design italiano. Stampata in termoformatura sottovuoto con lastra di

acrilico trasparente e verniciata successivamente, all’interno, con vernice acrilica grigio-

scuro , lasciando una finestra trasparente nella parte anteriore ,come oblò per una visione

subacquea. Era dotata di un display a cristalli liquidi che indicava varie funzioni

programmabili di idromassaggio, di immissione di sostanze profumate, di frequenza radio

FM. Questo modello portò verso una richiesta di mercato per un prodotto di serie con

simili caratteristiche che si realizzò con il modello seguente;

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Questo è uno dei tre modelli di vasca derivati dal prodotto sopra descritto. Il design

completamente riprogettato per una più facile produzione in serie in quanto termoformato

da una lastra di acrilico bianco (o colorato), con un cristallo di sicurezza riportato in fase

di assemblaggio e coperto superiormente da un elemento morbido (EVA). Questa serie è

diventata uno dei prodotti più richiesti della gamma delle vasche Teuco.

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La foto mostra il primo box doccia al mondo stampato completamente ad iniezione di

PMMA. Un investimento enorme per un simile prodotto, che solo il coraggio

imprenditoriale di Virgilio Guzzini, a nome Teuco, poteva praticare. Era un design

rivisitato, nelle tecnologie produttive e nelle funzioni, del famoso box doccia tondo da me

disegnato nel ’72 e presente nella collezione del museo di Pechino. Facile da montare,

con multifunzioni controllate elettronicamente, molto di effetto nella versione trasparente,

ha avuto e sta avendo ancora, un notevole successo commerciale.

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Dopo alcuni anni dal box in acrilico, ho disegnato questa doccia ovale multifunzione in

cristallo e Duralite .Un progetto richiesto dal marketing Teuco per incentivare il mercato

tedesco che era più interessato ad un prodotto meno “plasticone” e con forte presenza di

materiali alternativi. Il prodotto di serie risulta molto pulito, nonostante le varie funzioni

(sauna linfodrenaggio, cromoterapia, sedile e mensole) ha un’ aspetto quasi minimalista e

di notevole trasparenza. Ne ho disegnato più versioni, tonda e rettangolare, tutte con

notevole successo commerciale.

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Tra i modelli speciali disegnati per Teuco, c’è questa vasca da parto in acqua. Su

richiesta dell’ospedale di Recanati e dopo un preciso brief informativo con i ginecologi ,è

stato prodotto in alcuni esemplari con cui sono venuti alla luce,felicemente anche per la

mamma, diversi bambini. L’oblò che si vede nella parte anteriore a sinistra serve per

posizionarci una telecamera per riprendere sott’acqua il momento del parto. E’ provvista

di diversi dispositivi di depurazione e disinfezione delle acque, nonché un sedile dietro la

partoriente per il papà che aiuta a spingere per facilitare l’evento. Un esempio di design al

servizio delle pratiche ospedaliere.

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Presentato alcuni anni fa questa cellula bagno era anch’essa un pezzo unico realizzato

nel mio laboratorio di prototipazione industriale. Sponsorizzato dalla Teuco per la

edizione del 2000 della Mostra Convegno di Milano, conteneva un po’ delle mie filosofie

sul sistema bagno-benessere. La cellula era composta da due gusci stampati da lastra di

PMMA, uno per la base da 300 x 200 cm con vasca, pavimento e pareti fino ad un metro

di altezza e l’altro per il soffitto con luci e contenitori di vari sistemi tecnici e anch’esso

alto un metro. Tra le due stampate, una serie di pannellature termoformate completavano

la cellula attrezzata multifunzione di cui: all’ingresso ,dopo il riconoscimento della

persona dalla sua impronta digitale, alla stessa veniva misurato ,da una bilancia a

pavimento, il rapporto quotidiano di massa magra–massa grassa. Contemporaneamente,

ma in modo graduale per non disturbare gli occhi al mattino ,si illuminava la cellula e si

predisponevano alle altezze desiderate, il WC-orinatoio a risciacquo automatico e il

lavabo. Rispettando le abitudini soggettivamente programmate, si attivavano le funzioni o

di riempimento della vasca o quelle della doccia con emissione di profumi personalizzati.

Il lavabo era dotato di una rubinetteria automatica e con specchio dietro il quale ,se

acceso. si vedeva la Tv. Le luci ,attorno a questo specchio, potevano essere regolate

con toni mattutini, pomeridiani o serali per un trucco più simile all’ambiente in cui si

troverà il soggetto. Una telecamera a colori zoomabile, posta dietro e in alto, permetteva

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la visione del retro della testa o del corpo. Se il fruitore di questo sistema benessere

voleva fare fitness, cardio-tonico o isotonico, disponeva di un tapis-roulant o di maniglie e

cavigliere a cavi frenati, tutti riposti e integrati in una parete. A comando vocale

riconosciuto, la zona vasca, oltre all’immersione con idromassaggio idrosonico, poteva

trasformarsi da bagno turco a sauna finlandese cioè, mutando le pareti in plastica a pareti

in legno di betulla. In questo caso si poteva scegliere se fruire del sistema sauna con luci

calde o con lampade abbronzanti. Per l’uso della doccia era prevista la pioggia,

spruzzatori a nebbia ,linfodrenaggio verticale. E come se non bastasse c’era anche

aromaterapia, musicoterapia , cromoterapia,TV con lettore di cassette o cd con

programmi di fitness o personal trainer. Particolare attenzione era rivolta al risparmio

idrico col riuso dell’acqua della vasca o doccia per sciacquare il WC o al recupero delle

urine dallo stesso per usarle, dopo essiccate, come concime.

Un dimostratore di bagno- benessere privato, di dimensioni contenute, che secondo me ,

non ha fruito della giusta comunicazione di innovazione che potenzialmente si meritava.

Trasformazione della Zona Vasca Idromassaggio in Zona Sauna Finlandese ciò avviene

tramite comando vocale attuando movimentazione di pannelli mobili

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Tapis Roulant estratto dal Vano laterale alla zona Vasca il retro dello sportello contiene i

comandi di controllo, il monitor soprastante mostra un percorso a scelta del fruitore, la

maniglia superiore posizionata sopra il monitor è utilizzabile per fitness isotonico

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Vista con sportello chiuso del vano Tapis Roulant. La foto mostra il sedile ribaltabile e la

zona di aggancio delle cavigliere, inoltre sotto la finestra sono visibili due vani uno per la

biancheria da riporre e l’altro per cestino. S’intravede la zona lavabo che, a comando, è

posizionabile a varie altezze e la specchiera sovrastante è con retro Televisore –Monitor

per la visione panoramica interna del box o per semplice controllo della parte posteriore

della persona

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Parziale visione della zona sauna con il sistema funzionante delle lampade U.V.A. Come

si può notare, la porta d’accesso sul laterale sinistro entra fino alla Vasca sottostante per

facilitarne l’ingresso-vasca alle persone con handicap o anziane.

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Zona WC – orinatoio adattabile anch’esso a varie altezze con comando vocale o tramite

programma personalizzato. Si noti la doccetta doppia funzione: bidè e pulizia del WC con

i portasciugamani riscaldati e profumati. Il pavimento è in legno con vibrazione rilassante

per tutta la superfice

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Per la Simas di Civita Castellana (VT), produttrice di servizi per bagno in ceramica,

disegnai questo assemblato di WC – orinatoio – bidet – lavabo – specchiera –luci –

contenitori - sgabello. Gli elementi singoli, come il lavabo e il WC/orinatoio, quest’ultimo

con sedile e tavoletta morbida in EVA , erano a posizionamento angolare e collocabili

indipendentemente nell’ambiente bagno. Gli specchi erano girevoli attorno ad un tubo

centrale e, sul retro, vi erano mensole porta oggetti. Anche questo componibile,

prototipato nel laboratorio dello studio, era destinato aduna mostra, sponsorizzata dalla

regione Lazio, per Abitare il tempo di Verona - fiere. Non ebbe seguito come prodotto di

serie in quanto la tendenza del mercato era verso il minimalismo spigoloso.

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Lavabo per TELMA in poliuretano rigido della BAYER e vasca in ASTERITE colata in

stampi. Il mobile laterale ha uno specchio verticale, mobile in avanti, per una visione della

schiena del fruitore.

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Rubinetto per TEUCO in ottone cromato. Il dischetto che si vede sotto la maniglia è un

termometro a cristalli liquidi. Fa parte di una serie progettata per servizi da bagno in

acrilico termoformato.

Letto matrimoniale per Bernini, in palissandro e acciaio, con testata attrezzata e comodini

a scomparsa. Faceva parte di un’idea concettuale di fare dei mobili con funzioni a

scomparsa. Ha avuto un buon successo temporaneo poi, così come la mia convinzione, e

scaduto di interesse per la semplice considerazione che alla gente piace avere in vista

tutte le funzioni di base. Oggi, forse, con la moda minimalista, potrebbe ritornare

interessante.

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Questa poltrona in pelle e cristallo, disegnata nel ’68 per un’azienda in provincia di Roma,

si basava concettualmente, su una ricerca ergonomia, tipo sdraio, sulla riduzione del

volume di spedizione e su l’impiego del cristallo di forte spessore sul quale stavo

lavorando per dei piani di tavoli. Questo prodotto ebbe successo, specialmente in

America dove fu copiato da alcune aziende locali, e oggi è oggetto di vendita nelle aste di

modernariato.

Lampione, cosi è stato nominato questo lume in poliuretano rigido , disegnato nel ’69 per

D.H. Guzzini. Era frutto delle mie esperienze con il prodotto della Bayer, chiamato

Baydur, su un pezzo di design innovativo da presentare alla Triennale a Milano .

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Il nome Atollo di questo pezzo deriva dal concetto di avere un’insieme di cuscini, sedute

e letto posizionabile al centro stanza ,tipo una piccola isola morbida multiuso. Era in

catalogo negli anni ‘80 da un’azienda produttrice di blocchi in poliuretano morbido e l’idea

concettuale era proprio quella di usare blocchi di poliuretano di unico spessore ricoperti in

stoffa trapuntata prodotta dalla stessa azienda.

Scrivania operativa disegnata per Bernini nel’78, in palissandro, motivata per risolvere il

problema di avere tutto a portata di mano senza doversi spostare con la poltroncina lungo

il bordo della scrivania ma fruendola solo ruotando il corpo. Avevo visto pochi giorni

prima un film comico di Monsieur Hulot che evidenziava ridicolmente un impiegato che

si muoveva come un granchio lungo il piano della scrivania.

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Tapis roulant disegnato per la Newform. Capostipite di una nuova serie di prodotti cardio-

tonici e iso-tonici, portò l’azienda verso la gamma alta del mercato del benessere .

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Prodotto, su nostro design, di un attrezzo da fitness cardiotonico medirecunbent con

monitor LCD. Il sedile è regolabile per un migliore adattamento alla persona ed il risultato

di una ricerca ergonomia condotta nel nostro laboratorio.

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Modello di laboratorio di un attrezzo cardiotonico tipo stepper .E’ un modello funzionante

con struttura in acciaio e carrozzeria in composito di vetroresina.

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Blocco cucina da centro stanza con piano tavolo apribile verso l’esterno. Progettata per

un’azienda di cucine nell’81, era un pezzo d’immagine e comunicazione aziendale verso il

design. Era attrezzata di piano cottura ,forno ,frigo, lavello, scolapiatti, cappa aspirante-

filtrante, radio, luci e ripostigli vari. Rivestita in laminato melaminico, interni in acciaio inox,

il blocco era sostenuto da un tubo verticale in acciaio posto in un angolo del mobile.

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Altro prodotto d’immagine e comunicazione aziendale questo letto della Frau. Una

classica struttura a baldacchino, ma con una sofisticata attrezzatura elettronica,

all’interno, che gestisce una serie di meccanismi per attuare molte funzioni. Questo

prodotto era il risultato di una serata allegra in un ristorante a Tolentino tra me e i dirigenti

della Frau, dove si parlava di fare un letto specializzato per fare l’amore. Infatti poi il

progetto serio risultò dotato di un materasso che poteva assumere durezza e forme

diverse, i comodini scorrevano lungo i bordi laterali ed erano dotati di un piano orientabile

verso il letto per uso porta bicchiere per lo champagne contenuto e raffreddato in un frigo

posto dietro i schienali mobili. Nel soffitto erano inseriti degli specchi dotati di resistenze

elettriche che avevano anche la funzione di riscaldare il letto con un controllo

termostatico. Nel soffitto era presente anche un sistema di depurazione dell’aria dai fumi

delle sigarette immettendo poi dei profumi di varie essenze floreali. Era inoltre dotato di

TV con lettori di cassette, impianto H.F.,luci cromoterapiche, tendine laterali per ricreare

un ambiente più intimo come mi aveva consigliato lo psicologo e scrittore di saggi

sull’innamoramento, Francesco Alberoni, da me interpellato per una indagine sulla

concettualità di questo progetto. Da questa indagine venne fuori che le donne

mediterranee, così come i maschi in generale, amano l’intimità, mentre le nordiche

preferiscono fare l’amore all’aria aperta. Per questo ho messo un proiettore di paesaggi

esotici, un riproduttore di canti degli uccelli, di sciabordio di onde marine e un emissore di

profumi esotici. Di questo letto era previsto un solo esemplare da esibire in mostre e

museo Frau, ma questa ne ha prodotti altri due per personaggi famosi pagati in anticipo

con assegni da compilare alla consegna.

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Modellino radiocomandato di uno scooter elettrico. Spesso per i veicoli facciamo delle

prove di stabilità dinamica con dei modelli in scala .Sono le prime prove dopo i calcoli

teorici prima di produrre un prototipo in scala reale.

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Simona, designer dello studio, prova il monoposto elettrico. Il motore è all’interno della

ruota anteriore e lo schienale del sedile è un contenitore di oggetti personali. E’

predisposto per lo scambio automatico delle batterie per un veloce rifornimento di energia

elettrica.

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L’autore Fabio Lenci in un modello di taxi elettrico per 2+1 persone. E’ interamente in

composito di vetroresina con 2 motori elettrici bruschless nelle ruote posteriori. E’ un

modello pensato per la mobilità urbana nei centri storici. Il sedile verso il marciapiede è

orientabile per facilitare l’accesso anche a persone disabili. Sopra il tetto trasparente, in

policarbonato, vi sono delle celle fotovoltaiche per il mantenimento parziale degli

accumulatori elettrici interscambiabili come nel monoposto.

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La foto mostra uno dei tanti modelli volanti radio guidati sperimentati nel laboratorio. Sono

sia modelli in scala per ricerche aereodinamiche di piccoli aerei, categoria ultraleggeri, da

proporre a questo mercato, o solo modelli da produrre per il mercato

dell’aereomodellismo. Il laboratorio dispone ,oltre di ottimi modellisti, anche di una serie di

attrezzature, anche a controllo numerico, per la prototipazione industriale e per il

modellismo navale ed aereo. La scelta verso questi settori deriva dalla mia passione di

pilota di aerei e da quella di navigatore con barche a vela, come il trimarano di 17 mt ,qui

sotto illustrato. Da me progettato e costruito con alcuni amici dal’75 all’80 , e tuttora un

bell’esempio di poliscafo da crociera. Finanziato in buona parte con la royalties della

Teuco e dalla quale ha preso il nome.

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Il mio trimarano. Progettato,realizzato in sandwhich di vetroresina e provato in Oceano

Atlantico personalmente. E’ stata una grande esperienza progettuale e manualmente

formativa. Oggi, dopo 25 anni, è una barca d’epoca perfettamente navigante e di ottime

prestazioni crocieristiche.

E’ lunga 17 mt e larga 9.5 e può ospitare 12 persone.

Autore FABIO LENCI

Questo libro è di proprietà di LENCI DESIGN S.R.L.

E’ vietata la riproduzione e la distribuzione anche parziale e su qualsiasi supporto senza

l’autorizzazione dell’autore.

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