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1 Nell’oscurità di David Gerrold

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Nell’oscurità

di David Gerrold

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"È abitabile!"

Jake sorrise, guardando gli schermi di fronte a sé. La sua nave era ancora troppo

lontana per poter avere una visuale dettagliata del pianeta, ma i parametri erano

ottimali, anzi più che ottimali.

Un sole giallo e caldo, non troppo distante. Tre piccole lune, delle dimensioni

giuste per generare le maree e mantenere costante l'inclinazione del pianeta sul suo

asse. 90,09% di gravità standard, 73% della superficie coperta dall'acqua, 31%

d'ossigeno nell'atmosfera. Temperatura media di 24 gradi Celsius. Grossi temporali

stagionali, come su quasi tutti i pianeti con un'atmosfera. Un continente principale, che

si estendeva in maniera irregolare dalle regioni artiche del nord fino a poco più a sud

delle regioni temperate, con una manciata di grandi isole, la maggior parte vicine alle

coste del grosso continente, altre minori più lontane. Vegetazione variegata, con colori

dall'ambra all'indaco, tendenti leggermente verso l'arancione e il rosa. Nell'atmosfera,

livelli sufficienti di anidride carbonica e metano da indicare l'esistenza di significative

forme di vita erbivore e probabilmente anche carnivore. Una sporadica attività

vulcanica, ma niente di catastrofico.

Non troppo caldo, non troppo freddo.

Non troppo grande, non troppo piccolo.

Adatto alla vita.

Perfetto.

Abitabile.

Ancora meglio, quella stella era in una zona totalmente fuori mano, così lontana

dalle grandi rotte che quasi certamente nessuno sarebbe mai andato a cercarlo lì.

Diavolo, si rese conto, poteva anche essere il primo uomo a mettere piede su quel

pianeta improbabile. "Ah! Questo pianeta può essere davvero il tesoro che stavo

cercando!" E sottolineò la parola "tesoro." Ma l'ultima frase non la disse ad alta voce.

Perché portarsi iella?

Ordinò all'aiutante di entrare in orbita su un polo e impostò gli scanner perché

mappassero l'intera superficie del pianeta. Aveva intenzione di restarci per un po' di

tempo, forse per tutta la vita. Aveva proprio voglia di qualcosa di tropicale, con

acquazzoni pomeridiani che rinfrescassero il calore del giorno, e un'ampia vista verso

occidente, così da potersi sedere nel portico a godersi il tramonto.

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In effetti, di desideri ne aveva una lista intera. "Aiutante, cerca un terreno fertile

dove poter piantare frutta e verdura. Che ci sia dell'acqua corrente pulita per poter fare

il bagno regolarmente e su cui costruire un mulino per generare energia per

l'illuminazione. Abbastanza vicino alla costa per andare a farci un po' di vela, ma

abbastanza in alto per evitare eventuali danni da tsunami. Che non ci siano vulcani attivi

vicini, né instabilità geologiche, né possibili traiettorie di tornado."

"In elaborazione," rispose l'I.A.

Jake rifletté ad alta voce, "Magari un'isola appena fuori dalla fascia equatoriale.

Sarebbe carina."

"Una posizione continentale darebbe accesso a più risorse, signore."

"Sì, ma mi ritroverei sulle rotte delle varie specie migratorie." Gli scanner

avevano rilevato numerose mandrie di cosi enormi, che si muovevano con passo lento

alla costante ricerca di nuovi pascoli... ed erano quasi sempre seguiti da grossi predatori,

interi branchi di predatori carnivori. "Starsene al centro di un'autostrada evolutiva non

è una buona idea. Non sono così stupido."

"No signore, non lo è," concordò l'aiutante. "I suoi punteggi psicometrici sono

piuttosto elevati, considerata la tendenza all'impulsività."

"Chiudi il becco," disse Jake. Non era arrivato lì per caso: ci aveva pensato per

moltissimo tempo.

La decisione di disertare aveva cominciato a girargli in testa venti minuti dopo

aver letto per la prima volta le statistiche sulla mortalità nell'esercito. Aveva borbottato

tra sé, "Ci sono dei vecchi soldati e ci sono dei soldati coraggiosi, ma non ci sono dei

vecchi soldati coraggiosi." Poi aveva scoperto che in realtà non c'erano nemmeno dei

vecchi soldati. Non si era sentito solo scoraggiato: era rimasto terrorizzato. Con gli occhi

fissi sui dati, aveva pensato che il suo turno di servizio sarebbe durato per sempre, e la

pensione l'avrebbe passata in una casetta di legno di un metro per due su qualche

terreno incolto, dove non sarebbero cresciute altro che lastre rettangolari di marmo a

intervalli regolari.

Jake voleva evitare il più a lungo possibile di finire sotto terra.

Prima di tutto, aveva controllato quali carriere avessero le maggiori probabilità

di finire in quelle statistiche. I piloti per i rifornimenti non erano i migliori, ma

nemmeno i peggiori. E avevano un vantaggio schiacciante: sulle navi coloniali di solito

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era presente tutta l'attrezzatura necessaria per la creazione di una nuova struttura

completamente autosufficiente. Fu allora che nacque l'idea, fu allora che Jake scelse la

sua carriera. C'erano voluti sette anni, sette spaventosi anni, durante i quali più di una

volta si era ritrovato a pensare di aver fatto la scelta sbagliata.

Ma la durata del suo contratto era di sette anni; sette anni e poi avrebbe potuto

dimettersi. Pochi avevano vissuto abbastanza a lungo da potersi dimettere, e quelli che

ce l'avevano fatta quasi sempre avevano scoperto all'ultimo momento che il loro

arruolamento era stato prorogato. Il giorno in cui arrivò l'ordine di proroga, Jake sentì

di averne avuto abbastanza.

Aveva ripagato i suoi debiti, era esausto e non aveva più energie per combattere.

Non aveva una famiglia da cui tornare, perché era stata sterminata in un attacco zerg. Si

era arruolato quand'era ancora un adolescente. Si può sempre sognare di essere altrove,

i soldati lo fanno sempre, ma per lui non c'era stato nessun altrove. Solo quello.

Jake aveva fatto carriera, da copilota a pilota. Era diventato anche allievo

ufficiale, con tutte le responsabilità e i vantaggi che la posizione comportava. Aveva

accesso a informazioni sufficienti per scoprire che c'era molto di più nell'universo di

quanto la maggior parte delle persone sapessero. Aveva visto molti pianeti diversi,

quelli aridi e quelli rigogliosi, quelli belli e quelli brutti. Sapeva che c'erano moltissime

possibilità, alcune sconosciute anche ai militari stessi.

Quindi, aveva cominciato a guardare le mappe stellari, a studiare astrofisica e le

dinamiche solari. I suoi superiori avevano notato i suoi interessi extracurricolari e lui li

aveva giustificati dicendo che mirava a una carriera nel dipartimento di pianificazione

strategica e contromisure. Ebbe così accesso al database delle esplorazioni e delle

mappature, tutte le informazioni che le sonde dello spazio profondo di sorveglianza

avevano scoperto per centinaia di migliaia di anni luce in ogni direzione: una sfera di

conoscenze che si allargava sempre più.

Jake aveva ordinato con cura e pazienza i dati, schedandoli in base alle condizioni

di vita sostenibile sui diversi pianeti. Alcune stelle erano troppo grandi o del colore

sbagliato. Alcune emanavano troppe radiazioni. Una stella con le giuste dimensioni e del

colore giusto era il posto adatto per cercare un pianeta abitabile. I suoi superiori

avevano pensato che stesse tracciando le probabilità di un'infestazione zerg. Poiché lo

Sciame era stato per lo più tranquillo, dopo la Guerra dello Sciame, i suoi superiori

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avevano approvato i suoi studi: la pianificazione a lungo termine era una buona cosa.

Peccato che i superiori non sapessero che Jake stava progettando il proprio lungo

termine.

L'occasione arrivò all'improvviso. Jake non aveva ancora scelto un sistema di

stelle, non aveva scremato le sue opzioni. Stava ancora prendendo in considerazione

un'ampia varietà di pianeti candidati, vicini e lontani, e determinando fino a che punto si

sarebbe dovuto allontanare perché un inseguimento risultasse troppo oneroso.

Ma poi il convoglio fu attaccato e scoppiò la battaglia. Solo sul ponte, già perso

nei suoi sogni... agì senza pensare.

Non avendo il tempo di svegliare il capitano, alzò il coperchietto di plastica di

protezione e pigiò con forza il grosso pulsante rosso. Gli allarmi cominciarono a suonare

in tutta la nave, i membri dell'equipaggio si tuffarono nelle capsule di salvataggio e in

tre minuti l'evacuazione fu terminata. Jake era rimasto l'ultimo uomo a bordo.

Gli ci vollero meno di trenta secondi per condurre la nave su un'altra rotta, poi

virò e s'allontanò dalla zona di combattimento. Nell'infuriare della battaglia, quasi

nessuno lo notò. Solo più tardi, quando i marine controllarono i vari registri di tutte le

navi superstiti, si resero conto che una delle loro navi coloniali era scomparsa. Non

distrutta, proprio scomparsa. Cosa che sarebbe potuta succedere solo se a bordo vi

fossero stati dei sopravvissuti. Ma da quello che Jake aveva visto, le probabilità di

sopravvivere all'attacco sarebbero state pochissime.

Adesso era solo. Era libero. Era lì.

E quello era il pianeta dei suoi sogni.

Perfetto.

#

Jake lasciò l'aiutante a giocare con i numeri e i dati per qualche altro giorno, e

cominciò a preparare la sua navetta per lo sbarco. Non sapeva che cosa gli sarebbe

servito, quindi preparò dei pacchetti contenenti il necessario per diversi possibili

scenari, dall'atterraggio standard a tutte le eventualità previste dall'aiutante, in

particolare quelle che gli avrebbero potuto impedire di tornare sulla nave coloniale.

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Valutò anche la possibilità di mandare la nave a schiantarsi nel cuore del sole

vicino, per distruggere ogni prova del suo arrivo. Ma non era una decisione da prendere

alla leggera. Inoltre, per qualche ragione al momento sconosciuta, il pianeta si sarebbe

potuto rivelare quello sbagliato. Il termine tecnico era brutta sorpresa.

Jake aveva già escluso il continente principale come punto d'atterraggio. Troppi

cosi grandi e affamati. Invece, c'era un arcipelago verso ovest, abbastanza vicino al

continente principale perché fosse accessibile, ma sufficientemente lontano da fornire la

salvezza dell'isolamento. L'isola più grande, nella zona a sud-est dell'arcipelago, gli

sembrò il posto perfetto. Era di forma triangolare, caratterizzata dai coni scoscesi di tre

vulcani, due dei quali spenti. L'ultimo e più grande, ancora fumante, raggiungeva

un'altezza tale da presentare zone di nevi perenni e lingue di ghiacciai. L'acqua prodotta

dalla fusione avrebbe fornito irrigazione per tutto l'arco dell'anno, e probabilmente

anche alcune sorgenti termali. Le correnti tropicali che soffiavano da sud mantenevano

il mare tiepido, mentre il vento del nord spingeva le nubi contro le pendici occidentali

tutti i giorni, rinfrescando l'aria serale.

Jake studiò l'isola con attenzione. Sugli schermi grandi come pareti visualizzò

possibili scenari drammatici e terribili: se ci fosse stato qualcosa che non andava,

avrebbe avuto bisogno di saperlo prima. Ma più la guardava, più l'isola lo attraeva.

Le sonde esplorative rilevarono ricchi tappeti di vegetazione lussureggiante

lungo tutti i versanti delle isole, con sottili alberi da frutto e altre piante più alte dotate

di larghe foglie ombreggianti, un'intera foresta ricca di felci, erbe e viticci rampicanti.

Un'intricata rete di corsi d'acqua e stagni alimentava delle cascate cristalline. C'erano

almeno sei diversi ecosistemi nelle isole, determinati dall'altitudine, dall'esposizione ai

venti e dalla disponibilità d'acqua. Laddove le diverse zone s'incontravano, il processo

evolutivo accelerava, il che implicava l'esistenza di sane forme di flora e fauna ibride.

Ulteriori scansioni mostrarono uccelli e insetti di dimensioni superiori a quelle

cui era abituato, ma nulla in confronto alla minaccia dei cosi che si aggiravano sul

continente principale. C'erano anche diverse varietà di anfibi, dei piccoli animali e anche

dei mammiferi che assomigliavano a dei maialini selvatici. Il mare era pieno di pesci di

ogni dimensione, comprese alcune creature enormi. Ma non era un problema, Jake non

aveva alcuna intenzione di andare a nuotare in quel frangente. Sulla costa a nord, alcune

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delle onde arrivavano a quasi sessanta metri d'altezza. Jake, che non era mai stato

immerso in qualcosa di più profondo di una vasca da bagno, ne fu impaurito.

Non riusciva a scegliere il nome dell'isola. Pax? Aloha? Shalom? Paradiso? La

Grande Isola? Nessuno gli sembrava adatto. Ma anche questo problema poteva

aspettare. Forse col tempo l'isola stessa gli avrebbe rivelato il proprio nome di sua

spontanea volontà.

Ma c'erano anche altre opzioni da valutare, e lui di certo non avrebbe preso una

decisione affrettata. Aveva progettato quel viaggio troppo a lungo ed era arrivato troppo

lontano per non dare al resto del pianeta uno sguardo più attento. Prese in

considerazione una piccola laguna sulla costa occidentale del lungo continente, riparata

dietro una scogliera frastagliata che la manteneva isolata. Poi un lago a forma di virgola

negli altopiani a nord, ben al di sopra dei flussi migratori. Poi anche una scogliera

spazzata dal vento nella zona meridionale, così inospitale che nessuna persona

razionale avrebbe mai pensato di cercarlo lì. Alla fine però, Jake tornava sempre alle

isole, più invitanti. Forse un giorno avrebbe esplorato anche la terraferma, ma in quel

momento le isole gli sembravano il posto più sicuro e ospitale.

Anche quando la navetta fu pronta, carica e programmata con le coordinate del

versante occidentale dell'isola, Jake ancora esitava. Tornò sul ponte per dare un'altra

occhiata, fare un'altra scansione, rilevare altri dati, insomma darsi un altro motivo per

rimandare.

Rimase seduto sulla poltrona di comando per più di una settimana, a discutere

con se stesso e con l'aiutante, a mangiare panini di karak e a bere tazze di caffè.

Stringeva le labbra, aggrottava la fronte, si accigliava, pensava, studiava, analizzava i pro

e i contro, i pregi e i difetti, finché giunse alla conclusione che la situazione non sarebbe

cambiata, per quanto lui la valutasse da ogni punto di vista. Forse l'isola era un luogo

idilliaco, o forse no. Di sicuro, standosene lì a pensare non l'avrebbe mai scoperto.

Per un momento, prese in considerazione anche l'ipotesi di girare la nave e

tornare indietro. Avrebbe potuto ancora farlo. Avrebbe potuto dire di aver allontanato

la nave dal convoglio per salvarla dalla distruzione. Ma come spiegare l'ordine di

evacuazione o i registri permanenti che riportavano una sorveglianza tanto lunga e

dettagliata di quel pianeta? Be', avrebbe potuto inventarsi che, una volta arrivato lì,

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aveva pensato di eseguire le scansioni del pianeta per valutarne una possibile

colonizzazione. Ci avrebbero creduto? Probabilmente no.

No, ormai doveva proseguire sulla sua strada, quella strada che aveva cominciato

nel momento in cui aveva premuto il grosso pulsante rosso dell'allarme. Non sarebbe

mai riuscito a evitare la corte marziale, probabilmente il plotone d'esecuzione. Se fosse

tornato, non avrebbe mai avuto un'altra possibilità come quella. Comunque, non

l'avrebbe mai saputo.

Infine, frustrato da se stesso, rendendosi conto che l'inerzia non produceva alcun

risultato utile, parlò ad alta voce. "Star seduto non serve, Jake. Alza il tuo culone e

muoviti."

Non era esattamente una questione di ora o mai più. La finestra per il lancio si

stava chiudendo, ma ce ne sarebbe stata un'altra dopo due ore, e così ogni due ore. Ma

ormai non c'era più niente che Jake potesse fare a bordo di quella nave. Poteva solo

continuare a studiare la situazione. Alla fine, però, avrebbe dovuto agire. Aveva

programmato la sua fuga sette anni prima, con l'obiettivo di essere proprio lì, dove si

trovava in quel momento. Ecco la realizzazione della promessa che aveva fatto a se

stesso.

Ancor prima di rendersene pienamente conto, fu in piedi. Si stava muovendo.

Evacuò l'ultimo pasto, impostò la nave in modalità standby e poi raggiunse la

piattaforma di lancio. Un ultimo sguardo indietro: se tutto fosse andato secondo i piani,

lui sarebbe stato l'ultimo essere vivente che quella nave avrebbe mai visto.

"Addio, signore," disse l'aiutante. "Manterrò operativa la nave in attesa del suo

ritorno."

"Buona idea."

Salì a bordo della navetta e, con prudenza, lasciò la nave coloniale. Attivando uno

schermo su uno dei pannelli di controllo, Jake vide la grande nave allontanarsi alle sue

spalle, finché non divenne altro che un puntino luccicante. Un pensiero cominciò a

tormentarlo: forse c'era qualcos'altro che avrebbe potuto fare, che avrebbe dovuto

fare... ma non riusciva a pensare a nulla di specifico. E comunque, se un giorno avesse

avuto bisogno di qualcosa, avrebbe sempre potuto contattare la nave coloniale per farsi

mandare le casse con il materiale ancora a bordo.

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Era ancora in tempo per ritornare con la navetta sulla nave coloniale. Non era

obbligato ad atterrare lì. C'erano un sacco di pianeti di frontiera che avrebbero

apprezzato l'arrivo inaspettato di una nave piena di rifornimenti come la sua. Sarebbe

diventato un eroe, almeno per un certo periodo. Almeno fino a quando il capitano senza

scrupoli di un'altra nave militare lo avesse scoperto e denunciato per ottenere la

ricompensa. No, era più sicuro sparire, semplicemente.

Lasciò che quegli attimi di ripensamento passassero e preparò la navetta per le

manovre d'atterraggio. I primi sbuffi d'aria dell'atmosfera superiore cominciarono a

sfiorare la carena e poco dopo iniziarono le vibrazioni. Tenendo fermo il velivolo, Jake

sfruttò lo spessore dell'atmosfera per rallentare la velocità di caduta, utilizzando solo di

tanto in tanto i propulsori per correggere la rotta.

Portò rapidamente la navetta verso il basso, avvicinandosi all'isola da ovest e

mettendosi in assetto orizzontale sopra la superficie verde scintillante del mare,

abbastanza vicino da riuscire a vedere delle grandi sagome scure che si muovevano

sott'acqua. Fece rallentare la navetta poco prima di raggiungere la riva.

La sabbia sulla spiaggia brillava di una sorprendente tonalità d'oro, con riflessi

rosa madreperlacei. Da lì, si aprivano ampie zone erbose che salivano lungo il cono del

vulcano lontano. L'intera isola era composta di roccia vulcanica, e in alcuni punti la terra

era così sottile che gli alberi non potevano mettere radici, ma c'erano solo erba alta,

arbusti e felci.

Alla fine, Jake fece atterrare il velivolo su un altopiano che dominava la parte

occidentale dell'isola. Guardò con attenzione gli schermi e i dati, mentre il sistema

campionava l'aria, la filtrava e la esaminava alla ricerca di elementi tossici, batteri

dannosi, funghi, virus o prioni. Sarebbero potuti trascorrere anche diversi giorni, prima

che il sistema gli desse il via libera per uscire dalla navetta senza dover indossare la tuta

di protezione batteriologica. La tuta era garantita contro organismi infettivi fino alla

classe sei, ma certo la garanzia era piuttosto inutile in un posto in cui il servizio clienti

non era raggiungibile. No, avrebbe aspettato fino a quando il laboratorio di bordo

avesse finito di preparare tutte le vaccinazioni del caso.

Attivò le sonde esplorative terrestri e aeree, e le liberò affinché perlustrassero

l'isola. Non sarebbe andato da nessuna parte senza delle mappe dettagliate del terreno.

Ci sarebbero volute una settimana o due.

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Sulla sua lista dei possibili candidati c'erano anche altri pianeti. Alcuni erano

aridi: posti con atmosfere quasi irrespirabili, in cui la terraformazione non era ancora

terminata e le uniche forme di vita erano alghe, funghi e licheni. Altri erano conosciuti,

noti per essere abitabili, ma Jake si preoccupava di chi o che cosa avrebbe potuto

stabilirsi su quei pianeti insieme a lui. No, solo questo pianeta gli dava qualche

possibilità di solitudine. Non si sarebbe annoiato: aveva la musica, i libri digitali e gli

olovideo.

Una cosa sola gli mancava: la voglia di aspettare. Si arrampicò su un SCV e

cominciò a perlustrare la zona d'atterraggio, cercando di farsene un'idea. Aveva ancora

solo un paio d'ore di luce, ma avrebbe potuto iniziare a posizionare i segnalatori per un

campo base. Alla guida del suo SCV poteva sgombrare il terreno, installare telecamere,

luci e un'ampia varietà di sensori, stabilire un perimetro di sicurezza e piazzare anche

un paio di torrette automatiche. Queste ultime sarebbero state probabilmente inutili,

ma facevano comunque parte della procedura standard. Jake dubitava che quelle armi

avrebbero mai ucciso qualcosa di più grande di uno scorpione o di una zanzara.

Tuttavia... sempre meglio prendere tutte le dovute precauzioni. Era rimasto in contatto

troppo a lungo con le paranoie militari per riuscire a liberarsene facilmente.

Il terzo giorno costruì un hangar per la navetta: salì sul suo SCV, scaricò i

materiali, saldò i muri prefabbricati e aggiunse il tetto. Poi, guidò la navetta all'interno e

chiuse i portelli. E mentre le telecamere e le torrette automatiche controllavano il

perimetro, si preparò a dormire le sue otto ore.

Si svegliò nel cuore della notte.

Con indosso solo un paio di pantaloncini e in mano un Torrent SR-8 con mirino a

raggi infrarossi, Jake uscì e scrutò nel buio. Il delicato bagliore blu delle luci ambientali

illuminava la giungla circostante in tonalità viola e nere. In cielo, le stelle brillavano

luminose, e la più grande delle tre lune del pianeta stava lentamente tramontando. Jake

alzò l'arma e guardò attraverso il mirino, girandosi con attenzione, alla ricerca di fonti di

calore. Niente.

Qualunque cosa avesse sentito, ora era silenziosa.

Forse un urlo... fatto da qualche coso. Forse un uccello? Forse uno di quegli esseri

marini, emerso per un istante? Forse uno degli animali simili ai maialini? Forse uno dei

predatori che si nutrivano di quei maialini? La logica suggeriva che ce ne sarebbero

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dovuti essere. Ma la logica era limitata dai dati disponibili, e i dati disponibili erano

limitati dalla tecnologia disponibile, di cui Jack aveva una disponibilità limitata. C'era un

vecchio detto a proposito dei pianeti nuovi e sconosciuti: erano strani. Non solo più

strani di quanto si immagini, ma più strani di quanto si possa immaginare.

Jake rimase lì al buio per parecchio tempo, in ascolto. Poi tornò dentro, si sedette

di fronte agli schermi di sicurezza e avvio la riproduzione dei suoni registrati nel corso

della notte. Per lo più le tracce audio rivelavano innocui rumori di sottofondo: le onde, il

vento, il fruscio del fogliame... Ma il grido? Niente di niente.

L'aveva sentito solo nella sua testa.

Eppure l'aveva sentito. Sapeva di averlo sentito. Era sicuro di averlo sentito.

Rimase seduto a lungo di fronte agli schermi, studiando il terreno dell'isola, e

lanciò tre sonde a verificare nelle vicinanze.

Iniziò a tremare.

L'urlo che aveva sentito era stato un'esclamazione gutturale, ruvida,

bruscamente interrotta, come di qualcuno che si fosse improvvisamente accorto di

qualcosa. Lui non poté identificarlo, non poté capire da dove provenisse o che cosa

l'avesse causato... ma riconobbe dentro di sé una sensazione fastidiosa. Sì, l'aveva già

sentito in passato: non quello stesso grido, ma un altro simile.

Alcune storie raccontavano che nell'altra parte del settore vivevano esseri con

strani poteri psionici. E altre storie, ancora più inquietanti, raccontavano di esseri

umani arruolati e addestrati come guerrieri psionici. Fantasmi. Jake non aveva mai

incontrato un fantasma, non ne aveva mai visto uno di persona. Ufficialmente, non

esistevano neppure, ma lui sapeva la verità. Una volta, aveva assistito a un'esplosione

psionica accidentale. Era successo durante una missione di trasporto, un'operazione

top-secret.

Era successo all'inizio della sua carriera, quando era solo un sottufficiale di terza

classe. Una grande nave nera, una nave senza nome, aveva bisogno in fretta di un

equipaggio, e lui aveva l'autorizzazione dalla sicurezza. Nessuno parlava apertamente

della missione, ma si era comunque capito che si stavano dirigendo verso l'Accademia

dei Fantasmi sulla luna di Tarsonis, Ursa. Anche se nessuno lo diceva, tutti sapevano che

c'era una telepate a bordo in una cabina schermata.

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Chiunque fosse, era rimasta nel suo alloggio per l'intero viaggio, lontana da tutti i

membri dell'equipaggio, ignorata. Finché, una notte, aveva avuto un incubo e, senza

alcun preavviso, il suo urlo telepatico aveva attraversato l'intera nave, investendo tutti.

Uomini e donne cadevano, svenivano, vomitavano, avevano attacchi di panico,

svuotavano involontariamente vescica e intestino. Il suo accompagnatore, un mesopate

solitario che non sembrava aver nulla di speciale, non aveva esitato nemmeno un

istante: senza dire una parola, aveva abbandonato il tavolo del poker ed era corso fuori

dalla sala mensa. Avrebbero scoperto più tardi che indossava un casco psionico, che

l'aveva protetto da quel grido terribile. L'equipaggio della nave, che non aveva alcuna

protezione, lentamente e dolorosamente arrancava verso un ritorno alla coscienza.

L'esperienza dell'esplosione psionica li aveva lasciati tutti storditi e confusi, deboli e

tremanti.

Per il resto del viaggio, il mesopate aveva tenuto il candidato fantasma sedato.

Non c'era stato alcun rapporto ufficiale sull'incidente, ma il capitano aveva fatto

trapelare l'informazione che la telepate era appena un'adolescente, non addestrata e

quindi con scarso controllo sui propri poteri.

Ma quel grido aveva gravemente danneggiato l'anima di ogni membro

dell'equipaggio a bordo. Il crudo e brutale impatto dell'esplosione li aveva resi

estremamente sensibili alla minima increspatura del campo psionico.

Jake non sapeva che cosa avesse originato il trauma della telepate, quali paure

infettassero i suoi ricordi, quali terrori riemergessero sotto forma di incubo, ma era

sicuro che ci fossero degli zergling coinvolti, anche se lui non ne aveva mai visto uno dal

vivo. Dopo quella terribile esperienza psionica, la sua mente riecheggiava di un tumulto

di sentimenti sconnessi, strani e spaventosi, come se fosse stato aggredito, invaso. Si

sentiva come se nuovi ricordi gli fossero stati impressi nella mente, falsi ricordi, non

suoi, ma ricordi comunque veri, ricordi di quello che si provava a essere gettati in una

fossa di esseri insettoidi ringhiosi, ronzanti e decerebrati.

Il medico di bordo, tremante egli stesso come una foglia, aveva avvertito tutto

l'equipaggio che l'esposizione alla risonanza psionica avrebbe potuto aumentare

leggermente la sensibilità al rumore telepatico. Un eufemismo. Prima che la nave

raggiungesse la sua destinazione finale, tre membri dell'equipaggio si erano suicidati.

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Jake era stato uno di quelli sfortunati: era sopravvissuto. Squarciato, malato, era

un ferito che camminava. Emotivamente sconvolto, ora sentiva il rumore delle menti

della gente intorno a sé. Non erano suoni chiari, era un tintinnio continuo di impulsi

casuali provenienti da altre persone, percezioni a metà, incomplete: paura, dolore,

rabbia, tristezza, risentimento e spesso, troppo spesso, pensieri di lussuria e di avidità e

strane emozioni oscure. Il rumore arrivava in ondate lente, a volte aumentava, a volte

diminuiva, ma non svaniva mai abbastanza da diventare tollerabile. I momenti peggiori

erano quando le persone dormivano e sognavano.

Era stato allora che Jake aveva deciso di scappare. Aveva bisogno di un posto

dove ritrovare la tranquillità, un luogo senza altri esseri umani intorno.

Ma quel grido? Lì, su quel pianeta sconosciuto? Non era umano, Jake ne era certo.

Doveva essere qualcosa di diverso. Qualcosa come un animale, un insetto, un essere

senza cervello, una divinità. Ma qualunque cosa fosse, non gli avrebbe dato pace.

Al mattino, prima che il sole arancione si alzasse all'orizzonte, Jake fu sveglio e

pronto. Indossò un'armatura leggera da combattimento, prese con sé un AGR-14

personalizzato e modificò il casco così che proiettasse i dati importanti sulla visiera.

Aveva trascorso le lunghe ore di transito in quel pianeta proprio ricostruendo,

modificando e personalizzando ogni pezzo d'equipaggiamento che non lo soddisfacesse.

Il che significava tutto l'equipaggiamento. Salì in sella a un Vulture, fece un profondo

respiro e mormorò: "Va bene, andiamo."

Il Vulture era perfetto per le esplorazioni e i pattugliamenti: maneggevole,

leggero, fluttuante, progettato per essere veloce e sicuro. I modelli coloniali potevano

volare fino a un chilometro d'altezza sopra il livello del mare e correre a una velocità di

370 chilometri all'ora. Jake ne aveva caricati tre sulla navetta, oltre a tutti i pezzi di

ricambio.

Per sei giorni esplorò le isole, cercando di sentire lo stesso grido di... di

qualunque essere avesse gridato quella notte. Per sei notti pattugliò i cieli, illuminando

il fogliame scuro con un raggio di luce blu. Niente.

Il settimo giorno si riposò. Atterrò con il Vulture accanto all'hangar e notò che già

i primi viticci erano scesi e si appoggiavano sulla superficie del tetto di paglia. In pochi

mesi, l'avrebbero invaso, coprendolo con spessi fili neri e un ancor più spesso tappeto

blu scuro di foglie. Sarebbe stata una buona mimetizzazione da occhi indiscreti.

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Lunedì, Jake controllò le batterie del Vulture e ripartì di nuovo. Voleva tornare

nella zona settentrionale dell'isola, per esplorare le pendici del vulcano più alto che si

stagliava all'orizzonte come una gigantesca torre di raffreddamento. La gravità al 90%

del pianeta incoraggiava tutte le cose a crescere, a diventare più alte e più grandi del

normale. Le dune di sabbia e le onde erano più ripide perché l'angolo di riposo era

maggiore. I pendii delle montagne erano più scoscesi e frastagliati. I coni dei vulcani

salivano come torri verso il cielo, quasi perfettamente verticali. Anche gli insetti e gli

animali erano più grandi. Il calore intenso del giorno permetteva agli animali che non

sfruttavano l'omeostasi di riscaldarsi velocemente e mantenere stabile il calore

corporeo. Quel calore e un'atmosfera ricca di ossigeno favorivano anche gli animali di

maggiori dimensioni. Quelli grandi come un pallone erano accettabili, ma quelli enormi

erano spaventosi, e alcuni raggiungevano quasi le dimensioni di un campo di calcio.

Fortunatamente, le isole dell'arcipelago non erano grandi abbastanza e non fornivano

vegetazione sufficiente anche solo per una piccola mandria dei giganti mangiatori

d'erba che vagavano per il continente.

Inoltre, il terreno vulcanico era aspro e irregolare, quindi non favoriva né le

migrazioni né le esplorazioni casuali. Senza il Vulture, Jake non avrebbe potuto accedere

a gran parte del territorio. Ci sarebbero stati posti che non avrebbe visto, caratteristiche

che non avrebbe scoperto.

In particolare...

Entrambi i crateri dormienti erano ricoperti di tubi di lava, gallerie naturali

formatesi dai torrenti di lava fusa. Quando i torrenti di lava erano scesi verso il basso, i

bordi si erano raffreddati e induriti, creando lunghe gallerie di roccia vulcanica scura. Le

successive eruzioni avevano costruito dei tetti spessi sopra molti dei tubi di lava, la

maggior parte dei quali erano grandi abbastanza per contenere una navetta intera. Se

Jake avesse saputo della loro esistenza, si sarebbe risparmiato lo sforzo di costruire un

hangar. Un tubo di lava avrebbe fornito una copertura aerea migliore. Se fosse stato

abbastanza profondo, sarebbe potuto diventare anche un bunker. Jake si disse che un

giorno avrebbe dovuto esplorare quei tunnel più approfonditamente, ma non prima di

aver trovato la fonte del grido psionico.

Prima le priorità.

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Di tanto in tanto, Jake atterrava con il piccolo Vulture per liberare una sonda. Le

sonde avrebbero esplorato l'ambiente circostante con calma e pazienza, avrebbero

guardato, ascoltato e poi avrebbero riferito tutto. Alcune esploravano in maniera attiva,

altre restavano quiescenti e si destavano solo se disturbate. Se anche su quell'isola ci

fossero state delle cose difficili da individuare, Jake le avrebbe trovate. Prima o poi.

Nel pomeriggio, guardando verso nord, Jake vide l'orizzonte oscurarsi

rapidamente. Di tanto in tanto, delle folgori lampeggiavano tra il mare e il cielo.

"Merda," disse ad alta voce. Aveva dimenticato una delle prime regole di

qualsiasi cosa: non essere così coinvolti in ciò che si sta facendo da dimenticare ciò che

si sta facendo. E lui aveva dimenticato di guardare le previsioni meteo.

Il pericolo fu subito evidente. L'ampia linea della burrasca stava avvicinandosi a

una velocità incredibile. Certo: ogni cosa su quel pianeta era più grande di quanto ci si

aspettasse. Quella non era solo una burrasca, era una tempesta, una super tempesta.

Non c'era modo di tornare al campo prima di esserne travolto. Avrebbe dovuto trovare

un rifugio più vicino e aspettare.

Il suo primo impulso fu di dirigersi verso il lato sottovento del vulcano, ma si

rese conto quasi subito che sarebbe stato altrettanto indifeso, nel momento in cui la

tempesta l'avesse raggiunto.

No, c'era una sola possibilità. Diresse il Vulture verso il tubo di lava più vicino.

Aveva comunque in programma di esplorarli, un giorno. Bene, quel giorno era arrivato.

La tempesta non era proprio del tutto inattesa. I dati raccolti mostravano che il

pianeta era in grado di produrre condizioni meteorologiche estreme, ma senza studi a

lungo termine sui venti e sugli schemi stagionali, non c'era modo di sapere quanto

spesso una tempesta così devastante si sarebbe potuta verificare. Quel pianeta aveva

bisogno di un'era glaciale che lo raffreddasse. Tutto quel calore che favoriva

un'atmosfera ricca d'ossigeno e incoraggiava la crescita di piante e animali giganti,

favoriva anche una massiccia risalita di vapore acqueo dalla superficie del mare e venti

terribili che spingevano tali nubi molto sature contro ostacoli come le montagne. Questa

non era solo una super tempesta, era una tempesta perfetta, un uragano di proporzioni

colossali.

Nel tempo che Jake impiegò per raggiungere l'imboccatura del tubo di lava, il

vento era già arrivato a sollevare e a rendere quasi ingovernabile il suo Vulture.

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L'ingresso della grotta era in pratica un buco in uno strapiombo verticale, parzialmente

occluso dalla vegetazione. Il cielo si stava oscurando, i fulmini lampeggiavano fra le

nuvole e cominciarono a cadere grosse gocce di pioggia. Jake tenne saldamente il

controllo del veicolo, evitando i viticci e infilandosi nel buco. Appena fu al riparo dal

vento, poté accelerare in avanti lungo il tubo di lava. Aveva bisogno solo di piccole

spinte dai propulsori. I fari sondavano l'oscurità, rivelando solo muri scuri d'ossidiana,

vetro vulcanico su cui brillavano mille riflessi e scintille.

Dopo circa cinquanta metri di tunnel, Jake spense il veicolo, sicuro di trovarsi

sufficientemente in profondità. In caso contrario, poteva sempre ripartire e spostarsi

ulteriormente verso l'interno della montagna. Non aveva idea di quanto fosse grande

quella grotta, ma i sensori del Vulture segnalavano almeno altri cento metri di spazio,

forse di più. Gli schermi non dicevano che cosa ci fosse più in là.

Jake scese dal mezzo. Aprì la visiera del casco e fece un respiro profondo. Già

l'aria odorava di umidità. Anche a quella profondità nel tubo di lava, si sentiva un vento

notevole proveniente dall'ingresso. L'apertura brillava come un cerchio luminoso che a

poco a poco si scuriva, acceso di tanto in tanto dal baluginio di fulmini invisibili. Jake gli

si avvicinò quel tanto che bastava per sentire gli spruzzi d'acqua della tempesta. La

pioggia martellava le pareti del tunnel e già le faceva gocciolare: l'acqua cadeva più

velocemente di quanto la terra riuscisse ad assorbire. Jake si chiese se non fosse più

saggio spostare il Vulture più in profondità lungo il tubo, ma risalendo il pendio capì che

l'acqua non avrebbe mai raggiunto quel punto. Egli era al sicuro, protetto dalla violenza

della tempesta.

"Ma merda," disse Jake di nuovo. "Questo non l'avevo previsto." Aprì il portellone

posteriore del Vulture e controllò i rifornimenti: aveva cibo e acqua sufficienti per tre

giorni, una settimana in caso estremo. Non avrebbe avuto bisogno della tenda, ma

dormire sul materassino arrotolato sarebbe stato certo più confortevole che sul duro

pavimento della grotta. Se fosse stato attento, non avrebbe avuto bisogno del kit medico.

Controllò anche l'armadietto delle armi: l'intero arsenale era carico e pronto. Dubitava

che avrebbe avuto bisogno di un'arma lì dentro, o meglio, sperava di non averne. "Non

fare ipotesi," ricordò a se stesso. "I vermi dei tunnel. Ne basterebbe uno per rovinare

l'intera giornata."

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Jake pensò all'AGR-14: non era proprio un'arma leggera, ma di sicuro era

efficace, capace di sfruttare l'accelerazione magnetica per sparare proiettili a velocità

supersoniche, il tutto con un ruggito molto intimidatorio. A Jake piacevano soprattutto i

proiettili incendiari. "Meglio prevenire che morire," si disse alla fine, prendendo con sé

l'AGR-14 e due cartucciere extra. Dopo un attimo di riflessione, prese anche una serie di

granate incendiarie, giusto in caso.

Accese la torcia e ne verificò la batteria. Ricontrollò gli schermi installati sulla

visiera del casco che gestivano le riserve di potenza, il sistema di monitoraggio, la

scansione biometrica del suo corpo e l'attivazione del Vulture in caso avesse dovuto

lasciare la grotta in tutta fretta. Tutte le lucine erano verdi. Jake non gradiva l'idea di

dover lasciare la grotta di corsa, e dubitava che nel tunnel ci potesse essere qualcosa di

più pericoloso dell'uragano che infuriava fuori, ma non voleva dover affrontare delle

difficoltà, qualora si fosse sbagliato.

Iniziò quindi la sua escursione verso l'alto. Il tubo di lava aveva una pendenza

accentuata, ma non impossibile. La gravità standard 0,9 di quel pianeta avrebbe potuto

far pensare che la lava fusa fosse scesa lentamente, ma le pareti del vulcano erano

talmente scoscese che le colate laviche dovevano essere state piuttosto veloci. Le

scansioni iniziali avevano rivelato una rete interna di gallerie. Apparentemente, man

mano che il cono del vulcano si formava, i tubi di lava si erano creati uno sopra l'altro, a

volte torcendosi e ruotando come fili di spaghetti. La fisica della loro formazione

avrebbe entusiasmato un esercito di geologi per diverse generazioni.

Il rumore dei suoi passi riecheggiava sulle pareti bruciate, come dentro un box

doccia. Se ci fosse qualcosa di vivo nel tunnel, lo avrebbe sentito molto prima del suo

arrivo. E viceversa.

Di tanto in tanto, Jake si fermava ad ascoltare. Lontano, alle sue spalle, la

tempesta infuriava ancora. La luce fioca dell'apertura del tunnel era ormai svanita. Non

si vedevano più nemmeno i lampi, anche se di tanto in tanto i rombi dei tuoni

risuonavano attraverso le rocce. I fulmini all'esterno dovevano essere terrificanti.

Altri suoni non se ne sentivano. Non con le orecchie, almeno. Proprio in quel

momento, Jake cominciò a sentire un disagio alla bocca dello stomaco, una sensazione

difficile da descrivere che lo mordeva, come l'ansia o la fame, ma in realtà in maniera

più profonda.

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Perse l'equilibrio. Puntando la torcia verso il basso vide che in quel punto le

rocce erano scivolose, il che non aveva senso. Eppure, c'erano anche dei rivoli d'acqua.

Evidentemente, la montagna doveva essere piena di crepe, si stava lentamente

erodendo dall'interno. Poteva esserci un enorme sistema di drenaggio, scolpito da

millenni di tempeste.

Jake considerò le possibilità. In quel vulcano si sarebbe potuto nascondere un

intero impianto militare: fabbriche, caserme, arsenali. Il solo pensiero lo fece

rabbrividire. Era esattamente quello da cui stava scappando: il ronzio scoraggiante della

preparazione militare per una violenza senza fine.

La pendenza del tunnel si fece più ripida. Di tanto in tanto, Jake doveva fermarsi

per riprendere fiato e cominciò anche a fare più attenzione a dove metteva i piedi.

Eppure, gli sfuggì comunque: non capì cosa aveva calpestato fino a quando non sentì

raschiare sotto il suo stivale. Fino a quando non sentì lo stridio metallico.

Abbassò lo sguardo.

Brillava come l'oro, anzi più dell'oro. Una tonalità di luce tanto bella da sembrare

innaturale. Schegge di qualcosa di metallico, ma non proprio un metallo.

In un primo momento, Jake pensò che si trattasse della lama di un coltello o di

una spada, ma aveva una curvatura più elegante. Si chinò per esaminarla da vicino. Le

diede un colpetto con il piede. Le si accovacciò davanti, sospirando con sincera

irritazione. Non per quello che era, ma per quello che significava.

La toccò più volte, prudente, ben consapevole che poteva essere una specie di

marchingegno che aspettava solo di essere attivato. Aveva la forma della coda di una

lacrima.

"Merda," disse Jake. "Merda e doppia merda."

Si sedette sui talloni e studiò quella cosa, nella speranza che fosse qualcos'altro e

che si trovasse da qualche altra parte. Se non fosse stato per la tempesta fuori, sarebbe

scappato all'istante. Sarebbe corso al campo base, avrebbe caricato la sua attrezzatura

sulla navetta e sarebbe decollato verso la sua nave coloniale. Anche in quel momento

stava già progettando la sua fuga. Avrebbe lasciato l'isola, il pianeta, l'intero sistema

planetario.

Jake sapeva che cosa fosse quell'oggetto, aveva visto qualcosa di simile in un

museo di reliquie di guerra. Non proprio lo stesso oggetto, ma lo stesso tipo di metallo

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non-metallo. Lo stesso intenso giallo sfolgorante. La stessa lucentezza pura. Nessuna

traccia di ruggine, di ossidazione o di bruciatura. Solo un frammento spezzato di

qualcosa che era stato torto e alla fine si era rotto.

Metallo protoss.

Jake non era solo.

Si costrinse a respirare lentamente. Contò fino a dieci. Fino a venti. Fino a

centottanta. Forse stava saltando alle conclusioni. Forse c'era un'altra spiegazione. Il

metallo protoss non si rovina e non viene eroso, quindi forse quel pezzo si trovava lì da

anni, da secoli, forse anche da millenni. Forse i protoss avevano visitato quel pianeta,

non vi avevano trovato nulla di utile e se n'erano andati.

Jake prese il frammento scintillante e lo guardò, rigirandolo più e più volte tra le

mani guantate. No. Quell'oggetto era stato gettato lì, contorto e spezzato come i pezzi

conservati nel museo, ma aveva anche incisioni profonde e graffi lungo un lato, segni

che potevano essere stati lasciati da zanne o da artigli.

"Tripla merda," disse Jake. "Questa è proprio tripla." Lo disse ad alta voce. "Qui

non ci sono solo io. Ci sono stati i protoss, qui. E hanno perso una battaglia contro

qualcos'altro."

La posizione accucciata cominciò a indolenzirgli le ginocchia, quindi si raddrizzò,

sempre tenendo il frammento di metallo non-metallo in mano. Avrebbe potuto

continuare a salire verso le profondità del vulcano... oppure tornare al Vulture e

affrontare la tempesta. O sarebbe potuto restare fermo lì, paralizzato dall'indecisione, lo

stesso tipo d'indecisione che l'aveva tenuto seduto ai comandi della nave coloniale per

una settimana prima che finalmente si decidesse a scendere sul pianeta.

Se fosse tornato giù, non avrebbe mai saputo quali minacce potevano

nascondersi all'interno della montagna. Non avrebbe mai saputo che cosa aveva causato

quel grido nel cuore della notte. Se avesse continuato verso l'alto... be', almeno avrebbe

capito cosa doveva affrontare, se valeva la pena di rimanere o di scappare.

Sempre se fosse sopravvissuto.

"Merda," disse. C'erano altre parole che avrebbe potuto usare, ma merda gli

sembrava ogni volta la più appropriata.

I successivi metri della salita furono difficili, ma poi improvvisamente il tubo di

lava divenne orizzontale e si aprì su un'enorme camera verticale. La torcia di Jake scrutò

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nelle tenebre come un occhio di luce blu. Il pavimento di quell'andito era un miscuglio di

rocce, il soffitto era una cupola bruciata, ma non fu quello a catturare la sua attenzione.

C'era stata una battaglia lì, una grande battaglia. Le pareti della grotta erano

bruciate e il fondo era disseminato di pezzi di metallo non-metallo. La maggior parte

erano d'oro, alcuni d'argento. Jake non era un esperto di tecnologia protoss, ma gli

parve di riconoscere alcuni dei frammenti d'argento: forse le gambe spezzate di quelle

cose che loro chiamavano persecutori. Gli altri pezzi, di un giallo brillante, erano forse i

resti delle macchine da guerra più comunemente note come immortali.

Si sarebbe dovuto sentire affascinato, quasi intimorito alla vista delle macchine

da guerra protoss, ma non fu così. La vista della carneficina metallica lo lasciò turbato e

ansioso. Suggeriva, o meglio dimostrava, che c'era qualcosa di orribile su quel pianeta,

qualcosa di tanto atroce da fare a pezzi dei protoss pesantemente corazzati.

"Merda," disse Jake. "Merda merda merda." Di tutte le parole che Jake aveva

detto ad alta voce dal momento dell'atterraggio, merda era la più usata, secondo lo

schermo di monitoraggio sulla visiera.

Jake si sganciò dalla cintura una console e inviò uno stormo di microspie nella

camera buia. I piccoli dispositivi a elica erano una tecnologia umojana che aveva pagato

a caro prezzo al mercato nero, sicuro che un giorno gli sarebbero state utili. Le

microspie iniziarono immediatamente a muoversi intorno, a scansire, a misurare, a

registrare...

...finché un fascio luminoso blu balenò dal lato opposto della caverna,

spostandosi da una microspia all'altra, disintegrandole tutte in lampi di luce

abbagliante.

Jake saltò indietro nell'ombra, sapendo benissimo che tanto non sarebbe servito

a nulla. Qualunque cosa avesse appena incenerito le sue microspie, sicuramente aveva

già preso di mira anche lui. Dopo che la prima ondata di adrenalina gli ebbe attraversato

lo stomaco, i visceri e il cuore, Jake capì di essere vivo solo perché quel qualcosa voleva

che lui lo fosse.

Fece un respiro profondo, un secondo, un terzo... poi fece un passo avanti.

Correre sarebbe stata la cosa peggiore da fare.

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Dall'altra parte della camera scavata nella grotta, dove un altro tubo di lava

sbucava, o forse era la continuazione dello stesso tubo di lava, qualcosa brillò. Qualcosa

di alto. Qualcosa di non umano.

In quell'istante, improvvisamente Jake seppe di essere molto fortunato. e molto

sfortunato allo stesso tempo. Era uno dei pochissimi esseri umani nel settore a essersi

trovato faccia a faccia con un protoss. La ragione per cui c'erano così pochi umani che

potevano raccontare di essersi trovati faccia a faccia con un protoss, era la difficoltà di

sopravvivere all'incontro.

"Oh, ciao," disse Jake. E alzò la mano destra in un tentativo di saluto.

#

Lassatar studiò la creatura di fronte a sé. Sapeva della sua presenza sull'isola dal

giorno in cui era arrivata. Ora lì, in quella caverna, poteva finalmente esaminarla.

Un umano. Corazzato in una tecnologia primitiva. Convinto di essere potente.

Tentava di articolare dei pensieri ancorandosi a un nucleo di pulsioni primarie, per lo

più paura. Era un imperativo biologico, fingeva di pensare, addirittura aspirava al puro

pensiero, ma in realtà era solo una macchina organica alimentata da un groviglio

confuso di fame, paura, rabbia e vaghi desideri contrastanti.

Desiderava l'intimità, ma temeva una relazione con la sua stessa specie.

Desiderava la conoscenza, ma temeva la scoperta. Desiderava il cambiamento, ma

temeva l'azione. Desiderava la pace, ma temeva la morte.

Desiderava la capacità di sentire, anelava a una luce che poteva solo vagamente

percepire, ma temeva di abbandonare lo stato animalesco che lo teneva intrappolato in

una gabbia di emozioni. Non agiva, si limitava a reagire.

Tutto questo e anche qualcosa meno.

Che gli umani avessero raggiunto la tecnologia della propulsione a curvatura era

più una dimostrazione di quanto l'universo fosse facilmente comprensibile piuttosto

che la prova di una loro qualsiasi intelligenza innata. La specie umana non aveva ancora

finito di evolversi, e probabilmente non lo avrebbe mai fatto. Avrebbe distrutto se stessa

prima di raggiungere uno stato d'esistenza superiore.

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Tuttavia, la passione istintuale di queste creature dava loro una serie di abilità

significative. Essi sapevano creare con la stessa furia con cui sapevano distruggere. Non

erano senza cervello. E questa domanda, questo dubbio su che cosa sarebbero potuti

diventare gli umani, era una questione interessante cui i templari oscuri dedicavano

moltissima attenzione.

Se si condivide una galassia con un'altra forma di vita, o è un alleato o è un nemico.

La neutralità non esiste. Se il rapporto non è di reciproco sostegno, allora è di reciproca

competizione distruttiva. La vita è inevitabile e le risorse sono limitate. Tutto il resto è

pura teoria astratta.

Nel breve istante tra la distruzione delle microspie e il momento in cui la

creatura alzò la mano in segno di saluto, Lassatar vagliò un migliaio di opzioni. Prevalse

la curiosità.

Aveva già avuto delle esperienze con degli umani in passato, la maggior parte di

tipo violento, ma un incontro casuale su un pianeta neutrale gli avrebbe permesso di

valutare la capacità di sentire di una specie non finita. La sua mente primitiva e brutale

avrebbe potuto essere addestrata? Quell'animale avrebbe saputo elevarsi? Avrebbe

compreso le responsabilità più profonde delle tecnologie che aveva creato? O era come

quegli erbivori giganti del continente, bloccati in un vicolo cieco evolutivo e condannati

dalla biologia a nutrire e a nutrirsi, senza alcuna reale possibilità di comprendere il

proprio contributo ai processi del tempo?

La creatura davanti a lui ora...

Lassatar riconobbe una curiosa somiglianza.

Come lui, l'umano aveva deciso di separarsi dal proprio genere. Gli umani lo

facevano spesso, e senza ragioni apparenti.

Di primo acchito, non aveva senso. Sembrava un comportamento privo di

qualsiasi valore evolutivo. Separata dalla tribù, dal gregge, dalla famiglia, la capacità di

un'unità solitaria di sopravvivere era notevolmente ridotta. Anche la protezione offerta

dalla tecnologia era di rado sufficiente, contro le forze primeve dell'universo. E se l'unità

solitaria viaggiava senza un compagno o una compagna, senza potersi quindi

riprodurre, allora era un'azione biologicamente inutile.

Ma pur non essendo immediatamente evidente, il valore evolutivo di quel gesto

era comunque inerente. In caso contrario, il comportamento non avrebbe continuato a

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verificarsi, ma sarebbe scomparso in fretta dalla specie. Chiaramente, il fatto che alcuni

dei suoi membri s'impegnassero nell'esplorazione e nella scoperta aveva, per l'intera

razza umana, un valore di sopravvivenza più alto. Quel comportamento avrebbe potuto

aprire una via utile allo sviluppo di una maggiore capacità di pensiero nella specie, di

una mente autenticamente consapevole. Avrebbe potuto anche fungere da attivatore

evolutivo profondo, come la capacità di camminare in posizione eretta o l'uso di

strumenti.

Il futuro dell'umanità era un problema di cui gli anziani protoss di tanto in tanto

discutevano. Gli umani erano una curiosa anomalia, una specie intrappolata sulla

cuspide delle possibilità. Stretti tra i propri feroci impulsi biologici e la possibilità di una

vera capacità di sentire, gli umani erano un'incognita nel processo di autocoscienza. La

risoluzione del dilemma sarebbe potuta essere interessante, ma non era degna di essere

presa seriamente in considerazione, almeno fino a quando la minaccia zerg non fosse

stata totalmente eliminata. Tuttavia, ogni incontro avrebbe aggiunto argomenti alla

questione.

Lassatar era un custode di segreti, un protettore degli antichi misteri, e

considerava il proprio dovere una responsabilità sacra. Anzi di più, un'identità. Lassatar

sentiva che il suo compito lo rendeva lo spirito vivente del patrimonio protoss. Non era

abbastanza per lui essere solo un custode, aveva bisogno di esserne l'incarnazione

vivente: aveva bisogno di accedere ai poteri e alle energie del passato.

Lassatar pensava che i misteri e i segreti dell'antico passato fossero

estremamente significativi, e che avessero un profondo significato per i protoss del suo

tempo. La vita cambiava. I primi protoss lo sapevano, non solo come teoria, ma in senso

concreto.

La vita si evolveva. Mutava. Si sfidava e si adattava a qualsiasi circostanza si

verificasse. Per una mente superiore, i processi erano bellissimi e crudeli e potenti. Per

una mente superiore, che pensava in termini di millenni, l'evoluzione era uno strumento

utile, e i primi membri della specie protoss l'avevano sfruttato con facilità. Avevano

applicato le pressioni evolutive per mantenere e controllare gli ambienti dei pianeti che

rivendicavano. Spesso, facevano evolvere interi sistemi ecologici dallo stadio

primordiale allo stadio stabile.

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Durante i suoi studi sui processi antichi, Lassatar aveva brevemente pensato a

come quei misteri avrebbero potuto essere applicati al suo tempo. Per esempio, gli

umani sarebbero potuti essere elevati verso la vera capacità di sentire? Sarebbero potuti

diventare degli alleati preziosi nella lotta contro gli zerg?

Era una domanda interessante, ma nessuna autorità protoss l'avrebbe meditata a

lungo o avrebbe davvero cercato una risposta. Gli umani erano inclini a emozioni

incontrollate e alla violenza. Se anche avessero raggiunto la vera capacità di sentire,

quel nucleo emotivo non sarebbe scomparso. Quindi, elevare l'umanità avrebbe portato

alla creazione di una specie molto pericolosa, forse una minaccia per i protoss stessi. Un

rischio troppo grande.

E... non era una questione che Lassatar avrebbe potuto affrontare da solo senza

violare l'integrità del suo compito. Era solo il custode degli antichi misteri, non il loro

padrone. Tuttavia, un evento anomalo l'aveva costretto a una diversa serie di

considerazioni.

Gli era capitato di trovare una reliquia importante, un artefatto xel'naga, nei

pressi di un insediamento umano isolato, dove aveva anche incontrato una bambina

umana. La creatura aveva dimostrato una quantità sorprendente d'innocenza e

meraviglia, tratti che non erano stati evidenziati in nessuno degli incontri conflittuali

raccolti dall'esperienza protoss.

Ma il fatto che un essere umano immaturo fosse capace di tanto, che cosa

suggeriva?

Lassatar era ben consapevole che gli umani non avevano ancora raggiunto la

vera capacità di sentire, nemmeno l'illusione di essa. Sulla scala della consapevolezza di

sé, gli umani erano di poco al di sopra degli insetti. Essi erano posseduti dalla fisicità

della propria corporeità, controllati dalla chimica del cervello, guidati dalle tempeste

ormonali, vittime delle circostanze legate alla loro nascita. Restavano abbagliati dagli

stimoli e funzionavano come macchine organiche, reagendo in modi semplici e

prevedibili. Che il loro cervello si fosse evoluto, sviluppando una certa capacità

razionale, era stato un incidente fortuito, un processo in fase iniziale, ancora in corso.

Ma l'incontro con la piccola e suo padre, il quale si era trasformato da un essere

violento a un difensore amorevole e compassionevole, lo aveva lasciato perplesso e

curioso.

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La compassione e l'empatia potevano essere raggiunte solo staccandosi dal

proprio io, un elemento chiave della vera capacità di sentire, ossia la percezione

dell'esistenza di una coscienza altra-da-sé. Un primo piccolo passo, ma forse quello

fondamentale. Dopo aver intravisto questo potenziale in un essere umano, doveva

approfondire. E la domanda successiva era: perché questa capacità diminuisce con l'età

negli esseri umani? Perché non matura di pari passo con l'individuo? È questa l'origine

del fallimento della specie nel raggiungimento della vera capacità di sentire?

Lassatar aveva affidato la questione ai suoi accoliti, mentre egli continuava a

studiare la natura dell'artefatto xel'naga. Aveva poche informazioni a riguardo, e la

riattivazione avrebbe potuto comportare dei rischi: non era un compito da prendere con

leggerezza.

Aveva chiesto ai suoi accoliti di considerare la natura dell'auto-consapevolezza e

della vera capacità di sentire. Considerate la questione della compassione, il

riconoscimento dell'esistenza dell'altro. Considerate la natura di questa consapevolezza in

funzione del tempo e di come la memoria crea la storia, la storia crea l'identità, l'identità

crea la necessità alla sopravvivenza.

Che tipo di coscienza si sviluppa, chiese ai suoi accoliti, se una specie si eleva? Non

aveva specificato a quale specie stesse facendo riferimento, ed era stato attento a

ricordare loro quali fossero i limiti della ricerca. Il lavoro del custode era proteggere,

non applicare. Sì, la ricerca era parte del lavoro, ma non lo era la sperimentazione

diretta.

Gli accoliti vollero discuterne con lui: davvero la sperimentazione non era parte

del processo di ricerca? Quella sarebbe stata una questione del tutto diversa, questione

che Lassatar non era ancora disposto ad affrontare. Necessitava di approfondimenti

maggiori di quanti lui potesse svolgere in quel momento, poiché l'artefatto xel'naga

richiedeva tutta la sua attenzione.

Così Lassatar aveva lasciato i suoi accoliti con l'unico compito di prendere in

considerazione in modo approfondito i dilemmi essenziali legati alla vera capacità di

sentire, certo che tale indagine li avrebbe tenuti occupati e fuori dai guai. Forse avrebbe

dovuto essere più preciso, nelle sue richieste.

Preso l'artefatto xel'naga, si era recato quindi su un asteroide lontano e arido, per

considerarne la storia e la natura con calma, pazienza e metodo, cercando di scoprire

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perché fosse stato deliberatamente nascosto dall'antica razza. Quando finalmente gli era

parso di aver capito, l'aveva riattivato.

E aveva scoperto...

E quello che aveva scoperto... lo aveva scosso.

Non per quello che era, ma per quello che avrebbe potuto essere. Non

semplicemente il potere che l'artefatto xel'naga scatenava, ma le implicazioni di quel

potere. Avrebbe potuto, dovuto, voluto rivelare le sue scoperte?

Non era una domanda cui sapeva rispondere da solo, ma nemmeno che voleva

condividere con tutti gli altri protoss. Era vittima di un enigma che avrebbe potuto

consumarlo. Così, non aveva visto altra soluzione se non l'esilio volontario.

Era rientrato dal ritiro sull'asteroide per informare i suoi accoliti e per dire loro

che avrebbero dovuto sciogliersi, ma aveva scoperto che erano scomparsi. In

quell'occasione, aveva deciso di attingere per la prima volta al potere dell'artefatto

xel'naga.

Lo aveva usato per seguire le loro tracce psioniche fino lì...

Ed era rimasto turbato da ciò che aveva trovato. Poi inorridito. Poi rattristato.

E se fosse stato capace di provare del panico, avrebbe provato anche quello.

I suoi accoliti avevano proseguito l'indagine di cui li aveva incaricati fino alla

follia: se era possibile modificare la struttura genetica di una specie tanto da cambiarne

il comportamento, avrebbero potuto loro modificare gli zerg in qualcosa di meno

pericoloso?

Su quel pianeta, separati dal corpo dei pensieri protoss, lontani dagli occhi delle

autorità, gli accoliti di Lassatar avevano tranquillamente e metodicamente condotto

esperimenti biologici sugli zerg. Avevano giustificato le loro azioni, dicendosi che

stavano semplicemente testando una teoria in modo da poter riferire sulla sua utilità.

Ma avevano anche peccato di presunzione: sapevano che la prova di un successo

avrebbe non solo alterato la discussione sugli zerg, ma ne avrebbe rivoluzionato l'intera

metodologia di contrasto. Spinti dall'ambizione, gli accoliti avevano creduto di poter

ascendere a livelli superiori.

Se solo fossero sopravvissuti.

La presenza dell'umano complicava ulteriormente la situazione.

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Gli accoliti di Lassatar avevano scelto quel pianeta per le stesse ragioni

dell'umano: era sufficientemente lontano dalle frontiere del settore Koprulu da rendere

estremamente improbabile la possibilità di un rilevamento. Ironico, quindi, che l'umano

avesse trovato le tracce dei loro esperimenti.

Doveva essere una casualità.

Se gli umani fossero stati interessati agli esperimenti degli accoliti su quel

pianeta, avrebbero mandato più di un solo esploratore.

Doveva essere solo una sfortunata casualità.

Lassatar non considerava quell'umano come una minaccia, quindi non vi era

alcuna necessità di agire contro di esso. Ma forse...

Il resto del pensiero rimase incompiuto. Il protoss non riusciva a vedere tutte le

possibilità della situazione. Non ancora. C'erano troppe incognite. E lui non aveva

ancora risolto il problema dell'artefatto xel'naga.

L'intero processo del pensiero, sia dal punto di vista del contenuto che del

contesto, si concluse in meno tempo di quello che gli ci era voluto per folgorare le

microspie. Così, quando l'uomo alzò la mano e disse: "Oh, ciao," Lassatar aveva già

deciso di lasciarlo vivere.

Come tutti i protoss, non amava distruggere la vita senza motivo. Era uno spreco.

Consentire all'umano di continuare a vivere gli avrebbe dato accesso a nuove

opportunità. Ucciderlo avrebbe azzerato tale opzione.

Quindi tornò nel buio, scomparendo dal campo visivo dell'umano.

#

"Ma che strano," disse Jake. Scosse la testa perplesso. Non sapendo cosa fare,

controllò gli schermi sulla visiera.

Tutte le luci erano verdi, ma c'era una piccola informazione in secondo piano.

Frequenze statiche. Rumore di fondo. Qualcosa. Forse solo una radiazione contestuale,

non si capiva. Aveva comunque visto di peggio. Avrebbe potuto essere anche il rumore

residuo del sistema stesso.

O forse no.

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Jake non era ancora entrato in sintonia con quel pianeta, non ci si era nemmeno

affezionato, quindi sarebbe potuto ripartire in qualsiasi momento. Forse avrebbe

dovuto farlo. Qualcosa aveva fatto a pezzi dei persecutori e degli immortali. E c'era una

sola specie in grado di attaccare un protoss, infliggendogli dei danni seri.

Se una qualsiasi di quelle creature fosse stata sul pianeta, doveva assolutamente

andarsene. Erano creature antitetiche a tutte le forme di vita, eccetto la propria.

A meno che... E se fossero stati lì, ma i protoss li avessero già annientati? No,

quella era una mera illusione. I frammenti dei detriti nella grande camera erano

evidentemente pezzi di armatura protoss. Jake non aveva visto altrettanti resti degli

attaccanti. Chiunque o qualunque cosa avesse fatto a pezzi i protoss, li aveva attaccati

senza preavviso, sopraffacendoli. C'erano graffi sulle pareti e sul pavimento della

camera, e su alcuni dei pezzi di metallo, ma non erano identificabili.

E del resto, che cosa aveva creato quella camera? Una specie di effetto

esplosione? Jake non ne aveva idea. Non era un esperto di tecnologia protoss. E l'altro

tizio? Il mistero s'infittiva.

No, aveva bisogno di concentrarsi sulla questione più immediata. Perché era

ancora vivo?

Ma se il protoss dall'aspetto sinistro non voleva ucciderlo, allora perché aveva

distrutto le microspie? Che tipo di minaccia rappresentavano? Il calore? Il rumore? Le

radiazioni? L'odore di carburante? I segnali radio? Quei dispositivi umojani erano più

piccoli di zanzare, il loro impatto sull'ambiente locale avrebbe dovuto essere

irrilevabile. O quanto meno irrilevante.

Avrebbe dovuto essere.

Che cosa gli stava sfuggendo?

Se le microspie erano in qualche modo rilevabili, allora improvvisamente il

motivo per cui il protoss le aveva distrutte era ovvio: voleva impedire che qualcos'altro

le rilevasse. Qualcosa di molto brutto.

"Merda."

Jake aggrottò la fronte e scosse la testa, considerando le opzioni a disposizione.

Aveva scelto quel sistema planetario perché voleva star solo. Quel pianeta era talmente

lontano dalla frontiera che sarebbe stato impensabile incontrarvi protoss o zerg.

Avrebbe dovuto essere un rifugio sicuro.

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"Ah!" esclamò. "Proprio impensabile." Aveva trovato un pianeta con entrambi.

Una parte di Jake voleva fuggire. Anzi, avrebbe avuto moltissime ragioni a

sostegno di questa decisione. Sarebbe dovuto tornare al suo Vulture, accenderlo,

correre verso l'ingresso del tunnel, fregarsene della super tempesta e partire verso la

nave coloniale alla prima occasione utile.

E se anche una prima occasione utile non fosse mai arrivata, sarebbe potuto

partire al primo graffiare di artigli nel buio. Sì, c'erano delle armi nel Vulture, ma dopo

aver visto ciò che gli zerg avevano fatto alla tecnologia di gran lunga superiore dei

protoss... a Jake una ripartenza rapida sembrò l'opzione più sicura e più pratica. Ma

tornare verso il Vulture avrebbe anche significato ritrovarsi da solo al buio, in uno stato

di terrore crescente. Il che non gli parve la soluzione migliore. La cosa paradossale della

codardia, capì Jake, era che richiedeva di adottare misure coraggiose per evitare

conseguenze terribili ancor più temute.

Invece di scappare, doveva avanzare, seguendo il misterioso protoss. Non sapeva

molto dei protoss, solo le cose più ovvie riportate dai giornali, ma in quello gli parve di

riconoscere un templare oscuro.

Nonostante alcuni episodi, gli esseri umani e i protoss non erano in guerra tra

loro; anzi, in alcune occasioni avevano anche collaborato. Per quanto ne sapesse Jake, il

loro rapporto era debole e incerto: né alleati né nemici, talvolta compagni di comodo. Si

chiese in quale delle tre categorie rientrasse quella circostanza.

Avanzò con attenzione attraverso la camera sferica che interrompeva il tubo di

lava. La cosa più probabile era che quello spazio fosse stato creato da una specie di

esplosione sferica. Grossi pezzi di roccia vulcanica pavimentavano le pietre sconnesse

su cui camminava, ma le pareti della grotta sembravano fuse. Qualunque cosa fosse

accaduta lì dentro, nulla era sopravvissuto, come dimostravano anche i pezzi di

tecnologia protoss. Se fossero stati sacrificati? O forse gli zerg avevano lanciato lì dentro

alcuni dei loro kamikaze biologici, i baneling? Gli insetti esplosivi, sì, probabilmente

erano stati proprio loro. La dimensione della camera dava a Jake un'idea chiara della

potenza dell'esplosione, così come il modo in cui le rocce erano state bruciate, quasi

sciolte, con i segni visibili delle piccole pozze di acido fumante qua e là. Non era mai una

buona idea sparare su un baneling, ma a volte, se non lo si faceva, le conseguenze

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potevano essere ben peggiori. Le possibilità di sopravvivenza in entrambi i casi erano

comunque piuttosto basse.

Dall'altra parte del raggio dell'esplosione, laddove il tubo di lava riprendeva a

srotolarsi, non c'era traccia del templare oscuro. Si era ritirato in profondità. Jake non

sentiva alcun suono di battaglia, quindi presuppose con sufficiente sicurezza di poter

procedere. Avrebbe voluto lanciare altre microspie, ma doveva esserci una ragione per

la loro distruzione, e non aveva intenzione di testarla ulteriormente.

Risalendo il tunnel, accompagnato solo dalla luce della torcia nel buio totale,

cominciò a sentire il peso della montagna intorno a sé. Le pareti sembravano più vicine

e più strette, in quel punto. Aveva sperato che il tubo di lava terminasse contro un muro

di roccia, ma evidentemente non sarebbe successo. Ci doveva essere molto altro, là in

cima.

E dov'era finito il templare oscuro? Quello era un altro mistero. Jake aveva

sentito dire che i templari oscuri potevano nascondersi come dei fantasmi e diventare

invisibili, lasciando nient'altro che un vago sentore di un tremolio nell'aria. Non sapeva

se fosse vero, ma se lo fosse stato, magari il protoss in quel momento era proprio dietro

di lui, e lui non lo sapeva. Non era un pensiero piacevole.

#

Lassatar aveva i propri problemi personali su cui riflettere.

Lo scopo principale della vita era sopravvivere. E la maggior parte delle creature

viventi sopravviveva a spese di altre forme di vita. Gli zerg erano le forme di vita più

dannose e affamate che i protoss avessero mai incontrato. Erano arrivati nel settore

Koprulu specificamente per distruggere i protoss. E ora, mentre lo Sciame continuava a

crescere in tutto il settore, la situazione stava giungendo a un punto di svolta.

Il pericolo era insito nel genoma zerg. Esso esisteva perché inglobava altre forme

di vita in se stesso, assimilando i loro punti di forza. La Regina delle Lame era stata

creata così, e il risultato era stata un'Unica Mente ancora più forte e pericolosa, un'entità

ormai riconosciuta come la minaccia più spaventosa della recente storia dei protoss.

Il controllo pervasivo della Regina delle Lame s'insinuava in tutte le infestazioni

zerg, quindi isolare e studiare la biologia di una forma zerg diventava pericoloso, perché

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qualsiasi tentativo di studiare gli zerg l'avrebbe messa in allarme. Lei a volte

manipolava e a volte ostacolava gli esperimenti, cercando di corrompere gli scienziati

stessi.

Ed evidentemente, la distanza non era un limite per lei.

Quella colonia... doveva essere eliminata.

Ma lì stava accadendo qualcosa di strano. I suoi accoliti avevano realizzato

qualcosa. Lassatar doveva scoprire la verità, perché da qualche altra parte la Regina

delle Lame stava certamente valutando le stesse possibilità.

Esplorando le gallerie e le grotte all'interno del vulcano, Lassatar aveva trovato i

resti dei meccanismi di controllo e di difesa dei suoi accoliti: erano stati travolti dalla

ferocia del loro stesso esperimento.

Le prove suggerivano che fossero stati sorpresi da un gruppo di baneling. Dei

baneling da soli non sarebbero stati in grado di distruggere le sue macchine all'aperto,

ma nello spazio chiuso all'interno della montagna, con l'esplosione contenuta e con la

conseguente caduta di rocce su persecutori e immortali, gli insetti esplosivi avevano

avuto la meglio.

Bisognava distruggere la colonia prima che cominciasse a metastatizzare, ma

Lassatar esitava. Prima aveva bisogno di sapere quello che i suoi accoliti avevano fatto

al genoma zerg. Nonostante il pericolo che la colonia potesse crescere e diffondersi

mentre lui rimandava, era di fondamentale importanza capire la natura profonda di

queste nuove creature e quale minaccia rappresentassero.

Poiché la colonia ancora non mostrava segni di espansione, cosa già di per sé

strana, Lassatar suppose di avere ancora del tempo per osservare. E comunque, non

aveva ancora deciso quale sarebbe stato il metodo più efficace per eliminarli. Forse

avrebbe potuto utilizzare il potere dell'artefatto xel'naga, ma lo temeva più di quanto

temesse la minaccia dell'alveare.

Naturalmente aveva anche altre tecnologie a sua disposizione, ma nulla di

sufficiente. Quindi, avrebbe dovuto far leva su forze più grandi, sfruttando la situazione:

se in qualche modo fosse riuscito a risvegliare il vulcano, innescando una forte

esplosione, tutto il cono vulcanico sarebbe crollato sul nido, risolvendo in modo radicale

il problema.

L'arrivo dell'umano era una questione secondaria.

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#

Jake continuò a risalire lungo il tubo di lava, lentamente e con metodo. Se non

avesse raggiunto la cima entro trenta minuti, sarebbe tornato indietro verso il basso. Se

la tempesta si fosse calmata, se ne sarebbe andato. Non solo dal vulcano o dall'isola, ma

dall'intero pianeta.

Si fermò. Ascoltò. Niente. Sentiva solo il proprio respiro, il battito del proprio

cuore. Si immaginava di sentire addirittura il sangue scorrergli veloce nelle vene.

Nient'altro. Si sentiva solo come un essere umano poteva sentirsi solo.

E poi... il suo piede sfiorò qualcosa. Qualcosa che non era una roccia.

Jake abbassò lo sguardo.

"Oh, mer... biostrato."

Non molto, solo un piccolo frammento, ma sufficiente a riconoscere la fetida

biomassa che nutriva gli zerg e avvelenava tutto il resto. All'interno, una rete di

connessioni neurali che avrebbe potuto raggiungere qualsiasi entità pensante. O forse

anche una vasta rete psionica, per quanto ne sapesse lui. Quello che Jake sapeva per

certo era che, avendo anche solo sfiorato il biostrato con la punta del piede, aveva

appena annunciato la sua presenza a tutti gli zerg. A tutti: vicini, lontani, ovunque.

Allora decise.

Ritirarsi. Quella era l'unica opzione.

Il più velocemente possibile. Forse sarebbe sopravvissuto.

Non aveva ancora finito di formulare il pensiero che già si stava muovendo. Fece

un balzo indietro, si voltò e cominciò a correre, inciampando lungo il tubo di lava. I passi

frettolosi erano irregolari, e lui scivolava e slittava sulla superficie lucida d'ossidiana.

Il fascio di luce della torcia si muoveva in modo selvaggio. Il cuore, carico di

adrenalina, batteva all'impazzata. A un certo punto cadde, scivolando lungo un tratto

particolarmente ripido, girando su se stesso come una trottola mentre cercava

inutilmente di riprendere il controllo, finendo anche a testa in giù per un momento. Poi

sbatté contro una parete e si aggrappò al tubo di lava per fermare la caduta.

Senza fiato, ormai in preda al panico, riuscì comunque a riaversi. Si girò sulla

pancia, piegò le ginocchia, si alzò in piedi, si voltò verso la discesa e riprese a correre.

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Si disse che ce l'avrebbe fatta. Ce la posso fare, ce la posso fare era il mantra che si

ripeteva nella testa.

E poi arrivò alla camera delle macerie e "Oh, merda!" avrebbe dovuto fare molta

attenzione, lì, o qualsiasi vantaggio iniziale avesse avuto, sarebbe svanito in un attimo.

Non si fermò a pensarci, ma saltò giù sulla roccia lavica e continuò a correre.

Afferrò una gamba rotta di un persecutore e si sollevò sulla roccia successiva, poi saltò

su un'altra, prendendo a calci un pezzo del guscio d'oro di un immortale, e si arrampicò

sul masso successivo. Era a metà strada quando sentì i primi rumori: un ronzio tagliente

di artigli sulla roccia, qualcosa che graffiava e raspava lungo un tubo di vetro. Moltissimi

qualcosa, che echeggiavano. Jake non aveva abbastanza esperienza per sapere che cosa

stesse ticchettando dietro le sue spalle. Sapeva solo che erano pessime notizie. Gli

schermi sulla visiera mostrarono un numero crescente di puntini rossi a ore sei.

Di fronte, l'ultima salita per raggiungere la metà inferiore del tubo di lava. Non ce

l'avrebbe fatta. Si voltò verso l'ingresso della parte superiore del tubo e preparò il fucile,

impostando una zona bersaglio poco più larga dell'apertura. Se le munizioni fossero

bastate, se loro non fossero stati troppi, se fosse riuscito a cacciarli indietro anche solo

per un istante, se avesse detto le giuste preghiere il diciassettesimo giovedì di ogni anno

bisestile con la luna piena allo zenit, e se avesse sacrificato una capra a mezzanotte...

allora forse avrebbe potuto raggiungere la metà inferiore del tubo di lava. E il suo

Vulture. Che la tempesta andasse al diavolo! Avrebbe preferito essere sballottato da

venti a 300 chilometri all'ora piuttosto che fatto a pezzi da insetti grandi come cani lupo.

I primi tre zergling sbucarono dal tunnel sopra di lui quasi prima che fosse

pronto. Si salvò solo perché fece fuoco a caso, senza mirare. Le creature schivarono a

destra, spostandosi dalla linea di fuoco, ma non fu sufficiente. Jake aveva lanciato la sua

prima bomba incendiaria e quegli insetti furono scaraventati in aria, in fiori scarlatti di

fuoco, con un rumore assordante. La camera rimbombò contro di lui e contro gli

zergling, cogliendo tutti di sorpresa. Pezzetti di cose schizzarono in tutte le direzioni,

mentre una nuvola di polvere ardente riempiva il buio.

Che fortuna!

Jake si preparò per l'attacco successivo. Questa volta puntò l'AGR-14

direttamente nel tubo, facendo attenzione a sparare un proiettile dopo l'altro a intervalli

regolari, verificando continuamente la quantità di munizioni rimanenti sugli schermi

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della visiera. Per il momento andava tutto bene, gli restavano due cartucciere di

munizioni. Quanti zergling poteva uccidere? I colpi sarebbero bastati? Oppure alla fine

sarebbe stato sopraffatto?

Altri tre! Sei! Strillavano con suoni sgraziati, raschiando e raspando con gli artigli

contro la roccia vetrosa. Un'altra granata! Schizzarono via in schegge infuocate. Il suono

delle esplosioni era terribilmente forte, il fuoco tanto luminoso da abbagliare

nell'oscurità più totale della camera. La polvere di roccia s'inspessiva e s'illuminava di

scintille.

Evidentemente, tutte quelle ore nei simulatori non erano state sprecate. Aveva

giocato da solo, insieme o contro il computer a squadre. L'aveva fatto per il gusto

dell'avventura, non certo pensando che un giorno avrebbe dovuto affrontare degli

zergling reali... ed ecco che ne arrivavano altri! Troppi! Urlanti come incubi!

Jake perse il conto. Sparò alla cieca nel mucchio, facendo esplodere l'ultima

creatura a solo mezzo metro di distanza. Non sarebbe sopravvissuto a un altro assalto.

Avrebbe avuto il tempo di arrampicarsi fino all'ingresso del tubo? Alzò gli occhi e

guardò dietro... e la successiva ondata di zergling quasi lo colse di sorpresa. No, non

l'avrebbe avuto quel tempo. Altri tre, quattro, sei. Un'altra granata incendiaria. Li

devastò in fretta e furia. In quel modo riusciva a bloccarli, ma era ormai a corto di

munizioni. Non sarebbe andata a finire bene. Ora sentiva l'odore, sentiva la puzza del

fuoco e qualcosa di peggio, il tanfo fetido di mostri carbonizzati che bruciavano, la puzza

di tutti gli odori della biologia aliena sovrapposti alla morte e al bruciato e ad altre cose

che non riusciva a identificare. Ed era sempre più difficile vedere attraverso la polvere

che si era sollevata.

Jake ebbe un'idea, un'ultima disperata idea. Forse avrebbe potuto bloccare

l'ingresso della metà superiore del tubo di lava. Poteva farlo crollare senza provocare

una pioggia di massi sulla propria testa? Aveva ancora tre granate a disposizione.

Sarebbero bastate? C'era solo un modo per scoprirlo. Aveva bisogno solo di un paio di

secondi...

Sedici zergling dopo, il rumore degli spari stava ancora echeggiando su e giù per

il tubo di lava, e pezzi di carne puzzolenti e fumanti ancora schizzavano e bruciavano

contro le pareti. Si rese conto che non avrebbe mai avuto quel paio di secondi.

"Merda!" disse per l'ennesima volta.

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Ma poi fece qualcosa di diverso.

Puntò in profondità nel tunnel e sparò una raffica di fuoco. I traccianti lasciarono

scie di luce rosse e gialle nell'oscurità. Grida lontane cominciarono ad avvicinarsi.

Nuvole di polvere e piccole valanghe di ciottoli e parti di zergling si riversarono fuori dal

tunnel.

Ecco, ora aveva finalmente quei due secondi. Dovette alzare il coperchio di

protezione per raggiungere l'interruttore, armare le bombe... ma perché tutti quegli

aggeggi? Perché non aveva installato un semplice pulsante? Ah sì, la sicurezza. Avrebbe

dovuto rivalutare tale decisione, un giorno magari, non in quel momento. Alla fine, ecco

fatto! E giusto in tempo! Puntò al tunnel, al tetto del tunnel, e le lanciò. Una, due.

Le granate volarono verso il tunnel, scomparendo nel buio, stridendo con i loro

ultrasuoni, e poi...

L'esplosione rimbalzò all'indietro, un vero e proprio muro di rumore che sbatté

Jake contro la parete della camera. Una breve scossa, poi un rombo, come un tremolio

profondo, e infine i primi massi cominciarono a scorrere fuori dal tubo di lava, una

piccola valanga di macerie. Abbastanza per seppellire gli ultimi pochi pezzi degli

immortali e dei persecutori, abbastanza per sollevare il pavimento della camera,

abbastanza per far schioccare le orecchie di Jake a causa della variazione di pressione.

"Avrei dovuto pensarci prima." E annuì, soddisfatto. Fece un respiro profondo,

poi un secondo e un terzo. Stupito di essere ancora vivo, e ancor di più della propria

presenza di spirito, ansimò ad alta voce, ancora sotto shock per la battaglia. C'era

qualcosa in quegli zergling... Non assomigliavano a quelli del simulatore, erano diversi.

Jake scosse la testa: avrebbe lasciato che fosse il computer a pensarci. Ascoltò il cuore

che gli batteva forte nel petto e pensò, dovrei fermarmi un minuto, ho bisogno di

riposare...

Si guardò intorno nella stanza, vide la polvere che mulinava, le scintille, i resti

biologici sparsi ovunque. Non riusciva a pensare agli zergling come animali, fatti di

carne e sangue, o come insetti. Erano solo disgustose cose dall'odore nauseante. Si sentì

triste. L'universo avrebbe dovuto essere un luogo di meraviglie spettacolari, mentre

quello era... un inferno. Con tanto di fuoco sottostante ed eterna dannazione.

Jake si sorprese dei propri pensieri. "Va bene, basta. Basta con questa angoscia. È

ora di portare il mio culone fuori di qui." Si girò verso il pendio irregolare di roccia che

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lo separava dalla metà inferiore del tubo di lava e cominciò a salire. Era a metà quando

sentì di nuovo i rumori.

"Oh, merda. Dai! Datemi tregua!" Lo gridò a nessuno in particolare, ma a tutto

l'universo. Al destino, al fato, a qualunque cosa ci fosse. "Basta con questi cazzo di

scherzi perversi."

Si arrampicò fino alla successiva sporgenza rocciosa, a soli due metri dal suo

obiettivo, poi si voltò verso il lato opposto della camera.

"Oh, merda..."

L'intero muro stava tremando. Qualcosa di grosso, molto grosso, stava scavando

nella terra dall'altra parte della stanza. Riusciva a sentire il suono degli artigli che

graffiavano le rocce. Era davvero qualcosa di diverso.

Gli schermi mostravano una zona di disturbo più ampia dell'area bersaglio di

qualsiasi arma lui avesse. Traduzione: "Qualunque cosa sia, sei in minoranza."

"Non è affatto divertente," gridò Jake contro l'universo. "So che cos'è divertente.

E questo non lo è."

Eppure, regolò l'area bersaglio della sua arma in un cerchio molto ristretto di

fuoco. Forse poteva ferire quella dannata cosa. O forse aveva un punto vulnerabile...

poteva sperarlo, anche se era una possibilità piuttosto remota, e magari anche riuscire a

trovarlo, no? Avrebbe anche potuto ucciderlo.

La parete di fronte tremava, nuvole di polvere si levavano dalla sua superficie,

piccole rocce cadevano dalle crepe che andavano aprendosi, e le più grandi rotolavano

giù, rimbombando. Jake si appoggiò al muro scuro dietro di sé, ancorando la propria

posizione nella maniera più salda possibile. Avrebbe avuto una sola occasione di

sparare. Tenne la luce puntata al centro.

Una lama scura simile a un machete gigante sbucò fuori dal muro di fronte,

oscillando. Poi un'altra, che si mise a oscillare dall'altra parte. Le rocce scomparvero,

svanendo nel buio. Quella cosa era enorme! Troppo grande per essere vera! Che diavolo

era?

Dove sparare? Alla bocca? Agli occhi? La cosa dondolava la testa avanti e

indietro, oscillando due enormi artigli a falce. Se anche avesse avuto una bocca, lui non

riusciva a vederla. Forse poteva spararle sulle ginocchia, per farla cadere in avanti e

verso il basso? Oh, al diavolo, spara e basta...

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Ma prima che potesse premere il grilletto, qualcosa esplose dietro i suoi occhi,

tra le orecchie, dentro la sua testa: la risacca di un'esplosione psionica, accecante,

assordante, bruciante, urlò dentro di lui in mille colori e forme e odori e suoni e un

fuoco ardente ma freddo lampeggiò all'esterno... bello e doloroso e magnifico e orribile,

tutto allo stesso tempo.

In piedi di fronte a lui, il templare oscuro, con le braccia tese, lanciava dardi di

fuoco dalle mani aperte e tremolanti, come fulmini attraverso la camera, echeggiando e

stridendo, riuscendo a bruciare e carbonizzare la bestia. La creatura si contorse in

un'agonia orribile.

Jake guardava, stupito.

Alla fine, l'essere inciampò in avanti e cadde sulle rocce sottostanti, con un

rumore sordo, una valanga di carne abbrustolita. Il fetore opprimente risalì e appestò

l'aria. Sarebbe stata un'ultralisca... se non fosse mutata in qualcosa di ancora più grande

e più feroce.

"Porca merda," disse Jake. "Porca, porca merda."

Il protoss rimase immobile di fronte alla cosa gigantesca ormai morta,

guardandola collassare su se stessa. Fiaccole di fulmini blu danzavano sulla sua schiena,

poi scomparvero, lasciando solo fumo e polvere e macerie. Alcuni ciottoli continuavano

a cadere a tratti dal soffitto della camera. Jake alzò lo sguardo, illuminando con la torcia

per sondare un possibile crollo.

Ma no, la camera aveva retto.

Jake si riprese. Gli faceva male la testa, anzi tutto il corpo gli faceva male. Si

sentiva scosso e sconvolto a causa dell'esplosione psionica.

"Porca, porca, porca...," prese fiato e alla fine disse: "..merda. Devo essere il primo

umano a vedere una cosa del genere. O almeno, il primo umano a sopravvivere dopo

averla vista. Dev'essere una di quelle cose psioniche che i protoss sanno fare. Solo... un

po' diversa."

Si chiese se avesse acquisito ancora più sensibilità al rumore psionico di quanta

già non ne avesse. Non lo sperava davvero. O forse era stato fortunato, e la vicinanza con

l'esplosione aveva sovraccaricato e bruciato un po' della sensibilità psionica che aveva

già. Molti umani avevano lampi di quell'abilità, ma pochi avevano le capacità per essere

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addestrati come fantasmi. E Jake ora era contento di non essere uno di loro. Si sentiva

svuotato, semplicemente a stare lì in piedi.

"Va bene, Jake," si disse. "È ora di uscire di qui." Si girò verso il protoss, fece un

gesto di saluto e...

...sollevò in tutta fretta il braccio e sparò! Lanciò una granata all'ondata di esseri

che stavano uscendo dalla parete di fronte, prendendola proprio nel mezzo. La sua

ultima granata innescò una piccola valanga, e la parete rocciosa crollò su se stessa,

seppellendo tutti gli zergling ancora ronzanti sotto uno spesso strato di roccia e di

polvere e di braci ardenti.

Perché il protoss non li aveva visti e inceneriti? Aveva forse bisogno di un certo

tempo di recupero? Doveva ricaricarsi? Se era così, allora le armi psioniche non erano

quella gran meraviglia che tutti credevano. Interessante. Non che Jake avesse qualcuno

cui raccontarlo.

Il templare oscuro si rivolse verso Jake e sollevò una mano per ringraziarlo o per

salutarlo, Jake non capì. Ma capì abbastanza bene il significato profondo di tutto quanto:

era ora di uscire di lì, di andarsene! Il templare oscuro svanì e Jake si arrampicò sulle

ultime rocce per raggiungere la metà inferiore del tubo di lava. Arrivò fino al Vulture, si

lanciò sul sedile, abbassò il tettuccio in posizione e cominciò a tornare indietro verso

l'ingresso del tubo.

Fuori, la tempesta ruggiva ancora, ma gli schermi di Jake mostravano che erano

solo gli ultimi strascichi. Il centro della tempesta era molto più a nord. La super

tempesta aveva solo spazzolato l'isola, non l'aveva travolta. I venti erano ancora forti,

più forti di quanto Jake avrebbe voluto, ma il Vulture confermò di essere in grado di

tornare al campo base. Jake non si fidava tantissimo, ma comunque abbastanza per

acconsentire, e partì.

Durante tutto il viaggio di ritorno, i suoi pensieri si accavallarono uno sopra

l'altro. Opportunità, circostanze, situazioni, scelte, difficoltà, decisioni: caricare tutto e

partire sembrava l'idea migliore. Ma qualcosa lo tratteneva. Quel protoss gli aveva

salvato la vita. Non aveva avuto alcuna ragione per farlo, almeno nessuna che Jake

riuscisse a immaginare.

Ma anche Jake aveva salvato la vita al templare oscuro. Quindi il debito era stato

ripagato.

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O no?

Perché il templare oscuro si era mostrato proprio in quel momento? Perché

aveva distrutto quella... quella bizzarra ultralisca mutata?

Perché il protoss non era rimasto nascosto?

Jake correva nella notte scura, gridando nella sua mente per la frustrazione.

Merda! Vuole qualcosa da me! E quando raggiunse il campo base, capì anche che cosa.

#

Lassatar rimase immobile per un istante, immobilizzato da quello che aveva

fatto. Prosciugato. Vuoto. Vulnerabile.

Aveva usato il potere dell'artefatto xel'naga. O forse l'artefatto xel'naga aveva

usato lui: non ne era certo.

Ma ora capiva.

L'artefatto xel’naga è una lente psionica. E qualcosa di più, qualcosa di

terrificante. Proprio come una lente, l'artefatto xel'naga amplificava e concentrava i

poteri psionici di chi lo usava. Ma anche di più: l'artefatto si legava al suo utilizzatore in

modo che, anche se egli non avesse avuto poteri propri, avrebbe avuto il potere psionico

dell'artefatto xel'naga a propria disposizione.

Nel momento dell'attacco, Lassatar aveva potuto attingere al potere psionico di

un arconte, forse addirittura di più. L'artefatto xel'naga sfruttava enormi campi di

energia per controllare i quali era necessaria tutta la presenza dell'utilizzatore.

L'artefatto aveva risucchiato via tutta la forza e l'energia di Lassatar, e le aveva usate

per modificare le sue abilità psichiche, la sua capacità di concentrazione, la sua mira,

permettendogli di scatenare sugli zerg una vera e propria tempesta psionica.

Che cosa sarebbe successo, se l'artefatto fosse finito nelle mani di qualcuno in

grado di gestire poteri psionici ancora maggiori, come un arconte magari?

E poi, la scoperta che vasti campi psionici potevano essere controllati,

concentrati e poi scatenati, anche da chi non aveva poteri psionici propri... che cosa

avrebbe implicato per i protoss come razza?

Come custode dei misteri del passato, Lassatar doveva chiedere a se stesso: da

chi stava proteggendo quella reliquia? E chi doveva essere protetto dalla reliquia stessa?

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Non trovò risposta a quelle domande, non in quel luogo e in quel momento.

Era prima necessario risolvere la situazione. E l'artefatto xel'naga era parte della

questione. L'antica reliquia amplificava non solo il potere di agire, ma anche il potere di

vedere.

La sua comprensione di quell'impossibile colonia zerg si era espansa

all'improvviso, con un impatto inquietante. Ciò che non era stato evidente nelle forme di

vita più piccole, come i baneling e gli zergling, era diventato spaventosamente evidente

nella gigantesca ultralisca mutata che era scesa lungo il tunnel.

I suoi accoliti avevano creato degli zerg con delle identità.

In quel momento Lassatar capì ciò che i suoi accoliti avevano fatto. E perché.

C'era un modo per sovvertire la Regina delle Lame? Lo stavano verificando in quella

loro sorta di laboratorio. Avevano isolato psionicamente la montagna, così che la Regina

delle Lame non venisse a conoscenza di quella colonia e la colonia stessa non sapesse

che c'erano altri zerg là fuori. Avevano creato una colonia di zerg soli e terrorizzati. Il

campo d'isolamento teneva le loro menti intrappolate in un incubo agorafobico.

Ecco perché avevano fallito. La paura era un errore.

Quando le singole creature sviluppano un'identità, sviluppano anche il bisogno di

far perdurare tale identità, quindi l'istinto di sopravvivenza. Maggiore è la percezione

dell'individualità, maggiore è l'imperativo per la sopravvivenza. Maggiore è l'istinto di

sopravvivenza individuale, minore è il controllo che la Regina delle Lame avrebbe

potuto esercitare sui singoli elementi del suo dominio.

In quell'esperimento, isolando la colonia, gli accoliti avevano cambiato

l'equilibrio interno della specie in modo radicale. Qualsiasi altra cosa stessero cercando

di fare, c'erano già riusciti... e avevano già fallito.

Gli zerg non si erano arresi. Anche nella sconfitta, avevano fatto pagare ai loro

nemici con il sangue ogni tentativo di avanzamento. Ma se e quando i singoli membri di

un alveare avessero capito che non avevano alcuna possibilità di sopravvivere a un

attacco, avrebbero dovuto riconoscere la fine della loro identità. Così, con gli zerg

separati in individui singoli, con ogni singola creatura zerg che sperimentava la propria

specifica autoconsapevolezza, la colonia si sarebbe infranta. Le diverse individualità

zerg avrebbero saputo riconoscere la propria imminente distruzione? Avrebbero

esitato? Sarebbero state prese dal panico? Sarebbero fuggite?

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Sembravano conclusioni logiche.

Ma gli accoliti mancavano dell'esperienza necessaria per vedere che quelle

premesse erano troppo semplicistiche. Avevano presunto che la creazione delle singole

identità all'interno degli zerg li avrebbe infettati con la vigliaccheria.

Un errore comprensibile.

Un errore facile da fare, pensando in maniera superficiale, ed evidente solo a

posteriori. Gli accoliti di Lassatar, i progettisti di quell'orrore, erano morti per la propria

presunzione.

Non avevano pensato a tutti gli aspetti della questione in maniera

sufficientemente approfondita. Le emozioni sono di natura biologica, sono una reazione

viscerale a processi intellettuali. La paura deriva dalla percezione del pericolo. Alcune

paure si basano sulle circostanze presenti, altre paure hanno basi meno solide, perché

sono costituite da considerazioni emotive di possibilità ancora in fase di formazione.

L'estremità inferiore dello spettro emotivo, costituito dalla sofferenza, dalla

paura e dall'ostilità, comprende una vasta trama d'attività interconnesse. L'estremità

superiore dello spettro, costituito dalla felicità, ha una gamma molto più ristretta. Gli

accoliti non avevano considerato il fatto che gli zerg fossero in grado di sperimentare

anche delle sensazioni positive. Irrazionali come degli insetti, gli zerg non avrebbero

avuto alcun bisogno evolutivo della felicità. E così gli accoliti di Lassatar non avevano

preso in considerazione questa possibilità, nel formulare le loro ipotesi.

Lassatar avrebbe potuto avvertirli. L'aveva già visto accadere negli umani che

aveva incontrato: poiché la felicità era un bene tanto raro nella loro esistenza, diventava

estremamente preziosa. Così la cercavano in ogni modo possibile.

L'aveva visto anche mentre cercava l'artefatto xel'naga, quando aveva incontrato

la bambina e l'umano mietitore. La bambina aveva trovato la felicità nella famiglia,

mentre l'unica felicità che il mietitore aveva conosciuto derivava dalla morte dei suoi

nemici, ed era l'unica felicità che potesse capire.

Quegli zerg non sapevano come ricevere felicità dal concetto di famiglia, ma

avevano imparato a ricavarla dai combattimenti. Avrebbero provato felicità

nell'attaccare ma anche nel morire dopo essere stati attaccati. Ciò li avrebbe resi ancora

più feroci e pericolosi, in modi mai visti prima. Quali altre conseguenze indesiderate

c'erano ancora da scoprire?

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Per un istante, Lassatar pensò alla possibilità che gli esperimenti avessero avuto

successo in direzioni che lui non aveva ancora preso in considerazione. Forse la natura

dell'identità era tale che il suo ulteriore sviluppo avrebbe potuto innescare degli scismi

all'interno dello Sciame zerg, simili alla guerra civile che era scoppiata quando la Regina

delle Lame aveva sfidato i cerebrati. Ma la Regina delle Lame li aveva sconfitti e gli zerg

erano diventati una minaccia ancora più grande. E se queste novità avessero sopraffatto

la Regina delle Lame e gli zerg fossero diventati ancora più letali?

Lassatar non poteva correre il rischio di scoprirlo. Non poteva lasciare che quella

colonia crescesse. Se quelle creature avessero raggiunto la massa critica, sarebbero

fuoriuscite dai limiti dell'isolamento psionico della montagna. E se fosse accaduto,

avrebbero invaso quel pianeta e...

Lassatar però dovette ammettere a se stesso che non aveva i mezzi per

distruggere quell'alveare.

Ma l'umano sì. Lassatar avrebbe potuto usarlo.

Molti umani avevano una forma primitiva di capacità psichica, una qualità

istintuale a livello animale che percepiva sentimenti altrimenti inspiegabili: intuizioni,

presentimenti e coincidenze apparentemente non casuali. Alcuni umani, per quanto rari,

avevano abilità più potenti, che riuscivano a riconoscere, controllare e addestrare. Gli

umani avevano anche istituito un'accademia specifica per la formazione dei loro

guerrieri psionici, chiamati fantasmi.

Quell'umano aveva la capacità psionica rudimentale tipica della maggior parte

della sua specie. Ma proprio come l'artefatto xel'naga aveva temporaneamente reso

possibili a Lassatar i poteri di un arconte, così il dispositivo avrebbe risvegliato e

ampliato il potenziale psionico di quell'umano.

L'umano non sarebbe stato in grado di utilizzare l'energia psionica per

comunicare, ma l'avrebbe sentita, e sarebbe bastato.

Era stato semplice per Lassatar sovrapporre l'esplosione psionica provocata

dall'artefatto xel'naga all'immagine del vulcano in eruzione. Gli zerg l'avrebbero temuta,

l'umano l'avrebbe percepita in un altro modo.

#

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Jake non sapeva come, ma adesso sapeva.

Come se avesse esplorato ogni metro della montagna, sapeva la posizione di ogni

tubo e ogni tunnel e ogni grotta. Come se si fosse collegato direttamente al biostrato

psionico, conosceva l'estensione di ogni suo elemento. Come se fosse diventato una

sorta di computer biologico e organico, sapeva esattamente che cosa serviva per

riattivare il vulcano e distruggere l'alveare. Come se fosse improvvisamente uscito dalla

sua vita e si stesse guardando dall'alto, come una sorta di semidio, sapeva esattamente

che cosa fosse successo.

"Accidenti a quel protoss!" disse. "Spilungone invadente tutto oro e pensieri!"

Sbatté un pugno sui controlli del Vulture, mentre scivolava verso l'hangar della navetta.

"Be', io non sono obbligato a..." Ma ancor prima di terminare il pensiero, sapeva già che

era sbagliato.

"Merda," disse.

Qualsiasi pensiero o emozione o immagine il suo cervello elaborasse,

l'imperativo era troppo forte. Doveva farlo. E lui lo sapeva. Non in quanto conoscenza,

ma in quanto parte del suo modo di essere. Era come se fosse diventato completamente

un altro tipo di persona. Non poteva lasciare quel pianeta prima di aver distrutto gli

zerg... o essere morto nel tentativo di farlo.

"Tutto quello che volevo era un po' di tranquillità!" gridò al cielo, agli ultimi

brandelli della tempesta. "È chiedere troppo?" Alzò entrambe le braccia, agitando i

pugni. "Protoss! Super temporali! Zerg giganteschi! Vulcani infestati! Va bene, ho capito!

I nodi karmici vengono sempre al pettine... Ma così non è un po' troppo?!?"

In risposta, un fulmine crepitò rumorosamente sopra la sua testa. Così vicino da

farlo barcollare e quasi cadere a terra.

"Va bene, va bene, ho capito," disse Jake, rialzandosi. "Me ne sto zitto."

All'interno della navetta, la sua base operativa, accese lo schermo principale e

stabilì un collegamento con la nave coloniale. Ci sarebbe voluto un po' di tempo, c'erano

diverse cose da calcolare. Prima di tutto, la quantità sufficiente e la posizione più adatta

per ottenere l'effetto migliore. La nave coloniale era dotata di tutto il necessario per

aprire una colonia mineraria autosufficiente, comprese alcune macchine molto potenti e

degli esplosivi ad alto potenziale. Non abbastanza, ma pur sempre un buon inizio.

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Jake aveva svolto una buona indagine geologica con le sonde, ma nulla in

confronto alla super-conoscenza regalatagli dal protoss.

La super tempesta aveva indebolito il lato sopravento del cono del vulcano e il

monte tremava un po' di più a ogni scossa. Parti del cono erano fragili. Lì, lì e lì, proprio

al di sopra della linea degli alberi sul lato nord-ovest, c'erano sette tubi di lava, ognuno

rivolto verso il cuore addormentato del vulcano. Avrebbe potuto far cadere delle casse

di forniture minerarie dalla nave coloniale e poi inviare le sonde cariche di quegli

esplosivi. Se fosse riuscito a far crollare contemporaneamente tutti i tubi di lava, quel

lato della montagna sarebbe collassato e avrebbe innescato la caldera.

Jake simulò alcuni scenari. Qualcuno sembrava funzionare, ma non bene come lui

avrebbe voluto. Si concentrò di più. Cominciò a vedere la portata del problema. Stava

cercando di far saltare in aria una montagna. La montagna voleva saltare in aria, ma non

era pronta a farlo. Doveva renderla pronta. E ciò avrebbe richiesto parecchia energia.

Quella era la parte che non gli piaceva. "Accidenti al protoss! Accidenti ai suoi

occhi! "Jake ringhiò. "E poi che diritto ha di mettere della roba nella mia testa? Io non ho

messo niente nella sua, l'unica cosa che ho fatto è stato dire ciao! Che cos'è, un invito a

stuprarmi il cervello?!?"

D'altra parte, dovette ammettere, era divertente cercare dei metodi per uccidere

gli zerg. Lo rendeva felice. Ogni volta che una simulazione faceva crollare il vulcano, si

metteva a ridere ad alta voce. "Ah! Se ci riuscissi davvero, me la farei addosso dal

ridere!"

"Va bene," disse a se stesso. "Vediamo che botta potrei dargli!" Le sue mani si

mossero sullo schermo, le dita danzarono sulla tastiera, impartendo comandi in modo

quasi frenetico. "Non ho mai fatto l'amore con un vulcano prima: questi sono solo i

preliminari. Ma quando avrò finito, si godrà la miglior botta che avrebbe mai potuto

avere!"

Jake era ben consapevole di essere posseduto, soggiogato dalla mente di un'altra

entità, ma non aveva scelta a riguardo. E più lavorava, più sentimenti di soddisfazione,

di piacere e anche d'estasi lo riempivano. Anche se avesse potuto fermarsi, non

l'avrebbe più voluto; si stava divertendo troppo.

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Il problema era che qualunque tecnologia impiegasse, gli zerg l'avrebbero

individuata e distrutta. Quindi, doveva considerare anche quell'aspetto: pianificare un

assalto che includesse più risorse di quante loro avrebbero potuto trovare in tempo.

Mmm...

Giusto.

Esche. Avrebbe dovuto piazzare delle esche per distrarre gli zerg. Lui li voleva

tutti il più vicino possibile all'area bersaglio, ma lontani dai meccanismi d'innesco.

Certo. Quindi, esaminò le risorse un'altra volta e studiò come applicarle. Generò

altre simulazioni, altri possibili scenari. Avrebbe potuto fare dei danni seri al Monte

Koala, come aveva iniziato a chiamare la montagna, ma solo il 54% delle simulazioni

faceva scattare il tipo di esplosione che stava cercando. Non era sufficiente. Aveva

bisogno di cancellare l'intera isola, completamente.

Se un angolo dell'isola si fosse salvato, se anche un solo seme della biologia zerg

fosse sopravvissuto... l'intero sforzo sarebbe stato vano.

Simulò altri scenari, sentendosi allo stesso tempo frustrato ed entusiasta. Era un

lavoro appassionante. Ogni prova lo portava più vicino alla soluzione, ma la lentezza lo

infastidiva, perché sfidava l'imperativo pressante e lo faceva spazientire. "Dannazione,

signor templare oscuro," disse Jake al protoss invisibile. "Se mi hai voluto dare il

problema, perché non mi dai anche la soluzione?"

C'era un modo per farlo. Nella sua mente, Jake la chiamò Operazione

Annientamento. Avrebbe funzionato, ma gli sarebbe costata più dei suoi mezzi. La nave

coloniale aveva nove capsule da carico piene di casse di esplosivi accuratamente

imballate, così come dei robot scavatori noti come M.U.L.E. Avrebbe dovuto farli

scendere tutti, almeno uno per ogni tunnel. Gli ci sarebbe voluto un giorno per fissare

l'esplosivo alle sonde e forse un altro giorno per posizionare ciascuna sonda in un tubo

di lava diverso. Avrebbe dovuto mandare altre sonde verso l'alto, così che facessero

molto rumore in ogni canale. Se avesse lavorato a tempo pieno senza dormire...

Avrebbe potuto funzionare. Doveva funzionare. Non appena ebbe le idee chiare,

inviò un segnale alla nave coloniale affinché sganciasse tutte e nove le capsule. La

finestra di lancio più vicina era appena oltre l'orizzonte. Le capsule sarebbero arrivate

in due ore. Si sarebbe dovuto mettere al lavoro immediatamente, ma era fattibile.

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Avrebbe riconfigurato le sonde, regolato il rapporto potenza-peso per la massa

aggiuntiva degli esplosivi e sincronizzato i detonatori a un segnale multi-banda.

Le indagini geologiche avevano rivelato diverse crepe profonde nella montagna,

dovute all'erosione dell'acqua, ai terremoti e ad antiche eruzioni. Jake avrebbe guidato i

M.U.L.E. per iniettare esplosivo liquido lungo quelle crepe, fino al centro del vulcano. Poi

avrebbe fatto esplodere tutto quanto.

Se avesse funzionato, se tutto fosse andato come previsto, il cratere sarebbe

collassato su se stesso, la parete nord-ovest si sarebbe scostata dal lato del cono del

vulcano e tutto il monte sarebbe esploso verso l'esterno. La forza rilasciata

dall'esplosione avrebbe distrutto il resto del cono e causato un secondo crollo. E se il

magma sottostante fosse stato a temperatura sufficientemente alta, l'intera isola

sarebbe scomparsa in una palla di fuoco. Jake avrebbe dovuto osservare il tutto da una

certa distanza.

Per esempio, dall'orbita.

Anche se forse...

L'isola più piccola dell'arcipelago era ancora più che sufficiente per lui, e si

trovava a 300 chilometri a nord-ovest rispetto alla zona dell'esplosione. Una volta che

gli zerg fossero scomparsi, forse avrebbe potuto viverci in pace.

Continuò a simulare scenari, alla ricerca di sequenze d'azione ottimali. Divenne

presto evidente che ci potevano essere molte piccole variazioni sul tema, ma erano tutte

variazioni dell'Operazione Annientamento.

Jake sospirò. "Merda. Non c'è un modo più semplice o migliore."

Iniziò a emettere gli ordini necessari.

"Spero che quel maledetto protoss sia abbastanza sveglio da andarsene da solo.

Io certo non vado dentro a cercarlo."

#

Lassatar venne a conoscenza del piano dell'umano quando cadde la prima

capsula. Quando Jake guidò i primi M.U.L.E. nei tunnel, capì esattamente come l'umano

aveva previsto di agire. Si allontanò in sicurezza dal vulcano, lasciando dietro di sé un

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numero sufficiente di pezzi di tecnologia protoss per mantenere alcuni degli zerg

occupati. Il piano dell'umano richiedeva che fossero distratti.

Ma c'era altro che doveva fare. Gli zerg, sentite le vibrazioni, avrebbero cercato di

capire che cosa stesse accadendo. Non appena la colonia avesse scoperto i robot

minerari che pompavano un liquido esplosivo nelle crepe della montagna, li avrebbe

attaccati.

Ma quegli zerg, quelli infettati dall'identità, sarebbero rimasti innervositi

dall'attività di Jake e avrebbero forse disturbato l'intera colonia. Non c'era modo di

prevedere come avrebbero reagito, in quanto individui. Alcuni di loro forse sarebbero

stati presi dal panico, intuendo la possibilità di un pericolo personale. Sarebbero potuti

fuggire. Lassatar sapeva che doveva tenerli tutti dentro il vulcano, affinché il piano

dell'umano funzionasse.

Così, attese. E ascoltò le loro emozioni. Quando gli zerg avessero avvertito il

pericolo, avrebbero provato paura. Quando avessero provato paura, avrebbero

cominciato ad agire...

#

E poi, finalmente, tutto ebbe inizio.

Uno zergling scoprì un M.U.L.E. che iniettava del liquido esplosivo in una

profonda crepa sulla superficie vulcanica. Gridò, saltò e si contorse, mentre l'acido

liquido instabile penetrava nel suo carapace. Un altro esitò e, quando vide una sonda

carica di esplosivo risalire lungo un tubo di lava, si allontanò, infastidito dalla presenza

estranea. Un terzo s'imbatté in un grande pacchetto che ticchettava sinistramente e,

vittima di un'insolita curiosità, lo portò con sé più in profondità nel nido, per esaminarlo

ulteriormente.

Uno dopo l'altro, gli zergling separati ritornarono al biostrato e riunirono le loro

esperienze, i loro diversi incontri individuali con i pezzi sconosciuti di tecnologia

umana. L'effetto cumulativo crebbe d'intensità, divenne incertezza, poi ansia, poi le

prime sensazioni inquietanti di un'emozione sconosciuta alla colonia: una semplice

irritazione per i singoli individui che diventava travolgente quando ingrandita dalla

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collettività. Anche gli zerg che non avevano sperimentato un contatto diretto furono

spaventati dal disagio collettivo dei loro compagni.

Cominciò il panico. Alcuni zergling rimasero immobili, come paralizzati, altri

fuggirono nelle gallerie più profonde, altri ancora cercarono la fuga verso l'alto. La

maggior parte si radunò per prepararsi al contrattacco. Ma contro chi?

E poi ebbe inizio l'altro bombardamento. Dentro il loro cervello, dentro i loro

gusci chitinosi, dentro la loro carne irrorata di sangue, dentro tutti loro, un

martellamento costante di confusione e di luce che li fece vacillare. Alcuni crollarono,

alcuni si bloccarono, alcuni rabbrividirono immobili. I baneling percepirono l'onda

come un impatto ed esplosero sul posto. C'era in atto un sequestro di massa del cuore

della colonia, frutto della piena potenza dell'artefatto xel'naga.

E poi il martellamento peggiorò. I colpi si fecero più intensi, la forza psionica più

violenta. Le appendici del biostrato s'insinuarono ovunque nella montagna, ritraendosi

dalla roccia. La colonia zerg rimase prigioniera al centro di un vortice di paura,

sperimentando qualcosa che nessun'altra colonia zerg aveva mai sperimentato prima:

un terrore travolgente! Tutte le creature nella montagna gridavano e urlavano,

gemevano e annaspavano, si agitavano selvaggiamente in preda alle convulsioni, del

tutto incapaci di azioni coerenti.

E poi...

Le sonde accesero i propri getti, una dopo l'altra, in una cascata sincronizzata di

fuoco. Mura di fiamme surriscaldarono i tubi di lava, giù fino al nucleo del vulcano

addormentato, aumentando la temperatura della roccia vulcanica fino al punto di

fusione.

Un tuono scosse il vulcano. Nuvole di polvere si sollevarono dai pendii. Rocce si

staccarono e caddero in piccole frane lungo i ripidi fianchi del cono. Le piccole frane a

poco a poco s'ingrandirono.

E poi, quando la montagna raggiunse la temperatura massima, arrivò la prima

esplosione. Una sezione saltò via troppo presto, mezzo secondo troppo presto, ma il

resto proseguì come previsto, secondo una serie perfettamente predeterminata di

detonazioni.

La montagna tremò. Ma non successe niente.

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Dal suo punto d'osservazione a distanza, la prima parola di Jake fu l'inevitabile

"Merda!"

Ma poi... uno sbuffo improvviso di fumo. Un altro tremito. Un tremito continuo,

crescente. La montagna sussultò. Ci fu una scossa nel terreno. La parete nord-ovest del

vulcano iniziò a gonfiarsi verso l'esterno, un gonfiore allarmante... che alla fine eruttò.

Un improvviso boato fortissimo, una colonna di polvere e roccia ignea s'innalzò

nel cielo, sempre più in alto, una torre di orrore e distruzione. Rocce fiammeggianti

furono scagliate verso l'alto e verso l'esterno, scomparendo nell'aria. L'eruzione sarebbe

potuta continuare per ore, lasciando cadere lava fusa nel mare fumante per chilometri,

tutt'intorno.

"Porca merda!" disse Jake. Si sentì improvvisamente felice. Incredibilmente,

sorprendentemente felice. Gli venne voglia di ballare. Si sentì attraversare da un

travolgente impeto d'emozioni, così potente da lasciarlo indebolito e tremante.

Quindi si sentì lucido, libero e riscattato... e ancora felice. Ma di un diverso tipo di

felicità. Non solo la felicità della vittoria, ma una felicità profonda, interiore, la felicità

della pace.

Il suo piano aveva funzionato. Lui lo sapeva. Non sapeva come, ma lo sapeva.

"Nessuno può essere riuscito a scappare," si disse, rendendosi conto di aver parlato ad

alta voce. Guardò gli schermi sulla visiera. "Forse nemmeno io."

Si voltò verso il Vulture.

Il suo alleato, il templare oscuro, era lì.

"Ciao," disse Jake.

Il protoss non rispose.

Jake pensava di saperne il motivo.

Quella grande esplosione psionica... L'aveva percepita anche lui, nonostante la

distanza. Doveva aver esaurito tutta la forza del templare oscuro.

Jake lo guardò con stupore. Se il protoss era esausto, era anche vulnerabile? Era

quello un segno di fiducia nei suoi confronti? Come sapeva che Jake non avrebbe

approfittato della sua momentanea debolezza?

O Jake stava solo fantasticando?

E poi il protoss sollevò una mano, in un gesto di saluto.

Page 50: di David Gerrold - StarCraftmedia.blizzard.com/sc2/lore/in-the-dark/in-the-dark-itIT.pdf4 era presente tutta l'attrezzatura necessaria per la creazione di una nuova struttura completamente

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Quello fu tutto, e Jake provò un'emozione che non seppe definire. Gratitudine?

Spirito di squadra? Parentela? Qualcosa del genere.

"Io, ehm... credo..."

Il templare oscuro sembrava intento a studiarlo. Per un momento, anche Jake

provò paura. Ormai era diventato inutile?

Ma no.

Il protoss doveva sentirsi nello stesso modo.

Jake sorrise. "Allora, ehm... Questo potrebbe essere l'inizio di una bella amicizia?"

Il protoss terminò di esaminare Jake e svanì.

"Ma anche no," disse Jake.

Si strinse nelle spalle.

Si girò e guardò la torre di fumo e fiamme che ancora cresceva sopra di lui. "Sì, è

ora di andare."

Non era sicuro di dove sarebbe andato, ma questa volta sarebbe stato un posto

con delle persone.