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Titolo originale: The VampireDiaries. The Hunters: Moonsong

Copyright © 2012 by L.J. Smith

Published by agreement with RightsPeople, London

Traduzione dall’inglese diMarialuisa Amodio

Prima edizione ebook: gennaio 2013

© 2013 Newton Compton editoris.r.l.

Roma, Casella postale 6214

ISBN 978-88-541-4896-3

www.newtoncompton.com

Edizione elettronica realizzata daGag srl

Lisa Jane Smith

Il diario del vampiro

Luna piena

Newton Compton editori

1

Caro diario,

ho tanta paura.

Il cuore mi batte forte, ho la boccasecca e mi tremano le mani. Hoaffrontato vampiri, lupi mannari,spiriti, e sono sopravvissuta. Hocombattuto contro esseri che nonavrei mai creduto fossero reali. Eora sono terrorizzata. Perché?

Semplicemente perché vado via dicasa.

So che è una reazione assolutamenteridicola e irrazionale. A dirla tutta,non vado davvero via di casa. Vadosolo al college, a poche ore di

macchina dall’amato posto in cui

vivo fin da bambina. No, non hointenzione di ricominciare apiangere. Condividerò una stanzacon Bonnie e

Meredith, le mie migliori amiche. Ilmio caro Stefan sarà nello stessodormitorio, solo a un paio di pianidi distanza. Matt vivrà a due passi,dall’altra parte del campus. PersinoDamon prenderà un appartamentonella città vicina.

A dire il vero, non avrei potutoallontanarmi meno da casa, a menoche non fossi rimasta dove sono.Sono una fifona piagnucolosa, lo so.

Ma

è come essere tornata a casa dopo unlunghissimo esilio e aver riavutoindietro la mia famiglia, la mia vita,solo per esser costretta a lasciarle dinuovo. Credo di essere spaventata,in parte, perché questi ultimi giornid’estate sono stati meravigliosi. Intre splendide settimane abbiamoconcentrato tutte le cose divertentiche avremmo potuto fare negli ultimimesi se non avessimo dovutoaffrontare i kitsune, recarci nellaDimensione Oscura, combatterecontro lo spirito della gelosia e faretante altre cose tutt’altro che

divertenti. Abbiamo fatto picnic epigiama

party, siamo andati a nuotare e a fareshopping. Abbiamo fatto un giro allafiera della contea, dove Matt havinto una tigre di pezza per Bonnie

ed è arrossito quando lei, strillando,gli si è buttata fra le braccia. Stefanmi ha anche dato un bacio in cimaalla ruota panoramica, come un

qualsiasi ragazzo potrebbe baciarela sua bella in un’incantevole serad’estate.

Siamo stati così felici. E normali inun modo che avrei creduto nonsarebbe stato mai più possibile.

È questo che mi spaventa, credo.Temo che queste poche settimanesiano state un luminoso interludiodorato e che questo cambiamentoporterà con sé un ritorno alle tenebree all’orrore. E come nella poesiache abbiamo letto al corso diletteratura lo scorso autunno: «Nullache

sia d’oro può durare». Non per me.

Persino Damon…

Il tramestio dei passi nel corridoiodel piano di sotto distrasse ElenaGilbert, e la penna rallentò. Alzò

lo sguardo verso l’ultimo paio discatoloni sparsi per la stanza.Probabilmente erano arrivati Damone

Stefan per darle un passaggio alcollege.

Ma voleva finire di scrivere, peresprimere l’ultima preoccupazioneche l’aveva assillata nelle

precedenti, perfette settimane. Tornò

al suo diario, scrivendo in fretta perbuttare giù i pensieri prima di

dover andare.

Damon è cambiato. Da quandoabbiamo sconfitto lo spirito dellagelosia, è più gentile. Non solo conme o con Bonnie, per la quale hasempre

avuto un debole, ma anche con Matte Meredith. Riesce ancora a esseremolto irritante e imprevedibile – nonsarebbe Damon altrimenti – ma

ha perso il suo lato crudele. Non è

più lo stesso.

Lui e Stefan sembrano essere giuntia un’intesa. Pur sapendo che li amoentrambi, non si lasciano divideredalla gelosia. Sono molto legati,

come veri fratelli: non li ho mai visticomportarsi così. Il delicatoequilibrio che si è creato tra noi èdurato per tutta l’estate. Ho paurache un mio passo falso possadistruggerlo e che io possa diventarela causa della loro separazione,come lo è stata Katherine, il loroprimo amore.

Allora perderei Damon per sempre.

Zia Judith la chiamò, spazientita:«Elena!».

«Arrivo!», rispose lei. Scrisse infretta poche altre frasi sul diario.

Tuttavia, questa nuova vita potrebbeanche essere meravigliosa. Forsetroverò tutto ciò che ho semprecercato. Non posso andare al liceo

per sempre, né posso continuare avivere nella casa dei miei zii. E chilo sa? Forse stavolta l’oro durerà.

«Elena! Ti stanno aspettando!».

Zia Judith si stava innervosendo sulserio.

Avrebbe voluto accompagnarla leistessa al college. Ma Elena sapevache non sarebbe riuscita a

salutare la sua famiglia senzascoppiare a piangere, quindi avevachiesto a Damon e Stefan di

accompagnarla. Era menoimbarazzante farsi sopraffaredall’emozione a casa, piuttosto chepiangere fino

al campus del Dalcrest. Da quandoElena aveva deciso di farsi dare unpassaggio dai fratelli Salvatore,

sua zia si era affannata su ogniminimo dettaglio, temendo che lacarriera universitaria della nipotenon

avrebbe avuto un degno esordiosenza la sua supervisione. Ma Elenasapeva che la zia faceva così perché

le voleva bene.

Chiuse di scatto il diario con lacopertina di velluto blu e lo gettò in

uno scatolone aperto. Si alzò e si

diresse verso la porta, ma, prima diaprirla, si girò a dare un ultimosguardo alla sua stanza.

Era così vuota, con le pareti privedei suoi poster preferiti e la libreriaprivata di metà dei suoi libri.

Nell’armadio e nel cassettone eranorimasti solo pochi vestiti. I mobilierano ancora tutti al loro posto.

Ma la stanza, ora che era stataspogliata della maggior parte deisuoi averi, somigliava più a

un’anonima

camera d’albergo cheall’accogliente rifugio della suainfanzia.

Erano successe tante cose in quellastanza. Elena si ricordava bambina,accoccolata fra le braccia del

padre, a leggere un libro sulla sediadavanti alla finestra. Lei, Bonnie,Meredith e Caroline, che una volta

era una cara amica, avevanotrascorso centinaia di sere lì, ascambiarsi confidenze, studiare,

vestirsi per

andare a ballare o semplicementeper passare una serata fuori. Stefanl’aveva baciata lì un mattino presto

e se n’era andato in fretta, prima chezia Judith salisse a svegliarla.Ricordava il sorriso vittorioso e

crudele di Damon, quando l’avevainvitato a entrare per la prima volta:sembravano passati migliaia di

anni. E, piuttosto di recente, lafelicità che aveva provato quandoera comparso lì, una notte buia,

dopo

che tutti l’avevano creduto morto.

Qualcuno bussò piano e la porta sispalancò. Stefan la guardava, inpiedi sulla soglia.

«Sei pronta?», chiese. «Tua zia è unpo’ preoccupata. Ha paura che nonavrai il tempo di disfare le

valigie prima dell’orientamento senon partiamo subito».

Elena si alzò e andò adabbracciarlo. Gli appoggiò

teneramente la testa sulla spalla:aveva un odore di

pulito e di bosco. «Sto arrivando»,disse. «È solo che è difficile direaddio, sai? Tutto sta cambiando».

Stefan si voltò verso di lei e labaciò teneramente. «Lo so», disse,staccandosi dalle sue labbra, e fece

scorrere un dito lungo la curva delsuo labbro superiore. «Porto giùquesti scatoloni per darti ancora un

minuto. Tua zia si calmerà quandovedrà che stiamo caricando il

furgone».

«D’accordo. Scendo subito».

Stefan uscì con gli scatoloni edElena sospirò, guardandosi di nuovointorno. Alla finestra c’erano

ancora le tende azzurre a fiori chesua madre le aveva cucito quandoaveva nove anni. Ricordava che sua

madre l’aveva abbracciata, con gliocchi un po’ umidi di lacrime,quando aveva detto di essere troppo

grande per le tende di Winnie the

Pooh.

Anche i suoi occhi si riempirono dilacrime al ricordo, e si sistemò icapelli dietro le orecchie, proprio

come faceva sempre sua madrequando era sovrappensiero. Elenaera troppo piccola quando eranomorti

i suoi genitori. Forse, se sua madrefosse stata ancora viva, sarebberodiventate amiche e si sarebbero

conosciute come donne adulte, nonsolo come madre e figlia.

Anche i suoi genitori erano andati alDalcrest College. Infatti, si eranoincontrati lì. Al piano di sotto,

sul pianoforte, c’era una foto che liritraeva sul prato assolato davantialla biblioteca del Dalcrest, con le

tuniche da neolaureati, sorridenti eincredibilmente giovani.

Forse, frequentando il Dalcrest, liavrebbe sentiti più vicini. Forseavrebbe scoperto più cose su di loro

come persone, non solo come lamamma e il papà della sua infanzia,

e fra gli edifici neoclassici e gli

ampi prati verdi del college avrebberitrovato la sua famiglia perduta.

Non stava realmente andando via.Stava andando avanti.

Elena serrò la mascella e si diresseverso la porta, spegnendo la luceprima di uscire.

Zia Judith, suo marito Robert e lasorellina Margaret erano raccolti nelcorridoio al piano di sotto ad

aspettarla, e la guardarono scendere

le scale.

Ovviamente, sua zia era agitata. Nonriusciva a stare ferma; si torceva lemani, si lisciava i capelli o

giocherellava con gli orecchini.«Elena», disse, «sei sicura di avermesso in valigia tutto ciò che ti

serve? Ci sono così tante cose daricordare». Aggrottò la fronte.

L’evidente nervosismo della zia lerese più semplice rivolgerle unsorriso rassicurante e abbracciarla.

Zia Judith la tenne stretta,calmandosi per un momento, e tiròsu col naso. «Mi mancherai, tesoro».

«Anche tu mi mancherai», risposeElena, e la strinse forte, sentendoche le tremavano le labbra. «Ma

tornerò. Se ho dimenticato qualcosa,o se sento nostalgia di casa, torneròper un fine settimana. Non devo

aspettare il Ringraziamento».

Accanto a loro, Robert spostò ilpeso da un piede all’altro e sischiarì la gola. Elena lasciò andare

la zia

e si girò verso di lui.

«So che gli studenti universitaridevono sostenere molte spese»,disse. «E non vogliamo che ti

preoccupi dei soldi, quindi ti hoaperto un conto al negozio delcampus, ma…». Aprì il portafoglioe le

porse un mazzetto di banconote. «Incaso dovessero servirti».

«Oh», esclamò Elena, commossa e

un po’ confusa. «Ti ringrazio tanto,Robert, ma davvero non devi».

Lui le diede una pacca sulla spalla,un po’ imbarazzato. «Vogliamo chenon ti manchi nulla», disse

deciso. Elena gli sorrise congratitudine, ripiegò le banconote e lemise in tasca.

Accanto a Robert, Margaretcontinuava a fissarsi le scarpe conlo sguardo imbronciato. Elena le si

inginocchiò accanto e le prese lemani. «Margaret?», disse, per

spingerla a parlare.

La sorellina la fissò con i grandiocchi azzurri. Poi aggrottò la frontee scosse la testa, serrando le

labbra.

«Mi mancherai tantissimo, Meggie»,disse Elena, stringendola a sé, congli occhi che si riempivano di

nuovo di lacrime. I capelli dellasorellina, soffici come fiori ditarassaco, le sfiorarono la guancia.«Ma

tornerò per il Ringraziamento emagari potrai venirmi a trovare alcampus. Mi piacerebbe farconoscere

la mia sorellina a tutti i miei nuoviamici».

Margaret deglutì. «Non voglio cheparti», disse con la vocina triste.«Te ne vai sempre».

«Oh, tesoro», disse Elena, sgomenta,e l’abbracciò più stretta. «Ma tornosempre, non è vero?».

Rabbrividì. Ancora una volta, si

chiese quanto Margaret ricordassedi ciò che era realmente successo a

Fell’s Church nell’ultimo anno. LeGuardiane avevano promesso dimodificare tutto ciò che la gente

ricordava di quei mesi oscuri in cuivampiri, lupi mannari e kitsuneavevano quasi distrutto la città, e in

cui lei stessa era morta ed eratornata in vita, ma sembrava cifossero delle eccezioni. CalebSmallwood

ricordava e, talvolta anche il visetto

innocente di Margaret apparivastranamente consapevole.

«Elena», la chiamò di nuovo sua zia,con voce roca e commossa. «Farestimeglio ad andare».

Elena riabbracciò forte la sorellaprima di lasciarla andare. «Bene»,disse, alzandosi e prendendo la

valigia. «Vi chiamo stasera per dirvicome mi sono sistemata».

Zia Judith annuì, ed Elena le diedeun altro rapido bacio, poi si asciugògli occhi e aprì la porta

d’ingresso.

La luce del sole era così intensa chedovette sbattere le palpebre. Damone Stefan erano appoggiati al

furgone che avevano preso anoleggio, e i suoi bagagli eranostipati nel retro.

Appena fece un passo avanti, i duefratelli alzarono lo sguardo, allostesso tempo, e le sorrisero.

Oh. Erano così belli che, anche se liconosceva da parecchio tempo,quando li guardava, sentiva ancora

una scossa. Stefan, il suo amatoStefan, con gli occhi verde fogliache s’illuminavano quando lavedeva,

era uno schianto con il suo profiloclassico e la dolce curva tirabacidel labbro superiore.

E Damon, con la sua carnagionepallida e luminosa, gli occhivellutati e i capelli di seta, eraaggraziato

e letale al tempo stesso. Il suofolgorante sorriso spingeva qualcosadentro di lei a stiracchiarsi e fare le

fusa come una pantera alla vista delcompagno.

Entrambi la fissavano con unosguardo adorante e possessivo.

I fratelli Salvatore erano suoi. Cheprogetti aveva a riguardo? Alpensiero aggrottò la fronte e curvò le

spalle, con ansia. Poi si rilassò, fecesparire le rughe dalla fronte erivolse loro un sorriso. “Sarà quel

che sarà”, pensò.

«È ora di andare», disse, e alzò il

viso verso il sole.

2

Meredith teneva saldamente ilmanometro contro la valvola dellagomma posteriore sinistra della sua

auto, mentre le dava una controllata.

La pressione di tutte e quattro leruote era a posto. Il livellodell’antigelo, dell’olio e dei fluididi

trasmissione era al massimo, labatteria dell’auto era nuova e il cric

e la ruota di scorta erano in perfette

condizioni. Tutto come previsto. Isuoi genitori non erano tipi dasaltare il lavoro per vederla partireper

il college. Sapevano che non avevabisogno di coccole, ma ledimostravano il loro amoreassicurandosi

che tutti i preparativi fosseroterminati e che lei fosse al sicuro eperfettamente pronta a qualsiasi

imprevisto. Ovviamente, non le

avevano neanche detto di avercontrollato tutto loro; volevano che

continuasse a prendersi cura di sé.Non le restava altro che partire. Edera proprio l’unica cosa che non

voleva fare.

«Vieni con me», disse senza alzarelo sguardo, disprezzando la debolesfumatura lamentosa che aveva

percepito nella propria voce. «Soloper un paio di settimane».

«Sai che non posso», rispose Alaric,

carezzandole piano le spalle. «Sevenissi con te non riuscirei più

ad andarmene. È meglio così. Tigodrai le prime settimane di collegecome tutte le altre matricole, senza

nessuno che ti trattenga. Io verròpresto a trovarti».

Meredith si girò a guardarlo infaccia e notò che lui la stavafissando con intensità. Alaric serròle

labbra, in modo quasiimpercettibile, e lei comprese che

quella nuova separazione, dopo solopoche

settimane insieme, era difficileanche per lui. Si protese in avanti elo baciò dolcemente.

«È meglio così che se fossi andataad Harvard», mormorò. «È moltopiù vicino».

Quando l’estate era finita, lei e Mattavevano compreso che non potevanolasciare gli amici e andare

all’università fuori dal Paese, comeavevano pianificato. Ne avevano

passate tante, e volevano restare

insieme, per proteggersi a vicenda,molto più di quanto desiderasseroandare da qualche altra parte.

Più di una volta le loro case eranostate quasi distrutte e solo il ricattodi Elena alla Corte Celestiale

aveva permesso di ricostruirle,salvando anche le loro famiglie. Nonpotevano andarsene.

Anche perché erano gli unici ingrado di opporsi alle tenebre. E ilPotere generato dalle linee

energetiche che attraversavanol’area intorno a Fell’s Churchavrebbe continuato ad attirare persempre

le creature del male. Dalcrest eraabbastanza vicino perché potesserotornare indietro se il pericolo si

fosse ripresentato.

Avevano il dovere di proteggere leproprie case.

Così Stefan si era recato agli ufficiamministrativi del Dalcrest e avevafatto le sue magie da vampiro.

Seduta stante, Matt aveva riavuto laborsa di studio per il football cheaveva rifiutato a favore dello stato

del Kent la primavera precedente, eMeredith non solo era attesa comenuova matricola, ma aveva un

posto in tripla nel migliordormitorio del campus con Bonnieed Elena. Per una volta, ilsovrannaturale li

aveva favoriti.

Eppure, Meredith aveva dovutorinunciare a un paio di sogni per

arrivare lì. Harvard. Vivere con

Alaric.

Scosse la testa. A ogni modo, eranosogni incompatibili. Alaric nonsarebbe potuto andare ad Harvard

con lei. Aveva deciso di rimanere aFell’s Church per ricercare leorigini di tutti gli eventisovrannaturali

che avevano segnato la storia dellacittà. Fortunatamente, la DukeUniversity gli aveva permesso di

inserire tali ricerche nella sua tesisul paranormale. Allo stesso tempo,avrebbe potuto monitorare le

possibili minacce alla città. Per ilmomento, erano costretti a separarsi,indifferentemente dalla meta

scelta da Meredith, ma almeno ilDalcrest era facilmenteraggiungibile in macchina.

Alaric era leggermente abbronzato eaveva una spruzzata di lentigginidorate sugli zigomi. I loro visi

erano così vicini che riusciva a

sentire il calore del suo respiro.

«A cosa stai pensando?». La suavoce era un mormorio sommesso.

«Alle tue lentiggini», rispose lei.«Sono adorabili». Poi fece unrespiro e si scostò. «Ti amo», disse,e si

affrettò, per evitare di farsisopraffare dalla nostalgia. «Devoandare». Prese una delle valigieposate

accanto alla macchina e la gettò nelbagagliaio.

«Ti amo anch’io», rispose Alaric.Le prese la mano e la tenne strettaper un momento, guardandola negli

occhi. Poi la lasciò, mise l’ultimavaligia nel bagagliaio e chiuse,sbattendo lo sportello.

Lei gli diede un bacio breve epassionale e senza indugi si sistemòal posto di guida. Solo quando si fu

seduta nella sicurezzadell’abitacolo, ebbe allacciato lacintura e avviato il motore, osòguardarlo di

nuovo.

«Ciao», disse dal finestrino aperto.«Ti chiamo stasera. Ti chiameròogni sera».

Alaric annuì. Aveva lo sguardotriste, ma sorrise e tenne la manoalzata in segno di saluto.

Con cautela, Meredith uscì inretromarcia dal viale. Aveva le manialle dieci e dieci sul volante, gli

occhi sulla strada e il respiroregolare. Non ebbe bisogno divoltarsi per sapere che Alaric stava

in piedi

sul vialetto a guardare la macchinache spariva in fondo alla strada.Serrò con forza le labbra. Era una

Sulez. Era una cacciatrice divampiri, una studentessa modello edera in grado di affrontare qualsiasi

situazione con il necessario buonsenso.

Piangere non sarebbe servito a nulla;dopotutto, avrebbe rivisto Alaric.Presto. Nel frattempo, sarebbe

stata una vera Sulez: pronta a tutto.

Elena trovò Dalcrest incantevole.Certo, ci era già stata. Agli inizidelle superiori Meredith frequentava

un ragazzo del college, così eraandata spesso con lei e Bonnie allefeste studentesche del Dalcrest.

Inoltre, aveva il vago ricordo di unraduno di famiglie di ex studenti acui l’avevano portata i suoi

genitori quando era piccola.

Ma ora che ne faceva parte, ora che

il college sarebbe stato la sua casaper i quattro anni successivi,

tutto appariva diverso.

«Un po’ troppo vistoso», commentòDamon, quando superarono i grandicancelli dorati all’ingresso del

college e sfilarono fra gli edifici conrivestimenti in finti mattoni dellaGeorgia e marmo neoclassico.

«D’altronde, in America è tuttocosì».

«Be’, non tutti siamo cresciuti in

palazzi italiani», risposedistrattamente Elena, concentratasulla lieve

pressione della coscia di Damoncontro la sua. Nel furgone, eraseduta davanti, fra Damon e Stefan,e non

c’era molto spazio. Averli entrambicosì vicini era una tremenda fonte didistrazione.

Damon alzò gli occhi al cielo ebiascicò, rivolto a Stefan: «Be’,visto che devi fingerti umano e

frequentare di nuovo l’università,fratellino, almeno non hai scelto unposto troppo brutto. E, ovviamente,

la compagnia compenserà ogniinconveniente», aggiunse congalanteria lanciando uno sguardo aElena.

«Ma continuo a pensare che sia unaperdita di tempo».

«Eppure, eccoti qui», disse Elena.

«Io sono qui solo per tenervi fuoridai guai», ribatté Damon.

«Devi perdonarlo», disseironicamente Stefan a Elena. «Non èin grado di comprendere. All’epocalo

cacciarono dall’università».

Damon scoppiò a ridere. «Ma misono divertito parecchio», disse.«L’università forniva ogni genere di

piacere che un giovanotto di buonafamiglia volesse sperimentare. Maimmagino che le cose siano un bel

po’cambiate».

Elena sapeva che si stavanopunzecchiando, ma ora nelle loroschermaglie non c’era traccia

dell’amarezza tagliente che un tempole aveva caratterizzate. Damonsorrideva al fratello da sopra la sua

testa con affettuosa ironia, e le ditadi Stefan sul volante erano distese erilassate.

Elena posò la mano sul ginocchio diStefan e lo strinse. Damon, accanto alei, si irrigidì, ma quando lei

gli gettò uno sguardo, lui tornò a

fissare la strada attraverso ilparabrezza con espressionetranquilla.

Elena tolse la mano dal ginocchio diStefan. L’ultima cosa che voleva eraturbare il delicato equilibrio

tra loro.

«Siamo arrivati», disse Stefan,fermandosi davanti a un edificiocoperto di edera. «Pruitt House».

Davanti a loro si stagliava ildormitorio, un alto edificio inmattoni con una torretta su un lato e

le

finestre che splendevano alla lucedel sole pomeridiano.

«Dovrebbe essere il dormitorio piùbello del campus», disse Elena.

Damon aprì lo sportello e saltòfuori, poi si girò per gettare unalunga occhiata a Stefan. «Il miglior

dormitorio del campus? Per casostai usando i tuoi poteri dipersuasione per tornacontopersonale,

giovanotto?». Scosse la testa. «I tuoivalori morali si stannodisintegrando».

Stefan uscì dalla sua parte e si giròper porgere la mano a Elena, con ungesto cavalleresco. «Forse alla

fine mi hai contagiato», rispose,storcendo lievemente le labbra in unsorriso divertito. «Ho una stanza

singola nella torretta. C’è anche unbalcone».

«Buon per te», disse Damon,spostando rapidamente lo sguardo

dall’uno all’altra. «Quindi questo èun

dormitorio misto? Peccaminosomondo moderno». Restò un attimosovrappensiero; poi rivolse loro un

sorriso radioso e cominciò ascaricare i bagagli dal retro.

A Elena sembrò che Damon avesseavuto un momento di tristezza per lapropria solitudine. Ma era

assurdo. Damon non era tipo dastruggersi per la solitudine. Eppure,quella fugace impressione la spinse

a dire d’impulso: «Potresti venire alcollege con noi, Damon. Non ètroppo tardi, e comunque puoi usare

il Potere per iscriverti. Potrestivivere con noi al campus».

Si accorse che Stefan era rimasto dighiaccio. Ma, un attimo dopo, preseun lento respiro e scivolò

accanto al fratello, raccogliendo unapila di pacchi. «Sta a te decidere»,disse con aria indifferente.

«Potrebbe essere più divertente diquanto pensi frequentare di nuovo

l’università».

Damon scosse la testa, con aria discherno. «No, grazie. Ho chiusosecoli fa con il mondo accademico.

Starò molto meglio nel mio nuovoappartamento in città, dove potròtenervi d’occhio senza dover trattare

con gli studenti».

Lui e Stefan si scambiarono unsorriso che parve di perfettacomprensione.

“Bene”, pensò Elena, con una

curiosa mescolanza di sollievo edelusione. Non aveva ancora visto il

nuovo appartamento, ma Stefan leaveva assicurato che Damon, comeal solito, avrebbe vissuto nel lusso

più sfrenato, anche se nei limiti diciò che poteva offrire la città piùvicina.

«Andiamo, ragazzi», disse Damon,prendendo senza sforzo diversevaligie e dirigendosi verso il

dormitorio. Stefan sollevò la suatorre di pacchi e lo seguì.

Elena afferrò uno dei suoi scatolonie si avviò dietro i due fratelli,ammirandone la grazia congenita ela

forza intrisa di eleganza.

Passando davanti a un paio di porteaperte, Elena udì una ragazzafischiare di ammirazione e poi

ridacchiare sottovoce con la suacompagna di stanza.

Dall’enorme pila si rovesciò unascatola, quando Stefan imboccò lascalinata, e Damon la raccolse con

agio, nonostante le valigie cheportava. Stefan gli rivolse un rapidocenno di ringraziamento.

Erano stati nemici per secoli. Inpassato, si erano persino assassinatia vicenda. Avevano trascorso

centinaia di anni a odiarsi, legatidalla sofferenza, dalla gelosia e daldolore. Era stata Katherine a ridurli

così, cercando di averli entrambiper sé, quando loro volevanol’esclusiva su di lei.

Ora era cambiato tutto. Avevano

fatto molti passi avanti. Dopo lamorte e il ritorno di Damon e dopo

aver combattuto e sconfitto lo spiritodella gelosia, erano diventati alleati.C’era il tacito accordo con cui

si impegnavano a lavorare insiemeper proteggere un piccolo gruppo diesseri umani. E, soprattutto, c’era

un prudente ma molto concretosentimento di affetto tra loro.Contavano l’uno sull’altro; eavrebbero

sofferto se uno dei due fosse venuto

di nuovo a mancare. Non neparlavano, ma lei sapeva che eracosì.

Elena chiuse forte gli occhi per unistante. Sapeva che la amavanoentrambi. E loro sapevano che lei li

amava allo stesso modo. “Anchese”, si corresse per scrupolo,“Stefan è il mio vero amore”. Ma

qualcos’altro in lei, la panteraimmaginaria forse, si stiracchiò esorrise. “Ma Damon, il mioDamon…”.

Elena scosse la testa. Non potevadividerli, non li avrebbe spinti acombattere per lei. Non voleva

ripetere l’errore di Katherine. È seun giorno fosse stata costretta ascegliere, avrebbe scelto Stefan.

Ovviamente.

“Sul serio?”, chiese pigramente lapantera, facendo le fusa, ed Elenacercò di scacciare il pensiero.

Sarebbe bastato poco a distruggeretutto. E stava a lei assicurarsi chenon succedesse di nuovo.

3

Bonnie si scompigliò i riccioli rossicorrendo sul grande prato delDalcrest. Era davvero un bel posto.

Il prato all’inglese era fiancheggiatoda piccoli sentieri lastricati checonducevano ai vari dormitori e

agli edifici in cui si svolgevano lelezioni. Fiori dai colori vivaci –petunie, balsamine e margherite –

crescevano dappertutto, dai lati delsentiero alle aiuole davanti agliedifici.

Anche la fauna umana era piuttostostupefacente, pensò Bonnie,occhieggiando furtivamente unragazzo

abbronzato disteso su unasciugamano vicino al bordo delprato. Ma non fu abbastanza furtiva:il ragazzo

sollevò la folta chioma nera e lefece l’occhiolino. Bonnie ridacchiòe affrettò il passo, con le guance in

fiamme. A pensarci bene, quel tiponon avrebbe dovuto essere incamera a disfare gli scatoloni, a

mettere in ordine e sistemare le suecose? Invece se ne stava mezzo nudosul prato a fare l’occhiolino alle

ragazze di passaggio come un gran…cascamorto.

La busta con le cose che Bonnieaveva appena comprato alla libreriadel campus crepitava fra le sue

mani. Ovviamente, non aveva potutocomprare ancora i libri, perché sisarebbe iscritta ai corsi solo

l’indomani, ma aveva scoperto chein libreria si vendeva di tutto. Aveva

preso delle cose fantastiche:

una tazza del Dalcrest, unorsacchiotto con indosso una piccolae graziosa maglietta del college ealcuni

oggetti che le sarebbero potutitornare utili, come una mensolinaper doccia ben organizzata e una

collezione di penne di tutti i coloridell’arcobaleno. Doveva ammetteredi essere piuttosto entusiasta di

iniziare l’università.

Bonnie passò la busta alla manosinistra e fletté le dita dolorantidella destra. Al di làdell’entusiasmo,

tutte le cose che aveva compratoerano pesanti.

Ma necessarie. Questo era il piano:al college sarebbe diventata unapersona diversa. Non avrebbe

cambiato proprio tutto, perché moltiaspetti del suo carattere lepiacevano abbastanza. Ma aveva

intenzione di diventare più

autorevole, più matura, il genere dipersona di cui gli altri dicono:«Chiedi a

Bonnie», oppure «di Bonnie puoifidarti», piuttosto che: «Oh,Bonnie», che era tutta un’altra cosa.

Era decisa a uscire dall’ombra diMeredith ed Elena. Erano entrambefantastiche, certo, erano le sue

migliori amiche in assoluto, ma nonsi accorgevano neppure di assumerein continuazione posizioni di

comando. Bonnie voleva diventare

una persona brillante e in grado diprendere decisioni a pieno titolo.

Inoltre, le sarebbe piaciutoincontrare un ragazzo davverospeciale. Sarebbe stato bello. Infondo, non

poteva incolpare Meredith o Elenaper il fatto che durante il liceo avevaavuto solo storielle e nulla di

serio. Ma la pura e semplice veritàera che, anche se tutti pensano che tusia carina, se le tue amiche più

intime sono bellissime, intelligenti e

autorevoli, è inevitabile che ilgenere di ragazzo in cerca del vero

amore finisca con il trovarti unpo’… superficiale, in confronto.

Comunque, doveva ammettere cheera felice di vivere con Meredith edElena. Erano pur sempre le sue

migliori amiche, anche se nonvoleva restare bloccata nella loroombra. E, dopotutto…

Sbam. Qualcuno la urtò, facendoleperdere completamente il filo deisuoi pensieri. Indietreggiò

vacillando. Un ragazzo grande egrosso le finì di nuovo addosso, eBonnie si trovò il viso schiacciato

contro il suo petto, incespicò e andòa sbattere contro un’altra persona.Era circondata da ragazzi che si

spintonavano, scherzavano ediscutevano, senza fare caso a lei,sballottata da una parte all’altra,finché

una mano energica le afferrò ilbraccio e di colpo le restituì lastabilità in mezzo al tumulto.

Quando Bonnie ritrovò l’equilibrio,il gruppo si era già allontanato,cinque o sei ragazzoni che si

spintonavano e si davano fortipacche sulle spalle, senza fermarsiper chiedere scusa, come se non

l’avessero nemmeno notata, o laconsiderassero alla stregua di unostacolo inanimato sulla loro strada.

Eccetto uno. Bonnie si ritrovò afissare una logora maglietta azzurrasu un torace snello con braccia

muscolose. Si ricompose e si lisciò i

capelli, e lui le lasciò andare ilbraccio.

«Tutto bene?», chiese il ragazzo convoce profonda.

“Starei meglio se non mi avestetravolta”, stava per rispondereBonnie sprezzante. Era senza fiato,la

borsa pesava e quei tipi avrebberodovuto guardare dove mettevano ipiedi. Poi alzò lo sguardo e

incrociò i suoi occhi.

Wow. Quel ragazzo era unoschianto. Aveva gli occhi di unazzurro purissimo, il colore delcielo

all’alba in una mattinata estiva. Ilineamenti erano finemente cesellati,le sopracciglia arcuate, gli zigomi

alti, e la bocca morbida e sensuale.E lei non aveva mai visto capelli diquel colore, tranne che nei

bambini: quel biondo puro, quasibianco, che le faceva pensare allespiagge tropicali sotto il cielo

estivo…

«Stai bene?», ripeté lui a voce piùalta, con una ruga di preoccupazioneche gli increspava la fronte

perfetta.

Oddio. Bonnie si sentì arrossire finoalle punte dei capelli. Era rimasta afissarlo con la bocca aperta.

«Sto bene», disse, cercando diricomporsi. «Stavo camminandosenza guardare dove mettevo i piedi,

suppongo».

Lui sorrise e Bonnie si sentìattraversare da una piccola scossa.Aveva anche un bellissimo sorriso,che

gli illuminava tutta la faccia.«Gentile da parte tua», disse lui,«ma penso che toccasse a noiguardare

dove mettevamo i piedi invece dicamminare alla cieca e spintonarci.A volte i miei amici diventano un

po’… scalmanati».

Lui guardò alle spalle di Bonnie, e

lei si girò per seguire il suo sguardo.I suoi amici si erano fermati e

lo stavano aspettando. QuandoBonnie si soffermò sul gruppetto,uno dei ragazzi diede a un altro uno

scappellotto sulla nuca, e unsecondo dopo si stavano azzuffandoe spingendo di nuovo.

«Sì, lo vedo», disse Bonnie, e ilbellissimo ragazzo biondo rise. Lasua risata cordiale era contagiosa,

così sorrise anche lei, ancoramagnetizzata dai suoi occhi.

«A ogni modo, ti prego di accettarele mie scuse», disse lui. «Midispiace sul serio». Tese la mano.«Mi

chiamo Zander».

Aveva una stretta calorosa e decisa,e le sue mani erano grandi e calde.Bonnie si sentì arrossire di

nuovo, ma gettò indietro i ricciolirossi e sporse il mento con coraggio.Non aveva intenzione di

comportarsi come una ragazzettanervosa. Era bellissimo, e allora?

Era amica, o qualcosa del genere, di

Damon. Ormai avrebbe dovutoessere immune ai bei ragazzi.«Bonnie», disse, sorridendogli. «Èil mio

primo giorno qui. Anche tu sei unamatricola?»

«Bonnie», ripeté lui pensieroso,pronunciando il suo nome quasicome se lo stesse assaggiando. «No,

sono qui da un pezzo».

«Zander… Zander», cominciarono a

cantilenare i ragazzi in fondo alsentiero, ripetendo il suo nome

sempre più forte e veloce.«Zander… Zander… Zander».

Zander fece una smorfia, riportandol’attenzione sugli amici. «Scusa,Bonnie, devo scappare», disse.

«Dobbiamo fare una specie di…»,fece una pausa, «cose da circoliuniversitari. Ma, come ho detto,sono

davvero dispiaciuto di ciò che èsuccesso. Spero di rivederti presto,

ok?».

Le strinse di nuovo la mano, lerivolse un lento sorriso e se ne andò,affrettando il passo quando si

avvicinò agli amici. Bonnie loguardò riunirsi al gruppo. Un attimoprima che svoltassero dietro un

dormitorio, Zander si girò aguardarla, le lanciò il suo bellissimosorriso e la salutò.

Bonnie sollevò la mano perrispondere al saluto, urtandosi unfianco per sbaglio con la pesante

busta

della spesa, appena lui sparì dietrol’angolo.

“Fantastico”, pensò, ricordando ilcolore dei suoi occhi. “Credo diessermi innamorata”.

Matt si appoggiò alla traballantepila di valigie che avevaammucchiato accanto alla portadella sua

camera. «Maledizione», imprecò,mentre scuoteva la chiave nellaserratura. Gli avevano dato quella

giusta?

«Ehi», lo chiamò qualcuno dietro dilui, e Matt sobbalzò, facendo cadereuna valigia per terra. «Ops,

scusa. Sei Matt?»

«Sì», rispose Matt, poi diede unultimo giro di chiave e la porta siaprì di colpo. Si voltò, sorridendo.

«Tu sei Christopher?». In segreteriagli avevano detto il nome del suocompagno di stanza, aggiungendo

che anche lui era nella squadra di

football, ma non aveva ancora avutomodo di incontrarlo. Christopher

sembrava un tipo a posto. Era unragazzone con la stazza deldifensore, aveva un sorriso cordialee corti

capelli color sabbia che si strofinòcon la mano mentre indietreggiavaper cedere il passo all’allegra

coppia di mezz’età che lo seguiva.

«Salve, tu devi essere Matt», dissela donna, che trasportava un tappetoarrotolato e uno stendardo del

Dalcrest. «Io sono Jennifer, la madredi Christopher, e lui è Mark, suopadre. Piacere di conoscerti. I tuoi

sono qui?»

«Uh, no, sono venuto da solo»,rispose Matt. «La mia città, Fell’sChurch, non è lontana da qui».Afferrò

le sue valigie e le trascinò nellastanza, affrettandosi per lasciarespazio alla famiglia di Christopher.

La camera era piuttosto piccola. Dauna parte c’era un letto a castello,

uno spazio stretto nel mezzo e,

stipate contro l’altra parete, duescrivanie e due cassettoni.

Senza dubbio le ragazze e Stefanavrebbero vissuto nel lusso, ma a luinon era parso corretto che il

vampiro usasse il Potere perfornirgli un buon alloggio. Era giàabbastanza brutto aver preso il postodi

qualcun altro al college e nellasquadra di football.

Stefan gliene aveva parlato. «Senti,Matt», aveva detto, fissandolo con isuoi seri occhi verdi. «Capisco

come ti senti. Neanche a me piaceinfluenzare la gente per avere ciòche voglio. Ma il fatto è che

dobbiamo restare uniti. Dobbiamostare in guardia, perché questa partedel Paese è attraversata da un

groviglio di linee energetiche. E noisiamo gli unici a sapere».

Matt aveva acconsentito, quandoStefan l’aveva messa in quei termini.

A ogni modo, aveva rifiutato il

lussuoso dormitorio che Stefan siera offerto di ottenere per lui eaveva preso quello assegnatogli

dall’ufficio alloggi. Dovevaaggrapparsi almeno a uno straccio dionore. Inoltre, se fosse andato nello

stesso dormitorio dei suoi amici,sarebbe stato difficile rifiutare didividere la stanza con Stefan. Il

vampiro gli stava abbastanzasimpatico, ma non sopportava l’ideadi vivere con lui e di guardarlo

mentre

stava con Elena, la ragazza cheaveva perduto e che continuava adamare, nonostante tutto ciò che era

accaduto. E comunque sarebbe statodivertente incontrare facce nuove eallargare un po’ i suoi orizzonti

dopo aver passato tutta la vita aFell’s Church.

Ma la stanza era terribilmentepiccola.

E sembrava che Christopher avesse

una montagna di roba. Continuava afare su e giù per le scale con i

suoi genitori, portando ora unimpianto stereo, ora un piccolofrigorifero, una TV, una Wii. Mattspinse le

sue tre valigie in un angolo e li aiutòa portar dentro la roba.

«Ovviamente potrai usare anche tu ilfrigorifero e gli oggettid’intrattenimento», disseChristopher,

dando un’occhiata alle valigie di

Matt, che chiaramente contenevanosolo vestiti e forse qualche cambio

di lenzuola e asciugamani. «Prima,però, dobbiamo capire dove metteretutta questa roba». La madre di

Christopher si aggirava per la stanzae dava indicazioni al marito su dovesistemare le cose.

«Fantastico, grazie…», iniziò a direMatt, quando il padre del suocoinquilino, dopo essere finalmente

riuscito a incastrare la TV in cima auno dei cassettoni, si girò a

guardarlo.

«Ehi», disse. «Ora che ci penso,complimenti… Se sei di Fell’sChurch, avete vinto il campionato

statale l’anno scorso. Tu devi essereuno dei giocatori. In che ruologiochi?»

«Uh, grazie», disse Matt. «Sonoquarterback».

«Titolare?», gli chiese il padre diChristopher.

Matt arrossì. «Sì».

Ora aveva tutti gli occhi addosso.

«Wow», esclamò Christopher.«Senza offesa, amico, ma per qualemotivo sei venuto al Dalcrest? Cioè,

io sono al settimo cielo solo perchémi hanno preso nella squadra delcollege, ma tu saresti potuto andare

nella Division One, tipo».

Matt scrollò le spalle, a disagio.«Uhm, non potevo allontanarmitroppo da casa».

Christopher fece per aggiungere

qualcosa, ma sua madre lo zittì conun brusco cenno del capo.

“Fantastico”, pensò Matt.Probabilmente pensavano cheavesse problemi in famiglia.

Però doveva ammettere che loconfortava un po’ trovarsi conpersone che capivano a cosa avesse

rinunciato. Stefan e le ragazze noncomprendevano davvero il football.Anche se Stefan aveva giocato

con lui nella squadra del liceo,aveva ancora la mentalità di un

aristocratico dell’Europarinascimentale:

gli sport erano piacevoli passatempiper tenersi in forma. Il football nonera una cosa davvero importante

per lui.

Ma Christopher e la sua famigliacapivano cosa significasse per Mattrinunciare all’opportunità di

giocare in una importante squadra difootball universitaria.

«Allora», disse Christopher, in

maniera un po’ troppo precipitosa,come se stesse pensando a un modo

per cambiare argomento, «che lettovuoi? A me non importa stare soprao sotto».

Si girarono tutti a guardare il letto acastello, e fu allora che Matt la videper la prima volta. Doveva

essere arrivata mentre era di sottoad aiutare Christopher con i bagagli.Sul letto inferiore era posata una

busta color crema, di carta decoratae spessa, simile all’invito per un

matrimonio. Sul davanti, con una

grafia elegante, era scritto:MATTHEW HONEYCUTT.

«Quello cos’è, caro?», chiese lamadre di Christopher, incuriosita.

Matt scrollò le spalle, ma il cuorecominciò a tamburellargli nel pettoper l’eccitazione. Aveva sentito

parlare degli inviti che certe personericevevano al Dalcrest, inviti checomparivano in modi misteriosi,

ma aveva sempre pensato che

fossero un mito.

Girando la busta, vide un sigillo diceralacca azzurra su cui era stataimpressa un’ornata lettera V.

“Mmm”. Dopo aver fissato la bustaper qualche secondo, Matt la piegò ese la infilò nella tasca

posteriore dei pantaloni. Se era ciòche pensava, avrebbe dovuto aprirlaquando si fosse trovato da solo.

«Immagino che il destino ci stiadicendo che il letto di sotto è tuo»,disse Christopher in tono affabile.

«Già», rispose distrattamente Matt,con il cuore in tumulto. «Potetescusarmi un momento?».

Si precipitò nel corridoio, trasse unprofondo respiro e aprì la busta.All’interno c’era un altro

cartoncino decorato, scritto a manoin bella grafia, e una fascetta ditessuto nero. Lesse:

Fortis Aeturnus

Per generazioni, la Vitale Society haselezionato i migliori studenti delDalcrest, gli allievi più brillanti.

Quest’anno, abbiamo scelto lei.

Se vorrà accettare tale onore ediventare uno dei nostri, si presentidomani sera alle otto al cancelloprincipale del campus. Dovrà esserebendato e vestito come si addice aun’occasione importante.

Non ne parli con nessuno.

Il battito eccitato nel suo petto siintensificò, finché Matt sentì il cuoreche gli pulsava nelle orecchie. Si

accasciò lungo il muro e di nuovosospirò profondamente.

Aveva sentito parlare della VitaleSociety. Si diceva che i pochi attoridi successo, scrittori famosi e

generali della guerra civile che sierano laureati al Dalcrest ne fosserostati membri. Era risaputo che far

parte di quel leggendario circoloassicurava il successo e laconnessione a un’incredibile retesegreta che

dava supporto vita natural durante.

E girava anche una voce su certimisteriosi registri privati e segreti

rivelati solo ai membri. Poi si

supponeva che dessero festespettacolari.

Ma le storie sulla Vitale Societyerano solo dicerie, e nessuno avevamai ammesso ad alta voce di farne

parte. Il ragazzo aveva semprecreduto che la società segreta fosseun mito. La stessa università negava

con tale veemenza l’esistenza dellaVitale Society che Matt sospettavafossero stati i responsabili delle

iscrizioni a diffondere quelle voci,nel tentativo di far apparire ilcollege un po’ più esclusivo e

misterioso di quanto fosse in realtà.

Ma lì – abbassò lo sguardo sulcartoncino color crema che stringevain mano – c’era la prova che tutte

quelle storie potessero essere vere.Magari era solo uno scherzo, unaburla di qualcuno che si divertiva

alle spalle delle matricole.Comunque, non aveva l’aria diessere un gioco. Il sigillo, la

ceralacca, la

carta costosa; non sembravaplausibile sforzarsi tanto per uninvito fasullo.

La confraternita più esclusiva eriservata del Dalcrest era reale. Evoleva lui.

4

«Fidati di Bonnie, se vuoi incontrareun ragazzo carino il primo giorno dicollege», disse Elena. Stese

con cura il pennellino dello smalto

sulle unghie dei piedi di Meredith,dipingendole di un rosa brunito.

Dopo aver passato la serata al corsodi orientamento per matricole congli altri compagni di dormitorio,

volevano soltanto rilassarsi. «Seisicura che sia la tinta giusta?»,chiese Elena a Meredith. «Non mi

sembra il colore di un tramontoestivo»

«A me piace», rispose Meredith,agitando le dita dei piedi.

«Attenta! Non voglio macchiare dismalto il mio copriletto nuovo»,l’ammonì Elena.

«Zander è semplicementemeraviglioso», disse Bonnie,stiracchiandosi voluttuosamente sulletto,

dall’altra parte della stanza.«Aspettate di conoscerlo».

Meredith le sorrise. «Non è unasensazione straordinaria? Quandohai appena conosciuto una persona e

senti che c’è qualcosa fra voi, ma

ancora non sai cosa succederà?».Sospirò con enfasi e finse disvenire,

alzando gli occhi al cielo. «È tuttaquestione di aspettative e ti bastavederlo per emozionarti. Adoro

questa prima parte». Parlava a cuorleggero, ma aveva un’ariamalinconica. Elena era sicura che,anche

se Meredith si mostrava calma ecomposta, sentiva già la mancanza diAlaric.

«Certo», disse affabilmente Bonnie.«È straordinario, ma per una voltami piacerebbe arrivare allo

stadio successivo. Voglio unarelazione in cui ci conosciamo afondo, voglio una storia seria invecedella

solita cotta. Come l’avete voi. Cosìè ancora meglio, no?»

«Penso di sì», disse Meredith. «Manon dovresti avere fretta di superarele cose che si fanno quando ci

si è appena conosciuti, perché hai

solo poco tempo per godertele.Giusto, Elena?».

Elena tamponò i bordi delle unghiesmaltate di Meredith con unbatuffolo di cotone e pensò allaprima

volta che aveva incontrato Stefan.Con tutto ciò che era successo daallora, era difficile credere chefosse

trascorso solo un anno.

Ciò che ricordava meglio era lapropria determinazione nel

conquistare Stefan. Incurante degliostacoli

che le si presentavano, aveva saputofin dall’inizio, con chiara e fermarisolutezza, che lui sarebbe stato

suo. E, dopo averlo conquistato, iprimi giorni erano stati splendidi. Siera sentita come se una parte di sé

che aveva smarrito fosse tornata alproprio posto.

«È vero», disse alla fine,rispondendo alla domanda diMeredith. «Le cose poi diventano

più

complicate».

All’inizio, Stefan era stato un trofeoche Elena voleva vincere: raffinato emisterioso. Era un trofeo che

anche Caroline voleva, e lei non sisarebbe mai lasciata battere daCaroline. Ma poi Stefan le avevafatto

conoscere il dolore e la passione,l’integrità morale e la sua nobiltàd’animo, e lei aveva dimenticato la

competizione e l’aveva amato contutto il suo cuore.

E adesso? Lo amava ancora con tuttase stessa, e lui ricambiava. Maamava anche Damon e talvolta lo

comprendeva – intrigante,manipolatore e pericoloso com’era– meglio di quanto comprendesse il

fratello. Damon le assomigliava percerti versi: anche lui era implacabilenel perseguire i suoi scopi.

Elena pensava che lei e Damonfossero connessi a un livello

profondo, viscerale, istintivo, unlivello che

Stefan era troppo buono, troppoonesto per capire. Come si possonoamare due persone allo stesso

tempo?

«Complicate», la derise Bonnie.«Più complicate del non sapere maiper certo se qualcuno ti ama o no?

Più complicate del dover aspettareuna telefonata per sapere se sabatosera hai un appuntamento? Ben

vengano le complicazioni, sonopronta. Sapete che il quarantanoveper cento delle donne laureate

incontra il futuro marito al campus?»

«Queste statistiche te le seiinventate», disse Meredith,alzandosi e dirigendosi verso il suoletto, attenta

a non sbavare lo smalto.

Bonnie scrollò le spalle. «Sì, vabene, può darsi. Ma scommetto chela percentuale è comunque molto

alta. I tuoi genitori si sonoconosciuti qui, vero Elena?»

«Sì», rispose Elena. «Se nonsbaglio, al secondo anno avevanofrequentato un corso insieme».

«Che romantico», commentòallegramente Bonnie.

«Be’, se sei sposata, devi pur averconosciuto il tuo futuro marito daqualche parte», disse Meredith. «E

al college ci sono un sacco di futurimariti». Scrutò con preoccupazioneil suo copriletto di seta. «Pensate

che le unghie si asciugheranno primase uso il fon, oppure rischio dirovinare lo smalto? Vorrei andare a

letto».

Esaminò il fon come se fossel’elemento cruciale di unesperimento scientifico, conespressione

concentrata. Bonnie la guardava atesta in giù dal bordo del letto, con iriccioli rossi che sfioravano il

pavimento, picchiandoenergicamente i piedi contro il muro.

Elena sentì una grande ondata diaffetto per

loro. Ripensò alle innumerevolivolte che avevano dormito insiemedurante il liceo, prima che le loro

vite diventassero… complicate.

«Sono davvero felice che siamo quitutte e tre», disse. «Spero che lecose restino così per tutto l’anno».

Fu allora che sentirono le sirene.

Meredith scrutò attraverso le fessuredelle persiane, raccogliendo fatti e

cercando di analizzare ciò che

stava succedendo fuori Pruitt House.Sulla strada erano parcheggiateun’ambulanza e diverse volanti

della polizia, con le luci rosse e bluche ammiccavano in silenzio. Ilcortile era illuminato dal bianco

spettrale dei riflettori e pullulava dipoliziotti.

«Penso che dovremmo uscire a dareun’occhiata», disse Meredith.

«Mi prendi in giro?», chiese Bonnie

alle sue spalle. «Perché dovremmo?Sono in pigiama». Meredith si

girò. Bonnie era in piedi, con lemani sui fianchi, gli occhi castaniindignati. In effetti, indossava un

grazioso pigiama con disegni di conigelato.

«Be’, allora sbrigati a metterti unpaio di jeans», disse Meredith.

«Ma perché?», chiese Bonnie intono lamentoso.

Meredith incrociò lo sguardo di

Elena, dall’altra parte della stanza, ele due si scambiarono un rapido

cenno d’intesa.

«Bonnie», disse pazientementeElena, «abbiamo il dovere dicontrollare tutto ciò che succede daqueste

parti. Possiamo anche desiderare diessere normali studentesseuniversitarie, ma sappiamo la veritàsul

mondo – una verità di cui gli altrinon si rendono conto, sui vampiri, i

lupi mannari e i mostri. E

dobbiamo assicurarci che ciò che stasuccedendo là fuori non faccia partedi questa verità. Se è un

problema umano, se ne occuperà lapolizia. Ma se è qualcos’altro, laresponsabilità è nostra».

«Dico davvero», borbottò Bonnie,mentre cercava i suoi vestiti, «voidue avete un complesso da

crocerossine o qualcosa del genere.Dopo il corso di psicologia, hointenzione di analizzarvi».

«E allora saranno guai», disseMeredith.

Prima di uscire, Meredith afferrò lalunga custodia di velluto checonteneva il bastone da

combattimento. Era un bastonespeciale, progettato per combattereavversari sia umani siasovrannaturali,

ed era stato creato per esseretramandato nella sua famiglia pergenerazioni. Solo un Sulez poteva

possedere un bastone del genere. Lo

accarezzò attraverso la custodia,sentendo le punte aguzze di diversi

materiali che spuntavano dalleestremità: argento per i lupi mannari,legno per i vampiri, frassino bianco

per gli Antichi, ferro per le creaturespettrali e piccoli aghi ipodermicida riempire di veleno. Sapeva di

non poter sfoderare il bastone nelcortile, circondata da poliziotti espettatori innocenti, ma si sentivapiù

forte quando poteva sentirne il peso

nella mano.

La tipica afa settembrina dellaVirginia aveva ceduto il passo alfreddo notturno, e le ragazze si

diressero in fretta verso la follaraccolta in cortile.

«Non diamo a vedere che stiamoandando là», bisbigliò Meredith.«Fingiamo di dirigerci verso unaltro

edificio. Verso il centro studentesco,per esempio». Fece per svoltarel’angolo, come se volesse superare

il cortile, e poi le fece avvicinareall’assembramento, guardando oltreil nastro della polizia che

circondava il prato e mostrandosisorpresa per ciò che stavasuccedendo intorno a loro. Elena eBonnie

seguirono il suo esempio,guardandosi attorno a occhispalancati.

«Posso aiutarvi, signorine?», chieseuno degli addetti alla sicurezza delcampus, facendo un passo avanti

per impedir loro di proseguire.Elena gli rivolse un sorrisoaffascinante. «Stavamo andando alcentro

studentesco e abbiamo visto tuttaquesta gente qua fuori. Che stasuccedendo?».

Meredith allungò il collo perguardare oltre l’uomo. Vide soltantocapannelli di poliziotti che

discutevano e altri addetti allasicurezza del campus. Alcuni agentierano carponi e perlustravano

accuratamente il prato. “Agenti dellascientifica”, pensò distrattamente,desiderando che le sue

conoscenze sulle procedure dipolizia non si limitassero a ciò chevedeva nei film. L’agente della

sicurezza fece un passo di lato perimpedirle di vedere. «Nulla di serio.Solo una ragazza che è finita nei

guai andandosene in giro da sola».Rivolse loro un sorriso rassicurante.

«Che genere di guai?», chieseMeredith, cercando di capire per

conto suo.

Lui si mosse, bloccandole di nuovola visuale. «Nulla di cuipreoccuparsi. Stavolta non èsuccesso

niente».

«Stavolta?», chiese Bonnie,aggrottando la fronte.

Lui si schiarì la gola. «Voi ragazzecercate soltanto di uscire insieme lasera, d’accordo? Assicuratevi

di camminare in coppia o in gruppo

quando siete in giro per il campus, etutto andrà bene. Norme di

sicurezza generali, d’accordo?»

«Ma che è successo alla ragazza?Dov’è adesso?», chiese Meredith.

«Non avete nulla di cuipreoccuparvi», ripeté l’agente intono più deciso. Fissava la custodiadi velluto

nero fra le mani di Meredith. «Checos’hai là dentro?»

«Una stecca da biliardo», mentì lei.

«Stavamo andando a giocare alcentro studentesco».

«Divertitevi», disse l’agente percongedarle.

«Certo», rispose dolcemente Elena,prendendo a braccetto l’amica.Meredith aprì la bocca per porre

un’altra domanda, ma Elena laallontanò a forza dall’agente,dirigendosi verso il centrostudentesco.

«Ehi», protestò Meredith in tonopacato, appena non furono più a

portata d’orecchio. «Non avevofinito

con le domande».

«Non ci avrebbe detto nulla»,rispose Elena. Le sue labbra eranoserrate in una linea dura.«Scommetto

che la storia della ragazza finita neiguai era una balla: è successa unacosa ben più grave. Avete visto le

ambulanze?»

«Non stiamo andando sul serio al

centro studentesco, vero?», chieseBonnie in tono lamentoso. «Sono

troppo stanca».

Meredith scosse la testa. «È megliose torniamo al dormitorio aggirandoquegli edifici. Potrebbe

apparire sospetto se torniamo subitoda dove eravamo venute».

«Non lo trovate inquietante?»,chiese Bonnie. «Pensate…». Feceuna pausa, e Meredith vide che

deglutiva. «Pensate che sia successo

qualcosa di davvero brutto?»

«Non lo so», rispose Meredith. «Hadetto che una ragazza è finita neiguai. Potrebbe significare

qualsiasi cosa».

«Pensate che qualcuno l’abbiaaggredita?», chiese Elena.

Meredith le lanciò un’occhiatasignificativa. «Può darsi», disse. «Oforse qualcosa».

«Spero di no», disse Bonnie,rabbrividendo. «I “qualcosa” che ho

visto mi basteranno per tutta lavita».

Dopo essere passate da dietro lafacoltà di scienze, erano discese perun sentiero più scuro e solitario,

tornando infine al loro dormitorio, ilcui atrio ben illuminato comparveloro davanti come un faro.

Accelerarono il passo, dirette versola luce.

«Ho preso io le chiavi», disseBonnie, tastandosi la tasca dei jeans.Aprì la porta e si affrettò a entrare,

subito seguita da Elena.

Meredith si attardò, girandosi aguardare il cortile affollato, poiscrutò l’oscurità che avviluppava il

campus. Quali che fossero i “guai”di cui aveva parlato l’agente, equalunque ne fosse la causa, umanao

di altra natura, sapeva di doveressere in perfetta forma, pronta acombattere.

Riusciva quasi a sentire la voce disuo padre che diceva: “Il tempo dei

divertimenti è finito, Meredith”.

Ora era tempo di concentrarsi dinuovo sugli allenamenti, tempo dilavorare per il suo destino di

protettrice, di seguire le orme deisuoi avi e difendere gli innocentidalle tenebre.

5

Il sole era troppo forte. Bonnie sischermò gli occhi con una mano e siguardò nervosamente attorno

mentre attraversava il cortile, diretta

alla libreria. Ci aveva messo moltoad addormentarsi quando era

tornata in camera la notte prima. Erapossibile che un pazzo si aggirasseper il campus molestando le

ragazze?

“È pieno giorno”, si disse. “C’è unsacco di gente. Non ho niente di cuiaver paura”. Ma le cose brutte

possono succedere anche di giorno.Uomini orribili adescavano leragazze e le convincevano a entrarein

macchina, oppure le colpivano allatesta e le trascinavano in posti bui. Imostri non si celavano solo nella

notte. Dopotutto, lei conoscevadiversi vampiri che non si facevanoalcun problema ad andare in giro

durante il giorno. Damon e Stefannon la spaventavano, non più, mac’erano altri mostri diurni. “Vorrei

solo stare tranquilla, una voltatanto”, pensò malinconica.

Si stava avvicinando all’area che lapolizia aveva perlustrato la notte

prima, ancora delimitata dal

nastro giallo. Nelle vicinanzec’erano gruppetti di due o trestudenti che parlottavano a bassavoce.

Dall’altra parte del sentiero, Bonnieidentificò una chiazza di un marronerossastro che poteva essere

sangue, affrettò il passo e la superò.

Sentì un fruscio fra i cespugli.Affrettò ancora di più il passo,immaginando un aggressore con gliocchi

selvaggi acquattato fra i cespugli, esi guardò nervosamente attorno.Nessuno faceva caso a lei.

L’avrebbero aiutata se avessegridato?

Si arrischiò a voltarsi per dareun’occhiata ai cespugli, chiedendosise non fosse meglio scappare e

basta. Poi si fermò, imbarazzata daiviolenti battiti del proprio cuore.Dai rami più bassi saltò fuori,

esitante, un grazioso scoiattolino.Annusò l’aria, attraversò di corsa il

sentiero e risalì su un albero dietro

il nastro della polizia.

«Diciamo la verità, BonnieMcCullough: sei un’idiota»,borbottò fra sé. Un ragazzo cheveniva dalla

direzione opposta la sentì,passandole accanto, e ridacchiò,facendola arrossire violentemente.

Quando arrivò alla libreria, ilrossore era sotto controllo. Avere lacarnagione tipica dei rossi era una

sofferenza: la sua pelle avvampavao impallidiva, rivelando tutto ciòche provava. Con un po’ di fortuna,

comunque, sarebbe riuscita adaffrontare una semplice passeggiataper comprare dei libri senza altre

umiliazioni.

Bonnie aveva sviluppato una certafamiliarità con la libreria nella suafrenesia da shopping del giorno

prima, ma non aveva propriamenteinvestigato il settore libresco delnegozio. Quella mattina, invece,

aveva una lista di libri per i corsi acui si era iscritta e dovevaapprovvigionarsi per una seriasessione di

studio. La scuola non le era maiandata molto a genio, ma forseall’università sarebbe stato diverso.

Drizzando la schiena conrisolutezza, voltò le spalle aglioggettini luccicanti e si diressedeterminata

verso i libri di testo.

Comunque, la lista era terribilmente

lunga. Scovò il corposo volume diIntroduzione alla Psicologia

con un senso di soddisfazione: leavrebbe finalmente fornito laterminologia per diagnosticare idisturbi

delle sue amiche. Al seminario diletteratura per matricole avevanoassegnato un mucchio di romanzi,

così fece un giretto nella sezione dinarrativa e passando prese dagliscaffali Il rosso e il nero, Oliver

Twist e L’età dell’innocenza.

Svoltò un angolo in cerca degli altriromanzi per il seminario, fece peraggiungere Gita al faro alla

crescente pila di libri, e siimmobilizzò.

Zander. Il bellissimo, meravigliosoZander era appoggiato con grazia auno scaffale, con la testa china

su un libro. Non l’aveva ancoravista, così Bonnie si rituffò subitonell’altra corsia.

Si appoggiò al muro, ansimando.Sentì le guance scaldarsi di nuovo:

maledetto rossore rivelatore.

Sbirciò di nuovo oltre l’angolo,attenta a non farsi vedere. Lui nonl’aveva notata; era ancora

concentrato nella lettura. Indossavauna maglietta grigia, e i suoi capellibiondi, quasi bianchi, così

soffici a guardarli, si arricciavanoun po’ sulla nuca. Aveva un’ariavagamente triste con gli splendidi

occhi azzurri celati dalle lungheciglia e senza la scintilla del suofavoloso sorriso. E aveva anche

delle

ombre scure sotto gli occhi.

Il primo istinto di Bonnie fu disvignarsela. Non c’era fretta, eavrebbe potuto prendere il romanzodi

Virginia Woolf anche l’indomani; infondo, non doveva cominciare aleggerlo quel giorno stesso. Non

voleva assolutamente che Zanderpensasse che lo stava pedinando.Sarebbe stato meglio se lui l’avesse

vista da qualche parte, magariquando era distratta. Se fosse statolui ad avvicinarla, lei avrebbecapito

che era interessato.

Dopotutto, non era detto che fosseinteressato a lei. Si era comportatocon una certa galanteria il giorno

prima, ma era anche vero chel’aveva quasi travolta. E se avessesolo voluto mostrarsi gentile? E senon

si fosse nemmeno ricordato di lei?

No, meglio tagliare la corda perquella volta e aspettare di essere piùpreparata. Non aveva neanche

messo la matita agli occhi, perl’amor del cielo. Prendendo unadecisione, Bonnie si diresse decisaverso

l’uscita.

Ma, d’altra parte…

Esitò. C’era un legame fra loro, no?Aveva sentito qualcosa quandol’aveva guardato negli occhi. E lui

le aveva sorriso come se avessevisto ciò che era realmente, oltrel’apparenza di ragazzina imbranata e

superficiale.

E che dire dei propositi fatti ilgiorno prima, mentre tornava aldormitorio da quella stessa libreria?Se

intendeva diventare il genere dipersona che non vive all’ombradegli altri, una donna brillante esicura

di sé, non poteva scappare ogni

volta che vedeva un ragazzo che lepiaceva.

Bonnie aveva sempre ammirato lacapacità che aveva Elena di ottenereogni volta ciò che voleva.

Andava dritta al bersaglio e niente simetteva in mezzo. Quando Stefan eraarrivato a Fell’s Church non

aveva voluto avere nulla a che farecon Elena, e di certo non avevapensato di cadere fra le sue bracciae

iniziare una specie di eterna e

straordinaria storia d’amore. MaElena non si era preoccupata.Avrebbe

avuto Stefan, anche a costo dellavita.

E, in effetti, aveva perso la vita, no?Bonnie rabbrividì.

Scosse leggermente la testa. Il fattoera che, se volevi trovare il veroamore, non dovevi avere paura di

cercarlo, vero?

Sporse il mento con aria decisa.

Almeno, non era più rossad’imbarazzo. Sentiva le guance cosìfredde

che probabilmente erano bianchecome quelle di un pupazzo di neve,ma di sicuro non stava arrossendo.

Era già qualcosa.

Prima di poter cambiare di nuovoidea, svoltò velocemente l’angolo etornò nella corsia in cui Zander

era in piedi a leggere.

«Ciao!», disse, con voce un po’

troppo stridula. «Zander!».

Lui alzò gli occhi dal libro e quelmeraviglioso, straordinario sorrisogli si allargò sulla faccia.

«Bonnie!», esclamò con entusiasmo.«Ehi, sono davvero felice di vederti.Stavo pensando a te prima».

«Davvero?», chiese lei, desiderandosubito prendersi a calci per essersimostrata così entusiasta.

«Già», rispose lui dolcemente.«Pensavo proprio a te». Tenne gliocchi azzurro cielo fissi nei suoi.

«Mi

sarebbe piaciuto averti chiesto ilnumero di telefono».

«Davvero?», chiese di nuovoBonnie, e stavolta non si preoccupòneppure di come fosse sembrata.

«Certo», disse lui. Strusciò i piedisul tappeto, come se fosse un po’nervoso, e una sensazione di calore

sbocciò dentro di lei. Parlare con leilo rendeva nervoso! «Stavopensando», continuò Zander, «cheforse

potremmo fare qualcosa insieme,qualche volta. Cioè, se ti va».

«Oh», fece Bonnie. «Volevo dire, sì!Mi piacerebbe. Se a te va bene».

Zander sorrise di nuovo, e fu comese nel loro angolino di scaffali dinarrativa si fosse acceso un faro

luminoso. Dovette trattenersidall’indietreggiare vacillando, tantoZander era meraviglioso.

«Che ne dici di questo finesettimana?», chiese lui, e Bonnie,sentendosi d’un tratto libera e

leggera,

come se potesse fluttuare nell’aria,gli restituì il sorriso.

Meredith fece un passo indietro conil piede sinistro e sollevò il tallonedestro, assumendo una posa

difensiva mentre alzava di scatto lemani e giungeva i pugni in una mossadi parata. Poi fece scivolare il

piede di lato in una posa frontale ediede un pugno nell’aria con lasinistra. Amava provare e riprovare

una forma del taekwondo. Ognimovimento era coreografato, el’unica cosa che doveva fare eraripeterlo

fino a eseguire con fluidità tutta laforma, in un modello di precisione,grazia e controllo. Le forme del

taekwondo erano perfettibili, eMeredith amava la perfezione.

L’aspetto più bello di quelladisciplina era che, una voltaraggiunta la padronanza di tutte leforme, tanto

che le sarebbero venute naturalicome respirare, avrebbe potutoaffrontare qualsiasi cosa. In un

combattimento, sarebbe riuscita aintuire la mossa successivadell’avversario e a rispondere conuna

parata, un calcio e un pugno senzanemmeno pensare.

Si girò rapida, parò in alto con lamano destra e in basso con lasinistra. Sapeva di doversi allenare

bene. Se il suo corpo avesse sentito

quale mossa fosse necessario faresenza dover coinvolgere il

cervello, allora sarebbe statadavvero in grado di proteggere sestessa e gli altri.

Quando, qualche settimana prima,lei e i suoi amici erano stati attaccatidallo spirito, lei si era slogata

una caviglia ed era rimasto soloStefan, con il suo Potere, a difendereFell’s Church.

Stefan, un vampiro.

Meredith serrò le labbra, mentred’istinto dava un calcio con ildestro, scivolava nella posizionedella

tigre e parava con la mano sinistra.

Stefan le era simpatico e si fidava dilui, sul serio, tuttavia… Immaginavache intere generazioni di

Sulez si sarebbero rivoltate nellatomba e l’avrebbero maledetta, seavessero saputo che aveva messo se

stessa e i suoi amici in una posizionetanto vulnerabile, permettendo che

solo un vampiro si frapponesse

fra loro e il pericolo. I vampirierano il nemico.

Non Stefan, ovviamente. Nonostanteciò che le avevano insegnato, sapevadi poter fare affidamento su

di lui. Damon, invece… Per quantofosse stato d’aiuto in un paio dibattaglie, e per quanto ragionevole,

affabile e francamente sorprendentesi fosse dimostrato nelle ultimesettimane, Meredith non riusciva a

fidarsi di lui.

Ma se si fosse allenata duramente,se si fosse perfezionata comecombattente, non sarebbe stato

necessario. Assunse una posizionefrontale sul piede destro e, rapida eprecisa, sferrò un pugno con la

mano destra.

«Bel colpo», disse una voce alle suespalle.

Meredith si girò e vide una ragazzaafroamericana con i capelli corti che

la guardava appoggiata alla

porta della sala.

«Grazie», disse Meredith, sorpresa.

La ragazza entrò con disinvoltura.«Che cosa sei», chiese, «cinturanera?»

«Sì», rispose Meredith, e non riuscìa trattenersi dall’aggiungere conorgoglio, «di taekwondo e karate».

«Uhm», fece la ragazza, con unluccichio negli occhi. «Anch’iopratico taekwondo, e aikido.

Piacere,

Samantha. Stavo proprio cercandouna sparring partner. Ti interessa?».

Anche se l’aveva chiesto con tonodisinteressato, Samantha sidondolava ansiosa sulle punte deipiedi e

un sorriso malizioso le increspavagli angoli della bocca. Meredithsocchiuse gli occhi.

«Certo», rispose con aria rilassata.«Mostrami che cosa sai fare».

Il sorriso di Samantha si allargò. Sitolse le scarpe con un calcio eraggiunse Meredith sul materassino

per gli allenamenti. Sifronteggiarono, valutandosi avicenda. Samantha era una ragazzaesile, più bassa

di lei, ma aveva muscoli sodi eflessuosi e si muoveva con la graziadi un gatto.

I suoi occhi tradivano la convinzioneche Meredith fosse un’avversariafacile da battere. Pensava che

fosse una di quelle praticanti tuttatecnica e formalità, senza alcunistinto per la lotta. Meredithconosceva

bene quel tipo di lottatori, avendoliincontrati abbastanza spesso nellecompetizioni. Se era questo ciò

che Samantha pensava di lei,avrebbe ricevuto una bella sorpresa.

«Sei pronta?», chiese Samantha. Alcenno affermativo di Meredith,sferrò subito un gancio destro mentre

portava avanti il piede sinistro nel

tentativo di farle lo sgambetto.Meredith reagì d’istinto, parando il

colpo e schivando il piededell’avversaria, poi tentò lei stessauno sgambetto, che Samantha evitò,

sorridendo di puro piacere.

Si scambiarono altri pugni e calci, eMeredith dovette ammettere, seppurcontrovoglia, di essere

impressionata. Quella ragazza eraveloce, più della maggior partedegli avversari con cui si era

confrontata in passato, persino allivello di cintura nera, ed era piùforte di quanto sembrasse.

Era troppo presuntuosa, comunque, ecombatteva meglio in attacco che indifesa; si capiva anche dalla

fretta con cui aveva assestato ilprimo colpo. Avrebbe potutoritorcerle contro la sua presunzione.

Samantha spostò il peso sull’altragamba e Meredith arrivò inscivolata, schivando le sue bracciain

parata, e sferrò un calcio rotante dipunta che colpì violentementel’avversaria sulla coscia. Samantha

perse per un attimo l’equilibrio eMeredith si allontanò rapidamente,mettendosi fuori dalla sua portata.

L’espressione di Samantha cambiòdi colpo. Meredith si accorse che sistava arrabbiando, e anche

quella era una debolezza. Aveva lafronte aggrottata e le labbra serrate,mentre Meredith rimaneva

volutamente inespressiva. Samantha

era veloce con le mani e con i piedi,ma aveva perso un po’ di

precisione aumentando la velocità.

Meredith le fece credere diretrocedere sotto i suoi colpi,facendo delle finte per sbilanciare

l’avversaria e lasciandosi mettereall’angolo, pur continuando a pararei colpi. Quando fu quasi

all’angolo, spinse il braccio controil pugno di Samantha, bloccandolaprima che lei riuscisse a mettere a

segno il colpo, e le fece losgambetto.

Samantha, colpita dal calcio bassodi Meredith, incespicò e caddepesantemente sul materasso. Restò lì

distesa, limitandosi a fissarla dalbasso, per un momento, conespressione sbalordita, mentreMeredith, di

colpo insicura, si ergeva su lei. Leaveva fatto male? Se la sarebbepresa e sarebbe andata via infuriata?

Allora sul viso di Samantha sbocciò

un largo, luminoso sorriso. «È statofantastico!», disse. «Puoi farmi

rivedere quella mossa?».

6

Matt tastò prudentemente il terrenocon i piedi finché trovò il mantoerboso, poi, pian piano,

s’incamminò, tenendo le maniprotese in avanti, e si fermò quandotoccò la corteccia ruvida di unalbero.

Era probabile che non ci fossero

molte persone dalle parti delcancello principale del campus, ma

avrebbe preferito che non ci fosseproprio nessuno a vederlo, perchécosì bendato, in giacca e cravatta,

con un abito adatto a un funerale o aun matrimonio, doveva sembrare unperfetto idiota.

D’altra parte, voleva essere certo dipoter essere identificato da chiunquefosse venuto a prenderlo.

Meglio sembrare un idiota edentrare a far parte della Vitale

Society, che nascondersi e passare ilresto

della nottata bendato fra i cespugli.Matt tornò a tentoni verso il punto incui pensava si trovasse il

cancello e inciampò. Agitando lemani, riuscì a riacquistarel’equilibrio.

D’un tratto, desiderò aver detto aqualcuno dove stava andando. E senon fosse stata la Vitale Society a

lasciargli quell’invito? Se fossestato un piano per sorprenderlo da

solo, una specie di trappola? Matt si

passò le dita sotto il colletto, strettoe sudato. Dopo tutte le assurdità chegli erano successe nell’ultimo

anno, non poteva evitare di essereparanoico.

Se ora fosse scomparso, i suoi amicinon avrebbero mai saputo cosa gliera successo. Pensò ai ridenti

occhi azzurri di Elena, al suosguardo limpido e indagatore.Sapeva che lei avrebbe sentito lasua

mancanza, se fosse scomparso,anche se non l’aveva mai amato nelmodo in cui lui avrebbe voluto. Se

fosse morto, la risata di Bonnieavrebbe perso la sua notaspensierata, e Meredith sarebbediventata più

rigida e spietata, pretendendo ancoradi più da se stessa. Ci tenevano alui.

L’invito della Vitale Society erachiaro, comunque: non doveva dirloa nessuno. Se voleva entrare nel

gioco doveva giocare con le lororegole. E lui capiva le regole.

Senza alcun preavviso, duesconosciuti lo afferrarono per lebraccia, uno per lato. Matt, d’istinto,si

divincolò e sentì la persona alla suadestra grugnire esasperata.

«Fortis aeturnus», sibilò quello allasua sinistra, come fosse una parolad’ordine, e Matt sentì il suo

fiato caldo sull’orecchio.

Smise di lottare. Era l’intestazionesulla lettera della Vitale Society.Era piuttosto sicuro che fosse

latino. Rimpianse di non aver spesodue minuti a cercare il significato. Silasciò guidare attraverso il

prato e sul sentiero dai due che lotenevano per le braccia.

«Gradino», bisbigliò il tizio alla suasinistra, e Matt alzò il piede concautela, salendo su quello che

sembrava il retro di un furgone.

Gli spinsero giù la testa confermezza, per evitare che sbattessecontro il tetto del furgone, e Matt

ripensò a un terribile episodiodell’estate passata, quando loavevano arrestato con l’accusa diaver

aggredito Caroline. I poliziotti gliavevano spinto giù la testa allostesso modo quando l’avevano fatto

salire ammanettato sul sedileposteriore della volante. Al ricordo,gli si contorse di nuovo lo stomacoper

la paura, ma scacciò via quellasensazione. Le Guardiane avevanocancellato i ricordi delle falseaccuse

di Caroline, così come avevanomodificato tutto il resto.

Lo guidarono verso un sedile e glimisero la cintura di sicurezza.Aveva la sensazione che ci fossero

altre persone sedute intorno a lui, eaprì la bocca per parlare, anche senon sapeva cosa avrebbe detto.

«Silenzio», mormorò la voce

misteriosa, e lui chiuse la boccaobbediente. Strizzò gli occhi pervedere

qualcosa oltre la benda, anche unbarlume di luce e ombra, ma erabuio pesto. Sentì uno scalpiccio di

passi sul pavimento del furgone; poilo sbattere dello sportello e ilmotore che si avviava.

Matt si rilassò sul sedile. Cercò ditenere traccia delle svolte prese dalfurgone, ma dopo pochi minuti

perse il conto delle volte in cui

aveva girato a destra o a sinistra e silimitò a starsene seduto in silenzio,

aspettando di vedere cosa sarebbesuccesso.

Dopo circa un quarto d’ora, ilfurgone si fermò. Gli altri passeggerisi sedettero più composti, e anche

lui si irrigidì. Sentì lo sportellodavanti aprirsi e richiudersi, e deipassi intorno al furgone prima che si

aprisse lo sportello posteriore.

«Restate in silenzio», ordinò il tizio

che aveva parlato prima. «Viguideremo noi verso la prossima

tappa del viaggio».

Alzandosi, Matt sfiorò la persona alsuo fianco e, mentre la portavanovia, la sentì inciampare su quella

che, dal rumore che faceva sotto lescarpe, doveva essere ghiaia.Rimase in ascolto, ma, dopo che iltipo

se ne fu andato, sentì solo imovimenti inquieti degli altripasseggeri seduti nel furgone.

Sobbalzò quando

lo afferrarono di nuovo per lebraccia. Gli erano arrivati di nuovoalle spalle di soppiatto; non aveva

sentito nulla.

Lo aiutarono a scendere dal furgone,lo guidarono lungo quello chepareva un marciapiede o un cortile,e

Matt sentì sotto i piedi prima laghiaia, poi il selciato. Le guide glifecero salire una serie di scale, lo

condussero per una specie dicorridoio, infine ridiscesero. Mattcontò tre rampe di scale prima che si

fermassero di nuovo.

«Aspettate qui», disse una voce, epoi le guide se ne andarono.

Matt cercò di capire dove sitrovasse. Sentiva delle persone,probabilmente gli altri passeggeridel

furgone, che cambiavano posizione,ma nessuno parlava. A giudicaredall’eco prodotta dai loro

movimenti, si trovavano in un grandespazio vuoto. Una palestra? Unseminterrato? Probabilmente un

seminterrato, dopo tutte quelle scale.

Alle spalle udì un suono smorzato,come il chiudersi di una porta.

«Potete togliervi le bende adesso»,disse una nuova voce, profonda esicura.

Matt si slegò la benda e si guardòattorno, sbattendo le palpebrementre gli occhi si adattavano allaluce.

Era una luce fioca e indiretta, il chesupportava la teoria delseminterrato, ma in tal caso, era lo

scantinato più bello che avesse maivisto.

Si trattava di una stanza immensa, icui confini si perdevanonell’oscurità; pareti e pavimentoerano

rivestiti da pannelli di robusto legnoscuro. Il soffitto era sostenuto aintervalli da arcate e pilastri con

varie scene intarsiate; il volto arguto

e contorto di uno spiritello losbirciava da un pilastro; la

raffigurazione di un cervo in corsaattraversava una delle arcate.Allineati lungo le pareti, c’eranosedie

di velluto rosso e pesanti tavoli dilegno. Matt e gli altri erano di frontealla grande arcata centrale,

sormontata da un’imponente e ornatalettera V, fatta di vari tipi di metalliluccicanti e ben lucidati, saldati

insieme a formare un disegno

elaborato. Sotto la V, figurava lostesso motto che era stato vergato

sull’invito: FORTIS AETURNUS.

Guardando gli altri, Matt scoprì dinon essere l’unico a sentirsi confusoe in ansia. C’erano forse altri

quindici studenti, e sembravano dianni differenti: quel tipo alto, con lespalle curve e la barba lunga, era

tutto fuorché una matricola.

Una ragazza bassina, con il visotondo e corti riccioli castani, catturò

la sua attenzione. Lei lo guardò col

sopracciglio alzato, spalancando labocca in un’esageratamanifestazione di stupore. Lui lerispose con un

sorriso, sentendosi più tranquillo. Lesi avvicinò e stava per presentarsisottovoce quando fu interrotto.

«Benvenuti», disse la voce profondae autoritaria che aveva ordinato lorodi togliere le bende, e un

giovane apparve nel passaggio adarco, proprio sotto l’enorme lettera

V. Dietro di lui c’era un gruppo di

ragazzi e ragazze, disposti incerchio, tutti mascherati e vestiti dinero. Matt pensò che, anzichésembrare

fuori luogo, quelle figure mascherateavevano un’aura di mistero e riserboche lo costrinse a reprimere un

brivido.

Il ragazzo sotto l’arco era l’unicoche non indossasse una maschera.Aveva i capelli ricci e scuri ed era

un po’ più basso delle silenziosefigure che lo attorniavano. Sul suovolto apparve un sorriso caloroso

mentre tendeva le mani verso Matt egli altri.

«Benvenuti», ripeté, «nella nostrasocietà segreta. Forse avete sentitodelle voci sulla Vitale Society, la

più antica e illustre organizzazionedel Dalcrest. È una società di cuispesso si parla sottovoce, ma su cui

nessuno sa la verità. Nessuno,eccetto i suoi membri. Sono Ethan

Crane, l’attuale presidente dellaVitale

Society, e sono molto felice cheabbiate accettato il nostro invito».

Fece una pausa per guardarsiattorno. «Siete stati invitati aprestare giuramento perché siete ilmeglio

del meglio. Ognuno di voi ha talentoin campi differenti». Indicò ilragazzo alto e barbuto che Mattaveva

notato prima. «Stuart Covington, la

più brillante mente scientifica fra glistudenti dell’ultimo anno, è forse

uno degli scienziati più promettentidel Paese. I suoi articoli dibiogenetica sono già apparsi sunumerose

riviste».

Ethan si mescolò alla folla e sifermò accanto a Matt. Da quelladistanza, Matt vide che i suoi occhi

nocciola avevano sfumature dorateed erano pieni di calore umano.«Matt Honeycutt è entrato nella

squadra di football del Dalcrestcome esordiente, dopo avercapitanato la squadra del suo liceoai

campionati statali lo scorso anno.Avrebbe potuto scegliere apiacimento fra i programmi difootball

universitari, invece ha scelto divenire al Dalcrest». Matt chinò latesta con modestia, ed Ethan glistrinse

la spalla prima di procedere oltre efermarsi accanto alla ragazza carina

con il viso tondo.

«Junior Chloe Pascal è, come sa chidi voi l’anno scorso ha visitatol’esposizione d’arte, la più

talentuosa artista del campus. Con lesue sculture, emozionanti edinamiche, ha vinto il GershnerAward

per due anni consecutivi». Le diedeuna pacca sul braccio e Chloearrossì.

Ethan proseguì e passò in rassegnatutti i membri del loro piccolo

gruppo, elencando i risultatiraggiunti

nei rispettivi campi. Matt ascoltavaa metà, mentre osservava leespressioni assorte sui volti deglialtri

candidati, ma ebbe l’impressioneche ci fosse una grande varietà ditalenti, e che quello fosse davveroun

raduno dei migliori studenti delcampus, un’assemblea difuoriclasse. E sembrava che luifosse l’unica

matricola.

Si sentiva come se Ethan gli avesseacceso dentro una candela luminosa:avevano scelto lui, Matt, il

meno dotato nel suo gruppo di amici.

«Come potete vedere», disse Ethan,tornando di fronte a loro, «ognuno divoi ha un talento diverso.

Intelligenza, creatività, buona formafisica, abilità di leadership. Questequalità, messe assieme, possono

fare di voi il più potente ed elitario

dei gruppi, non solo al campus, main ogni ambito. La Vitale Society

è un’organizzazione con una lungastoria, e una volta che si entra afarne parte, si rimane membri pertutta

la vita. Per sempre». Sollevò un ditoin segno di ammonimento,guardandoli con espressione seria.

«Comunque, questa riunione è soloil primo passo sulla strada perdiventare un Vitale. Ed è una strada

difficile». Sorrise di nuovo. «Ma io

credo – noi crediamo – che tutti voiabbiate ciò che serve a

diventare un Vitale. Non sareste statiinvitati a prestare giuramento, se nonavessimo pensato che ne foste

degni».

Matt drizzò le spalle e tenne alta latesta. Che fosse o no il menoeccezionale del suo gruppo, aveva

salvato il mondo – o almeno la suacittà – più di una volta. Anche seaveva solo fatto parte di una

squadra, era piuttosto certo di poteraffrontare qualunque prova la VitaleSociety gli avrebbe sottoposto.

Ethan sorrise, rivolto a lui. «Se sietepronti a prestare giuramento per laVitale Society, a mantenere i

nostri segreti e a guadagnare lanostra fiducia, fate un passo avanti».

Matt fece un passo avanti senzaesitare. Anche Chloe e il tiziobarbuto, Stuart, fecero un passoavanti e,

guardandosi attorno, Matt vide che

tutti i candidati erano avanzati, comeun corpo solo.

Ethan si avvicinò a Matt e gli afferròil risvolto dell’abito. «Ecco qui»,disse, appuntandovi

velocemente qualcosa e lasciandoloandare. «Indossa sempre questaspilla, ma con discrezione. Devi

tenere segreti i tuoi rapporti con lasocietà. Ti contatteremo noi.Congratulazioni». Gli rivolse unbreve,

genuino sorriso e passò a Chloe,

ripetendo le stesse parole.

Matt girò il risvolto della giacca eosservò la piccola V blu scuro cheEthan ci aveva appuntato. In

passato, non aveva mai pensatomolto alle confraternite, alle societàsegrete o a qualsiasi organizzazione

che non fosse una squadra difootball. Ma essere l’unicamatricola ad aver ricevuto l’invitodella

leggendaria Vitale Society eradiverso. Avevano visto qualcosa in

lui, qualcosa di speciale.

7

«Difficilmente si sarebbe potutotrovare un gruppo di pionieri menoidoneo a costituire una colonia dei

centocinque uomini che salparonodalle rive di Chesapeake Bay nel1607 e fondarono Jamestown»,

spiegò il professor Campbell dallacattedra della classe di Elena.«Certo, fra loro c’erano un paio di

carpentieri, un muratore, un fabbro e

forse una dozzina di braccianti, macoloro che si erano

autoproclamati gentiluomini erano inevidente sovrannumero ecostituivano quasi la metà delgruppo».

Fece una pausa e abbozzò un sorrisosardonico. «“Gentiluomini”, inquesto caso, significa uomini senza

arte né parte. Molti di loro eranodisoccupati o fannulloni che si eranouniti alla spedizione della London

Company nella speranza di ottenere

un profitto, ma senza comprenderequanto lavoro richiedesse fondare

una colonia nel Nuovo Mondo. Icoloni sbarcarono in primavera e,prima della fine di settembre, metàdi

loro erano morti. A gennaio, quandoil capitano Newport tornò con leprovviste e nuovi pionieri, erano

rimasti solo trentotto dei colonioriginari».

“Pigri e incapaci”, appuntò Elenasul quaderno. “Morti in meno di un

anno”.

Storia degli Stati del Sud era il suoprimo corso universitario, ma avevagià capito che al college le

avrebbero aperto gli occhi. I suoiinsegnanti del liceo avevano sempreenfatizzato il coraggio e

l’intraprendenza dei primi pionieridella Virginia, non la loroinettitudine.

«Martedì parleremo della leggendadi John Smith e Pocahontas.Discuteremo dei fatti e di quanto

differiscano dal resoconto di Smith,poiché questi aveva una certatendenza all’auto-promozione»,

annunciò il professor Campbell. «Leletture da fare sono nel programma,quindi vi chiedo di prepararvi

per una vivace discussione laprossima volta». Era un omettograssoccio ed energico, che fecescorrere

sulla classe i suoi occhietti neriprima di posarli deciso su Elena eaggiungere: «Elena Gilbert? Per

favore, si trattenga un minuto dopola lezione. Vorrei parlare con lei».

Mentre gli altri studenti uscivanoalla spicciolata o si fermavano perfargli delle domande, Elena ebbe il

tempo di chiedersi nervosamenteperché il professore sapesse chifosse. Non aveva aperto boccadurante

la lezione e c’erano circa cinquantastudenti in quel corso.

Quando anche l’ultimo degli studentilasciò l’aula, Elena si avvicinò alla

cattedra.

«Elena Gilbert», disse l’insegnantein tono benevolo, cercando il suosguardo con gli occhietti vivaci.

«Mi scusi se le rubo un po’ ditempo, ma quando ho sentito il suonome, ho capito che dovevo farleuna

domanda».

Fece una pausa, ed Elena chiese intono rispettoso: «Che cosa volevachiedermi, professore?»

«Il suo cognome non mi è nuovo,capisce», disse, «e più la guardo,più mi ricorda due persone che un

tempo erano mie carissime amiche.Lei è forse la figlia di ElizabethMorrow e Thomas Gilbert?»

«Sì, sono io», rispose Elena dopo unattimo di esitazione. Avrebbe dovutoaspettarsi di incontrare dei

conoscenti dei suoi genitori lì alDalcrest, tuttavia faceva uno stranoeffetto sentir pronunciare i loro

nomi.

«Ah!». Il professore intrecciò le ditain grembo e le lanciò un sorrisosoddisfatto. «Somiglia così tanto a

Elizabeth. Mi ha fatto quasi prendereun colpo quando è entrata in classe.Ma c’è anche qualcosa di

Thomas in lei, può starne certa.Qualcosa nella sua espressione,credo. Vederla mi ha riportato aitempi

in cui ero anch’io uno studenteuniversitario. Sua madre era unaragazza adorabile, semplicemente

adorabile».

«Ha frequentato il college con i mieigenitori?», chiese Elena.

«Certo». Il professor Campbellspalancò i piccoli occhi neri.«Erano i miei migliori amici. Duedei

migliori che abbia mai avuto. Congli anni ci siamo persi di vista,purtroppo, ma ho saputo

dell’incidente». Sciolse le dita e letoccò il braccio, esitante. «Midispiace».

«Grazie». Elena si morse le labbra.«Non hanno mai parlato molto deiloro anni universitari. Forse

l’avrebbero fatto una volta che fossicresciuta…». La voce le vennemeno, e si accorse con sgomento di

avere gli occhi pieni di lacrime.

«Oh, mia cara, non volevo turbarla».Il professor Campbell batté le manisulle tasche della giacca. «E

non ho mai un fazzoletto quandoserve. Oh, la prego, non pianga».

La sua espressione afflitta era cosìcomica che Elena gli rivolse unsorriso fra le lacrime, e lui si rilassò

e le sorrise a sua volta. «Ecco, cosìva meglio», disse. «Guardi, se vuolesentire altre storie sui suoi

genitori e su com’erano quandovenivano al college, sarò lieto diraccontargliele. Ne so a bizzeffe».

«Davvero?», chiese lei speranzosa.Sentì un brivido di eccitazione. ZiaJudith le aveva parlato di sua

madre qualche volta, ma i suoi

ricordi riguardavano soprattuttol’infanzia. Ed Elena non sapevaquasi

niente del passato di suo padre.Sapeva solo che era figlio unico eche i suoi genitori erano morti.

«Senz’altro», rispose allegramente ilprofessor Campbell. «Venga nel mioorario di ricevimento e le

racconterò tutte le peripezie cheabbiamo vissuto ai vecchi tempi.Sono qui il lunedì e il venerdì dalletre

alle cinque, e metterò un tappetino dibenvenuto per lei. Metaforicamenteparlando, ovvio. Prenda pure

una tazza di quel disgustoso caffèdella macchinetta».

«Grazie, professor Campbell», disseElena. «Verrò con piacere».

«Chiamami James», disse lui. «Manon ringraziarmi. È il minimo chepossa fare per farti sentire a casa,

qui al Dalcrest». Piegò la testa dilato e la guardò con ariainterrogativa, gli occhi lucenti e

curiosi come

quelli di un animaletto. «Dopotutto,in quanto figlia di Elizabeth eThomas, devi essere una ragazza

davvero speciale».

Un grosso corvo nero zampettavaavanti e indietro fuori dalla finestraaperta dell’aula, aprendo e

chiudendo i possenti artigli intornoal ramo su cui era appollaiato.Damon avrebbe volutoritrasformarsi

in vampiro, arrampicarsi sullafinestra e sottoporre il professore aun rapido ma efficace interrogatorio.

Ma a Elena non sarebbe piaciuto.

Era così ingenua, dannazione.

Sì, certo, era la sua adorabile,intelligente e astuta principessa, maera anche assurdamente ingenua;

come tutti gli altri. Damon si lisciòle piume arruffate col becco,rendendole di nuovo lucide e

iridescenti. Erano troppo giovani,

tutto qui. Arrivato a quel punto,Damon poteva guardarsi indietro e

affermare che nessuno apprendevaniente dalla vita, almeno non neiprimi cento anni. Bisognava essere

immortali, sul serio, per avere iltempo di imparare a badare davveroa se stessi.

Un esempio lampante era proprioElena, che fissava il professore consguardo fiducioso. Nonostante

tutto ciò che aveva passato e visto,bastava un niente e tornava a cullarsi

nel compiacimento: quell’uomo

non aveva dovuto far altro cheagitarle davanti la promessa dinuove informazioni sui suoi genitorie lei

sarebbe stata felice di trottare nelsuo studio tutte le volte che luil’avesse voluto. Scioccasentimentale.

Che avrebbe potuto mai dirlequell’uomo che fosse davveroimportante? Niente avrebbe mairiportato in

vita i suoi genitori.

Molto probabilmente, il professorenon era pericoloso. Damon l’avevasondato con il Potere e aveva

trovato solo la tenue luminescenza diuna mente umana; non aveva sentitoalcuna ondata di Potere oscuro

in risposta, né erano sorte emozioniviolente e preoccupanti. Ma nonpoteva esserne sicuro al cento per

cento. Il suo Potere non era in gradodi individuare tutti i mostri, né diprevedere tutti i tortuosi sviluppi

del cuore umano.

Il vero problema però, in quelmomento, era Elena. Era evidenteche si era dimenticata di aver perso

tutto il suo Potere, di essere stataspogliata di ogni facoltàsovrannaturale dalle Guardiane, chel’avevano

ritrasformata in una vulnerabile efragile mortale. Pensava, a torto, dipotersi difendere da sola.

Tutti uguali, gli umani. Damon si eraarrabbiato quando si era accorto per

la prima di volta di aver

cominciato a considerarli i suoiumani. Non solo la sua adorabileElena e il piccolo pettirosso, ma tutti

loro: la vecchia strega, lacacciatrice e persino ilfessacchiotto. Gli ultimi duenemmeno lo vedevano di

buon occhio, ma si sentiva obbligatoa badare a loro, per evitare che sifacessero del male a causa della

loro innata stupidità.

Non aveva deciso lui di stare lì. No,non era stata sua l’idea del“prendiamoci per mano econtinuiamo

gli studi tutti assieme”, anzi, luiaveva trattato la faccenda con ildovuto disprezzo. Non era Stefan. Enon

aveva intenzione di sprecare il suotempo fingendo di essere uno di queiragazzi mortali.

Ma aveva scoperto, con suo grandesgomento, di non volerli nemmenoperdere.

Era imbarazzante. I vampiri nonerano animali sociali, non eranocome gli umani. Non avrebbe dovuto

preoccuparsi di ciò che potevacapitare loro. Quei ragazziniavrebbero dovuto essere prede,nient’altro.

Ma morire e resuscitare, combatterelo spirito della gelosia e liberarsidella spregevole invidia e della

meschinità che l’avevano tenutoprigioniero sin da quando eraumano, l’avevano cambiato. Ora cheil

pesante carico d’odio, che tanto alungo aveva albergato nel suo petto,era sparito, aveva scoperto di

sentirsi più leggero. Quasi come segli altri… gli stessero a cuore.

Al di là dell’imbarazzo che gliprocurava, quel legame con ilgruppetto di umani erasorprendentemente

piacevole. Ma sarebbe mortoun’altra volta piuttosto cheammetterlo a voce alta.

Fece schioccare il becco un paio di

volte mentre Elena salutava ilprofessore e lasciava l’aula. Poi

spalancò le ali e scese dall’alberoper andarsi a posare accantoall’entrata dell’edificio.

Poco più in là, un giovanotto magrostava affiggendo a un albero unvolantino con la foto di una ragazza

e Damon si avvicinò per dareun’occhiata più da vicino.“Studentessa scomparsa”, era scrittoin alto sul

volantino, e sotto la foto c’erano i

dettagli della sparizione: erasuccesso di notte e non c’era nessun

indizio, nessuna pista, nessunaprova, nessuna idea di dove potesseessere la diciannovenne Taylor

Harrison. Si sospettava un crimine. Ifamiliari preoccupati promettevanouna ricompensa a chiunque

avesse fornito loro informazioni utiliper riportarla a casa sana e salva.

Damon gracchiò forte. C’eraqualcosa di strano in quel posto.L’aveva già capito. Aveva sentito

che nel

campus c’era qualcosa di sbagliatoappena arrivato, due giorni prima,anche se non era ancora riuscito a

individuare cosa fosse. Perchéaltrimenti avrebbe dovuto sentirsicosì in ansia per la sua principessa?

Elena uscì dall’edificio e attraversòil cortile, sistemandosi dietro leorecchie i lunghi capelli biondi,

ignara del corvo nero che la seguivasfrecciando da un albero all’altro.Damon era deciso a scoprire cosa

stava succedendo, e l’avrebbe fattoprima che il misterioso responsabiledi quella sparizione torcesse un

capello a uno qualsiasi dei suoiumani.

Specialmente a Elena.

8

«Bleah, non credo che sul banconedei piatti caldi ci sia qualcosa chepotrò mai considerare

commestibile», disse Elena a Stefan.«Non riesco nemmeno a identificare

metà delle pietanze». Lui la

guardò paziente mentre passava albanco delle insalate.

«Non è molto meglio», disse Elena,sollevando un cucchiaino di fiocchidi latte sbiaditi e lasciandolo

ricadere nella brodaglia traboccantedal contenitore, a riprova delleproprie parole. «Pensavo che il cibo

al college fosse più commestibileche alla mensa del liceo, ma aquanto pare mi sbagliavo».

Stefan fece un vago verso di assensoe si guardò attorno per cercare untavolo. Non aveva preso nulla

dal bancone. Le pietanze umaneerano piuttosto insipide per lui, e inmattinata aveva usato il Potere per

chiamare una colomba sul suobalcone. Ne aveva ricavatoabbastanza sangue per sostentarsifino a sera,

quando sarebbe dovuto tornare acaccia.

Quando Elena finalmente si servì

un’insalata, l’accompagnò a untavolo libero che aveva individuato

prima.

Lei lo baciò prima di sedersi, e unbrivido di piacere lo percorsequando le loro menti si toccarono.Tra

loro si instaurò il familiare legame elui percepì la gioia di Elena, lacontentezza di cominciare insieme

una nuova vita, una vita quasinormale. Ma dietro la gioia c’eraqualcos’altro: Elena fremeva di

eccitazione e Stefan le rivolse unosguardo interrogativo, come achiederle cosa fosse accaduto da

quando si erano lasciati quellamattina.

Elena interruppe il bacio e risposealla domanda inespressa.

«Il professor Campbell, il mioinsegnante di storia, conosceva imiei genitori al college», disse.Parlava

con calma, ma le brillavano gliocchi e Stefan capì che si trattava di

una cosa davvero importante per lei.

«Era un loro grande amico. Puòraccontarmi storie su di loro,mostrarmi aspetti delle loro vite chenon ho

mai conosciuto».

«È fantastico», disse Stefan, feliceper lei. «Com’è andata la lezione?»

«Benissimo», rispose Elena,cominciando a mangiare l’insalata.«Nelle prime due settimaneparleremo

dell’epoca coloniale». Alzò losguardo, tenendo la forchettasospesa a mezz’aria. «E tu? Com’èandata la

tua lezione di filosofia?»

«Bene». Stefan fece una pausa.“Bene” non era esattamente ciò chevoleva dire. Si era sentito strano a

starsene di nuovo seduto in un’aulauniversitaria. Nel corso della sualunga vita, aveva frequentato

l’università un po’ di volte,assistendo al susseguirsi delle mode

educative. All’inizio, i suoicompagni

erano un ristretto numero di giovanifacoltosi, ora, invece, le universitàerano frequentate da ragazzi e

ragazze di varia provenienza. Mac’era una somiglianza essenziale fratutte quelle esperienze. Il

professore sedeva in cattedra a farelezione e gli studenti assistevano,chi annoiato, chi con vivo

interesse. Una certa superficialità dipensiero, la tendenza a evitare con

timido e frettoloso riserbo

l’esposizione di un sentire piùprofondo.

Aveva ragione Damon. Lui nonapparteneva a quel posto; stava solointerpretando una parte, per

l’ennesima volta. Stava ammazzandoun po’ del suo tempo illimitato. MaElena… La guardò, mentre lei

lo fissava con gli occhi azzurriluccicanti… Lei vi apparteneva.Meritava l’opportunità di una vita

normale, e Stefan sapeva che senzadi lui non sarebbe andata al college.

Poteva comunicarle quei pensieri?Non voleva smorzare l’eccitazionenei suoi occhi simili a

lapislazzuli, ma aveva giurato didirle sempre la verità, di trattarlacome sua pari. Aprì la bocca,

sperando di riuscire a spiegare ciòche sentiva, almeno in parte.

«Avete saputo di DanielGreenwater?», chiese una ragazza,con la voce resa stridula dalla

curiosità,

mentre si sedeva con le amicheall’altro capo del tavolo. Stefanchiuse la bocca e si girò adascoltare.

«Chi è Daniel Greenwater?», chiesequalcuno.

«Guardate», disse la ragazza,spiegando un giornale davanti aloro. Allungando il collo per dare

un’occhiata, Stefan vide che sitrattava del giornale del campus. «Èuna matricola, ed è scomparso. È

andato via dal centro studentescoall’ora di chiusura, ieri sera, e i suoicompagni di stanza dicono che non

è più tornato. È inquietante, sulserio».

Stefan incrociò lo sguardo di Elenadall’altra parte del tavolo, e leisollevò un sopracciglio con aria

pensierosa. Era forse un evento sucui avrebbero dovuto investigare?

Un’altra ragazza, dalla parte oppostadel tavolo, fece spallucce. «Secondome era troppo stressato ed è

tornato a casa, tutto qui. Oppure,forse, il suo compagno di stanza l’haassassinato. Sapete che se il vostro

compagno di stanza muore prendeteautomaticamente il voto più alto agliesami?»

«È una leggenda metropolitana»,disse Stefan sovrappensiero, e leragazze lo guardarono stupite.«Posso

dare un’occhiata al giornale, perfavore?».

Appena glielo passarono, prese a

esaminare la foto in prima pagina:un ragazzo magrolino, con i capelli

flosci, gli incisivi un po’ pronunciatie uno sguardo amichevole glisorrideva dall’immagine presa

dall’annuario. Un volto che non gliera nuovo. In effetti, il nome gli erasubito suonato familiare.

«Sta al nostro dormitorio», dissesottovoce a Elena. «Te lo ricordi?L’abbiamo incontrato al corso di

orientamento. Sembrava felice diessere qui. Non penso che se ne sia

andato, non di sua spontanea

volontà».

Elena lo fissò con uno sguardoansioso. «Pensi che gli sia successoqualcosa? La prima notte che

abbiamo passato qui è accadutoqualcosa di strano in cortile».Deglutì. «Hanno parlato di unaragazza

finita nei guai, ma i poliziotti nonhanno voluto dirci nulla. Pensi chepotrebbe esserci un nesso con la

scomparsa di Daniel Greenwater?»

«Non lo so», rispose teso Stefan,«ma sono preoccupato. Qualunquecosa fuori dall’ordinario mi

innervosisce». Si alzò. «Andiamo.Sei pronta?». Elena annuì, anche semetà del suo pranzo era ancora sul

vassoio. Stefan restituì educatamenteil giornale alle ragazze e la seguìfuori.

«Forse siamo paranoici perchésiamo abituati ad avere a che farecon eventi terribili», disse Elena,

imboccando il sentiero che,risalendo la collina, portava aldormitorio. «Ma la gente scomparein

continuazione. Capita che le ragazzesiano molestate o aggredite. È unabrutta cosa, ma non significa che

dietro ci sia una sinistracospirazione».

Stefan si fermò, fissando unvolantino affisso a un albero accantoalla mensa. “Studentessascomparsa”,

diceva il titolo, e sotto c’era unafoto della ragazza. «Promettimi distare attenta, Elena», disse. «Dillo

anche a Meredith e Bonnie. E aMatt. Non andate in giro per ilcampus da soli. Non di notte,almeno».

Elena annuì, pallida, fissando la fotosul volantino. Stefan, nonostantel’ansia, sentì un’acuta fitta di

rammarico. Era così eccitata prima,quando si erano visti per il pranzo, eora quell’entusiasmo era stato

prosciugato.

Le passò un braccio attorno allavita, desideroso di abbracciarla, diproteggerla. «Perché non usciamo

stasera?», chiese. «Devo andare a unincontro con il mio gruppo di studio,ma non durerà molto.

Possiamo andare a cena da qualcheparte, fuori dal campus. Che ne dicidi non tornare proprio al

dormitorio stanotte? Mi sentireimeglio sapendoti al sicuro».

Lei lo guardò, con un lampodivertito negli occhi. «Oh, purchéquesta non sia una scusa per farmi

passare la notte da te», risposesorridendo. «Non vorrei che mirassisolo ad attentare alla mia virtù».

Stefan pensò alla sua pelle vellutatae ai serici capelli dorati, al suocalore e al sontuoso vino del suo

sangue. L’idea di averla di nuovo frale braccia, senza zia Judith o la suapadrona di casa, la signora

Flowers, di guardia al piano di

sotto, era esaltante.

«Certo che no», mormorò, chinandola testa sulla sua. «Non ho alcungenere di mire. Vivo solo per

servirti». La baciò ancora, cercandodi comunicarle tutto l’amore e ildesiderio che provava.

Dall’alto, Stefan udì il gracchiarestridente di un corvo e uno sbattered’ali, e, senza staccare le labbra

dalla bocca di Elena, aggrottò lafronte. Lei parve avvertire il suoimprovviso nervosismo e si scostò,

seguendo il suo sguardo verso ilcorvo nero che volteggiava su diloro.

Damon. Che li osservava e seguivaElena, come sempre.

«L’eccellenza». La voce di Ethanrisuonò nel campo di basketall’aperto dov’erano riuniti icandidati

della Vitale Society. Albeggiava enon c’era nessuno in giro, eccettoEthan e i candidati con le facce

assonnate. «Come sapete dal nostro

primo incontro, ognuno di voi haottenuto i massimi risultati in uno o

più campi. Ma non basta». Fece unapausa, guardandoli in faccia uno auno. «Nessuno di voi deve

accontentarsi della sua fetta dieccellenza. Potete racchiudere in voitutte le qualità. Nel corso

dell’iniziazione, scoprirete interiuniversi dentro di voi di cui nonsospettavate l’esistenza».

Matt strisciò le suole delle scarpesull’asfalto e tentò di cancellarsi

dalla faccia l’espressione scettica.

Aspettarsi che lui conseguisse imigliori risultati nello studio o incampo artistico era una scommessa

azzardata.

Non era particolarmente modesto,era solo realista, ed era in grado dielencare le sue migliori qualità:

era un ottimo atleta, un buon amico,un uomo d’onore. Non era nemmenostupido, ma se avere una

finissima intelligenza e uno spiccato

talento artistico erano prerequisitiper far parte della Vitale Society,

avrebbe anche potuto rinunciaresubito.

Massaggiandosi la nuca, osservò isuoi compagni. Era rassicurantevedere che la maggior parte a stento

tratteneva il panico: a quantopareva, nessuno di loro si aspettavadi “racchiudere in sé tutte lequalità”.

Chloe, la ragazza carina con il visotondo che aveva notato alla prima

riunione, attirò il suo sguardo e gli

fece l’occhiolino, solo un rapidobattito di ciglia, ma lui le sorrise esi sentì stranamente felice.

«Oggi», annunciò Ethan,«lavoreremo sulle doti atletiche».Matt sospirò sollevato. L’atleticarientrava

nelle sue possibilità.

Gli altri, invece, non sembravanoper niente contenti. Gli intellettuali, ileader, gli artisti in erba non

erano tanto ansiosi di mettere allaprova le loro abilità atletiche. Fra diloro serpeggiò un basso

mormorio di protesta.

«Non mettete il broncio», disseEthan ridendo. «Vi prometto chequando diventerete membri effettivi

della confraternita, ognuno di voiavrà raggiunto il massimo grado diperfezione fisica. Per la prima

volta, vi sentirete davvero vivi». Glibrillarono gli occhi a quellaprospettiva.

Continuò a descrivere a grandi lineecosa avrebbero dovuto fare. Stavanoper imbarcarsi in una corsa di

venticinque chilometri, con variostacoli lungo il percorso. «Visporcherete, purtroppo», disse

allegramente. «Ma saràmeraviglioso. Una volta finito,avrete conquistato qualcosa dinuovo. Aiutatevi

pure l’un l’altro. Ma attenti: se nonterminate il percorso in tre ore, nonsarete invitati al prossimo stadio

del processo di iniziazione».Sorrise. «Solo i migliori possonodiventare membri della VitaleSociety».

Matt si guardò attorno e vide che icandidati, anche quelli che avevanol’aria di non essere mai usciti

dal laboratorio di scienze o dallabiblioteca, si allacciavano le scarpeda ginnastica o facevano

riscaldamento, con espressionideterminate.

«Porca vacca», disse una voce al

suo fianco. Era una bella voce, conun tono nasale, una pronuncia che

veniva da qualche stato più a suddella Virginia, e Matt sorrise ancorprima di voltarsi e riconoscere

Chloe. «Immagino che tu sia l’unicoqui che non avrà un sacco diproblemi con questa maratona»,disse.

Era molto carina. Quando sorridevale spuntavano le fossette sulleguance e i corti capelli neri le

ricadevano in piccoli boccoli dietro

le orecchie. «Ehi, io sono Matt»,disse lui con un gran sorriso.

«Lo sapevo già», rispose lei allegra.«Sei la nostra stella del football».

«E tu sei Chloe, la straordinariaartista», disse lui.

«Oh». Arrossì. «Non ne sono tantosicura».

«Mi piacerebbe vederti all’operauno di questi giorni», le disse, e ilsorriso di Chloe si allargò.

«Qualche consiglio per oggi?»,

chiese. «Non corro mai, a meno chenon stia per perdere l’autobus, e

temo che presto avrò modo dipentirmene».

Il suo viso era così grazioso cheMatt sentì l’impulso di stringerla.Invece, scrutò il cielo con la fronte

aggrottata. «Date le attualicondizioni meteorologiche», disse,«la cosa migliore è piegare lebraccia a un

angolo di cinquanta gradi con ilterreno e correre con un’andatura

leggermente saltellante».

Chloe lo guardò fisso per un minuto,poi ridacchiò. «Mi stai prendendo ingiro», disse. «Non è giusto.

Non ci capisco niente di questecose».

«Ti aiuterò io», rispose Matt,sentendosi davvero bene. «Possiamofarlo insieme».

9

“Dove 6?”, digitò impaziente Elenasulla tastiera del cellulare. Aveva

appuntamento con Stefan al

dormitorio e lui era già in ritardo diventi minuti. Ormai doveva averfinito con il suo gruppo di studio.

Stava morendo di fame.

Camminava avanti e indietro per lastanza, fermandosi di tanto in tantoper guardare i rami scuri degli

alberi fuori dalla finestra. Non erada lui essere in ritardo.

Controllò il cellulare. Era troppopresto per tentare di chiamarlo di

nuovo. Fuori dalla finestra, vide

muoversi un’ombra scura e trattenneil respiro. Poi scosse la testa. Eranosolo i rami degli alberi, che

ondeggiavano al vento. Si avvicinò,cercando di vedere oltre i riflessisul vetro. La loro stanza era al

terzo piano; non era possibile chequalcuno stesse seduto aquell’altezza. Non un essere umano,almeno.

Rabbrividì.

Dall’esterno, una voce fredda elimpida la chiamò: «Elena».

Squittendo come un conigliospaventato, Elena fece un balzoindietro e si portò una mano sulcuore che

batteva all’impazzata. Un attimodopo, si avvicinò alla finestra e laspalancò.

«Damon», disse. «Mi hai spaventataa morte. Che stai facendo là fuori?».

I suoi denti bianchi mandarono unbagliore che fendette le ombre.

Nella risposta risuonò un tono

beffardo. «Aspetto di essere invitatoa entrare, ovviamente».

«Non ti serve un invito», disse lei.«Mi hai già dato una mano con iltrasloco».

«Lo so», disse Damon, sorridendo.«Volevo solo essere galante».

Lei esitò. Si fidava di lui, certo, mala cosa cominciava a sembraretroppo intima. Lui fuori nel buio, lei

sola in camera, nessuna delle sue

compagne di stanza nei paraggi.Damon era già stato in camera sua, a

casa, ma c’erano sua zia e Robert alpiano di sotto. Si chiese se a Stefanavrebbe dato fastidio saperla lì

sola con Damon, ma scacciò ilpensiero. Si fidava di lei, contavasolo questo.

«Elena». La voce di Damon eragentile ma insistente. «Fammientrare prima che cada».

Lei, alzando gli occhi al cielo,rispose: «Ma figurati, non cadi mai,

e anche se fosse, ti basterebbe

volare. In ogni caso, entra pure».

Con un lieve fruscio, più veloce diquanto l’occhio umano potessepercepire, Damon fu di colpo al suo

fianco. Elena dovette fare un passoindietro. Occhi e capelli scuri comela notte, pelle perlacea e

luminosa, lineamenti perfettamentecesellati. Aveva anche un buonodore. Le sue labbra sembravanocosì

morbide…

Elena si sorprese a chinarsi su dilui, con le labbra dischiuse, e siritrasse. «Smettila», disse.

«Io non sto facendo niente», risposelui con aria innocente. Quando Elenalo guardò scettica, con un

sopracciglio alzato, lui fecespallucce e le lanciò un rapido,brillante sorriso. “Come non detto”,pensò

Elena. “Ecco perché a Stefanpotrebbe dar fastidio che Damon sia

qui”. «Oh, e va bene. Ti sto solo

prendendo in giro».

Damon diede un’occhiata alla stanzae assunse anche lui uno sguardoscettico. «Che diamine, Elena!»,

disse. «Sono quasi deluso. Tu e letue amiche siete così prevedibili».

Elena seguì il suo sguardo. Dallaparte di Bonnie era tutto indisordine: un guazzabuglio dianimali di

peluche, vestiti scartati e gadget del

college. Al contrario, l’area diMeredith era rigidamente ordinata: i

libri allineati in ordine alfabetico,una sola penna argentata sullascrivania, accanto a un sottile laptop

argentato, un copriletto di seta benripiegato sul letto, con un delicatomotivo bianco e grigio. Il

cassettone e l’armadio erano chiusi,ma Elena sapeva che all’interno ivestiti erano organizzati per tipo,

colore e stagione. Damon avevaragione: solo osservando le

rispettive aree della stanza, sicapiva che

Meredith era razionale, sofisticata,riservata e dotata di grandeautocontrollo, mentre Bonnie erainfantile,

disorganizzata, estroversa e amantedella vita.

E le sue cose? Che cosa dicevano dilei? Osservò il proprio lato dellastanza con occhio critico. Stampe

incorniciate prese alle sue mostrepreferite, la spazzola e il pettine

d’argento allineati sul cassettone,

lenzuola blu notte che s’intonavanocon i suoi occhi e i suoi capelli.

Una persona che teneva alle suecose e che non cambiava gustifacilmente? Una ragazza molto

consapevole di ciò che le stavabene? Non ne era sicura.

Damon le sorrise di nuovo, senzasarcasmo stavolta. «Non ci pensare,principessa», le disse con affetto.

«Sei molto più di ciò che possiedi».

«Grazie», tagliò corto Elena.«Allora, mi sei piombato in cameradalla finestra solo per salutarmi?».

Lui allungò la mano e le sistemò unaciocca di capelli dietro l’orecchio.Erano molto vicini, ed Elena

indietreggiò leggermente. «Pensavoche, magari, adesso che sei unastudentessa universitaria, potremmo

uscire e divertirci un po’».

«Divertirci?», ripeté Elena, ancoradistratta dalla sua bocca sensuale.«E cosa vorresti fare, di

preciso?»

«Be’, sai», disse lui, «solo unacenetta, un paio di drink. Cose daamici. Niente di troppo audace».

«Bene», rispose lei con fermezza.«Sembra carino. Ma stasera nonposso. Stefan e io andiamo a

mangiare fuori».

«Ma certo», disse Damon. Lerivolse un energico cenno del capo,accompagnato da un sorriso

d’incoraggiamento tanto esasperato

che Elena dovette reprimere unarisatina. Sul volto di Damon la

modestia e le espressioni cordiali ecomprensive erano del tuttoinnaturali.

Si stava impegnando tantissimo peressere suo amico, anche se tuttisapevano che fra loro c’era ben

altro. Elena era consapevole che, daquando era morto e tornato in vita,Damon aveva tentato di

modificare il suo rapporto con lei econ Stefan, di stare con loro in un

modo del tutto inedito. Non doveva

essere facile per il povero Damonfare il bravo ragazzo. Non eraallenato.

Il cellulare di Elena suonò. Lesse ilmessaggio di Stefan:

“Scusa. La riunione col gruppo distudio sta andando per le lunghe.Temo che dovrò restare qui per

almeno un’altra ora. Ci vediamo piùtardi?”.

«Problemi?». Damon la guardava

con lo stesso sorriso innocente eamichevole, ed Elena fu travolta da

un moto d’affetto per lui. Eranoamici. Perché non avrebbero dovutouscire insieme?

«Cambio di programma», dissespiccia. «Usciamo, ma non stiamovia molto. Devo tornare fra un’ora

per vedermi con Stefan».

Gli scrisse velocemente unmessaggio in cui lo informava chestava andando a prendere qualcosada

mangiare e, alzando lo sguardo, videche Damon le offriva il braccio conun sorriso di trionfo.

Bonnie attraversò il campussaltellando al ritmo del motivettoallegro che aveva nella testa. Un

appuntamento con Zander, la-la-la-la-la. Finalmente! Per tutta lasettimana aveva atteso conimpazienza

di vederlo, e, anche se si eranoparlati al telefono, non aveva posatogli occhi su di lui nemmeno una

volta, anche se, ovviamente, l’avevacercato spesso in giro per il campus.

Finalmente stava per vederlo. La-la-la-la-la-la. Adorabile, bellissimoZander.

Indossava un paio di jeans e unacamicetta drappeggiata color argentoche simulava almeno una

parvenza di seno. Eral’abbigliamento giusto, pensò:abbastanza sobrio per una seratasenza pretese ma

impreziosito da un tocco speciale.

Nel caso avessero deciso all’ultimominuto di andare in discoteca o

altro. Zander non le aveva dettoquali fossero i piani per la serata, leaveva solo chiesto di farsi trovare

davanti alla facoltà di scienze. La-la-la-la-la-la, canticchiò sottovoce.

Rallentò il passo e il motivetto nellasua testa si spense quando vide, piùavanti, un gruppo di persone

illuminato da luci intermittenti.Erano nel cortile davanti a uno deidormitori.

Avvicinandosi, Bonnie notò che sitrattava di un gruppo di ragazze, conle candele in mano. Le

fiammelle tremolanti proiettavanoombre sui loro visi assorti.Appoggiati al muro c’erano tre

ingrandimenti fotografici di unragazzo e due ragazze. Davanti, sulprato, erano ammucchiati fiori,lettere

e orsacchiotti.

Restia a spezzare il silenzio, Bonnietoccò il braccio di una delle ragazze.

«Che sta succedendo?»,

sussurrò.

«È una veglia per le personescomparse», rispose sottovoce lei.

Persone scomparse? Bonnie esaminòi volti nelle fotografie. Giovani,sorridenti, più o meno suoi

coetanei. «Studiavano qui?»,domandò inorridita. «Che cosa gli èsuccesso?»

«Nessuno lo sa», rispose la ragazza,con sguardo serio. «Sono

semplicemente svaniti. Non ne haisentito

parlare?».

Bonnie si sentì torcere lo stomaco.Sapeva che una ragazza era stataaggredita – o qualcosa del genere –

nel cortile, la prima notte, ma nonaveva sentito parlare di nessunascomparsa. Non c’era da

meravigliarsi che il suo istinto leavesse suggerito di stare allertaquando aveva attraversato il campus

qualche giorno prima. Magari, senzasaperlo, si era trovata in pericolo.«No», disse, stordita. «Non ho

sentito niente». Bonnie abbassò losguardo e chinò la testa, pregandocon fervore e in silenzio che

ritrovassero, sani e salvi, quei tregiovani sorridenti.

In lontananza, si udì il lamento diuna sirena.

«È successo qualcosa».

«Credi che sia stato aggredito

qualcuno?».

All’approssimarsi delle sirene silevò un vocio spaventato. Accanto aBonnie, una ragazza cominciò a

emettere dolenti gemiti di paura.

«Ok, qual è il problema qui?»,chiese una voce autoritaria cheBonnie non aveva mai sentito prima.Alzò

lo sguardo e vide due poliziotti delcampus che si facevano strada aspintoni fra la folla.

«Noi… Ehm…». La ragazza con cuiaveva parlato Bonnie indicò le fotoe i fiori appoggiati al muro.

«Stiamo facendo una veglia. Per lepersone scomparse».

«Perché le sirene? Che èsuccesso?», chiese un’altra ragazza,alzando la voce.

«Niente di cui preoccuparsi», disseil poliziotto, ma la sua espressionesi ammorbidì quando vide la

ragazza in lacrime. Bonnie siaccorse con una certa sorpresa che

l’agente non era molto più vecchiodi

lei. «Signorina?», propose l’uomoalla ragazza che piangeva. «Lariaccompagniamo a casa».

Il suo collega guardò la folla.«Dovete interrompere la veglia etornare dentro», disse arcigno. «Nonvi

separate e state attente».

«Credevo che aveste detto che nonc’era nulla di cui preoccuparsi»,replicò con rabbia un’altra ragazza.

«Cosa ci state nascondendo?»

«Nulla che non sappiate già», riposepaziente l’uomo. «Sono scomparsedelle persone. La cautela non è

mai troppa».

“Se non c’è nulla di cuipreoccuparsi, perché dovremmostare attente?”, si chiese Bonnie, masi morse

le labbra e si allontanò rapida per ilsentiero, diretta alla facoltà diScienze, dove Zander avevasuggerito

di incontrarsi.

La sfiorò l’idea di cercare unavisione, per provare se riusciva ascoprire qualcosa sulle persone

scomparse, ma la scacciò via. Leodiava. Odiava perdere il controllomentre scivolava in una delle sue

visioni.

In ogni caso, era improbabile chefunzionasse. Le visioni erano semprestate su persone che conosceva e

sui problemi immediati che avevano

di fronte. Non conosceva nessunadelle persone scomparse. Si

morse nuovamente il labbro eaffrettò il passo. L’eccitazione perl’appuntamento era svanita e non si

sentiva più al sicuro. Ma almeno, seavesse raggiunto Zander, nonsarebbe stata più sola.

Tuttavia, quando arrivò all’edificiodella facoltà di Scienze, Zander nonc’era. Bonnie esitò e si guardò

attorno con ansia. Quell’angolo delcampus sembrava deserto.

Cercò di aprire la porta, ma erachiusa a chiave. Be’, non c’eraniente di strano, perché a quell’ora

tarda non c’erano lezioni. Scosse lamaniglia del portone d’ingresso conun senso di frustrazione. Frugò

nella borsa, poi gemette quando siaccorse che aveva lasciato ilcellulare in camera.

Tutt’a un tratto, si sentì moltovulnerabile. La polizia del campusaveva detto di non separarsi daglialtri,

non di girovagare di notte per contoproprio, e invece eccola lì, solasoletta. Una fredda brezza le

scompigliò i capelli, facendolarabbrividire. Si stava facendoterribilmente buio.

«Bonnie! Psst, Bonnie!».

La voce di Zander. Ma dov’era?

Bonnie vedeva solo il cortile buio ei lampioni che proiettavano piccolicerchi di luce sul viale. Sulla

sua testa, le foglie frusciavano al

vento.

«Bonnie! Quassù».

Alzò lo sguardo e finalmente videZander, seduto sul tetto, che lascrutava dall’alto, con i capellichiari

che quasi brillavano alla luce dellaluna.

«Che ci fai lassù?», gridò Bonnie,confusa.

«Vieni», l’invitò lui, indicando lascaletta antincendio su un lato

dell’edificio. Era stata tirata giù finoad

arrivare a un paio di metri da terra.

«Dici sul serio?», chiese perplessaBonnie. Si avvicinò alla scaletta.Era piuttosto sicura di riuscire a

raggiungerla, ma sarebbe apparsagoffa e impacciata se si fossearrampicata lì sopra. E se qualcuno

l’avesse vista? In effetti, non avevaletto a fondo il regolamento delcampus, ma salire sul tetto di un

edificio chiuso inerpicandosi su perla rampa antincendio non era controle regole?

«Dài, Bonnie», gridò Zander. I suoipassi risuonarono rumorosi suigradini di ferro mentre scendeva di

corsa, scivolava giù per latremolante scaletta e atterrava al suofianco come un gatto. Si chinò su un

ginocchio e giunse le mani. «Ti tirosu io, così ci arrivi».

Bonnie deglutì, poi salì sulle mani diZander e si allungò verso la scaletta.

Una volta che ebbe posato il

piede sul primo gradino, fu un giocoda ragazzi, anche se il metalloleggermente arrugginito era ruvidoal

tatto. Si fermò un attimo aringraziare tutti i poteridell’universo per aver deciso diindossare i jeans

piuttosto che una gonna quella sera.

Zander la seguì su per la rampa daun ballatoio all’altro finché,finalmente, raggiunsero il tetto.

«Sei sicuro che possiamo starequi?», chiese nervosamente Bonnie.

«Be’», rispose Zander, dopo avercipensato un attimo, «probabilmenteno. Ma io vengo sempre quassù e

nessuno mi ha mai detto niente». Lerivolse il suo splendido, caldosorriso e aggiunse: «È uno dei miei

posti preferiti».

C’era una bella vista, dovevaammetterlo. Sotto di loro, siestendeva il campus, lussureggiante,verde e

misterioso.

Ma se l’avesse portata lì qualcunaltro, si sarebbe lamentata per larampa antincendio arrugginita e il

tetto di cemento, suggerendo chemagari un appuntamento significavaandare da qualche parte. Perché

quello era un appuntamento, o no?Ebbe un attimo di panico e siraggelò, tentando di ricordare leparole

usate da Zander quando avevasuggerito di incontrarsi lì. Non

ricordava la frase esatta, ma il tonoaveva

un che di romantico: non era più unaragazzina e capiva quando lechiedevano di uscire. E Zander era

davvero carino, valeva la pena fareun sacrificio.

«È molto alto qui», esordì leigoffamente e, dando un’occhiata allosporco terrazzo di cemento,

aggiunse: «Volevo dire che siamopiuttosto in alto».

«Siamo vicini alle stelle», disse luie le prese la mano. «Vieni qui».Aveva una mano calda e forte, e

Bonnie la tenne stretta. Avevaragione: le stelle eranomeravigliose. Era bello poterlevedere così bene,

al di sopra delle chiome deglialberi.

Lui la guidò verso un angolo deltetto, dov’era disteso un vecchio elogoro materasso dell’esercito, con

un cartone di pizza e qualche lattina

di soda. «Tutte le comodità di casa»,disse Zander. Poi, con calma,

«So che non è un appuntamento contutti i crismi, Bonnie, ma volevocondividere con te il mio posto

“speciale”. Pensavo che ne avresticolto la bellezza».

«Ma certo, capisco perfettamente»,rispose lei, lusingata. Si sentìcrescere dentro una segreta allegria:

“Urrà, Zander è del tuttoconsapevole che questo è unappuntamento!”.

Pochi minuti dopo, si ritrovòaccoccolata al suo fianco, con il suobraccio sulle spalle, a mangiare una

pizza calda, unta e deliziosa, mentreguardavano le stelle.

«Vengo quassù molto spesso», disselui. «Una volta, l’anno scorso, me nesono semplicemente stato

sdraiato qui a guardare una grossaluna piena inghiottita dall’ombradella terra, durante un’eclissi. Era

quasi buio pesto, senza la luce dellaluna, ma riuscivo ancora a vedere il

suo profilo rosso scuro nel

cielo».

«I vichinghi credevano che le eclissifossero provocate da due lupi, unoche voleva mangiare il sole e

l’altro che invece voleva divorare laluna», raccontò oziosamente Bonnie.«Non ricordo chi dei due

volesse la luna, ma ogni volta chearrivava un’eclissi di sole o di luna,la gente doveva fare tanto

baccano per far scappare i lupi».

Zander la guardò. «Un’informazionepiuttosto accessoria da tenere amente». Ma accompagnò le parole

con un sorriso.

Bonnie si accalorò, deliziata dallapura intensità di quel sorriso. «Sonoappassionata di mitologia»,

disse. «Soprattutto di quelladruidica e celtica, ma in generale dimiti e leggende. Anche i druidierano

interessati alla luna: la loro interaastrologia era basata sul calendario

lunare». Si sedette più composta,

compiacendosi dell’espressioneammirata sul volto di Zander. «Peresempio, adesso, dagli ultimi giorni

d’agosto a fine settembre, siamo nelmese della Luna Creativa, ma fra unpaio di settimane entreremo nel

mese della Luna Morente».

«Che cosa significa?», chieseZander. Era molto vicino e laguardava dritto negli occhi.

«Be’, significa che è il periodo in

cui tutto finisce», rispose. «È iltempo della morte e del riposo.

L’anno druidico ricomincia dopoHalloween».

«Uhm». Zander continuava a fissarlacon uno sguardo intenso. «Come maisai tutte queste cose, Bonnie

McCullough?». Abbozzò un sorrisoscherzoso.

«Ehm, i miei antenati erano druidi ecelti», rispose lei, sentendosistupida. «Mia nonna mi ha detto che

discendiamo dalle sacerdotessedruidiche, ed è per questo che avolte ho le visioni. Anche mia nonnale

aveva».

«Interessante», disse lui dolcemente.Il suo tono era sempre più leggero.«Quindi hai le visioni, è così?»

«Le ho davvero», rispose Bonnieseria, sostenendo il suo sguardo.Non avrebbe dovuto dirglielo. Non

voleva metterlo a disagio, non alprimo appuntamento, ma non voleva

neanche mentirgli.

Azzurro puro. Gli occhi di Zandererano profondi come il mare e leistava per annegarci dentro. Non

c’era nulla sotto di lei, né sopra,mentre cadeva piano, senza sosta, inquegli occhi celesti.

Bonnie distolse bruscamente losguardo. «Scusa», disse, scuotendola testa. «Che strano. Penso di

essermi quasi addormentata per unminuto».

«Non ti preoccupare», disse Zander,ma il suo volto aveva qualcosa distrano, si era come irrigidito. Poi

le rivolse di nuovo il suo luminoso eincantevole sorriso e si alzò. «Vieni.Voglio farti vedere una cosa».

Bonnie si alzò lentamente. Si sentivaancora un po’ stordita e si premettebrevemente la mano sulla

fronte.

«Da questa parte», disse lui,trascinandola per l’altra mano. Laportò all’angolo del terrazzo e salì

sullo

stretto cornicione.

«Zander», disse inorridita Bonnie.«Scendi! Potresti cadere!».

«Non succederà», rispose Zander,sorridendole dall’alto. «Vieni su».

«Sei pazzo?», fece Bonnie.

Non le erano mai piaciute le altezze.Ricordava di aver attraversato unponte molto alto, una volta, con

Damon ed Elena. Era necessario per

salvare Fell’s Church, ma nonsarebbe mai riuscita adattraversarlo,

se Damon non avesse usato il Potereper convincerla di essereun’acrobata, una funambola che nonaveva

alcuna paura delle altezze. Quandoera finito l’effetto del Potere, dopol’attraversamento del ponte, il

terrore retroattivo le aveva dato lanausea.

Eppure, quel ponte era riuscita ad

attraversarlo, no? E aveva giurato ase stessa di diventare più forte e

sicura di sé ora che andava alcollege. Guardò Zander, checontinuava a sorriderle e a tenderlela mano,

con espressione impaziente madolce. Bonnie gli prese la mano e silasciò issare sul cornicione.

«Oh», esclamò, appena fu salita.Guardando in basso ebbe uncapogiro e distolse velocemente lo

sguardo: il suolo, di sotto, era

lontanissimo. «Oh. No, questa non èuna buona idea».

«Fidati di me», disse lui,prendendole l’altra mano perché siappoggiasse saldamente a lui. «Nonti

lascerò cadere».

Bonnie scrutò di nuovo nei suoiprofondi occhi celesti e si sentìrassicurata. Il suo sguardo aveva

davvero qualcosa di puro etrasparente. «Che cosa dovreifare?», gli chiese, fiera di sé per la

fermezza

della propria voce.

«Chiudi gli occhi», disse lui, e,quando lei li ebbe chiusi, proseguì:«Ora alza il piede destro e fallo

sporgere dal cornicione».

«Che cosa?», chiese Bonnie, e perpoco non riaprì gli occhi.

«Fidati di me», ripeté Zander, estavolta gli tremò un po’ la voce,come se stesse soffocando unarisata.

Esitante, Bonnie sollevò il piede.

Proprio allora, si alzò il vento, esembrò che stesse per prenderla dalcornicione e trascinarla su nel

cielo come un aquilone cui si sianospezzati i fili. Bonnie strinse forte lemani di Zander.

«Va tutto bene», disse lui in tonorassicurante. «È straordinario,Bonnie, te lo assicuro. Lasciantiandare

e basta. Non vale la pena vivere unavita senza rischi».

Bonnie si costrinse a calmarsi: siriempì i polmoni, poi lasciò andareil fiato. Il vento le faceva

svolazzare i riccioli dappertutto, lefischiava nelle orecchie, lestrattonava i vestiti e la gambaalzata.

Quando smise di combatterlo, leparve quasi che il vento lasollevasse, con dolcezza, nel cielo,e che la

sostenesse. Era come volare.

Bonnie si accorse che stava ridendo

per il piacere puro che provava, aprìgli occhi e li fissò in quelli di

Zander. Anche lui stava ridendo e lateneva forte, ancorandola alla terraper non farla volare via. Non era

mai stata così consapevole delsangue che le pulsava nelle vene e dicome ogni nervo del suo corpo

catturasse la sensazione di tutto ciòche la circondava.

Non si era mai sentita così viva.

10

Il pub era affollato e rumoroso, maovviamente Damon si assicurò chenon dovessero attendere per un

tavolo. Poi si adagiò su una dellepanche del salottino, arrogante erilassato come un grosso, bellissimo

gatto, e ascoltò, in un placidosilenzio, Elena che parlava. Lei siritrovò a chiacchierare gaiamente di

questo e di quello: lo aggiornò sututte le minuzie della sua vita alcampus fino a quel momento, dalla

scoperta che il professor Campbellconosceva i suoi genitori allepersonalità degli altri studenti

incontrati in classe.

«L’ascensore era davvero affollato,e lento, e la mia compagna dilaboratorio era appoggiata di spalle

contro i pulsanti. A un certo punto,per sbaglio, ha premuto l’allarme,ed è partita la sirena». Elena bevve

un sorso di soda. «Tutt’a un tratto,una voce è venuta fuori dal nulla eha chiesto: “C’è un’emergenza?”. E

lei ha risposto: “No, è stato unincidente”, e la voce ha detto: “Checosa? Non la sento”. È andata avanti

così per un po’, finché lei ha

cominciato a gridare: “Incidente!Incidente!”».

Damon smise di tracciare segni coldito sulla condensa del bicchiere ealzò gli occhi, guardandola con

le labbra incurvate in un sorriso.

«Quando si sono aperte le porte alpiano terra, c’erano quattro agentidella sicurezza con la cassetta del

pronto soccorso», concluse Elena.«Non sapevamo che fare, così cisiamo limitate a uscire, passando

davanti agli agenti come se nullafosse. Una volta fuori dall’edificio,abbiamo cominciato a correre. Era

così imbarazzante, ma nonriuscivamo a smettere di ridere».

Il sorriso di Damon si allargò. Nonera il suo solito sorrisetto freddo,appena abbozzato, né il ghigno

rapido, brillante ed enigmatico, cheappariva e si spegneva in un lampo,ma un bel sorrisone autentico, di

quelli che fanno gonfiare le guance estrizzare gli occhi. «Mi piaci così»,

disse d’un tratto.

«Così come?», chiese Elena.

«Rilassata, suppongo. Da quando cisiamo conosciuti, sei sempre statanel mezzo di una crisi». Alzò la

mano e le scostò un ricciolo dalviso, sfiorandole la guancia contenerezza.

Elena era vagamente consapevoledel cameriere in piedi accanto alséparé, in attesa che alzassero lo

sguardo, quando rispose, con un

pizzico di civetteria: «Oh, esuppongo che tu non avessi niente ache fare

con quelle crisi?»

«Non direi che la colpa fossesoprattutto mia, niente affatto»,rispose freddo Damon, mentre ilsorriso si

spegneva. «Ciao, Stefan».

Elena s’immobilizzò per la sorpresa.Dunque non era il cameriere. EraStefan. Gli diede un’occhiata e

trasalì, sentendo una nauseaimprovvisa. Il volto di Stefansembrava scolpito nella pietra.Fissava la

mano di Damon, ancora tesa sultavolo verso il suo viso.

«Ehi», esordì incerta. «Com’èandata con il gruppo di studio?».

Stefan la fulminò con lo sguardo.«Elena, ti ho cercata dappertutto.Perché non rispondi al telefono?».

Tirando fuori il cellulare, Elenavide che c’erano parecchi SMS e

chiamate perse da parte di Stefan.

«Oh, no. Scusa davvero», disse.«Non l’ho sentito squillare».

«Avevamo un appuntamento», disselui severo. «Sono salito in cameratua e tu eri sparita. Elena, sono

scomparse un sacco di persone alcampus».

Si era spaventato, aveva temuto chele fosse accaduto qualcosa diterribile. Leggeva ancora la

preoccupazione nei suoi occhi. Gli

si avvicinò per confortarlo. Il fattoche lei avesse perso il Potere,

posseduto solo per poco, eradifficile da accettare per Stefan.Pensava che la mortalità la rendessefragile

e aveva paura di perderla. Avrebbedovuto pensarci, avrebbe dovutolasciargli più di un messaggio

invece dello sbrigativo SMS con cuilo avvisava che sarebbe tornatapresto.

Prima che potesse toccarlo, Stefan

puntò lo sguardo su Damon. «Chesuccede qui?», chiese al fratello,

con voce colma di frustrazione. «Èper questo che ci hai seguiti alcollege? Per insistere con Elena?».

Lo sguardo ferito che passò sul visodi Damon fu solo un’ombra sottile esparì così in fretta che Elena

non fu del tutto sicura di averlovisto. I suoi lineamenti assunseroun’espressione di pigro sdegno, e leisi

irrigidì. Sapeva che la pace fra i due

fratelli era molto fragile, eppureaveva permesso che Damon

flirtasse con lei. Era stata davverostupida.

«Deve pur esserci qualcuno che sioccupi della sua sicurezza, Stefan»,disse Damon, biascicando le

parole. «Tu sei troppo preso dallatua recita, perché stai fingendo dinuovo di essere umano, non è vero?

Gruppi di studio». Sollevò unsopracciglio. «Mi sorprende che tuabbia addirittura notato che sta

succedendo qualcosa di strano inquesto campus. O avresti preferitoche Elena fosse sola e in pericolo

piuttosto che in mia compagnia?».

Rughe di tensione si formaronointorno alla bocca di Stefan. «Staidicendo che non hai alcun secondo

fine?», chiese.

Damon fece un gesto sprezzante conla mano. «Tu sai quel che provo perElena. Elena sa quel che provo

per lei. Persino quel vostro amico

fissato con lo sport, Mutt, sa comestanno le cose fra noi. Ma il

problema non sono io, fratellino. Seitu e la tua gelosia. Vuoi essere un“umano ordinario”», Damon

mimò le virgolette con le dita, «eallo stesso tempo vuoi una relazionecon Elena, che è tutto fuorché

ordinaria. Vuoi la botte piena e lamoglie ubriaca. Io non ho fattoniente di male. Elena non sarebbe

venuta con me, se non avessevoluto».

Elena trasalì di nuovo. Perchéandava sempre a finire così? Perchéogni minimo errore da parte sua

portava Damon e Stefan a saltarsialla gola?

«Stefan… Damon», implorò, ma laignorarono.

Si fissavano con odio. Stefan siavvicinò al tavolo, chiudendo ipugni, e Damon serrò la mascella,

sfidandolo in silenzio a farsi avanti.Per la prima volta, Elena notò lasomiglianza tra loro.

«Non posso farlo», disse la ragazza.La voce era così incerta e sottile chea stento era arrivata alle

proprie orecchie, ma entrambi ifratelli Salvatore l’avevano sentita esi erano voltati a guardarla a una

velocità sovrumana.

«Non posso farlo», ripeté Elena convoce più alta e decisa. «Non possoessere Katherine».

Damon aggrottò le ciglia.«Katherine? Credimi, cara, nessunoqui vuole che tu sia Katherine».

Stefan, il cui viso si era addolcito,disse: «Elena, tesoro…».

Lei lo interruppe. «Sentite». Siasciugò gli occhi. «Ultimamente nonho fatto altro che camminare sulle

uova per evitare che questa… questasituazione fra noi ci dividesse. Se datutte le cose che ci sono

capitate è venuto fuori qualcosa dibuono, è che vi siete ritrovati, avetericominciato a comportarvi come

fratelli. Io non posso…». Trasse unprofondo respiro e cercò di trovare,

da qualche parte dentro di sé,

una voce saggia e assennata.

«Penso che abbiamo bisogno di unapausa», disse in tono neutro.«Stefan, ti amo tantissimo. Sei lamia

anima gemella, è questo che sei. Losai». Gli rivolse uno sguardoimplorante, scongiurandolo insilenzio

di capire le sue ragioni.

Poi spostò lo sguardo su Damon, che

la fissava con la fronte corrugata. «EDamon, ormai sei parte di

me. Io… ti voglio bene». Spostavalo sguardo dall’uno all’altro,tormentandosi le mani. «Non posso

perdere nessuno di voi. Ma devocapire chi sono adesso, dopo tuttoquello che è successo, e devo farlo

senza il timore di distruggere ilvostro rapporto. E voi dovete capirecome restare amici, anche se io

faccio parte della vita di entrambi».

Damon fece un verso scettico, maElena continuò a parlare. «Se nonvorrete aspettarmi, capirò».

Deglutì. «Ma vi amerò sempre.Sempre. Tutti e due. In modi diversi.Ma per il momento, proprio non

posso stare con voi. Con nessuno deidue».

Stava di nuovo piangendo, e siasciugò gli occhi con le manitremanti.

Damon si piegò verso di lei, sultavolo, mentre un sorrisetto bizzarro

gli aleggiava sulle labbra. «Elena,

hai appena rotto con noi? Con tutti edue?».

Le lacrime si asciugarono di colpo.«Damon, noi non siamo mai statiinsieme», sbottò, esasperata.

«Lo so», rispose lui e alzò le spalle.«Di fatto, però, sono appena statomollato». Guardò Stefan, poi

distolse subito lo sguardo, conespressione impenetrabile.

Stefan sembrava distrutto. Per un

attimo, il suo volto apparve cosìtetro che non sarebbe stato difficile

credere che avesse più dicinquecento anni. «Come vuoi tu,Elena», disse. Fece per toccarla, poiritrasse

la mano, lasciandola ricadere lungoil fianco. «Comunque vadano lecose, io ti amerò sempre. I miei

sentimenti non cambieranno. Prenditutto il tempo che ti serve».

«D’accordo», disse lei. Si alzòtremante. Si sentiva come se stesse

per vomitare. Una parte di lei

avrebbe voluto prendere Stefan ebaciarlo finché l’espressionedevastata sul suo viso non fosse

scomparsa. Ma Damon la stavaosservando, con uno sguardoimperscrutabile, e toccare solo unodei due

le sembrava… sbagliato. «Hobisogno di stare da sola per un po’»,disse.

Sapeva che, in qualsiasi altromomento, i due fratelli avrebbero

protestato all’idea che se ne andassein

giro per il campus da sola.Avrebbero insistito e l’avrebberoseguita se avesse rifiutato dicamminare in

loro compagnia. Qualsiasi cosa purdi tenerla sotto la loro protezione.

Ora, invece, Stefan si fece da parteper lasciarla uscire dal séparé, conla testa china. Damon rimase

seduto, immobile come una statua, ela osservò andar via, con occhi cupi.

Elena non si voltò a guardarliquando attraversò la porta del pub.Le tremavano di nuovo le mani e gli

occhi traboccavano di lacrime.Eppure si sentiva come se,finalmente, si fosse liberata di unenorme peso

che per un po’ aveva dovuto portare.

“Questa potrebbe essere la sceltamigliore che io abbia fatto in tanto,tanto tempo”, pensò.

Caro diario,

ogni volta che ricordo l’espressionesul viso di Stefan quando gli hodetto che avevo bisogno di spazio,mi si stringe il cuore. È come seall’improvviso mi mancasse il fiato.

Non avrei mai voluto fargli delmale. Mai. Come ho potuto? Siamocosì vicini, così presi l’unodall’altra, che lui è come un pezzodella mia

anima. Senza di lui, non sonocompleta.

Ma…

Amo anche Damon. È mio amico. Mivedo in lui come in uno specchiooscuro: furbo e intrigante, disposto atutto pur di ottenere ciò che vuole,ma dotato di un’intima bontà che nontutti vedono. Non riesco nemmeno aimmaginare una vita senza Damon.

Stefan è molto possessivo. Tiene asuo fratello, ci tiene davvero. Eanche Damon vuol bene a lui, mache ci sia io fra loro incasina tutto.

Le crisi che abbiamo affrontato direcente – la mia morte e rinascita,l’attacco di Klaus, il ritorno diDamon dai confini della morte,

l’attacco

dello spirito – ci hanno riavvicinatie hanno rafforzato così tanto ilnostro rapporto che abbiamo finitoper condividere fino in fondo ognigesto,

ogni pensiero. Ma non possiamocontinuare così.

So di aver fatto la cosa giusta. Senzadi me, possono tornare a esserefratelli. E intanto io posso sistemarei fili aggrovigliati della miarelazione con loro senza dovermipreoccupare che ogni mossa che

faccio spezzi il nostro esile legame.

È la decisione giusta. Eppure, misembra di provare l’agonia di unamorte lenta. Come posso viveresenza Stefan, anche se solo per pocotempo?

Non posso fare altro che tentare diessere forte. Se persevero, stavoltace la farò. E alla fine, tutto saràmeraviglioso. Non potrà esserealtrimenti.

11

«Caffè, mia cara?», chiese il

professor Campbell – James, siricordò Elena. A un suo cenno

affermativo, James saltò in piedi e siaffaccendò con la piccolamacchinetta appoggiata in cima auna

vacillante pila di giornali. Infine leportò una tazza di caffè, cremoso ezuccherato, e si sedette

allegramente sulla sua poltrona,guardandola dall’altra partedell’ingombra scrivania conun’espressione

di candido compiacimento. «Pensodi avere dei biscotti», disse. «Nonsono fatti in casa, ma sono

abbastanza gustosi. Ne vuoi?».

Elena scosse educatamente la testa esorseggiò il caffè. «È molto buono»,disse, e gli sorrise.

Erano passati alcuni giorni daquando aveva detto a Stefan eDamon che aveva bisogno di stareun po’

da sola. Dopo un’indispensabilesessione di pianto con Bonnie e

Meredith, aveva fatto del suo meglio

per comportarsi normalmente: eraandata a lezione, aveva pranzato conle amiche, aveva sempre

indossato la maschera della ragazzacoraggiosa. Parte del suo tentativodi normalità erano proprio le

visite a James negli orari diricevimento, per sentire altre storiesui suoi genitori. Anche se nonpotevano

essere là a consolarla, parlare diloro le dava un po’ di conforto.

«Mio Dio!», esclamò James. «Haigli stessi lineamenti di Elizabeth, epoi, quando sorridi, viene fuori la

fossetta di Thomas. Identica, su unaguancia sola. Gli dava un certofascino sbarazzino».

Elena si chiese se avrebbe dovutoringraziare James. Le stava facendodei complimenti, in un certo

senso, ma, in realtà, i complimentierano rivolti ai suoi genitori, e lepareva un po’ presuntuoso

ringraziare da parte loro.

Alla fine disse: «Mi fa piacere chelei noti una somiglianza con i mieigenitori. Ricordo che, quando ero

piccola, pensavo che fossero moltoraffinati». Scrollò le spalle.«Immagino che tutti i bambinipensino

che i loro genitori sono bellissimi».

«Be’, tua madre lo era di sicuro»,disse James. «Ma non si tratta solodel tuo aspetto. Anche la tua voce

somiglia a quella di Elizabeth, e icommenti che hai fatto in classe

questa settimana mi hanno fattotornare

in mente le cose che avrebbe dettotuo padre. Era molto perspicace».Rovistò nei cassetti della scrivania,

e, dopo aver buttato all’aria un po’di cianfrusaglie, tirò fuori una lattadi biscotti al burro. «Sicura che

non ne vuoi uno? E va bene». Nescelse uno per sé e lo addentò. «Sì,come stavo dicendo, Elizabeth era

assolutamente adorabile. Non avreiusato lo stesso aggettivo per

Thomas, ma anche lui aveva fascino.

Forse è per questo che è riuscito aconquistare il cuore di Elizabeth,alla fine».

«Oh». Elena mescolò il caffè conaria assente. «Ha avuto altri ragazzi,quindi?». Era una cosa ridicola,

ma aveva sempre pensato che i suoigenitori fossero stati insieme dasempre.

James ridacchiò. «Era una verarubacuori, e ne ha spezzati parecchi.Immagino lo sia anche tu, mia

cara».

Elena pensò tristemente allo sguardomite e sgomento che era apparsonegli occhi verdi di Stefan. Non

avrebbe mai voluto ferirlo. E Matt,che era stato il suo ragazzo al liceo eche aveva continuato ad amarla

in silenzio. Da allora non si era piùinnamorato né si era mai interessatoseriamente a un’altra ragazza.

“Già, una vera rubacuori”.

James la osservava con i suoi occhi

vividi e curiosi. «Non una rubacuorifelice, dunque?», chiese a

bassa voce. Elena lo guardòsorpresa, e lui posò la sua tazza dicaffè, producendo un secco tintinnio.Si

raddrizzò. «Elizabeth Morrow»,disse con un tono spiccio e serioso,«era una matricola quando la

incontrai. Era sempre indaffaratacon i costumi e le stupefacentiscenografie che disegnava per il

dipartimento di Teatro. Tuo padre e

io, all’epoca, frequentavamo ilsecondo anno – eravamo nella stessa

confraternita, amici per la pelle – elui non la smetteva di parlare diquesta straordinaria ragazza.

Quando, infine, la conobbi, fuirisucchiato anch’io nella suaorbita».

Sorrise. «Sia io che tuo padreavevamo qualcosa di speciale: ioero un ottimo studente, e lui un abile

persuasore. Ma in quanto a culturaeravamo dei barbari. Elizabeth ci ha

istruiti sull’arte, sul teatro, sul

mondo al di là della piccolacittadina del Sud in cui eravamocresciuti».

James mangiò un altro biscotto,leccando lo zucchero che gli erarimasto sulle dita, con ariapensierosa,

poi emise un profondo sospiro.«Pensavo che saremmo rimastiamici per sempre», disse. «Maabbiamo

preso strade diverse, alla fine».

«Perché?», chiese Elena. «Èsuccesso qualcosa?».

Il professore distolse da lei gliocchietti vivaci. «Certo che no»,disse con un gesto sbrigativo. «È la

vita, suppongo. Ma ogni volta chepasso dal corridoio del terzo piano,non posso fare a meno di fermarmi

a guardare le nostre foto». Emiseuna risata imbarazzata, dandosi deicolpetti sullo stomaco. «Credo che

sia soprattutto per vanità. Mi è piùfacile riconoscermi in quel

giovanotto piuttosto che nel vecchio

grassone che adesso vedo nellospecchio ogni giorno».

«Di cosa sta parlando?», chieseElena, confusa. «Il corridoio delterzo piano?».

James atteggiò la bocca aun’espressione sorpresa. «Ma certo,non conosci ancora tutte le tradizionidel

college. Nel lungo corridoio delterzo piano di questo edificio cisono fotografie che documentano la

storia del Dalcrest. E c’è anche unabella foto dei tuoi genitori e delsottoscritto».

«Devo darci un’occhiata», disseElena, sentendosi un po’ eccitata.Non aveva visto molte foto dei suoi

genitori antecedenti il matrimonio.

Si sentì bussare alla porta e fececapolino una ragazza bassina con gliocchiali. «Oh, scusate», disse e

fece per andarsene.

«No, no, mia cara», disse James in

tono gioviale, alzandosi in piedi.«Elena e io stavamo solo

chiacchierando di alcuni vecchiamici. Io e te, invece, dobbiamoparlare seriamente della tua tesi di

laurea, il prima possibile. Avanti,entra pure». Rivolse a Elena, unassurdo, piccolo inchino.

«Continueremo questaconversazione più tardi».

«Certo», rispose lei e si alzò,scuotendo la mano tesa di James.

«A proposito di vecchi amici», buttòlì il professore quando Elena sivoltò per andarsene. «Ho

incontrato una tua amica, ladottoressa Celia Connor, poco primadell’inizio del semestre. Aveva

accennato che saresti venuta qui».

Elena si girò di scatto a guardarlo.Aveva incontrato Celia? Delleimmagini le si affollarono nella

mente: Stefan che correva piùveloce di un qualsiasi essere umano,con Celia fra le braccia, pronto a

tutto

per salvarle la vita; Celia cherespingeva lo spirito della gelosia inuna stanza gremita dalle fiamme.

Quanto sapeva James? Cosa gliaveva raccontato Celia?

James le rivolse un sorriso mite.«Ma ne parleremo più tardi». Dopoun istante di esitazione, Elena

annuì e uscì in tutta fretta dallostudio, quasi incespicando, con lamente in subbuglio. La ragazza tennela

porta aperta per lei.

Una volta fuori, nel corridoio, Elenasi appoggiò al muro e fece il puntodella situazione. Era possibile

che Celia avesse parlato a James diStefan e Damon, dicendogli cheerano vampiri, o che avesse

raccontato qualcosa su di lei?Probabilmente no. Alla fine dellabattaglia contro lo spirito, Celia era

diventata un’amica. Avrebbemantenuto il loro segreto. Inoltre,Celia era una studiosa molto

assennata.

Non avrebbe mai raccontato aicolleghi qualcosa che avrebbepotuto farla passare per pazza, comeun

incontro ravvicinato con dei verivampiri.

Elena scacciò la sensazione didisagio che le era rimasta dalla finedella conversazione con James e si

concentrò sulla fotografia di cui ilprofessore le aveva parlato. Salì lescale fino al terzo piano per

vedere se riusciva a trovarla.

Trovare il “corridoio del terzopiano” non fu così problematico.Mentre il secondo piano era un

labirinto di stretti corridoi e ufficiprivati dei vari docenti, quandoarrivò al pianerottolo del terzopiano

scoprì che c’era un unico, ampiocorridoio che si estendeva perl’intera lunghezza dell’edificio.

In contrasto con il vociare dellepersone che lavoravano al secondo

piano, il terzo, immerso nel silenzio

e nell’oscurità, sembravaabbandonato. Lungo il corridoio sisusseguivano porte chiuse, aintervalli

regolari. Elena sbirciò dal vetro diuna di esse, ma scorse solo unastanza vuota.

Alle pareti, nello spazio fra le porte,erano appese grandi fotoincorniciate. Vicino alla trombadelle

scale, che era il punto da cui aveva

cominciato a guardare, i ritrattisembravano risalire all’inizio del

secolo: giovanotti con abiti formali,capelli pettinati di lato e sorrisiartefatti; ragazze con camicette

bianche a collo alto e gonne lunghe,che portavano i capelli legati in unacrocchia. In una delle foto, una

fila di ragazze reggeva una ghirlandadi fiori per chissà quale dimenticatatradizione del campus.

C’erano foto di gare di barche epicnic, foto di coppie con abiti da

ballo e ritratti di gruppo. In una

fotografia, gli attori di una qualcherecita studentesca – forse degli anniVenti o Trenta, le ragazze con i

capelli alla maschietta, i ragazzi conle scarpe rivestite da buffe fodere –ridevano allegramente sul

palco, le bocche aperte, comecongelate, le mani in alto. Un po’più avanti, un gruppo di giovani in

uniforme la fissava con gravità, lemascelle serrate, gli sguardideterminati.

Proseguendo, le foto cambiavano, dabianco e nero diventavano a colori;gli abiti erano meno formali, i

capelli erano sempre più lunghi, poisi accorciavano di nuovo; mossi e indisordine, poi lisci e ben

pettinati. Anche se la maggior partedelle persone ritratte sembravafelice, c’era qualcosa in quelle foto

che la rattristava. Forse la facevanopensare a quanto in fretta passasse iltempo: tutti quei ragazzi

avevano avuto la sua età, erano stati

studenti come lei, con le loro paure,le loro gioie, i loro problemi di

cuore, e ora se n’erano andati, eranoinvecchiati, forse erano morti.

Pensò di sfuggita alla bottiglianascosta in fondo all’armadio, acasa, che conteneva l’acqua dellavita

eterna, incidentalmente sottratta alleGuardiane. Era quella la risposta?Scacciò il pensiero. Non era la

risposta, non ancora. Lo sapeva eaveva stabilito fin dall’inizio di non

pensare alla bottiglia e di non

prendere nessuna decisione inmerito, perché non era il momentogiusto. Aveva tempo, aveva ancora

molti anni da vivere prima di sentireil bisogno di porsi quella domanda.

Il ritratto di cui aveva parlato Jamesera quasi alla fine del corridoio. Ilprofessore e i suoi genitori

erano seduti sull’erba, ai piedi di unalbero, nel cortile interno. Suamadre e suo padre erano chinati in

avanti, presi da un’accesadiscussione, mentre James, unaversione molto più snella delprofessore, con il

viso quasi irriconoscibile sotto labarba incolta, sedeva un po’discosto e li osservava con unosguardo

attento e divertito.

Sua madre sembravaincredibilmente giovane – il visomorbido, gli occhi grandi, il sorrisoampio e

luminoso – ma, allo stesso tempo,era identica alla donna chericordava. Il cuore prese a batterleforte

quando la vide: di felicità, ma di unafelicità dolente. Suo padre era piùgoffo, ben diverso dall’uomo

dall’aria distinta dei suoi ricordi, e,quanto a stile, la maglietta stampatain toni pastello che aveva

indosso era un disastro diproporzioni epiche, ma era lui, senzaalcun dubbio, e vederlo in quella

versione la fece sorridere.

D’un tratto notò la spillasull’orrenda maglietta pastello.All’inizio l’aveva scambiata per unamacchia,

ma poi, chinandosi in avanti,distinse la forma di una piccolalettera V, di colore blu scuro. Siaccorse

che anche sua madre e Jamesindossavano la stessa spilla. Quelladi sua madre era mezza nascosta dauna

lunga ciocca dorata.

Strano. Batté lentamente il dito sulvetro della fotografia, toccando unaa una le lettere V. Avrebbe

chiesto a James delle spille. Nonaveva forse accennato al fatto chelui e suo padre avevano fatto partedi

una confraternita? Forse aveva a chefare con quello. Se non ricordavamale, i membri di una

confraternita davano la spilla anchealle fidanzate.

Un pensiero le sfiorò la mente.Aveva già visto quella spilla daqualche parte. Ma non riusciva a

ricordare dove, quindi si limitò ascrollare le spalle e scacciare ilpensiero. Qualunque cosasignificasse,

era un dettaglio che non conoscevasui suoi genitori, un altro aspettodelle loro vite che avrebbe scoperto

lì al college.

Non vedeva l’ora di saperne di più.

12

«Bell’allenamento», disseChristopher, fermandosi accanto aMatt mentre usciva dallospogliatoio. «Hai

fatto delle azioni spettacolari,amico».

«Grazie», disse Matt, alzando losguardo, mentre si metteva le scarpe.«Te la sei cavata piuttosto bene

anche tu». Sentiva che Christophersarebbe diventato un buon compagnodi squadra: era il classico

giocatore che fa bene il suo lavoro esi concentra sul quadro generale,dandosi da fare per aiutare il resto

dei giocatori. Era anche un buoncompagno di stanza, generoso erilassato. Non russava neppure.

«Ti andrebbe di saltare la mensa eordinare una pizza?», chieseChristopher. «Questa è la sera in cuiti

batterò a Guitar Hero, me lo sento».

Matt rise. In quelle due primesettimane di convivenza, erano

avanzati di molti livelli in tutti igiochi per

Wii che Christopher aveva portatocon sé al college. «D’accordo. Civediamo in camera più tardi».

Christopher gli diede una paccasulla spalla e lo salutò con un gransorriso. Quando se ne fu andato,

Matt mise a posto le sue cose concalma, lasciando che gli altriuscissero dallo spogliatoio prima dilui.

Erano ragazzi simpatici, ma quella

sera era stanco e sentiva maledappertutto. Fra gli allenamenti di

football e le attività da candidatodella Vitale Society, non aveva maimesso tanto a dura prova il proprio

corpo. Era piacevole.

Si sentiva bene. Anche la piùstupida delle prove della VitaleSociety – e alcune erano davverostupide;

per esempio, la sera prima avevanolavorato in gruppo per costruiredelle case con i fogli di giornale –

erano divertenti, perché gli davanol’opportunità di conoscere personestraordinarie. Ethan aveva

ragione. Come gruppo, i candidatidella Vitale erano intelligenti,determinati, pieni di talento e

rispondevano pienamente alleaspettative. E lui ne faceva parte.

Anche le lezioni erano interessanti.Alle superiori aveva ottenuto votipassabili, ma aveva sempre fatto

il minimo indispensabile. La guerracivile, geometria, chimica, Il buio

oltre la siepe: tutte le cose che

aveva studiato al liceo erano unasorta di sfondo indistinto alla suavita reale, fatta di sport e amici.

Alcune delle cose che studiava alDalcrest non erano molto diverse,ma nella maggior parte delle

lezioni, cominciava a scorgere inessi fra le varie materie. Nella suamente si stava facendo strada l’idea

che storia, lingue, scienze eletteratura fossero tutte parti dellastessa cosa: il modo in cui la gente

pensava e comunicava. Ed era unaprospettiva piuttosto interessante.

Matt pensò, con un ghignoautoironico, che forse stava davvero“sbocciando” all’università, proprio

come aveva predetto il consulente diorientamento agli studi del liceo.

Non era ancora buio, ma si stavafacendo tardi. Affrettò il passo,pensando alla pizza.

Non c’erano molti studenti in giroper il campus. Forse erano a mensao si erano chiusi nelle loro stanze,

spaventati dagli ultimi avvenimenti.Matt non era preoccupato,comunque. Immaginava che cifossero

tante prede più vulnerabili di ungiocatore di football.

Si alzò un forte vento, che feceondeggiare i rami degli alberi nelcortile interno e gli portò alle narici

l’odore dell’erba. Sembrava ancoraestate. Fra i cespugli, le lucciole siaccendevano a intermittenza

nella luce del crepuscolo. Matt si

sgranchì le spalle, godendosi lasensazione dei muscoli che si

scioglievano dopo il lungoallenamento.

Più avanti, qualcuno gridò. Unragazzo, notò Matt. Il grido fu subitosoffocato.

Prima di rendersene conto, Matt siritrovò a correre verso il punto dacui aveva sentito provenire l’urlo.

Con il cuore che gli martellava nelpetto, cercò di forzare le gambestanche ad andare più veloci. Era

stato un urlo di puro terrore. Tesel’orecchio, ma udì solo il suonoirregolare del proprio respiro.

Quando arrivò sul retro della facoltàdi economia, scorse una figura scurachina su qualcosa nell’erba;

la sagoma nera scappò appena lovide, come se le sue gambescheletriche avessero le ali. Eraveloce e

aveva il viso completamentenascosto da un cappuccio. Matt nonriuscì nemmeno a capire se fosse un

ragazzo o una ragazza.

Si mise a correre anche lui perinseguire la figura in nero, ma sifermò di colpo quando riconobbe la

sagoma nell’erba.

Non era un oggetto. Per un istante, lasua mente si rifiutò di elaborare ciòche stava vedendo. Il rosso e il

dorato di una maglia di football. Illiquido denso che la impregnava. Unvolto familiare.

Poi, di colpo, tutto tornò a fuoco.

Matt cadde in ginocchio.«Christopher, oh, no, Christopher».

C’era sangue dappertutto. Matt tastòfreneticamente il petto dell’amico,cercando di capire dove

premere per tentare di fermarel’emorragia. “Sanguinadappertutto… dappertutto”.Christopher tremava

violentemente, e Matt premette lemani sulla maglia da footballinzuppata per tenerlo fermo. Fiotti

cremisi di sangue fresco scorrevano

sul tessuto rosso vivo della maglia.

«Christopher, amico, resisti, andràtutto bene. Te la caverai», disseMatt, prendendo il telefono per

chiamare il 911. Aveva le manicoperte di sangue e il telefono eraviscido e scivoloso mentre lo teneva

premuto contro l’orecchio.

«Per favore», disse, con vocetremante. «Sono al Dalcrest College,vicino alla facoltà di Economia. Il

mio compagno di stanza è stato

aggredito. Perde molto sangue. Èsvenuto». L’operatore del 911cominciò

a fargli alcune domande e Mattcercò di concentrarsi.

All’improvviso Christopher aprì gliocchi, prendendo una lunga boccatad’aria.

«Christopher», disse Matt, lasciandocadere il telefono. «Chris, stannomandando un’ambulanza.

Resisti».

I tremiti del suo corpo peggiorarono,le gambe e le braccia vibravano a unritmo sempre più rapido. Il

ragazzo posò lo sguardo sul volto diMatt e aprì la bocca.

«Chris», disse Matt, cercando ditenerlo fermo, con gentilezza, «chi èstato? Chi ti ha attaccato?».

Christopher boccheggiò di nuovo incerca d’aria, producendo un rantolorauco. Poi smise di tremare e

restò immobile. Le palpebrescivolarono sugli occhi.

«Chris, ti prego, resisti», imploròMatt. «Stanno arrivando. Tiaiuteranno». Afferrò la maglietta

dell’amico e lo scosse un po’, maormai lui non si muoveva più, nonrespirava più.

Le sirene risuonarono in lontananza,ma Matt sapeva che l’ambulanzasarebbe arrivata troppo tardi.

13

Bonnie stringeva al petto il muffinalla banana e noci come se fosseun’offerta sacra. Ci aveva provato,

ma non riusciva proprio a bussarealla porta di Matt. Così si voltòverso Meredith ed Elena e le guardò

con occhi sgranati e imploranti.

«Oh, Bonnie», borbottò Meredith,poi le passò davanti, si sbarazzòdella pila di bagel e della scatola di

succo d’arancia che aveva in mano epicchiò sulla porta.

«Non so che cosa dire», risposesottovoce Bonnie, angosciata.

Si aprì la porta e apparve Matt,

pallido e con gli occhi arrossati.Bonnie non l’aveva mai visto così:era

curvo su se stesso e sembrava piùpiccolo, come rattrappito.Sopraffatta dalla pietà, dimenticò ilproprio

nervosismo e si lanciò fra le suebraccia, lasciando cadere il muffin.

«Mi dispiace tanto», disse con vocesoffocata, mentre calde lacrime lerigavano le guance. Matt la

strinse forte, si piegò e le affondò il

viso sulla spalla. «Va tutto bene»,disse Bonnie alla fine, con voce

affranta, dandogli delle pacche sullanuca. «Cioè, no, non volevo direNon va bene per niente, è ovvio

Ma ti vogliamo bene e siamo qui conte».

«Non ho potuto aiutarlo», disse Mattin tono spento, con il viso ancorapremuto contro il collo

dell’amica. «Ho tentato in tutti imodi, ma è morto lo stesso».

Elena e Meredith si unironoall’abbraccio.

«Lo sappiamo», disse Elena,massaggiando la schiena di Matt.«Hai fatto tutto il possibile per lui».

Matt si sottrasse al loro abbraccio eindicò la stanza con un gesto ampio.«Tutta questa roba è sua»,

disse. «I genitori hanno detto allapolizia che non si sentivano ancorapronti a sgomberare le sue cose. Mi

sta uccidendo vederle ancora quimentre lui non c’è più. Avevo

pensato di impacchettare tutto per isuoi

genitori, ma c’è la possibilità che lapolizia voglia esaminarle».

Bonnie rabbrividì al pensiero diquello che stavano passando igenitori di Christopher.

«Prendi qualcosa da mangiare»,disse Meredith. «Scommetto che nonmangi da secoli. Forse ti aiuterà a

sentirti meglio».

Le tre ragazze si misero all’opera,

prima preparandogli la colazionecon le cose che avevano portato,

poi cercando di convincerlo amangiare qualcosa, qualsiasi cosa.Matt bevve un po’ di succo e preseun

bagel, tenendo sempre la testa bassa.«Ho passato tutta la notte allastazione di polizia», disse. «Ho

dovuto ripetere un’infinità di volte ilresoconto di ciò che era successo».

«Ma cosa è successo?», chiesetimidamente Bonnie.

Matt sospirò. «Mi piacerebbedavvero saperlo. Ho visto solo untizio vestito di nero che siallontanava

di corsa da Christopher. Avreivoluto inseguirlo, ma Chris avevabisogno di aiuto. E poi è morto. Ciho

provato, ma non ho potuto farenulla». Corrugò la fronte. «La cosadavvero strana, comunque», disse

lentamente, «è che, anche se io hovisto scappar via una persona, lapolizia pensa che Christopher sia

stato aggredito da qualche animale.Il suo corpo era completamentelacerato».

Elena e Meredith si scambiaronouno sguardo allarmato. «Unvampiro?», disse Meredith. «Omagari un

lupo mannaro?»

«Me lo stavo chiedendo anch’io»,ammise Matt. «Avrebbe senso».Quasi senza accorgersene, finì il suo

bagel, ed Elena approfittò della suadistrazione per fargli scivolare un

po’ di frutta nel piatto.

Bonnie si strinse le braccia attornoalla vita. «Perché?», chiese. «Perchéovunque andiamo accadono

queste cose strane e spaventoseattorno a noi? Pensavo che una voltalasciata Fell’s Church le cose

sarebbero cambiate».

Nessuno ribatté. Per un po’, se nestettero tutti seduti in silenzio, e aBonnie parve che stringersi l’uno

all’altro fosse un modo per

proteggersi da qualcosa di freddo espaventoso.

Alla fine, Meredith allungò la manoe prese uno spicchio d’arancia dalpiatto di Matt. «Dunque, prima

di tutto dobbiamo indagare e cercaredi capire se queste aggressioni esparizioni sono di ordine

sovrannaturale». Masticò pensosal’arancia. «Per quanto odiammetterlo, dobbiamo coinvolgereDamon.

È bravo in questo genere di cose. E

anche Stefan dovrebbe sapere checosa sta succedendo». Guardò

Elena, e aggiunse, in tono garbato:«Gliene parlerò io. Sei d’accordo,Elena?».

Elena scrollò le spalle. Bonnie notòche stava cercando di mostrarsiimpassibile, ma le tremavano le

labbra. «Ma certo», rispose Elenadopo qualche secondo. «Sono sicurache stiano già controllando per

conto loro, comunque. Sai quantosono paranoici».

«Non senza un motivo», replicòsecca Meredith.

Matt aveva gli occhi umidi.«Qualunque cosa accada, ho bisognoche mi promettiate una cosa», disse.

«State attente, per favore. Nonpotrei… Cerchiamo di evitare chequalcun altro ci lasci la pelle,

d’accordo?».

Bonnie gli si avvicinò, si rannicchiòal suo fianco e posò la mano sullasua. Meredith tese un braccio e

coprì entrambe le mani, e infineElena aggiunse la sua al mucchio.«Ci prenderemo cura l’unodell’altro»,

disse.

«Facciamo un giuramento», disseBonnie, cercando di sorridere. «Ciguarderemo sempre le spalle a

vicenda. Controlleremo sempre chetutti siano al sicuro». In quelmomento, mentre gli altriassentivano

sottovoce, fu sicura che sarebbero

stati in grado di mantenere lapromessa.

Meredith girò su se stessa e fece unpasso avanti, roteando il bastone inbasso per colpire le ginocchia

di Samantha, protette da una spessaimbottitura. La ragazza schivò ilcolpo, poi tentò un affondo con il

suo bastone, mirando alla testadell’avversaria. Meredith parò ilcolpo e le diede una stoccata alpetto.

Samantha barcollò all’indietro e

perse l’equilibrio.

«Wow», esclamò, massaggiandosi laclavicola e guardando Meredith conun misto di risentimento e

ammirazione. «Fa male anche conl’imbottitura. Non mi ero maiallenata con un’avversaria così forte

prima d’ora».

«Oh, be’», disse Meredith modesta,provando un’assurda sensazione dicompiacimento. «Mi alleno

parecchio»

«A-ah», fece Samantha, conun’occhiata inquisitoria. «Facciamouna pausa». Crollò sul materassino e

Meredith, tenendo il bastone inequilibrio con una mano, si sedetteaccanto a lei.

Ovviamente, non era il suo bastone,l’arma da cacciatrice di vampiri.Non poteva portare in palestra il

suo micidiale cimelio di famiglia: sitrattava chiaramente di un’armaletale personalizzata. Ma aveva

appreso con gioia che Samantha si

batteva con un bastone jo di unmetro e venti e che ne aveva uno di

riserva.

Samantha era rapida, intelligente eimpetuosa, una delle migliorisparring partner che avesse maiavuto.

Lottando, Meredith riusciva a tenerefuori il sentimento di impotenza cheaveva provato nella stanza di

Matt, quella mattina. C’era qualcosadi terribilmente commovente nelvedere tutti gli oggetti di

Christopher al loro posto nellastanza, come ad aspettarlo, quandolui non sarebbe mai tornato. Sulla

scrivania, c’era una di quelle straneimitazioni di giardino zen, con lasabbia ben curata. Forse, solo il

giorno prima, Christopher avevapreso in mano il rastrello inminiatura e aveva lisciato la sabbia,e ora

non avrebbe toccato mai più nulla.

Ed era colpa sua. Meredith strinse ilbastone fino a farsi sbiancare le

nocche. Doveva accettarlo. Il

potere di essere un’efficace forzacontro le tenebre, una cacciatrice egiustiziera di mostri, implicava

anche delle responsabilità.Qualunque forza maligna fossepenetrata nel suo territorio e avesseucciso

qualcuno rappresentava per lei unfallimento e un disonore.

Avrebbe dovuto impegnarsi di più.Allenarsi più spesso, uscire apattugliare il campus, tenere le

persone al sicuro.

«Va tutto bene?». La voce diSamantha interruppe i suoi pensieri.Presa alla sprovvista, Meredith alzòla

testa e vide i grandi e solenni occhiscuri di Samantha che la fissavanomentre digrignava i denti e

serrava i pugni.

«Non proprio», rispose brusca.«Ehm». Sentiva di dover fornire unaspiegazione per il suo cattivo

umore. «Hai saputo di quel che èsuccesso l’altra notte, del ragazzoche è stato ucciso?». Samantha annuì

lentamente, con un’espressioneindecifrabile. «Be’, il suo compagnodi stanza è un mio carissimo amico.

Ed ero con lui oggi, cercavo ditirarlo su di morale. E stato…devastante».

Samantha si alzò faticosamente sulleginocchia, il suo volto s’indurì.«Senti, Meredith», disse, «ti

prometto che non succederà un’altra

volta. Non finché io veglierò suquesto campus».

«Tu vegli sul campus?», chieseMeredith con un fil di voce. D’untratto faceva fatica a respirare.

«Ho delle responsabilità», risposeSamantha. Lo sguardo le cadde sulleproprie mani. «Prenderò

l’assassino».

«È un’impresa non da poco», disseMeredith. No, non era possibile. MaSamantha era davvero brava

nel combattimento e le sue parole…Perché altrimenti avrebbe dovutocredere che fermare l’assassino

fosse una sua responsabilità?

«Cosa ti fa pensare di poterlofare?», chiese.

«So che è difficile da credere, e nondovrei nemmeno dirtelo, ma hobisogno del tuo aiuto». Samantha la

guardava dritto negli occhi e nellasua voce vibrava una nota diassoluta sincerità. «Sono unacacciatrice

di mostri. Ho ricevutoun’educazione… Ho un sacrodovere. La mia famiglia, dagenerazioni, lotta contro

il male. Sono l’ultima della miastirpe. I miei genitori furono uccisiquando avevo tredici anni».

Meredith sussultò, scioccata, maSamantha scosse la testa con vigore,respingendo la sua compassione.

«Non hanno portato a termine il mioaddestramento», continuò, «e hobisogno che tu mi aiuti a diventare

più brava, più veloce. Non sonoancora abbastanza forte».

Meredith la fissò per alcuni secondi.

«Per favore, Meredith», disse laragazza. «So che sembra una cosa dapazzi, ma è la verità. Sono

responsabile della vita e dellasicurezza altrui».

Incapace di trattenersi, Meredithcominciò a ridere.

«Non è uno scherzo», disseSamantha, saltando in piedi, con i

pugni serrati. «Questo è… Non avrei

dovuto dirti nulla». Si diresse allaporta a passo di carica, con laschiena dritta come quella di un

soldato.

«Samantha, aspetta», gridòMeredith. La ragazza si girò discatto e la guardò con espressionefuriosa.

Meredith prese fiato un istante ecercò disperatamente di ricordareuna cosa che aveva appreso da

bambina, ma che non aveva maiavuto occasione di usare. Fletté eunì i mignoli, poi alzò i pollici per

formare un triangolo, il segno disaluto segreto fra due cacciatori.

Samantha si limitò a fissarla, conuno sguardo del tutto inespressivo.Meredith si chiese se lo ricordava

bene. Non era nemmeno sicura che igenitori di Samantha le avesseroinsegnato quel saluto. Sapeva che

c’erano altre famiglie di cacciatori,ma non aveva mai incontrato

nessuno di loro. I suoi genitoriavevano

lasciato la comunità prima che leinascesse.

Poi Samantha, più veloce di quantonon fosse mai stata incombattimento, le si parò davanti ele afferrò

le mani.

«Sul serio?», chiese. «Non mi staiprendendo in giro?».

Meredith annuì, e Samantha le gettò

le braccia al collo e la strinse forte.Il cuore le batteva così forte

che Meredith riusciva a sentirlo. Inun primo momento, Meredith siirrigidì: non era tipo da effusioni,

anche se da anni era la miglioreamica di Bonnie, sempre esageratanelle manifestazioni d’affetto. Poi si

lasciò andare all’abbraccio,sentendo fra le braccia il corposnello e muscoloso di Samantha,così simile

al suo.

Provò una stranissima sensazione difamiliarità, come se, dopo essersipersa, avesse finalmente trovato

la sua vera famiglia. Sapeva che nonavrebbe mai potuto dichiarare adalta voce quel sentimento, e una

parte di lei sentiva che, solopensandoci, stava tradendo Elena eBonnie, ma non poteva evitare di

provarlo. Samantha sciolsel’abbraccio, sorridente e con il voltoumido di lacrime, e si asciugò gliocchi

e il naso con il dorso della mano.

«Mi sto comportando da stupida»,disse. «Ma questa è la cosa piùbella che mi sia mai capitata.

Possiamo combattere insieme». Tiròsu col naso, in modo quasicompulsivo, e la fissò con i grandiocchi

luccicanti. «Sento di essermi fattauna nuova migliore amica», disse.

«Sì», rispose Meredith, senzapiangere né ridere, fredda comesempre all’esterno, anche se, dentro,

si

sentiva esplodere in mille pezzi difelicità. «Sì, penso che tu abbiaragione».

14

Matt curvò le spalle con ariainfelice. Era andato all’incontro deicandidati perché non voleva stare in

camera da solo, ma ora desideravanon averlo fatto. Aveva evitatoElena, Meredith e Bonnie di recente:

non era colpa loro, ma, negli ultimi

anni, erano accaduti troppi fattiviolenti, troppe morti intorno a loro.

Aveva pensato che frequentare altrepersone l’avrebbe fatto sentiremeglio. Persone che non avevano

visto quanta oscurità ci fosse nelmondo. Ma non era andata così.

Gli sembrava quasi di essereavvolto nella plastica a bolle: eraintontito e ottenebrato. Riusciva a

vedere e a udire gli altri candidatiche si muovevano e parlavano, ma sisentiva separato da loro; tutto

sembrava smorzato e scuro. Inoltre,si sentiva fragile e gli pareva che, seavesse rimosso la pellicola che

lo proteggeva, sarebbe andato inmille pezzi.

Mentre stava fermo in mezzo allafolla di candidati, Chloe si fermòaccanto a lui e gli toccò il braccio

con la sua mano piccola e forte, perconfortarlo. Nella plastica a bolle siformò un buco, e Matt percepì

che lei era davvero lì con lui. Posòla mano su quella della ragazza e la

strinse con gratitudine.

La riunione dei candidati era nellastanza sotterranea a pannelli di legnoin cui si erano incontrati la

prima volta. Ethan aveva assicuratoche quello era solo uno dei tantinascondigli segreti: gli altri erano

aperti solo ai membri che avevanocompletato l’iniziazione.

Matt aveva ormai scoperto cheanche quella stanza aveva diversiaccessi: uno era in una vecchia casa

appena fuori dal campus, chedoveva essere quella in cui eranostati portati la prima volta; uno in un

capanno nei pressi dei campi dagioco; e uno nel seminterrato dellabiblioteca. Pensò che con tutti quegli

ingressi che finivano in un soloposto, il terreno al di sotto delcampus doveva essere pieno ditunnel, ed

ebbe l’inquietante visione deglistudenti che camminavano sul pratoscaldato dal sole mentre, pochi metri

più sotto, si aprivano infinite, buiegallerie.

Ethan stava parlando, e Matt sapevache, in qualsiasi altra occasione,avrebbe ascoltato con attenzione

ogni parola. Ora, invece, quellestesse parole lo lasciavanoinsensibile, era come se non lesentisse, così

fece vagare lo sguardo sulle figuremascherate in abito scuro dei Vitaleche camminavano su e giù per la

stanza alle spalle di Ethan. Si

interrogò pigramente su di loro: lemaschere li nascondevano così beneche

non era mai sicuro di riconoscerli ingiro per il campus. Eccetto Ethan,ovviamente. Matt era curioso di

sapere cosa lo rendesse immune aquelle restrizioni. Come i tunnelsotterranei del campus, l’anonimato

dei Vitale era leggermenteinquietante.

Finalmente, la riunione volse altermine e i candidati cominciarono a

uscire alla spicciolata. Alcuni gli

diedero delle pacche sulle spalle ogli sussurrano frasi di cordoglio, eMatt si rincuorò quando si accorse

che tenevano a lui e che, in qualchemodo, fra le stupide attivitàcameratesche della confraternita,

avevano finito per sentirsi davveroamici.

«Puoi aspettarmi un minuto, Matt?».Ethan era comparso d’improvviso alsuo fianco e aveva lanciato

uno sguardo a Chloe, la quale, dopoavergli stretto di nuovo il braccio,l’aveva lasciato andare.

«Ci vediamo dopo», mormorò. Mattla guardò attraversare la stanza euscire, con i capelli che le

rimbalzavano sulla nuca.

Quando si girò di nuovo versoEthan, vide che aveva la testapiegata da un lato e gli occhicastano-

dorati fissi su di lui, come se lostesse valutando.

«Mi fa piacere vedere che tu eChloe stiate diventando così intimi»,dichiarò, e Matt scrollò le spalle, a

disagio.

«Sì, insomma », disse.

«Scoprirai che gli altri Vitale sonoquelli che possono comprendertimeglio», disse Ethan. «Sono gli

amici che ti staranno accanto pertutta la durata del college, e per ilresto della tua vita». Sorrise.

«Almeno a me è successo così. Ti

ho tenuto d’occhio, Matt», continuò.

Matt s’irrigidì. Qualcosa avevasquarciato l’involto di plastica abolle, ma non era stato piacevolecome

lo era stato con Chloe. Ora Matt sisentiva esposto, anziché protetto.Forse era il suo sguardo penetrante,

o l’intensità con cui sembravacredere a qualunque cosa dicesse.«E allora?», chiese diffidente.

Ethan sorrise. «Non essere cosìparanoico. È una buona cosa. Ogni

iniziato della Vitale Society è

speciale, per questo siete stati scelti.Ma ogni anno c’è qualcuno che è piùspeciale, un leader fra i

leader. Posso già riconoscerlo inquesto gruppo, e sei tu, Matt».

Matt si schiarì la gola. «Sul serio?»,chiese lusingato, non sapendo benecos’altro dire. Nessuno l’aveva

mai definito un leader.

«Ho grandi piani per la VitaleSociety quest’anno», disse Ethan,

con gli occhi che gli brillavano.

«Passeremo alla storia. Saremo piùpotenti che mai. Vedo per noi unfuturo luminoso».

Matt abbozzò un sorriso e annuì.Anche lui riusciva a vederlo quandoEthan parlava così, con la voce

calma e persuasiva e gli occhi doratifissi su di lui. I Vitale nonprimeggiavano solo al campus,perché un

giorno avrebbero governato ilmondo. Lui stesso, che sapeva di

essere sempre stato un ragazzoordinario,

sarebbe stato trasformato in un uomoperspicace e sicuro di sé, un leaderfra i leader, come diceva Ethan.

Riusciva già a immaginarsi.

«Voglio che tu sia il mio bracciodestro, Matt», continuò Ethan. «Tupuoi aiutarmi a condurre i candidati

verso la grandezza».

Matt annuì di nuovo e, mentre Ethanlo guardava negli occhi, provò un

impeto di orgoglio, il primo

sentimento piacevole dalla morte diChris. Sarebbe rimasto al fianco diEthan e l’avrebbe aiutato a

condurre i Vitale. Tutto sarebbeandato per il meglio. Vedeva conchiarezza la strada da percorrere.

Invero, Keynes ipotizzò che leattività economiche fosserodeterminate dalla domanda globale .Stefan

lesse la frase per la quindicesimavolta in mezz’ora senza nemmeno

cominciare a comprenderla.

Sembrava tutto così inutile. Avevacercato di distrarsi dalle indaginisull’omicidio al campus, ma aveva

finito solo con l’innervosirsi ancoradi più per non essere al fianco diElena, a controllare con i propri

occhi che fosse al sicuro. Chiuse illibro e si prese la testa fra le mani.

Senza Elena, che ci stava a fare lì?

L’avrebbe seguita ovunque. Era cosìbella che a volte faceva male

guardarla, come quando si fissa il

sole. Lei emanava la stessa luceaccecante, con i capelli dorati e gliocchi del colore dei lapislazzuli,con

la pelle chiarissima e delicata, tintada una tenue, quasi impercettibile,sfumatura di rosa.

Ma in lei c’era più della suabellezza. La bellezza da sola nonl’avrebbe interessato a lungo. Infatti,la

somiglianza con Katherine l’aveva

quasi allontanato all’inizio. Ma sottol’impeccabile bellezza esteriore,

c’erano una mente irrequieta comeargento vivo, sempre in moto,sempre pronta a fare piani, e uncuore

saldo e molto protettivo verso lepersone che amava.

Aveva passato secoli alla ricerca diuna persona che lo facesse sentire dinuovo vivo, e non era mai

stato certo di qualcosa come lo eradi Elena. Era lei che tanto a lungo

aveva cercato, l’unico e solo amore

della sua vita.

Perché lei non aveva la stessacertezza su di lui? Anche se Elenacontinuava a dire che lui era l’amore

della sua vita, restava un fatto: leuniche due ragazze che Stefan avevaamato nel corso della sua

lunghissima esistenza non amavanosoltanto lui, ma anche suo fratello.

Chiuse gli occhi e si massaggiò ildorso del naso, poi si alzò di scatto

dalla scrivania. Forse era la fame.

Con un paio di rapide falcateattraversò la stanza dipinta dibianco, in cui regnava uno stranoconnubio

fra gli oggetti raffinati portati da luie la mobilia economica fornita dallascuola, e uscì sul balcone.

L’aria notturna odorava digelsomino e gas di scarico. Stefanlasciò vagare delicatamente le sondedi

Potere nella notte, in cerca di

qualcosa Eccolo. Una piccola mentesi animò, destata dal suo richiamo.

Il suo udito, più acuto di quelloumano, colse il fioco sibilo di unsonar e un piccolo pipistrello peloso

si posò sulla ringhiera del balcone,attirato dal Potere. Stefan lo prese inmano, mantenendo la delicata

pulsazione di Potere fra la sua mentee quella del pipistrello, che lo fissòdocilmente con il piccolo muso

volpino in allerta.

Stefan chinò la testa e bevve, attentoa non prendere troppo dalla piccolacreatura. Fece una smorfia di

disgusto e liberò il pipistrello, chedapprima sbatté incerto le ali, un po’stordito, poi prese velocità e si

perse di nuovo nella notte.

In fondo, non aveva poi tanta fame,ma il sangue gli schiarì la mente.Elena era troppo giovane. Doveva

ricordarselo. Era ancora più giovanedi quanto fosse lui quando eradiventato un vampiro, e ci voleva

tempo perché facesse le sueesperienze, perché il suo cammino lariportasse da lui. Poteva aspettare.

Aveva tutto il tempo del mondo.

Ma lei gli mancava da morire.

Raccogliendo le forze, saltò dalbalcone e atterrò con leggerezza sulprato. Allungò la mano verso

un’aiuola fiorita e carezzò i petalisoffici come seta. Una margherita,fresca e innocente. La colse e tornò

al dormitorio, dall’ingresso

principale stavolta.

Si fermò davanti alla stanza di Elenaed esitò. Udiva i suoni ovattatiprodotti dai suoi movimenti per la

stanza, il suo caratteristico,inebriante profumo. Era sola, e futentato di bussare. Forse anche leimoriva

dalla voglia di vederlo. Forse, sefossero stati soli, lei si sarebbeabbandonata fra le sue braccia,

nonostante la decisione presa.

Scosse la testa, serrando le labbra.Doveva rispettare la sua volontà. Seaveva bisogno di stare da sola

per un po’, lui avrebbe aspettato.Guardò la margherita bianca e lasistemò in equilibrio sulla maniglia

della porta. Lei avrebbe trovato ilfiore e avrebbe capito che era daparte sua.

Voleva che Elena sapesse che eradisposto ad aspettarla, senecessario, ma che non avrebbe maismesso

di pensare a lei.

15

Mentre si dirigeva verso la portadella sua stanza, Elena rovistavanella borsa spuntando le voci di una

lista mentale: portafoglio, chiavi,telefono, lucidalabbra, eye-liner,spazzola, tessera studentesca .

Quando aprì la porta, qualcosascivolò fluttuando per terra.

Una perfetta margherita bianca eracaduta sul pavimento. Elena si chinò

e la raccolse. Rigirandola fra le

dita, sentì un’improvvisa fitta didolore nel petto. “Dio, Stefan mimanca tanto”. Non dubitava che la

margherita fosse da parte sua. Eratipico di Stefan farle sapere checontinuava a pensare a lei pur

rispettando i suoi spazi.

Il dolore al petto fu lentamentesostituito da una dolce sensazione dicalore. Sembrava così stupido e

forzato evitare di parlargli. Lo

amava. E, inoltre, era uno dei suoimigliori amici. Elena prese iltelefono

per chiamarlo.

Poi si fermò. Tirando un profondorespiro, rimise il telefono in borsa.

Se gli avesse parlato, le sarebbevenuta voglia di vederlo. Sel’avesse visto, avrebbe desiderato

toccarlo. Se l’avesse toccato,sarebbe finito tutto. Quasi senzaaccorgersene, si sarebbe data

completamente a lui, e si sarebberoabbracciati, consapevoli soltanto delproprio amore. Infine, avrebbe

alzato lo sguardo e avrebbe visto gliinsondabili occhi scuri di Damon,fissi su di loro, e avrebbe provato

per lui la solita attrazione. Allora idue fratelli si sarebbero guardatinegli occhi, e sui loro volti si

sarebbero rapidamente susseguiteespressioni di amore, rabbia edolore, e tutto sarebbe cominciatoda

capo.

Le aveva fatto bene allontanarsi daloro per un po’, anche se, allo stessotempo, era stato devastante,

orribile e si era sentita terribilmentesola. Ma, da allora, Elena si erasentita anche pervadere da un

sentimento di pace. Non poteva dirsiesattamente felice. Era come esserepiena di lividi e sapeva che, se

avesse abbassato la guardia, ildolore l’avrebbe sommersa alricordo di ciò che aveva fatto. Ma

era

anche come se, dopo aver trattenutoil fiato per settimane, fossefinalmente riuscita a gettarlo fuori.

Sapeva che Stefan avrebbe aspettatoche lei fosse pronta a rivederlo. Nonera quello il significato della

margherita?

Infilò il fiore nella borsa e imboccòil corridoio, accompagnata daldeciso ticchettio dei propri tacchi.

Sarebbe uscita con le amiche, si

sarebbe divertita e non avrebbepensato né a Stefan né a Damon. Non

avrebbe pensato nemmeno allesparizioni, o alla morte diChristopher. Sospirò, sopraffattadalla gravità

della situazione. Erano in lutto dagiorni e avevano bisogno diabbracciare di nuovo la vita.Meritavano

una serata di libertà. Avevanobisogno di ricordare ciò per cuistavano lottando.

«Eccola», Elena sentì dire a Bonnieappena entrò nel locale affollato.«Elena! Siamo qui!».

Bonnie, Meredith e una ragazza chenon conosceva erano sedute a untavolo vicino alla pista da ballo.

Avevano invitato Matt a uscire conloro, ma lui aveva risposto, con fareelusivo ma cortese, che doveva

studiare, e loro avevano capito chenon era ancora pronto e avevabisogno di stare un po’ da solo.

Meredith, elegante e tranquilla, le

rivolse un placido sorriso di saluto ele presentò la sua amica

Samantha. Era una ragazza magra,dallo sguardo attento e vispo.Sembrava avesse energia davendere,

sempre in movimento, non smettevamai di chiacchierare.

Anche Bonnie era piuttosto su di giriquella sera e attaccò a parlareappena Elena arrivò al tavolo. Una

dimostrazione di coraggio la sua,pensò Elena. La morte di

Christopher l’aveva sconvolta, edera

preoccupata per Matt come tuttiloro, ma avrebbe tenuto la testa alta,avrebbe riso e chiacchierato, e si

sarebbe sforzata di andare avanti,perché così si era deciso di farequella sera.

«Vado a prenderti una coca cola»,disse Bonnie. «Mi hanno già chiestoi documenti, quindi non posso

prendere altro. E indovina un po’?».Fece una pausa teatrale. «Ho

chiamato Zander e lui ha detto che

cercherà di venire qui stasera. Nonvedo l’ora di farvelo conoscere!».Bonnie stava praticamente

rimbalzando sulla sedia perl’eccitazione, con i riccioli rossi chesvolazzavano da tutte le parti.

«Chi è Zander?», chieseinnocentemente Samantha.

Meredith rivolse a Elena unosguardo malizioso. «Sai, non nesono sicura», disse fingendosiconfusa.

«Bonnie, parlaci di lui».

«Sì», incalzò Elena, con unsorrisetto. «Non mi pare che tul’abbia mai nominato, giusto?»

«Smettetela, ragazze», disse affabileBonnie e, piegandosi sul tavoloverso Samantha, iniziò a decantare

tutte le virtù di Zander al nuovopubblico.

Elena lasciò vagare la mente. Leaveva già sentite tutte, notte doponotte, nel loro dormitorio: gli occhi

di Zander, il sorriso di Zander, ilfascino timido di Zander, il corpocaldissimo di Zander (parole di

Bonnie). Come lei e Zanderstudiassero insieme in un angoloappartato della biblioteca e come luile

portasse qualcosa da sgranocchiaredi nascosto, anche se era«assolutamente contro le regoledella

biblioteca». Il modo in cui siparlavano al telefono ogni sera, lelunghe pause vellutate, quando lui

sembrava sul punto di sussurrarequalcosa di intimo, qualcosa chesoltanto lei poteva capire, e invecepoi

se ne usciva con una battuta che lafaceva ridere a crepapelle. C’eraqualcosa di terribilmente dolce nel

modo in cui Bonnie era innamorata.Elena sperava vivamente che quelragazzo fosse degno di lei.

«Non mi ha ancora baciata»,aggiunse Bonnie, sgranando gliocchi. «Succederà presto,comunque.

Speriamo».

«Il primo bacio», disse Samantha, ealzò le sopracciglia. «Forsestasera?». Per tutta risposta Bonniesi

limitò a ridacchiare.

Elena sentì tornare il dolore al pettoe si premette la mano contro losterno. Quando aveva baciato

Stefan per la prima volta, il mondoera svanito e c’erano stati solo lorodue, a toccarsi con le labbra e

con l’anima. Allora tutto sembravacosì chiaro.

Inspirò a fondo e ricacciò indietro lelacrime. Non si sarebbe lasciataandare ai ricordi; avrebbe passato

una bella serata con le sue amiche.

Presto si accorse che la presenza diSamantha le sarebbe stata di grandeaiuto in tal senso. Se ci fossero

state solo lei, Meredith e Bonnie,avrebbero finito per parlaredell’omicidio di Christopher e delle

sparizioni al campus, sviscerandoossessivamente le poche cose chesapevano e facendo congetture su

tutto ciò che non sapevano. Ma conSamantha, erano costrette amantenere la conversazione su toni

leggeri.

Per qualche ragione, Bonnie avevaesaurito l’argomento delmeraviglioso Zander ed era passataa

quello della lettura della mano.«Guarda», disse a Samantha. «Vedi

la linea che ti attraversa il palmo,

tagliando le altre tre? Questa è lalinea del destino; non tutti cel’hanno».

«Che cosa significa?», chieseSamantha, fissandosi il palmo congrande interesse.

«Be’», disse Bonnie, aggrottando lesopracciglia, «cambia direzionemolte volte – vedi qui? E qui? –

Significa che il tuo destino cambieràa causa dell’influsso di forzeesterne».

«Uhm», fece Samantha. «Che mi dicidell’amore? Incontrerò una personaspeciale stasera?»

«No», rispose Bonnie lentamente, ela sua voce cambiò, assumendo untono piatto, quasi metallico.

Elena alzò rapidamente gli occhi evide che Bonnie aveva le pupilledilatate e lo sguardo perso in

lontananza, oltre il palmo teso diSamantha. «Non stasera. Maqualcuno ti aspetta, una persona che

cambierà ogni cosa. La incontrerai

presto».

«Bonnie», disse Meredith allarmata.«Tutto bene?».

Bonnie sbatté le palpebre e rimise afuoco ciò che la circondava.«Certo», disse, con aria confusa.

«Perché me lo chiedi?».

Elena e Meredith si scambiaronouno sguardo preoccupato: Bonnieaveva avuto una visione? Prima che

avessero modo di chiederglielo, alloro tavolo si avvicinò un chiassoso

gruppo di ragazzi intenti a ridere,

urlare e imprecare. Elena li guardòstorto.

«Ehi, bella», disse uno,squadrandola dall’alto. «Vuoiballare?».

Elena fece per scuotere la testa,quando un altro del gruppo si buttò asedere accanto a Bonnie,

gettandole un braccio al collo.«Ehilà», disse. «Ti sono mancato?»

«Zander!», esclamò Bonnie, con le

guance accese di emozione.

Quello era Zander, dunque, pensòElena, e l’osservò di nascostomentre anche i suoi tre amici si

sedevano al tavolo e sipresentavano, allegri e chiassosi,facendo quello che sembrò ilmassimo rumore

possibile nel trascinare le sedie esedersi scherzando accanto alleragazze. Zander era proprio carino,

doveva ammetterlo. Capelli biondoplatino e un bel sorriso.

Ma non le piaceva il modo in cui sitirava vicino Bonnie, o le girava latesta verso di sé, senza smettere

mai di passarle le mani sulle spalle,persino quando chiacchierava congli amici. Sembrava un modo di

fare davvero possessivo per uno chenon l’aveva ancora baciata. Elenacercò lo sguardo di Meredith, per

vedere se anche lei la pensava allostesso modo. Meredith stavaascoltando, con un sorriso divertito,

l’amico di Zander che si era seduto

accanto a lei – Marcus, se nonricordava male – un ragazzo dagli

stopposi capelli castani, che eraintento a spiegare i suoi eserciziquotidiani di sollevamento pesi.

«Shottini», disse succintamente unaltro amico di Zander, unendosi aloro con un vassoio pieno di

bicchieri. «Facciamo il gioco dellamonetina».

Bonnie ridacchiò. «Non si possonoservire alcolici al nostro tavolo.Siamo minorenni».

Il ragazzo sorrise. «Tranquilla. Pagoio, mica tu».

«Vuoi ballare?», disse di nuovoSpencer, il tipo che l’aveva chiestoa Elena un minuto prima, rivolto a

Samantha stavolta.

«Certo!», rispose lei, e saltò inpiedi. I due si persero subito nellacalca che affollava la pista da ballo.

«Dio, com’ero ubriaco l’altranotte», disse Jared, il ragazzoaccanto a Elena, inclinando la sedia

all’indietro, in equilibrio su duegambe, e osservandola con unsorriso sornione. Il suo amico,dall’altra

parte del tavolo, lo guardò fisso perun minuto, poi gli versò addosso unbicchierino di liquore.

«Ehi!». Un attimo dopo, i due eranoin piedi e si spingevano. Il ragazzoche aveva versato il liquore

rideva e Jared lo fissava, rosso inviso e arrabbiato.

«Vedete di piantarla, ragazzi», disse

Zander. «Non mi va che ci buttinofuori anche da questo locale».

Anche? Elena alzò un sopracciglio.Quel ragazzo e i suoi amici eranodecisamente troppo scalmanati per

la piccola, innocente Bonnie. Elenaguardò di nuovo Meredith in cercadi conferme, ma lei era ancora

persa nel mondo degli atleti: orastava dando la sua opinione sulmodo migliore di allenarsi nelle arti

marziali.

Bonnie strillò fra le risate e fecerimbalzare la sua monetinadirettamente in uno dei bicchieri.Tutti i

ragazzi la acclamarono.

«E ora?», chiese ansimante, con gliocchi luccicanti.

«Ora scegli chi deve berlo», disse ilragazzo che aveva portato glialcolici.

«Zander, ovviamente», disseBonnie, e Zander le rivolse un lento,lungo sorriso che persino Elena

dovette riconoscere comedevastante. Il ragazzo bevve, poifece l’occhiolino a Bonnie, chestava di

nuovo ridendo.

Bonnie sembrava… davvero felice.Elena non ricordava l’ultima voltache l’aveva vista ridere così.

Doveva essere stato l’anno passato,prima che scoppiasse il caos aFell’s Church.

Elena sospirò e guardò intorno altavolo. Quei ragazzi erano degli

scalmanati – si azzuffavano e si

spingevano di continuo – masembravano abbastanza simpatici. E,in fondo, quello era il genere di cose

che gli studenti facevano al college.Se rendevano felice Bonnie, potevaalmeno tentare di andare

d’accordo con loro.

Samantha e Spencer tornarono altavolo. Ridevano entrambi eSamantha crollò sulla sedia.«Basta»,

disse, alzando la mano perrespingerlo. «Pausa. Ho bisogno diun po’ d’acqua. Tu sei un pazzo, losai?»

«Vuoi venire tu a ballare con me,allora?», chiese Spencer a Elena convoce implorante, e la guardò

sgranando gli occhioni castani dacucciolo.

«Cercherà di sollevarti», l’avvertìSamantha. «E poi di farti fare uncasquè. Poi ti farà girare come una

trottola. Ma non preoccuparti. Io

sarò di nuovo in pista fra un attimo».

«Ti prego», disse Spencer, facendouna faccia ancora più patetica.

Bonnie rise trionfante quando fecerimbalzare un’altra moneta nelbicchiere.

“Ballare con un gruppo di amici nonsignifica tradire”, pensò Elena.Inoltre, era single. Più o meno.

Doveva provare a godersi il college,ad abbracciare la vita. Non eraquello il senso della serata, in

fondo? Scrollò le spalle. «Certo,perché no?».

16

Quando Stefan tornò alla stanza diElena, la margherita non c’era più, enel corridoio era rimasto

l’odore delicato del suo shampooagli agrumi.

Di certo lei era uscita con le sueamiche, quindi poteva contare suMeredith per la sua protezione. Si

chiese se Damon le stesse

osservando, se avrebbe cercato diincontrarla. Un amaro filo d’invidiagli si

annodò nello stomaco. A volte eradifficile comportarsi bene, attenersisempre alle regole, mentre Damon

poteva fare ciò che voleva.

Si appoggiò di nuovo alla portadella stanza di Elena. C’era unafinestra sulla parete opposta, e,mentre

osservava la fredda falce di luna chenavigava in alto nel cielo, pensò alla

sua stanza silenziosa e ai libri

di economia e filosofia che loaspettavano.

No. Non aveva intenzione di tornarein camera. Anche se non potevastare con Elena, non era costretto a

stare da solo.

Fuori soffiava un vento gelido, perla prima volta da quando i corsierano iniziati; il caldo afoso

dell’estate della Virginia stavafinalmente cedendo il passo

all’autunno. Stefan curvò le spalle esi ficcò

le mani nelle tasche dei jeans.

Senza sapere di preciso doveandare, uscì dal campus. Gli passòper la mente la vaga idea di andare a

caccia nei boschi, ma non avevafame, era solo irrequieto, così voltòle spalle al sentiero che portava

alla foresta. Vagò per le strade delpaesino intorno al college.

Non c’era molto da fare. I locali

erano pochi, presi d’assalto dairagazzini del college, e gli unici due

ristoranti erano già chiusi. Stefannon aveva alcuna voglia di andarsi achiudere in un pub caldo e

affollato. Magari non gli sarebbedispiaciuto stare in mezzo alla gente,ma non nella calca, e non li voleva

troppo vicini, gli umani, per nonsentire il richiamo del sangue chepulsava sotto la loro pelle. Quando

era infelice, come quella sera,sentiva sorgere dentro qualcosa di

duro e pericoloso, e sapeva di dover

stare attento al mostro che portavacon sé.

Percorse, senza fermarsi, un altroisolato, concentrato sul suonomorbido dei propri passi sul

marciapiede. Verso la fine dellastrada, sentì un fragore ovattato dimusica che proveniva da un edificio

fatiscente, con una ronzante insegnaal neon che recitava: EDDIE’SBILLIARDS. Delle poche macchine

nel parcheggio, nessuna aveval’adesivo del Dalcrest. Erachiaramente un locale di residenti,non di

universitari.

Se Stefan non avesse avuto dentroquella furiosa, bruciante solitudine,non sarebbe entrato. Sembrava

uno studente – era uno studente – equello non pareva il posto in cui gliuniversitari erano visti di buon

occhio. Ma il laido mostriciattolodentro di lui si eccitò al pensiero

che forse avrebbe avuto l’occasione

di tirare un paio di pugni.

Il locale era ben illuminato masquallido, e l’aria era annebbiata danubi bluastre di fumo. Un vecchio

pezzo rock suonava nel jukeboxall’angolo. In mezzo alla stanzac’erano sei tavoli da biliardo, con

piccoli tavolini rotondi sparsi ai latie un bancone in fondo. Due deitavoli da biliardo e qualche tavolino

erano occupati dagli abitanti del

posto, che gli rivolsero un’occhiatapigra e indifferente prima di

voltargli le spalle.

Al bancone, Stefan vide una schienafamiliare e una testa di lisci capellineri. Anche se aveva sospettato

che Damon stesse seguendo Elena,non fu sorpreso di vederlo lì. Avevatenuto a freno il Potere,

concentrato solo sulla propriainfelicità, ma, in passato, era sempreriuscito ad avvertire la presenza di

suo fratello. Se ci avesse riflettutoun momento, avrebbe saputo che loavrebbe trovato là.

Damon, che pure non era affattosorpreso di vederlo, gli fece uncenno col bicchiere, rivolgendogliun

sorrisetto ironico. Stefan attraversòil locale per unirsi a lui.

«Ciao, fratellino», disse Damon abassa voce quando Stefan si sedette.«Non dovresti star chiuso da

qualche parte, a piangere sulla

perdita della tua adorabile Elena?».

Stefan sospirò e si accasciò sullosgabello. Puntando i gomiti sulbancone, appoggiò la testa sullemani.

D’un tratto, si sentiva terribilmentestanco. «Non parliamo di Elena»,disse. «Non voglio litigare con te,

Damon».

«Allora non lo faremo». Dandogliuna leggera pacca sulle spalle,Damon si alzò e si allontanò dallo

sgabello. «Giochiamo un po’ abiliardo».

Di una cosa era sicuro Stefanriguardo al vivere centinaia di anni:si aveva il tempo di diventare

davvero bravi nelle cose. Varieversioni del biliardo erano al mondoda quando lo erano lui e suo

fratello, anche se lui preferivaquella moderna. Gli piaceva l’odoredi gesso e il rumore ruvido della

punta di cuoio sulla stecca dabiliardo.

Damon sembrava pensarla allostesso modo. «Ricordi quandoeravamo ragazzi e giocavamo abilliart

sui prati del palazzo di nostropadre?», chiese mentre radunava lepalline.

«Comunque era un gioco diverso,allora», rispose Stefan. «Tocca a te,spacca».

I ricordi erano limpidi nella suamemoria: lui e suo fratello che se neandavano in giro mentre tutti gli

adulti erano in casa, spingendo lebocce sul prato verso i bersagli, conle mazze pesanti in punta, in un

gioco che era un incrocio fra ilmoderno biliardo e il croquet. Giàallora Damon era un ribelle, sempre

pronto a battersi con i garzoni distalla e ad andarsene a zonzo per lestrade di notte, ma non era ancora

rabbioso come sarebbe diventato inseguito, crescendo. Allora, lasciavache l’adorante e timido fratello

minore seguisse le sue tracce e

prendesse parte alle sue avventure.

Stefan ammise fra sé che su una cosaaveva ragione Elena. Gli piacevauscire con Damon, passare del

tempo insieme come fratelli. Quandoaveva riconosciuto Damon al bar, ilpeso della solitudine che si

trascinava dietro si era comealleggerito. Damon era l’unicapersona che lo ricordasse bambino,l’unica

che sapesse com’era quando eravivo.

Magari avrebbero potuto diventareamici, passando un po’ di tempolontano da Katherine e da Elena.

Magari da quella storia poteva venirfuori qualcosa di buono.

Billiart, biliardo o pool, a Damonera sempre piaciuto giocare. Era piùbravo di lui, ma, dopo centinaia

di anni di pratica, Stefan eradiventato piuttosto abile.

Per questo fu piuttosto sorpresoquando la spaccata di Damon fecerotolare le biglie allegramente sul

tavolo, senza mandarne in bucaneanche una.

«Che succede?», chiese, guardandocon un sopracciglio alzato Damonche strofinava il gesso sulla punta

della stecca da biliardo.

Ho osservato gli altri avventori,disse Damon con la telepatia. Cisono un paio di bari professionisti.

Vorrei attirarli qui. Truffare loro,tanto per cambiare.

Dài, aggiunse svelto di fronte

all’esitazione di Stefan. Non èsbagliato truffare i truffatori. È come

uccidere gli assassini: un serviziopubblico.

Hai una bussola morale parecchiodeviata, gli rispose secco Stefan, manon riuscì a trattenere un

sorriso. In fondo, che male c’era?

«Due palle nella buca all’angolo»,aggiunse ad alta voce. Fece il tiro emandò in buca altre due palle,

prima di fare un passo indietro per

lasciare il posto a Damon.

Continuarono a giocare così,abbastanza bene, ma senzaesagerare, attenti a sembrare unacoppia di

presuntuosi studentelli universitariche ci sapevano fare a un tavolo dabiliardo, ma che non sarebbero

stati all’altezza di un giocatoreprofessionista. La finta espressionefrustrata di Damon dopo un tiro

sbagliato divertì Stefan. Avevadimenticato quanto fosse divertente

partecipare alle macchinazioni disuo

fratello. Stefan vinse per un paio dipalle e Damon tirò fuori unportafoglio pieno di soldi.

«Mi hai battuto, compare», disse conuna voce leggermente brilla che nonsembrava la sua, mentre gli

porgeva un biglietto da venti. Stefanlo guardò perplesso.

Prendilo, gli disse telepaticamenteDamon. Qualcosa nella linea dellasua bocca gli fece tornare in

mente Damon ragazzino, il modo incui mentiva al padre sulle propriedisavventure, sicuro che il fratello

l’avrebbe coperto. Stefan si accorseche Damon si stava fidando di luisenza neanche pensarci.

Sorrise e si fece scivolare labanconota nella tasca posteriore.«Raccogliamo?», suggerì, notandoche

lui stesso stava contraffacendo lavoce, facendola sembrare un po’ piùgiovane e brilla di quanto fosse in

realtà.

Fecero un’altra partita e Stefanrestituì il biglietto da venti. «Ancorauna?», chiese.

Damon iniziò a radunare le biglie,poi le sue mani rallentarono. Alzò latesta per lanciare uno sguardo a

Stefan, poi l’abbassò di nuovo sullebiglie. «Senti», disse, facendo unprofondo respiro, «mi dispiace per

ciò che sta succedendo con Elena.Se io…». Esitò. «Non possosmettere di provare ciò che provo

per lei,

ma non intendevo complicarti lavita. O complicarla a lei».

Stefan lo guardò fisso. Damon non siscusava mai. Diceva sul serio?«Io… ti ringrazio», rispose.

Damon spostò lo sguardo altrove, eun subitaneo, smagliante sorriso glipiegò le labbra. Hanno

abboccato, disse in silenzio. Ilmomento di sincerità tra fratelli eragià finito.

Due uomini si stavano dirigendoverso di loro. Uno era basso esmilzo, con i capelli biondo-rossicci,

l’altro era alto, grosso e scuro.

«Salve», disse il piccoletto. «Cichiedevamo se a voi ragazzi andavauna partitella in squadra, per

alzare un po’ il tiro dellacompetizione». Aveva un sorrisolimpido e amichevole, ma gli occhierano

scaltri e vigili. Occhi da predatore.

Si chiamavano Jimmy e David, ederano dei veri professionisti. Per unpo’ si trattennero, mirando al

pareggio, e aspettarono la terzapartita per suggerire di alzare laposta, al fine di rendere le cose unpo’

più interessanti.

«Un centone?», buttò lì Jimmy.«Penso di potercelo mettere, se avoi sta bene»

«Possiamo alzare ancora, che nedite?», disse Damon, sempre con

voce da ubriaco. «Stefan, hai ancora

quei cinquecento dollari nelportafoglio?».

Stefan non li aveva, né nelportafoglio né altrove, ma nonpensava che sarebbe statonecessario pagare.

Annuì ma, a un’occhiata del fratello,si finse riluttante. «Non saprei,Damon…», disse.

«Non ti preoccupare», ribatté conesuberanza Damon. «Sono soldifacili, no?».

Jimmy li osservava con occhi vigili.«Va bene, facciamo cinquecento»,convenne sorridendo.

«Spacco io», disse Damon, e si misein azione. Dopo qualche secondo,Stefan appoggiò al muro la sua

stecca. Non avrebbe avuto lapossibilità di fare un tiro, nessuno diloro l’avrebbe avuta; Damon,

muovendosi con la precisione di unorologio, mandava in buca una palladopo l’altra.

Nemmeno si sforzava di nascondere

che aveva preparato il colpoinsieme a lui, e i volti di Jimmy e

David si stavano facendo scuri eminacciosi, mentre le ultime biglierotolavano rumorosamente nelle

buche.

«Prego, pagate», ordinò seccoDamon, posando la stecca.

Jimmy e David avanzarono verso diloro con gli sguardi minacciosi.

«Credete di essere moltointelligenti, non è vero?», ringhiò

David.

Stefan spostò il peso da un piedeall’altro, tenendosi pronto a battersio a scappare, a seconda di quello

che avrebbe deciso suo fratello. Nonavrebbero avuto problemi adifendersi da quei brutti ceffi, macon

le sparizioni e le aggressioni che sistavano verificando al campus,sarebbe stato meglio non attirare

troppo l’attenzione.

Damon, freddo e rilassato, fissòJimmy e David, continuando atendere la mano. «Penso che sarebbe

meglio se ci pagaste la somma che cidovete», disse con calma.

«Oh, è questo che pensi, madavvero?», motteggiò Jimmy contono sarcastico. Il modo in cuistringeva la

stecca cambiò: ora la reggeva piùcome un’arma.

Damon sorrise e scagliò un’ondatadi Potere nella stanza. Persino

Stefan, che un po’ se l’aspettava,

rimase pietrificato quando Damon,per un istante, si tolse la mascherada umano e fissò i due bari con uno

sguardo gelido e letale negli occhineri. Jimmy e David barcollaronoall’indietro come spinti da mani

invisibili.

«Ok, non ti arrabbiare», disseJimmy, con voce tremante. Davidsbatteva le palpebre come se lo

avessero schiaffeggiato con un

asciugamano bagnato, e sembravapiuttosto confuso riguardo a quelloche

era appena successo. Jimmy aprì ilportafoglio e contò cinquecentodollari in pezzi da cinquanta,

posandoli nella mano di Damon.

«È ora che ve ne torniate a casa»,disse Damon con voce pacata.«Magari per un bel po’ non avrete

voglia di giocare a biliardo».

Jimmy annuì e parve incapace di

smettere, con la testa che andava sue giù come quella di un pupazzo a

molla. Lui e David indietreggiarono,affrettandosi verso la porta.

«Spaventoso», commentò Stefan.Sentiva ancora un vuoto dolorosonel petto, una fitta di nostalgia per

l’assenza di Elena, ma si era ripresoun po’ dalla sera in cui lei era uscitadal locale da sola. Poi

comprese con un certo stupore che siera appena divertito con Damon.

«Oh, io faccio spavento», assentìallegramente Damon, intascando tuttii soldi. Stefan lo guardò con un

sopracciglio alzato. Non gliimportava dei soldi, ma era tipico disuo fratello dare per scontato che

fossero suoi. Damon lo guardò conun largo sorriso. «Andiamo,fratellino. Ti offro da bere».

17

«È stato fantastico! Davvero», disseBonnie, saltellando felice, manonella mano con Zander. «Sono la

Regina delle Monetine. Chi avrebbemai detto che avevo questo talentonascosto?».

Zander, ridendo, le mise un bracciosulle spalle e la tirò a sé. «Seidavvero stupefacente», assentì.

«Giochi per ubriacarsi, visioni,astrologia. Hai qualche altra abilitàdi cui dovrei essere al corrente?».

Bonnie si accoccolò contro di lui eaggrottò la fronte, fingendo diconcentrarsi. «Non mi viene inmente

nulla. Ti basterà essere consapevoledella mia complessivamagnificenza». La maglietta diZander era

morbida e lisa, e Bonnie chinò unpo’ la testa per potervi poggiare laguancia. «Sono felice che i nostri

amici si siano conosciuti», disse.«Mi sembra che Marcus e Meredithsi siano proprio trovati, non credi?

Non in senso romantico,assolutamente, ed è meglio cosìperché Meredith è già superimpegnata con un

ragazzo, ma era come se parlasserola stessa lingua, una specie dilinguaggio segreto degli atleti. Forse

dovremmo uscire di nuovo tutti ingruppo, una volta o l’altra».

«Già, Meredith e Marcus avevanoparecchio da raccontarsi suirispettivi allenamenti», convenne

Zander, ma con un tentennamentonella voce che spinse Bonnie afermarsi e ad alzare di scatto la testaper

guardarlo in viso.

«Non ti piacciono le mie amiche?»,chiese, ferita. Lei, Meredith edElena avevano sempre potuto

contare su quella che fra lorochiamavano la “SorellanzaVelociraptor”. Se qualcunocontrastava una di

loro, le altre due si sarebberoavvicinate per proteggerla. A Zanderdovevano piacere.

«No, mi piacciono molto», larassicurò. Esitò, poi aggiunse:«Elena, piuttosto, mi sembrava unpo’ a

disagio. Forse non siamo il generedi persone che frequenta?».

Bonnie si irrigidì. «Stai dicendo chela mia migliore amica è una snob?»,chiese.

Zander le massaggiò la schiena percalmarla. «Più o meno, credo. Cioè,è simpatica, ma è un po’ snob.

Molto simpatica come snob,comunque. Vorrei solo piacerle».

«Non è una snob», disse Bonnieindignata. «E anche se lo fosse,avrebbe tutte le ragioni per esserlo.

È

bellissima, intelligente ed è unadelle migliori amiche che io abbiamai avuto. Farei qualsiasi cosa per

lei. E anche lei farebbe tutto per me.Quindi non importa se è una snob»,concluse, fulminandolo con lo

sguardo.

«Vieni qui», disse Zander. Eranovicini alla facoltà di musica, e lui laguidò verso la nicchia illuminata

accanto alla porta d’ingresso. «Ti va

di sederti con me?», chiese,sistemandosi sui gradini di mattoni e

tirandola per la mano.

Bonnie si sedette, ma eradeterminata a non accoccolarsi dinuovo vicino a lui. Infatti, simantenne a una

certa distanza e restò a fissare nelbuio con lo sguardo imbronciato e lamascella serrata.

«Senti, Bonnie», disse Zander,scostandole dagli occhi un lungoricciolo biondo-fragola. «Riuscirò a

conoscere meglio Elena, e sonosicuro che mi piacerà. Riusciròanche a starle simpatico. Sai perché

voglio impegnarmi a conoscerlameglio?»

«No, perché?», chiese Bonnie,scrutandolo con riluttanza.

«Perché voglio conoscere meglio te.Ho intenzione di passare moltissimotempo con te, in futuro,

Bonnie McCullough». Le diede uncolpetto affettuoso con la spalla e leisi lasciò andare, smettendo di

essere arrabbiata.

Gli occhi di Zander erano di unazzurro purissimo, come il cielo lamattina del primo giorno di vacanze.

Esprimevano intelligenza, gioia divivere e un pizzico di selvaggiodesiderio. Lui si fece più vicino,

chinandosi su di lei, e Bonnie sentìcon certezza che stava per baciarla,il loro primo bacio finalmente.

Piegò indietro la testa per offrirgli lelabbra, battendo le ciglia mentrechiudeva gli occhi.

Dopo qualche secondo di attesa perun bacio che non arrivava, si rimisea sedere composta e aprì gli

occhi. Zander non la guardava più,ma scrutava nell’oscurità cheavvolgeva il campus, con la fronte

aggrottata. Bonnie si schiarì la gola.

«Oh», fece lui, «scusa, Bonnie, misono distratto un attimo».

«Distratto?», ripeté lei, indignata.«Che cosa vuoi dire…».

«Aspetta un secondo». Le mise un

dito sulle labbra per zittirla.

«Hai sentito qualcosa?», chieseBonnie preoccupata, avvertendo unformicolio strisciarle su per la

schiena.

Zander si alzò. «Scusa, mi sonoappena ricordato che devo fare unacosa. Ci becchiamo dopo, ok?». Gli

fece un freddo cenno di saluto, senzaneanche guardarla, e si avviò apasso svelto sulla strada buia.

Bonnie rimase a bocca aperta.

«Aspetta!», gridò, alzandosigoffamente. «Non avrai intenzione di

lasciarmi qui…». Zander erasparito. «Da sola», concluse con unfilo di voce.

Grandioso. Si allontanòdall’edificio, fermandosi al centrodella stradina, si guardò attorno easpettò un

minuto per cogliere qualche segno diZander che tornava. Ma non sivedeva nessuno. Non si sentivano

nemmeno più i suoi passi.

I lampioni proiettavano chiazze diluce sulla strada, ma non eranomolto ampie. Una folata di ventofece

frusciare le foglie degli alberi nelcortile, e Bonnie rabbrividì. “Nonha senso rimanere qui”, pensò e

cominciò a camminare.

All’inizio, percorrendo la stradinaper il dormitorio, era davverofuriosa, scossa e umiliata. Come

aveva potuto svignarsela in quelmodo? Lasciarla tutta sola nel cuore

della notte, soprattutto dopo tutte le

aggressioni e le sparizioni alcampus? Calciò con rabbia unsassolino sulla strada.

Dopo un po’ che camminava, smisedi essere così arrabbiata. Era troppospaventata: la paura stava

scacciando via la rabbia. Sarebbedovuta tornare al dormitorio conElena e Meredith, invece, in tutta

tranquillità, le aveva rassicuratedicendo che l’avrebberiaccompagnata Zander. Come aveva

potuto

lasciarla lì? Si strinse le bracciaintorno al petto e camminò piùsvelta che poteva, senza peròmettersi a

correre, perché quelle stupidescarpe con i tacchi che si era messaper andare a ballare la stringevano e

le facevano male alla punta deipiedi.

Era davvero tardi; ormai quasi tuttele persone che vivevano al campusdovevano essere al calduccio

nei loro letti. Il silenzio erainquietante.

Quando cominciò a sentire dei passialle proprie spalle fu anche peggio.

All’inizio non era sicura di sentirlidavvero. Poco a poco, si rese contodel fievole e rapido scalpiccio

in lontananza: era un’andaturaveloce e leggera. Si fermò e si misein ascolto, e i passi divenneroancora

più rapidi e rumorosi.

Qualcuno stava correndo verso dilei.

Bonnie accelerò, inciampando per lafretta. Le scarpe scivolarono sullastricato sconnesso e cadde sulle

mani e su un ginocchio. Il dolore perl’impatto fu abbastanza forte da farlevenire le lacrime agli occhi,

ma si tolse le scarpe con un calcio,senza curarsi di lasciarle indietro. Sialzò barcollante e cominciò a

correre.

I passi del suo inseguitore ora eranopiù forti: stava per raggiungerla. Maavevano un ritmo strano: a

passi pesanti e regolari siaffiancavano dei colpi più leggeri eravvicinati. Bonnie si accorse conorrore

che più di una persona le stavadando la caccia.

Scivolò di nuovo e a stento riuscì ariprendere l’equilibrio, barcollandodi lato per evitare di cadere,

perdendo ancora terreno.

Una mano pesante le si posò sullespalle, e lei strillò, voltandosi discatto, con i pugni alzati in un

disperato tentativo di difesa.

«Bonnie!», disse Meredith,ansimando e stringendole le spalle.«Che cosa ci fai qua fuori da sola?».

Samantha le raggiunse, con le scarpedi Bonnie in mano, e si piegò in due,ansimando per lo sforzo.

«Sei troppo veloce per me,Meredith», disse.

Bonnie soffocò un singulto disollievo. Ora che era al sicuro,sentiva di potersi rilassare eabbandonare

all’isterismo. «Mi hai spaventata»,disse.

Meredith sembrava furiosa.«Ricordi che ci eravamo promessedi non separarci dagli altri?». I suoi

occhi grigi si erano rabbuiati comeun cielo temporalesco. «Avrestidovuto restare con Zander finché non

fossi stata al sicuro in camera».

Bonnie stava per rispondere confoga che non aveva deciso lei dirimanere là fuori da sola, ma dicolpo

chiuse la bocca e annuì.

Se Meredith avesse saputo cheZander l’aveva lasciata lì da sola,non l’avrebbe mai perdonato. E lei

era arrabbiata con Zander per averlalasciata, ma non abbastanza daperdere la testa, non al punto da

aizzare Meredith contro di lui. Forsec’era una spiegazione. E poi Zander

le doveva ancora un bacio.

«Scusa», disse Bonnie con ariaafflitta, guardandosi i piedi. «Hairagione, avrei dovuto stare più

attenta».

Rabbonita, Meredith le mise unbraccio intorno alle spalle.Samantha le porse le scarpe insilenzio, e lei

se le infilò. «AccompagniamoSamantha al suo dormitorio e poitorniamo a casa insieme», disse. Dal

tono si capiva che l’avevaperdonata. «Sei al sicuro con noi».

A due passi dalla sua stanza, Elenasi accasciò, appoggiandosi al murodel corridoio per un momento.

Era stata una lunga, lunghissimanotte. Aveva bevuto e ballato conl’enorme Spencer dai capellistopposi,

che, come aveva preannunciatoSamantha, aveva cercato disollevarla e farla girare.

La situazione si era fatta sempre più

rumorosa e irritante e, per tutto iltempo, aveva avuto male al cuore.

Non era sicura di voler esplorare ilmondo senza Stefan. “È unasituazione momentanea”, si disse,

raddrizzandosi e arrancando versola stanza.

«Ciao, principessa», disse Damon.Elena s’irrigidì per lo shock.

Seduto ad aspettarla sul pavimentodavanti alla porta, Damon riuscivachissà come a sembrare elegante

e perfettamente a suo agio in quellache, per chiunque altro, sarebbestata una posizione scomoda. Mentre

si riprendeva dallo shock di trovarlolì, Elena fu sorpresa dalla felicitàche le era scoppiata nel petto

quando lo aveva visto.

Cercando di ignorare quel piccolosingulto di gioia, disse in tonopiatto: «Avevo detto che non volevo

vederti per un po’, Damon».

Lui scrollò le spalle e si alzò in

piedi con un movimento aggraziato.«Cara, non sono qui per implorarti

di sposarmi». Indugiò con losguardo sulla sua bocca per unmomento, poi continuò in tono seccoe

distaccato. «Volevo solo dare unacontrollata a te e al piccolopettirosso, per accertarmi che nonfoste

sparite, con tutto il marcio che stauscendo fuori in questo campus».

«Stiamo bene», disse sbrigativa

Elena. «Io sono qui e il nuovoragazzo di Bonnie la sta

riaccompagnando a casa».

«Nuovo ragazzo?», chiese Damon,alzando un sopracciglio. Elenasapeva che c’era sempre stato

qualcosa fra lui e Bonnie, un qualchetipo di legame, e immaginava chel’ego di Damon non sarebbe stato

felice di sapere che il pettirossoaveva superato la piccola cotta cheaveva per lui. «E tu come sei tornata

a casa?», le chiese aspro. «Honotato che non hai rimorchiatonessun nuovo ragazzo per fartiproteggere.

Non ancora, almeno».

Elena arrossì e si morse un labbro,ma rifiutò di rispondere allaprovocazione. «Meredith è appena

uscita per un giro di ronda nelcampus. Ho notato che non mi haichiesto di lei. Non ti interessasapere se

è al sicuro?».

Damon sbuffò. «Compiango il ghoulche oserà assalirla», disse, con untono più ammirato che altro.

«Posso entrare? Nota anche che misto comportando da persona perbenee ti ho aspettato qua fuori, in

questo squallido corridoio, invecedi starmene comodamente sdraiatosul tuo letto».

«Puoi entrare, ma solo per unminuto», rispose Elena a dentistretti, e aprì la borsa per cercare lechiavi.

Oh. Sentì una fitta improvvisa alcuore. In cima alle altre cose nellaborsa, piuttosto sgualcita e vizza

ormai, c’era la margherita che avevatrovato fuori dalla porta all’iniziodella serata. La toccò

delicatamente, riluttante a spingerladi lato per cercare le chiavi.

«Una margherita», commentò seccoDamon. «Molto dolce. Non sembrache tu ci tenga molto,

comunque».

Ignorandolo di proposito, Elenaafferrò le chiavi e richiuse la borsadi scatto. «Quindi pensi che

aggressioni e sparizioni sianoprovocate dai ghoul? O ti riferisci auna creatura sovrannaturale in

generale?», chiese, aprendo la porta.«Che cosa hai scoperto, Damon?».

Lui scrollò le spalle e la seguìdentro. «Niente», rispose torvo.«Ma di certo non penso che i ragazzi

scomparsi siano semplicementeusciti di testa e se ne siano andati a

casa o a Daytona Beach. Penso chetu

debba stare attenta».

Elena si sedette sul letto, tirò leginocchia al petto e vi posò sopra ilmento. «Hai usato il tuo Potere per

tentare di capire cosa stasuccedendo?», chiese. «Meredithvoleva chiedertelo».

Damon le si sedette accanto esospirò. «Mia cara, per quanto pocomi piaccia ammetterlo, anche il mio

Potere ha dei limiti», disse. «Lecreature molto più forti di me, comeKlaus, per esempio, possono

nascondersi. Quelle molto piùdeboli, invece, di solito sonodifficili da individuare, perché nonsi fanno

notare, a meno che non le conoscagià. E per qualche stupida ragione»,disse aggrottando le sopracciglia,

«non riesco mai ad avvertire i lupimannari».

«Quindi non puoi fare nulla?»,

chiese Elena, sbigottita.

«Oh, non ho detto questo», risposeDamon. Sfiorò con l’indice unaciocca sciolta dei suoi capellidorati.

«Stai bene», disse distrattamente.«Mi piaci con i capelli tirati indietrocosì». Lei si ritrasse di scatto e

lui lasciò cadere la mano. «Stoindagando, comunque», continuò,con uno scintillio negli occhi. «È da

troppo tempo che non vado a cacciacome si deve».

Elena non sapeva se avrebbe dovutosentirsi rassicurata daquell’informazione, ma di fatto sicalmò,

anche se continuava a percepire unacerta inquietudine. «Quindi nonsmetterai di cercare?», chiese,

sentendo un piccolo brivido lungo laschiena, e lui annuì, con le lungheciglia nere che gli velavano gli

occhi.

Elena cominciava ad avere sonno:era più tranquilla e felice ora che

aveva visto Damon, anche se

sapeva che non avrebbe dovutolasciarlo entrare. Le era mancato.«Faresti meglio ad andare», disse,

sbadigliando. «Fammi sapere sescopri qualcosa».

Lui rimase ai piedi del letto, restioad andarsene. «Non voglio lasciartiqui da sola», disse. «Non con

tutto quello che sta succedendo.Dove sono le tue amiche?»

«Arriveranno presto», rispose

Elena. Un impulso di generosità laspinse ad aggiungere, «ma siccomesei

così preoccupato, puoi dormire qui,se vuoi». Le era mancato troppo e,inoltre, si stava comportando da

perfetto gentiluomo. E dovevaammetterlo: si sentiva più tranquillacon lui in camera.

«Posso davvero?». Damon inarcò unsopracciglio, con aria maliziosa.

«Sul pavimento», aggiunse confermezza Elena. «Sono sicura che

anche Meredith e Bonnie

apprezzeranno la tua protezione».Era una bugia. Bonnie sarebbe statacerto felice di vederlo, ma c’erano

buone probabilità che Meredithl’avrebbe preso a calci di propositoattraversando la stanza. Avrebbe

potuto persino indossare i suoistivali a punta per l’occasione.

Elena si alzò e tirò giù dall’armadiouna coperta di riserva per lui, poiuscì per lavarsi i denti e

cambiarsi. Quando tornò, pronta perandare a letto, lo trovò disteso sulpavimento, avvolto nella coperta.

Lui indugiò con lo sguardo sullacurva della sua gola che scendevanella camicia da notte di pizzo

bianco, ma non disse nulla.

Elena salì sul letto e spense la luce.«Buonanotte, Damon», disse.

Sentì un lieve spostamento d’aria.Poi, d’improvviso, lui le bisbigliònell’orecchio: «Buonanotte,

principessa». Fredde labbra lesfiorarono le guance, ma per unistante soltanto.

18

Quando si svegliò il mattino dopo,Elena scoprì che Damon se n’eraandato, lasciando la coperta ben

ripiegata ai piedi del letto.

Meredith si stava preparando perl’allenamento mattutino, silenziosa econ gli occhi pesti, e si limitò a

un cenno col capo quando le passò

davanti; Elena aveva imparato datempo che Meredith era incapace di

fare conversazione prima di averbevuto una tazza di caffè. Bonnie,che non aveva lezione fino al

pomeriggio, era solo un bozzolosotto le coperte.

Di sicuro Meredith avrebbe dettoqualcosa se avesse notato Damon sulpavimento, pensò Elena, mentre

faceva un salto in mensa perprendere un muffin prima dell’iniziodelle lezioni. Forse non era rimasto

a

dormire. Elena ci pensò sumordendosi le labbra e dando calciai sassolini sulla strada. Avevapensato

che sarebbe rimasto, che avrebbecercato di proteggerla. Dovevaconfessare che, in fondo, l’idea di

averlo lì le piaceva, e si era sentitaparecchio piccata all’idea che lui sene fosse andato.

Ma non voleva che Damon l’amasse,giusto? Non era per questo motivo,

in parte, che aveva messo in

pausa la sua storia con Stefan? Perpotersi togliere dalla mente ancheDamon, e viceversa? Eppure…

“Sono una persona spregevole”,realizzò.

Meditare sul proprio esserespregevole la impegnò per tutto ilpercorso fino all’aula di Storia degli

Stati del Sud, dove rimase ascarabocchiare sul proprio quadernofinché non entrò il professorCampbell,

anzi James. Schiarendosirumorosamente la gola, il professoresi fermò di fronte alla classe, edElena,

riluttante, smise di concentrarsi suipropri problemi per prestargliattenzione.

James sembrava diverso. Insicuro,pensò Elena. Gli occhi sembravanomeno vividi del solito e, in

qualche modo, appariva più basso.

«C’è stata un’altra sparizione»,disse James con voce pacata. Dalla

classe si levò un brusio nervoso e il

professore alzò la mano. «La vittimastavolta – e a questo puntodobbiamo ammettere che stiamo

parlando di vittime, non di studentiche hanno semplicemente lasciato ilcampus – è purtroppo una

studentessa del nostro corso.Courtney Brooks è scomparsa; èstata vista l’ultima volta mentretornava al

dormitorio da una festa, ieri sera».

Esaminando la classe, Elena cercòdi ricordare chi fosse CourtneyBrooks. Una ragazza alta etranquilla,

con i capelli color caramello, pensò,individuando il suo posto vuoto.

James alzò di nuovo la mano perplacare il crescente clamore di vocispaventate ed eccitate. «Per

questo motivo», disse lentamente,«penso che proseguiremo laprossima volta la nostra discussionesul

periodo coloniale. Oggi viracconterò qualche dettaglio in piùsulla storia del Dalcrest College».Guardò

le facce perplesse degli studenti.«Vedete, questa non è la prima voltache succedono cose strane in

questo campus».

Elena aggrottò la fronte e, guardandoi compagni, vide la propriaconfusione riflessa nei loro visi.

«Il Dalcrest College, come senzadubbio molti di voi già sanno, fu

fondato nel 1889 da Simon Dalcrest

al fine di educare i ricchi rampollidell’aristocrazia sudista,sopravvissuta alla guerra disecessione.

Voleva che il Dalcrest fosseconsiderato la “Harvard del Sud” edichiarò che lui e la sua famiglia

sarebbero stati all’avanguardia delmovimento intellettuale eaccademico nel nuovo secolo chestava per

iniziare. Questo è quanto di solito si

legge nelle cronache ufficiali delcampus.

Meno conosciuto è il fatto che lesperanze di Simon furono distruttenel 1895, quando suo figlio,

William Dalcrest, un impetuosogiovanotto di appena vent’anni, futrovato morto con altri tre studentinei

tunnel sotterranei del college.Sembrò si fosse trattato di un pattosuicida. Certi simboli e materiali

trovati nel tunnel insieme ai corpi

suggerivano nessi con la magia nera.Due anni dopo, la moglie di

Simon, Julia Dalcrest, fu brutalmenteassassinata in quelli che ora sono gliuffici amministrativi; il

mistero che circonda la sua mortenon è mai stato risolto».

Elena diede un’occhiata ai compagnidi corso. Conoscevano già quellastoria? Sulla brochure erano

menzionati la data di fondazione delcollege e il nome del fondatore, manon c’era nulla riguardo a

suicidi e omicidi. Tunnelsotterranei?

«Quello di Julia Dalcrest è solo unodegli almeno tre distinti fantasmi chesi dice infestino il campus. Un

altro è il fantasma di unadiciassettenne annegata, sempre incircostanze misteriose, in visita alcampus

per un ballo domenicale, nel 1929.Si dice che vaghi gemendo neicorridoi di Villa McClellan, con le

vesti gocciolanti che lasciano pozze

d’acqua al suo passaggio. Il terzo èquello di un ragazzo di ventun

anni, scomparso nel 1953, il cuicorpo fu ritrovato tre anni dopo nelseminterrato della biblioteca. A quel

che si dice, il suo fantasma è statovisto entrare e uscire dallabiblioteca: correva e si guardavaalle

spalle terrorizzato, come inseguitoda qualcuno.

Ci sono voci di altri eventimisteriosi: nel 1963, uno studente è

scomparso per quattro ore ed è

riapparso, dicendo di essere statorapito dagli elfi».

Una risatina nervosa corse tra glistudenti, e James fece ondeggiarel’indice in un gesto di rimprovero.

Sembrava che l’attenzione deglistudenti avesse un effetto benefico sudi lui: aveva ripreso colore ed era

tornato al suo abituale modo di fare.

«Il punto è che Dalcrest è un luogoinsolito. Oltre agli elfi e ai fantasmi,

c’è una pletora di testimonianze

su strani eventi, e ogni annospuntano nuove voci e leggende sulcampus. Decessi misteriosi. Società

segrete. Racconti di mostri». Feceuna pausa drammatica e guardò glistudenti. «Vi imploro: non

diventate parte di queste leggende.Siate svegli, cauti e non andate maiin giro da soli. Abbiamo finito per

oggi».

Gli studenti si guardarono con

inquietudine, allarmati daquell’improvviso congedo quandomancava

almeno mezz’ora alla fine dellalezione. A ogni modo, cominciaronoa mettere a posto le proprie cose e a

uscire dall’aula, a gruppetti di due otre.

Elena afferrò la borsa e corsedavanti alla cattedra.

«Professore», disse. «James».

«Ah, Elena», disse lui. «Spero che

tu sia stata attenta oggi. È importanteche voi ragazze stiate in

guardia. Anche i giovanottidovrebbero restare vigili, in realtà.Pare che gli aggressori non facciano

discriminazioni». Da vicino,appariva pallido e preoccupato esembrava invecchiato in frettadall’inizio

del semestre.

«Ho trovato molto interessanti lecose che ha spiegato sulla storia delDalcrest», disse Elena. «Ma non

ha parlato di ciò che sta succedendoadesso. Di cosa pensa che si tratti?».

Il viso del professor Campbell siincrespò in mille rughe, facendosiancora più tetro e i suoi occhi la

evitarono, fissandosi su un puntolontano. «Be’, mia cara», disse, «èdifficile da spiegare. Sì, molto

difficile». Si leccò nervosamente lelabbra. «Ho passato in questocollege gran parte della mia vita,anni

e anni. Ora come ora, non ci sono

molte cose a cui non sarei disposto acredere. Ma, in questo caso,

proprio non lo so», concluse a bassavoce, come se stesse parlando frasé.

«C’è qualcos’altro che vorreichiederle», disse Elena, e lui laguardò con attenzione. «Sono andataa

vedere la fotografia di cui mi avevaparlato. Quella che la ritrae insiemeai miei genitori, quando eravate

studenti. Indossavate tutti la stessa

spilla. Era blu e a forma di V».

Elena era abbastanza vicina daaccorgersi del balzo che ilprofessore fece per la sorpresa. Ilsuo volto

aveva perso quell’aria torva emeditabonda ed era impallidito.«Oh, davvero?», disse. «Temo dinon

ricordare proprio cosa fosse.Probabilmente, una creazione diElizabeth. È sempre stata moltocreativa.

Ora, mia cara, devo proprioscappare». Il professore le scivolòaccanto e fuggì via, correndo fuori

dall’aula nonostante ci fossero altristudenti che cercavano di fermarloper fargli delle domande.

Elena lo guardò uscire, sgranandogli occhi per la sorpresa. Jamessapeva più di quanto avesse detto,

questo era sicuro. Anche se lui nonle avesse raccontato altro – e nonaveva intenzione di arrendersi così

presto con il professore – Elena

aveva fatto un’altra scoperta. Quellespille erano importanti e la

reazione di James ne era una prova.

Che genere di mistero poteva essereconnesso a una spilla? James nonaveva forse detto qualcosa sulle

società segrete?

«Dopo la morte dei miei genitori»,disse Samantha a Meredith, «sonoandata a vivere con mia zia.

Anche lei veniva da una famiglia dicacciatori, ma non sapeva nulla a

riguardo. Anzi, sembrava non

volesse saperne nulla. Ho continuatoa esercitarmi da sola nelle artimarziali e ho cercato di imparare il

più possibile, ma non avevo nessunoche mi preparasse».

Meredith puntò la torcia sui cespuglineri che circondavano la facoltà diMusica ed esplorò l’oscurità

con il fascio di luce. Si vedevanosolo piante.

«Non sei affatto male come

autodidatta», disse a Samantha. «Seiintelligente, forte e meticolosa. Devi

solo continuare a fidarti del tuoistinto».

Era stata di Samantha l’idea dipattugliare il campus dopo il calardel sole e di controllare i posti incui

Courtney, la ragazza scomparsa, erastata avvistata la notte prima, pervedere se riuscivano a scoprire

qualcosa.

Meredith si era sentita forteall’inizio della serata, pronta alottare, con la compagna di caccia alsuo

fianco. Ma ora, anche se erainteressante andare in perlustrazionecon Samantha perché le consentivadi

testare la vita del cacciatore con isuoi occhi, cominciava a pensareche stessero vagando alla cieca.

«La polizia ha trovato il suopullover qui da qualche parte»,disse Samantha. «Dovremmo

perlustrare la

zona per trovare indizi».

«Va bene». Meredith si trattenne daldire che la polizia era stata già lìcon i cani, in cerca di prove, ed

era molto probabile che non ci fossenulla che valesse la pena trovare.Perlustrò il prato e la stradina con

la torcia. «Forse sarebbe megliotornare qui di giorno, quandopotremo vedere meglio».

«Mi sa che hai ragione», disse

Samantha, facendo accendi e spegnicon la sua torcia. «Comunque,

abbiamo fatto bene a venire quistasera, no? Se pattugliamo ilcampus, possiamo proteggere lepersone.

Evitare che la situazione degeneri.L’altra sera abbiamoriaccompagnato Bonnie aldormitorio, tenendola

al sicuro».

Meredith sentì una fitta d’ansia. Checosa sarebbe successo se non

l’avessero accompagnata? Sarebbe

stata Bonnie la ragazza scomparsa,anziché Courtney?

Samantha la guardò, con unsorrisetto che le sollevava gli angolidella bocca. «È il nostro destino,

giusto? È il motivo per cui siamonate».

Meredith le restituì il sorriso,dimenticando l’ansia momentaneache aveva provato. Amava

l’entusiasmo di Samantha per la

caccia, il suo impegno costante permigliorarsi, al fine di combattere le

tenebre. «È il nostro destino»,concordò.

Dall’altra parte del cortile, qualcunogridò.

Entrando in azione senza neanchepensarci, Meredith cominciò acorrere. Samantha la seguiva a pochi

passi di distanza e già avevadifficoltà a raggiungerla. “Develavorare sulla velocità”, commentòcon

freddezza la parte di Meredith chenon smetteva un istante di annotareogni particolare.

Si sentì un altro acuto strillo diterrore, stavolta un po’ versosinistra. Meredith cambiò direzionee

accelerò.

“Dov’è?”. Era più vicina, ma nonriusciva a vedere nulla. Perlustrò ilterreno con la torcia.

“Ecco qui”. Vicino a lei c’erano duefigure distese, e una teneva a terra

l’altra.

Per un istante, si immobilizzaronotutti, poi Meredith si lanciò verso diloro, urlando: «Smettila! Toglile

le mani di dosso! Subito!», e unattimo dopo, la figura che avevabloccato l’altra a terra si alzò e si

dileguò nell’oscurità.

“Cappuccio nero, jeans neri”, annotòcon calma. “Non ho capito se è unragazzo o una ragazza”.

La vittima dell’aggressione, invece,

era una ragazza, che trasalì e urlòquando Meredith le sfrecciò

accanto, senza riuscire a fermarsi.

Avrebbe pensato Samantha adaiutarla, lei doveva acciuffare ilfuggitivo. Divorava il terreno conlunghe

falcate, ma non era abbastanzasvelta.

Anche se stava correndo più veloceche poteva, la figura in nero labatteva in velocità. Meredith

intravide dei capelli color biondopallido quando il fuggitivo si voltò aguardarla, prima di fondersi con

le tenebre. La ragazza continuò acorrere e a cercarlo, ma inutilmente.

Alla fine, si fermò. Ansimando perprendere fiato, perlustrò il terrenocon il fascio di luce della sua

torcia, in cerca di tracce. Nonriusciva a credere di aver fallito, diaver lasciato scappare l’aggressore.

Niente. Nessuna traccia. Eranoarrivate così vicino, eppure, tutto

ciò che sapeva, era che l’aggressore

della ragazza vestiva di nero ecorreva a una velocità pazzesca.

Cercando di riprendere fiato, tornòverso la vittima. Mentre lei dava lacaccia all’aggressore, Samantha

aveva aiutato la ragazza ad alzarsi ele aveva asciugato le lacrime con unfazzoletto.

Samantha la guardò scuotendo latesta e disse: «Non ha visto nulla.Pensa che fosse un uomo, ma non

l’ha visto in faccia».

Meredith strinse i pugni.«Dannazione. Neanch’io ho vistonulla. Era troppo veloce e…». Lavoce le

morì in gola a un pensieroimprovviso.

«Che c’è?», chiese Samantha.

«Niente», rispose Meredith. «Mi èscappato». Nella sua mente, rividequel momentaneo bagliore di

capelli chiari che aveva scorto

quando l’aggressore si era voltato aguardarla. Quella sfumatura di

biondo… L’aveva già vista daqualche parte, molto di recente.

Le tornò in mente Zander, con il visorivolto verso Bonnie. I suoi capellibiondi, quasi bianchi, erano

dello stesso colore. Ma non bastavacome prova, non poteva ancora dirloa nessuno. Una ciocca di

capelli di un colore insolito,intravista solo per un momento, nonsignificava nulla. Meredith scacciò

il

pensiero, ma, scrutando di nuovo nelbuio, si strinse le braccia intorno alpetto: all’improvviso sentiva

freddo.

19

Nessuno poteva mentire a ElenaGilbert e farla franca.

Elena, fremente di indignazione,percorreva la stradina verso labiblioteca con la testa alta e il passo

marziale. E così James credeva dipoter fingere di non ricordare nullasu quelle spille a forma di V? Il

modo in cui aveva evitato diguardarla negli occhi, il lieverossore sulle guance paffute: tuttonel suo

atteggiamento urlava che avevaqualcosa da nascondere, qualchesegreto su di sé e sui suoi genitoriche

non voleva rivelarle.

E se lui non gliel’avesse detto, lo

avrebbe scoperto da sola. Labiblioteca sembrava il posto piùadatto

per cominciare.

«Elena», si sentì chiamare, e sifermò. Era così presa dalla suamissione che quasi gli era passata

davanti senza vederlo. Damon,appoggiato a un albero davanti allabiblioteca, le sorrise conun’innocente

espressione indagatrice, stirandooziosamente le lunghe gambe.

«Che ci fai qui?», chiese bruscaElena. Le faceva una stranaimpressione vederlo lì alla luce delsole,

come se fosse parte di un’immaginein sovrimpressione. Damon nonapparteneva a quella sfera della sua

vita, a meno che non fosse lei aportarcelo.

«Mi godo il sole», rispose seccoDamon. «E il paesaggio». Il gestodella sua mano includeva gli alberi

e gli edifici del campus, ma anche

uno stuolo di belle ragazzeridacchianti sull’altro lato dellastrada.

«Cosa ci fai tu qui?»

«Io frequento questo college»,rispose Elena. «Quindi non è stranoche mi trovi dalle parti della

biblioteca. Chiaro?».

Lui scoppiò a ridere. «Hai scopertoil mio segreto, Elena», disse,alzandosi in piedi. «Sono venuto qui

perché speravo di vederti. O di

vedere uno dei tuoi piccoli amici.Sai, mi sento così solo che persino

Mutt avrebbe rappresentato unagradita distrazione».

«Sul serio?», chiese lei.

Lui le lanciò un’occhiata divertita.«Naturalmente ho sempre voglia divederti, principessa. Ma sono qui

per un altro motivo. Devo indagaresulle sparizioni, ricordi? Quindi ènecessario che passi un po’ di

tempo al campus».

«Oh. D’accordo». Elena analizzò lepossibili mosse a disposizione.Ufficialmente, non avrebbe proprio

dovuto intrattenersi con Damon. Lecondizioni della sua separazione daStefan – o periodo di pausa, si

corresse – erano che non avrebbevisto nessuno dei due fratelliSalvatore finché non avesserorisolto i

loro problemi e la strana situazioneche si era venuta a creare fra loronon avesse avuto il tempo di

raffreddarsi. Ma le aveva già violatepermettendo a Damon di dormire sulpavimento della propria

stanza, che come concessione eraben più grossa che andare inbiblioteca insieme.

«E tu cosa stai tramando?», lechiese. «Qualcosa in cui possaaiutarti?».

In fondo, una capatina in bibliotecacon Damon era una cosa piuttostoinnocente. Elena prese una

decisione. Si supponeva fossero

amici, dopotutto. «Sto cercandoalcune informazioni sui mieigenitori»,

disse. «Mi aiuteresti?»

«Certo, mia adorata», rispose lui, ele prese la mano. Lei sentì un brevefremito di disagio. Ma le dita

intrecciate alle sue erano salde erassicuranti, così scacciò via idubbi.

La bibliotecaria che si occupavadell’archivio, un’ottuagenaria inscarpette da tennis, spiegò loro

come

consultare la banca dati deidocumenti del college e li fecesistemare in un angolo con uncomputer.

Damon fece un verso di disgusto,esaminando con disprezzo lachiavetta USB. «Non è il computerin sé

che mi dà fastidio, ma i libri e lefoto dovrebbero essere reali, nonstare in una macchina».

«Ma così può consultarli chiunque»,

rispose paziente Elena. Avevadiscussioni del genere anche con

Stefan. I fratelli Salvatore potevanoanche sembrare due studentiuniversitari, ma c’erano cose delmondo

moderno che proprio non riuscivanoa concepire.

Elena cliccò sulla sezionefotografica del database e digitò ilnome di sua madre, ElizabethMorrow.

«Guarda, ci sono moltissime foto».

Le esaminò, cercando quella cheaveva visto appesa in galleria.

Vide tantissime foto di gruppo cheritraevano gli attori e i tecnici divarie produzioni teatrali. James le

aveva detto che sua madre era unascenografa molto richiesta, mapareva avesse partecipato a qualche

spettacolo anche in veste di attrice.Una foto la ritraeva mentre ballava,con la testa rovesciata

all’indietro e i capelli scompigliati.

«Ti assomiglia». Damoncontemplava la foto, con la testapiegata di lato e uno sguardo intentonegli

occhi scuri. «La linea della bocca èpiù morbida, comunque», disseindicandola con l’indice affusolato,

«e il suo viso è più innocente deltuo». Piegò le labbra in un sorrisocanzonatorio e la sbirciò di

sottecchi. «Immagino che fosse piùgentile di te».

«Io sono gentile», disse lei, offesa, e

cliccò subito con il mouse, perarrivare alla foto che stava

cercando.

«Sei troppo intelligente per esseregentile, Elena», disse, ma lei non loascoltava più.

«Trovata», disse. La fotografia eraproprio come la ricordava: James ei suoi genitori sotto un albero,

affamati di vita e incredibilmentegiovani.

Ingrandì l’immagine, concentrandosi

sulla spilla appuntata alla magliettadi suo padre. Era decisamente

una V. Era blu, un blu scuro eintenso. Ora che poteva vederlameglio, Elena notò che era lo stessocolore

dell’anello di lapislazzuli cheDamon e Stefan indossavano perproteggersi dalla luce del sole.

«Ho già visto una di queste spille»,disse all’improvviso Damon.Aggrottò la fronte. «Ma non ricordo

dove. Mi dispiace».

«L’hai vista di recente?», chieseElena, ma lui si limitò a scrollare lespalle. «James ha detto che è stata

mia madre a fare le spille», disse,ingrandendo la foto finché l’unicacosa visibile sullo schermo fu

l’immagine sgranata della spilla.«Ma non gli credo. Mia madre noncreava gioielli, e quelle spille non

erano il suo genere. Inoltre, nonsembrano fatte a mano, a meno chenon siano state create in un vero

laboratorio di oreficeria. Mi sembra

ci sia una specie di smalto sulla V».Digitò una V nella casella del

motore di ricerca, ma non servì anulla. «Mi piacerebbe sapere cosasignifica».

Damon alzò una spalla, con unmovimento aggraziato, prese ilmouse e aumentò e diminuì lo zoomsu

varie parti della fotografia. Dietro diloro, la bibliotecaria chiuse un librocon un rumore sordo, ed Elena,

voltandosi, vide che la donna li

stava fissando con sconcertanteintensità. Serrò le labbra, quando si

accorse che anche lei la stavafissando, e distolse lo sguardo,facendo qualche passo più in lànella

corsia. Ma a Elena rimasel’inquietante sensazione che labibliotecaria li stesse spiando.

Si girò per riferire sottovoce ipropri timori a Damon, ma fu colpitadi nuovo dall’impressione di

estraneità che provava vedendolo lì.

Semplicemente, lui non c’entravanulla con la scialba e ordinaria

postazione da computer dellabiblioteca. Era come trovare unanimale selvatico acciambellatosulla

scrivania. O un angelo oscuro che tiprepara il porridge in cucina.

L’aveva già visto sotto lucifluorescenti? C’era qualcosa inquella luce che faceva risaltare ilpallore

puro della sua pelle, e gettava

lunghe ombre sotto gli zigomi,ricadendo senza riflessi sul vellutonero dei

capelli e degli occhi. Un paio dibottoni della maglietta eranosbottonati, ed Elena si ritrovò afissare,

quasi ipnotizzata, i lievi spostamentidei lunghi muscoli del collo e dellespalle.

«Che cosa sarebbe la VitaleSociety?», chiese luiall’improvviso, distogliendola dalsuo fantasticare.

«Che cosa?», chiese confusa. «Dicosa stai parlando?».

Damon cliccò col mouse e spostò lozoom, ingrandendo il quaderno chesua madre aveva in grembo. Le

mani – aveva belle mani sua madre,notò Elena, più belle delle sue, cheavevano i mignoli un po’ storti –

erano aperte e coprivanoparzialmente le pagine, ma tra le ditasi riusciva a leggere: VIT L SOCI Y.

«Immagino che significhi questo»,disse Damon. «Visto che cercavi

qualcosa che cominciasse con la V.

Potrebbe essere l’iniziale di un’altraparola, naturalmente. Vita Sociale,forse? Anche tua madre era una

reginetta mondana come te?».

Elena ignorò la domanda. «VitaleSociety», scandì lentamente. «Hosempre pensato che fosse un mito».

«Non vi impicciate della VitaleSociety». Il sibilo veniva da dietrole loro spalle, ed Elena si girò di

scatto. Incorniciata dagli scaffali, la

bibliotecaria aveva un’ariaimponente, nonostante le scarpetteda

tennis e la tuta da ginnastica in tintepastello. Era una donna alta e lafissava con una strana tensione nel

volto grifagno, così che Elena,d’istinto, si sentì minacciata.

«Che cosa vorrebbe dire?», chiese.«Ha delle informazioni su di loro?».

Di fronte a quella domanda diretta,la donna sembrò ritrarsi, perdendol’aria minacciosa che aveva

avuto fino a un istante prima ediventando una normale vecchietta,un po’ titubante. «Io non so niente»,

borbottò, aggrottando la fronte.«Posso dire solo che è pericolosofar arrabbiare i Vitale. Succedono

brutte cose quando ci sono loro dimezzo. Anche se si è prudenti».Cominciò ad allontanarsi spingendoil

suo carrello di libri.

«Aspetti!», disse Elena, facendo peralzarsi. «Che genere di cose?». In

che cosa erano coinvolti i suoi

genitori? Non era possibile cheavessero fatto qualcosa di male,giusto? Non sua madre e suo padre.Ma

la bibliotecaria affrettò il passo,senza risponderle, e le ruote delcarrello cigolarono quando girò

l’angolo per imboccare la corsiaaccanto.

Damon sghignazzò a bassa voce.«Non ti dirà niente», disse, ed Elenalo fulminò con lo sguardo. «Non

sa niente, oppure è troppospaventata per dire ciò che sa».

«Non sei d’aiuto, Damon», ribattélei. Si premette le dita sulle tempie.«Che cosa facciamo adesso?»

«Indaghiamo sulla Vitale Society,ovviamente», rispose Damon. Elenafece per obiettare, ma lui la zittì,

mettendole un dito freddo sullabocca. Sentendo la sua pellemorbida sulle labbra, Elena sollevòla mano

per stringergli le dita, ma si fermò a

mezz’aria. «Non preoccuparti di ciòche dice quella vecchia pazza»,

disse lui. «Ma se vogliamo scoprirei segreti di questa confraternita,probabilmente dovremo cercare

fuori dalla biblioteca».

Damon si alzò e le porse la mano.«Andiamo?», chiese. Elena annuì egli prese la mano. Quando si

trattava di scoprire segreti, discavare per portare alla luce ciò chela gente voleva restasse nascosto,

sapeva di poter contare su Damon.

«Dài, Zander, rispondi», mormoròBonnie al telefono.

Gli squilli terminarono e una vocemeccanica la informò che, sevoleva, poteva lasciare unmessaggio.

Riattaccò. Aveva già lasciato unpaio di messaggi in segreteria, e nonvoleva che lui la credesse ancora

più pazza e svampita di quantosicuramente l’avrebbe creduta dopoaver visto la lista delle chiamate

perse.

Bonnie era piuttosto sicura di stareattraversando “le Cinque Fasidell’Essere Mollati”. Era quasi al

termine della fase del Diniego, incui si era convinta che gli fossesuccesso qualcosa, e stava passando

rapidamente a quella della Rabbia.Più tardi, lo sapeva, sarebbescivolata nella Contrattazione, nella

Depressione e alla fine (sperava)nell’Accettazione.

A quanto pareva, il corso dipsicologia si stava già dimostrandoutile.

Erano passati giorni da quandoZander era scappato di punto inbianco, lasciandola tutta soladavanti

all’edificio della facoltà di Musica.In un primo momento, quando avevascoperto che, quella stessa

notte, era scomparsa una ragazza, siera arrabbiata, pensando che anche alei sarebbe potuto succedere

qualcosa di brutto. Zander l’avevalasciata sola. E se fosse stata lei asparire? Poi aveva cominciato a

preoccuparsi per Zander, ad averpaura che fosse nei guai. Sembravaun ragazzo così dolce, così preso

da lei, e le pareva impossibile che,tutt’a un tratto, avesse cominciato aevitarla.

In ogni caso, se Zander fossescomparso, i suoi amici avrebberodato l’allarme. E, appena ci pensò,

Bonnie si accorse di non sapere

come contattare nessuno di loro; daquella sera non li aveva nemmeno

visti al campus.

Fissò il telefono, mentre nuovepreoccupazioni si facevano stradadentro di lei come i rami di un

rampicante. Sul serio, stava facendouna fatica improba a passare allostadio della Rabbia quando non

era ancora certa che Zander fosse alsicuro.

Il telefono squillò.

Zander. Era Zander.

Bonnie afferrò il telefono. «Dove seistato?», chiese, con voce scossa.

Ci fu una lunga pausa all’altro capodella linea. Era quasi pronta ariattaccare quando Zander,

finalmente, parlò. «Mi dispiace,davvero», disse. «Non volevomandarti in paranoia. Sono saltatifuori

certi casini in famiglia e ho dovutorendermi irreperibile per un po’.Sono tornato».

Bonnie sapeva che Elena e Mereditha quel punto avrebbero dettoqualcosa di incisivo e tagliente, per

fargli capire quanto pocoapprezzassero essere trascurate aquel modo, ma proprio non riuscivaa

formulare una risposta del genere.Lui sembrava scosso e stanco, e glisi era quasi rotta la voce quando

aveva detto che gli dispiaceva.Sentendolo così, le era venuta vogliadi perdonarlo.

«Mi hai lasciata sola là fuori», dissecon voce sommessa. «È scomparsauna ragazza quella sera».

Zander sospirò, un suono lungo etriste. «Mi dispiace», ripeté. «Hofatto una cosa orribile. Ma sapevo

che non ti sarebbe successo niente.Devi credermi. Non ti avrei mailasciata in pericolo».

«Come fai a saperlo?», chieseBonnie.

«Devi fidarti di me, Bonnie», disselui. «Non posso spiegartelo adesso,

ma quella sera non eri in

pericolo. Te ne parlerò appenapossibile, d’accordo?».

Lei chiuse gli occhi e si morse unlabbro. Elena e Meredith non sisarebbero mai accontentate di una

mezza spiegazione del genere. Anzi,lui non le aveva nemmeno dato unamezza spiegazione, le aveva solo

chiesto scusa, evitando dirispondere alla sua domanda. Ma leinon era come loro, e Zandersembrava

sincero e pareva avesse un disperatobisogno che lei gli credesse. Bonniecapì che doveva fare una

scelta: fidarsi di lui o lasciarloperdere.

«Va bene», disse. «Ti credo».

Lui emise un altro sospiro, disollievo stavolta. «Permettimi difarmi perdonare», disse. «Perfavore.

Che ne dici se ti porto fuori questofine settimana? Andiamo dove vuoitu».

Bonnie esitò, ma cominciò asorridere suo malgrado. «Sabato c’èuna festa al dormitorio diSamantha»,

rispose. «Ci vediamo lì alle nove?».

«Sta succedendo qualcosa di stranoin biblioteca», disse Damon, eStefan si voltò di scatto, sorpreso

dalla sua apparizione improvvisa.

«Non ti avevo visto», disse congentilezza e, scrutando nel buio delbalcone, intravide il fratello

appoggiato alla ringhiera.

«Mi sono appena posato», disseDamon, sorridendo. «Intendo allalettera. Stavo volando in giro per il

campus, per controllare che fossetutto a posto. È una sensazionemeravigliosa cavalcare il ventomentre

il sole tramonta. Dovresti provare».

Stefan annuì, guardandolo conespressione neutra. Sapevanoentrambi che una delle poche coseche

invidiava al fratello era la capacitàdi trasformarsi in un uccello. Non nevaleva la pena, comunque:

avrebbe dovuto bere sangue umanotutti i giorni per sviluppare un Potereforte come quello di Damon.

Nella mente gli apparve il viso diElena, ma scacciò viaquell’immagine. Lei era la suasalvezza, era lei

che manteneva vivo il suo legamecon il mondo degli umani,impedendogli di sprofondare nelletenebre.

Credere che la loro separazionefosse solo temporanea era l’unicacosa che gli permetteva di andare

avanti.

«Non ti manca Elena?», chiese aDamon, e lo vide farsi taciturnoall’improvviso e rispondergli conuno

sguardo duro e assente. Stefansospirò fra sé. Era ovvio che non glimancasse Elena, perché senzadubbio

la vedeva tutti i giorni. Sapeva che

suo fratello non rispettava mai leregole.

«Che c’è?», chiese Damon. La suavoce era quasi preoccupata, e Stefansi chiese che aspetto avesse per

suscitare una tale reazione nelfratello. Il quale, probabilmente,aveva appena visto Elena.

«Sono proprio uno sciocco, avolte», rispose brusco. «Che cosavuoi?».

Damon sorrise. «Mi piacerebbe chetu venissi a fare un po’ di lavoretti

da investigatore con me,

fratellino. Dico davvero, tutto pur dinon vedere quell’espressioneimbronciata e corrucciata sulla tua

faccia».

Stefan scrollò le spalle. «Perchéno?». Saltò dal balcone con un balzoaggraziato e Damon lo seguì alla

svelta.

Mentre lo guidava a destinazione,Damon lo aggiornò sui dettagli. Omeglio, gli diede modo di farsi una

vaga idea della situazione. Damonera sempre stato parco diinformazioni. Alla fine, l’unica cosache

Stefan aveva capito era che alcunericerche in biblioteca avevanosuscitato l’inquietante ammonimentodi

un’anziana bibliotecaria. Stefanridacchiò fra sé al pensiero dellafragile vecchietta che informava

Damon sulle sanzioni previste dalregolamento.

«Che cosa stavi cercando?», chiese,tentando di ottenere informazioni piùsostanziose. «Da cosa voleva

che stessi alla larga?». Si spostò sulruvido ramo di quercia sul qualeerano seduti, cercando di trovare

una posizione comoda. Damonaveva l’abitudine di sedersi suglialberi. Doveva essere un effetto

collaterale del passare troppo tempoin forma di uccello. Stavanopiantonando l’abitazione della

bibliotecaria, ma Stefan non aveva

ancora capito cosa stesserocercando di preciso.

«Solo un paio di vecchie fotografiedel college», disse Damon. «Non haimportanza. Voglio solo

accertarmi che sia umana». Sbirciòdalla finestra più vicina al loroalbero: nella stanza c’era un’anziana

signora che guardava la televisionesorseggiando del tè.

Stefan notò con irritazione cheDamon sembrava molto più a suoagio di lui sull’albero. Si era

allungato

in avanti, appoggiandosi connaturalezza su un ginocchio solo, eStefan riusciva a percepire le onde

indagatrici di Potere che stavainviando alla donna, nel tentativo discoprire se in lei ci fosse qualcosadi

insolito.

Il suo equilibrio sembravaterribilmente precario, ed eracompletamente concentrato sullavecchia

signora. Stefan gli si avvicinò pocoa poco, tese una mano eall’improvviso gli diede una spinta.

Fu molto soddisfacente. Damonperse il suo contegno, emise ungrido soffocato e cadde dall’albero.A

mezz’aria, si trasformò in un corvo etornò indietro in volo,appollaiandosi su un ramo sopra ilfratello e

squadrandolo torvo e minaccioso.Espresse la sua irritazione con versirauchi e rumorosi.

Stefan guardò di nuovo attraverso lafinestra. La donna non sembravaaver sentito il grido di Damon o il

gracchiare del corvo. Continuava acambiare canale come se nullafosse. Voltandosi, Stefan vide che il

fratello aveva ripreso la formaabituale.

«Credevo che giocare scherzi delgenere andasse contro il tuoprezioso codice morale», disseDamon,

lisciandosi i capelli con aria stizzita.

«Non proprio», ribatté Stefan, conun ampio sorriso. «Non sonoriuscito a trattenermi».

Damon scrollò le spalle, come amostrare di aver compreso la naturabonaria dello scherzo, e guardò di

nuovo la finestra della bibliotecaria.La donna si era alzata per versarsiun’altra tazza di tè.

«Avverti qualcosa di strano in lei?»,chiese Stefan.

Damon scosse la testa. «O è moltobrava a nasconderci la sua vera

natura, oppure è solo una bizzarra

bibliotecaria». Dandosi una spinta,saltò giù dal ramo e atterrò conleggerezza sul prato. In ogni caso, ne

ho avuto abbastanza, aggiunse insilenzio.

Stefan lo seguì, atterrandogli accantoai piedi dell’albero. «Non avevibisogno di me per questo,

Damon», disse. «Perché mi haichiesto di venire con te?».

Il sorriso di Damon brillò

nell’oscurità. «Pensavo solo di farequalcosa per tirarti su», rispose con

semplicità. Chiaramente, non erasolo il comportamento bizzarro dellabibliotecaria a dover impensierire

Stefan.

20

“Questo è molto peggio della corsaa ostacoli”, pensò Matt. “E dellacostruzione di una casa con i fogli

di giornale. E dei fuochi di artificio.Questa è decisamente la prova

peggiore finora”.

Rigirò lo spazzolino per raggiungereil fondo delle nicchie che sisusseguivano lungo il battiscopa del

muro a pannelli, nella sala per icandidati della Vitale Society. Ritiròlo spazzolino: era nero di polvere

vecchia e ragnatele. Matt fece unasmorfia di disgusto. Gli faceva giàmale la schiena per il troppo stare

curvo.

«Come sta andando, soldato?»,

chiese Chloe, accovacciandosiaccanto a lui con una spugnagocciolante

in mano.

«A dire la verità, non sono sicuroche pulire a fondo questa stanza ciaiuterà a sviluppare il senso

dell’onore, le abilità di comando etutte quelle cose di cui parla sempreEthan», disse Matt. «Penso che

questo sia solo un modo perrisparmiare un paio di dollarisull’impresa di pulizie».

«“La pulizia è la cosa più vicinaalla divinità”, dice il proverbio», gliricordò Chloe. Poi scoppiò a

ridere. A Matt piaceva davvero lasua risata. Era argentina espumeggiante.

“Ah, ma come parlo?”, si disse.“Argentina e spumeggiante”. Avevauna bella risata, ecco cosa voleva

dire.

Avevano trascorso moltissimotempo insieme, dopo la morte delsuo compagno di stanza. All’inizio,

aveva pensato che non ci fosse nulladi peggio che vivere in una stanzapiena degli oggetti di Christopher,

quando lui non c’era più, poi eranovenuti i suoi genitori e avevanoimpacchettato tutto, dandogli persino

una premurosa pacca sulle spalle,come se fosse lui quello dacompatire, quando loro avevanoperso

l’unico figlio. E ora, con gli spazivuoti dove prima c’erano le cose diChristopher, era mille volte

peggio.

Meredith, Bonnie ed Elena avevanotentato di consolarlo. Si erano

impegnate così tanto per tirarlo su di

morale che continuare a star male lofaceva sentire in colpa e stare conloro diventava un’ulteriore forma

di stress.

Chloe aveva cominciato ad andare atrovarlo in camera, l’aveva spinto auscire, anche solo per un

pranzo in mensa o per qualchecommissione, l’aveva tenuto incontatto con il mondo quando luiaveva

solo voglia di chiudersi in se stesso.Era facile stare con lei. La relazionecon Elena, l’unica ragazza che

avesse mai amato – fino a quelmomento, aggiunse sottovoce unaparte di sé – era stata molto più

complicata. Rabbrividì per lapropria slealtà nei confronti diElena, ma era la verità.

Aveva ricominciato ad alzarsipresto la mattina e a interessarsi dinuovo alle cose. E ogni volta si

sorprendeva, come se le notasse per

la prima volta, per le graziosefossette che Chloe aveva sulle

guance, o per la luminosità dei suoiriccioli scuri, o per quantoapparissero belle ed eleganti le suemani,

nonostante fossero spesso macchiatedi vernice.

Ancora, comunque, erano soloamici. Forse… Forse era il momentodi cambiare.

Chloe gli schioccò le dita davanti alviso e Matt si accorse di essere

rimasto a fissarla. «Tutto bene,

amico?», chiese; una piccola ruga leincrespava la fronte e Matt dovettetrattenersi dal darle subito un

bacio.

«Sì, stavo solo fantasticando»,rispose, sentendo le guance farsi piùcalde. Stava sorridendo come un

idiota, ne era consapevole. «Vuoiche ti aiuti con quelle pareti?»

«Certo, perché no?», rispose Chloe.«Io insapono il muro e tu continui a

fare qualunque cosa stessi

facendo là sotto con quellospazzolino».

Lavorarono insieme per un po’,godendo della reciproca compagnia;Chloe, di tanto in tanto, gli faceva

gocciolare delle gocce di sapone sulcapo, fingendo di non farlo apposta.

Man mano che procedevano nellepulizie del muro a pannelli, lenicchie sotto il battiscopadiventavano

più profonde, finché non si poté piùparlare di nicchie ma di veri epropri buchi. Matt infilò lospazzolino

dentro uno di quei buchi –accipicchia se era sudicio là dentro– e sentì di aver spostato qualcosa.

«C’è qualcosa qui sotto», disse aChloe, poggiando la mano sulpavimento per infilare le dita nelbuco.

Tastò con le mani e con lospazzolino, tentando di imprimere unmovimento oscillatorio al misterioso

oggetto per farlo scivolare verso disé, ma non riuscì ad afferrarlo.

«Guarda», disse Chloe dopo un po’,«penso che il pannello scorra inquesto punto». Scosse la lamina di

legno finché, producendo un raucostridio, riuscì a muoverla. «Uhm»,fece perplessa. «Wow, è una specie

di scomparto segreto. Ma sembrache non sia stato aperto perparecchio tempo, comunque».

Quando riuscirono a far scorrere ilpannello verso l’alto, trovarono un

piccolo spazio dietro il muro, di

appena mezzo metro in altezza elarghezza e pochi centimetri diprofondità. Era pieno di ragnatele.

All’interno c’era un oggettorettangolare, avvolto in un pezzo distoffa che, un tempo, doveva esserestato

bianco, ma ora era ingrigito dallapolvere.

«È un libro», disse Matt,raccogliendolo. Lo strato disudiciume sulla stoffa era spesso e

morbido, e

venne via quando ci passò sopra lamano. Aprì l’involto di stoffa escoprì che il libro all’interno era

pulito.

«Wow», fece Chloe a bassa voce.

Sembrava vecchio, davverovecchio. La copertina di pelle neraveniva via a pezzi e i bordi dellepagine

erano ruvidi, come se fossero statitagliati a mano anziché a macchina.

Inclinandolo un po’, Matt riuscì a

scorgere i resti delle lettere dorateche una volta componevano il titolo,ormai del tutto consumato.

Lo aprì a metà. Era scritto a mano,con caratteri marcati e decisitracciati a inchiostro nero. Ed era

indecifrabile.

«Penso che sia latino. Secondo te?»,chiese. «Conosci un po’ di latino?».

Chloe scosse la testa. Matt tornò allaprima pagina e riconobbe subito una

parola: Vitale.

«Forse è la storia della VitaleSociety», azzardò lei. «O sono gliantichi segreti dei suoi fondatori.Che

fico! Dovremmo darlo a Ethan».

«Sì, certo», rispose Matt, distratto.Girò qualche altra pagina:l’inchiostro diventava marronescuro.

“Sembra sangue secco”, pensò, erabbrividì, poi scacciò l’immagine.Era solo inchiostro molto vecchio

che con il tempo era sbiadito.

Riconobbe una parola, scritta tre,anzi quattro volte sulla stessapagina: MORT. Seguì la parola coldito,

aggrottando la fronte. Inquietante.

«Vado a mostrarlo a Ethan», disseChloe balzando in piedi eprendendogli il libro di mano.Attraversò

la sala e interruppe Ethan, che stavaparlando con un’altra ragazza. Matt,che li osservava dall’altra parte

della stanza, notò che un lentosorriso era apparso sul volto diEthan quando aveva preso il libro.

Chloe tornò dopo qualche minuto,con un gran sorriso stampato infaccia. «Ethan era davveroeccitato»,

disse. «Ha detto che ci riferirà tuttosul libro appena avrà trovatoqualcuno che lo traduca».

Matt annuì. «Fantastico», disse,allontanando le ultime incertezze.Chloe era fatta così, sempre

sorridente e piena di vita, e in suapresenza avrebbe cercato di nonpensare al sangue, alla morte e ad

altre cose morbose. «Ehi», disse,scacciando i pensieri cupi econcentrandosi sulle mèche dorateche

accendevano i capelli scuri diChloe. «Vai alla festa a VillaMcAllister stasera?».

“Forse è meglio che non li tiriindietro”, pensò Elena guardandosiallo specchio con occhio critico. Si

sfilò il fermaglio e lasciò ricaderesulle spalle i capelli dorati, inciocche morbide e ordinate. “Molto

meglio”.

Niente male, notò, osservando ilproprio riflesso con occhiodistaccato. Il vestitino nero conspalline

dava risalto alla sua pelle rosea e aicapelli chiari, facendo sembrareenormi i suoi occhi azzurri.

Senza Stefan, comunque, cheimportanza aveva il suo aspetto?

Nello specchio, vide la propriabocca stringersi quando scacciò ilpensiero. Per quanto le mancasse la

sensazione della mano di Stefannella sua, il sapore delle sue labbra,per quanto desiderasse stare con

lui, era impossibile, per il momento.Non poteva comportarsi comeKatherine. D’altro canto, era troppo

orgogliosa per mostrarsi depressa.“Non sarà per sempre”, si dissecupa.

Bonnie arrivò e le gettò un braccio

sulle spalle, rimirando le loro figureallo specchio. «Ci siamo messe

in tiro, eh?», chiese felice. «Seipronta?»

«Stai benissimo», disse Elena,guardando Bonnie con affetto. Tuttala sua persona brillava di

eccitazione: gli occhi luccicanti, ilsorriso radioso, le guanceimporporate, la chioma di capellirossi che

svolazzava come animata di vitapropria. E il suo vestitino blu e le

scarpe con tacchi e cinturino erano

adorabili. Il sorriso di Bonnie sifece più ampio.

«Su, diamoci una mossa», dissesbrigativa Meredith. Aveva infilatoun paio di pratici jeans, che davano

risalto alla sua figura snella, e unamaglietta grigia attillata, che siintonava con gli occhi. Era difficile

capire cosa le passasse per la testa,ma Elena per caso l’aveva sentitaparlare al telefono con Alaric, la

notte prima. Immaginava cheneanche Meredith, in fondo, fossenello stato d’animo giusto per unafesta.

Per strada, gli studenti camminavanoin gruppi numerosi, a passo svelto ein silenzio, e lanciavano

attorno sguardi inquieti.

Meredith si fermò di colpo e siirrigidì, come se avesse percepito unpotenziale pericolo. Elena seguì il

suo sguardo. Si sbagliava: non erauna minaccia l’unica figura solitaria

di quella notte. Damon sedeva su

una panchina fuori dal lorodormitorio, con il viso rivolto versoil cielo buio del crepuscolo, comese si

stesse crogiolando al sole.

«Che vuoi, Damon?», chiesediffidente Meredith. In realtà, il suotono non era sgarbato – avevano

superato la loro inimicizia, dopoaver lavorato insieme durantel’estate – ma non era nemmeno

amichevole, ed Elena avvertìl’irritazione dell’amica.

«Elena, naturalmente», risposesornione Damon, alzandosi eprendendola sottobraccio, connaturalezza.

Bonnie guardò dall’uno all’altra,perplessa. «Ma non avevi detto cheper un po’ non saresti uscita né

con Damon né con Stefan?», lechiese.

Damon le parlò sottovoceall’orecchio. «Riguarda la Vitale

Society. Ho trovato un indizio».

Elena esitò. Alle sue amiche nonaveva detto che lei e Damonavevano trovato indizi chesuggerivano

che la Vitale Society fosse molto piùdi un mito e che i suoi genitoripotessero essere in qualche modo

connessi con la società segreta. Inrealtà, non c’era ancora molto su cuilavorare e non si era sentita

pronta a raccontare della possibilitàche i suoi genitori fossero stati

coinvolti in qualche losco segreto,né

delle sensazioni che provava quandoli vedeva così giovani nelle foto.

Prendendo una decisione, si giròverso Meredith e Bonnie. «Devoandare un attimo con Damon. È

importante. Vi spiegherò tutto dopo.Ci vediamo alla festa tra un po’».

Meredith aggrottò la fronte, ma annuìe si avviò con Bonnie verso VillaMcAllister. Mentre si

allontanavano, Elena sentì Bonnieche diceva: «Ma il senso di tutta lacosa non era che…».

Continuando a tenerla sottobracciocon fermezza, Damon la condussenella direzione opposta. «Dove

stiamo andando?», chiese lei,accorgendosi di essere troppoconcentrata sulla morbidezza dellasua pelle

e sulla forza della stretta.

«Ho visto una ragazza che indossavala stessa spilla della foto», rispose

Damon. «L’ho seguita in

biblioteca, ma, una volta dentro, èscomparsa. L’ho cercata dappertutto.Poi, un’ora dopo, è uscita di

nuovo dalla porta della biblioteca.Ricordi quando ho detto chedovevamo cercare le risposte fuoridalla

biblioteca?». Sorrise. «Misbagliavo. Sta succedendo qualcosain quel posto».

«Non è che l’hai solo persa divista?», si chiese ad alta voce Elena.

«La biblioteca è grande. Potrebbe

essersi nascosta in una cabina dilettura o in qualche posto delgenere».

«L’avrei trovata», rispose sbrigativoDamon. «Sono bravo a trovare lepersone». Per un attimo, i suoi

denti luccicarono sotto i lampioni.

Il problema era che in bibliotecasembrava tutto normale. Elenaosservò la moquette grigia checopriva

il pavimento, le sedie beige, leinnumerevoli file di scaffali, ilronzio delle luci fluorescenti. Era unluogo

di studio. Non sembrava celaresegreti.

«Andiamo di sopra?», suggerì.

Preferirono le scale all’ascensore e,arrivati all’ultimo piano, tornaronoindietro. Percorrendo un piano

dopo l’altro, non trovarono nulla. Lagente leggeva e prendeva appunti.Libri, libri e ancora libri. Nel

seminterrato c’era una stanza con idistributori automatici e i tavoliniper le pause dallo studio. Niente di

strano.

Elena si fermò un attimo nelcorridoio degli uffici amministrativi,vicino ai distributori. «Nontroveremo

nulla qui», disse a Damon. Lui feceuna smorfia di frustrazione e leiaggiunse: «Ti credo quando dici che

sta succedendo qualcosa in questoposto, sul serio, ma senza tracce da

seguire, non sappiamo nemmeno

che cosa cercare».

La porta alle sue spalle, conun’insegna che diceva SALARICERCHE, si aprì e ne uscì Matt.

Aveva un’aria stanca ed Elena sentìun improvviso senso di colpa. Dopola morte di Christopher, lei,

Bonnie e Meredith avevano tentatodi stargli vicino. Ma lui era sempreimpegnato con gli allenamenti di

football o le lezioni e sembrava non

gradire la loro compagnia. Siaccorse con grande stupore che nonsi

parlavano da giorni.

«Oh, ciao, Elena», disse Matt, comese fosse sorpreso di vederla lì. «Vaialla festa stasera?». Salutò

Damon con un goffo cenno del capo.

«Mutt», rispose Damon,rivolgendogli un mezzo sorriso, eMatt alzò gli occhi al cielo.

Mentre chiacchieravano della festa,

delle lezioni e del nuovo ragazzo diBonnie, Elena etichettò le sue

impressioni su Matt. Stanco, sì, gliocchi erano un po’ arrossati, equella linea dura della bocca nonc’era

qualche settimana prima. Ma perchéaveva quel forte odore di sapone?Non era neanche tanto pulito,

pensò, esaminando la riga disudiciume che gli correva dallaguancia al collo. Sembrava quasiche

qualcuno gliel’avesse versato sullatesta. O che avesse passato lagiornata a far pulizie. In un postomolto

sporco.

Colpita da un’intuizione, gli guardòil petto. Di sicuro Matt non potevaindossare una di quelle spille a

V. Come se sapesse ciò che stavapensando, Matt si chiuse meglio lagiacca.

«Che cosa stavi facendo in quellastanza?», gli chiese a bruciapelo.

«Ehm». Per un attimo lui impallidì,poi guardò la porta, scorgendol’insegna che diceva SALA

RICERCHE. «Ricerche,ovviamente», rispose. «Devoandare», aggiunse. «Ci vediamo piùtardi alla

festa, ok?».

Si era girato e stava per andarsene,quando Elena gli mise d’impulso unamano sul braccio. «Che fine

hai fatto, Matt?», chiese. «Sonogiorni che non ti si vede».

Lui sorrise, ma evitò di guardarlanegli occhi. «Allenamenti», disse.«Al college prendono il football

molto sul serio». Si liberò della suamano con gentilezza. «A più tardi,Elena. Damon».

Lo guardarono allontanarsi, poiDamon indicò con un cenno del capola porta da cui era uscito Matt.

«Che ne pensi?», disse.

«Riguardo a cosa?», chiese Elena,perplessa.

«Oh, come se quella non fosse unacosa sospetta», rispose lui. Posò lamano sulla maniglia e la forzò.

Elena sentì lo scatto della serratura.

Era una stanza piuttosto insulsa. Unascrivania, una sedia, un tappeto sulpavimento.

Forse un po’ troppo insulsa?

«Una sala ricerche senza libri?Senza nemmeno un computer?»,chiese Elena. Damon piegò la testadi

lato con aria riflessiva, poi, con unmovimento repentino, spinse daparte il tappeto.

Sul pavimento si scorgevachiaramente il profilo di una botola.«Bingo», esclamò Elena. Fece unpasso

avanti, già pronta a chinarsi percercare di aprirla, ma Damon laspinse indietro.

«Chiunque stia usando questopassaggio potrebbe essere ancora làsotto», disse. «Matt se n’è appena

andato e dubito che fosse da solo».

Matt. Qualunque cosa stessesuccedendo, Matt ne era al corrente.«Forse dovrei parlargli», disseElena.

Damon aggrottò la fronte.«Cerchiamo prima di capire con checosa abbiamo a che fare», disse.«Non

sappiamo in che modo Matt siacoinvolto. Potrebbe esserepericoloso». L’aveva presa di nuovo

sottobraccio e la stava spingendo

verso la porta, con mano leggera maferma. «Torneremo più tardi».

Elena si lasciò condurre via, alleprese con i dubbi che lui avevasollevato. “Pericoloso?”, pensò. Di

sicuro Matt non avrebbe fatto nienteche potesse metterla in pericolo. Ono?

21

«Perché ci mettono tanto?», chieseBonnie, saltellando sulle punte deipiedi.

«Smettila di muoverti incontinuazione», rispose Meredithsovrappensiero, allungando il colloper

osservare la folla che sostavadavanti alla residenza McAllister.All’ingresso del dormitorio si era

formato un collo di bottiglia cherallentava la fila. Meredithrabbrividì nel suo golfino leggero;

cominciava a far freddo la sera.

«Ci sono gli agenti di sicurezza allaporta», disse Bonnie quando si

avvicinarono all’ingresso.

«Chiedono la carta d’identità perentrare?». Aveva la voce stridulaper l’indignazione.

«Controllano solo se hai il tesserinostudentesco», rispose qualcuno tra lafolla, «per accertarsi che tu

non sia un pazzo omicida venuto dafuori».

«Già», disse il suo amico. «Sonoammessi solo gli assassiniregolarmente iscritti al campus».

Due ragazzi sbottarono in una risatanervosa. Bonnie si azzittì,mordendosi le labbra, e Meredith

rabbrividì di nuovo, stavolta perragioni che non avevano nulla a chefare con il freddo.

Quando finalmente arrivaronodavanti alla porta, gli agenti disicurezza diedero un rapido sguardoai

tesserini e fecero loro segno dientrare. La sala era affollata e lamusica pompava a tutto volume, ma

sembrava che nessuno fossedell’umore giusto per divertirsi. Sene stavano tutti in piccoli gruppi,

parlavano sottovoce e si guardavanointorno nervosi. La presenza degliagenti di sicurezza aveva

ricordato loro l’invisibile minacciache incombeva sul campus.Chiunque poteva essere l’assassino,

magari era proprio lì fra loro, inquella stessa stanza.

Appena formulò questo pensiero,Meredith cominciò a osservare la

stanza con occhi diversi e non vide

più innocui studenti, ma figuresinistre. Quel fighetto con la testaricciuta, lì all’angolo, non stavaforse

guardando la sua avvenentecompagna con qualcosa di più delsemplice desiderio? Tutti quei volti

sconosciuti si confusero in unvortice maligno, così Meredith fecequalche respiro profondo percalmarsi,

finché ogni cosa tornò a riapparirle

normale.

Samantha venne verso di lei con unbicchiere di plastica rosso in mano.«Tieni», disse, porgendole una

soda. «Stanno tutti sulle cordestasera. È inquietante. È meglio chestiamo in guardia ed evitiamo gli

alcolici», aggiunse, già sulla suastessa lunghezza d’onda.

Bonnie si congedò e si tuffò tra lafolla in cerca di Zander. Meredithsorseggiò la sua soda e continuò a

osservare con diffidenza glisconosciuti che la circondavano.

Nonostante il malessere generaleche aleggiava sulla festa, alcuni,traendo beneficio dalla forzata

vicinanza dei corpi, sembravanodivertirsi lo stesso. Meredithosservò una coppia che si baciava:erano

presi soltanto l’uno dall’altra, comese nessun altro al mondo fosse degnodi attenzione. Quei due non si

preoccupavano delle aggressioni e

delle scomparse al campus, eMeredith provò un’acuta fittad’invidia.

Alaric le mancava, provava per luiuna nostalgia struggente, che lestrisciava nelle ossa e non

l’abbandonava mai, nemmenoquando non pensava a lui.

«L’assassino potrebbe essereproprio qui alla festa», disseSamantha con aria infelice. «Nondovremmo

avere il potere di avvertire il

pericolo? Come possiamoproteggere la gente se non sappiamochi è il

nemico?»

«Lo so», rispose Meredith. La follasi divise e lei scorse un volto chenon si aspettava di vedere:

appoggiato al muro dall’altra partedella sala c’era Stefan. Quando lavide gli si illuminarono gli occhi e

guardò dietro di lei, mentre unmezzo sorriso speranzoso già gli siformava sulle sue labbra.

“Povero ragazzo”. A prescindere daciò che pensava della decisione diElena di prendersi una pausa –

e, per la cronaca, pensava che stessefacendo la cosa giusta; mantenereuna relazione con entrambi i

fratelli Salvatore significava andarein cerca di guai – Meredith nonpoteva evitare di sentirsi dispiaciuta

per lui. Sembrava che Stefan stesseprovando la stessa acuta fitta disolitudine che affliggeva lei quando

pensava ad Alaric. Per lui doveva

essere anche peggio, perché Elenaera troppo vicina e per di più la

decisione di separarsi gli era stataimposta.

«Scusami un attimo», disse aSamantha, e andò da lui.

Stefan la salutò con cortesia e lechiese delle sue lezioni edell’addestramento di cacciatrice,ma era

chiaro che bruciava dalla voglia diparlare di Elena. Era sempre cosìeducato.

«Non è ancora arrivata, ma stavenendo qui», disse lei,interrompendo i convenevoli.«Prima aveva una

cosa da fare». Sul volto di Stefansbocciò un sorriso di grato sollievo,subito seguito da un’espressione

accigliata.

«Elena viene da sola?», chiese.«Dopo tutte le aggressioni?»

«No», lo rassicurò Meredith. Non ciaveva pensato, e non ritenne didovergli riferire che Elena era con

Damon. «È con altre persone»,disse, e per fortuna lui parvesoddisfatto della risposta.

Meredith sorseggiò cupamente il suodrink, augurandosi che Elena avesseil buon senso di non portare

Damon alla festa.

Matt individuò Chloe fra la folla,dall’altra parte della stanza. Deciseche quella era la serata giusta.

Non era più il momento di girarciattorno, di scambiarsi sguardi egentilezze, abbracci platonici e

strette

di mano. Voleva sapere se anche leiprovava le stesse cose che sentivalui, se anche lei pensava che fra

loro ci fosse qualcosa che valesse lapena esplorare.

Chloe stava parlando con un ragazzoche gli sembrava uno dei Vitale, e isuoi capelli castani brillavano

leggermente sotto la luce deilampadari. Era così piena di vita: lasua risata, il modo in cui ascoltavaciò

che diceva il ragazzo, attenta epartecipe, con un’espressioneconcentrata.

Voleva baciarla, più di ogni altracosa.

Così cominciò a farsi largo perraggiungerla, salutando con un cennodel capo quando incontrava

qualcuno che conosceva. Nonvoleva apparire antipatico oimpaziente, né dare a vedere chestava

puntando dritto a lei, ma non voleva

neppure fermarsi e perderla tra tuttaquella gente.

Matt.

Matt si voltò di scatto, come sequalcuno l’avesse trafitto con unospillo. Guardandosi attorno percapire

da dove fosse venuto il silenziosorichiamo, vide Stefan, in piedi dietrodi lui, e lo fissò con irritazione.

Odiava quando gli entrava nellatesta in quel modo.

«Avresti potuto semplicemente dire“ciao”», lo riprese, con il tono piùgentile di cui era capace. «Sai,

ad alta voce».

Stefan chinò il capo arrossendo,come per scusarsi. «È stato scorteseda parte mia, ma volevo solo

richiamare la tua attenzione. C’ètanto chiasso qui». Indicò intorno asé, e Matt si chiese, non per la prima

volta, come dovesse apparire alvampiro la vita di un adolescentemoderno. Stefan aveva avuto più

esperienze di quante lui ne avrebbefatte nel corso della sua intera vita,ma la rumorosa musica rock e la

calca dei corpi sembravano metterloa disagio, mostrando le crepe delsuo travestimento da giovane

essere umano. Matt sapeva cheStefan sopportava quella mascherasolo per amore di Elena.

«Sto aspettando Elena», disseStefan. «L’hai vista?». Il suo voltoera solcato da rughe di

preoccupazione e, di colpo,

l’immagine di persona troppovecchia, troppo fuori luogo, cheMatt aveva di

lui, andò in frantumi. Ora sembravaun ragazzo con il cuore spezzato,solo e in ansia per la sua amata.

«Sì», rispose. «L’ho appena vista inbiblioteca. Ha detto che sarebbevenuta più tardi». Si morse la

lingua per evitare di aggiungere chel’aveva vista proprio con Damon.Matt non aveva le idee molto

chiare su ciò che stava succedendo

fra Elena e i fratelli Salvatore, maimmaginava fosse meglio non

informare Stefan che la ragazza erain compagnia di Damon.

«Dovrei starle lontano», confidòStefan con aria abbattuta. «Elenasente che in qualche modo si sta

mettendo fra Damon e me, e vuoleche ci prendiamo tutti un po’ ditempo per sistemare le cose fra noi,

prima di tornare insieme». Levò sudi lui uno sguardo quasi implorante.«Ma pensavo che, siccome c’è

tanta gente qui, non fosse come stareinsieme nella stessa stanza».

Matt trangugiò una lunga sorsata dibirra, cercando di pensare in fretta.Ora sapeva di aver fatto bene a

non menzionare il fatto di aver vistoElena e Damon insieme. A che giocostava giocando Elena?

Tra l’altro, lo sconvolse ancheconstatare quanto ormai fosse fuoridal giro. Quando era saltata fuori

quella storia? Dopo la morte diChristopher, aveva evitato i suoi

amici ed era stato così preso dalla

Vitale Society che non si era accortodi quella grossa svolta nelle lorovite. Cos’altro si era perso?

Stefan lo guardava ancora come sesi aspettasse un cennod’approvazione, e Matt si massaggiòla nuca

con aria pensierosa, poi propose:«Dovresti parlarle. Farle capirequanto sei infelice senza di lei. Valela

pena di rischiare per amore».

Mentre Stefan annuiva, come sestesse riflettendo sulle sue parole,Matt scorse di nuovo Chloe fra la

folla. Il ragazzo con cui parlavaprima se n’era andato e, al momento,lei era sola e si stava guardando

attorno mordendosi le labbra. Mattstava per scusarsi e dirigersi versodi lei, quando un’altra voce gli

parlò nell’orecchio.

«Ehi, Matt, come va?». Ethan erasbucato accanto a lui e lo fissavacon i suoi occhi castano-dorati. Matt

si accorse di essersi subitoraddrizzato e di aver tirato indietrole spalle, cercando di apparire

rispettabile e ligio ai princìpi dellaVitale Society, un candidatopromettente, del tutto conforme a ciòche

si aspettavano da lui. Matt avevanotato che faceva lo stesso effettosugli altri candidati: i desideri di

Ethan erano i loro. Immaginava checerte persone fossero nate conl’attitudine da leader.

Scambiarono quattro chiacchiere,non sulla Vitale Society,ovviamente, perché non potevanoparlarne in

presenza di Stefan, ma su cosesemplici, da amici, come il football,le lezioni e la musica che stavano

suonando, e poi Ethan rivolse aStefan il suo caloroso sorriso. «Oh,ehm, Ethan Crane, StefanSalvatore»,

li presentò Matt, aggiungendo:«Stefan e io eravamo insieme allesuperiori».

Stefan ed Ethan iniziarono a fareconversazione e Matt cercò di nuovoChloe. Non era nell’ultimo posto

in cui l’aveva vista, e Matt cominciòa preoccuparsi, finché non laindividuò di nuovo tra la folla, chesi

muoveva a tempo di musica.

«Non ho potuto fare a meno dinotare la tua cadenza, Stefan», stavadicendo Ethan. «Sei originario

dell’Italia, per caso?».

Stefan sorrise timidamente. «Lamaggior parte delle persone non lasente più», disse. «Io e mio fratello

abbiamo lasciato l’Italia tantissimotempo fa».

«Oh, viene anche tuo fratello?»,chiese Ethan, e Matt decise che i duestavano abbastanza bene insieme e

che era il momento di congedarsi.

«Ci becchiamo dopo, ragazzi»,disse. Bevendo un’altra sorsata dibirra, Matt fendette la folla,puntando

dritto verso Chloe. Le brillavano gliocchi e aveva le fossette sulleguance, e Matt sapeva che quello era

il momento giusto. Come aveva dettoa Stefan, valeva la pena di rischiareper amore.

22

Bonnie capì immediatamente cheZander e i suoi amici erano arrivatialla festa, perché il chiasso era

aumentato in maniera considerevole.A dire il vero, Zander era piùtranquillo dei suoi amici, almeno in

presenza di Bonnie, ma il gruppo eraproprio scalmanato.

In realtà, Bonnie trovava la cosapiuttosto irritante.

Ma quando Zander le comparveaccanto – dopo aver spinto Marcuscontro il muro, strada facendo – e le

rivolse il suo lento sorriso, Bonniesentì arricciarsi le punte dei piedinelle scarpe col tacco e dimenticò

completamente di essere seccata.

«Ciao!», disse. «Va tutto bene?».

Lui la guardò con un sopracciglioalzato, perplesso. «Cioè, hai detto

di aver avuto dei problemi infamiglia e che per questo sei stato…occupato».

«Ah, già». Zander chinò la testa perparlarle e il suo fiato caldo lealeggiò sul collo quando sospirò.

«Ho una famiglia piuttostocomplicata», disse. «A volte vorreiche le cose fossero più facili».Aveva

un’aria triste e Bonnie, d’impulso,

gli prese la mano, intrecciando ledita alle sue.

«Be’, raccontami che è successo»,disse, cercando di assumere un tonoserio e comprensivo. Un tono da

fidanzata affidabile. «Magari possoaiutarti. Sai, come si dice, sentireun’altra campana…».

Zander aggrottò la fronte e si morsele labbra. «Immagino che sia… Hodelle responsabilità. Nella mia

famiglia siamo tutti legati a certepromesse che abbiamo fatto in

passato e siamo costretti a occuparcidi

determinate cose. E qualche volta lecose che vorrei fare e quelle chedevo fare non coincidono».

«Pensi di poter essere più vago dicosì?», scherzò Bonnie, e lui feceuna mezza risata. «Sul serio, che

cosa vuoi dire? Che cosa seicostretto a fare? Che cos’è che nonvorresti fare?».

Zander, per un istante, abbassò losguardo su di lei, poi il suo sorriso

si allargò. «Vieni», disse,

tirandola per una mano. Bonnie loseguì nella sala affollata e poi su perle scale. Lui sembrava sapere

dove andare; svoltò in un paio dicorridoi, poi spinse una porta.

Era una camera doppia: un paio diletti sfatti, un vecchio tavolo.Appoggiato al muro, c’era undipinto:

una grande tela coperta di chiazze divernice.

«È la tua stanza?», chiese Bonnie.

«No», rispose lui, fissandole labocca. L’attirò a sé e le mise le manisui fianchi. Poi la baciò.

Fu il bacio più straordinario cheBonnie avesse mai ricevuto. Lelabbra di Zander erano morbide ma

salde, e Bonnie sentiva piccolifuochi d’artificio per tutto il corpo.Alzò le mani e gliele posò sul viso,

sentendo i suoi zigomi forti e laruvidezza della barba corta sotto ipalmi.

Ebbe la stessa sensazione che avevaprovato al loro primo appuntamento,quando, in piedi sul ciglio del

terrazzo, le era sembrato di volare.Libera come il vento e piena di unagioia selvaggia che le scorreva

dappertutto. Gli fece scivolare unamano sulla nuca, sentendo sotto ledita la carezza dei suoi finissimi

capelli biondo platino.

Quando smisero di baciarsi,restarono in silenzio per qualchesecondo, poi si appoggiarono l’uno

all’altra, ansimando. I loro voltierano così vicini, e i luminosi occhiazzurri di Zander erano fissi in

quelli di Bonnie, caldi e assorti.

«A ogni modo, per rispondere allatua domanda, questo è ciò che vogliofare. Vuoi…», la sua voce si

spezzò. «Vuoi tornare alla festaadesso?»

«No», rispose Bonnie, «nonancora». E stavolta fu lei a baciarlo.

«Oh, grazie al cielo», disse Chloe,

quando arrivò Matt. «Cominciavo apensare che avrei fatto da

tappezzeria per il resto dellaserata».

Arricciò il naso e lo guardò con ariacivettuola. Aveva un nasoleggermente all’insù, cosparso di

lentiggini, e una graziosa bocca adarco di cupido. A Matt venne vogliadi tirarle piano uno dei morbidi

ricci castani, solo per vedere comesi raddrizzava e poi tornava su amolla, alla sua forma iniziale.

«In che senso fare da tappezzeria?»,chiese, ricomponendosi, anche seera dolorosamente consapevole

di sembrare stupido.

«Oh, è solo…». Lei fece un vagocenno con la mano, indicando lafolla. «Non conosco quasi nessuno

qui, a parte te ed Ethan. Questa festaè piena di matricole».

Matt sentì un tuffo al cuore. Avevadimenticato che Chloe era del terzoanno. In fondo, non avrebbe

dovuto essere un grosso problema.Ma dal tono che aveva usatosembrava che lei non considerassele

matricole alla sua altezza, oqualcosa del genere. Sprezzante,ecco la parola che cercava perdefinire la

sua voce.

«La festa non mi sembrava tantomale», disse in tono poco convinto.

Chloe contrasse le labbra in unasmorfia canzonatoria, poi gli diede

un piccolo pugno su un braccio.

«Be’», disse con dolcezza, «nellamia vita c’è spazio per una solamatricola. Giusto, Matt?».

Era un segnale piuttostoinequivocabile. Ma Matt si accorseche il problema era un altro: le sue

esperienze in materia diappuntamenti si limitavano a ragazzeche non gli interessavano veramente,alle

quali aveva chiesto di uscire soloper avere qualcuna con cui andare a

ballare, oppure a Elena. Lei,

all’epoca, gli interessavamoltissimo, ma la conoscevaabbastanza bene da sapere cheavrebbe risposto

di sì.

Tuttavia, credeva di intravedereun’apertura da parte di Chloe.

«Chloe», esordì. «Mi chiedevo sevolessi…».

S’interruppe quando Ethan si unì aloro, con un ampio sorriso. Per la

prima volta, Matt lo trovò irritante.

Ethan era un osservatore acuto.Possibile che non si fosse reso contoche stava interrompendo un

momento importante?

«Mi piace il tuo amico Stefan»,disse. «Mi sembra molto sofisticatoper essere una matricola, molto

eloquente. Pensi che sia perché èeuropeo?».

Matt si limitò a rispondere conun’alzata di spalle ed Ethan si

rivolse a Chloe.

«Ehi, tesoro», disse, mettendole unbraccio intorno alle spalle e dandoleun bacio sulle labbra.

E già, magari Ethan si era davveroaccorto che stava interrompendo unmomento importante. Non era

stato un bacio molto lungo, ma avevaavuto un che di possessivo, per nonparlare del braccio sulle spalle

di Chloe. Lei era rimasta senza fiatoalla fine, aveva guardato Ethan,sorridente, e lui aveva scoccato a

Matt un’occhiata eloquente, anche seera durata solo un secondo.

Matt sarebbe voluto crollare esprofondare nel pavimentoappiccicoso e incrostato di birra.Invece scucì

uno dei suoi sorrisi da amico e fecetintinnare il bicchiere contro quellodi Ethan.

Perché Chloe, l’adorabile, dolce,buffa, rilassata Chloe, aveva unragazzo. Avrebbe dovuto aspettarsidi

non essere l’unico ad aver notatoquanto fosse straordinaria. E Matt sisarebbe fatto da parte, a

prescindere da chi fosse il ragazzodi Chloe. Non era il tipo che gettafango sulle storie degli altri e

rovina le coppie, non lo era maistato.

Ma che il ragazzo di Chloe fosseEthan cambiava qualcosa? Ethan, ilcapo della Vitale Society, l’amico

che lo aveva fatto sentire unapersona speciale, che gli aveva fatto

credere di poter essere il migliore.

Poiché si trattava proprio di Ethan,non gli restava che stringere i denti eignorare quella sensazione di

vuoto nel petto. Avrebbe tenuto duroed evitato persino di pensare a ciòche aveva desiderato succedesse

fra loro.

C’erano linee che non si potevanooltrepassare. Mai.

23

«Non capisco come mai si è fattocosì tardi», disse Elena per la terzavolta, mentre percorreva a passo

svelto la stradina che costeggiava ilcortile interno. «ProbabilmenteBonnie e Meredith saranno

preoccupate, penseranno che mi siasuccesso qualcosa».

«Sanno che sei con me», disseDamon, che le camminava accantocon calma.

«Non penso che lo troverannorassicurante», rispose Elena,

mordendosi la lingua quando lui lelanciò

un’occhiata eloquente.

«Dopo tutte le volte che abbiamolottato fianco a fianco, ancora non sifidano di me?», domandò Damon

con voce vellutata. «Dovrei esseretremendamente offeso. Se miimportasse qualcosa di ciò chepensano

le tue amiche».

«Non voglio dire che pensano tu

possa farmi del male», disse Elena.«Non più. O che non mi

proteggeresti. Hanno paura che tupossa… provarci con me, presumo.O qualcosa del genere».

Damon si fermò e la guardò. Poi lesollevò una mano e le fece scorrereun dito sotto il braccio,

seguendo la vena che andava dalpolso al gomito. «E tu cosa pensi ariguardo?», chiese, con un sorriso

gentile.

Elena tirò via la mano, guardandolomale. «Non hanno tutti i torti, mipare evidente», disse. «Smettila.

Siamo solo amici, ricordi?».

Con un profondo sospiro, Damonriprese a camminare, e lei affrettò ilpasso per raggiungerlo.

«Sono contenta che tu abbia decisodi accompagnarmi alla festa», dissealla fine. «Sarà divertente». Lui

la guardò con i suoi occhi di vellutonero, ma non disse nulla.

Si divertiva sempre con Damon,pensò Elena, ascoltando il suono deipropri tacchi sul selciato e

osservando la propria ombracrescere e poi svanire, mentrepassavano sotto i lampioni. Oalmeno si

divertiva sempre quando Damon eradi buon umore e nessuno cercava diucciderli, due circostanze che

sperava coincidessero più spesso.

Stefan, il tenero, caro Stefan, eral’amore della sua vita. Su questo non

aveva dubbi. Ma Damon rendeva

tutto eccitante e con lui si sentivaviva, risucchiata in qualcosa piùgrande di lei. Lui la faceva sentire

speciale.

E, quella sera, era più tranquillo delsolito. Quando Matt era andato via,avevano perlustrato ancora un

po’ la biblioteca, poi Damon leaveva offerto un pacchetto dipatatine e una lattina di soda dal

distributore automatico del

seminterrato. Si erano seduti a unodei tavolini e avevano chiacchieratoe

riso. Non c’era nulla di speciale oelegante in loro due seduti così aparlare, niente di paragonabile alle

feste in cui Damon le aveva fatto dacavaliere nella Dimensione Oscura,ma si era divertita, si era sentita

a suo agio e, quando aveva guardatol’ora sul cellulare, si era stupitavedendo che era passata più di

un’ora.

E Damon si era persino offerto diaccompagnarla a una festastudentesca. Magari stava cercandodi

stringere un buon rapporto conMeredith e Bonnie. Magarisarebbero potuti diventare davveroamici, non

appena le cose fra lui e Stefan sifossero sistemate.

Elena era arrivata a quel punto nellesue riflessioni, quando,all’improvviso, ebbel’inconfondibile,

sinistra sensazione che qualcuno listesse osservando. Le venne la pelled’oca.

«Damon», disse a bassa voce.«Qualcuno ci osserva».

Lui annusò l’aria, le sue pupille sidilatarono. Elena immaginò chestesse mandando in giro sonde di

Potere per captare la reazione di unaltro flusso energetico e individuarechi li stava tenendo d’occhio.

«Niente», disse Damon, dopo unpo’. Le infilò una mano sotto il

braccio, tirandola a sé. «Potrebbe

essere soltanto la tuaimmaginazione, principessa, mastaremo più attenti».

Elena sentiva sul fianco la pellemorbida della giacca di Damon e siteneva stretta a lui, quando

sbucarono sulla strada principaleche tagliava in due il campus.

Di fronte a loro, una macchina fermaaccanto al marciapiede diede gas almotore. I fari si accesero

all’improvviso, accecando Elena.Damon le serrò il braccio attornoalla vita, togliendole il fiato.

I freni stridettero sull’asfalto mentrel’auto puntava sparata su di loro.Elena fu presa dal panico –

riusciva solo a pensare “Oh mioDio, oh mio Dio!” – e siimmobilizzò. Poi si trovò aveleggiare

nell’aria, con Damon che lastringeva così forte da farle male.

Quando atterrarono dall’altra parte

della strada, Damon si rilassò unattimo e allentò la presa, mentre

Elena si voltava a sbirciare lamacchina, che era passataesattamente nel punto in cui sitrovavano un

attimo prima e, sgommando, stavafacendo un’inversione a U pertornare indietro. Non riuscì a

distinguere nulla, né il tipo dimacchina né un dettaglio delguidatore; dietro gli anabbagliantic’era solo

un’enorme figura scura.

Un’enorme figura scura che sterzòper salire sul prato e cercò di nuovodi investirli. Damon imprecò e

cominciò a correre, tirandosi dietroElena, che lo seguì con i piedi che astento toccavano terra,

chiedendosi perché non si fosse dinuovo alzato in volo. Il cuore lebatteva all’impazzata. Sapeva che

Damon, per tenerla vicino, nonpoteva correre al massimo dellavelocità. Girarono l’angolo di un

edificio e si appoggiarono al muro,al riparo dei cespugli.

La macchina arrivò sparata a pochipassi da loro, poi fece retromarcia,lasciando lunghi segni di frenata,

e tornò rombando sulla strada.

«L’abbiamo seminato», disse Elena,ansimando.

«Hai dato fastidio a qualcunoultimamente, principessa?», chieseDamon, con uno sguardo penetrante.

«Dovrei chiederlo io a te», ribatté

lei. Poi si strinse nelle braccia.All’improvviso sentiva freddo.

«Pensi che sia successo a causadella Vitale Society?», chiese, convoce tremante. «Per qualcosa che

riguarda loro e i miei genitori?»

«Non sappiamo chi o cosa sitrovasse dall’altra parte dellabotola», rispose lui in tono cupo.«Magari

Matt…».

«No, lui non c’entra», disse con

fermezza Elena. «Matt non mifarebbe mai del male».

Damon annuì. «È vero. Ha unridicolo senso dell’onore, il tuoMatt». Le rivolse un sorrisettosarcastico.

«Ed è innamorato di te. Ti amanotutti, Elena». Si sfilò la giacca egliela posò sulle spalle. «Una cosa è

certa, comunque. Se chi era allaguida di quella macchina pensavache fossi umano, ora sa che si

sbagliava».

Elena si strinse addosso la giacca.«Mi hai salvato la vita», disse conun filo di voce. «Grazie».

Damon le posò un braccio sullespalle e la guardò con tenerezza. «Ioti salverò sempre, Elena»,

promise. «Ormai dovresti saperlo».Le sue pupille si dilatarono e la tiròpiù vicino. «Non posso

perderti», mormorò.

Elena si sentì precipitare. Il mondoera stato inghiottito dagli occhi colormezzanotte di Damon, che la

stavano trascinando nel loro buio.Una piccola parte di lei si oppose,ma Elena la ignorò e, protendendosi

verso di lui, posò le labbra sullesue.

Stefan tamburellava le dita sul muroalle sue spalle, osservando tuttequelle persone pigiate nella stessa

stanza: parlavano, ridevano,litigavano, bevevano, ballavano. Perl’ansia si sentiva formicolare

dappertutto. Dov’era finita Elena?Matt aveva detto di averla vista in

biblioteca più di un’ora prima e che

aveva intenzione di raggiungerli allafesta.

Stefan si schiarì la mente e cominciòa spingere per farsi strada versol’uscita. Forse Elena in quel

momento non voleva vederlo, mac’erano persone che venivano rapiteo uccise. Pur di sapere che stava

bene, era disposto a sopportare chefosse arrabbiata con lui.

Passò davanti a Meredith, immersa

in una conversazione con la suaamica, e disse: «Vado a cercare

Elena». Ebbe la fugace sensazioneche lei, sussultando, avesse teso lamano per fermarlo, ma se la lasciò

alle spalle. Spinse la porta e uscìnella fredda brezza notturna. Gliagenti di sicurezza erano ancora alla

porta a controllare i tesserini, ma lolasciarono passare senza dir nulla,interessati solo a quelli che

cercavano di entrare alla festa.

Il vento scuoteva le chiome deglialberi e la luna crescente saliva altae bianca sugli edifici intorno a

lui. Stefan inviò sonde di Potere percaptare tracce della presenza diElena.

Non sentì nulla, doveva cercareancora. C’erano troppe personeaccalcate lì, riusciva a percepiresolo

le tracce ingarbugliate di centinaiadi umani, le loro emozioni e gliimpulsi vitali mescolati in un ronzio

di sottofondo dal quale eraimpossibile, a quella distanza,isolare la singola essenza di unindividuo, sia

pure un’essenza particolare com’eraquella di Elena.

Se di recente si fosse nutrito disangue umano, sarebbe stato piùfacile. Suo malgrado, continuava a

pensare con nostalgia a come ilPotere fluisse in lui quando bevevaregolarmente il sangue dei suoiamici.

Ma allora era necessario che fossenel pieno delle forze per difendereFell’s Church dai kitsune. Aveva

deciso di non bere sangue umanosolo per diletto o per vantaggiopersonale.

Stefan attraversò a passo svelto ilcortile interno, continuando a inviaresonde di Potere in tutte le

direzioni. Se non fosse riuscito atrovare Elena in quel modo, sisarebbe diretto nel luogo in cui erastata

vista l’ultima volta. Avvicinandosialla biblioteca, sperava che il Poterecaptasse qualche traccia della

sua presenza.

Il sangue gli martellava nelle vene,mentre si chiedeva con ansia cosaavrebbe fatto se Elena fosse stata

assalita, se fosse misteriosamentescomparsa e non fosse tornata maipiù, lasciandogli quella strana

separazione come ultimo ricordo.Affrettò il passo.

Era quasi arrivato alla biblioteca,quando la sensazione distintiva diElena lo colpì come un pugno. Lei

era lì, non molto lontano.

Guardò bene a destra e a sinistra ealla fine la vide. Sentì una terribilefitta di dolore al petto, come se il

suo cuore si fosse spezzato davvero.Stava baciando Damon. Eranoseminascosti nell’ombra, ma li

tradiva la luminosità della loro pellechiara e dei capelli biondi di Elena.Erano così presi l’uno

dall’altra che Damon, nonostante ilPotere, non aveva avvertito la suapresenza, nemmeno quando era

arrivato proprio di fronte a loro.

«Era per questo che volevi stare unpo’ di tempo da sola, Elena?»,chiese Stefan, con una voce che

suonò vuota e distante. Appena siaccorsero di lui, si separarono. Ilvolto di Elena era pallido per lo

shock.

«Stefan», disse. «Per favore, Stefan,

non è come sembra». Tese una manoverso di lui, poi, incerta, la

ritrasse.

Tutto gli sembrava così distante:Stefan era consapevole dei brividiche gli squassavano il corpo, di

avere la bocca secca, ma era comeosservare la sofferenza di qualcunaltro. «Non posso farlo», disse.

«Non posso farlo di nuovo. Se mibatto per te, finirò per distruggercitutti. Come è successo con

Katherine».

Elena scuoteva la testa e tendeva lemani verso di lui, implorante. «Perfavore, Stefan», disse.

«Non posso», ripeté lui con vocefioca e disperata, indietreggiando.

Poi, per la prima volta, guardòDamon, e gli esplose dentro unarabbia tremenda, che cancellòall’istante

quell’ovattata sensazione dilontananza. «Sai solo prendere», glidisse con amarezza. «Questa è

l’ultima

volta. Non siamo più fratelli».

Per un istante, Damon lo guardò conun’espressione sgomenta, sgranò gliocchi e fece come per dire

qualcosa, poi lo sguardo gli si indurìdi nuovo, storse la bocca in unasmorfia sprezzante e alzò la testa di

scatto verso il fratello. Sembravadire: “Perfetto, allora sparisci”.

Stefan indietreggiò, incespicando,poi si girò e corse via con tutta la

grazia e la velocità sovrannaturale

di cui era dotato, come obbedendoall’ordine del fratello, ed era giàmolto lontano quando Elena gridò:

«Stefan!».

24

Bonnie stava scendendo le scaleridacchiando, quando inciampò eperse una delle scarpe col tacco.

«Ecco a te, Cenerentola», disseZander, raccogliendo la scarpa einginocchiandosi davanti a lei.

L’aiutò

a rinfilarsi la scarpa e Bonnie sentìle sue dita calde e forti sul collo delpiede. Allora fece una scherzosa

riverenza, soffocando una risata.«Grazie, mio signore», disse in tonomalizioso.

Si sentiva sciocca e felice, e tuttoera meraviglioso. Era quasi comeessere ubriaca, ma aveva bevuto

solo qualche sorso di birra. No, eraubriaca. Ubriaca di Zander, dei suoibaci, delle sue mani gentili e dei

suoi grandi occhi blu. Gli prese lamano e lui le rivolse il suo lentosorriso. Bonnie si sentì tutta un

brivido.

«Sembra che la festa stia per finire»,disse Bonnie, quando arrivarono alpianterreno. Si stava davvero

facendo tardi, erano quasi le due.Era rimasto solo qualche gruppo diirriducibili festaioli: un branco di

ragazzotti delle confraternite accantoal barilotto di birra, qualchestudentessa di teatro che ballava

agitando le braccia con grandeslancio, una coppia seduta in fondoalle scale immersa in una

conversazione. Meredith, Stefan,Samantha e Matt erano scomparsi, ese Elena alla fine era arrivata,

aveva lasciato la festa anche lei. Gliamici di Zander se n’erano andati, oerano stati buttati fuori.

«Arrivederci, arrivederci», trillòBonnie ai pochi rimasti. In realtà,non aveva avuto occasione di

parlare con nessuno di loro, ma

sembravano tutti molto simpatici.Forse alla prossima festa sarebbe

rimasta più a lungo e avrebbe strettonuove amicizie.

D’altronde, anche Meredith e glialtri si erano fatti nuovi amici alcollege. Bonnie rivolse un saluto

speciale a una coppia che avevavisto di recente in compagnia diMatt. Un tizio basso il cui nome le

pareva fosse Ethan, e una ragazzacon i riccioli scuri e le fossette sulleguance. Non erano matricole.

Amava tutti quella sera, ma quei dueli amava di più, perché avevanocompreso quanto fosse

meraviglioso Matt. I due risposeroal saluto, un po’ esitanti, e quando laragazza sorrise, le sue fossette si

accentuarono.

«Sembrano davvero simpatici»,disse a Zander, e lui si voltò aguardarli mentre apriva la porta.

«Uhm», mugugnò lui evasivo, conuno sguardo che, solo per unsecondo, le fece venire i brividi.

«Non sei d’accordo?», chiese intono esitante. Zander distolse losguardo dalla coppia e si concentròsu

di lei, mentre il suo caldo eluminoso sorriso si allargava.Bonnie si rilassò; la freddezza cheaveva

scorto nei suoi occhi doveva esserestata solo un effetto delle luci.

«Certo, Bonnie, sono molto carini»,disse. «Mi sono solo distratto unsecondo». Le mise un braccio

sulle spalle, attirandola a sé, e labaciò sulla fronte. Lei sospiròsoddisfatta, rannicchiandosi controdi

lui.

Passeggiarono un po’, felici di stareassieme. «Guarda le stelle», disseBonnie a bassa voce. Era una

notte limpida e le stellerisplendevano luminose nel cielo.«Possiamo vederle così bene perchédi notte

comincia a far freddo».

Zander non rispose, fece solo unmugugno di assenso e Bonnie loguardò di sottecchi. «Ti va di fare

colazione insieme domattina?»,chiese. «La domenica in mensa puoiprepararti i waffle da solo e ci sono

tantissimi condimenti fra cuiscegliere. Una vera delizia».

Lui aveva lo sguardo perso inlontananza e un’espressionedistratta, come l’ultima volta cheavevano

passeggiato insieme per il campus.

«Zander?», chiese Bonnietentennante, e lui abbassò lo sguardosu di

lei, aggrottando la fronte emordendosi le labbra con fareassorto.

«Scusa», disse. Le tolse il bracciodalle spalle e fece qualche passoindietro, con un sorriso affettato.

Tutto il suo corpo era teso, come sestesse per mettersi a correre.

«Zander?», chiese di nuovo Bonnie,confusa.

«Ho dimenticato una cosa», disselui, sfuggendo il suo sguardo. «Devotornare alla festa».

«Ah. Vengo con te», propose lei.

«No. Tranquilla». Spostava il pesoda un piede all’altro e guardavaoltre Bonnie come se, di punto in

bianco, avesse preferito essereovunque tranne che lì con lei.All’improvviso, scattò avanti e lediede un

bacio goffo, denti contro denti, poifece un passo indietro e si girò,

incamminandosi nella direzione

opposta. I suoi passi si allungarono,poi cominciò a correre, scappandoda lei, e scomparve nella notte.

Un’altra volta. Non si guardòindietro.

Bonnie, d’un tratto sola, rabbrividì esi guardò attorno, scrutando nel buioche la circondava. Solo un

minuto prima era felice, ora sisentiva vuota e sgomenta, come sel’avessero colpita con uno spruzzodi

acqua ghiacciata. «Allora mi haipresa in giro finora», gridò.

Elena tremava così forte che Damontemeva potesse andare in pezzi.L’abbracciò per consolarla e lei

alzò su di lui uno sguardo vitreo,come se non lo vedesse davvero.

«Stefan…», gemette a bassa voce, eDamon dovette soffocare unaviolenta fitta di irritazione. Stefan

aveva avuto una reazione esagerata.E allora, dov’era la novità? Lui eralì, era rimasto con lei per

aiutarla, doveva rendersene contoprima o poi. Fu tentato di afferrarlaper il mento e costringerla a

guardarlo veramente.

Era ciò che avrebbe fatto ai vecchitempi. Diamine, ai vecchi tempi, leavrebbe sparato una raffica di

Potere finché non fosse stata docilefra le sue braccia, finché non avessedimenticato persino il nome di

Stefan. Al solo pensiero, i canini glipizzicarono per la voglia. Il sanguedi Elena era come il vino.

Certo, aspettarsi che Elenaobbedisse docilmente al suo Potereera sempre stato un desiderio vano,

ammise a se stesso, curvando lelabbra in un sorriso.

Ma lui non era più quel tipo dipersona. E non voleva nemmeno chelei fosse docile e priva di volontà.

Si era impegnato moltissimo, anchese gli era difficile ammetterlopersino a se stesso, per meritare lasua

stima. E, a dirla tutta, anche quella

di Stefan. Era stato confortante che ilsuo fratellino finalmente lo

guardasse con un’espressionediversa dall’odio e dal disgusto.

Be’, era tutto finito. La treguaincerta, l’inizio di un’amicizia,l’affetto fraterno, qualunque cosa cifosse

stata fra lui e Stefan era finita.

«Su, principessa», mormorò a Elena,aiutandola a salire le scale verso laporta della sua stanza. «Siamo

quasi arrivati».

Non riusciva a pentirsi di averlabaciata. Lei era così bella, così vivae vibrante fra le sue braccia. E

aveva un sapore così buono.

Inoltre, l’amava, con tutto l’amore dicui il suo cuore indurito era capace.Sorrise di nuovo, sentendo

l’amarezza di quella verità. PerchéElena non sarebbe mai stata sua.Persino quando Stefan, quell’idiota

moralista, le aveva voltato le spalle,

lei non aveva pensato ad altri che alui.

La mano posata con fare protettivosulla spalla di Elena si contrasse inun pugno.

Arrivarono davanti alla camera; luipescò nella borsa in cerca dellechiavi e le aprì la porta.

«Damon», disse Elena, voltandosisulla soglia per guardarlo negliocchi, per la prima volta da quando

Stefan li aveva sorpresi a baciarsi.Era ancora pallida, ma aveva

un’espressione risoluta, la sua bocca

era una linea sottile. «Damon, è statoun errore».

Il cuore gli si fece pesante come unapietra, ma sostenne il suo sguardo.«Lo so», disse, con voce ferma.

«Si sistemerà tutto alla fine,principessa, vedrai». Si sforzò dipiegare le labbra in un rassicurantesorriso

d’incoraggiamento. Un sorriso daamico.

Poi Elena sparì alla sua vista,chiudendosi risolutamente la portaalle spalle.

Damon si girò di scatto, imprecandoe dando un calcio al muro dietro dilui. Si formò una crepa, e lui

assestò un altro calcio, provandoun’aspra soddisfazione nel sentirel’intonaco che si spaccava.

Avvertì un borbottio ovattato dietrole porte delle altre stanze e passi chesi avvicinavano, forse di

qualcuno che, sentendo dei rumori,

stava andando a controllare. Se inquel momento si fosse trovato a

discutere con qualcuno,probabilmente l’avrebbe ucciso.Non era una buona idea, con Elenanei paraggi,

anche se al momento gli avrebbeprocurato un indubbio piacere.

Si lanciò verso una finestra apertanel corridoio e, a mezz’aria, sitrasformò con grazia in un corvo. Fu

un sollievo spiegare le ali perprendere il ritmo del volo e sentire

sulle piume il vento che lo sollevavae

lo sosteneva. Volò via dalla finestracon pochi, energici battiti di ali efuggì nella notte. Risalendo una

corrente, raggiunse rapidamenteun’altezza rischiosa, nonostante letenebre notturne. Aveva bisogno di

sentire l’assalto del vento, avevabisogno di distrarsi.

25

Caro diario,

non ci posso credere. Quanto sonostupida! Che insignificante, slealestupida.

Non avrei mai dovuto baciareDamon o lasciare che lui mibaciasse.

L’espressione sul volto di Stefan erastraziante. I suoi lineamenti eranocosì rigidi e pallidi che sembravafatto di ghiaccio, e i suoi occhibrillavano di lacrime. E poi è statocome se una luce si fosse spentadentro di lui, e mi ha guardata comese mi odiasse. Come se fossiKatherine. Anche se avevamo già

avuto dei problemi, Stefan non miaveva mai guardata in quel modo.

Non posso crederci. Stefan non puòodiarmi. Ogni battito del mio cuoremi dice che ci apparteniamo, chenulla può dividerci.

Sono stata davvero una stupida e hoferito Stefan, anche se non avrei maivoluto farlo. Ma non è la fine dellanostra storia. Quando gli chiederòscusa e gli spiegherò che ha assistitosolo a un momento di follia, miperdonerà. Quando potrò toccarlo dinuovo, capirà quanto sia

dispiaciuta.

È stato l’effetto dell’adrenalina cheavevo in corpo per aver sfiorato lamorte, per quella macchina che cibraccava. Né io né Damonvolevamo tradirlo: quel bacio èstato solo una conseguenza delnostro aggrapparci alla vita.

No, non posso mentire. Non qui.Devo essere onesta con me stessa,anche se con gli altri fingo. Volevobaciare Damon. Volevo toccarlo.

L’ho sempre voluto.

Ma non posso. Devo smetterla, e lofarò. Non voglio causare a Stefanaltro dolore.

Stefan lo capirà, capirà che sonodisposta a fare tutto il possibile perrenderlo di nuovo felice, e allora miperdonerà.

Non può finire così. Non lopermetterò.

Elena chiuse il diario e digitò ilnumero di Stefan per l’ennesimavolta, lasciando squillare il telefono

finché sentì la voce della segreteria

e riattaccò. Aveva provato achiamarlo diverse volte la seraprima, e

durante la mattinata. Sapeva che luiaveva visto le sue chiamate. Tenevasempre il telefono acceso. E

rispondeva sempre; in un certosenso, si sentiva obbligato a esseresempre reperibile dal momento che

aveva con sé il cellulare.

Il fatto che non rispondessesignificava che la stava evitando diproposito.

Elena scosse la testa con forza edigitò di nuovo il numero. Stefandoveva ascoltarla. Non gli avrebbe

permesso di evitarla. Dopo aversentito le sue spiegazioni, luil’avrebbe perdonata e tutto sarebbetornato

alla normalità. Avrebbero posto finea quella separazione, che stavarendendo entrambi infelici. Era

evidente che non aveva funzionatonel modo desiderato.

Il problema era che non sapeva bene

cosa dire. Sospirò e crollò sul letto,con un senso di vuoto nel

cuore. A parte l’adrenalina causatadall’inseguimento della macchina,tutto ciò che poteva dire era che

quel bacio con Damon non era statointenzionale, che non voleva starecon suo fratello, no davvero. Che

voleva stare con lui. Poteva solodirgli che non se l’aspettava quelbacio, che non l’aveva pianificato.

Che non voleva Damon. Non era ilsuo vero amore. Che avrebbe

sempre scelto lui.

Così sarebbe dovuto bastare. Digitòdi nuovo il numero.

Stavolta Stefan rispose.

«Elena», disse con voce piatta.

«Stefan, ti prego, ascoltami», disselei tutto d’un fiato. «Mi dispiacetanto. Non avrei mai…»

«Non voglio parlarne», disse lui,interrompendola. «Ti prego, smettiladi chiamarmi».

«Ma, per favore, Stefan…»

«Ti amo, ma…». Il suo tono eragentile ma freddo. «Penso che nonpossiamo stare insieme. Non può

funzionare se non posso fidarmi dite».

Non c’era più linea. Elena staccò iltelefono dall’orecchio e rimase unmomento a fissarlo, perplessa,

prima di rendersi conto di cosa erasuccesso. Stefan, il suo caro, amatoStefan, che non l’aveva mai

abbandonata, che l’amava aprescindere da ogni suo gesto, leaveva attaccato il telefono in faccia.

Meredith sollevò un piede dietro laschiena, l’afferrò con entrambe lemani, inalò a fondo e, lentamente,

spinse il piede più in alto, stirando iquadricipiti.

Le piaceva fare stretching, sentire ilsangue che riprendeva a fluire dopol’ultima notte brava. Non

vedeva l’ora di allenarsi conSamantha. Aveva studiato una nuova

mossa, ispirandosi un po’ al kick

boxing, che Samantha di certoavrebbe adorato, dopo aver superatolo shock di essere stata messa al

tappeto ancora una volta. Samanthaera diventata più veloce e più sicuradi sé da quando lavoravano

insieme, e Meredith voleva chefosse sempre più pronta.

Detto ciò, sarebbe stato fantasticoallenarsi con Samantha, semmai sifosse presentata. Meredith guardò

l’orologio. Era in ritardo di quasiventi minuti.

Certo, avevano fatto tardi la notteprima. Ma non era da lei non farsivedere quando aveva detto che

sarebbe andata all’allenamento.Meredith accese il telefono pervedere se c’era un messaggio, poi la

chiamò. Nessuna risposta.

Lasciò un breve messaggio vocale,poi riattaccò e tornò a farestretching, cercando di ignorare il

piccolo brivido d’inquietudine chel’attraversava. Si afferrò le spalle estirò le braccia dietro la schiena.

Forse Samantha avevasemplicemente dimenticatol’allenamento e aveva il telefonospento. Forse si era

riaddormentata. Samantha era unacacciatrice; chiunque – o qualunque– fosse la minaccia che si

aggirava per il campus, non era unpericolo per lei.

Con un sospiro, Meredith rinunciò

alla sua sessione di esercizi. Nonsarebbe riuscita a concentrarsi

finché non avesse controllato comestava Samantha, anche seprobabilmente stava bene. Anzi,senza

dubbio stava bene. Raccogliendo lozaino, si diresse all’uscita. Avrebbefatto una corsa strada facendo.

Il sole splendeva, l’aria era frizzantee i suoi piedi colpivano il selciatocon un ritmo regolare mentre

correva a zig zag fra le persone in

giro per il campus. Quando arrivò aldormitorio di Samantha pensò che

magari avrebbero potuto fare unabella corsa insieme invece diallenarsi quel giorno.

Bussò alla porta, esclamando: «Èora di alzarsi, dormigliona!». Laporta, che non era chiusa a chiave, si

aprì di uno spiraglio.

«Samantha», chiamò, aprendo di piùla porta.

Fu l’odore a colpirla per primo.

Come di ruggine e sale, con unostrisciante tanfo di putrefazione: era

così forte che Meredith barcollòall’indietro, coprendosi il naso e labocca con la mano.

Nonostante l’odore, all’inizio noncapì cosa coprisse le pareti.“Vernice?”, si chiese, sentendo lamente

lenta e intorpidita. “PerchéSamantha dovrebbe mettersi adipingere?”. Era così rossa. Varcòla soglia

lentamente, benché qualcosa in leiavesse iniziato a urlare. “No, no,scappa”.

Sangue. Sanguesanguesanguesangue.Meredith non si sentiva più lenta eintorpidita: il cuore le

martellava nel petto, la testa legirava e il respiro si faceva semprepiù rapido e affannoso. C’era la

morte in quella stanza.

Doveva vederla. Doveva vedereSamantha. Nonostante ogni nervo delsuo corpo la incitasse a scappare,

Meredith continuò ad avanzare.

Samantha giaceva supina sul lettoinzuppato di sangue. Sembrava chel’avessero fatta a pezzi. I suoi

occhi, aperti e vitrei, fissavano ilsoffitto. Immobili.

Era morta.

26

«È sicura di non volere chechiamiamo i suoi genitori,signorina?». L’agente di sicurezzadel campus

aveva un tono burbero ma gentile, e isuoi occhi erano preoccupati.

Per un attimo, Meredith immaginòche i suoi genitori fossero come luili immaginava: pronti a

precipitarsi lì per salvare la lorofigliola, coprirla bene, portasela acasa e tenerla al sicuro finché le

orribili immagini della sua amicaassassinata non fossero svanite dallasua mente. I suoi genitori le

avrebbero semplicemente detto dicontinuare a fare il suo lavoro. Che

ogni altra reazione sarebbe stata

inutile. Se si fosse concessa diessere debole, sarebbero morte altrepersone.

Tanto più che Samantha era unacacciatrice e veniva da una famigliadi cacciatori, come lei. Sapeva

esattamente cosa avrebbe detto suopadre, se gli avesse telefonato. “Cheti serva da lezione. Non sei mai

al sicuro”.

«Me la caverò», disse alla guardia

di sicurezza. «Le mie compagne distanza sono di sopra».

L’agente la lasciò andare,guardandola salire le scale conun’espressione addolorata. «Non si

preoccupi, signorina», disse. «Lapolizia prenderà il colpevole».

Meredith ingoiò la risposta che leera salita alle labbra, circa lafiducia esagerata che l’agentesembrava

riporre nelle forze di polizia, cheancora non avevano trovato alcun

indizio su dove fossero finite le

persone scomparse né erano riuscitea risolvere il caso dell’omicidio diChristopher. Quell’uomo stava

solo cercando di consolarla. Cosìannuì e gli rivolse un cenno disaluto.

Lei non aveva avuto più successodella polizia, nemmeno con l’aiutodi Samantha. Non si era impegnata

abbastanza, si era lasciata distrarredal nuovo posto, dalle nuoveconoscenze.

“Perché lei?”, si chieseall’improvviso. Non le era venuto inmente prima, ma quello era l’unico

omicidio perpetrato all’interno diuna camera di dormitorio, poichétutte le altre sparizioni o aggressioni

erano avvenute all’esterno, nelcortile centrale o per le strade delcampus. L’assassino intendevacolpire

proprio Samantha.

Meredith ricordò la figura in neroche lei e Samantha avevano sorpreso

accanto alla ragazza aggredita e

inseguito per tutto il campus. Lavittima aveva detto di non ricordarenulla, ma Meredith aveva scorto un

lampo di capelli chiarissimi quandola figura si era voltata. Samantha eramorta perché si erano

avvicinate troppo all’assassino?

I suoi genitori avevano ragione.Nessuno era mai al sicuro. Dovevaimpegnarsi di più, andare avanti con

il suo lavoro e seguire ogni indizio.

Di sopra, il letto di Bonnie eravuoto. Elena, rannicchiata sotto lecoperte, alzò la testa. Meredith notòdi

sfuggita che aveva il volto rigato dilacrime. Sapeva che, in qualsiasialtro momento, avrebbe lasciato

ogni cosa per consolare l’amica, maora doveva concentrarsi per trovarel’assassino di Samantha.

Attraversò la stanza, diretta al suoarmadietto, lo aprì e tirò fuori unapesante borsa nera a tracolla e la

custodia del suo bastone dacacciatrice.

«Dov’è Bonnie?», chiese, gettandola borsa sul letto e aprendo lacerniera.

«È uscita prima che mi alzassi»,rispose Elena, con voce tremante.«Penso che avesse un gruppo di

studio stamattina. Meredith, chesuccede?».

Meredith aprì la borsa e cominciò atirar fuori coltelli e stelle da lancio.

«Che succede?», chiese di nuovoElena, con un tono più insistente,spalancando gli occhi.

«Samantha è morta», risposeMeredith, premendo la punta di uncoltello contro il pollice per vederese

era affilato. «È stata assassinata nelsuo letto dal mostro che staperseguitando il campus, edobbiamo

fermarlo». Il coltello non eraabbastanza affilato – ultimamenteaveva un po’ trascurato la

manutenzione

delle armi – così affondò le maninella borsa in cerca di una cote.

«Che cosa?», esclamò Elena. «Oh,no, oh, Meredith, mi dispiacetantissimo». Nuove lacrime

cominciarono a scorrerle sul viso, eMeredith la valutò con un brevesguardo, porgendole la borsa con il

bastone.

«Sulla mia scrivania c’è una piccolascatola nera contenente alcune

boccette di veleno», disse.

«Aconito, verbena, veleno diserpente. Non sappiamo esattamentecon chi abbiamo a che fare, quindi è

meglio che riempi gli aghiipodermici con il contenuto di varieboccette. Fa’ attenzione», aggiunse.

Elena rimase a bocca aperta, poi,dopo qualche secondo, serrò lelabbra e annuì, asciugandosi leguance

con il dorso delle mani. Meredithsapeva che il suo messaggio,

“piangerai più tardi, ora agisci”, erastato

recepito, e che Elena, come sempre,le avrebbe dato una mano.

Elena posò il bastone sul suo letto etrovò la scatola con i veleni sullascrivania di Meredith.

Quest’ultima la osservò mentrecercava di capire come riempire ipiccoli aghi ipodermici incastonatinel

duro legno del bastone, poi mentre liestraeva con mano ferma e li

maneggiava con cura per aprirli.

Quando fu certa che Elena sapessecosa stava facendo, tornò ad affilareil coltello.

«Devono averla colpita diproposito. Samantha non era unavittima casuale», disse, gli occhifissi sul

coltello che strisciava ritmicamentesulla cote. «A questo punto,dobbiamo supporre che l’assassino,

chiunque sia, sa che gli stiamo allecostole, pertanto siamo in pericolo».

Sussultò, ricordando il corpo

dell’amica. «L’omicidio diSamantha è stato brutale».

«Una macchina ha cercato diinvestire me e Damon ieri sera»,disse Elena. «Stavamo investigandosu

alcune cose strane che avevamoscoperto in biblioteca, ma non sonosicura che sia questo il motivo per

cui hanno tentato di ucciderci. Nonsono riuscita a vedere in faccial’autista».

Meredith smise per un istante diaffilare il coltello. «Ti ho già dettoche io e Samantha abbiamo messo

in fuga un tizio che aveva aggreditouna ragazza al campus», disse conaria pensierosa, «ma ho tralasciato

una cosa, perché non ne ero sicura.Non ne sono sicura tuttora». Riferì aElena le sue impressioni sulla

figura vestita di nero, accennandoanche al pallore che aveva intravistosotto il cappuccio, come di

capelli quasi bianchi.

Elena aggrottò la fronte, e le dita letremarono sul bastone. «Zander?»,chiese.

Entrambe guardarono il letto sfattodi Bonnie.

«Zander le piace veramente», scandìMeredith. «Non pensi che l’avrebbecapito se ci fosse qualcosa di

strano in lui? Sai…». Si indicò latesta con un gesto vago, cercando dialludere alle visioni di Bonnie.

«Non possiamo contarci», disseElena, aggrottando la fronte.

«Inoltre, lei non ricorda le visioni.Non

penso che lui sia il ragazzo giustoper Bonnie», continuò. «È così…Cioè, è molto carino, simpatico, ma

ha qualcosa di strano, non trovi? E isuoi amici sono davvero fastidiosi.So che ce ne passa dal

frequentare brutte compagnieall’essere abbastanza deviati da farecose del genere, ma non fido di lui».

«Puoi chiedere a Stefan disorvegliarlo?», chiese Meredith.

«So che vi state prendendo unapausa di

riflessione, ma si tratta di una cosaimportante, e un vampiro sarebbel’ideale per tenerlo d’occhio».

Stefan le era sembrato così triste lasera prima, pensò con distacco.Perché Elena non gli faceva una

telefonata? La vita era breve. Testòdi nuovo la punta del coltello con ilpollice. Andava meglio. Ripose

il coltello affilato e allungò la manoper prenderne un altro.

Siccome Elena non rispondeva, alzòlo sguardo e vide che l’amica stavafissando il bastone con la

fronte corrucciata e le labbratremanti. «Io… Stefan non mi parlapiù», disse in un soffio. «Noncredo…

Non so se vorrà aiutarci». Serrò lelabbra: era evidente che non volevaparlarne.

«Oh», fece Meredith. Era difficileimmaginare Stefan che si rifiutava difare ciò che voleva Elena, ma

era chiaro che l’amica non avevaintenzione di chiedere a lui. «Potreichiamare Damon, che ne dici?»,

propose con riluttanza. Il maggioredei fratelli vampiri era una spina nelfianco e Meredith non si fidava

di lui fino in fondo, ma di sicuro erabravo quando si trattava di esseresubdoli.

Elena inspirò a fondo e assentì conun brusco cenno del capo, tenendo lelabbra serrate. «No, lo chiamo

io», disse. «Gli chiederò di indagare

su Zander».

Meredith sospirò e si appoggiò almuro, lasciando cadere il coltellosul letto. D’un tratto, si sentiva

terribilmente stanca. Sembrava fossetrascorso un milione di anni daquando aveva aspettato Samantha in

palestra, quella mattina, e non eraancora l’ora di pranzo. Guardaronodi nuovo il letto di Bonnie.

«Non credi che dovremmo parlarledi Zander?», chiese Elena concalma. «Dobbiamo chiederle se è

rimasto con lei tutta la sera. Edobbiamo metterla in guardia».

Meredith annuì e chiuse gli occhi,lasciando riposare la testa contro ilmuro fresco e solido, poi li

riaprì. Stanca com’era, sapeva chele immagini della morte di Samanthal’avrebbero assalita, se si fosse

fermata anche solo per un momento.Non aveva tempo per riposarsi,perché l’assassino era ancora là

fuori. «Bonnie non la prenderàbene».

27

Rimbalzo

Rimbalzo

Rimbalzo

Lancio

Presa

Rimbalzo

Rimbalzo

Lancio

Presa.

Stefan stava da solo sulla linea deitiri liberi nel cortile dipallacanestro, palleggiavameccanicamente e

lanciava a canestro. Si sentivavuoto, un automa che replicava tiriperfetti e identici.

In realtà, la pallacanestro non glipiaceva molto. Pensava chemancasse sia l’appagante contattofisico

del football, sia la precisione

matematica del biliardo. Ma era unmodo per passare il tempo. Era stato

sveglio tutta la notte e la mattina, enon riusciva a sopportare nél’interminabile suono dei propripassi

sulle stradine del campus, né la vistadelle quattro mura della sua stanza.

Adesso che cosa avrebbe fatto? Nonaveva senso andare al college seElena non era al suo fianco.

Cercò di scacciare i ricordi deisecoli in cui aveva vagabondato da

solo per il mondo, senza di lei,senza

Damon, prima di arrivare a Fell’sChurch. Faceva il possibile persoffocare le proprie emozioni,cercava

di non sentire nulla, ma non potevafare a meno di chiedersi se loattendevano nuovi secoli disolitudine.

«Che talento!», disse un’ombra,allontanandosi dalla tribuna.«Avremmo dovuto ingaggiare anchete

nella squadra di pallacanestro».

«Matt», salutò Stefan, facendo unaltro canestro, poi gli lanciò lapalla.

Matt si posizionò con cura al centrodella linea e tirò; la palla scivolòsul bordo del canestro prima di

cadervi dentro.

Stefan aspettò mentre Matt correva aprendere la palla, poi si girò versodi lui. «Stavi cercando me?»,

disse, evitando di chiedere se

l’avesse mandato Elena.

Matt parve sorpreso della domandae scosse la testa. «Naa. Mi piacefare qualche tiro a canestro

quando devo riflettere su una cosa.Sai com’è».

«Che succede?», chiese Stefan.

Matt si grattò la nuca, imbarazzato.«C’era una ragazza che mi piaceva,anzi era un po’ che non riuscivo

a togliermela dalla testa e volevochiederle di uscire. E, insomma, è

venuto fuori che ha già un ragazzo».

«Oh». Dopo un po’, Stefan siaccorse che avrebbe dovuto direqualcos’altro. «Mi dispiace».

«Già». Matt sospirò. «È una ragazzadavvero speciale. Pensavo… Nonso, sarebbe stato bello

sperimentare ciò che avete tu edElena. Avere qualcuno da amare».

Stefan fece una smorfia. Era come seMatt gli avesse rigirato un coltellonello stomaco. Scagliò la palla

contro il canestro, senza prendere lamira, e questa tornò indietro con unforte rimbalzo sul tabellone.

Matt saltò a prenderla, poi si diresseverso di lui, con la mano tesa. «Ehi,ehi, Stefan. Calmati. Che ti

prende?»

«Elena e io non ci vediamo più»,disse Stefan in tono piatto, cercandodi ignorare la sofferenza che

quelle parole gli provocavano.«Lei… L’ho vista baciare Damon».

Matt lo fissò in silenzio per quellache sembrò un’eternità, con unosguardo fermo e compassionevole

negli occhi celesti. All’improvvisoStefan ricordò che anche Matt avevaamato Elena, e che stavano

insieme prima della sua entrata inscena.

«Senti», disse Matt alla fine. «Nonpuoi controllare Elena. Se c’è unacosa che so di lei – e ci

conosciamo da una vita – è che fasempre quello che vuole, senza

curarsi degli ostacoli. Non puoi

fermarla». Stefan prese ad annuire,trattenendo a stento le lacrime caldeche gli bruciavano gli occhi.

«Ma», aggiunse Matt, «so anche che,alla fine, l’unico che conta per leisei tu. Non ha mai amato nessuno

come ama te. E, sai, sto cominciandoa scoprire che esistono altre ragazzelà fuori, ma non penso che

questo valga per te. Qualunque cosastia succedendo con Damon, Elenatornerà da te. E tu saresti un

idiota se non glielo permettessi,perché anche lei è l’unica per te».

Stefan si massaggiò il dorso delnaso. Si sentiva fragile, come seavesse le ossa di vetro. «Non lo so,

Matt», disse in tono stanco.

Matt gli rivolse un sorriso caldo eaffettuoso. «Già, ma lo so io». Glilanciò la palla e lui la prese

d’istinto. «Vuoi fare una gara di tiria canestro?».

Stefan era stanco e depresso, ma,

mentre palleggiava, pensando cheavrebbe dovuto giocare un po’ male

per dare all’amico un minimo divantaggio, sentì un impeto disperanza. Forse Matt aveva ragione.

«Siete pazze?», gridò Bonnie.Aveva sempre pensato che “vedererosso” fosse solo una metafora, ma

era così arrabbiata che vedevaveramente una leggera sfumaturascarlatta su ogni cosa, come se lastanza

fosse immersa in una pozza d’acqua

venata di sangue.

Meredith ed Elena si scambiaronouno sguardo. «Non stiamo dicendoche ci sia qualcosa di sbagliato in

Zander», disse dolcementeMeredith. «Vogliamo solo che tu stiaattenta».

«Attenta?». Bonnie sbottò in unarisata amara e cattiva, passò lorodavanti con una spinta e prese un

borsone dal suo armadio. «Sietesolo invidiose», disse senzaguardarle. Aprì la cerniera della

borsa e

cominciò a gettarvi dentro deivestiti.

«Invidiose di che, Bonnie?», chieseElena. «A me neanche piaceZander».

«Invidiose perché alla fine io sonol’unica che ha un ragazzo», rimbeccòBonnie. «Alaric è rimasto a

Fell’s Church e tu hai rotto conentrambi i tuoi ragazzi, e non vipiace vedermi felice quando voisiete

tristi».

Elena serrò le labbra, impallidendo,e le voltò le spalle. ScrutandoBonnie con attenzione, Meredith

disse: «Ti ho detto ciò che ho visto,Bonnie. Non c’è nulla di certo, matemo che la persona che ha

aggredito quella ragazza possaessere Zander. Puoi dirmi dov’eraquando avete lasciato la festa, ieri

sera?».

Concentrandosi nell’impresa di

infilare i suoi jeans preferiti in unaborsa che sembrava già troppo

piena, Bonnie non rispose. Avvertìil solito, fastidioso rossorerivelatore spandersi dal collo a tuttala

faccia. Bene, quei vestiti lesarebbero bastati. Avrebbe preso lospazzolino e la crema idratante dal

bagno mentre ci passava per andarealla porta.

Meredith le andò incontro, con lemani aperte e tese in segno di pace.

«Bonnie», disse con dolcezza,

«vogliamo solo la tua felicità.Davvero. Ma vogliamo anche che tusia al sicuro, e temiamo che Zander

possa non essere ciò che tu credi.Magari potresti evitare di vederlo,solo per un po’, che ne dici? Solo

finché non controlliamo che sia tuttoa posto».

Bonnie tirò la cerniera della borsa,se la gettò sulle spalle e si diressealla porta, sfiorando Meredith,

mentre passava, senza degnarla diuno sguardo. Aveva intenzione diuscire, semplicemente, ma all’ultimo

secondo si girò sulla soglia perguardarle di nuovo in faccia, nonriuscendo trattenersi dal dire ciò che

pensava.

«La cosa che mi fa davvero male»,disse, «è la vostra ipocrisia. Non viricordate di quando il signor

Tanner è stato assassinato? O delvagabondo che per poco non è statoucciso sotto il Wickery Bridge?».

Tremava di rabbia. «Tutti in cittàpensavano che il colpevole fosseStefan. Tutte le prove indicavanoche

era stato lui. Ma Meredith e io locredevamo innocente, perché Elenaci aveva detto di essere sicura che

non era stato Stefan, che lui nonavrebbe mai potuto fare una cosa delgenere. E ti abbiamo creduto, anche

se non avevi prove da fornirci»,disse, fissando Elena, che abbassògli occhi. «Pensavo che vi sareste

fidate di me allo stesso modo».Guardò dall’una all’altra. «Il fattoche sospettiate di Zander, anche seio

sono qui a dirvi che non farebbe maidel male a nessuno, rende evidenteche non avete alcun rispetto per

me», disse con freddezza. «Forsenon l’avete mai avuto».

Bonnie uscì con passo pesante,accorciando la tracolla del borsone.

«Bonnie», si sentì chiamare e si giròper guardarsi indietro ancora una

volta. Meredith ed Elena fecero

per seguirla: entrambe apparivanomortificate.

«Vado da Zander», dissebruscamente Bonnie. Questoavrebbe messo in chiaro cosa pensava dei loro

sospetti su di lui.

Si sbatté la porta alle spalle.

28

«È normale che Bonnie si sia

arrabbiata», disse Alaric. «Si trattadel suo primo, vero amore. Ma voitre

ne avete passate tante insieme.Tornerà e vi darà ascolto, appenaavrà avuto l’occasione di calmarsi».La

sua voce era profonda e affettuosa, eMeredith chiuse forte gli occhi e sipremette il telefono

sull’orecchio, immaginando il suoappartamento di dottorando con ilcomodo divano marrone e la

libreria fatta con le cassette dellatte. Non aveva mai desideratotanto essere lì.

«E se le succedesse qualcosa?»,disse. «Non posso starmene adaspettare che Bonnie sbollisca larabbia

e faccia pace con me quandopotrebbe essere in pericolo».

Alaric produsse un suono nasale,segno che ci stava pensando, eMeredith lo immaginò con

quell’espressione accigliata tanto

carina che assumeva quando dovevaanalizzare un problema da

differenti punti di vista.

«Be’», disse lui alla fine, «Bonnieha passato moltissimo tempo conZander ultimamente, giusto?

Moltissimo tempo da sola con lui. Efinora non le è successo nulla. Pensoche possiamo concludere che

Zander, anche se fosse il colpevoledelle aggressioni al campus, non haintenzione di fare del male a

Bonnie».

«E io penso che il tuo sia unragionamento piuttosto pretestuoso»,disse Meredith, anche se si sentiva

stranamente incoraggiata dalle sueparole.

Alaric sbottò in una risatinasorpresa. «Non costringermi amettere le carte in tavola», disse.«Ho la

reputazione di essere una personamolto logica». Meredith udì ilcigolio della sedia dall’altro capo

della

linea e lo immaginò che siappoggiava allo schienale, con iltelefono infilato tra il collo e laspalla e le

mani dietro la nuca. «Mi dispiacemolto per Samantha», disse,tornando serio.

Meredith si rannicchiò ancora di piùnel letto, premendo la faccia sulcuscino. «Non riesco ancora a

parlarne», disse, chiudendo gliocchi. «Devo solo scoprire chi l’ha

uccisa».

«Non so se potrà esserti utile», disseAlaric, «ma ho fatto alcune ricerchesulla storia del Dalcrest».

«E hai scoperto cose tipo i fantasmie gli strani misteri di cui parlava ilprofessore di Elena?»

«Be’, nella storia del college cisono molte più cose di quante neabbia raccontate in classe il vostro

professore», rispose Alaric.

Meredith udì un fruscio di carte:

probabilmente Alaric stavasfogliando uno dei suoi quaderni diricerca.

«Pare che Dalcrest sia una zonacalda del paranormale. Ci sono statiincidenti che potrebbero essere

imputati ad attacchi di vampiri e lupimannari nel corso della sua storia, equesta non è la prima volta che

si verifica una serie di misteriosesparizioni al campus».

«Davvero?». Meredith si alzò asedere. «Come fa il college a restare

aperto se la gente scompare in

continuazione?»

«Non in continuazione», risposeAlaric. «L’ultima grande ondata disparizioni si è avuta durante la

seconda guerra mondiale. Al tempola mobilità della popolazione eramolto alta e, anche se gli studenti

scomparsi si lasciavano alle spalleamici e familiari preoccupati, lapolizia ritenne che i ragazzi fossero

scappati per sottrarsi

all’arruolamento e le giovani donnefossero fuggite per sposare soldati oper

lavorare nelle fabbriche dimunizioni. A quanto pare, il fatto chenessuno degli studenti sia mai stato

ritrovato fu ignorato e non si vide ilcollegamento fra i diversi casi».

«Fantastico lavoro da parte deldipartimento di polizia», commentòacida Meredith.

«Ci furono anche parecchie tendenzestrane al campus», continuò Alaric.

«Negli anni Settanta, le

associazioni studentesche femminilipraticavano la magia nera. Cose delgenere, insomma».

«Ce n’è qualcuna ancora attiva?»,chiese Meredith.

«Non di quel genere», risposeAlaric. «Ma bisogna tenere a menteuna cosa. Potrebbe esserci qualcosa

nel campus che incoraggia la gente afare esperimenti con il mondosovrannaturale».

«E che cos’è?», chiese lei,sdraiandosi di nuovo. «Qual è la suateoria, professore?»

«Be’, non è la mia teoria», disseAlaric, «ma online ho trovatoqualcuno che afferma che a Dalcrest

potrebbe esserci un’enormeconcentrazione di linee energetiche,le stesse che attraversano Fell’sChurch.

In questa parte della Virginia siconcentra moltissimo poteresovrannaturale, ma alcuni punti sonopiù

carichi di altri».

Meredith aggrottò la fronte. Le lineeenergetiche, le forti linee di Potereche correvano sotto la

superficie terrestre, erano luminosecome fari per il mondosovrannaturale.

«E secondo alcune teorie, dove cisono linee energetiche, le barrierefra il nostro mondo e la

Dimensione Oscura sono piùsottili», continuò Alaric.Sussultando, Meredith ricordò le

creature che lei,

Bonnie ed Elena avevano affrontatonella Dimensione Oscura. Se fosseroriuscite a oltrepassare le

barriere, a venire a Dalcrest come ikitsune erano arrivati a Fell’sChurch, sarebbero stati tutti in

pericolo.

«Non abbiamo ancora alcuna prova,comunque», disse Alaric in tonorassicurante, affrettandosi a

riempire il silenzio. «Sappiamo solo

che Dalcrest ha una storia di attivitàparanormali. Non sappiamo

neppure per certo se ciò cheabbiamo di fronte sia di ordinesovrannaturale».

Un’immagine degli occhi spenti evitrei di Samantha riempì la mentedi Meredith. Aveva notato una

striscia di sangue lungo la guancia,sotto l’occhio destro. La scena delcrimine era davvero

raccapricciante e Samantha era statauccisa con terribile efferatezza.

Meredith credeva, nel profondo del

cuore, che le teorie di Alaric fosserocorrette: era impossibile chel’assassino di Samantha fosse un

essere umano.

29

«Dovreste essere fieri di voi». Icandidati della Vitale Society eranoin fila, uno accanto all’altro, nella

sala riunioni sotterranea, come ilprimo giorno che erano stati condottilì e gli erano state tolte le bende

dagli occhi. Di fronte a loro, sotto lagrande arcata, i Vitale con lemaschere nere li osservavano in

silenzio.

Ethan camminava fra i candidati, congli occhi accesi. «Dovreste esserefieri di voi», ripeté. «La Vitale

Society vi ha offerto un’opportunità.La possibilità di diventare deinostri, di unirvi a un’organizzazione

che può darvi un grande potere,aiutarvi a percorrere la strada per ilsuccesso». Fece una pausa e li fissò.

«Non tutti ne sono stati degni», dissein tono serio. «Vi abbiamoosservato, sapete. Non solo quando

eravate qui o mentre eravateimpegnati nelle nostre attività, ma dicontinuo. I candidati che non cel’hanno

fatta, quelli che non hanno meritatodi unirsi alle nostre fila, sono statieliminati».

Matt si guardò attorno. Era vero,erano di meno rispetto al primoincontro. Quello studente dell’ultimo

anno alto e con la barba, che era unaspecie di mago della biogenetica, sen’era andato. Non c’era più

nemmeno una ragazza bionda emagrissima che Matt aveva notatoper la tenacia con cui avevacompletato

il faticoso percorso della maratona.Erano rimasti solo dieci candidati.

«Per quelli rimasti», Ethan alzò lemani come a dar loro una sorta dibenedizione, «è finalmente giunto il

momento di essere iniziati e

diventare membri a pieno titolodella Vitale Society, imparare inostri

segreti e seguire la nostra strada».

Matt sentì un piccolo fremito diorgoglio mentre Ethan sorrideva atutti loro. Gli era parso che i suoi

occhi avessero indugiato su di luipiù a lungo che sugli altri, e che gliavesse rivolto un sorriso un po’ più

caloroso. Come se lui, fra tuttiquegli eccezionali candidati, fossespeciale.

Ethan cominciò a camminare fra loroe riprese a parlare, soffermandosisui preparativi necessari

all’iniziazione. A un paio dicandidati chiese di portare rose egigli per decorare la stanza – esembrava

si aspettasse che acquistassero dueinteri negozi di fiori – ad altri ditrovare delle candele. A uno assegnò

il compito di comprare undeterminato tipo di vino. A dirlatutta, gli ricordava Elena e le altreragazze

immerse nei preparativi per il ballodel liceo.

«Bene», disse Ethan, indicandoChloe e una ragazza con i capellilunghi di nome Anna. «Vorrei chevoi

due andaste in erboristeria acomprare erba mate, guaranà,biancospino, ginseng, camomilla esalvia

cinese. Volete segnarvelo?».

Matt si rincuorò un poco. Quelleerbe erano un po’ più mistiche e

misteriose, adatte a una società

segreta, anche se il ginseng e lacamomilla gli ricordavano le tisaneche beveva sua madre quando aveva

un raffreddore.

Ethan si congedò dalle ragazze e siavvicinò a Matt, che si preparò aessere mandato in cerca di ponce

al rum o di salsine per gli aperitivi.

Ma Ethan inclinò leggermente ilcapo, fissandolo negli occhi, aindicare che voleva parlare con lui

in

privato. Matt lo raggiunse con unacorsetta, vagamente intrigato.Cos’era che Ethan non poteva dire

davanti agli altri?

«Ho un compito speciale per te,Matt», disse Ethan e si fregò lemani, manifestando il piacere che

provava a quella prospettiva.«Voglio che chieda al tuo amicoStefan Salvatore di unirsi a noi».

«Scusa?», fece Matt, confuso.

«Di diventare un membro dellaVitale Society», spiegò Ethan. «Ci èsfuggito quando abbiamo fatto la

selezione dei candidati all’iniziodell’anno, ma dopo averloincontrato, penso… pensiamo», feceun

cenno con la mano indicando lefigure mascherate che li osservavanoin silenzio dall’altra parte della

sala, «che sarebbe un ottimoelemento per la nostraorganizzazione».

Matt aggrottò la fronte. Non volevafare la figura dello stupido davanti aEthan, ma c’era qualcosa nel

suo discorso che gli suonava moltostrano.

«Ma non ha partecipato a nessunadelle prove. Non è troppo tardiperché si unisca a noi quest’anno?».

Ethan abbozzò un sorriso,sollevando appena un angolo dellabocca. «Penso che per Stefanpossiamo

fare un’eccezione».

«Ma…», fece per protestare Matt,poi cambiò idea e sorrise a Ethan.«Lo chiamerò per vedere se gli

interessa», promise.

Ethan gli diede una leggera paccasulle spalle. «Grazie, Matt. Seiproprio tagliato per essere un Vitale,

sai. Sono certo che riuscirai aconvincerlo».

Matt lo osservò allontanarsi,chiedendosi perché quella voltal’elogio gli fosse sembratosgradevole.

Forse perché non aveva senso,decise alla fine, mentre tornava alsuo dormitorio dopo la riunione dei

candidati. Cos’aveva Stefan di tantospeciale da spingere Ethan a volerloinserire immediatamente fra i

candidati della Vitale Society,invece di aspettare l’annosuccessivo? Ok, sì, era un vampiro,per questo

era speciale, ma non lo sapevanessuno. E poi aveva quel fascino,quella raffinatezza vagamenteeuropea

che al liceo aveva fatto cadere aisuoi piedi tutte le ragazze, ma, infondo, non era così bello, e alcampus

c’erano tantissimi studenti stranieri.

Matt si fermò di colpo, restandoimmobile. Era geloso forse? Non eragiusto che a Stefan, arrivato alla

chetichella, avessero offerto subitouna cosa che lui aveva dovutofaticare per ottenere, una cosa che

aveva creduto soltanto sua.

E con ciò? Non era colpa di Stefanse Ethan voleva concedergli untrattamento speciale. Stefan era

molto depresso dopo la rottura conElena; forse gli avrebbe fatto beneunirsi ai Vitale. E sarebbe stato

divertente avere lì uno dei suoiamici. Stefan se lo meritava, sulserio: si era sempre dimostratonobile e

coraggioso, un vero leader, anche senon era possibile che Ethan e glialtri lo sapessero.

Allontanando con fermezza ognidubbio residuo sull’ingiustizia diquel reclutamento, Matt prese il

telefono e chiamò Stefan.

«Ehi», disse. «Senti, ti ricordi quelragazzo, Ethan?».

«Temo di non capire», disse Zander.Bonnie sentiva il suo braccio sullespalle, solido e rassicurante, e

la maglietta su cui aveva affondatola faccia profumava di cotone pulitoe ammorbidente. «Perché hai

litigato con le tue amiche?»

«Il punto è che non si fidano del miogiudizio», disse Bonnie,asciugandosi gli occhi. «Se si fosse

trattato di una di loro, non sarebberosaltate così in fretta alleconclusioni».

«Conclusioni su cosa?», chieseZander, ma lei non rispose. Dopo unpo’, lui tese una mano e,

dolcemente, le fece scorrere un ditolungo il profilo del mento e sullelabbra, tenendo lo sguardo fisso sul

suo volto. «Comunque, puoi restarequi finché vorrai, Bonnie. Sono altuo servizio», disse con uno strano

tono formale.

Bonnie osservò la sua stanza coninteresse. Non era mai stata lì prima;in effetti, aveva dovuto chiamarlo

per chiedergli in che dormitorioalloggiasse, ed era piuttosto insolitoche non lo sapesse, giacché stavano

insieme. Ma se avesse provato aimmaginare la sua stanza, l’avrebbepensata lercia e in disordine,

com’erano sempre le stanze deiragazzi: vecchi cartoni di pizza sulpavimento, biancheria sporca, strani

odori. Magari con il poster di unadonna mezza nuda sul muro. Invece,era proprio l’opposto. Una stanza

molto spoglia e disadorna: nullasull’armadio e sulla scrivania fornitidalla scuola, nessuna foto sui muri,

nessun tappeto sul pavimento. Il lettoera rifatto con cura.

Il letto singolo. Su cui erano sedutientrambi. Lei e il suo ragazzo.

Bonnie sentì il rossore salirle alleguance. Maledisse in silenzio lapropria tendenza ad arrossire: era

sicura che persino le orecchiefossero rosse come peperoni. Avevaappena chiesto al suo ragazzo se

poteva andare a vivere da lui. E,certo, lui era tanto carino eadorabile, e baciarlo probabilmenteera

stata l’esperienza più straordinariadella sua vita, ma, appunto, si eranosoltanto baciati la notte

precedente. E se Zander avessepensato che il suo era un modo persuggerirgli di fare il passo

successivo?

Lui l’aveva scrutata con ariapensierosa quando era arrossita.«Sai», disse, «posso dormire sul

pavimento. Io non mi… ehm…aspettavo che…». S’interruppe earrossì anche lui.

Vedendolo così disorientato, Bonniesi sentì subito meglio. Gli diede uncolpetto sul braccio. «Lo so»,

disse. «L’avevo detto a Meredith e aElena che eri un bravo ragazzo».

Lui aggrottò la fronte. «Che cosa?Pensano che non lo sia?». Quandolei non rispose, si allontanò

lentamente e si sporse indietro perosservarla bene in viso. «Bonnie? Ilgrosso litigio con le tue amiche

riguardava me, per caso?».

Lei scrollò le spalle e si strinsenelle braccia.

«Ok. Caspita». Le passò una mano

fra i capelli. «Sapevo che con Elenanon avevo legato molto, ma

sono sicuro che i nostri rapportimiglioreranno quando avremol’opportunità di conoscerci meglio.Allora

sarà tutto dimenticato. Non vale lapena smettere di essere amiche perquesto».

«Non è…». Gli occhi di Bonnie siriempirono di lacrime. Zander eracosì dolce e non aveva idea di

quanto Elena e Meredith si fossero

sbagliate su di lui. «Non possodirtelo», disse.

«Bonnie?». La attirò più vicino a sé.«Non piangere. Non può essere cosìterribile». Lei prese a

piangere più forte, grosse lacrime lerigavano le guance, mentre lui lateneva stretta. «Dimmelo e basta»,

disse.

«Non si tratta solo del fatto che nonpiaci alle mie amiche, Zander»,disse lei fra i singhiozzi. «Loro

pensano che tu possa esserel’assassino».

«Che cosa? Perché?». Si ritrasse,quasi saltando dall’altra parte delletto, sconvolto e pallido.

Bonnie gli riferì ciò che Meredithpensava di aver visto, un lampo deisuoi capelli sotto il cappuccio

dell’aggressore di cui si era lanciataall’inseguimento. «È davveroingiusto», terminò, «perché anche se

avesse visto davvero ciò che crededi aver visto, tu non sei l’unica

persona al campus con i capelli

chiarissimi. Si stanno rendendoridicole».

Zander trasse un lungo respiro,sgranando gli occhi, e per qualchesecondo, rimase seduto, fermo e in

silenzio. Poi tese una mano e, condolcezza, gliela mise sotto il mento,girandole il volto per poterla

guardare negli occhi.

«Non ti farei mai del male, Bonnie»,disse lentamente. «Mi conosci, mi

vedi per ciò che sono. Pensi che

io sia un assassino?»

«No», rispose lei, con gli occhi chesi riempivano nuovamente dilacrime. «Non lo penso. Non l’homai

pensato».

Zander si chinò in avanti e la baciò,posando le labbra morbide sulle sue,come per sigillare una specie

di patto. Bonnie chiuse gli occhi e siabbandonò al bacio.

Si stava innamorando di lui, losapeva. E, nonostante fosse scappatoall’improvviso la sera precedente,

appena prima dell’omicidio diSamantha, era sicura che lui nonsarebbe mai potuto essere unassassino.

30

«Cappuccino e cornetto?», chiese lacameriera e, a un cenno di Elena,apparecchiò la tavola. Elena

spinse da parte i quaderni per farespazio. Si stavano avvicinando gli

esami di metà trimestre, come se

non fosse bastato tutto ciò che stavasuccedendo. Aveva tentato distudiare nella sua stanza, ma la vista

del letto di Bonnie vuoto ladistraeva troppo. Lei e Meredith nonsi sentivano a posto senza Bonnie.

Non era riuscita a combinaregranché nemmeno in caffetteria,nonostante si fosse seduta a uno dei

migliori tavoli all’aperto su cui sipotevano sparpagliare liberamente ilibri. Ci aveva provato, ma la sua

mente continuava a tornare allamorte di Samantha.

Era una ragazza così simpatica.Ripensò a come le si illuminavanogli occhi quando rideva, al modo in

cui saltellava sulle punte dei piedi,come se morisse dalla voglia dimuoversi, di correre, ballare, troppo

piena di energia per stare ferma.Meredith non stringeva facilmentenuove amicizie, ma la maschera di

cauta freddezza che indossavasempre con gli estranei era sparita

con Samantha.

Quando era uscita dal dormitorio,Meredith era al telefono con Alaric.Forse lui avrebbe saputo cosa

dire, come confortarla. Non volendointerromperli, Elena aveva lasciatoun appunto per dire dove

andava, nel caso l’amica avessebisogno di lei.

Mescolando il cappuccino, alzò losguardo e la vide arrivare. Meredithsi sedette di fronte a lei e la

fissò con i seri occhi grigi. «Alaricdice che Dalcrest è una zona caldaper le attività paranormali», disse.

«Magia nera, vampiri, lupi mannari,il pacchetto completo».

Elena annuì e aggiunse un po’ dizucchero nella tazza. «Come hasuggerito il professor Campbell»,disse

con aria pensosa. «Ho avuto lasensazione che sapesse più di quantofosse disposto a dire».

«Devi insistere perché ti dica tutto»,

replicò decisa Meredith. «Se eratanto affezionato ai tuoi genitori,

si sentirà in dovere di dirti la verità.Non abbiamo tempo da perdere».Allungò una mano e staccò un

pezzo del cornetto di Elena. «Posso?Non ho ancora mangiato niente oggie comincia a girarmi la testa».

Osservando i lineamenti tesidell’amica, gli occhi segnati dalleocchiaie, Elena sentì un’acuta fitta di

compassione. «Ma certo», disse,spingendo il piatto verso di lei. «Ho

appena chiamato Damon per dirgli

di vederci qui». Osservò Meredithche divorava il cornetto e aggiunseancora altro zucchero nel

cappuccino. Aveva bisogno diaffetto.

Poco dopo videro Damon venir loroincontro con un’andatura rilassata: iltaglio perfetto dei suoi capelli

lisci, l’eleganza informale dei suoivestiti neri, gli occhiali da sole drittisul naso. La gente si girava a

guardarlo mentre passava, ed Elenavide una ragazza perderel’equilibrio e cadere dalmarciapiede.

«Che velocità», disse Elena, mentreDamon tirava indietro una sedia e siaccomodava.

«Io sono veloce», rispose lui, «e haidetto che era importante».

«Lo è», ribatté lei. «La nostra amicaSamantha è morta».

Damon fece un brusco cenno delcapo. «Lo so. Il campus brulica di

poliziotti. Come se fossero in grado

di fare qualcosa».

«Che cosa vuoi dire?», chieseMeredith, con un’occhiataccia.

«Be’, questi omicidi non rientranonelle competenze del corpo dipolizia, non credete?». Damonallungò

una mano e si impossessò della tazzadi Elena. Bevve un sorso, poi feceuna smorfia di disgusto.

«Tesoro, è decisamente troppo

dolce».

Meredith stava stringendo le mani apugno ed Elena pensò fosse megliovelocizzare le cose. «Damon, se

sai qualcosa, per favore, dillo anchea noi».

Lui le restituì il cappuccino e fecesegno alla cameriera di portarne unoanche a lui. «A essere sinceri,

mia cara, non so molto sulla mortedi Samantha, né su quella delcompagno di stanza di Matt, che non

ricordo come si chiama. Non sonoriuscito ad avvicinarmi ai corpiabbastanza da ricavare qualche

informazione utile. Ma ho trovatoprove certe che ci sono altri vampirinel campus. Vampiri piuttosto

disattenti». Storse le labbra nellastessa smorfia che aveva fatto dopoaver assaggiato il cappuccino di

Elena. «Presumo siano stati creati dapoco. Non hanno tecnica».

«Che genere di prove?», chieseMeredith.

Damon parve sorpreso. «Cadaveri, èovvio. Cadaveri dei quali si sonosbarazzati in modo molto

maldestro. Fosse poco profonde,falò improvvisati e soluzioni diquesto tipo».

Elena aggrottò la fronte. «Quindi lepersone scomparse sono state uccisedai vampiri?».

Damon agitò il dito in segno discherzosa riprovazione. «Non hodetto questo. I cadaveri che ho

esaminato – e, lasciatemelo dire,

disseppellire un cadavere è stata unanovità assoluta per me – non sono

quelli delle persone sparite dalcampus. Non so se gli studentiscomparsi siano stati uccisi daivampiri,

ma qualcun altro lo è stato. Hannomietuto parecchie vittime. Hocercato di trovare questi vampiri,ma

non ho avuto fortuna. Per ora».

Meredith, che in un’altra situazioneavrebbe rimproverato Damon per la

battutaccia sulla prima volta

che disseppelliva un cadavere,appariva assorta nei suoi pensieri.«Ho visto il corpo di Samantha»,disse

esitante. «Non mi sembrava il tipicoattacco di un vampiro. E da comeMatt ha descritto il corpo di

Christopher, penso che neanche inquel caso lo fosse. Entrambi i corpierano…», trasse un profondo

respiro, «dilaniati. Fatti a pezzi».

«Forse si è trattato di un branco divampiri molto arrabbiati, opasticcioni», disse Damon. «I lupi

mannari infieriscono in quel modosulle vittime. È più nel loro stile».La cameriera arrivò con il

cappuccino e lui la ringraziò concortesia. La ragazza arrossì e siritirò.

«C’è un’altra cosa», disse Elenaappena la cameriera non fu più aportata di orecchio. Rivolse

un’occhiata interrogativa a

Meredith, che le fece segno dicontinuare. «Siamo preoccupateriguardo a

Bonnie e al suo nuovo ragazzo».Espose in breve i motivi cheavevano per sospettare di Zander e

menzionò la reazione di Bonnie ailoro timori.

Damon sollevò un sopraccigliomentre finiva di bere il cappuccino.«Quindi pensate che lo spasimante

del piccolo pettirosso possa esserepericoloso?». Sorrise. «Indagherò su

di lui, principessa. Non

preoccuparti».

Si alzò, lasciando cadere un paio didollari sul tavolo, e si allontanò conla solita andatura rilassata,

scomparendo in un boschetto diaceri. Qualche minuto dopo, ungrosso corvo nero con le piumelucide e

iridescenti si alzò in volo al di sopradegli alberi, sbattendo le ali convigore. Gracchiò e volò via.

«Sono sorpresa, è stato moltodisponibile», disse Meredith. Avevaancora il volto stanco e tirato, ma il

suo tono era curioso.

Elena sapeva, senza alzare losguardo, che la sua amica la stavaosservando e stava facendocongetture.

Tenendo gli occhi pudicamentebassi, bevve un altro sorso dicappuccino, consapevole del lieverossore

che le tingeva le guance. Damon

aveva ragione. Era troppo dolce.

31

“Perché vogliono stare sempre suitetti?”, pensò Bonnie stizzita.“Meglio dentro. Dentro si sta bene.

Nessuno precipita e muore se sitrova all’interno di un edificio.Invece, eccoci qui”.

Guardare le stelle con Zander daltetto della facoltà di scienze erastato romantico. Le sarebbe piaciuto

fare un altro piccolo picnic notturno,

solo loro due. Ma un party su unaltro tetto, con una masnada di

amici di Zander non era romantico,nemmeno un po’.

Bevve un sorso dal suo bicchiere esi spostò in una zona meno affollata,senza nemmeno voltarsi a

guardare quando sentì i tonfi deicorpi che cadevano a terra e igrugniti dei ragazzi che facevano

wrestling. Dopo due giorni diconvivenza con Zander, cominciavaa ricordare i nomi dei suoi amici:

Tristan e Marcus erano quelli che sirotolavano sul pavimento conZander. Camden e Spencer erano

impegnati in un’attività che lorochiamavano “parkour”, checonsisteva soprattutto nel correre dauna

parte all’altra come idioti,rischiando continuamente di caderedal tetto. Enrique, Jared, Daniel eChad

stavano facendo un complicato giocoalcolico in un angolo. Talvolta siuniva qualche altro ragazzo, ma

questo era il gruppo più stretto.

Le piacevano, sul serio. La maggiorparte del tempo. Erano chiassosi,certo, ma si mostravano sempre

molto gentili con lei: le portavanoda bere, le offrivano subito la giaccaquando aveva freddo, le

dicevano che non avevano idea dicosa avesse visto in un perdentecome Zander, che ovviamente era il

loro modo “da maschi” per dire chegli volevano bene e che erano feliciche avesse una ragazza.

Bonnie guardò Zander, che ridevamentre teneva Tristan in una presa acravatta e gli strofinava le

nocche sulla testa. «Ti arrendi?»,disse, ed emise un grugnito disorpresa quando Marcus, con ungrido

gioioso, li placcò entrambi.

Sarebbe stato più semplice se cifossero state altre ragazze con cuifare amicizia. Se Marcus (che era

molto carino, almeno per quantopotesse esserlo uno yeti gigantesco

con i capelli arruffati) o Spencer

(dotato di quel genere di sobriaeleganza da studente di buonafamiglia che certe ragazze trovano

irresistibile) avessero avuto unaragazza fissa, Bonnie avrebbe avutoqualcuno con cui scambiare

occhiate sarcastiche quando i maschifacevano gli scemi.

Ma anche se, di tanto in tanto, albraccio di uno di loro appariva unaragazza, finiva sempre per non

vederla più dopo una singola sera.Esclusa lei, Zander sembravamuoversi in un mondoesclusivamente

maschile. E, dopo due giorni cheseguiva quella virile parata in giroper il città, Bonnie cominciava a

essere stufa. Aveva nostalgia dellechiacchiere fra ragazze. Lemancavano Elena e Meredith, anchese era

ancora arrabbiata con loro.

«Ehi», disse, facendosi strada verso

Zander. «Ti va se ci allontaniamo daqui per un po’?». Zander le

mise le braccia sulle spalle. «Uhm.Perché?», chiese, chinandosi perdarle un bacio sul collo.

Bonnie alzò gli occhi al cielo. «C’ètroppo chiasso, non pensi?Potremmo fare una bella passeggiata

tranquilla o qualcosa del genere».

Lui parve sorpreso, ma annuì.«Certo, come vuoi tu».

Scesero dalla scala antincendio,

seguiti dalle grida degli amici diZander, che credevano stesseandando

a prendere da mangiare e chesarebbe presto tornato con ali dipollo fritte e tacos.

Quando furono a un isolato didistanza dalla festa sul tetto, ilrumore si affievolì e rimase ilsilenzio

della pace notturna: si sentivanosolo i suoni lontani delle pochemacchine di passaggio sulla strada

vicina. Bonnie sapeva checamminare di notte per il campusavrebbe dovuto farle venire ibrividi, ma era

tranquilla. Quando Zander la tenevaper mano, sentiva di non avere nullada temere. «È bella, vero?»,

disse allegramente, fissando lamezzaluna nel cielo.

«Sì», rispose lui, facendo dondolarela mano stretta alla sua. «Sai,andavo a fare lunghe camminate –

corse, a dire il vero – con mio

padre, di notte. In aperta campagna,al chiaro di luna. Mi piace star fuori

di notte».

«Oh, che dolce», disse Bonnie. «Vaiancora a correre con tuo padrequando torni a casa?»

«No». Zander esitò e curvò lespalle, i capelli ricaddero acoprirgli il viso. Bonnie non riuscì a

decifrare la sua espressione. «Miopadre… è morto. Tanto tempo fa».

«Mi dispiace», disse lei, sincera,

stringendogli la mano.

«No, non è niente», disse lui,continuando a fissarsi le scarpe.«Ma, sai, non ho fratelli né sorelle, equei

ragazzi sono diventati come unafamiglia per me. So che a voltepossono essere molto molesti, masono

davvero dei bravi ragazzi. E sonoimportanti per me». Scrutò Bonniecon la coda dell’occhio.

Era così ansioso di compiacerla, che

Bonnie sentì un forte moto d’affettoper lui. Era carino che Zander

fosse così legato ai suoi amici, eforse erano quelli i problemi difamiglia che aveva dovuto affrontare

qualche sera prima. Era un ragazzoleale, su questo non c’erano dubbi.«Zander», disse. «So che sono

importanti per te. Non voglio portativia dai tuoi amici, stupido». Alzò lebraccia e gliele mise attorno al

collo, baciandolo dolcemente sullabocca. «Magari solo per un’ora o

due, qualche volta, ma non di più,

te lo prometto».

Lui ricambiò il bacio conentusiasmo e Bonnie sentì un fremitoche la percorse fino alla punta deipiedi.

Ancora abbracciati, raggiunsero unapanchina sul ciglio della strada e sisedettero per continuare a

baciarsi. Era così bello toccareZander, sentire i suoi muscoli snellie la sua pelle liscia, fargli scorrere

le dita sulle spalle, lungo le bracciae i fianchi.

D’un tratto, mentre lo accarezzava,lui si ritrasse.

«Che c’è?», chiese Bonnie, alzandola testa e scostandosi un poco.

«Niente», rispose Zander, facendoper abbracciarla di nuovo. «Saicom’è, quando scherzo con i miei

amici. Amano il gioco duro».

«Fammi vedere», disse Bonnie,afferrandogli il bordo della maglia,

un po’ perché era preoccupata, un

po’ per dargli una controllatina agliaddominali. Lui si rivelòsorprendentemente pudico,considerando

che dividevano la stanza. Trasalì dinuovo, poi si sollevò la maglia,tirando un lungo respiro tra i denti.

Lei sussultò. Orribili ferite nere erosse gli coprivano tutto un fianco.

«Zander», disse Bonnie inorridita,«sembrano davvero gravi. Non tiprocuri ferite del genere

semplicemente giocando con gliamici». “Sembra che te le sia fattelottando per salvarti la vita. O che

stesse cercando di salvarsi chi te leha procurate”, pensò, allontanandosubito il pensiero.

«Non è nulla. Non preoccuparti»,disse lui, riabbassando la maglia.Fece per abbracciarla di nuovo, ma

lei si ritrasse, vagamente disgustata.

«Vorrei che mi dicessi che èsuccesso», disse.

«Te l’ho detto», rispose lui,cercando di calmarla. «I miei amicisono fuori di testa, li conosci».

Era vero, non aveva mai conosciutoragazzi così scalmanati. Lui fece dinuovo per abbracciarla, e

stavolta lei si avvicinò, alzando ilviso per farsi baciare. Appena leloro labbra si toccarono, ricordò le

sue parole: “Mi conosci. Mi vediper ciò che sono”.

Sì, lo conosceva davvero. Potevafidarsi di lui.

Dall’altra parte della strada,nascosto sotto l’ombra di un albero,Damon osservava Bonnie chebaciava

il suo ragazzo.

Doveva ammettere che nel vederlafra le braccia di un altro avevaprovato una piccola fitta di gelosia.

Era una ragazza così dolce, e anchecoraggiosa e intelligente dietrol’apparenza zuccherosa e frivola. Il

fatto che fosse una strega aggiungevauna sfumatura intrigante alla sua

persona. Aveva sempre pensato che

lei gli appartenesse.

Ma, in fondo, il piccolo pettirossonon meritava un ragazzo tutto suo?Per quanto Bonnie gli piacesse,

non l’amava, ne era certo. Vedendoil volto di quel ragazzo allampanatoilluminarsi quando lei sorrideva,

pensò che forse era quello giusto.

Dopo essersi baciati ancora perqualche minuto, Bonnie e Zander sialzarono e si diressero verso il

dormitorio di lui, tenendosi permano. Damon li seguì, restandonell’ombra.

Si lasciò sfuggire una risataautoironica. “Mi sto ammorbidendocon la vecchiaia”, pensò. Ai vecchi

tempi avrebbe mangiato Bonniesenza un ripensamento, e invecestava lì a preoccuparsi della sua vita

sentimentale.

Eppure, sarebbe stato bello se alpiccolo pettirosso fosse toccata lafelicità. Se il suo ragazzo non si

fosse rivelato una minaccia.

Damon era convinto che la coppiafelice si sarebbe eclissata neldormitorio. Invece, Zander diede a

Bonnie il bacio della buonanotte e laguardò entrare, poi uscì di nuovo instrada. Damon lo seguì,

tenendosi nascosto, mentre tornavaalla festa lasciata qualche tempoprima. Zander uscì di nuovo, pochi

minuti dopo, portandosi dietro il suobranco di amici chiassosi.

Damon fece una smorfia diirritazione. “Dio mi salvi daglistudenti del college”, pensò.Probabilmente,

stavano andando ad abbuffarsi diporcherie in qualche fast-food. Dopodue giorni che pedinava Zander,

era pronto a tornare da Elena perriferire che quel ragazzo non avevaaltra colpa che quella di essere

rozzo.

Ma, anziché dirigersi verso il barpiù vicino, i ragazzi attraversarono

il campus a passo svelto, rapidi e

determinati, come se avessero inmente qualche destinazioneimportante. Arrivati ai confini delcampus,

si diressero nel bosco.

Damon diede loro qualche secondoe li seguì.

Era bravo in quelle cose, era unpredatore, un cacciatore naturale, ecosì gli bastò restare in ascolto per

pochi minuti, mandando in giro

sonde di Potere, e correre un po’ fragli alberi, con i rami neri che si

spezzavano al suo passaggio, percapire che Zander e i suoi amici sierano dileguati.

Alla fine, Damon si fermò e siappoggiò a un albero per riprenderfiato. Fra gli alberi il silenzio era

infranto solo dagli innocui rumoridelle creature del bosco, intente afarsi gli affari propri, e dal suono

spezzato e irregolare del suorespiro. Quel branco di rumorosi,

detestabili bambocci gli erasfuggito,

scomparendo senza lasciare laminima traccia. Digrignò i denti,cercando di contenere la rabbia per

essere stato giocato, finché noncominciò a chiedersi, con crescentecuriosità, come avessero fatto a

sfuggirgli.

“Povera Bonnie”, pensò, mentre silisciava e si risistemava la giaccacon gesti stizzosi. Una cosa era

più che evidente: Zander e i suoiamici non erano del tutto umani.

Stefan storse il naso. Era unasituazione alquanto strana.

Si trovava in un’enorme salasotterranea, seduto su una sedia conlo schienale di velluto, e intorno alui

studenti del college correvano dauna parte all’altra per sistemare fiorie candele. Doveva ammettere che

quella stanza faceva una certaimpressione: cupa ma elegante.

Tuttavia le piccole composizionifloreali

avevano qualcosa di pacchiano efinto, come un palco da operetta nelcuore del Vaticano. E le figure con

le maschere nere appostate in fondoalla sala, a osservare, lo stavanofacendo innervosire.

Matt gli aveva telefonato perparlargli di una specie di societàsegreta del college alla quale si era

unito, e per dirgli che il capo volevaarruolare anche lui. Stefan aveva

acconsentito a incontrarlo e a

discuterne. Non era mai stato un tipoda circoli e organizzazioni varie, maMatt gli stava simpatico, e non

gli dispiaceva avere qualcosa dafare.

Gli avrebbe tolto dalla testa Elena.Mentre si aggirava per il campuscome un maniaco – be’, c’era

qualcosa di maniacale nel modo incui, quando vedeva Elena, i suoiocchi erano irrimediabilmenteattratti

verso di lei, anche se si sforzava diguardare subito da un’altra parte –l’aveva osservata. A volte era con

Damon. Affondò le unghie nei palmidelle mani. Cercando di rilassarsi,riportò l’attenzione su Ethan,

seduto a un tavolino di fronte a lui.

«I membri della Vitale Societyoccupano un posto molto specialenel mondo», stava dicendo, protesoin

avanti, sorridente. «Solo i miglioripossono sperare di essere scelti, e

credo che tu possieda tutte le

qualità che cerchiamo, Stefan».

Stefan annuì cortesemente e ripresea vagare con la mente. In realtà, lesocietà segrete erano un

argomento su cui era piuttostoinformato. La Scuola della Notte diSir Walter Raleigh si era scontrata

contro quelle che, nell’Inghilterraelisabettiana, erano considerateconoscenze proibite: filosofia e

scienza che la chiesa aveva messo al

bando. La Carboneria, dalle sueparti, aveva operato per

incoraggiare le rivolte contro igoverni di varie città-Stato, mirandoall’unificazione dell’Italia. Sapeva

che Damon, nel 1700, a Londra, siera divertito con i membridell’Hellfire Club per un paio dimesi,

finché il loro atteggiarsi e la loroinfantile blasfemia non gli eranovenuti a noia.

Tutte quelle società segrete, a ogni

modo, avevano avuto uno scopo. Laribellione contro la morale

convenzionale, la ricerca dellaverità, la rivoluzione.

Stefan si sporse avanti. «Scusami»,disse con educazione, «ma qualesarebbe lo scopo della Vitale

Society?».

Ethan si interruppe a metà di unafrase e lo fissò, poi si umettò lelabbra. «Be’», disse, scandendo le

parole, «i nostri segreti e i rituali

non possono essere rivelati agliestranei. Nessuno dei candidati

conosce le nostre vere pratiche e inostri scopi, non ancora. Ma possodirti che ci sono innumerevoli

benefici nell’essere uno di noi.Viaggi, avventure, potere».

«Nessuno dei candidati conosce ivostri veri scopi?», chiese Stefan.La sua naturale inclinazione, che lo

portava a tenersi alla larga daigruppi, si stava rafforzando. «Perchénon indossi una maschera come gli

altri?».

Ethan parve sorpreso. «Io sono ilvolto dei Vitale per i candidati»,rispose. «Hanno bisogno che sia

qualcuno che conoscono a guidarli».

Stefan si schiarì la mente. Nonvoleva essere guidato da nessuno.«Ti porgo le mie scuse, Ethan»,disse

in tono formale, «ma non penso diessere il candidato giusto per lavostra organizzazione. Apprezzo

l’invito, comunque». Cominciò adalzarsi.

«Aspetta», disse Ethan. I suoi grandiocchi dorati avevano un’espressioneansiosa, famelica. «Aspetta»,

ripeté, leccandosi di nuovo lelabbra. «Noi… abbiamo una copiadel De homini dignitate di Pico della

Mirandola». Incespicò sulle parole,come se non sapesse bene di cosastesse parlando. «Un libro antico,

da Firenze, una prima edizione. Puoileggerlo. Anzi, se vuoi, è tuo».

Stefan s’irrigidì. Quando era ancoravivo, quando era solo un ragazzo chesi preparava per l’università,

aveva studiato con entusiasmo leopere di Pico della Mirandola sullaragione e la filosofia. Ebbe

l’improvviso, viscerale desiderio disentire la vecchia pelle e pergamenasotto le dita, vedere i caratteri

rozzi e squadrati delle primetipografie, che in un certo sensosentiva più corretti di quelli dei libri

moderni impaginati al computer.

Non era possibile che Ethan losapesse quando gli aveva offertoquel

particolare libro. Socchiuse gliocchi.

«Cosa ti fa pensare che io lovoglia?», sibilò, sporgendosi sultavolo verso di lui. Sentì il Potere

crescere all’improvviso, alimentatodalla rabbia, ma Ethan evitava diguardarlo negli occhi.

«Io… mi avevi detto che tipiacevano i libri antichi, Stefan»,

disse, facendo una risata finta, losguardo

fisso sul piano del tavolo. «Pensavoche saresti stato interessato».

«No, grazie», disse Stefan, con vocebassa e rabbiosa. Non potevacostringere Ethan a guardarlo negli

occhi con tutte quelle personeintorno, così, dopo qualche secondo,si alzò. «Rifiuto la tua offerta»,disse

sbrigativo. «Addio».

Si diresse verso l’uscita a testa alta,senza guardarsi indietro. Arrivatoalla porta, lanciò un’occhiata a

Matt, che era intento a parlare conun altro studente, e, richiamata la suaattenzione, scrollò le spalle e

scosse la testa, cercando di farglicapire che gli dispiaceva. Mattannuì: sembrava deluso, ma non simise

a discutere la sua decisione.

Nessuno cercò di fermarlo mentrelasciava la stanza. Ma Stefan avvertì

un’inquietante sensazione alla

bocca dello stomaco. C’eraqualcosa di sbagliato lì. Non nesapeva abbastanza per tentare diconvincere

Matt a non unirsi alla Vitale Society,ma decise di tenerla sotto controllo.Chiudendosi la porta alle

spalle, si sentì gli occhi di Ethanaddosso.

32

La luce della luna entrava dalla

finestra e proiettava una lungastriscia luminosa sul letto di Elena.

Meredith si era girata e rigirata perun po’, ma alla fine Elena avevasentito il suo respiro diventare

calmo e regolare. Era felice chel’amica si fosse addormentata. Sistava portando allo sfinimento: si

allenava di continuo, andava inricognizione tutte le notti, tenevasempre le armi in ottime condizioni,

fuori di sé per la frustrazione di nonessere ancora riuscita a trovare

alcun indizio solido sull’identità

dell’assassino.

Ma Elena si sentiva sola a esserel’unica ancora sveglia.

Stirò le gambe sotto le lenzuola e sigirò sul cuscino per appoggiare latesta nella parte più fresca. I rami

bussavano alla finestra, e,strofinando la schiena contro ilmaterasso, Elena cercò di calmare ilturbinio

di pensieri che si agitavano nella sua

mente. Desiderava che Bonnietornasse da loro.

Il bussare alla finestra ricominciò,poi smise e riprese di nuovo, concolpi secchi e perentori.

Lentamente e con un certo ritardo,Elena cominciò a ricordare che irami degli alberi davanti al

dormitorio non toccavano i vetri.Con il cuore che batteva forte, sialzò a sedere, lanciando un gridolino

soffocato.

Dalla finestra sbirciavano occhi nericome la notte, su un volto pallidocome il chiaro di luna. Ci volle

un minuto buono perché il suocervello riprendesse a funzionare,poi finalmente si alzò dal letto e aprìla

finestra. Damon fu così rapido eaggraziato che, quando Elenarichiuse la finestra e si girò, lo trovògià

seduto sul suo letto, appoggiatoall’indietro sui gomiti e totalmente asuo agio.

«Meno male che è una cacciatrice divampiri», disse Damon confreddezza, guardando Meredith, la

quale smorzò un suono lamentosonel cuscino. Il suo sguardo, tuttavia,era affettuoso.

«Sei ingiusto», disse Elena. «Èesausta».

«Un giorno la sua vita potrebbedipendere dall’essere vigile anchequando è esausta», rispose tagliente

lui.

«Ok, ma quel giorno non è oggi»,disse Elena. «Lascia in paceMeredith e dimmi cosa hai scopertosu

Zander». Sedendosi a gambeincrociate sul letto accanto a lui, siprotese in avanti per dargli la suapiena

attenzione.

Lui le prese una mano, intrecciandolentamente le dita alle sue. «Non hoscoperto niente di certo», disse,

«ma ho dei sospetti».

«Che cosa vuoi dire?», chieseElena, distratta. Con l’altra mano,lui le stava massaggiando piano il

braccio, leggero come una piuma, elei notò il suo sguardo attento, comefosse in attesa di un eventuale

segno di rifiuto da parte sua. Elenalo lasciò fare. Che importanzaaveva, dopotutto? Stefan l’aveva

lasciata; non aveva motivo direspingere Damon. GuardòMeredith, ma la ragazza dai capelliscuri era

ancora profondamente addormentata.

Gli occhi di Damon luccicavano alchiaro di luna. Sembrò indovinarecosa pensasse, perché si adagiò

sul letto e, avvicinandosi ancora, latirò a sé con dolcezza. «Devoindagare ancora un po’», disse. «Di

sicuro c’è qualcosa di strano in lui enei ragazzi con cui scorrazzadappertutto. Innanzitutto, sonotroppo

veloci. Ma non penso che Bonnie siain imminente pericolo».

Elena si irrigidì fra le sue braccia.«Che prove hai a riguardo?», chiese.«In ogni caso, non si tratta solo

di Bonnie. Se altre persone sono inpericolo, dobbiamo dare la massimapriorità alla sorveglianza di quei

ragazzi».

«Li terrò d’occhio, non tipreoccupare». Ridacchiò, una risataintima e secca. «Di sicuro lui eBonnie

sono sempre più presi. Sembranoinnamorati persi».

Elena, preoccupata, si divincolòdalle sue mani amorevoli. «Se puòessere pericoloso, e se, come hai

detto, c’è qualcosa di strano in lui,dobbiamo avvisarla. Non possiamostare qui seduti ad aspettare che

quel ragazzo faccia qualcosa dimale. Perché allora potrebbe esseretroppo tardi».

Damon l’attirò di nuovo verso di sé,la mano ferma e salda sul suo fianco.«Avete già tentato di

avvertire Bonnie e non ha

funzionato, giusto? Perché dovrebbeascoltarvi adesso che ha passato più

tempo con lui, ha legato ancora dipiù e non le è successo niente dimale?». Scosse la testa. «Non

funzionerà, principessa».

«Vorrei solo poter fare qualcosa»,disse Elena, con aria infelice.

«Se avessi visto i corpi», disseDamon in tono pensoso, «avreipotuto farmi un’idea più chiara diquello

che c’è dietro. Suppongo che forzarela porta dell’obitorio sia fuoriquestione, vero?».

Elena ci pensò su. «Credo che ormaii corpi non siano più lì», dissedubbiosa, «e non so dove

potrebbero averli portati. Unattimo!». Si alzò a sedere. «Gliagenti di sicurezza del campuspotrebbero

avere qualcosa, non credi? Verbali opersino foto dei cadaveri diChristopher e Samantha. Gli agentidel

campus erano sempre sulla scena delcrimine prima dell’arrivo dellapolizia».

«Possiamo controllare domani,senz’altro», disse lui connoncuranza. «Se può farti sentiremeglio».

La urtava quell’espressioneindifferente, quel tono freddo, comese non gli importasse davvero, e,

ancora una volta, Elena provò quellastrana miscela di desiderio eirritazione che Damon suscitava

spesso in lei. Avrebbe volutospingerlo via e, al tempo stesso,attirarlo più vicino a sé.

Aveva quasi deciso di respingerlo,quando lui si girò per guardarlaapertamente in viso. «Oh, povera

Elena», disse, con un mormoriorassicurante. Con delicatezza, lefece scorrere la mano sul braccio,sulle

spalle, sul collo, posandola, infine,sotto il suo mento. «Non puoiscappare dalle creature del buio,Elena,

non è vero? Ci provi, ma non serve aniente. Vai in un posto nuovo e troviun nuovo mostro». Le

accarezzò il viso con un dito. Quelleparole erano quasi beffarde, ma ilsuo tono era gentile e i suoi occhi

brillavano di commozione.

Lei premette la guancia sulla suamano. Damon era elegante e astuto, eaveva qualcosa che parlava alla

sua parte più segreta e oscura. Nonpoteva negare di essere attratta dalui, di esserne sempre stata attratta,

anche quando si erano incontrati laprima volta e lui l’aveva spaventata.Elena lo amava da quella notte

d’inverno in cui si era destata comevampiro e lui si era preso cura dilei, l’aveva protetta e le aveva

insegnato ciò che le serviva sapere.

Stefan l’aveva lasciata. Non c’eranulla che le impedisse di farlo.«Non sempre voglio scappare dalle

creature del buio, Damon», disse.

Lui rimase un attimo in silenzio,

continuando ad accarezzarle laguancia, poi la baciò. Le sue labbra

erano fresche come seta, ed Elena sisentì come se avesse vagato per orenel deserto e le avessero

finalmente dato un bicchiere d’acquafredda.

Lo baciò con più ardore, lasciandola sua mano per intrecciare le dita aisuoi morbidi capelli.

Staccandosi dalle sue labbra,Damon le baciò il collo condolcezza, aspettando che lei gli

accordasse il

permesso. Elena lasciò ricadere latesta all’indietro per favorirlo. Udìil sibilo del suo respiro fra i denti,

e lui la guardò per un attimo negliocchi, con l’espressione più tenera eaperta che gli avesse mai visto,

poi abbassò di nuovo la bocca sullasua gola.

La doppia puntura di vespa delle suezanne le fece male per un momento,poi si trovò a scivolare nel

buio, seguendo un nastro di dolorosopiacere che la guidava attraverso lanotte, la conduceva a Damon.

Avvertì la sua felicità e lameraviglia di poterla stringere tra lebraccia senza sensi di colpa, senza

riserve. In cambio lei gli mostrò lagioia di stare con lui e la confusioneche provava nel desiderarlo pur

continuando ad amare Stefan, e ildolore per la sua assenza. Nonprovava alcun senso di colpa in quel

momento, ma nel suo cuore c’era un

enorme vuoto dove prima c’eraStefan, e permise a Damon di

vederlo.

Va tutto bene, Elena , sentì che lui lecomunicava, non proprio a parole,ma con l’espressione di un

totale appagamento, come le fusa diun gatto. Voglio solo questo.

33

Ethan, osservò Matt, aveva persocompletamente le staffe. Avevagettato la maschera di calma

cordialità

e stava supervisionando lasistemazione della sala per il ritualed’iniziazione con la veemenza di un

sergente istruttore.

«No!», ringhiò dall’altra parte dellastanza. Attraversò la sala come unafuria e schiaffeggiò la gamba di

una ragazza che, in piedi su unasedia, stava intrecciando rose sullaV di metallo saldata in cima all’arco

centrale.

«Ahi!», strillò la ragazza, lasciandocadere le rose sul pavimento.«Ethan, che problema hai?»

«Non mettiamo niente sulla V,Lorelai», le disse lui con freddezza,e si chinò a raccogliere i fiori.«Devi

portare rispetto ai simboli dellaVitale Society. È una questioned’onore. Quando il nostro capo

finalmente si unirà a noi, dobbiamodimostrargli che siamo disciplinati,che siamo competenti». Le rimise

in mano le rose con malgarbo. «Enon glielo dimostreremo certodrappeggiando di spazzatura ilsimbolo

della nostra organizzazione».

Lorelai rimase a fissarlo a boccaaperta. «Scusa. Ma credevo chefossi tu il capo della Vitale Society,

Ethan».

Tutti avevano smesso di lavorare eosservavano il suo crollo nervoso.Accorgendosi di essere al centro

dell’attenzione, Ethan trasse unprofondo respiro, nell’evidentetentativo di riacquistarel’autocontrollo.

Alla fine si rivolse a tutti, conparole dure e rabbiose. «Stocercando di prepararvi e disistemare questa

stanza per la cerimonia diiniziazione. E lo faccio per voi». Ilsuo tono di voce si alzò sempre dipiù

mentre lanciava intorno sguardi difuoco. «E ora mi accorgo che,

nonostante tutte le vostre promesse,

siete un branco di incompetenti. Nonriuscite nemmeno a sistemare unacandela o a mischiare delle erbe

senza il mio aiuto. Siamo in ritardoe, a questo punto, sarebbe meglio sefacessi tutto da solo».

Matt guardò gli altri candidati. I lorovolti erano scioccati e tesi. Per tuttoquel tempo, anche loro

avevano guardato a Ethan conammirazione, ed erano stati lusingatie incoraggiati dalle sue lodi. Ora la

persona che avevano preso amodello si era rivoltata contro diloro e nessuno sembrava saperecome

reagire. Chloe, che stava disponendodelle candele vicino al grande arco,aveva un’espressione ansiosa e

le labbra serrate. Lanciò una breveocchiata a Matt, poi tornò a guardareEthan.

«Dicci semplicemente che cosa vuoiche facciamo, Ethan», disse Matt,facendo un passo avanti. Cercò

di mantenere un tono neutro erassicurante. «Faremo del nostromeglio per preparare tutto alla

perfezione».

Ethan lo fulminò con lo sguardo.«Non sei riuscito nemmeno aconvincere il tuo amico Stefan aunirsi a

noi», disse acido. «Ti avevoassegnato un compito facile e tu hai

fallito».

«Ehi», disse Matt, offeso. «Non ègiusto. Ho convinto Stefan a venire ea parlare con te. Se non è

interessato, è una sua decisione. Nonè costretto a unirsi a noi».

«Ho seri dubbi sulla tua dedizionealla Vitale Society, Matt», disseEthan in tono piatto. «E la

conversazione con Stefan Salvatorenon è finita». Gli passò davantisdegnoso e gettò una breve occhiata

agli altri candidati, raccolti intorno alui. «Non abbiamo molto tempo.Tornate al lavoro».

Matt sentì arrivare un mal di testache partiva dalle tempie. Per laprima volta si chiese se, in fin dei

conti, volesse davvero unirsi allaVitale Society.

«Potrei aprire questa porta in unattimo», disse Damon conirritazione. «Invece stiamo qui adaspettare».

Meredith sospirò e rigirò con

cautela la forcina per capelli nellaserratura. «Se rompi la porta,Damon,

si accorgeranno subito che qualcunoè entrato nell’ufficio della sicurezzadel campus. Se forziamo la

serratura, invece, possiamomantenere un basso profilo. Haicapito?». La forcina si incastrò inqualcosa,

e Meredith la fece scivolarecautamente verso l’alto, cercando digirarla per bloccare i chiavistelli e

riuscire a muovere il cilindro. Poi laforcina si piegò, e lei perse la giustainclinazione. Grugnì e affondò

la mano nella borsa in cerca diun’altra forcina. «Ventisette armi»,borbottò. «Ho portato ventisette

diversi tipi di armi al college eneanche un grimaldello».

«Be’, non puoi essere pronta atutto», disse Elena. «Che ne dici diusare una carta di credito?»

«Essere pronta a tutto, in un certosenso, è il mio lavoro», borbottò

Meredith. Si sedette sui talloni e

fissò la porta. La serratura erapiuttosto fragile: non solo Damon,ma persino Elena sarebbe riuscita a

forzarla con facilità. Eprobabilmente avrebbe funzionatoanche una carta di credito oqualcosa di simile.

Lasciando cadere la forcina nellaborsa aperta, prese il portafoglio etrovò il tesserino studentesco.

Il tesserino scivolò senza intoppinella fessura tra la porta e il

montante, poi bastò muoverlo un po’

avanti e indietro e – bingo! –Meredith riuscì a far scorrere laserratura e ad aprire la porta.Sorrise a

Elena da sopra la spalla, inarcandoun sopracciglio. «È statostranamente soddisfacente», disse.

Dopo che furono entrati ed ebberorichiuso la porta alle loro spalle,Meredith si accertò che le finestre

fossero oscurate, poi accese la luce.

L’ufficio era arredato in modosobrio: pareti bianche, duescrivanie, ognuna con un computer,una con

una tazza mezza piena dimenticata inun angolo, e uno schedario. Suldavanzale c’era una pianta

moribonda, con le foglie secche eingiallite.

«Siamo sicuri che non arriverànessun poliziotto ad arrestarci?»,chiese nervosamente Elena.

«Te l’ho detto, ho controllato le loro

abitudini», rispose Meredith. «Dopole otto, escono tutti a

pattugliare il campus, eccetto unagente che resta seduto nell’atrio,sotto gli uffici amministrativi. Sitiene

in contatto radio con gli altri e aiutagli studenti che sono rimasti chiusifuori dal dormitorio e cose del

genere».

«Be’, diamoci una mossa», disseDamon. «Non mi attrae molto l’ideadi passare tutta la serata in questa

stanzuccia tetra e angusta».

Il suo tono era allo stesso tempocortese e annoiato, come al solito,ma in lui c’era qualcosa di diverso.

Stava molto vicino a Elena, cosìvicino che le loro braccia sisfioravano, e, sotto lo sguardoattento di

Meredith, alzò la mano peraccarezzarle la schiena con unleggerissimo tocco, solo con lapunta delle

dita. Le sue labbra erano piegate in

un misterioso sorriso, come fossesoddisfatto di sé più del solito.

«Be’?», chiese, ricambiando losguardo di Meredith. «Che facciamoadesso, cacciatrice?».

Elena si allontanò da lui e siinginocchiò davanti allo schedarioprima che Meredith potesserispondere,

facendo scivolare verso di sé ilprimo cassetto. «Qual era ilcognome di Samantha? La suascheda

dovrebbe trovarsi sotto l’iniziale delcognome».

«Dixon», rispose Meredith,cercando di superare il piccoloshock che provava quando qualcunosi

riferiva a Samantha al passato. Erasolo che… era stata una ragazza cosìpiena di vita. «E quello di

Christopher era Nowicki».

Elena rovistò in entrambi glischedari, tirando fuori prima unaspessa cartellina, poi un’altra.

«Trovati».

Aprì la cartella di Samantha e feceun lieve verso di disgusto. «Sono…peggio di quanto pensassi», disse

con voce tremante mentre guardavale fotografie scattate sulla scena delcrimine. Girò un paio di pagine.

«E qui c’è il verbale del medicolegale. Dice che è morta peremorragia».

«Fammi vedere», disse Meredith.Prese la scheda e si costrinse adanalizzare a sua volta le foto della

scena del crimine, casomai le fossesfuggito qualcosa quando era lì.Continuava a trasalire ogni volta che

i suoi occhi si posavano sul poverocorpo inerme di Samantha, cosìdeglutì e si concentrò su altri

particolari diversi dal cadavere: ilpavimento, i muri della sua camera.«Ha perso troppo sangue perché è

stata uccisa da un vampiro? Operché il sangue è stato sparsodappertutto?». Fu orgogliosa diquanto

suonasse ferma la sua voce. Piùferma di quella di Elena, comunque.Porse la cartella a Damon. «Che

cosa ne pensi?», chiese.

Lui prese la cartella e studiò le fotocon distacco, girando qualche paginaper leggere il verbale del

medico legale. Poi tese la manoaffinché Elena gli consegnasse lascheda di Christopher ed esaminò

anche quella.

«Non posso asserirlo con certezza»,

disse dopo qualche minuto, «ma,proprio come i corpi che ho

trovato, potrebbero essere statiuccisi dai lupi mannari, che sonoabbastanza selvaggi da fare scempi

simili. Oppure da vampiri sciatti.Demoni, molto probabile. Anche gliumani possono agire così, se sono

abbastanza motivati». Elena emiseun esile suono di diniego e Damon lerivolse il suo radioso e fulmineo

sorriso. «Oh, non dimenticare chegli esseri umani possono inventare

strumenti di violenza ben più

creativi di quanto riescano a faresemplici mostri affamati». Tornandoserio, abbassò di nuovo lo sguardo

sulle fotografie. «Posso dirvi,comunque, che più di una creatura –o più di una persona – èresponsabile

di questi omicidi».

Tracciò una linea con un dito sullafoto, e Meredith si costrinse aguardare. Gli spruzzi di sangue

formavano ampi archi nella stanza,al di là delle braccia spalancate diSamantha. «Vedete come si sono

formati questi spruzzi di sangue?»,chiese Damon. «Qualcuno l’hatenuta per le mani e qualcuno per i

piedi, e almeno un altro, forse più diuno, l’ha uccisa». Aprì di nuovo lacartella di Christopher. «Stessa

cosa. Questo potrebbe provare che icolpevoli sono i lupi mannari,giacché amano muoversi in branco,

ma non è la prova decisiva. Quasi

tutti possono formare dei gruppi.Persino i vampiri: non tutti sono

autosufficienti come me».

«Matt ha visto solo una persona – oqualunque cosa fosse – vicino alcorpo di Chris», obiettò Elena.

«Ed è arrivato lì poco dopo l’urlo diChristopher».

Damon fece un gesto sprezzante.«Significa solo che sono veloci»,disse. «Un vampiro può scappare

prima che un umano abbia il tempo

di reagire a un grido. Quasi tutte lecreature sovrannaturali sono in

grado di farlo. La velocità fa partedel pacchetto».

Meredith rabbrividì. «Un interobranco di assassini», disse, quasicon distacco. «Era già un incubo che

ce ne fosse uno solo».

«Già, un branco è molto peggio»,concordò Damon. «Andiamo, avetefinito?»

«Aspetta, è meglio se controlliamo

se c’è qualcos’altro e poi diamo unaripulita», disse Elena. «Ti

dispiacerebbe stare di guardia fuori?Ho la sensazione che stiamodavvero sfidando la sorte a rimanere

qui tanto a lungo. Potresti mandarciuna sorta di segnale se vedi arrivarequalcuno o usare il Potere per

liberartene. Per favore».

Damon le rivolse un sorrisoprovocante. «Sarò il tuo cane daguardia, principessa, ma solo perchéme lo

chiedi tu».

Meredith aspettò che fosse uscitoprima di commentare con sarcasmo:«A proposito di cani, ti ricordi

quando Damon ha ucciso il carlinodi Bonnie?».

Elena riaprì il primo cassetto ecominciò a sfogliare le cartelle conmetodo. «Non voglio parlarne,

Meredith. È stata Katherine auccidere Yangtze, comunque».

«Scusa, ma non penso tu ti renda

conto della situazione in cui ti staicacciando», disse Meredith.

«Damon non è l’ideale per unarelazione a lungo termine».

Le mani di Elena tremarono,rallentando l’efficiente attività neglischedari. «Io non… non è così»,disse.

«Non stiamo insieme. Stefan èl’unico con cui voglio avere unarelazione».

Meredith aggrottò la fronte, confusa.«Be’, allora, che…».

«È complicato», la interruppe Elena.«Voglio bene a Damon, lo sai. Stosolo cercando di capire come

potrebbero andare le cose con lui.C’è qualcosa fra noi, c’è semprestato. Ora che Stefan se n’è andato»,

le si spezzò la voce, «devo dargliuna possibilità. Quindi… lasciamostare per il momento, va bene?».

Prese la cartella di Samantha perriporla nel cassetto. Le tremavano lelabbra, e Meredith avrebbe

insistito sull’argomento, perché lei

non aveva alcuna intenzione dilasciar stare. La sua amica era

sconvolta e si era in qualche modolegata a Damon, il pericolosovampiro, molto più di quanto avesse

fatto in passato. Ma Elena non glienediede il tempo. «Ehi», disse. «Checosa pensi che significhi?».

Meredith allungò il collo per vederedi cosa stesse parlando, ed Elenaindicò un punto. Sulla pagina

interna della cartella di Samanthaera stata segnata una grande lettera

V. Meredith prese la cartella di

Christopher. «C’è anche qui», disse,mostrandola a Elena.

«Vampiri?», propose Elena. «LaVitale Society? Cos’altro inizia perV e può avere a che fare con gli

omicidi?»

«Non lo so», cominciò a direMeredith, quando all’improvvisoudirono il rombo del motore di una

macchina che accostava davantiall’edificio. Dalla finestra venne il

verso rauco di un corvo.

«È Damon», disse Elena,richiudendo la cartella diChristopher nello schedario. «Senon vogliamo

obbligarlo a soggiogare l’interoreparto di sicurezza, faremo meglioa uscire di qui alla svelta».

34

«Mi piace come ti sei sistemato»,disse Elena a Damon, guardandosiattorno.

Era rimasta leggermente sorpresaquando lui l’aveva invitata a cena.Un normale appuntamento non era

qualcosa che associasse a Damon,ma, mentre si recava a casa sua, sisentiva fremere di eccitazione e

curiosità. Anche se nellaDimensione Oscura avevano vissutonello stesso palazzo, non aveva maivisto

una casa sistemata da lui. Si reseconto che, nonostante tutta la suasfacciataggine, Damon erastranamente

riservato.

Si sarebbe aspettata che il suoappartamento fosse in stile gotico,decorato in rosso e verde, come i

castelli dei vampiri che avevanovisitato nella Dimensione Oscura.Ma non era affatto così. Lo stile era

minimalista, raffinato ed elegantenella sua semplicità, con paretichiare e pulite, tante finestre, mobiliin

vetro e metallo, tinte fredde edelicate.

In qualche modo, gli si addiceva. Senon scrutavi troppo a fondo nei suoiscuri occhi antichi, avresti

potuto scambiarlo per un giovane eaffascinante modello, o per unarchitetto, vestito di nero, elegante e

profondamente ancorato al mondomoderno.

Ma non del tutto moderno. Elena sifermò in salotto per ammirare lavista sulla città: le stelle brillavano

nel cielo sopra le tenui luci dellecase e dei fari delle automobili sulla

strada. Su un tavolo di vetro e

acciaio cromato, posto sotto unafinestra, un oggetto splendeva con lastessa intensità delle stelle.

«Che cos’è?», chiese Elena,prendendolo in mano. Era una sferadorata coperta da fini disegni di

diamanti, della misura giusta perstare comodamente nel palmo di unamano.

«Un tesoro», rispose sorridendoDamon. «Vediamo se riesci atrovare l’apertura».

Elena tastò la sfera con attenzione,finché non trovò un gancio abilmentenascosto e lo premette. La sfera

si aprì nelle sue mani, rivelando unapiccola figura dorata. Un colibrì,pensò Elena, mentre lo teneva in

alto per ispezionarlo: nella piccolascultura d’oro erano incastonatirubini, smeraldi e zaffiri.

«Gira la chiave», disse lui,fermandosi alle sue spalle eposandole le fredde mani sui fianchi.Elena

trovò la piccola chiave sul dorsodell’uccello e la girò. Il colibrìcurvò il collo e aprì le ali,muovendosi

dolcemente, con lentezza, mentrecominciava a suonare una delicatamelodia.

«È bellissimo», disse.

«Fatto per una principessa», disseDamon, con gli occhi fissisull’uccello. «Un raffinatogiocattolino,

dalla Russia prerivoluzionaria.

C’erano ottimi artigiani, a queitempi. Un bel posto in cui vivere,

comunque, se non eri un contadino.Palazzi, festini e cavalcate nellaneve su slitte stracolme di pellicce».

«Eri in Russia durante larivoluzione?», chiese Elena.

Lui scoppiò in una risata secca eacuta. «Ero lì prima dellarivoluzione, mia cara. “Sparisciprima che le

cose si mettano male”, questo èsempre stato il mio motto. Non ho

mai avuto valide ragioni perrimanere

e vedere come andava a finire.Finché non ho incontrato te».

Quando la musica smise di suonare,Elena si voltò per guardarlo infaccia. Lui le sorrise e le prese la

mano, chiudendo di nuovol’uccellino nella sfera. «Tienilo»,disse. Lei cercò di protestare –doveva

avere un valore inestimabile – malui si limitò a scrollare le spalle.

«Voglio che lo abbia tu», disse.

«Inoltre, ho tantissimi oggettipreziosi. Tendi ad accumulare lecose quando vivi il tempo diparecchie

vite umane».

L’accompagnò nella sala da pranzo,dove il tavolo era apparecchiato peruno. «Hai fame, principessa?»,

chiese Damon. «Ti ho presoqualcosa da mangiare».

Le servì una zuppa buonissima –

Elena non riconobbe gli ingredienti,ma la sentì morbida e vellutata

sulla lingua, con un leggero accennodi spezie – seguita da un uccellinoarrosto, che lei dissezionò

attentamente con la forchetta,sentendo lo scricchiolio dellepiccole ossa che si spezzavano.Damon non

toccò cibò, lui non mangiava mai,ma la guardò sorseggiando unbicchiere di vino. Sorrideva quandolei

raccontava delle lezioni e annuivaserio quando lei gli diceva delleronde notturne, che stavano

richiedendo un pesante tributo allasalute di Meredith.

«È stato meraviglioso», disse Elenaalla fine, spiluccando ancora lasontuosa torta di cioccolato che le

aveva portato per dessert. «Pensoche sia il pasto migliore che abbiamai fatto».

Lui sorrise. «Voglio darti il megliodi ogni cosa», disse. «Sai, dovresti

avere il mondo ai tuoi piedi».

A quelle parole Elena sentì qualcosafremere dentro di sé. Posò laforchetta e si alzò, avvicinandosialla

finestra per guardare di nuovo lestelle. «Sei stato dappertutto, non èvero, Damon?». Strinse i palmi

intorno al bicchiere.

Lui si avvicinò, si fermò alle suespalle e la fece voltare perché loguardasse in faccia, accarezzandolei

capelli con delicatezza. «Oh,Elena», disse. «Sono statodappertutto, è vero, ma il mondocontinua a

cambiare, così è sempre nuovo edeccitante. Ci sono così tanti postiche vorrei mostrarti, per poterli

vedere attraverso i tuoi occhi. Cisono tantissime cose là fuori,tantissima vita da vivere».

Le diede un bacio sul collo,premendo delicatamente i caninisulla vena pulsante a un lato dellagola,

poi le mise le mani sui fianchi e lafece voltare di nuovo verso lafinestra, dove una miriade di stellesi

stendeva nel cielo notturno. «Lamaggior parte delle persone nonvede neanche un decimo di ciò che il

mondo umano ha da offrire», lesussurrò nell’orecchio. «Faremocose straordinarie insieme, Elena».

Elena sentiva il suo fiato caldo sullagola. «Sii la mia principessaoscura».

Elena si appoggiò a lui, tremando.

Caro diario,

non so più chi sono.

Stasera, con Damon, riuscivo quasia immaginare come sarebbe stata lamia vita se avessi accettato ciò chemi offriva, diventando la sua

“principessa oscura”. Noi due, manonella mano, forti, bellissimi e liberi.Avere tutto ciò che voglio senzadover alzare un dito: gioielli, vestiti,pietanze meravigliose. Una vita al disopra delle solite preoccupazioni, in

qualche posto lontano da qui.Sperimentare e vedere meraviglieche

ora non posso nemmeno immaginare.

Ma sarebbe un mondo senza Stefan.È vero, lui non vuole avere piùniente a che fare con me. Ma so chese mi vedesse con Damon, non

solo mentre lo bacio, ma come luimi vorrebbe, ne soffrirebbe molto. Enon posso sopportare di fargli unacosa del genere.

È come se davanti a me ci fossero

due strade. Una va verso la luce delsole, verso la ragazza normale chepensavo di voler essere: feste,

lezioni e alla fine un lavoro, unacasa e una vita ordinaria. E ciò chevuole darmi Stefan. L’altra conduceall’oscurità, con Damon, e solo ora

comincio a capire quanto questomondo abbia da offrire, e quanto iovoglia sperimentare tutto ciò checontiene.

Ho sempre pensato che Stefansarebbe rimasto al mio fianco sulsentiero della luce. Ma ora che l’ho

perso, quel sentiero mi sembra cosìsolitario. Forse il sentiero oscuro èdavvero il mio futuro. Forse haragione Damon: il mio posto è conlui, nella notte.

«Muoio dalla voglia di vedere lamia sorpresa». Bonnie ridacchiavamentre lei e Zander, tenendosi per

mano, attraversavano il prato vicinoall’edificio di scienze. «Sei cosìromantico. Aspetta che lo dica ai

ragazzi».

Lui le sfiorò la guancia con un bacio

leggero come una piuma. Le suelabbra erano calde. «Sanno già che

per te ho perso tutti i miei punti distile. Ho cantato il karaoke con tel’altra sera».

Bonnie ridacchiò. «Dopo che ti hoiniziato a Dirty Dancing, nonavremmo potuto far altro che cantareil

gran duetto, giusto? Non riescoancora a credere che tu non avessimai visto il film».

«È perché una volta facevo cose da

maschio», ammise Zander. «Ma hocompreso quanto fossero errate

le mie abitudini». Le rivolse uno deisuoi lenti sorrisi, e Bonnie sentìquasi cedere le ginocchia. «È un

film carino».

Giunti alla base della rampaantincendio, Zander l’aiutò a salirepoi si arrampicò dietro di lei.Quando

arrivarono sul tetto, lui, con un gestoampio, indicò il panorama davanti aloro. «Per il nostro sesto

anniversario settimanale, Bonnie,una ricostruzione del nostro primoappuntamento».

«Oh! Che dolce!». Bonnie si guardòattorno. C’era la logora copertadell’esercito, ingombra di scatole

di pizza e lattine di soda. Il cielorisplendeva di stelle, come seisettimane prima. Era una cosa molto

tenera; un’idea romantica, anche seil loro primo appuntamento non erastato così straordinario. Poi si

corresse: in realtà, era stato un

appuntamento piuttostostraordinario, pur nella suasemplicità.

Bonnie prese posto sulla coperta,poi sbirciò nel cartone di pizza e lesfuggì un sorriso. Olive, salsiccia

e funghi. La sua pizza preferita.«Vedo che, comunque, c’è stato unmiglioramento in questa

ricostruzione».

Lui si sedette accanto a lei,facendole scivolare un bracciointorno alle spalle. «Certo, ora so

cosa ti

piace sulla pizza», disse. «Devoprevenire i desideri della miaragazza».

Lei gli si accoccolò sotto il braccio.Mangiarono la pizza guardando lestelle e parlarono intimamente di

questo e di quello. Quando finironola pizza, Zander si pulì con cura ledita unte con un tovagliolo, poi

prese le mani di Bonnie fra le sue.«Ho bisogno di parlarti», disse intono serio, fissandola intensamente

con i suoi occhi celesti.

«Va bene», rispose lei, sentendo unsussulto di panico nello stomaco. Disicuro Zander non l’avrebbe

portata fin lassù e non avrebbericreato il loro primo appuntamento,se avesse avuto intenzione di

lasciarla. No, che idea assurda. Malui aveva un’aria così solenne epreoccupata. «Non sei malato,

vero?», chiese, terrorizzata aquell’idea.

Lui sollevò un angolo della bocca inun sorriso.

«Sei così divertente, Bonnie», disse.«Dici sempre la prima cosa che tiviene in mente. Questo è uno dei

motivi per cui ti amo». Bonnie sentìil cuore saltarle in gola e il solitorossore salirle alle guance. Zander

l’amava?

Lui si fece di nuovo serio. «Dicodavvero», disse. «So che è troppopresto e non devi sentirti in obbligo

di rispondere, ma voglio che tusappia che mi sto innamorando di te.Sei straordinaria. Non mi sono mai

sentito così. Mai».

Bonnie tirò su col naso e strinse lamano di Zander, mentre negli occhile spuntavano lacrime di felicità

e di sorpresa. «Anch’io provo lestesse cose», disse con un fil divoce. «Queste ultime settimane sono

state fantastiche. Cioè, non penso diessermi mai divertita tanto. Stiamobene insieme, lo sai?».

Si baciarono e fu un bacio tenero,lungo e lento. Bonnie si appoggiò alui e sospirò soddisfatta. Non si

era mai sentita così a suo agio. Poilui si scostò.

Lei fece per riabbracciarlo, ma luile prese di nuovo le mani e laguardò negli occhi. «È perché mi sto

innamorando di te», disselentamente, «che devo dirti una cosa.Hai il diritto di sapere». Serrò conforza

le palpebre per un momento, poi

riaprì gli occhi, guardandola comese volesse entrare nella sua testa e

scoprire come avrebbe reagito a ciòche stava per dirle. «Sono un lupomannaro», disse in tono piatto.

Bonnie restò seduta immobile per unlungo minuto, come a cercare dicomprendere il senso delle sue

parole. Poi lanciò un urlo e tirò viadi scatto le mani da quelle di lui,saltando in piedi. «Oh, no», disse

con voce strozzata. «Oh, mio Dio».Terribili immagini si affollavano

nella sua mente: il volto di Tyler

Smallwood che si torceva,allungandosi grottescamente in unmuso, i suoi nuovi occhi gialli con le

pupille a fessura che la guardavanocon odio, maligni e assetati disangue. Meredith che si accasciavasul

letto come una bambolaabbandonata, guardando lei ed Elenacon occhi vacui mentre raccontavacome il

corpo di Samantha fosse stato

dilaniato. I capelli chiarissimi cheMeredith aveva intravisto per unistante

mentre inseguiva una figura vestitadi nero in fuga da una ragazzaurlante. Le ferite scure sul fianco di

Zander.

«Meredith ed Elena avevanoragione», disse, indietreggiando.

«No! No, non è così, Bonnie, tiprego», disse Zander, alzandosisubito in piedi per poterla guardarein

faccia. Il suo volto era pallido eteso. «Sono un lupo mannaro buono,lo giuro, io non… Noi non facciamo

del male alla gente».

«Bugiardo!», gridò lei, furiosa. «Hoconosciuto dei lupi mannari, Zander.Per diventarlo devi essere un

assassino!». Detto ciò, se ne andò,scendendo goffamente dalla rampaantincendio verso la relativa

sicurezza del terreno. “Non guardartiindietro, non guardarti indietro”, erail martellante ritornello nella

sua testa. “Scappa, vai via”.

«Bonnie!», chiamò Zander dallacima della rampa antincendio, chevibrò con un clangore metallico

mentre lui scendeva dietro di lei.

Arrivata all’ultimo gradino, Bonniesaltò gli ultimi due metri che laseparavano dal suolo e atterrò

malamente. Si raddrizzò e cominciòsubito a correre. Doveva entrare daqualche parte, doveva trovare un

posto in cui non sarebbe stata sola.

Con la coda dell’occhio, intravidedei movimenti fra le ombre degliedifici. Jared e Tristan e, oh no, il

grosso, muscoloso Marcus. Lupimannari, realizzò, proprio comeZander, parte del suo branco.Pensava

di non poter correre più veloce dicosì, ma quando li vide emergerealla luce dei lampioni, fece un

ulteriore scatto.

«Bonnie!», gridò Jared con voceroca, e cominciarono a inseguirla.

Bonnie correva più in fretta diquanto avesse mai fatto, con il pettoscosso da singhiozzi affannati, ma

non era ancora abbastanza veloce.Loro erano subito dietro di lei;sentiva i passi pesanti che si

avvicinavano.

«Vogliamo solo parlarti, Bonnie»,gridò Tristan, con voce calma epacata. Non aveva nemmeno

l’affanno.

«Fermati», disse Marcus. «Aspetta».

E, oh no, si stava avvicinando dilato, e Tristan avanzava

dall’altra parte, tagliandole lastrada. Erano sempre più vicini, lastavano accerchiando.

Si fermò, mise le mani sulleginocchia, ansimando mentrecercava di prender fiato. Lacrimebollenti le

scorrevano sulle guance,gocciolando dal mento. L’avevanocatturata. Aveva corso, più veloceche

poteva, ma non era riuscita ascappare. I tre ragazzi lacircondarono, le preclusero ogni viadi fuga,

fissandola guardinghi.

Avevano finto di essere suoi amici,ma ora le giravano attorno, comecacciatori. Avevano mentito, tutti.

«Mostri», mormorò, come unamaledizione, e si raddrizzò, ancoraansante. L’avevano presa, ma non

l’avevano ancora sconfitta. Era unastrega, no? Chiuse le mani a pugno e

cominciò a cantilenare sottovoce

gli incantesimi di protezione e difesache le aveva insegnato la signoraFlowers. Non pensava di poter

battere tre lupi mannari: non avevagli strumenti, non aveva il tempo difare un cerchio magico. Ma forse

poteva far loro molto male.

«Ragazzi, aspettate. Fermatevi».Zander stava correndo verso di loro,sul prato del college. Anche

attraverso le calde lacrime che le

appannavano la vista, Bonnie notòquanto fosse bello, con quanta grazia

e naturalezza corresse, divorando ledistanze con le sue lunghe gambe, eil cuore le fece male, ancora di

più. L’aveva amato così tanto.Continuò a cantilenare, sentendo ilpotere aumentare dentro di lei comela

pressione in una lattina di soda che èstata scossa, pronta a scoppiare.

Zander si fermò, quando liraggiunse, e afferrò la spalla di

Marcus con una mano. I suoi amicilo

guardarono.

«È scappata via da noi», disseTristan, in tono confuso e risentito.

«Sì», disse Zander. «Lo so». Bonniesi accorse che anche lui aveva leguance rigate di lacrime e che non

faceva nulla per asciugarle. Stavasolo lì a guardarla, con i suoibellissimi occhi celesti ben aperti,tristi

da spezzare il cuore. «State indietro,ragazzi», disse, senza distogliere losguardo da lei. Poi, rivolto a

lei, aggiunse: «Fai quel che devi».

Bonnie smise di cantilenare,lasciando che il potere accumulatosi esaurisse. Inspirò a fondo e,veloce

come una freccia, con il cuore chebatteva come volesse uscirle dalpetto, ricominciò a correre.

35

La notte dell’iniziazione dei nuovimembri della Vitale Society erafinalmente arrivata. L’enorme sala

era rischiarata solo dalla luce doratadei lunghi ceri e dalle alte fiammedelle torce appese ai muri. Nella

luce tremula, gli animali scolpiti nellegno di archi e pilastri sembravanoquasi muoversi. Matt, vestito

con una tunica nera col cappuccio,come gli altri iniziati, si guardavaattorno con orgoglio. Avevano

lavorato duro, e la stanza aveva un

aspetto fantastico.

Davanti a loro, sotto le altissimearcate, era stato sistemato un lungotavolo, drappeggiato con un pesante

panno di raso rosso, che sembravauna sorta di altare. Al centro deltavolo c’era un enorme catino di

pietra, simile a un fonte battesimale,circondato da rose e orchidee. Perterra erano sparsi altri fiori, e il

profumo dei petali schiacciati sotto ipiedi era così forte che dava allatesta. I candidati erano allineati in

fila, alla stessa distanza l’unodall’altro, davanti all’altare.

Come se avesse percepito l’orgogliodi Matt per il modo in cui avevanosistemato ogni cosa, Chloe

spinse un po’ indietro il cappuccionero e si chinò verso di lui perbisbigliare: «Una favola, eh?». Mattle

sorrise. Cosa cambiava il fatto chelei uscisse con un altro? Lei glipiaceva in ogni caso. Voleva che

restassero amici, anche se fra loro

non ci sarebbe mai potuto esserealtro che l’amicizia.

Si sistemò la tunica, non del tuttocosciente di ciò che stava facendo; iltessuto era pesante e non gli

piaceva il modo in cui gli bloccavala visione periferica.

I membri effettivi della VitaleSociety, con i volti mascherati, simuovevano in silenzio tra icandidati,

porgendo calici colmi di un liquidomisterioso. Matt annusò il suo e

sentì l’odore dello zenzero e della

camomilla, oltre a essenze menofamiliari: così quello era il modo incui erano state usate le erbe.

Sorrise alla ragazza che gli porgevail calice, ma non ottenne risposta.Gli occhi dietro la maschera gli

scivolarono addosso come se non lovedessero, poi la ragazza passòoltre. Dopo essere diventato un

membro effettivo della VitaleSociety, avrebbe scoperto chi sinascondeva dietro quelle maschere.

Bevve

qualche sorso dal calice e fece unasmorfia di disgusto: aveva un saporestrano e amarognolo.

Il morbido fruscio prodotto dallefigure incappucciate che simuovevano per la stanzas’interruppe di

colpo con la consegna dell’ultimocalice, e i Vitale mascherati siritirarono in silenzio sotto gli archialle

spalle dell’altare e là rimasero a

osservare. Ethan passò davantiall’altare e spinse indietro ilcappuccio.

«Benvenuti», disse, con le mani teseverso i candidati lì riuniti.«Benvenuti, infine, al vero potere».La

luce delle candele tremolava sul suovolto, conferendogli un aspettonuovo e quasi sinistro. Matt

contrasse nervosamente le labbra emandò giù un altro sorso dell’amaroinfuso di erbe.

«Un brindisi!», gridò Ethan. Sollevòil calice e, di fronte a lui, i candidatifecero altrettanto. Dopo un

attimo di esitazione, aggiunse: «Avoi che state per oltrepassare il veloe scoprire la verità».

Matt sollevò il calice e lo vuotòinsieme agli altri candidati. L’infusogli lasciò una sensazione come di

sabbia sulla lingua e se la strofinòdistrattamente contro i denti.

Ethan osservò la fila di candidati esorrise, guardandoli negli occhi uno

per volta. «Avete lavorato

duramente», disse in tono affettuoso.«Ognuno di voi ha raggiunto l’apicedella propria intelligenza, della

propria forza e dell’abilità dileadership. Insieme, siete unapotenza di cui tenere conto. Viabbiamo resi

perfetti».

Matt, per educazione, si trattennedall’alzare gli occhi al cielo. Erabello ricevere complimenti, certo,

ma a volte Ethan era un po’esagerato: perfetti? Dubitava cheuna cosa del genere fosseverosimile.

Piuttosto, gli pareva che fossesempre possibile impegnarsi permigliorare in qualcosa, o moderarsiin

un’altra. Puoi sempre desiderare dimigliorare. Ma, dopotutto, anche sela perfezione fosse stata

possibile, sospettava che ci sarebbevoluto ben più che qualche corsa aostacoli e qualche esercizio di

gruppo per realizzarla.

«E ora, finalmente, è giunto ilmomento di scoprire il motivo percui siete qui», continuò Ethan. «È il

momento di portare a terminel’ultimo stadio della vostratrasformazione da studenti comuni avere

personificazioni del potere». Presedall’altare una coppa d’argentolucida e pulita e la immerse nel

profondo catino di pietra davanti asé. «Ogni passo avanti

nell’evoluzione richiederà qualchesacrificio.

Mi rammarico per il dolore che ciòvi arrecherà. Vi sia di consolazionela consapevolezza che ogni

sofferenza è temporanea. Anna, vieniavanti».

Fra i candidati serpeggiò un senso didisagio. Tutto quel parlare disofferenza e sacrificio era diverso

dalla solita enfasi che Ethan ponevasull’onore e il potere. Matt siaccigliò. C’era qualcosa di strano.

Ma Anna, che appariva piccola nellasua lunga tunica, si avvicinò senzaesitazioni all’altare e spinse

indietro il cappuccio.

«Bevi da me», disse Ethan,porgendole la coppa d’argento.Anna batté le palpebre, tentennando,e poi,

con gli occhi fissi su Ethan, gettòindietro la testa e vuotò la coppa.Mentre gliela restituiva, si leccò le

labbra, per un riflesso involontario,e Matt cercò di scrutarla con più

attenzione. Nella tremolante luce

delle candele, le sue labbraapparivano troppo lucide e di unrosso innaturale.

Poi Ethan condusse Anna dall’altraparte dell’altare e la prese fra lebraccia. Sorrise e il suo volto si

distorse in una smorfia, gli occhi sidilatarono, le labbra si ritrassero inun ringhio. I denti sembravano

molto lunghi e aguzzi. Matt cercò dilanciare un grido di avvertimento,ma si accorse con orrore di non

poter muovere le labbra e di nonpoter tirare il fiato per gridare.

D’un tratto capì di essere stato unostupido.

Ethan affondò le zanne nella gola diAnna. Matt tese i muscoli, cercandodi correre verso di loro, di

attaccare Ethan e separarlo a forzadalla ragazza. Ma non riusciva amuoversi. Doveva essere sotto

qualche tipo di coercizione psichica.Oppure c’era qualcosa nellabevanda, qualche ingrediente

magico,

che li aveva resi tutti calmi e docili.Senza poter far nulla, osservò Annadibattersi per qualche secondo,

poi afflosciarsi, rovesciando gliocchi.

Ethan lasciò cadere il corpo dellaragazza sul pavimento, senzacerimonie. «Non abbiate paura»,disse

con gentilezza, fissando i voltiraggelati e inorriditi dei candidati.«Tutti noi», disse, indicando i Vitale

mascherati che stavano in silenzioalle sue spalle, «di recente abbiamocompletato lo stesso percorso di

iniziazione. Dovete soltantoprepararvi a soffrire una piccolamorte temporanea e poi sarete deinostri,

diventerete veri Vitale. Non saretemai vecchi, non morirete mai. Saretepotenti per sempre».

Con i denti bianchi e gli occhi doratiche brillavano alla luce dellecandele, Ethan tese la mano verso il

candidato successivo, mentre Mattcercava di nuovo di urlare, dicombattere. Ethan continuò: «Stuart,

vieni avanti».

Elena aveva un odore così buono,ricco e dolce come un frutto esoticomaturo. Damon avrebbe voluto

nascondere il viso nella pellemorbida nell’incavo della sua gola erestare un paio di secoli in quella

posizione, solo per inalare il suoprofumo. Infilando le braccia sottole sue, la attirò più vicino.

«Non puoi entrare con me», gliripeté Elena per la seconda volta.«Forse riuscirò a convincere Jamesa

parlarmi, perché è una questione cheriguarda i miei genitori, ma pensoche non mi dirà niente se c’è

qualcun altro nella stanza.Qualunque sia la verità sulla VitaleSociety e sui miei genitori, pensoche sia

qualcosa che lo imbarazza. O lospaventa o… non lo so». Senza farcaso a ciò che faceva, Elena si

aggrappò con più forza alle bracciadi Damon.

«Bene», disse lui, testardo.«Aspetterò fuori. Cercherò di nonfarmi vedere dal professore. Ma non

voglio che te ne vada in giro da solaper il campus di notte. Non èsicuro».

«Certo, Damon», rispose lei, conuna convincente imitazione dimansuetudine, e gli appoggiò la testa

sulle spalle. Il profumo di limonedel suo shampoo si mescolò

all’odore caratteristico di Elena.Damon

emise un sospiro di appagamento.

Sapeva che lei gli voleva bene, eStefan era uscito di scena. Eraancora giovane, la sua principessa, eun

cuore umano può guarire. Magari,ora che Stefan non c’era più, lei sisarebbe finalmente accorta di

quanto fossero simili, nell’anima enel corpo, e avrebbe capito cheerano fatti l’uno per l’altra.

In ogni caso, al momento era sua.Alzò la mano libera per accarezzarleil capo, sentì sotto le dita i suoi

capelli, docili e morbidi come laseta, e sorrise.

La casa del professore era appenafuori dal campus, proprio di fronteai cancelli dorati dell’ingresso.

Erano quasi arrivati ai confini delcampus, quando una presenzafamiliare, che li seguiva da un pezzo

nascosta nell’ombra, si avvicinò.

Damon si girò di scatto per scrutarele ombre, tirando Elena con sé.

«Che cos’è?», chiese lei, allarmata.

Vieni fuori, pensò Damon,esasperato, inviando il suomessaggio silenzioso verso le ombrepiù fitte alla

base di un boschetto di querce. Saiche non puoi nasconderti da me.

Un’ombra scura si staccò dalle altre,avanzando sul sentiero. Stefan avevagli occhi fissi a terra, le

spalle curve, le mani aperte eabbandonate lungo i fianchi. Elenasussultò ed emise un gemitosoffocato di

dolore.

Stefan aveva un aspetto orribile,pensò Damon, non senzacompassione. Il suo volto apparivateso e

incavato, gli zigomi più sporgentidel solito, e c’era da scommettereche non si stava nutrendo

abbastanza. Sentì una fitta di

turbamento. Non godeva nelprocurare dolore al fratello. Nonpiù.

«E allora?», chiese, sollevando lesopracciglia.

Stefan lo guardò. Non voglio litigarecon te, Damon, disse in silenzio.

Perfetto, neanch’io, ribatté lui, eStefan piegò la bocca in un mezzosorriso, mostrando di aver ricevuto

il messaggio.

«Stefan», disse Elena

all’improvviso, come se quellaparola le fosse stata strappata dalpetto. «Ti

prego, Stefan».

Lui continuò a tenere gli occhi fissi aterra, come se volesse evitare diincrociare il suo sguardo.

«Sentivo che eri nelle vicinanze,Elena, e avvertivo la tua ansia»,disse in tono stanco. «Pensavo che

fossi in pericolo. Mi sono sbagliato,mi spiace. Non sarei dovuto venire».

Lei si irrigidì e abbassò le lungheciglia per nascondere – Damon neera quasi certo – le lacrime sul

punto di sgorgare.

Seguì un lungo silenzio. Infine,irritato dalla tensione, Damon sisforzò di allentarla. «Sai», disse con

naturalezza, «ieri notte abbiamo fattoirruzione nell’ufficio della sicurezzadel campus».

Stefan alzò lo sguardo con un lampod’interesse. «E allora? Avetetrovato qualcosa di utile?»

«Foto della scena del crimine, manon si sono rivelate granché utili»,rispose Damon, alzando le spalle.

«Le cartelle erano segnate conlettere V in inchiostro nero, quindistiamo cercando di capire cosa

significhi. Elena sta andando aparlare con il suo professore dellaVitale Society, per vedere se ha

qualcosa a che fare con gli omicidi».

«La… Vitale Society?», chieseesitante Stefan.

Damon fece un gesto sbrigativo.«Una società segreta degli anni incui i genitori di Elena frequentavano

il Dalcrest», disse. «Chissà? Forsenon vuol dire niente».

Portandosi una mano sul viso, Stefansembrò immerso in una profondariflessione. «Oh, no», mormorò.

Poi, guardando Elena per la primavolta, chiese: «Dov’è Matt?»

«Matt?», echeggiò Elena, distoltadalla sua malinconicacontemplazione di Stefan. «Uhm,

penso che

avesse una specie di riunionestasera. Con la squadra di football,magari?»

«Devo andare», disse brusco Stefan,e sparì. Grazie ai suoi sensi affinati,Damon sentì i passi leggeri

del fratello che si allontanavano infretta. Ma sapeva che Elena avevavisto soltanto un’immagine dai

contorni sfocati che svaniva insilenzio.

Lei si voltò a guardarlo, con il visocontratto in una smorfia che lasciavapresagire nuove lacrime.

«Perché mi segue se non vuoleparlarmi?», chiese, con vocearrochita dal dolore.

Damon digrignò i denti. Ce la stavamettendo tutta per essere paziente,per aspettare che Elena gli

donasse il suo cuore, ma leicontinuava a pensare a Stefan. «Tel’ha detto lui», rispose, mantenendoun

tono calmo. «Voleva solo accertarsiche fossi al sicuro, non vuole starecon te. Ma io lo voglio».

Riprendendola sottobraccio, laspinse gentilmente a proseguire.«Andiamo?».

36

Quando aprì la porta e vide Elena,James contrasse il viso in unasmorfia che durò appena unafrazione

di secondo e fece un passo indietro,come se stesse valutando

l’opportunità di chiuderle la porta in

faccia. Poi parve ripensarci e aprì dipiù la porta, increspando il volto nelsuo familiare sorriso.

«Che sorpresa, Elena», disse. «Miacara, è un’ora piuttosto insolita perle visite. Temo, anzi, che non

sia il momento migliore». Si schiarìla gola. «Mi farà molto piacerevederti al college, durante gli orari

di ricevimento. Lunedì e venerdì,ricordi? Ora, se puoi scusarmi…».E, senza smettere di sorridere, si

fece avanti e cercò effettivamente dichiuderle la porta in faccia.

Ma Elena alzò le mani di scatto eglielo impedì. «Aspetti», disse.«James, so che non vuole parlarmi

delle spille, ma è importante. Hobisogno di sapere di più sulla VitaleSociety».

Il professore la guardò con i suoivividi occhi neri, poi distolse losguardo, come imbarazzato. «Sì,

be’», disse, «il problema,naturalmente, è che le visite di una

studentessa non accompagnata

all’abitazione privata di unprofessore – e questo vale perchiunque, mia cara, non prenderlasul

personale – non sono viste di buonocchio. Sai, viviamo in un mondo dimalelingue», e, con un risolino

soffocato, spinse deciso la porta.«Sarà meglio vederci nei tempi e neiluoghi appropriati».

Elena spinse indietro la porta. «Nonprovi a farmi credere che sta

cercando di mandarmi via perché la

mia visita è inappropriata», replicòin tono piatto. «Non può liberarsi dime così facilmente. Ci sono

persone in pericolo, James».

Poi proseguì ostinatamente: «So chelei e i miei genitori eravate membridella Vitale Society. Ho

bisogno che mi dica qualunque cosami stia nascondendo su quel periododella vostra vita. Penso che i

Vitale siano connessi agli omicidi e

alle sparizioni nel campus, edobbiamo fermarli. Non ho altrepiste

in questo momento, James, mi restasolo lei». Lui esitò, gli siinumidirono gli occhi per lacommozione ed

Elena lo costrinse a guardarla infaccia. «Moriranno altre persone»,disse in tono duro, «ma lei potrebbe

salvarle. Allora?».

James vacillò vistosamente, poi,tutt’a un tratto, sembrò arrendersi e

curvò le spalle. «Non so se ciò che

posso dirti servirà a qualcosa. Nonso niente sugli omicidi. Ma è meglioche entri», disse, e la lasciò

entrare in casa, facendole stradalungo il corridoio. La cucina erapulitissima, con superfici bianche

immacolate. Sulla credenza eranodisposti vasetti di rame e cestiniintrecciati, e dai ganci pendevano

strofinacci e asciugamani. Stampeincorniciate di frutti e piante eranoappese al muro, a intervalli

regolari. James si sedette al tavolo,poi si rialzò e cominciò a prepararleuna tazza di tè.

Elena attese paziente finché ilprofessore posò sul tavolo due tazzee si sedette di fronte a lei. «Latte?»,

chiese con eccessiva sollecitudine,porgendole il bricco, ma evitando diguardarla negli occhi.

«Zucchero?»

«Sì, grazie», rispose lei. Poi sisporse sul tavolo, gli coprì le manicon le sue e non le spostò finché lui

non alzò gli occhi per guardarla infaccia. «Parli», dissesemplicemente.

«Non so niente degli omicidi», dissedi nuovo James. «Credimi, non avreitenuto questo segreto se

avessi saputo che avrebbe potutomettere a rischio la vita diqualcuno».

Elena annuì. «Lo so», disse. «Maanche se non ci fosse un nesso congli omicidi, se il segreto riguarda i

miei genitori, merito di conoscerlo»,

aggiunse.

Lui emise un lungo sospiro. «Tutto èsuccesso tanto tempo fa, capisci»,disse. «Eravamo giovani e

piuttosto ingenui. A quei tempi, laVitale Society era un’associazionevotata al bene. Adoravamo gli

spiriti della natura e prendevamo lenostre energie dalla sacra Terra.Eravamo una forza positiva nella

comunità, interessati principalmenteall’amore, alla pace e allacreatività. Ci mettevamo al servizio

degli

altri. Ho sentito dire che la VitaleSociety è cambiata da allora, che glielementi più oscuri hanno preso il

sopravvento. Ma non ne so molto dipiù. Sono anni che non partecipoalle attività dei Vitale, da quando si

svolsero gli eventi che sto pernarrarti».

Elena sorseggiò il tè e attese. Jamesle rivolse un rapido sguardo, quasitimido, poi tornò a fissare il

tavolo. «Un giorno», disselentamente, «venne a uno dei nostriincontri segreti uno strano individuo.

Era…», chiuse gli occhi erabbrividì. «Non avevo mai visto unessere di così puro potere, o che

emanasse una tale sensazione dipace e amore. Noi tutti, nessunoescluso, eravamo convinti di esserein

presenza di un angelo. Si definì unGuardiano». D’istinto, Elenarisucchiò l’aria tra i denti, sibilando.

James spalancò gli occhi e le rivolseun lungo sguardo. «Sai già di loro?».A un suo cenno affermativo,

alzò un po’ le spalle. «Be’, puoiimmaginare l’effetto che ebbe su dinoi».

«Che cosa voleva il Guardiano?»,chiese Elena, sentendo un nodo allostomaco. Aveva già incontrato i

Guardiani e non le erano piaciuti.Erano loro che, con freddaefficienza, avevano rifiutato diriportare

Damon in vita quando era mortonella Dimensione Oscura. Eranoloro che avevano provocatol’incidente

d’auto in cui erano morti i suoigenitori, nel tentativo di uccidere leiper poterla reclutare nei loro ranghi.

Ma tutti i Guardiani che avevaincontrato erano donne; non eranemmeno a conoscenza che cifossero

anche Guardiani maschi.

Elena sapeva che i Guardiani,

nonostante il loro aspetto angelico,non erano dalla parte del Bene e

nemmeno del Male. Credevano solonell’Ordine. Potevano essere moltopericolosi.

James la osservò per un po’, poigiocherellò con la tazza di tè e iltovagliolo che aveva davanti. «Ti va

una focaccina?», chiese. Lei scossela testa e lo guardò fisso. Luisospirò di nuovo. «Devi capire che i

tuoi genitori erano molto giovani. Eidealisti».

Elena ebbe la brutta sensazione chepresto avrebbe scoperto qualcosa dimolto sgradevole. «Continui»,

disse.

Ma James, anziché continuare,ripiegò il tovagliolo in minuti,precisi quadratini, sempre piùpiccoli,

finché Elena si schiarì la gola.Allora lui riprese il racconto. «IlGuardiano ci disse che c’erabisogno di

un nuovo tipo di donne Guardiane.

Sarebbero state mortali, avrebberovissuto sulla Terra e avrebbero

posseduto i poteri speciali necessaria mantenere l’equilibrio tra le forzesovrannaturali del bene e del

male. Nel corso della sua visita,Elizabeth e Thomas, che eranogiovani, brillanti, buoni eprofondamente

innamorati, e che avevano unluminoso futuro davanti a loro,furono scelti come genitori di questa

Guardiana mortale».

Lasciò che il tovagliolo si spiegassenelle sue mani e lanciò a Elenaun’occhiata significativa. Lei ci

mise un po’ a capire.

«Io? Sta scherzando? Io nonsono…». Si morse le labbra. «Hogià abbastanza problemi», disse intono

piatto. Fece una pausa mentrerifletteva su un dettaglio del suoracconto. «Un attimo, perché pensache i

miei genitori siano stati ingenui?»,

chiese bruscamente. «Che cosahanno fatto?».

James bevve una lunga sorsata di tè.«A dire la verità, ho bisogno di unacosetta prima di continuare»,

disse. «Ho tenuto questo segreto pertanto tempo e devo ancora dirti laparte peggiore». Si alzò, rovistò

in una delle credenze, e tirò fuoriuna bottiglietta colma di un liquidoambrato. La offrì a Elena, ma lei

scosse la testa. Era abbastanzasicura di doversi mantenere lucida

per il resto della conversazione. Luise

ne versò un generoso bicchiere.

«Dunque», riprese, tornando asedere. Elena capì che era ancoranervoso, ma che cominciava aprender

gusto nel raccontare quella storia.Aveva un talento naturale per ledicerie e le voci di corridoio, infatti

insegnava la storia come una sorta di“gossip” sul passato. E, in quelcaso, era ancora più a suo agio,

perché si trattava dei genitori diElena, persone che entrambiconoscevano. «Thomas ed Elizabeth,

ovviamente, ne furono moltolusingati».

«E…», lo imbeccò Elena.

James intrecciò le dita sulla pancia ela osservò con uno sguardoimprovvisamente cupo.

«Acconsentirono a cedere labambina quando avesse compiutododici anni. I Guardiani l’avrebbero

portata via e loro non l’avrebberomai più rivista».

Elena d’un tratto sentì molto freddo.I suoi genitori l’avevano cresciutacon l’intento di darla via? Si

sentì come se tutti i suoi ricordid’infanzia fossero andati in frantumi.James fu subito al suo fianco.

«Respira», disse con dolcezza.

Boccheggiando, Elena chiuse gliocchi e si concentrò, cercando difare profondi respiri. L’idea che i

suoi genitori, i suoi amati genitori, sifossero presi cura di lei come di unqualche progetto temporaneo,

era devastante. Fino a quelmomento, non aveva mai dubitatodel loro amore.

Doveva sapere tutta la verità.

«Continui».

«Se devo essere sincero, quella fu lafine della mia amicizia con i tuoigenitori, e la fine dei miei

rapporti con la Vitale Society»,

disse, prendendo un altro lungosorso del suo tè corretto con ilwhisky.

«Non riuscivo a credere che nessunaltro là dentro ritenesse un problemail fatto di crescere una bambina

fino alla soglia dell’adolescenza perpoi rinunciare a lei per sempre, enon riuscivo a credere che i tuoi

genitori, che sapevo essere personeintelligenti e amorevoli, si fosseroprestati a un piano del genere.

Dopo la laurea, ognuno proseguì per

la sua strada, e io non sentii i tuoigenitori per dodici anni».

«Poi li risentì?», chiese con calmaElena.

«Tuo padre mi telefonò. I Guardianisi erano messi in contatto con loroed erano pronti a portarti via.

Ma Thomas ed Elizabeth nonvolevano lasciarti andare». Jamessorrise tristemente. «Ti amavanotroppo.

Pensavano che non fossi pronta adandar via di casa. Eri solo una

bambina. Compresero di essere stati

troppo precipitosi nell’assecondareil piano dei Guardiani, di non saperecon certezza cosa il destino

avesse in serbo per te e di non poterlasciar andar via la loro bambinasenza essere sicuri che fosse la

scelta migliore per lei. Così Thomasmi chiese di aiutarli a proteggerti.Sapevano che al college mi ero

interessato un po’ di stregoneria»,fece un gesto per minimizzarequando Elena alzò lo sguardo su di

lui,

«incantesimi minori, più che altro, eormai non praticavo più neanchequelli. Ma lui ed Elizabeth erano

disperati. Così decisi di aiutarli ecercai di reperire più informazionipossibili».

Fece una pausa e sul suo volto sidipinse un’improvvisa malinconia.«Sfortunatamente, arrivai troppo

tardi. Pochi giorni dopo la nostraconversazione, prima ancora chepartissi per Fell’s Church, i tuoi

genitori morirono in un incidented’auto. Col passare degli anni,cercai di tenerti d’occhio, ma non

sembrava che i Guardiani tiavessero messo le mani addosso. Eora, eccoti qui. Non penso che siauna

coincidenza».

«I Guardiani hanno ucciso i mieigenitori», disse Elena con voceapatica. «Lo sapevo già, ma non

sapevo… Credevo che fosse stato unincidente». Si stava sforzando di

assimilare i segreti della sua

infanzia. Almeno alla fine i suoigenitori non erano riusciti a darlavia. L’avevano amata, come aveva

sempre pensato.

«I Guardiani di solito ottengono ciòche vogliono», disse James.

«Allora perché non mi hannopresa?», chiese lei.

Lui scosse la testa. «Non lo so. Mapenso che tu sia venuta al Dalcrestper un motivo ben preciso: sei

tornata nel luogo in cui tutto ècominciato per te e per i tuoigenitori. Penso che presto ti sipresenterà una

missione e che entrerai in possessodei tuoi Poteri».

«Una missione?», chiese Elena. «Maio avevo già i Poteri una volta, e iGuardiani me li hanno tolti». Le

avevano strappato senza pietà le sueAli e tutte le sue abilità. Leavrebbero restituito ogni cosa al

momento giusto?

James sospirò e si strinse nellespalle, impotente. «I piani talvolta sirealizzano in modo curioso, anche

quelli che sono funestati findall’inizio», disse. «Forse questesparizioni sono il primo segno. Manon lo

so. Come ho detto in classe,Dalcrest è il fulcro di moltissimeattività paranormali. Tendo apensare che,

quando ti si presenterà una missione,te ne accorgerai».

«Ma io non sono…». Elena deglutìsonoramente. «Non capisco chesignifica tutto questo. Voglio

soltanto essere una ragazza normale.Pensavo che finalmente ci sareiriuscita. Qui al college».

Lui si allungò verso di lei sul tavoloe le diede dei colpetti sulla mano,con gli occhi colmi di

compassione. «Mi dispiace, miacara», disse. «Non volevo essere ioa caricarti di questo fardello. Ma ti

darò tutto l’aiuto possibile. È quello

che avrebbero voluto Thomas edElizabeth».

Elena si sentì oppressa, come se nonriuscisse a respirare. Doveva uscireda quell’accogliente cucina,

fuggire lontano dagli occhi fervidi epreoccupati di James. «Grazie»,disse, allontanando la sedia dal

tavolo e alzandosi in fretta. «Ma oradevo andare. Le sono grata peravermi detto tutto, ma ho bisogno di

riflettere».

Lui l’accompagnò alla porta facendoun sacco di cerimonie, chiaramenteinsicuro se fosse il caso di

lasciarla andare, ed Elena stavaquasi per mettersi a urlare quandoraggiunse il portico. «Grazie», disse

di nuovo. «Ci vediamo». Siallontanò a passo svelto senzaguardarsi indietro, accompagnata dalticchettio

delle scarpe sul marciapiede.Quando fu fuori dal campo visivo diJames, Damon uscì dall’ombra e siunì

a lei. Elena tenne alta la testa esbatté le palpebre per ricacciareindietro le lacrime. Per il momento,

avrebbe tenuto quel segreto per sé.

37

Ethan teneva stretta fra le bracciaChloe come nella parodia di unabbraccio amoroso. Matt emise un

basso lamento gutturale e si sforzòdi raggiungerla, ma non riusciva amuoversi, non riusciva nemmeno ad

aprire la bocca per urlare. I grandi

occhi castani di Chloe erano fissinei suoi ed erano colmi di terrore.

Mentre Ethan chinava il capo sullasua gola, Matt mantenne il contattovisivo e cercò di mandarle un

messaggio confortante.

“Va tutto bene, Chloe”, pensò.“Resisti, non ti farà male a lungo. Siiforte”. Lei gemette, raggelata,

tenendo gli occhi fissi su di lui comese il suo sguardo fosse l’unica cosache le impedisse di andare in

pezzi.

Continuando a guardarla negli occhie respirando lentamente, Matt cercòdi trasmetterle calma, di

tranquillizzarla, mentre la sua mentelavorava freneticamente. C’eranoquindici Vitale nella stanza,

incluso Ethan. Tutti vampiri. Glialtri Vitale osservavano in silenzioda dietro l’altare, permettendo a

Ethan di prendere il comando e digenerare i nuovi vampiri.

Ai suoi piedi giacevano già i corpidi quattro candidati. Sarebberorimasti fuori combattimento per

alcune ore, poiché nei loro corpistava avvenendo la transizione cheda cadaveri li avrebbe resi vampiri.

Erano rimasti sei candidati,contando anche Matt e Chloe. Piùlento sarebbe stato il contrattacco,minori

sarebbero state le probabilità disuccesso.

Ma che cosa poteva fare Matt? Se

solo avesse potuto infrangerequell’involontaria immobilità, sesolo

non fosse stato anche lui unprigioniero inerme. Provò di nuovoa muoversi, ma stavolta concentròtutte le

forze nel sollevare il braccio destro.I muscoli si tesero per lo sforzo, madopo circa trenta secondi, Matt

si fermò, disgustato. Stava dandofondo a tutte le sue energie, eppurenon era riuscito a muoversi di un

solo centimetro. Qualunque cosa lotrattenesse, era forte.

Ma se fosse riuscito a trovare unmodo per liberarsi, magari avrebbepotuto prendere una torcia dal

muro. Sentì il peso del coltellinonella tasca dei pantaloni, sotto latunica. I vampiri erano sensibili al

fuoco. Avrebbe potuto ucciderlianche tagliando loro la testa. Sefosse riuscito a respingere i vampiriper

il tempo necessario a tirare fuori da

lì Chloe e quanti più candidatipoteva, sarebbe potuto tornare in

seguito con i rinforzi e affrontarlicon qualche possibilità di vittoria.

Ma se non fosse riuscito a spezzarel’incantesimo o l’impulso psichicoche lo costringeva

all’immobilità, ogni piano che glifosse venuto in mente sarebbe statoinutile.

Ethan alzò la testa dal collo diChloe, estraendo i lunghi dentiappuntiti dalla sua gola, e leccò con

tenerezza i rossi rivoli di sangue chesgorgavano delle ferite. «Lo so,tesoro», mormorò, «ma durerà solo

un attimo. E poi vivremo persempre». Gli occhi di Chloe sichiusero con un tremito dellepalpebre, il

suo sguardo si perse lontano, macontinuava a respirare, era ancoraviva. C’era ancora la possibilità di

salvarla.

Ai piedi di Ethan, Anna si mosse edemise un gemito. Sotto lo sguardo

inorridito di Matt, la ragazza aprì

gli occhi di scatto e guardò Ethan,con un’espressione confusa maadorante.

“No!”, pensò Matt. “È troppopresto!”.

Come se avesse colto il suopensiero, Ethan si girò verso di lui egli fece l’occhiolino. «Le erbe

nell’infuso che voi tutti avete bevutoservono a restringere le arterie e adaccelerare il metabolismo»,

disse in tono disinvolto eamichevole, come se stesserochiacchierando in caffetteria. «Nonero sicuro

che avrebbe funzionato, ma pareproprio di sì. Rende molto piùrapido il processo di transizione». Ilsuo

sorriso si allargò. «Mi stospecializzando in chimica ebiologia, sapete». La bocca di Ethanera sporca di

sangue e Matt rabbrividì, ma nonriuscì a distogliere lo sguardo dagli

occhi dorati fissi nei suoi.

“C’è la possibilità”, pensò Matt perla prima volta, “che io non ne escavivo”. Il pensiero gli fece

rivoltare lo stomaco. Non volevaaffatto diventare un vampiro.

Se i candidati appena trasformati sisvegliavano così presto, le giàscarse possibilità diventavano pari

allo zero. I nuovi vampiri, ricordavadalla trasformazione di Elenal’inverno precedente, si svegliavano

violenti, irrazionali, affamati efanaticamente devoti al vampiro cheli aveva trasformati.

Ethan abbassò la testa per morderedi nuovo il collo di Chloe, mentreAnna si alzava con grazia fluida e

inumana. Dall’altra parte dell’altare,Stuart stava cominciando ad agitarsi,muovendo con irrequietezza

una delle lunghe gambe sul legnoduro del pavimento.

Con la gola che bruciava diinespressi gemiti di frustrazione,

Matt sentì l’ultima fiammella disperanza

tremolare e spegnersi. Non c’eraalcuna via di fuga.

All’improvviso, la porta in fondoalla stanza si aprì di scatto ed entròStefan.

Ethan apparve sorpreso, ma primache lui o gli altri vampiri potesseromuoversi, Stefan attraversò la

stanza e strappò Chloe dalle suebraccia. La ragazza cadde lungadistesa davanti all’altare, con il

sangue

che le sgorgava dal collo. Matt nonriusciva a capire se stesse ancorarespirando, se fosse ancora

aggrappata alla sua esistenza umana.

Stefan afferrò Ethan per la lungatunica e lo sbatté contro il muro. Loscrollò con la facilità con cui un

cane potrebbe scuotere un ratto.

Per un istante, la morsa di tremendoterrore che aveva attanagliato Mattsi allentò. Stefan sapeva cosa

stava succedendo. Li aveva trovati.E ora li avrebbe salvati tutti.

Gli altri Vitale stavano correndoverso Stefan, ancora impegnato nelcombattimento contro Ethan, con i

lunghi lembi delle tuniche chefluttuavano dietro di loro, mentreavanzavano, agili e compatti, comeun

corpo solo.

Stefan era senza dubbio molto piùforte di ognuno di loro. Respinsecon facilità l’attacco di una vampira

vestita di nero – la stessa che gliaveva offerto il calice, pensò Matt.La vampira volò per la stanza come

se non fosse più pesante di unabambola di pezza e atterrò come unfagotto scomposto contro la parete

opposta. Con un sorriso feroce,Stefan squarciò con i denti la gola diun’altra, che cadde a terra e giacque

immobile.

Ma erano troppi, e lui era solo.Dopo qualche minuto che osservavail combattimento, Matt capì che non

c’era speranza, e sentì un tuffo alcuore. Stefan era molto più vecchio,e più forte, di ogni altro vampiro in

quella stanza, ma insieme potevanovincerlo. Il corso della battagliastava cambiando, e i Vitale stavano

sopraffacendo Stefan in virtù dellapura superiorità numerica. Ethan siera liberato e si stava

risistemando la tunica, mentrequattro vampiri, dietro di lui,tenevano Stefan per le braccia,

inchiodandolo a terra. Anna, con gli

occhi scintillanti, lo colpiva conferocia.

Ethan afferrò una torcia dal muroalle sue spalle e rivolse a Stefan unalunga occhiata meditabonda,

leccandosi il sangue sul dorso dellamano con aria assente. «Hai avuto latua possibilità, Stefan», disse,

sorridendo.

Stefan smise di lottare e giacqueimmobile fra i vampiri che lotenevano per le braccia. «Aspetta»,

disse, alzando lo sguardo versoEthan. «Volevi che mi unissi a voi.Mi hai implorato perché mi unissi a

voi. Mi volete ancora?».

Ethan piegò la testa con ariapensierosa, fissandolo con i suoivividi occhi dorati. «Sì», disse. «Macosa

puoi dire per farmi credere chedavvero vuoi unirti a noi?».

Stefan si leccò le labbra. «Lasciateandare Matt. Se lo lasciate andaresano e salvo, prenderò io il suo

posto». Fece una pausa. «Sul mioonore».

«D’accordo», disse subito Ethan.Fece schioccare le dita, senzadistogliere gli occhi da Stefan, eMatt

barcollò, d’un tratto libero dallacostrizione psichica che l’avevatrattenuto.

Inspirò a fondo e corse subito versol’altare, e verso Chloe. Forse nonera troppo tardi. Poteva ancora

salvarla.

«Fermo». La voce di Ethan crepitòperentoria nel silenzio della sala.Matt si raggelò, di nuovo incapace

di muoversi. Ethan lo guardò furente.«Non puoi aiutare nessuno. Non puoicombattere», disse con

freddezza. «Vattene e basta».

Matt guardò implorante Stefan. Disicuro non poteva pretendere che sene andasse così, abbandonando

lui, Chloe e gli altri candidati aivampiri. Stefan lo fissò con unosguardo duro, senza espressione.

«Mi

dispiace, Matt», disse in tono piatto.«Se c’è una cosa che ho imparato intutti questi anni, è che a volte

sei costretto ad arrenderti. La cosamigliore che tu possa fare, adesso, èandartene. Io me la caverò».

E poi, d’improvviso, Matt sentì lavoce di Stefan nella testa, stridente eperentoria. Damon, disse con

foga. Trova Damon.

Matt restò senza fiato e, quando

Ethan lo liberò di nuovo dalcomando mentale, annuì lentamente ecercò

di sembrare sconfitto, mentre con gliocchi comunicava a Stefan di averricevuto il messaggio.

Non riuscì a guardare in faccia glialtri candidati. Anche se avesse fattoil più in fretta possibile, alcuni

di loro, forse tutti, sarebberocomunque morti prima del suoritorno. Forse Stefan sarebberiuscito a

salvarne alcuni. Forse. Forsesarebbe riuscito a salvare Chloe.

Con il cuore che martellava per ilterrore e la testa che gli girava perla paura, Matt corse fuori per

cercare aiuto. Non si voltò indietro.

38

Bonnie non aveva le chiavi. Sapevacon esattezza dov’erano, maquell’informazione non le serviva a

niente: erano sul comodino accantoal letto lindo e ordinato di Zander.

Imprecò e diede un calcio alla

porta, mentre le lacrime leinondavano il viso. Come avrebbefatto a riprendere la sua roba?

Un tizio le aprì il portone deldormitorio. «Che diamine! Datti unacalmata», disse, ma Bonnie l’aveva

già spinto di lato e stava correndo super le scale, verso la sua camera.

“Ti prego, fa che siano qui”, pensò,aggrappandosi alla balaustra. “Tiprego”. Non dubitava che Elena e

Meredith l’avrebbero consolata,l’avrebbero difesa, a prescindere daciò che aveva detto quando

avevano litigato. L’avrebberoaiutata a capire cosa fare.

Ma forse erano uscite. E lei nonaveva idea di dove andarle acercare, perché non sapeva dove

passassero il tempo liberoultimamente.

“Come aveva potuto allontanarsitanto dalle sue migliori amiche?”, sichiese, strofinando le mani sul

viso per asciugare le lacrime espalmandole invece sulle guance.Perché le aveva trattate così male?

Stavano solo cercando diproteggerla. E avevano ragione suZander; oh, se avevano ragione. Tiròsu col

naso, con aria sconsolata.

Quando arrivò in cima alle scale,batté i pugni contro la porta dellaloro stanza, sentendo dei rapidi

movimenti all’interno. Erano incamera. Grazie al cielo.

«Bonnie?», disse sorpresa Meredith,quando aprì la porta, e poi: «Oh,Bonnie», appena lei si lanciò,

singhiozzante, fra le sue braccia.Meredith l’abbracciò stretta, conveemenza, e, per la prima volta da

quando era scappata via da Zandergiù per la rampa antincendio, Bonniesi sentì al sicuro.

«Qual è il problema, Bonnie? Che èsuccesso?». Elena, alle spalle diMeredith, la scrutava con uno

sguardo preoccupato, e Bonnie notò

distrattamente che il suo voltopallido e sorpreso era bagnato di

lacrime. Aveva interrotto qualcosa,ma al momento non riusciva afocalizzarsi su quello.

Colse di sfuggita il proprio riflessonello specchio alle spalle di Elena. Icapelli erano una selvaggia

nuvola rossa intorno al viso, gliocchi erano vitrei e il volto pallidoera macchiato di fango e lacrime.

“Ho l’aria di chi è stato inseguitodai lupi”, pensò, ridendo

istericamente tra sé.

«Lupi mannari», gemette, mentreMeredith la tirava dentro. «Sonotutti lupi mannari».

«Che cosa stai…». Meredith siinterruppe. «Bonnie, ti riferisci aZander e ai suoi amici? Sono lupi

mannari?».

Bonnie annuì con foga, affondando ilviso sulla sua spalla. Meredith laspinse indietro e la guardò con

attenzione negli occhi. «Sei

sicura?», chiese con gentilezza. Poiguardò Elena ed entrambe sigirarono a

osservare il cielo dalla finestra. «Lihai visti mentre si trasformavano?Non c’è ancora la luna piena».

«No», rispose Bonnie. Cercò diriprendere fiato fra i singhiozzi. «Mel’ha detto Zander. E poi… Oh,

Meredith, è stato spaventoso. Poisono scappata e loro mi hannoinseguita». Raccontò cos’erasuccesso,

sul tetto e poi sul prato del college.

Meredith ed Elena si guardaronoperplesse, poi si girarono di nuovoverso Bonnie. «Perché te l’avrebbe

detto?», chiese Elena. «Non potevaaspettarsi che avresti reagito benealla notizia; per lui sarebbe stato

più semplice tenerlo nascosto».Bonnie scosse la testa, incapace dirisponderle.

Meredith inarcò un sopracciglio e lerivolse uno sguardo ironico. «Anchei mostri possono

innamorarsi», disse. «Pensavo losapessi, Elena». Gettò uno sguardoal suo bastone da cacciatrice,

appoggiato ai piedi del letto.«Quando arriverà la luna piena,saprò cosa cercare».

Bonnie la fissò inorridita. «Nonavrai intenzione di dar loro lacaccia, vero?». Era una domanda

stupida, lo sapeva. Se dietro gliomicidi e le sparizioni al campusc’erano Zander e i suoi amici,

Meredith doveva dar loro la caccia.

Era una sua responsabilità. Unaresponsabilità di tutti loro, a dire il

vero, perché erano gli unici a saperela verità, gli unici in grado digarantire la sicurezza degli altri.

“Ma Zander”, urlò straziata una vocedentro di lei. “Non Zander…”.

«Nessuna delle aggressioni èavvenuta durante la luna piena»,disse sovrappensiero Elena, eMeredith e

Bonnie la fissarono sbattendo lepalpebre.

«È vero», concordò Meredith,aggrottando la fronte. «Non capiscocome abbiamo potuto non pensarci

prima, Bonnie», disse. «Rifletti beneprima di rispondere. Hai passatomoltissimo tempo con Zander e i

suoi amici. Hanno mai fatto qualcosache ti abbia indotto a pensare cheavrebbero potuto far del male a

qualcuno, male sul serio, intendo,quando non erano in forma di lupo?»

«No!», rispose subito Bonnie. Poi sifermò, ci rifletté e disse, più

lentamente: «No, non penso. Zander

ha davvero un animo gentile, noncredo che possa fingere. Non dicontinuo. Sono violenti, ma non li ho

mai visti azzuffarsi con qualcuno aldi fuori del loro gruppo. E anche fradi loro non litigano davvero,

fanno solo casino».

«Sappiamo cosa vuoi dire», disseMeredith con sarcasmo. «Liabbiamo visti anche noi».

Elena si infilò una ciocca di capelli

dietro l’orecchio. «Nemmeno lesparizioni sono avvenute durante la

luna piena», disse pensosa. «Anchese presumo che possano aver rapitole persone per tenerle

prigioniere, con l’intento diucciderle in un secondo momento,quando si sarebbero trasformati inlupi.

Ma questo non mi sembra… Cioè,non ho molta esperienza di lupimannari, a parte Tyler, ma non mi

sembra il modo di operare tipico dei

lupi. Troppo asettico».

«Ma…». Bonnie si accasciò sul suoletto. «Credete che ci sia unapossibilità che Zander e i suoi amici

non siano i responsabili degliomicidi? Allora chi sono gliassassini?». Era frastornata.

Meredith ed Elena si scambiaronouno sguardo torvo. «Non crederestimai a certe cose che succedono

in questo campus», disse Elena. «Tiaggiorneremo».

Bonnie si strofinò le mani sul viso.«Zander mi ha detto di essere unlupo mannaro buono», disse. «Di

non aver mai fatto del male anessuno. È possibile? Può maiesistere un lupo mannaro buono?».

Meredith ed Elena si sedetteroaccanto a lei, una alla sua destra,l’altra alla sua sinistra, e

l’abbracciarono. «Chi lo sa?», disseElena. «Spero di sì, con tutto ilcuore, Bonnie. Per il tuo bene».

Bonnie sospirò e si accoccolò più

vicino alle sue amiche, appoggiandola testa sulla spalla di Meredith.

«Ho bisogno di pensarci su», disse.«Almeno non sono sola. Sono cosìfelice di avere voi, ragazze. Mi

dispiace davvero che abbiamolitigato».

Elena e Meredith la abbracciaronopiù stretta. «Noi non ti abbiamo maiabbandonata», giurò Elena.

Si sentì bussare in modo selvaggioalla porta.

Elena guardò Bonnie, che s’irrigidìvisibilmente ma continuò a tenere lemani sul viso, poi Meredith,

che le rispose con un deciso cennod’assenso, e si alzò, allungando lamano per prendere il bastone.

Entrambe avevano pensato che, seZander voleva parlare con Bonnie,sapeva benissimo dove abitava.

Elena aprì la porta di scatto e Mattruzzolò dentro. Indossava una lungatunica nera con il cappuccio e le

guardava disperato mentre

annaspava per respirare.

«Matt?», disse sorpresa, e guardòMeredith, che rispose con unapiccola alzata di spalle e rimise a

posto il bastone. «Che succede? Ecome sei vestito?».

Matt la afferrò per le spalle,stringendola troppo forte. «Stefan èin pericolo», disse, e lei si raggelò.

«La Vitale Society… Sono vampiri.Stefan mi ha salvato, ma non puòaffrontarli tutti da solo». Raccontò

brevemente ciò che era accadutonella stanza segreta sotto labiblioteca, e di come Stefan fossevenuto a

salvarlo, per poi mandarlo a cercareaiuto. «Non abbiamo molto tempo»,concluse. «Stanno uccidendo…

Stanno trasformando tutti i candidatiin vampiri. Non so nemmeno cosaEthan abbia in mente di fare a

Stefan. Dobbiamo tornare lì. E ciserve Damon».

Meredith raccolse di nuovo il

bastone e, scura in volto, prese lasua sacca di armi dall’armadio.Anche

Bonnie si era alzata e li guardavacon i pugni chiusi e la mascellaserrata.

«Chiamo Damon», disse Elena,prendendo il telefono. Damonl’aveva lasciata al dormitorio dopo

averla riaccompagnatadall’abitazione del professore, maprobabilmente era ancora neiparaggi.

Stefan era in pericolo. Se lui… Segli fosse successo qualcosa, proprioora che si erano separati,

mentre lui soffriva ancora per colpasua, non se lo sarebbe maiperdonato. Non meritava perdono.

Il senso di colpa era come uncoltello nello stomaco. Come avevapotuto ferire Stefan in quel modo?Era

vero, era attratta da Damon, loamava anche, ma non aveva maimesso in dubbio che l’amore dellasua

vita fosse Stefan. E gli avevaspezzato il cuore.

Avrebbe fatto qualsiasi cosa persalvarlo. Sarebbe morta per lui, senecessario. E, mentre ascoltava gli

squilli all’altro capo della linea easpettava che Damon rispondesse,comprese di non aver mai dubitato

che anche lui avrebbe fatto qualsiasicosa per salvare Stefan.

39

Quando aveva acconsentito a

prendere il posto di Matt, Stefan nonaveva un piano. Sapeva solo che

doveva salvare Matt, e ora speravache Damon facesse lo stesso con lui.Gli facevano male i polsi; era

un dolore sordo, pulsante,persistente, impossibile da ignorare.Per l’ennesima volta cercò di tirarele

corde che lo tenevano legato allasedia, girando le mani da sinistra adestra, per allentare i legacci, ma

non servì a niente. Non riusciva a

spostarli di un millimetro.

Si guardò attorno stordito. La stanzaappariva di nuovo calma emisteriosa, come quando aveva fatto

irruzione. Un buon posto per unasocietà segreta. Le torce ardevanoilluminando la sala e bellissimi fiori

ornavano l’altare improvvisato. IVitale si erano presi il tempo diripulire, dopo averlo legato e aver

ucciso i candidati.

Le corde erano incrociate sul suo

petto e sullo stomaco e avvoltedietro la schiena; le caviglie e le

ginocchia erano assicurate allegambe della sedia, i gomiti e i polsialla spalliera. L’avevano legato per

bene, ma erano le corde intorno aipolsi che facevano più male, perchéa contatto con la pelle nuda. E

bruciavano.

«Sono imbevute di verbena, cosìsarai troppo debole per liberarti, matemo che potrebbero farti un po’

male», disse Ethan in tono affabile,come se stesse illustrando a un suoospite un interessante dettaglio

architettonico della stanza segreta.«Vedi, anche se non ho moltaesperienza, conosco già tutti itrucchi».

Stefan appoggiò la testa allaspalliera della sedia e lo guardò conintensa antipatia. «Ho il sospetto che

tu non li conosca proprio tutti».

Ethan era arrogante, ma Stefansospettava che non fosse un vampiro

da molto tempo. Se fosse stato

ancora umano, se non si fosse maitrasformato, probabilmente sisarebbe comportato più o meno allo

stesso modo.

Ethan si accovacciò di fronte a luiper guardarlo in faccia, sfoggiandolo stesso sorriso caldo e

amichevole che aveva quando avevacercato di convincerlo a unirsi aloro. Sembrava un tipo simpatico,

la classica persona di cui ti fidi a

prima vista e che vorresti comeamico. Stefan lo fissò con odio.Quel

sorriso era una menzogna. Ethan eraun assassino come gli altri Vitale,solo che la sua maschera era meno

evidente.

«Probabilmente hai ragione», disseEthan pensieroso. «Immagino che tuabbia collezionato ogni tipo di

trucchi in… quanto? Più dicinquecento anni? Trucchi di cui iosono ancora all’oscuro. Potresti

essermi

molto utile in questo senso, se allafine decidessi di unirti a noi. Cisono tantissime cose che potresti

insegnarci su tutte le robe davampiri». Sfoggiò di nuovo quelsorriso simpatico. «Sono semprestato un

ottimo allievo».

Robe da vampiri. «Che cosa vuoi dame, Ethan?», chiese Stefan in tonostanco. Era stata una lunga notte,

ancora più lunghe erano state leultime settimane, e le cordeimbevute di verbena glitormentavano le

braccia, confondendo i suoipensieri.

Ethan conosceva la sua età. Sapevacosa offrirgli la prima volta cheavevano parlato della Vitale

Society. Dunque, non era unacoincidenza che in quella stanza cifosse proprio lui; Ethan non sisarebbe

accontentato di un vampiroqualsiasi. «Quali sono i tuoi piani?»,chiese ancora.

Il sorriso di Ethan si allargò.«Costruire un invincibile esercito divampiri, naturalmente», disse in tono

gioviale. «So che sembra un po’ridicolo, ma è una questione dipotere. E il potere non è mairidicolo».

Si leccò nervosamente le labbra,mostrando la punta rosea dellalingua. «Sai, una volta ero una delle

piccole, insignificanti persone chepopolano questo mondo. Al campus,non ero diverso dagli altri. I miei

successi più grandi consistevanonell’avere buoni voti agli esami edessere a capo di una stupida

associazione segreta del college.Non crederesti mai a quanto fossedebole la Vitale Society. Solo magia

bianca e culto della natura».Abbozzò una smorfia di biasimo,come a dire: “Guarda quant’erostupido

allora. Ti sto confidando una cosaimbarazzante su di me, quindifidati”. «Ma poi ho capito comeottenere

un po’ di vero potere».

Una delle figure vestite di nero gliarrivò alle spalle, ed Ethan fecesegno a Stefan di aspettare,

sollevando un dito. «Un attimo solo,ok?». Si alzò e si voltò per parlarecon il suo assistente.

Dopo aver legato Stefan, Ethan eratornato ai suoi doveri con i

candidati, e li aveva prosciugati uno

dopo l’altro, lasciandoli cadere nonappena aveva finito con loro.Avevano superato tutti la fase di

transizione ed erano di nuovo inpiedi. Sembravano irritabili edisorientati, ringhiavano ecercavano di

azzannarsi l’un l’altro, mentrefissavano Ethan con paleseadorazione.

Tipico dei nuovi vampiri. Stefan liosservò con diffidenza. Finché non

si fossero nutriti, sarebbero stati

in bilico sull’orlo della pazzia, edEthan avrebbe potuto facilmenteperdere il controllo su di loro.Allora

sarebbero potuti diventare ancorapiù pericolosi.

«I candidati hanno bisogno dimangiare», disse con calma Ethanalla donna dietro di lui. «Cinque divoi

dovrebbero portarli fuori e insegnarloro a cacciare. Ti do il comando

della battuta di caccia, prendi con

te chi vuoi. Gli altri resteranno quiper aiutarmi a sorvegliare il nostroospite».

Stefan osservò i Vitale che siorganizzavano. Otto dei seguaci diEthan rimasero, piazzandosi ai lati

della stanza. Era riuscito adammazzarne un paio durante la lotta,squarciando loro la gola, ma i corpi

erano stati nascosti da qualche parte.

Emise un breve, involontario

lamento. Era difficile pensare conlucidità. Era troppo stanco e laverbena

cominciava a fargli male ovunque,non solo sui polsi doloranti, ma inogni punto in cui le corde

toccavano i vestiti. Damon, ti prego,vieni presto. Ti prego, Damon,pensò.

«Hai intenzione di sguinzagliarenove vampiri neonati per ilcampus?», chiese a Ethan, tornandodi

colpo alla questione più importante.«Ethan, uccideranno chiunque glicapiti a tiro. Potrebbe anche

trattarsi di un tuo amico. Attireretel’attenzione su di voi. Il campusbrulica già di poliziotti. Per favore,

portali nei boschi a caccia dianimali. Possono vivere anche disangue animale». Sentì la propriavoce

assumere un tono implorante, mentreEthan gli sorrideva distrattamente,come a un bambino che supplica

di essere portato a Disneyland.«Suvvia, Ethan, non è passato tantotempo da quando eri anche tu un

essere umano. Non puoi voleredavvero che studenti innocentivengano uccisi mentre te ne stai lì a

guardare».

Ethan fece spallucce e gli diedequalche leggera pacca sulle spallementre andava a parlare con un altro

dei suoi accoliti. «Devono mettersiin forze, Stefan. Li voglio all’apicedelle loro capacità il prossimo

equinozio. E abbiamo già uccisotantissimi studenti innocenti», disse,girandosi appena a guardarlo.

«Equinozio? Ethan», gli urlò Stefan,frustrato. Guardò con ansia la portada cui erano appena usciti i

candidati e i loro accompagnatori.Ci avrebbero messo un po’ ascegliere le loro vittime. Nonc’erano

molti studenti in giro per il campusda soli, negli ultimi giorni. Se fosseriuscito a liberarsi, se Damon

fosse arrivato subito e l’avesseliberato, avrebbero ancora potutofermare il massacro. Perché, se tutti

quei vampiri appena nati fosserostati lasciati liberi nel campus, cisarebbe stata una carneficina.

Stefan comprese che Ethan nonpoteva aver trasformato gli altriVitale tutti insieme. Sarebbe stato

impossibile camuffare comesporadiche sparizioni gliinnumerevoli omicidi che, in quantogruppo appena

creato, avrebbero certamentecommesso. Quella doveva essere laprima iniziazione di massa. E chi

aveva creato Ethan? C’era unvampiro anziano da qualche partenel campus?

Damon, dove sei? Non dubitava cheDamon sarebbe venuto se avessepotuto.

Nonostante i loro recenti dissapori acausa di Elena, Stefan sapeva che lecose fra loro erano molto

cambiate ed era convinto che il

fratello sarebbe venuto in suosoccorso. Dopotutto, l’aveva giàsalvato in

passato, quando avevano combattutocontro Katherine, e contro Klaus.Ormai fra loro c’era qualcosa di

solido come una roccia, qualcosache non esisteva un anno prima, enemmeno un secolo prima. Chiusegli

occhi e gli sfuggì una secca,dolorosa risata. Gli pareva unmomento inopportuno per lerivelazioni sulle

sue questioni familiari.

«Dunque», disse Ethan in tonociarliero, tornando al suo fianco eaccostando una sedia, «stavamo

parlando dell’equinozio».

«Sì», rispose Stefan, con una notaacida nella voce.

Non poteva permettere che Ethan siaccorgesse degli sguardi ansiosi ecolmi di aspettativa che lanciava

alla porta. Doveva mantenere ilsangue freddo, così che Damon

avesse l’elemento sorpresa dalla sua

parte. Doveva continuare a farloparlare, doveva distrarlo, nel casoarrivasse Damon, così si stampò in

faccia un’espressione interessata erivolse a Ethan uno sguardo attento.

«Al momento dell’equinozio,quando il giorno e la notte sonoperfettamente bilanciati, la linea frala vita

e la morte è più fragile, piùpermeabile. È il momento in cui glispiriti possono attraversare il

confine tra

i mondi», esordì Ethan in tonoteatrale, facendo ampi gesti con lemani.

Stefan sospirò. «Questo lo so già,Ethan», disse con impazienza.«Arriva al dunque». Dovevadistrarlo,

ma di certo non era costretto anutrire il suo ego.

Ethan abbassò le mani. «Ti ricordidi Klaus, vero?», chiese. «Ilcapostipite della tua linea di sangue?

Lo

stiamo riportando in vita. Con luialla guida del nostro esercito,saremo invincibili».

Per un momento ogni cosa fuimmobile, come se i lenti battiti delcuore di Stefan si fossero, infine,

fermati. Stefan trasse un lungorespiro. Si sentiva come se Ethan gliavesse dato un pugno in faccia. Perun

po’, non riuscì a parlare. Appena glitornò la voce, esclamò: «Klaus?

Klaus il vampiro che…». Non

riuscì nemmeno a finire la frase. Lasua testa era piena di immagini diKlaus: l’Antico, il vampiro

Originario, il folle. Il vampiro cheaveva il controllo dei fulmini, che sivantava di non essere stato

creato, ma di esistere,semplicemente. Klaus gli avevaconfidato di vedersi con un’ascia dibronzo, in

uno dei suoi primi ricordi; era statouno dei barbari alle porte, era stato

fra coloro che avevano distrutto

l’Impero Romano. Affermava diaver dato origine alla razza deivampiri.

Klaus aveva tenuto in ostaggio lospirito di Elena e aveva torturato amorte la povera Vickie Bennet,

solo per divertimento. Avevatrasformato Katherine, prima invampiro, poi in una bambola crudelee,

togliendole ogni brandello diumanità, l’aveva cambiata fino a

renderla una creatura maligna e

irrazionale, desiderosa solo ditormentare coloro che un tempoaveva amato. L’avevano ucciso allafine,

lui, Damon ed Elena, ma era stataun’impresa disperata, e sarebbestato impossibile senza l’interventodi

un battaglione di inquieti fantasmidella Guerra Civile, legati alsanguinoso campo di battaglia diFell’s

Church.

«Klaus, il creatore del vampiro cheha creato te», disse allegramenteEthan. «Ma è stata un’altra delle

sue figlie che ho trovato in Europaquest’estate, mentre ero in viaggio.L’ho convinta a trasformare me in

vampiro. Mi ha insegnato anchequalche trucco, come l’uso dellaverbena o la funzione protettiva dei

lapislazzuli, che ci permettono dicamminare alla luce del sole. Homesso dei lapislazzuli nelle nostre

spille, così che i membri dellanostra associazione possano tenerlisempre indosso. La vampira che miha

trasformato è stata moltodisponibile. E mi ha detto tutto suKlaus». Rivolse a Stefan un altrosorriso

caloroso. «Capisci, io dovreipiacerti, Stefan. Siamo praticamentecugini».

Stefan chiuse gli occhi per unmomento. «Klaus era pazzo», cercòdi spiegare. «Non accetterà di

lavorare con voi, vi distruggerà».

Ethan sospirò. «Invece io credofermamente di poter trovareun’intesa con lui», disse. «Sonomolto

persuasivo. E gli offro soldati. Hosentito dire che gli piace la guerra.Non ha alcun motivo di rifiutarci;

noi vogliamo dargli tutto ciò chedesidera». Fece una pausa e loguardò, senza smettere di sorridere,ma

Stefan intravide in quell’ampio

sorriso una sfumatura che non glipiacque per niente: falsa innocenza.

Qualunque cosa stesse perchiedergli, conosceva già larisposta. «Devo dedurre che non seiinteressato a

unirti al nostro esercito, cugino?»,chiese, fingendosi sorpreso.

Digrignando i denti, Stefan diede unaltro strattone alle corde, ma nonriuscì a smuoverle. Alzò su di lui

uno sguardo rabbioso. «Non viaiuterò», disse. «Mai».

Ethan si fece più vicino, chinandosifinché il suo viso fu al livello diquello di Stefan. «Ci aiuterai,

invece», disse, quasi con dolcezza,con un lampo di autocompiacimentonegli occhi. «Che tu lo voglia o

no. Vedi, ciò che più mi serve perriportare in vita Klaus è il sangue».Si passò una mano fra i riccioli,

scuotendo il capo. «Si tratta sempredel sangue in questo genere di cose,hai notato?», aggiunse.

«Sangue?», chiese Stefan, con un

senso di inquietudine. I giovanivampiri non erano mai sani di mente,a

suo parere. La scarica iniziale dinuove facoltà sensoriali e Poteresarebbe bastata a disorientare

chiunque. Ma cominciava a pensareche l’equilibrio mentale di Ethanfosse instabile da sempre. Aveva

convinto qualcuno a trasformarlo invampiro?

«Il sangue della sua progenie, aesser precisi». Ethan annuì

compiaciuto. «Ecco perché ero cosìfelice

quando ho scoperto che ti trovaviproprio qui al campus. Rintracciarela progenie di Klaus è stato il mio

passatempo, quest’estate, dopo averpersuaso la prima discendente cheavevo incontrato a trasformarmi

in ciò che lei era. Alcuni mi hannodato volentieri il sangue, quandohanno saputo ciò che intendevo fare.

Non tutti i discendenti di Klaus sonoingrati come te. Me ne serve solo un

altro po’, e poi ne avrò

abbastanza. Il tuo, naturalmente», e isuoi occhi sfrecciarono verso laporta che Stefan aveva continuato a

guardare di nascosto, aspettandoDamon, «e quello di tuo fratello.Dovrebbe arrivare a momenti,

giusto?».

Stefan sentì il cuore farsi di piomboe fissò apertamente la porta. Damon,ti prego, stai lontano, fu il

messaggio disperato che mandò a

suo fratello.

40

Damon camminava troppo svelto, edElena e gli altri dovevano correreper stargli al passo. «Tipico di

Stefan, sacrificarsi», borbottavaDamon stizzito. «Avrebbe potutochiedere aiuto quando si è accortoche

stava succedendo qualcosa». Sifermò un attimo per permettere aglialtri di raggiungerlo e lanciò lorouno

sguardo truce. «Se Stefan non riescea vedersela da solo con qualchevampiro appena nato, mi vergogno

di lui», disse. «Forse dovremmolasciarlo lì, in fin dei conti.Sopravvivenza del più forte».

Elena gli sfiorò il braccio e, unattimo dopo, Damon riprese acamminare svelto verso labiblioteca.

Elena non aveva pensato nemmenoper un istante che Damon avrebbelasciato suo fratello prigioniero.

Nessuno di loro l’aveva pensato. Isuoi lineamenti tesi e contrattimostravano che era concentrato solosul

pericolo che stava correndo Stefan eche aveva messo da parte ognirivalità.

«Non c’era solo qualche vampiro»,disse Matt. «Erano almenoventicinque. Mi dispiace, ragazzi,sono

stato un idiota». Con un gestodeciso, fece roteare il bastone chegli aveva dato Meredith. Il bastone

di

Samantha.

«Non è colpa tua», disse Bonnie.«Non potevi sapere che la tuaconfraternita, o come vuoichiamarla,

fosse votata al male, non credi?».

Elena era sicura che, se qualcuno liavesse visti mentre attraversavano ilcampus, sarebbero stati un

allarmante quadretto: lei e Bonniestringevano, mezzi nascosti sotto le

giacche, due grandi e aguzzi

coltelli da caccia. Matt aveva unbastone e Meredith stringeva inmano la sua micidiale arma da

cacciatrice. Ma era passata lamezzanotte, e la strada che stavanopercorrendo era deserta.

Solo Damon non aveva armi, perchéchiaramente era lui stesso un’arma.

La sua facciata di umanità sembravaessersi sgretolata e i suoi lineamenti,contratti dalla rabbia,

parevano scolpiti nella pietra,eccetto che per il lampo bianco deidenti aguzzi fra le labbra e gli occhi,

simili a pozzi di tenebra senzafondo.

Non si fermò nemmeno quandoarrivarono alla biblioteca e latrovarono chiusa: forzò il portone di

ferro, che si aprì con uno stridiometallico. Elena si guardònervosamente attorno. L’ultima cosadi cui

avevano bisogno era che arrivasse

la sicurezza del campus. Ma lestradine intorno alla bibliotecaerano

buie e deserte.

Seguirono tutti Damon nelseminterrato e lungo i corridoi degliuffici amministrativi. Infine, Damonsi

fermò davanti la porta con la targaSALA RICERCHE, dove, qualchegiorno prima, lui ed Elena avevano

incontrato Matt. «È questal’entrata?», chiese a Matt e, a un suo

cenno affermativo, ruppe illucchetto.

«Voi restate qui. Scendiamo solo ioe Meredith». Guardò Meredith. «Tiva di uccidere un po’ di vampiri,

cacciatrice? Andiamo a compiere iltuo destino».

Meredith fendette l’aria con ilbastone, e un lento sorriso le spuntòagli angoli della bocca. «Sono

pronta», disse alla fine.

«Vengo anch’io», disse Elena, con

voce ferma. «Non ho intenzione diaspettare qui mentre Stefan è in

pericolo». Damon trasse un respiro,e lei pensò volesse tentare didissuaderla, invece sospirò.

«Va bene, principessa», disse,parlando con gentilezza per la primavolta da quando Matt aveva

raccontato ciò che era successo aStefan. «Ma farai solo quello che io– o Meredith – ti diciamo».

«Non voglio aspettare qui», disseMatt con ostinazione. «È colpa mia

se è successo tutto questo».

Damon si girò verso di lui,storcendo la bocca in un ghigno. «Sì,è colpa tua. E ci hai detto che Ethan

può manovrarti. Non voglioritrovarmi con il tuo coltello nellaschiena mentre combattiamo i tuoi

nemici».

Matt abbassò la testa, sconfitto.«D’accordo», disse. «Scendete duerampe di scale e troverete la porta

per la stanza segreta dei Vitale».

Damon rispose con un brusco cennodel capo e tirò su la botola.

Meredith lo seguì giù per le scale;anche Elena fece per scendere, maMatt l’afferrò per un braccio. «Per

favore», disse svelto. «Se ti sembrache qualche candidato sia ancora ingrado di ragionare, anche se è

già un vampiro, cerca di portarlofuori. Forse possiamo ancoraaiutarli. La mia amica Chloe…». Isuoi

pallidi occhi azzurri, sul volto cupo,

erano pieni di angoscia.

«Ci proverò», rispose Elena e glistrinse la mano. Si scambiò unosguardo con Bonnie, poi seguì

Meredith attraverso la botola.

Quando raggiunsero l’ingresso dellasala grande della Vitale Society,Meredith e Damon premettero la

schiena contro le elaborate porteintagliate nel legno. Osservandoli,Elena, per la prima volta, notò una

somiglianza fra loro. Di fronte

all’imminente battaglia, Meredith eDamon avevano lo stesso sorriso

impaziente.

Uno… due… cominciò a contareDamon in silenzio… e tre.

Spinsero insieme. La doppia porta siaprì verso l’interno e le catene chel’avevano tenuta serrata

volarono in pezzi. Damon irruppenella stanza, ancora con un crudele,radioso sorriso sul volto, e alle sue

spalle entrò Meredith, diritta e

vigile, pronta a tirar colpi con il suobastone.

Nere figure si lanciarono su di loro,ma Elena cercava Stefan, e le degnòappena di uno sguardo.

Quando lo vide, le uscì tutto il fiatoche aveva in corpo. Era ferito elegato a una sedia. Stefan sollevò il

volto pallido e la guardò, con gliocchi verde foglia agonizzanti.Sangue rosso scuro gocciolava

copiosamente dal braccio,raccogliendosi in una pozza sul

pavimento, accanto alla sedia.

Elena, per un attimo, perse la testa.

Si precipitò verso di lui, rendendosiconto a malapena della figuraincappucciata che le era saltata

addosso e di Damon che, dopoaverla afferrata a mezz’aria, lespezzava il collo e lasciava cadereil

corpo sul pavimento. Udìdistrattamente il suono sordo dellegno contro la carne quandoMeredith, con il

suo bastone, colpì un altro vampiro,che cadde in preda alla convulsioni,mentre l’essenza di verbena

contenuta negli aghi entrava nel suoflusso sanguigno.

Poi si accovacciò accanto a Stefane, almeno per un istante, tutto il restosparì. Stefan era scosso da

leggeri tremiti, poco più che brividi,ed Elena gli massaggiò la mano,attenta a non toccare la ferita

sull’avambraccio. Segni rossi, inrilievo, gli contornavano i polsi,

sotto le corde macchiate di sangue.

«Verbena sulle corde», mormorò lui.«Sto bene, ma sbrigati». E poi:«Elena?». Sotto il dolore nella sua

voce, spuntò una nota di gioia.

Elena sperava che lui, incrociando ilsuo sguardo, potesse leggerle negliocchi tutto l’amore che

provava. «Sono qui, Stefan. E midispiace». Prese il coltello che leaveva dato Meredith e cominciò a

tagliare le corde, attenta a non

ferirlo e cercando di non stringerleancora di più. Lui sussultò per il

dolore, poi le corde intorno ai polsisi spezzarono. «Il tuo poverobraccio», disse Elena, poi si tastò le

tasche in cerca di qualcosa pertamponare il sangue e, non trovandonulla, si tolse la giacca e la premette

contro la ferita. Stefan le prese lagiacca di mano. «Devi tagliareanche le altre corde», disse, convoce

provata. «Non posso toccarle a

causa della verbena».

Lei annuì e cominciò a tagliare lecorde che gli immobilizzavano legambe. «Ti amo», gli disse,

concentrata sul lavoro, senza alzarelo sguardo. «Ti amo tantissimo. Sodi averti ferito, e non avrei mai

voluto farlo. Mai, Stefan. Ti prego,credimi». Finì di tagliare le cordeintorno alle ginocchia e alle

caviglie e si arrischiò a guardarlo infaccia. Si accorse di avere le guancebagnate di lacrime e le

asciugò.

Sentirono il tonfo di un altro corpoche cadeva a terra e un urlo dirabbia alle loro spalle. Ma Stefan,

risoluto, continuò a guardarla negliocchi. «Elena, io…», sospirò. «Tiamo più di ogni altra cosa al

mondo», disse con semplicità. «Losai. Senza condizioni».

Lei emise un lungo respiro tremantee si asciugò di nuovo le lacrime.Non poteva permettere che le si

appannasse la vista e dovevamantenere ferme le mani. Le cordeintorno al torace erano troppo strettee

attorcigliate fra loro. Le tirò una auna, cercando il punto in cui eranopiù allentate per cominciare a

tagliare, e Stefan emise un sibilo didolore.

«Scusa, scusa», disse lei, e prese arecidere le corde più in frettapossibile. «Stefan», ricominciò, «il

bacio con Damon… Be’, non posso

mentire dicendo che non provoniente per lui, ma quel bacio non era

intenzionale. Non avevo neancheintenzione di uscire con lui quellasera, è semplicemente successo. E

quando ci hai visti, quel bacio, luimi aveva appena salvato la vita…».Ora stava inciampando nelle

parole e lasciò che le morissero ingola. «Non ho scuse accettabili,Stefan», disse in tono piatto. «Vorrei

solo che tu mi perdonassi. Nonpenso di poter vivere senza di te».

L’ultima corda si spezzò, ed Elenaliberò Stefan dai pezzi di spagoprima di alzare lo sguardo,

spaventata e piena di speranza.

Lui la stava fissando, con le labbrascolpite atteggiate a un mezzosorriso. «Elena», disse e l’attirò a sé

per darle un breve, tenero bacio. Poila spinse verso il muro. «Stannefuori, per favore», disse e si

diresse zoppicante verso la mischia,ancora debole per la verbena, maabbastanza agile da afferrare un

vampiro che stava attaccandoMeredith e affondargli le zanne nellagola.

Non che lei avesse bisogno di aiuto.Meredith era straordinaria. Quandoera diventata così brava? Elena

l’aveva già vista in azione,naturalmente, ed era sempre stataforte e veloce, ma ora era aggraziatacome

una ballerina e letale come unassassino.

Combatteva contro tre vampiri, che

le giravano attorno rabbiosi.Ruotando su se stessa, sferravapugni e

calci, ed era veloce quasi quanto imostri che stava affrontando,nonostante la loro fosse una velocità

sovrannaturale; ne atterrò uno con unpugno, facendogli perderel’equilibrio e mandandolo lungodisteso,

e, con lo stesso fluido movimento,ne colpì un altro in pieno viso,facendolo barcollare all’indietrocon le

mani alzate, mezzo cieco.

C’erano quattro corpi sparpagliatiper terra, a dimostrazione delleabilità di Meredith e della furia

brutale di Damon. Stefan, mentreElena lo guardava, gettò a terra ilcorpo prosciugato del vampirocontro

il quale aveva lottato e si guardòattorno. Erano rimasti solo Ethan e itre vampiri che circondavano

Meredith.

Ethan cercava di sfuggire a Damon,retrocedendo nervoso mentre ilvampiro più anziano lo incalzava e

lo colpiva ripetutamente con fortischiaffi a mano aperta. Elena captòle sue parole: «…mio fratello»,

borbottò. «Bamboccio insolente.Pensi di sapere tutto, ragazzino,pensi di volere il potere?». Con un

improvviso, brusco movimento,Damon afferrò il braccio di Ethan elo strattonò. Elena sentì il rumore di

un osso che si spezzava.

Stefan le passò davanti, diretto dinuovo verso Meredith, e si fermò unistante. «Ethan voleva tendere

una trappola a Damon», le disse conironia. «Non so perché fossipreoccupato. Ovviamente, nonsapeva

cosa stesse cercando di catturare».

Elena annuì di nuovo, reprimendo unsorriso. L’idea di un vampiroqualsiasi, appena creato, che

cercava di avere la meglio suDamon, con tutta la sua astuzia e la

sua esperienza, era ridicola.

Poi il corso della battaglia cambiòdi colpo.

Uno dei vampiri contro cui si stavabattendo Meredith schivò un pugnoe, mezzo piegato, si lanciò verso

di lei, colpendola tanto forte da farlavolare. Come al rallentatore,Meredith fluttuò nell’aria con le

braccia aperte, poi si schiantò,battendo la testa, contro il pesantetavolo adibito ad altare sul lato

anteriore della stanza.

Il tavolo traballò e si rovesciò conun tonfo. Meredith giacqueimmobile, con gli occhi chiusi, privadi

sensi. Elena corse verso di lei e le siinginocchiò accanto, cullandole latesta in grembo.

I tre vampiri contro cui Meredithaveva lottato erano ridotti piuttostomale. Uno aveva il volto sporco di

sangue che continuava a sgorgaredalle ferite, un altro zoppicava e

l’ultima era piegata in due, come se

avesse qualche organo internospappolato. Ma erano ancora ingrado di muoversi velocemente. Inun

lampo avevano circondato Stefan.

Quando Damon si voltò con unringhio, cambiando posizione persoccorrere suo fratello, Ethanintravide

un’opportunità e si gettò su di lui.Troppo veloce perché Elena potesseseguire i suoi movimenti, Ethan

azzannò alla gola Damon, facendozampillare gocce di sangue scarlatto.Con il pugnale che aveva in

mano, cercava di ferirlo mentre glilacerava il collo a morsi.

Con un grido di dolore e disorpresa, Damon abbrancò Ethan,cercando di toglierselo di dosso.Elena

prese di nuovo il coltello e corseverso di loro. Ma due dei restantivampiri furono addosso a Damon in

un batter d’occhio e gli tirarono

indietro le braccia. Il terzo lo afferròper i capelli scuri, torcendogli

all’indietro la testa per esporre lagola alle zanne di Ethan.

Damon, perdendo l’equilibrio,barcollò all’indietro, e per un istanteguardò Elena negli occhi, con uno

sguardo ammorbidito dallosconcerto.

Terrorizzata, Elena cercò diafferrare per le spalle uno deivampiri, e questi la gettò a terrasenza

nemmeno guardarla. Stefan, intanto,era impegnato in un corpo a corpocon un altro vampiro e cercava

disperatamente di raggiungere suofratello. Damon era più esperto epiù abile nella lotta rispetto ai suoi

aggressori. Ma se avesseroapprofittato del momentaneovantaggio ottenuto grazie allasuperiorità

numerica, avrebbero potutoabbatterlo prima che lui avesse iltempo di riprendersi.

Elena strinse forte il manico delcoltello e balzò di nuovo in piedi,sapendo nell’intimo che forse

sarebbe arrivata troppo tardi persalvarlo, ma che doveva provarci.

Una figura ringhiante le sfrecciòaccanto: era Stefan, che, liberatosidel suo avversario, caricò Ethan,

spingendolo dall’altra parte dellastanza e facendogli volare il coltellodi mano. Senza fermarsi, strappò

uno degli altri vampiri dal bracciodi Damon e gli ruppe il collo. Prima

che il corpo toccasse terra,

Damon aveva già eliminato l’altro.

I due fratelli, ansimando, siscambiarono un lungo sguardo chesembrava contenere moltissimeparole

non dette. Damon si pulì la boccamacchiata di sangue cremisi con ildorso della mano.

D’un tratto, Elena si trovò unbraccio intorno alla gola e qualcunole strappò il coltello di mano. Sisentì

sollevare. Poi qualcosa di aguzzo letrapassò la carne tenera nell’incavodella gola.

«Posso ucciderla prima che riusciatea raggiungerla», disse Ethan, quasigridandole nell’orecchio. Elena

agitò un braccio all’indietro,cercando di afferrargli i capelli o digraffiarlo in viso, ma lui le assestòun

calcio violento alle gambe,facendole perdere l’equilibrio etirandola più vicino. «Possoromperle il

collo anche con un braccio solo.Oppure posso pugnalarla con il suostesso coltello e lasciarla morire

dissanguata. Sarebbe divertente».

Elena si accorse che Ethan le avevapreso il coltello e glielo premevaalla gola. L’altro braccio

pendeva inerte ed era piegato inmodo innaturale. Damon glieloaveva rotto, ricordò.

Stefan e Damon si immobilizzaronoe poi, molto lentamente, si giraronoverso di loro, con sguardi

prudentemente neutri, che nonlasciavano trapelare alcunaemozione. Poi Damon si lasciòandare alla

rabbia.

«Lasciala andare», ringhiò. «Tiuccideremo appena il suo corpotoccherà terra».

Ethan rise, una risata notevolmentegenuina per uno che si trovava inbilico fra la vita o la morte. «Lei

morirà lo stesso, quindi penso chene valga la pena. In ogni caso, non

avete intenzione di lasciarmi

andare, non è vero?». Si girò versoStefan e riprese, in tonocanzonatorio. «Sapete, gli altridiscendenti di

Klaus mi hanno raccontato tutto deifratelli Salvatore. Mi hanno dettoche siete splendidi aristocratici dal

temperamento irascibile. Che Stefanè misericordioso e Damon spietato.Ma hanno anche detto che

entrambi tendete a perdere la testaper amore, sempre per amore. È il

vostro difetto fatale. Quindi, sì,

credo che le mie possibilità sianomigliorate parecchio da quando homesso le mani sulla vostra ragazza.

A proposito, di chi è la ragazza?Non l’ho capito». Elena sussultò.

«Aspetta un attimo, Ethan». Stefanalzò le mani per calmarlo.«Parliamone. Se rinunci a riportare

indietro Klaus e lasci andare Elenasana e salva, ti daremo qualunquecosa. Se lasci la città, non ti

verremo a cercare. Non ti succederànulla di male. Se ci conosci, sai chemanterremo la parola».

Alle sue spalle, Damon annuì conriluttanza, tenendo gli occhi fissi sulvolto di Elena.

Ethan rise di nuovo. «Non penso chetu possa ancora darmi qualcosa chemi interessi, Stefan», disse.

«Gli altri membri della VitaleSociety, inclusi i nuovi iniziati,torneranno presto, e penso chefaranno

pendere di nuovo l’ago dellabilancia in mio favore». Strinse ilbraccio intorno alla gola di Elena.

«Abbiamo già ucciso tantissimistudenti in questo campus. Uno più,uno meno… non se ne accorgeranno

neppure».

Damon emise un sibilo di rabbia escattò in avanti, ma Ethan gridò:«Fermati subito, o…».

All’improvviso, Ethan sobbalzò edElena sentì un forte, pungente dolorealla gola. Squittì di terrore e si

strinse le mani sul collo. Ma ilcoltello le aveva procurato solo ungraffio.

Stefan e Damon erano ancora fermi aguardarla, rabbiosi e impotenti,quando il braccio che Ethan le

stringeva intorno alla gola siafflosciò. Il vampiro produsse unorribile suono gorgogliante. Elena si

liberò con uno strattone appena lastretta di Ethan si allentò.

Lunghi e densi fiotti cremisi glisgorgavano dal torace, e aveva la

bocca spalancata per la sorpresa

mentre si stringeva il corpo e,lentamente, crollava a terra, con unbuco al centro del petto che siriempiva

di sangue.

Meredith stava dietro di lui, con icapelli al vento e gli occhi grigi,solitamente freddi, che ardevano

come braci. Il suo bastone eracoperto del sangue di Ethan.

«L’ho colpito al cuore», disse con

fierezza.

«Grazie», mormorò educatamenteElena. Si sentiva… davvero…molto strana, e fu solo quando

cominciò a cadere che pensò: “Ohno, sto per svenire”.

Vide come attraverso una nebbiaDamon e Stefan che accorrevano asorreggerla, e quando rinvenne,

subito dopo, si trovò ben salda tradue paia di braccia.

«Sto bene», disse. «È stato solo…

un attimo, ero…». Per un istante, unodei due la strinse a sé e poi la

lasciò andare fra le bracciadell’altro. Quando Elena alzò losguardo, si trovò stretta fra lebraccia di

Stefan. Damon stava a pochi passida loro e li guardava conun’espressione indecifrabile.

«Sapevo che saresti venuto asalvarmi», disse Stefan, con gliocchi rivolti al fratello.

Damon piegò le labbra in un

piccolo, riluttante sorriso. «Certoche sono venuto, idiota», disseburbero.

«Sono tuo fratello».

Si guardarono per un lungomomento, poi Damon lanciòun’occhiata a Elena, ancora fra lebraccia di

Stefan, e distolse subito lo sguardo.«Spegniamo le torce e andiamo»,disse brusco. «Abbiamo ancora

quattordici vampiri da trovare».

41

Matt aveva l’impressione che lui eBonnie stessero aspettando daun’eternità nel piccolo ufficio sul

retro della biblioteca. Avevano tesol’orecchio per captare qualchesuono, nel tentativo di ricavare

almeno un indizio su ciò che stavasuccedendo là sotto. Bonniecamminava avanti e indietro,torcendosi

le mani e mordendosi le labbra, e luise ne stava appoggiato al muro, a

testa bassa, con il bastone di

Samantha ben stretto tra le mani. Perogni evenienza.

Matt conosceva a menadito le porte,i passaggi e i tunnel sotterranei,anche se molti non sapeva dove

portassero, ma non si era maiaccorto di quanto fossero beninsonorizzati. Non udirono un solorumore.

Poi, all’improvviso, la botola siaprì, e Matt si irrigidì, alzando ilbastone, finché vide il volto di

Elena.

Meredith, Elena, Stefan e Damonuscirono dalla botola: erano copertidi sangue, ma sembrava stessero

abbastanza bene, data laconcitazione con cui le ragazzeraccontarono tutto a Bonnie,mangiandosi le

parole e sovrapponendosi.

«Ethan è morto», gli disse Stefan.«Nello scontro sono morti altriVitale, ma non c’era nessuno dei

candidati fra loro. Ethan li hamandati fuori a caccia».

Matt si sentì allo stesso tempo felicee angosciato. Aveva immaginato cheChloe e tutti i suoi amici del

percorso di iniziazione fossero statiuccisi da Stefan e Damon, e invecenon erano morti. Non del tutto. Si

erano trasformati in vampiri.

«Darete loro la caccia?», chieserivolto a Stefan e Damon, ma anchea Meredith. Lei annuì, con

un’espressione risoluta, e Damondistolse lo sguardo.

«Non abbiamo scelta», risposeStefan. «Lo sai».

Matt si fissò le scarpe. «Già», disse.«Lo so. Ma, se vi capita, potresteparlare con alcuni di loro? Se vi

sarà possibile e se loro sidimostrano ragionevoli e nessunaltro è in pericolo? Magari possonoimparare

a vivere senza uccidere la gente. Semostri loro come fare, Stefan». Si

massaggiò la nuca. «Chloe era…

speciale. E anche gli altri eranobravi ragazzi. Non sapevano in cosasi stessero cacciando. Meritano una

possibilità».

Rimasero tutti in silenzio e, dopo unpo’, Matt alzò la testa e vide cheStefan lo stava osservando con

uno sguardo compassionevole negliocchi verdi e la bocca tesa in unasmorfia di dolore. «Farò del mio

meglio», disse con gentilezza. «Te

lo prometto. Ma i nuovi vampiri – ivampiri in genere, a dire il vero –

possono essere imprevedibili. Forsenon riusciremo a salvare nessuno diloro e la nostra priorità devono

essere gli innocenti. Ma ciproveremo».

Matt annuì. Sentiva un sapore amaroin bocca e gli bruciavano gli occhi.Cominciava ad accorgersi solo

in quel momento di quanto fossestanco. «Questo più o meno è ilmeglio che potessi aspettarmi»,

disse

brusco. «Grazie».

«Quindi qua sotto c’è una stanzapiena di vampiri morti?», chieseBonnie, arricciando il naso per il

disgusto.

«Già, proprio così», rispose Elena.«Abbiamo rimesso il lucchetto allaporta, ma vorrei poter bloccare

l’accesso alla sala in modopermanente. Prima o poi qualcunopotrebbe scendere là sotto e l’ultima

cosa

che vogliamo in questo campus èun’altra indagine per omicidio oun’altra leggenda raccapricciante».

«Ta-da!», esclamò Bonnie, con unsorriso radioso, e prese un sacchettodalla tasca. «Finalmente

qualcosa che posso fare». Tenne inalto il sacchetto. «Ricordate tutte leore che la signora Flowers mi ha

fatto passare a studiare le erbe? Be’,conosco incantesimi per metterequalcosa sottochiave e per

respingere i curiosi, e ho le erbenecessarie proprio qui con me. Hopensato che avrebbero potutotornare

utili appena Matt ci ha detto cheeravamo diretti in una stanza segretanei sotterranei del college».

Appariva così compiaciuta che aMatt sfuggì un sorriso, nonostanteavesse il cuore pesante al pensiero

di Chloe e degli altri là fuori, nellanotte. «Probabilmente funzionerannosolo per un giorno o due»,

aggiunse Bonnie con modestia, «madi sicuro, per un paio di giorni,dissuaderanno i curiosi dal fare

indagini nei dintorni della botola».

«Sei un fenomeno, Bonnie», disseElena e l’abbracciò d’impulso.

Stefan annuì. «Possiamo liberarcidei corpi domani», disse. «Ormai èquasi l’alba».

Bonnie si mise subito al lavoro,cospargendo la botola di erbeessiccate. «Issopo, sigillo diSalomone e

foglie di damiana», disse, quando siaccorse che Matt la stavaosservando. «Servono a rinforzare isigilli,

a proteggere dal male e a custodirein generale. La signora Flowers miha fatto esercitare così tanto con

questa roba che alla fine sonodiventata esperta. È un vero peccatoche non abbia potuto aiutarmi con i

compiti del liceo. Magari con leisarei riuscita a imparare un po’ diquei verbi francesi».

Damon li osservava con gli occhisocchiusi. «Dovremmo andare acercare i nuovi vampiri», disse.

«Sapete che i vampiri non amanostare in branco. Non caccerannoinsieme a lungo. Appena si

divideranno, possiamo cominciare aeliminarli», disse a Stefan.

«Vengo anch’io», disse Meredith.Guardò Damon con aria di sfida.«Accompagno Matt a casa e poi vi

raggiungo».

Damon sorrise, uno strano, caldosorriso che Matt non gli aveva maivisto rivolgere a Meredith. «Mi

riferivo anche a te, cacciatrice»,disse. «Sei migliorata». Un attimodopo, lei gli restituì il sorriso, con

una smorfia divertita, e Matt pensòche, forse, quello che aveva vistoscoccare fra loro fosse l’inizio di

un’amicizia.

«Quindi, alla fine, dietro tutti gliomicidi e le sparizioni c’erano iVitale?», chiese Matt a Stefan,

provando un senso di nausea. Comepoteva aver passato tanto tempo conEthan senza sospettare che fosse

un assassino?

Bonnie divenne così pallida che lelentiggini spiccarono come puntinineri su un foglio bianco. Poi

riprese colore, le guance e leorecchie tornarono di un rosaacceso. Si alzò, vacillando. «Devoandare da

Zander», disse.

«Ehi», esclamò Matt, preoccupato, eandò a bloccare la porta. «C’èancora un branco di vampiri

arrabbiati là fuori, Bonnie. Aspettache ti accompagni qualcuno».

«Inoltre, hai altri impegni», dissesecco Damon, lanciando un’occhiataeloquente alle erbe sparse sulla

botola. «Dopo che avrai fatto le tuemagie da strega, potrai andare atrovare il tuo cucciolo».

«Perdonaci, Bonnie», disseMeredith, spostando il peso da un

piede all’altro, a disagio.«Dovevamo

fidarci di te sul fatto che fossi ingrado di riconoscere un bravoragazzo quando ne incontri uno».

«Tutto perdonato», disseallegramente Bonnie, e si buttò dinuovo per terra di fronte alla botola.«Devo

solo pronunciare l’incantesimo».Passò le mani sulle erbe. «Existosignum», mormorò. «Servo quis est

intus».

Mentre raccoglieva parte delle erbeper rimetterle nel sacchetto,continuava a sorridere e, di tanto in

tanto, si fermava e guardava nelvuoto, dondolandosi sui talloni. Mattle sorrise con aria stanca. Era

felice per Bonnie. Almeno per leic’era stato un lieto fine.

Sentì una mano forte e snellaprendere la sua e si girò, trovandosiaccanto Meredith. Lei gli rivolse un

sorriso di compassione. Più in là,Elena appoggiò timidamente la mano

sul braccio di Stefan, ed entrambi

guardarono Bonnie. Damon stavaimmobile e li osservava tutti conun’espressione quasi affettuosa.

Matt si appoggiò a Meredith,confortato. Dopo tutto ciò che eraaccaduto, almeno erano ancorainsieme.

I suoi veri amici erano con lui; eratornato da loro, alla fine.

Il sole era basso nel cielo, a levante,quando Bonnie si arrampicò sullarampa antincendio, producendo

un clangore metallico a ogni passo.Salendo gli ultimi gradini, videZander seduto con la schiena controil

ruvido muretto di cemento ai marginidel tetto. Lui si girò a guardarlamentre si avvicinava.

«Ciao», disse lei. Mentre andava lìera davvero emozionata all’idea divederlo, tanto che persino Elena

e Meredith avevano superato ilsenso di colpa e avevano cominciatoa ridere con lei, ma ora si sentiva

strana e a disagio, come se la suatesta fosse troppo grande. Capì chec’erano molte probabilità che lui

non volesse parlare con lei.Dopotutto, l’aveva accusato diessere un assassino: non era unerrore che si

poteva perdonare facilmente allapropria ragazza.

«Ciao», rispose lui esitante. Seguìuna lunga pausa, poi Zander diede uncolpetto sul pavimento di

cemento accanto a sé. «Vuoi

sederti?», chiese. «Stavo sologuardando il cielo». Esitò. «Fra unpaio di

giorni ci sarà la luna piena».

L’accenno alla luna piena suonòcome una sfida, e Bonnie si sedetteaccanto lui, poi si torse le mani e

andò dritta al punto. «Mi dispiace diaverti chiamato assassino», disse.«Ora so che ho sbagliato ad

accusarti di essere il responsabiledegli omicidi al campus. Avreidovuto fidarmi di più di te. Ti prego,

accetta le mie scuse», finì in fretta.«Perché mi manchi».

«Mi manchi anche tu», disse lui. «Ecapisco che è stato uno shock».

«Sul serio, comunque, Zander»,disse Bonnie, dandogli una piccolaspinta con l’anca. «Mi hai appena

detto di essere un lupo mannaro? Seistato morso da piccolo o qualcosadel genere? Perché so che

l’unico modo per diventare lupimannari senza uccidere qualcuno èessere morsi. E, d’accordo, ora so

che non sei l’assassino, ma Meredithti ha visto con una ragazza che eraappena stata aggredita. E… ed

eri pieno di lividi, lividi davverobrutti, dappertutto. Penso di averavuto tutto il diritto di pensare che ci

fosse qualcosa di sospetto in te».

«Sospetto?». Zander sbottò in unabreve risata, ma Bonnie vi colse unanota di tristezza. «Immagino di

essere un tipo sospetto, se vuoimetterla in questo modo».

«Puoi spiegarti?», chiese lei.

«D’accordo, ci proverò», rispose luipensieroso. Si voltò e le prese unamano, la rigirò fra le sue e

cominciò a giocherellare con le dita,tirandole piano. «Come già sai, aquanto pare, nella maggior parte

dei casi una persona diventa lupomannaro o perché viene morsa, operché nella sua famiglia c’è il gene

della licantropia, ma deve essereattivato uccidendo qualcuno in unaspecie di rituale. Quindi, per

impossessarti del potere del lupodevi essere vittima di una tremendaaggressione, che finisce per farti

perdere la testa, o devi compieredeliberatamente un’azionemalvagia». Fece una smorfia.«Questo, in

parte, spiega perché i lupi mannarihanno una reputazione così brutta.Ma c’è un altro tipo di lupi

mannari».

La guardò con una sorta di timidoorgoglio. «Io faccio parte del

Branco Originario».

“Originario”. La mente di Bonnieera in tumulto. “Immortale”, pensò,ricordandosi di Klaus, che non era

mai stato umano. «Quindi… seimolto vecchio?», chiese esitante.

Immaginava che per Elena non fosseun problema frequentare ragazzi cheavevano qualche centinaio

d’anni più di lei. Era persinoromantico. Più o meno.

Tuttavia, nonostante la cotta che

aveva avuto per Damon, si erasempre vista assieme a un ragazzo di

circa la sua età. Trovava troppovecchio persino Alaric, il ragazzo diMeredith, che era tanto intelligente

e carino e non aveva ancoratrent’anni.

Zander sbottò in un’improvvisarisata nasale e le strinse forte lamano. «No!», disse. «Ho compiuto

vent’anni solo il mese scorso! I lupimannari non sono così… Noi siamovivi. Nasciamo, moriamo.

Siamo come tutti gli altri, soloche…».

«Vi trasformate in lupi superforti esuperveloci», concluse Bonniesarcastica.

«Già, proprio così», disse lui. «Haicapito al volo. Comunque, il BrancoOriginario è, in un certo senso,

la famiglia da cui hanno avutoorigine i lupi mannari. La maggiorparte dei lupi mannari sono stati

contagiati da qualche tipo di virusmistico. Può essere tramandato di

generazione in generazione, ma è

dormiente. Il Branco Originariodiscende dai primi lupi mannari cheabitarono la terra, cavernicoli come

tutti gli altri, tranne durante la lunapiena. Fa parte del nostropatrimonio genetico. Siamo diversidai

normali lupi mannari. Possiamosmettere di trasformarci, senecessario. Possiamo ancheimparare a

trasformarci quando non c’è la luna

piena, ma è difficile».

«Se potete smettere di trasformarvi,alcuni di voi possono smettere diessere lupi mannari?», chiese

Bonnie.

Zander la avvicinò a sé. «Nonpotremo mai smettere di essere lupimannari, anche se non ci

trasformiamo mai. È ciò che siamo.Ed è doloroso non trasformarsiquando la luna è piena. È come se

cantasse per noi, e la canzone

diventa sempre più forte e chiaraman mano che si avvicina ilplenilunio.

Allora il desiderio di trasformarci ètroppo forte, quasi doloroso».

«Wow», esclamò Bonnie . Poisgranò gli occhi. «Quindi anche ituoi amici sono membri del Branco

Originario? Siete tutti parenti?»

«Uhm», fece lui. «Penso di sì. Mamolto alla lontana. Non siamo tutticugini di primo grado, se è questo

che intendi».

«Che strano», disse Bonnie. «Ok,Branco Originario, ho capito». Glisi accoccolò più vicino,

posandogli la testa sulla spalla.«Raccontami il resto».

«Ok», disse di nuovo lui. Si scostò icapelli dagli occhi e le mise unbraccio sulle spalle. Cominciava a

fare un po’ freddo a star seduti sulcemento, e lei gli si rannicchiòaccanto, godendo del suo calore.

«Dunque, Dalcrest si trova su unaspecie di zona calda per le attivitàparanormali. Ci sono queste cose

chiamate linee energetiche, vedi…».

«Lo so già», lo interruppe Bonnie.«Va avanti con la tua storia».

Zander la fissò a bocca aperta.«Va… bene», disse lentamente.«Comunque, l’Alto Consiglio deiLupi

ogni anno manda alcuni di noi astudiare al Dalcrest. Per controllareeventuali minacce. Siamo una sorta

di cani da guardia, credo. I cani daguardia originari».

Bonnie ridacchiò. «L’Alto Consigliodei Lupi». Zander le diede uncolpetto nelle costole.

«Smettila, non è divertente», disse.«Sono molto importanti». Lei rise dinuovo, e lui le rifilò una

leggera gomitata. «Dicevo, con tuttele sparizioni e gli attacchi, le cosesono andate piuttosto male al

campus quest’anno», continuò,tornando serio. «Molto peggio del

solito. Abbiamo fatto delle indagini.

C’è dietro un branco di vampiriappartenenti a una società segretadel campus, e abbiamo fatto tutto il

possibile per combatterli eproteggere le persone. Ma non siamoforti quanto loro, tranne durante il

plenilunio, anche se ci trasformiamo.E questo spiega i lividi. La tuaamica mi ha visto mentre difendevo

una ragazza che era appena stataaggredita».

«Non preoccuparti. Stasera ci siamooccupati noi della Vitale Society»,disse compiaciuta Bonnie.

«Be’, almeno del loro capo e diqualcuno degli altri», si corresse.«Ci sono ancora un bel po’ divampiri

in giro per il campus, ma cilibereremo di loro».

Zander si girò e la fissò a lungoprima di parlare. «Penso», disse allafine in tono neutro, «che ora tocchi

a te spiegare».

Bonnie, in realtà, non era moltobrava con le spiegazioni logiche eben organizzate, ma fece del suo

meglio, andando avanti e indietronel tempo, aggiungendoconsiderazioni personali ericordando le cose

man mano che le raccontava. Glidisse di Stefan e Damon e di cometutto fosse cambiato quando, un anno

prima, erano arrivati a Fell’s Churched Elena si era innamorata di loro.Gli raccontò del sacro dovere di

Meredith come cacciatrice divampiri, delle proprie visionipsichiche e dell’addestramento alla

stregoneria.

Tralasciò moltissime cose. Tutto ciòche riguardava la DimensioneOscura e l’accordo che Elena aveva

stretto con le Guardiane, peresempio, perché era troppocomplicato e, magari, avrebbepotuto

parlargliene in un secondo momento,per non sovraccaricarlo di

informazioni. In ogni caso, ilracconto

richiese molto tempo.

«Uh», fece Zander quando Bonnieebbe terminato, poi scoppiò aridere.

«Che c’è?», gli chiese lei.

«Sei una strana ragazza», risposelui. «Piuttosto eroica, comunque».

Lei gli premette il viso contro ilcollo, inalando felice il suo odorecaratteristico: ammorbidente, cotone

consumato e purezza.

«Tu sei strano», ribatté lei e poi, intono ammirato, aggiunse: «E sei tu ilvero eroe. Avete respinto gli

attacchi dei vampiri per settimane,avete protetto tutti».

«Siamo una bella coppia», disseZander.

«Già», disse Bonnie. Si tirò su e loguardò negli occhi, poi sollevò unbraccio, fece scorrere le dita tra i

suoi morbidi capelli chiari e l’attirò

a sé. «Inoltre», disse, un attimoprima che le loro labbra si

toccassero, «la normalità èsopravvalutata».

42

Stefan e Damon stavanoriaccompagnando Elena aldormitorio, e la tensione fra loro eraquasi

palpabile.

Mentre camminavano, Elena avevapreso la mano di Stefan senza

pensarci e lui, in un primo momento,si

era irrigidito, poi, pian piano, si erarilassato, tanto che ora trovavanaturale che si tenessero per mano.

Le cose fra loro non erano ancoratornate come prima. Ma gli occhiverdi di Stefan erano pieni di timido

affetto quando si posavano su di lei,ed Elena era sicura di potersistemare le cose. Qualcosa era

cambiato in Stefan quando suofratello era accorso a salvarlo,

quando Elena l’aveva slegato e gliaveva

detto quanto fosse dispiaciuta. Forseaveva solo bisogno di sapere che,qualunque cosa ci fosse fra lei e

Damon, lui veniva al primo postoper lei. Nessuno l’aveva escluso.

Elena aprì la porta ed entrarono.Erano trascorse solo poche oredall’ultima volta che erano stati in

quella stanza, ma erano successecosì tante cose che sembrava unluogo emerso da un’epoca lontana,

con

i poster, i vestiti e l’orsacchiotto diBonnie come relitti di una civiltàperduta.

«Oh, Stefan», disse Elena, «sonocosì felice che tu sia sano e salvo».Tese le braccia e lo strinse a sé,

ma, proprio come quando gli avevapreso la mano, lui s’irrigidì per unmomento, prima di ricambiare

l’abbraccio.

«Sono felice che entrambi siate sani

e salvi», si corresse, guardandoDamon. Lui le rispose con uno

sguardo freddo ed Elena capì che,anche se non ne avrebbero parlato inmodo esplicito, lui sapeva che le

cose fra loro non sarebbero tornatecome prima. Elena amava Stefan.Aveva scelto.

Quando Stefan aveva detto che Ethanaveva intenzione di prendere ilsangue di entrambi i fratelli e di

usarlo per far risorgere Klaus, Elenaera inorridita. Non solo per il

pericolo che Stefan aveva corso, o

per la terrificante prospettiva cheKlaus tornasse in vita, senza dubbiocovando propositi di vendetta nei

loro confronti, ma per la trappolache Ethan aveva teso a Damon.Aveva progettato di prendere ilmeglio

di lui – l’amore riluttante che nutrivaper suo fratello, sempre fortenonostante tutte le volte in cui

sembrava essere stato scalfito – e diusarlo per distruggerlo.

«Sarò grata in eterno che stiatebene», ripeté e abbracciò ancheDamon.

Lui si lasciò abbracciare volentieri,ma, appena lei lo strinse più forte,trasalì.

«Cosa c’è che non va?», chieseElena, perplessa, e Damon aggrottòla fronte.

«Ethan mi ha ferito», disse, mentrel’espressione preoccupata sitrasformava in una smorfia didolore.

«Sono solo un po’ dolorante». Tiròla camicia, indicando uno strappo,poi la sollevò esponendo una

striscia di pelle bianca e tesa. Sulpallore della pelle spiccava unlungo taglio che stava già guarendo.

«Non è nulla», disse Damon.Rivolse a Elena un sorrisomalizioso. «Una piccola bevuta daun donatore

volontario e tornerò come nuovo».

Lei scosse la testa, guardandolo conaria di disapprovazione, ma non

rispose.

«Buonanotte, Elena», disse Stefan ele sfiorò la guancia con il dorsodella mano. «Anzi, dovrei dire

buongiorno, ma cerca comunque didormire un po’».

«Vai a caccia di vampiri?», chieselei in ansia. «Stai attento».

Damon rise. «Mi assicurerò che nonsi faccia male con quegli orribilivampiri», disse. «Povera Elena.

Il tuo progetto di avere una vita

normale non sta andando comevorresti, vero?».

Elena sospirò. Era proprio quello ilproblema. Damon non avrebbe maicompreso perché lei volesse

essere una persona normale.Pensava a lei come alla suaprincipessa oscura, voleva che fossecome lui,

che fosse migliore degli altri. Stefannon pensava che lei fosse unaprincipessa oscura; pensava chefosse

un essere umano.

Ma lo era? Per un attimo pensò didire loro dei Guardiani e dei segretisulla sua nascita, ma non se la

sentiva. Non era il momento giusto.Non ancora. Damon non avrebbecapito perché quelle cose la

sconvolgessero tanto. E Stefan eracosì pallido ed esausto dopo la suaordalia con le corde imbevute di

verbena, che non se la sentiva diaffaticarlo ulteriormente con le suepaure sui Guardiani.

Mentre era assorta in quei pensieri,Stefan vacillò, solo per una frazionedi secondo, e Damon, senza

pensarci, tese un braccio persorreggerlo. «Grazie», disse Stefan.«Grazie per essere venuti asalvarmi».

«Io ti salverò sempre, fratellino»,disse Damon, ma stava guardandoElena, che si ricordò di quando

aveva detto a lei le stesse parole.«Anche se starei meglio senza dite», aggiunse.

Stefan abbozzò un sorriso stanco. «Èora di andare», disse.

«Ti amo, Stefan». Elena gli sfiorò lelabbra con un bacio.

Damon la salutò con un cenno delcapo, senza lasciar trapelare alcunaemozione. «Dormi bene», disse.

Poi la porta si chiuse ed Elenarimase sola. Il letto non le era maiparso così comodo e invitante, e visi

buttò sopra con un sospiro,guardando la luce tenue che

cominciava a penetrare dallafinestra.

La Vitale Society era finita. I pianidi Ethan erano stati sventati. Ilcampus era salvo e un nuovo giorno

stava per cominciare. Stefan l’avevaperdonata e Damon non li avevaabbandonati né si era rivoltato

contro di loro.

Per il momento era il meglio chepotesse sperare. Chiuse gli occhi e,finalmente, si addormentò.

L’indomani sarebbe stato un altrogiorno.

Epilogo

Ethan ansimò, inspirò una lungaboccata d’aria e tossì mentre sisvegliava, tremando in tutto il corpo.

Gli faceva male dappertutto.

Si controllò con prudenza dalla testaai piedi, tastandosi e trovandosi tuttoappiccicoso di sangue mezzo

secco e coperto di una miriade dipiccole ferite. Sollevò le mani, si

toccò con delicatezza il solco nella

spalla, e sentì che stava giàguarendo. Il bastone che la ragazzagli aveva ficcato nella schiena gliaveva

sfiorato il cuore, ma non l’avevatrapassato. Mezzo centimetro più inlà e sarebbe morto. Morto davvero,

stavolta, non morto vivente.

Aggrappandosi con una mano a unasedia rivestita di velluto, si alzò inpiedi e si guardò attorno. I suoi

accoliti, i suoi amici, giacevanomorti sul pavimento. I fratelliSalvatore e le ragazze che erano conloro

erano scappati.

Si tastò nervosamente una tasca esospirò di sollievo mentre chiudevala mano su una piccola fiala. La

tirò fuori e osservò il denso liquidoall’interno. Il sangue di StefanSalvatore. Pescò nella stessa tascaed

estrasse un pezzo di stoffa con una

lunga chiazza rossiccia al centro. Ilsangue di Damon Salvatore.

Aveva ciò che gli serviva.

Klaus sarebbe risorto.

INDICE

Capitolo 1

Capitolo 2

Capitolo 3

Capitolo 4

Capitolo 5

Capitolo 6

Capitolo 7

Capitolo 8

Capitolo 9

Capitolo 10

Capitolo 11

Capitolo 12

Capitolo 13

Capitolo 14

Capitolo 15

Capitolo 16

Capitolo 17

Capitolo 18

Capitolo 19

Capitolo 20

Capitolo 21

Capitolo 22

Capitolo 23

Capitolo 24

Capitolo 25

Capitolo 26

Capitolo 27

Capitolo 28

Capitolo 29

Capitolo 30

Capitolo 31

Capitolo 32

Capitolo 33

Capitolo 34

Capitolo 35

Capitolo 36

Capitolo 37

Capitolo 38

Capitolo 39

Capitolo 40

Capitolo 41

Capitolo 42

Epilogo

DocumentOutline

CopertinaCollanaColophonFrontespizio1234567

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42EpilogoINDICE