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Diario del corso di Analisi matematica - III anno accademico 2012-13 prof. Gabriele Anzellotti Universit` a di Trento Dipartimento di Matematica 12 gennaio 2013 Il presente ‘diario del corso’ contiene una sintesi delle lezioni svolte. Viene aggiornato prima possibile dopo ogni lezione. Le lezioni messe in rete rimangono nella sostanza non modificate, anche se accade frequentemente che vengano fatte correzioni e piccoli aggiustamenti successivi, non sempre segnalati. Il Diario ha una funzione di supporto e la sua lettura non pu ` o sostituire la partecipazione alle lezioni. 1 Lezione - luned` ı 17 settembre 2012 10.30 - 12.30 (2 ore) Introduzione alla Teoria della Misura e dell’Integrazione. 1.1 Argomenti del corso, testi e riferimenti suggeriti, prerequisiti Il corso di Analisi III ` e dedicato a sviluppare i seguenti argomenti: 1. Lunghezza, area, volume di sottoinsiemi dello spazio euclideo 3-dimensionale. 2. Calcolo integrale per funzioni di pi` u variabili, integrali su curve e superfici, estensioni del Teorema Fondamentale del Calcolo in R n . 3. Successioni e serie di funzioni, in particolare serie di Fourier trigonometriche e problema del passag- gio al limite sotto il segno di integrale. 4. Teoria della Misura, con particolare riferimento alla Misura di Lebesgue e alla Misura di Hausdorff. Integrale rispetto a una misura, teoremi di convergenza e spazi di funzioni misurabili. Gli argomenti trattati a lezione saranno riportati nel presente Diario, ma ` e consigliabile avere anche dei testi di riferimento sui quali studiare. Per quanto riguarda gli argomenti 1, 2, 3, si suggerisce di procurarsi un testo di analisi matematica del secondo anno. Un testo ragionevole ` e Analisi matematica 2 di Enrico Giusti - Editore Bollati Boringhieri - Terza edizione 2003. Di questo testo consigliamo in particolare i capitoli: 12. Il Calcolo integrale in pi` u variabili, 13. Successioni e serie di funzioni, 14. Serie di Fourier, 16. Forme differenziali. Per quanto riguarda l’argomento 4, si consiglia di scaricare il testo in formato pdf del libro Modern Real Analysis di William P. Ziemer, che ` e liberamente disponibile nelle pagine personali dell’au- tore nel sito http://www.indiana.edu/ ˜ mathwz/PRbook.pdf della Indiana University. Altri riferimenti su questioni specifiche saranno dati durante il corso e riportati nel Diario. Le prove scritte di esame e le prove in itinere riguarderanno principalmente il calcolo di integrali, lunghezze, aree, volumi. Un’idea del tipo di quesiti richiesti si pu` o avere guardando le prove di esame 2010/11 http:// www.science.unitn.it/ ˜ anzellot/scrittianalisi1011.htm e le prove in itinere 2011/12 (che sono contenute nel diario 2011/12 http://www.science.unitn.it/ ˜ anzellot/analisi1112.htm). Nel- l’anno accademico 2012/13 potranno per` o aversi delle variazioni. Nelle lezioni tenute dal dottor Altavilla saranno svolti diversi esercizi e ne saranno suggeriti molti altri. Ricordiamo che vi sono numerosi siti web nei quali si trovano esercizi svolti di calcolo integrale in pi` u variabili e ne indichiamo due: Politecnico di 1

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Diario del corso diAnalisi matematica - III

anno accademico 2012-13

prof. Gabriele AnzellottiUniversita di Trento

Dipartimento di Matematica

12 gennaio 2013

Il presente ‘diario del corso’ contiene una sintesi delle lezioni svolte. Viene aggiornato prima possibile dopo ognilezione. Le lezioni messe in rete rimangono nella sostanza non modificate, anche se accade frequentemente che venganofatte correzioni e piccoli aggiustamenti successivi, non sempre segnalati. Il Diario ha una funzione di supporto e la sualettura non puo sostituire la partecipazione alle lezioni.

1 Lezione − lunedı 17 settembre 2012 10.30 - 12.30 (2 ore)

Introduzione alla Teoria della Misura e dell’Integrazione.

1.1 Argomenti del corso, testi e riferimenti suggeriti, prerequisiti

Il corso di Analisi III e dedicato a sviluppare i seguenti argomenti:

1. Lunghezza, area, volume di sottoinsiemi dello spazio euclideo 3-dimensionale.

2. Calcolo integrale per funzioni di piu variabili, integrali su curve e superfici, estensioni del TeoremaFondamentale del Calcolo in Rn.

3. Successioni e serie di funzioni, in particolare serie di Fourier trigonometriche e problema del passag-gio al limite sotto il segno di integrale.

4. Teoria della Misura, con particolare riferimento alla Misura di Lebesgue e alla Misura di Hausdorff.Integrale rispetto a una misura, teoremi di convergenza e spazi di funzioni misurabili.

Gli argomenti trattati a lezione saranno riportati nel presente Diario, ma e consigliabile avere anche dei testidi riferimento sui quali studiare. Per quanto riguarda gli argomenti 1, 2, 3, si suggerisce di procurarsi untesto di analisi matematica del secondo anno. Un testo ragionevole e Analisi matematica 2 di Enrico Giusti- Editore Bollati Boringhieri - Terza edizione 2003. Di questo testo consigliamo in particolare i capitoli:12. Il Calcolo integrale in piu variabili, 13. Successioni e serie di funzioni, 14. Serie di Fourier, 16. Formedifferenziali. Per quanto riguarda l’argomento 4, si consiglia di scaricare il testo in formato pdf del libroModern Real Analysis di William P. Ziemer, che e liberamente disponibile nelle pagine personali dell’au-tore nel sito http://www.indiana.edu/˜mathwz/PRbook.pdf della Indiana University. Altri riferimentisu questioni specifiche saranno dati durante il corso e riportati nel Diario.

Le prove scritte di esame e le prove in itinere riguarderanno principalmente il calcolo di integrali, lunghezze,aree, volumi. Un’idea del tipo di quesiti richiesti si puo avere guardando le prove di esame 2010/11 http://www.science.unitn.it/˜anzellot/scrittianalisi1011.htm e le prove in itinere 2011/12 (che sonocontenute nel diario 2011/12 http://www.science.unitn.it/˜anzellot/analisi1112.htm). Nel-l’anno accademico 2012/13 potranno pero aversi delle variazioni. Nelle lezioni tenute dal dottor Altavillasaranno svolti diversi esercizi e ne saranno suggeriti molti altri. Ricordiamo che vi sono numerosi siti webnei quali si trovano esercizi svolti di calcolo integrale in piu variabili e ne indichiamo due: Politecnico di

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Torino http://calvino.polito.it/˜terzafac/Corsi/analisi2/materiale.html; Paul Dawkins -Lamar University http://tutorial.math.lamar.edu/Classes/CalcIII/CalcIII.aspx. Infine, puoessere utile anche un libro di esercizi di analisi per il secondo anno; fra i molti, ai nostri fini essenzialmenteequivalenti, ricordiamo quello di Enrico Giusti, che accompagna il testo di lezioni citato sopra.

Nel presente corso saranno utilizzati i concetti e le tecniche introdotti nei corsi di Analisi 1, Analisi 2,Geometria 1, Geometria 2. In particolare: i numeri reali R e la topologia della retta; gli spazi vettorialiRn e le nozioni di sottospazio vettoriale, base, applicazione lineare e matrice ad essa associata rispetto abasi assegnate; il prodotto scalare standard in Rn, la norma e la distanza euclidea, il teorema di diago-nalizzazione degli operatori simmetrici; la nozione di spazio metrico, di insieme aperto, insieme chiuso,insieme compatto, successione convergente, funzione continua; il calcolo differenziale in una e piu vari-abili; le curve, superfici e sottovarieta regolari in Rn; l’integrale di Riemann e il teorema fondamentale delcalcolo per funzioni di una variabile. Le conoscenze fondamentali di analisi e geometria appena indicatesono date per note e in questo corso saranno solo brevemente richiamate, quando necessario, per stabilire lenotazioni. Per iniziare a seguire questo corso non e pero necessario ricordare a memoria tutte le definizioni,gli enunciati e le dimostrazioni che si sono incontrati nei corsi del primo anno! e sufficiente averne un’ideaintuitiva ed e importante avere un luogo di riferimento dove si possano rapidamente ritrovare nel dettaglioche a seconda dei casi e necessario. Il corso di Analisi III fornisce molte buone occasioni per riprendere inmente e sistemare gli argomenti studiati nel primo anno, argomenti che forse non sono stati tutti acquisitia sufficienza dagli studenti e che comunque, inevitabilmente, saranno stati in parte dimenticati. Pertantoal termine del presente corso ci si attende che le teorie studiate nel primo anno, pur non essendo specificooggetto dell’esame, siano padroneggiate adeguatamente dagli studenti, per quanto riguarda il loro utilizzonegli argomenti specifici di Analisi III.

1.2 Lunghezza e area in una prospettiva storica. Due enunciati del Teorema di Pitagora

Se oggi chiediamo a qualcuno di misurare (la lunghezza di) un bastoncino, costui probabilmente prenderaun metro, ossia una riga o un nastro graduato, e lo mettera accanto al bastoncino, avendo cura di porre unaestremita del bastoncino in corrispondenza con l’inizio del metro, dove si trova segnato il numero 0 (zero);poi leggera il numero che si trova sul metro in corrispondenza con l’altra estremita. Questo numero sara larisposta. Se chiediamo poi di dirci l’area di un foglio rettangolare, questa persona misurera le lunghezze didue lati del foglio, ortogonali tra loro, e moltiplichera tra loro questi due numeri. L’area e per noi il numeroche si ottiene come prodotto delle lunghezze dei lati. Naturalmente si possono usare strumenti molto piusofisticati per la misura della lunghezza e in ogni caso vi saranno delle incertezze e degli errori nelle misure,ma tutto cio non interessa in questa sede, il punto e che la misura (lunghezza, area) per noi e un numero.Per distinguere i numeri che esprimono lunghezze dai numeri che esprimono aree, si usa scrivere perchiarezza accanto ai primi il simbolo ‘m’ (che sta per ‘metro’, l’unita di misura delle lunghezze), e siusa invece scrivere accanto ai secondi il simbolo ‘m2’ (che sta per ‘metro quadrato’, l’unita di misuradell’area). Precisiamo subito che non c’e alcuna differenza fra i numeri che esprimono lunghezze, aree omisure di tempo o di temperatura, come invece si sente talvolta dire... sempre gli stessi numeri sono. Quelloche e diverso e la nostra intenzione, nell’usarli, di indicare misure di grandezze diverse. Tale intenzionepuo essere opportuno palesarla − i fisici ci tengono sempre molto, e hanno le loro ragioni1 − e si aggiungecosı il simbolo dell’unita di misura.La lunghezza e l’area non si sono sempre misurate in questo modo. Il metro e stato introdotto soltanto allafine del settecento e soprattutto, il modo di pensare alla lunghezza e all’area e stato radicalmente diversonella matematica greca antica. Per comprendere questa differenza possiamo confrontare due enunciati delteorema di Pitagora, un enunciato moderno che si trova comunemente nei libri o in rete e l’enunciato chesi trova negli Elementi di Euclide, Libro I, n.47 2. Euclide vive a cavallo del 300 a.C., ma il teorema diPitagora, in qualche forma, si ritiene sia di almeno un secolo precedente .

Teorema 1.2.1 Teorema di Pitagora - enunciato corrente moderno. In un triangolo rettangolo l’area delquadrato costruito sull’ipotenusa e equivalente alla somma delle aree dei quadrati costruiti sui due cateti.In altre parole: dato un triangolo rettangolo di lati a, b e c, dove c e l’ipotenusa (ossia c e il lato oppostoall’angolo retto), si ha

a2 +b2 = c2

1I matematici invece in genere non ci tengono, e hanno anche loro le loro ragioni.2Faremo riferimento all’edizione critica e traduzione di Fabio Acerbi, Bompiani 2007

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Teorema 1.2.2 Teorema di Pitagora negli ‘Elementi’ di Euclide. Nei triangoli rettangoli il quadrato sullato (ipotenusa) che sottende l’angolo retto e uguale ai quadrati sui lati (cateti) che comprendono l’angoloretto.

Nella formulazione di Euclide ovviamente non compaiono formule e non c’e neppure la parola ‘area’. Sidice invece direttamente che il quadrato (costruito) sul lato che sottende l’angolo retto (noi abbiamo ag-giunto il nome ‘ipotenusa’) e uguale ai quadrati sugli altri due lati. Il Teorema di Pitagora antico non euna uguaglianza fra numeri, e invece una uguaglianza tra figure: da una parte il quadrato costruito sul-l’ipotenusa, dall’altra parte i due quadrati costruiti sui cateti, presi insieme. La dimostrazione di Euclideprocede suddividendo il quadrato sui cateti in due parti e facendo vedere che ciascuna di esse e uguale auno dei quadrati sui cateti. La prova si basa sulla proposizione, mostrata da Euclide al numero 35 del LibroI, che due parallelogrammi con un lato in comune e i lati opposti su una stessa retta sono uguali. Qui eimportante capire il significato che ha il termine uguali: due figure sono uguali se ciascuna di esse si puosuddividere in uno stesso numero finito di parti, in modo che ogni parte della prima figura sia sovrapponi-bile esattamente a una e una sola parte della seconda figura. In linguaggio posteriore, noi preferiamo direche due figure con questa proprieta sono equiscomponibili e diciamo che sono quindi equivalenti. In ognicaso, le figure vengono comparate senza ricorrere a un numero per misurarne l’estensione. Vediamo nellaprossima sezione come questo punto di vista viene utilizzato dai Greci per sviluppare una teoria generaledelle grandezze.

1.3 Grandezze e proporzioni nella matematica greca. Archimede e la sfera.

Nella matematica greca fu sviluppata una teoria delle grandezze astratte e delle proporzioni fra le grandezze,la cui esposizione classica si trova nel Libro V degli Elementi di Euclide. I segmenti, oggetti astratti delpiano euclideo, sono un esempio tipico di grandezza. I segmenti possono essere trasportati nel piano conle isometrie, o moti euclidei). Grazie a questa operazione, i segmenti si possono confrontare, mettendoli suuna stessa retta con un estremo in comune in un punto P e l’altro estremo nella stessa semiretta rispetto aP. Due segmenti si possono anche sommare, riportandoli consecutivamente su di una retta e ottenendo unterzo segmento, e si possono sottrarre, il minore dal maggiore. Il perimetro di un poligono e quel segmentoche si ottiene sommando i lati del poligono stesso. Anche le figure, ad esempio i triangoli e i poligoni,si possono trasportare, sovrapporre, confrontare. Se non si possono confrontare direttamente, si possonosuddividere in parti e si possono confrontare le parti, come si e detto nella sezione precedente. Le figuresono un altro esempio tipico di grandezza. In generale, due grandezze omogenee si possono confrontare esi puo dire se sono uguali o quale delle due e maggiore. Due grandezze omogenee si possono sommare fraloro e una grandezza A si dice essere ‘misurata’ da un’altra grandezza B, se A e uguale alla somma di B conse stessa un certo numero di volte (in linguaggio moderno diremmo che A e un multiplo di B e scriveremmoA = kB per qualche numero naturale k). Due grandezze A, B si dicono fra loro commensurabili quandosono ‘misurate’ da (ossia sono multiple di) una stessa grandezza C, ad esempio A = kC e B = pC, e intal caso si dice che A sta a B come k sta a p, oppure che A e B stanno fra loro nel rapporto k : p, ovveroA : B = k : p. In linguaggio moderno, nella situazione appena detta si direbbe che il rapporto tra A e B ekp , pensando quest’ultima frazione come un numero razionale, ma questo era impensabile nella matematicagreca: i concetti di frazione e di numero razionale e le relative notazioni e operazioni, nonche le notazionialgebriche, non erano stati sviluppati.Si seppe molto presto (Scuola pitagorica, intorno al quinto secolo a.C.) che ci sono grandezze omogeneetra loro non commensurabili, ad esempio la diagonale e il lato di un quadrato, e si trovo comunque il modo,attribuito a Eudosso di Cnido, circa 370 a.C. e pure descritto nel V Libro degli Elementi, di considerare pro-porzioni che coinvolgono grandezze tra loro incommensurabili, pur non avendo a disposizione il concetto dinumero reale. Si comprende da questo l’importanza della teoria delle proporzioni per la matematica e comelinguaggio per la scienza, durata fin quando i numeri decimali, le frazioni e l’algebra non la soppiantaronoalcuni secoli fa (a scuola invece le proporzioni sono rimaste piu a lungo...).Utilizzando metodi ‘meccanici’ ingegnosi, che abbiamo solo da poco tempo compreso grazie al ritrova-mento di preziosi palinsesti, e utilizzando sottili metodi di dimostrazione, Archimede (morto nel 212 a.C.)ottenne straordinari risultati sulla misura di grandezze: mostro che il cerchio e uguale a un triangolo che hacome base la circonferenza e come altezza il raggio; confrontando il cerchio con poligoni regolari, ottennealcune buone approssimazioni del rapporto tra la circonferenza e il diametro; mostro che la sfera solida staal cilindro equilatero solido circoscritto come due sta a tre; mostro che la superficie della sfera e uguale allasuperficie laterale di tale cilindro. Su questi risultati la teoria della misura si ferma essenzialmente fino alsecolo XVII.

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2 Lezione − giovedı 20 settembre 2012 10.30 - 12.30 (2 ore)

Introduzione al punto di vista moderno sulla misura

2.1 Notazioni per oggetti in R2

Cominciamo con lo stabilire le notazioni che useremo per alcuni oggetti che si trovano negli spazi Rn, giaben noti agli studenti dai corsi di Geometria e di Analisi Matematica 2. Per semplicita e chiarezza parleremodi R2, ma con notazioni che si estendono naturalmente e facilmente a Rn.Come e uso, per l’insieme delle coppie ordinate di numeri reali useremo la notazione

R2 = R×R =(x,y)

∣∣ x,y ∈ R

Di questo insieme R2 useremo la consueta rappresentazione cartesiana, che si ottiene fissando su un piano(geometrico o fisico) due rette orientate (assi) ortogonali, sulle quali e data una unita di lunghezza, e as-sociando a ogni elemento (x,y) di R2 il punto P che ha coordinate (x,y) rispetto al sistema di riferimentofissato. Spesso identificheremo l’elemento (x,y) con il punto P, riteniamo senza creare difficolta, e useremoil termine piano per riferirci all’insieme R2. Inoltre, spesso chiameremo vettori gli elementi di R2 e potremorappresentare un vettore (x,y) con una freccia che parte dal punto O dove si intersecano gli assi (origine,o vettore nullo) e arriva al punto P = (x,y). Per indicare un elemento di R2 useremo anche la notazionex = (x1,x2), che ha il vantaggio di estendersi naturalmente a ogni dimensione. Nel piano R2 consideriamole solite operazioni di somma

u+ v = (u1,u2)+(v1,v2) := (u1 + v1,u2 + v2) ∀u = (u1,u2) ∈ R2 , ∀v = (v1,v2) ∈ R2

e di prodotto di una coppia per un numero reale

tu = t(u1,u2) := (tu1, tu2) ∀t,∈ R , ∀u = (u1,u2) ∈ R2

con le quali l’insieme R2 diviene uno spazio vettoriale su R. Ricordiamo che l’insieme dei due vettori

e1 := (1,0) , e2 := (0,1)

e una base di R2, che chiameremo base standard. Ricordiamo anche che la funzione g : R2×R2→R chealla coppia (u,v) associa il numero

g(u,v) := u1v1 +u2v2

e un prodotto scalare su R2 (si veda anche la successiva sezione 3.3), che chiameremo prodotto scalarestandard e, a seconda dei contesti e della comodita grafica, denoteremo anche u · v, oppure (u,v)R2 o sem-plicemente (u,v). Nonostante la potenziale confusione con la notazione per una coppia di vettori e con lanotazione per un intervallo aperto di numeri reali, non dovrebbero sorgere problemi. Al prodotto scalarestandard si associa la norma standard su R2

‖u‖ :=√

(u,u)R2 =√

u21 +u2

2

che si denotera anche semplicemente |u|. Nella rappresentazione grafica del piano R2, la norma di un vettoreu e la lunghezza della freccia che lo rappresenta, ossia la distanza del punto dall’origine. La distanza(euclidea) standard d(u,v) tra due elementi u, v di R2 e definita come la norma del vettore differenzad(u,v) := |u− v|= |v−u|. Avremo spesso la necessita di considerare due tipi di insiemi speciali:

• gli intervalli due dimensionali, detti anche rettangoli, ossia gli insiemi I = I1× I2 che sono il prodottocartesiano di intervalli uno-dimensionali;

• le palle (aperte), in due dimensioni dette anche cerchi aperti, ossia gli insiemi del tipo

Br(x) := y ∈ R2 ∣∣ d(x,y)< r= y ∈ R2 ∣∣ √(x1− y1)2 +(x2− y2)2 < r

dove il punto x e il numero positivo r si chiamano rispettivamente centro e raggio della palla.

Esercizio 2.1.1 i) Scegliere quattro numeri reali a1, b1, a2, b2 e disegnare l’intervallo (a1,b2)× (a2,b2).Scrivere le coordinate dei quattro vertici dell’intervallo. Descrivere i quattro lati dell’intervallo, sia con unopportuno sistema di equazioni e disequazioni, sia con una opportuna parametrizzazione.ii) Descrivere il quadrato aperto piu grande tra quelli che sono contenuti nella palla aperta di centro x=(1,3)e raggio r = 2.iii) Generalizzare le definizioni di intervallo e palla a 3 e 4 dimensioni e generalizzare gli esercizi i) e ii).

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2.2 Misura come funzione di insieme - cosa ci aspettiamo da una buona nozione di ‘misura’.

Nella matematica dell’antica Grecia le grandezze (omogenee) si misuravano l’una con l’altra e due grandezzedello stesso tipo potevano avere tra loro rapporti espressi da numeri naturali, oppure essere incommensu-rabili. Fissata una grandezza come unita di misura, le altre si potevano esprimere in rapporto a questa.Con lo sviluppo della notazione decimale posizionale dei numeri, delle frazioni, del calcolo con i numerie con le lettere, e inoltre con l’emergere di grandezze per le quali era poco praticabile o impensabile faredirettamente il confronto e la somma, si affermo l’idea di ‘misura’ come di un numero, ottenuto con certicriteri e procedure, e con riferimento a certe ‘unita di misura’.

Oggi in matematica, dato un insieme X qualsiasi e denotato con P(X) l’insieme delle parti di X , si chiamagenericamente misura su X una funzione

m : F→B

dove F ⊂ P(X) e una famiglia di sottoinsiemi di X , e l’insieme B, in cui la misura prende i suoi valori,puo essere di diversi tipi: nella gran parte del corso prenderemo B = [0,+∞], ossia considereremo misurea valori positivi o infinito, ma sono interessanti e largamente usate anche misure a valori reali o complessie misure a valori in spazi vettoriali, anche di dimensione infinita (ad esempio in meccanica quantistica siconsiderano misure a valori nello spazio degli operatori autoaggiunti in uno spazio di Hilbert).Una misura m come sopra, e la famiglia F su cui m e definita, avranno in genere alcune proprieta, chepotranno collegare la misura con altre strutture (topologiche, metriche, algebriche) presenti sull’insieme X .Vedremo gradualmente nelle prossime lezioni diversi esempi che chiariranno e preciseranno queste primeaffermazioni. Nel seguito di questa sezione inizieremo a pensare informalmente a misure sugli spazi Rn,che catturino le idee intuitive e classiche di lunghezza, area, volume, e ci chiederemo che proprieta vorrem-mo avere per tali misure − vedremo poi nel seguito del corso cosa sara possibile dimostrare e sotto qualicondizioni. Per semplicita ragioneremo ora sull’area in R2. Per la lunghezza in R e per il volume in R3 siavranno situazioni analoghe e la generalizzazione a Rn sara del tutto naturale seguendo l’analogia formalee utilizzando qualche opportuna rappresentazione, anche se non possiamo ‘vedere’ cosa accade in piu di tredimensioni.

Una misura, la chiameremo m, che catturi l’idea di area nel piano, la vorremmo definita su tutti i sottoinsiemidel piano e a valori positivi, zero o infinito:

m : P(R2)→ [0,+∞] (1)

La misura di un segmento S ad esempio dovra essere zero e la misura di tutto il piano dovra essere +∞.

Ci aspettiamo poi che la misura di un rettangolo R = (a1,b1)× (a2,b2) si ottenga come ‘base per altezza’:

m((a1,b1)× (a2,b2)) = (b1−a1)(b2−a2) (2)

Ci aspettiamo inoltre che la misura sia invariante per traslazioni , ossia:

m(T (E)) = m(E) , per ogni traslazione T (3)

e per trasformazioni ortogonali, ossia:

m(U(E)) = m(E) , per ogni trasformazione ortogonale U (4)

dove ricordiamo che le trasformazioni ortogonali sono le applicazioni lineari U : R2→R2 che conservanoil prodotto scalare e la distanza standard:

(U(v),U(w))R2 = (v,w)R2 ∀v,w ∈ R2

Osserviamo che la proprieta (3) collega la misura con la struttura lineare (o meglio affine) di R2 e indica una‘compatibilita’ tra le due. Le proprieta (2) e (4) indicano la compatibilita della misura con la struttura ortog-onale, e quindi con la struttura metrica. Oltre a queste proprieta appena dette, la misura ne dovra avere altreche si descrivono in termini soltanto della relazione di inclusione tra insiemi e delle operazioni di unionee intersezione. Per quanto possano parere scontate, queste ultime sono in effetti le proprieta fondamentaliche caratterizzano il concetto di misura e, come vedremo, consentono di generalizzarlo a spazi qualsiasi.

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Monotonia della misura:m(E)≤ m(F) , ∀E ⊂ F (5)

Subadditivita:m(E ∪F)≤ m(E)+m(F) , ∀E,F ⊂ R2 (6)

Additivita:m(E ∪F) = m(E)+m(F) , ∀E,F ⊂ R2 tali che E ∩F = /0 (7)

Si vede subito che le (5) e (6) insieme sono equivalenti a

m(A)≤ m(E)+m(F) , ∀A,E,F ⊂ R2 tali che A⊂ E ∪F (8)

e nel seguito troveremo comodo usare questo tipo di monotonia e subadditivita combinata. Si vede anchesubito che da (6) segue l’analoga proprieta nel caso di tre insiemi:

m(E1∪E2∪E3) = m((

E1∪E2)∪E3

)≤ m

(E1∪E2

)+m(E3)≤ m(E1)+m(E2)+m(E3)

e per induzione si ottiene poi la subadditivita finita della misura:

m(k⋃

i=1

)Ek ≤k

∑i=1

m(Ek) , ∀Ei ⊂ R2 (9)

Analogamente, da (7) si ottiene l’additivita finita per insiemi a due a due disgiunti:

m(k⋃

i=1

)Ek =k

∑i=1

m(Ek) , ∀Ei ⊂ R2 tali che Ei∩E j = /0 ∀i 6= j (10)

Purtroppo, come vedremo, non e possibile trovare una misura nel piano, che sia invariante per traslazionie additiva per tutte le coppie di sottoinsiemi disgiunti! Questo e un fatto non difficile da dimostrare, madelicato, che usa in modo cruciale l’assioma della scelta (si veda ad esempio http://en.wikipedia.org/wiki/Vitali_set, http://goo.gl/w54N) e ad esso e sostanzialmente equivalente. Dal momento checon l’assioma della scelta si dimostrano tante cose del tutto ragionevoli, ce lo teniamo volentieri per buonoanche se di conseguenza dobbiamo rinunciare all’additivita su tutte le coppie di insiemi disgiunti. Tuttavia,come vedremo, la via d’uscita da questo problema e ottima: riusciremo comunque a trovare una misura (lamisura di Lebesgue) che ha tutte le caratteristiche volute e che e additiva (anzi: numerabilmente additiva inuna classe M molto ampia di insiemi, che comprende ad esempio tutti gli insiemi aperti e gli insiemi chiusidel piano, che chiameremo insiemi m-misurabili.

Osserviamo che l’additivita e la subadditivita ci interessano anche nel caso di una unione di infiniti insiemi.Ad esempio l’unione degli infiniti intervalli E j = ( 1

j+1 ,1j ], dove j = 1,2, ..., e l’intervallo (0,1] e l’additivita

funziona benissimo. Occorrera pero limitare il ‘grado’ di infinito delle famiglie di insiemi di cui si fal’unione. Infatti: si pensi che un quadrato Q del piano si puo vedere come l’unione di tutti gli insiemicostituiti ciascuno da un solo punto del quadrato, i quali sono ovviamente a due a due disgiunti

Q =⋃x∈Q

x

se valesse l’additivita anche in questo caso, ne seguirebbe che la misura di Q, che e un numero positivo,sarebbe uguale a una somma di zeri. Ma una somma di zeri, per quanto numerosi, e difficile sostenere chesia un numero positivo3. D’altra parte il caso che ci interessa e quello di una successione di insiemi, ossiadi una famiglia numerabile di insiemi, e vedremo che limitandoci a richiedere l’additivita in questo caso,che chiameremo additivita numerabile, tutto funzionera. Presenteremo nelle prossime lezioni una teoriasistematica e per ora diamo un esempio interessante, che utilizzeremo in vario modo nel seguito.

3Agli inizi del Calcolo si facevano ragionamenti di questo tipo con gli infinitesimi. Tali ragionamenti gia allora sembravano pococonsistenti e furono dismessi con lo sviluppo del rigore nel corso dell’Ottocento. La situazione e simile a quella di uno dei paradossi diZenone, che cito molto liberamente: un grano di miglio cadendo non fa rumore, quindi non si sente rumore facendone cadere insieme2, 3, 4 ecc. , ma quando si arriva a un sacco di miglio, questo cadendo fa rumore!

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2.3 Insieme di Cantor

.Costruiremo una successione di aperti Ek contenuti nell’intervallo [0,1], che poi toglieremo dall’intervallostesso per ottenere l’insieme di Cantor C, si confronti con l’esempio 10.19 di G.Greco - Calcolo Differen-ziale e integrale, volume I. Definiamo per cominciare l’aperto E1, il lettore segua il discorso con un disegno,come l’intervallo aperto centrale che si ottiene dividendo l’intervallo [0,1] in tre parti uguali; in altre parole:

E1 =(1

3,

23)

Consideriamo poi i due segmenti S1 = [0, 13 ) e S2 = ( 2

3 ,1] che si ottengono togliendo E1 da [0,1]; dividi-amo ciascuno di tali segmenti in tre intervalli uguali, e in ciascuno di questi prendiamo l’intervallo apertocentrale. Facciamo l’unione di questi due intervalli centrali e otteniamo l’insieme

E2 :=(1

9,

29

)∪(7

9,

89

)Per continuare la costruzione togliamo E1 ∪E2 da [0,1] e troviamo quattro intervalli. In ciascuno di essiprendiamo il terzo centrale e di questi facciamo l’unione

E3 :=( 1

27,

227

)∪( 7

27,

827

)∪(18

27,

1927

)∪(25

27,

2627

)Proseguendo ulteriormente, costruiamo insiemi Ek, ognuno dei quali e unione di 2k−1 intervalli disgiunti,ciascuno di lunghezza 3−k. Pertanto, detta λ la misura di lunghezza che vorremmo avere definita sulle partidi R, avremo, per additivita:

λ(Ek) =2k−1

3k

Se consideriamo infine l’apertoE :=

⋃k∈N

Ek

poiche anche gli insiemi Ek sono due a due disgiunti, per l’additivita numerabile avremo

λ(E) =∞

∑k=1

λ(Ek) =13

∑k=0

(23)k =

13· 1

1− 23

= 1

A questo punto chiamiamo insieme di Cantor l’insieme

C := [0,1]/E

e osserviamo che per l’additivita della misura λ abbiamo λ(C)+λ(E)= λ1([0,1]) = 1, da cui segue λ1(C)=0. Pur essendo un insieme di misura nulla, l’insieme di Cantor, come vedremo, ha la stessa cardinalita diR, che e maggiore della cardinalita di N. A partire dall’insieme di Cantor si puo costruire una funzione

u : [0,1]→ [0,1]

detta funzione di Cantor o anche funzione di Cantor-Vitali, che ha le seguenti proprieta:i) u e monotona crescente;ii) u e continua;iii) u e derivabile in ogni punto dell’aperto E definito sopra e ha derivata zero in tutti i punti di E.La funzione di Cantor-Vitali e un po’ imbarazzante (o impressionante): riesce a salire da zero a 1 ‘senzafarsi vedere’... se uno guarda un punto a caso dell’intervallo di definizione trovera che non sta crescendo...la derivata e quasi sempre zero. Si suggerisce di provare per esercizio a costruire questa funzione. Per ulte-riori informazioni si rimanda a http://en.wikipedia.org/wiki/Cantor_function(la pagina inglese eleggermente piu completa di quella italiana) e ad altre fonti facilmente reperibili in rete.

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3 Lezione − venerdı 21 settembre 2012 10.30 - 12.30 (2 ore)

Prime definizioni del concetto di integrale

3.1 Area e volume nel Seicento prima del Calcolo

Anche in seguito alla pubblicazione a stampa dell’opera allora conosciuta di Archimede, avvenuta a Basileanel 1543, tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, in particolare in Italia, si svilupparono gli studisul volume dei solidi, sul calcolo del centro di massa di un solido e sul calcolo dell’area di figure sottese algrafico di una funzione. L’argomento attirava molta attenzione e anche Johannes Kepler e Galileo Galileidiedero contributi, non pero di speciale importanza: Keplero scrive nel 1615 un trattato sul volume dellebotti per il vino e Galileo scrive intorno al 1600 un trattato sul centro di gravita, che sara pubblicato soltantomolto piu tardi come appendice al Discorsi e dimostrazioni matematiche sopra due nuove scienze. Impor-tanti contributi furono dati invece da Bonaventura Cavalieri, che intorno al 1630 ebbe l’idea di determinarel’area di una figura piana o solida attraverso le sezioni della figura con la famiglia di tutte le rette parallelea una retta data, o con la famiglia di tutti i piani paralleli a un piano dato. Con questa idea, che ritroveremoe utilizzeremo in diverse forme nella teoria dell’integrazione, ad esempio nelle formule di riduzione per gliintegrali multipli (o Teorema di Fubini) e che va sotto il nome di metodo degli indivisibili, Cavalieri ottenneil seguente risultato, che enunciamo in linguaggio moderno:

Principio di Cavalieri Siano A, B due sottoinsiemi dello spazio euclideo e sia F la famiglia di tutti i pianiparalleli a un piano dato. i) Se per ogni piano P ∈ F gli insiemi A∩P e B∩P sono uguali, allora ancheA e B sono uguali; ii) se per ogni piano P ∈ F gli insiemi A∩P e B∩P stanno in un certo rapporto, alloraanche A e B stanno nello stesso rapporto.

Cavalieri diede tale enunciato come Teorema, ma la sua dimostrazione non soddisfaceva i matematici piurigorosi del tempo, che ne criticarono il fondamento. In ogni modo, con questa tecnica Cavalieri ottennemolti risultati nuovi sul volume dei solidi e ottenne anche una importante formula di quadratura per l’areasottesa dal grafico delle funzioni y = xn, la cui dimostrazione fu migliorata e completata da altri matematicidel tempo come come Pierre de Fermat, Rene Descartes, Gilles de Roberval. Enunciamo anche questorisultato con linguaggio moderno.

Teorema 3.1.1 L’area sottesa dal grafico della funzione y = xn nell’intervallo [0,a], dove a e un numero

positivo, ean+1

n+1. In altre parole

∫ a

0xndx =

an+1

n+1.

In quello stesso momento, dopo la pubblicazione della Geometrie di Descartes, i matematici erano moltointeressati anche al cosiddetto problema delle tangenti, ossia il problema di determinare l’equazione dellaretta tangente a una curva di equazione data. A questo problema furono date diverse soluzioni da Descartes,Fermat, Roberval, Evangelista Torricelli, in particolare anche per le curve di equazione y = xn . In questocontesto di ricerche, verso la meta del secolo XVII, diversi matematici, in particolare James Gregory (cheaveva studiato a Padova con Stefano Degli Angeli, allievo di Cavalieri), Isaac Barrow, Isaac Newton, si

resero conto in vario modo di un fatto interessante: la funzionexn+1

n+1, che esprime l’area sotto il grafico

di xn nell’intervallo [0,a], nel punto di ascissa x = a ha pendenza an, ossia (ci permettiamo di usare unlinguaggio che allora non era noto, ma sarebbe stato inventato poco dopo):

ddx

(∫ x

0tndt

)= xn (11)

In altri termini si ha F ′(x) = xn , dove si e introdotta la notazione F(x) =∫ x

0tndt per la funzione integrale

della funzione y = xn. Questo risultato altro non e che il Teorema Fondamentale del Calcolo per le funzionidel tipo y = xn, da cui si puo ottenere il Teorema Fondamentale del Calcolo per i polinomi. Da qui alleserie di potenze il passo non era cosı lungo . . . il terreno era pronto per la nascita del Calcolo differenzialee integrale, che si ebbe nella seconda meta del secolo XVII grazie a Isaac Newton e Gottfried WilhelmLeibniz.Le nozioni di derivata e integrale introdotte da Newton e Leibniz furono potentissimi strumenti sia peril calcolo, sia per pensare e descrivere il mondo fisico e, nonostante le incertezze dovute alla vaghezza

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dei fondamenti e dei ragionamenti con gli infinitesimi e gli infiniti, consentirono ai matematici del Set-tecento (la famiglia Bernoulli, Euler, D’Alembert, Lagrange . . . ) di ottenere risultati strabilianti. Magradualmente, anche a causa delle contraddizioni in cui cadevano talvolta anche i matematici piu in-signi, emerse la necessita di rendere piu chiari i fondamenti e piu rigorose le dimostrazioni del Calco-lo e di pervenire a una Analisi Matematica su cui non vi fossero piu dubbi. All’inizio dell’Ottocentoquesta tendenza crebbe di importanza e porto man mano a una revisione e fondazione dei concetti dilimite, continuita, derivata, integrale, serie, che furono appoggiati su una teoria dei numeri reali, a suavolta costruita a partire dall’aritmetica, dai numeri naturali e dalla teoria degli insiemi, la quale ebbe in-fine una sistemazione assiomatica con lo sviluppo della logica all’inizio del secolo XX. Uno fra i primimomenti importanti di questo processo furono le Lezioni di Analisi di Augustin Louis Cauchy all’EcolePolitechnique di Parigi, nelle quali si trova in particolare la prima definizione di integrale per una classedi funzioni, le funzioni continue su un intervallo chiuso e limitato (Resume des Lecons donnees a l’EcoleRoyale Polytecnique sur le calcul infinitesimal 1823 - Ouvres Compl. 2 serie IV, lez. 21 p. 122-127http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k90196z/f125n6.capture).

3.2 L’integrale di Cauchy

Sia [a,b] un intervallo chiuso e limitato di numeri reali e sia data una funzione f : [a,b]→R . Per ogninumero naturale n ∈ N consideriamo il numero

S( f ,n) :=n

∑j=1

f (x j)(x j− x j−1) (12)

dovex j = a+ j

b−an

∀ j = 0,1, . . .n

Osserviamo che x0 = a e xn = b e che gli intervalli [x j−1,x j] hanno tutti la stessa lunghezzab−a

n.

Il numero S( f ,n) si chiama somma di Cauchy relativa alla funzione f e alla partizione x0,x1, . . .x j, . . .xndell’intervallo [a,b]. Cauchy dimostro4 il seguente

Teorema 3.2.1 Integrale secondo Cauchy Per ogni funzione continua f : [a,b]→R esiste il

limn→+∞

S( f ,n) (13)

Il valore del limite (27) viene chiamato integrale della funzione f sull’intervallo [a,b] e si denota∫ b

af (x)dx

o anche semplicemente∫ b

a f .

Dimostrazione. Diamo qui uno schema della dimostrazione del Teorema precedente e suggeriamo agli stu-denti di completare i dettagli, poiche e un eccellente esercizio, che consente di mettere alla prova compe-tenze fondamentali di analisi, che dovrebbero essere state sviluppate nel primo anno di studi, e di ripassarealcuni importanti fatti di base sugli spazi metrici e sulle funzioni continue. Per comodita raccogliamo talifatti nella successiva sezione 3.3.Passo 1. Si osserva che l’intervallo chiuso e limitato [a,b] e un insieme compatto (Teorema 3.3.7 diBolzano-Weierstrass.Passo 2. La funzione f , che (per ipotesi) e continua [a,b] , e anche uniformemente continua su [a,b](Teorema 3.3.10).Passo 3. Grazie alla uniforme continuita di f , con un po’ di lavoro si riesce a vedere che la successioneS( f ,n) e una successione di Cauchy, come in (25).Passo 4. Poiche la successione S( f ,n) e di Cauchy, grazie alla completezza dello spazio metrico deinumeri reali (si veda l’esercizio 3.3.16 e la proposizione che viene poco dopo l’esercizio), il limite (27)esiste e la dimostrazione e conclusa.

E opportuno fare diverse osservazioni.

4In effetti la dimostrazione che si trova nell’opera citata non e totalmente chiara nell’uso e nella precisa distinzione dei concetti dicontinuita e di continuita uniforme, ma la cosa a nostri fini e irrilevante.

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Osservazione 3.2.2 Le somme di Cauchy si possono costruire anche in altri modi piu generali. Ad esempioper ogni n ∈ N si puo considerare una partizione x0,x1, . . .x j, . . .xn , dove

a = x0 < x1 < x2 < .. .x j−1 < x j < .. .xn = b (14)

costituita da punti non necessariamente equidistanti. Anche in questo caso si puo dimostrare che il limite(27) esiste, purche le partizioni scelte soddisfino alla condizione

limn→+∞

maxj|x j− x j−1| = 0 (15)

la quale garantisce che i punti delle partizioni si infittiscano dappertutto nell’intervallo [a,b]. Si puo di-mostrare, con le stesse idee precedenti, che il limite (27) esiste anche se nelle somme di Cauchy a ciascunodei valori f (x j) si sostituisce un valore f (ξ j) calcolato in un punto qualsiasi ξ j ∈ [x j−1,x j].

Osservazione 3.2.3 Si dimostra immediatamente che l’integrale definito nel Teorema 3.2.1 e un funzionalelineare sullo spazio vettoriale C0([a,b]), ossia∫ b

a( f +g) =

∫ b

af +

∫ b

ag e

∫ b

at f = t

∫ b

af ∀t ∈ R ∀ f ,g ∈C0([a,b]) (16)

Basta infatti osservare che S( f ,n) e lineare rispetto a f per ogni n fissato e passare al limite per n che vaall’infinito. Analogamente si vede che l’integrale e monotono (o positivo):∫ b

af ≤

∫ b

ag ∀ f ,g ∈C0([a,b]) tali che f ≤ g (17)

Inoltre si mostra facilmente che se c ∈ [a,b], allora∫ b

af =

∫ c

af +

∫ b

cf .

Osservazione 3.2.4 La nozione di integrale introdotta da Cauchy si estende immediatamente a funzioni chesono continue a tratti su un intervallo [a,b], ossia che sono continue su ciascuno degli intervalli [tk−1, tk] diuna partizione fissata t0, t1, . . . tn di [a,b]: basta infatti sommare gli integrali in ciascuno dei sotto-intervalli.L’integrale si puo generalizzare inoltre a funzioni non limitate o definite su un intervallo non limitato [c,d],prendendo il limite, se esiste, degli integrali su sottointervalli chiusi e limitati che invadono l’intervallo [c,d];tale limite, nel caso di funzioni con segno variabile, puo pero dipendere dal modo in cui i sottointervalliinvadono il dominio di integrazione e questa nozione generalizzata di integrale va trattata con cautela.Infine, la limitazione maggiore dell’integrale di Cauchy e che non si riescono a integrare funzioni coninsiemi infiniti e complicati di punti di discontinuita, le quali peraltro ‘dovrebbero’ essere integrabili.

3.3 Richiami su spazi metrici, funzioni continue, norme, prodotto scalare.

In questa sezione raccogliamo per comodita del lettore alcune definizioni, notazioni e teoremi che abbiamocitato nella sezione precedente e che useremo in diversi momenti del corso. Cogliamo anche l’occasioneper suggerire alcuni esercizi che intendono aiutare gli studenti ad approfondire questioni che troveremo piuavanti nel corso.

Definizione 3.3.1 Sia X un insieme. Ricordiamo che si dice distanza su X una funzione d : X×X→R taleche ∀x,y ∈ X si hai) d(x,y)≥ 0;ii) d(x,y) = d(y,x);iii) d(x,y)≤ d(x,z)+d(y,z);iv) d(x,y) = 0 ⇔ x = y.Un insieme X con una distanza d si chiama spazio metrico.

Ricordiamo che: se d e una distanza su X , x ∈ X e r > 0 , allora l’insieme Br(x) = y∈ X∣∣ d(x,y)< r si

chiama palla (aperta) di centro x e raggio r rispetto alla distanza d. Ricordiamo anche che un sottoinsiemeA di X si dice aperto, se per ogni x ∈ X esiste un numero r > 0 tale che Br(x) ⊂ A; un sottoinsieme F sidice chiuso se il suo complementare Fc := X \F e un insieme aperto. La famiglia degli aperti di uno spaziometrico e una topologia, che si dice indotta dalla distanza.

Gia nella sezione 2.1 abbiamo visto la distanza euclidea standard nel piano e le palle aperte rispetto a questadistanza. Vediamo ora qualche generalizzazione e altri esempi. Negli spazi vettoriali sono di particolareinteresse le distanze invarianti per traslazioni. Distanze di questo tipo si ottengono tipicamente partendo dauna norma.

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Definizione 3.3.2 Si dice norma su uno spazio vettoriale reale V una funzione

|| || : V→R ; || || : u 7→ ||u||

tale che

i) ||u|| ≥ 0 comunque preso u in V ;

ii) ||tu||= |t| · ||u|| comunque presi u in V e t in R (la norma e positivamente omogenea);

iii) ||u+ v|| ≤ ||u||+ ||v|| comunque presi u,v in V (la norma e subadditiva);

iv) ||u||= 0 se e solo se x = y.

Uno spazio V sul quale sia data una norma si chiama spazio normato.

Si vede immediatamente che, se || || e una norma su V , allora la funzione

d(u,w) = ||u−w||

e una distanza, che si dice indotta dalla norma. Tale distanza e invariante per traslazioni, ossia

d(u,w) = d(u+a,w+a) ∀u,w,a ∈V

Esercizio 3.3.3 Trovare una distanza in R2 tale che le palle rispetto ad essa siano intervalli 2-dimensionali(gli intervalli sono definiti nella sezione 2.1).

Esercizio 3.3.4 Sia [a,b] un intervallo chiuso e limitato in R. Si mostri che le funzioni definite sotto sononorme sullo spazio vettoriale C0([a,b]).

‖ f‖∞ = max[a,b]| f (x)| (18)

‖ f‖1 =∫ b

a| f (x)|dx (19)

‖ f‖2 =

∫ b

a| f (x)|2dx

12

(20)

Un’importante famiglia di norme si ottiene dai prodotti scalari. Ricordiamo che

Definizione 3.3.5 Un prodotto scalare g su uno spazio vettoriale reale V e una funzioneg : V ×V→R tale che5

i) g e lineare in ciascuna delle variabili, tenendo l’altra fissata (g e una funzione bilineare);

ii) g(u,w) = g(w,u) comunque presi u,w vettori di V (g e una funzione simmetrica);

iii) g(u,u)≥ 0 per ogni vettore u di V ;

iv) g(u,u) = 0 ⇒ u = 0.

Si vede facilmente che (verificare per esercizio): Se g e un prodotto scalare su V , allora le funzioni

||u||g :=√

g(u,u) ; dg(u,w) = ||u−w||g

sono rispettivamente una norma e una distanza su V , che si dicono associate al prodotto scalare g.

Esercizio 3.3.6 Mostrare che, prese due norme qualsiasi ‖ ‖] e ‖ ‖[ su Rn, esistono due numeri positivi a,b tali che

‖w‖] ≤ a‖w‖[ ≤ b‖w‖] ∀w ∈ Rn

e che, di conseguenza, tutte le topologie indotte da una norma su Rn sono tra loro equivalenti.5Alcuni autori non includono la proprieta iv) nella definizione e, se iv) e pure verificata, dicono che il prodotto scalare e ‘definito

positivo’; in questa sede, per semplicita, includeremo iv) nella definizione e per noi tutti i prodotti scalari saranno ‘definiti positivi’.

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Vediamo ora alcuni risultati che riguardano la compattezza, una proprieta topologica di speciale importanzaper l’analisi matematica. Ricordiamo che un sottoinsieme K di uno spazio metrico (X ,d) si dice compattose per ogni successione x j di elementi di K esistono una sottosuccessione x jp e un elemento y di K taliche

limp→+∞

x jp = y ossia limp→+∞

d(x jp ,y) = 0

Ricordiamo anche il seguente ben noto teorema

Teorema 3.3.7 Teorema di Bolzano-Weierstrass.Un sottoinsieme di Rn e compatto (rispetto alla topologia indotta dalla distanza euclidea standard) se e

solo se e chiuso e limitato.

Per la dimostrazione in dimensione 1 rimandiamo al libro di G.Greco citato nella prima lezione. Il cason-dimensionale si ottiene immediatamente dal caso 1-dimensionale estraendo via via sottosuccessioni perle quali converge la prima coordinata, poi la seconda, etc . . . .

Definizione 3.3.8 Siano dati due spazi metrici X e Y con le distanze dX e dY . Ricordiamo che una funzionef : X → Y si dice continua in un punto a ∈ X se

∀ ε > 0 ∃ δ > 0 : dX (a,x)< δ ⇒ dY ( f (a), f (x))< ε (21)

La funzione f si dice continua su un sottoinsieme E ⊂ X se e continua in ciascun punto di E.La funzione f si dice uniformemente continua su X se

∀ ε > 0 ∃ δ > 0 : ∀a,b ∈ X dX (a,b)< δ ⇒ dY ( f (a), f (b))< ε (22)

La funzione f si dice uniformemente continua su un sottoinsieme E ⊂ X se la restrizione di f a E euniformemente continua su E considerato come sottospazio metrico di X .

E evidente che una funzione f uniformemente continua su E e anche continua su E, e non vale invecel’implicazione opposta.

Esercizio 3.3.9 Mostrare che le funzioni x, sinx,√

x sono uniformemente continue sul loro insieme didefinizione, mentre la funzione x2 non e uniformemente continua su R e la funzione 1/x non e uniforme-mente continua sull’intervallo (0,1).

Teorema 3.3.10 Siano X e Y spazi metrici con le distanze dX e dY e sia f : X → Y . Se E ⊂ X e un insiemecompatto e f e continua su E, allora f e uniformemente continua su E.

Dimostrazione. (Per assurdo) Supponiamo che la tesi del teorema sia falsa. Allora vale la negazione della(22):

∃ ε > 0 : ∀ δ > 0 ∃u,v ∈ E : dX (u,v)< δ ⇒ dY ( f (u), f (v))≥ ε (23)

e in particolare ne segue che esiste un ε > 0 tale che, per ogni n∈N, esistono un e vn in E per i quali valgonoentrambe:

(i) dX (un,vn)<1n

, (ii) dY ( f (un), f (vn))≥ ε

Poiche E e compatto, esiste una sottosuccessione unk che converge a un punto u ∈ E, ossia dX (unk ,u)→ 0per k→ ∞. Ne segue che anche vnk converge a u, infatti

dX (u,vnk)≤ dX (u,unk)+dX (unk ,vnk) → 0.

Poiche f e continua su E, entrambe le successioni f (unk) e f (vnk) convergono a f (u) e questo implica chedY ( f (unk), f (vnk))→ 0, che contraddice la (ii). Cosı la prova e conclusa.

Dal teorema segue in particolare che ogni funzione continua su un intervallo chiuso e limitato di R e uni-formemente continua.

Classi naturali di funzioni uniformemente continue si ottengono richiedendo la proprieta che la distanzafra le immagini di ogni coppia punti sia controllata da una funzione della distanza tra i punti. Il caso piusemplice e il seguente.

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Definizione 3.3.11 Siano X e Y spazi metrici. Una funzione f : X → Y si dice Lipschitz-continua osemplicemente lipschitziana se

∃ L≥ 0 : ∀a,b ∈ X dY ( f (u), f (v))≤ LdX (u,v). (24)

Se vale la (24) allora si dice che il numero L e una costante di Lipschitz per la funzione f . Si vede facil-mente (dimostrarlo per esercizio) che l’insieme delle costanti di Lipschitz di una funzione f ha minimo.Questo minimo si denota talvolta Lip( f ). Una funzione f : X → Y si dice lipschitziana su un sottoinsiemeE ⊂ X se la restrizione di f a E e lipschitziana su E considerato come sottospazio metrico di X .

Esercizio 3.3.12 Se f e lipschitziana su uno spazio metrico X allora e immediato che f e uniformementecontinua su X . Esistono invece funzioni uniformemente continue su X che non sono lipschitziane su X .Trovare un esempio nel caso X = [0,1].

Esercizio 3.3.13 Sia I e un intervallo in R e sia f : I→ R continua e derivabile su I. Se f ′ e limitata su Iallora f e lipschitziana su I e precisamente si ha Lip( f ) = supI | f ′|

Una conseguenza immediata dell’esercizio precedente e che le funzioni sinx, cosx, arctanx sono lips-chitziane su R, con costante di Lipschitz uguale a 1.

Concludiamo i richiami con la nozione di completezza di uno spazio metrico.

Definizione 3.3.14 Sia X uno spazio metrico con una distanza d. Una successione (xn) a valori in X si dicedi Cauchy se

∀ε > 0 ∃k ∈ N : p,r > k ⇒ d(xp,xr)< ε (25)

Ricordiamo che una successione (xn) a valori in X converge (o e convergente) se esiste un elemento y ∈ Xtale che lim

n→∞xn = y, ossia d(xn,y)→ 0.

E immediato che se una successione in X converge, allora e di Cauchy. Non e vero invece in generale chese una successione e di Cauchy allora essa e convergente, ma vi sono spazi nei quali cio accade sempre.

Definizione 3.3.15 Uno spazio metrico nel quale ogni successione di Cauchy converge si dice completo.

Esercizio 3.3.16 (i) Mostrare che gli spazi Rn sono completi rispetto alla distanza euclidea.(ii) Mostrare che l’intervallo aperto (0,1) e l’insieme Q dei numeri razionali, con la metrica indotta da R,non sono spazi metrici completi.

Esercizio 3.3.17 Mostrare che ogni successione di Cauchy e limitata, ossia esiste una palla Br(x) checontiene tutti gli elementi della successione.

Il seguente semplice risultato, insieme all’esercizio precedente e al teorema di Bolzano-Weierstrass, di-mostra che gli spazi Rn sono completi.

Proposizione 3.3.18 Se una successione di Cauchy (xn) in X ha una sottosuccessione (xnk) convergente,allora (xn) converge.

Dimostrazione. Chiamiamo y ∈ X il limite della sottosuccessione (xnk). Sia ε > 0 e sia k corrispondente aε come in (25). Poiche lim

k→∞nk = ∞ e lim

k→∞d(xnk ,y) = 0 si puo trovare un s ∈ N tale che

ns ≥ k e d(xns ,y)< ε

Per ogni p≥ k si ha allorad(xp,y)≤ d(xp,xns)+d(xns ,y)< 2ε

e la prova e conclusa.

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3.4 L’integrale di Cauchy per funzioni di due variabili e le formule di riduzione

Siano dati due intervalli 1-dimensionali [a,b] e [c,d] e consideriamo l’intervallo 2-dimensionaleE = [a,b]× [c,d]. Sia poi f : E→R una funzione continua. Vogliamo definire l’integrale di f su E usandola stessa idea con cui nella sezione precedente abbiamo definito l’integrale per le funzioni di una variabile.A questo fine, comunque presi n,k ∈ N, consideriamo le partizioni (il lettore faccia un disegno...):

xi = a+ ib−a

n∀i = 0,1, . . .n ; y j = a+ j

c−dk

∀ j = 0,1, . . .k

che si ottengono dividendo [a,b] in n parti uguali e [c,d] in k parti uguali, e consideriamo la somma diCauchy

S( f ,n,k) :=n

∑i=1

k

∑j=1

f (xi,y j)m(Ri j) (26)

dove Ri j = [xi−xi−1]× [y j−y j−1] e m(Ri j) =b−a

n· d− c

ke l’area del rettangolo Ri j. Ciascun termine

della somma (26) e il volume di un parallelepipedo che ha come base il rettangolino Ri j e come altezzail valore della funzione in uno dei vertici del rettangolino stesso. Con le stesse idee indicate nella sezioneprecedente si puo dimostrare anche il seguente

Teorema 3.4.1 Per ogni funzione continua f : E→R esiste il

limn→+∞

S( f ,n,n) (27)

Il valore del limite (27) viene chiamato integrale della funzione f sull’insieme E e si denota∫

Ef (x)dxdy

o anche semplicemente∫

E f .

Grazie alla uniforme continuita di f su E si puo anche dimostrare che

limk→+∞

limn→+∞

S( f ,n,k) = limn→+∞

S( f ,n,n) = limn→+∞

limk→+∞

S( f ,n,k) (28)

Usando la (26), l’ultimo limite doppio a destra nella formula precedente si puo riscrivere come segue

limn→+∞

limk→+∞

S( f ,n,k) = limn→+∞

limk→+∞

n

∑i=1

k

∑j=1

f (xi,y j)b−a

n· d− c

k=

limn→+∞

n

∑i=1

(lim

k→+∞

k

∑j=1

f (xi,y j)d− c

k

)b−a

n= lim

n→+∞

n

∑i=1

(∫ d

cf (xi,y)dy

)b−a

n=

limn→+∞

n

∑i=1

H(xi)b−a

n=

∫ b

aH(x)dx

dove nel penultimo passaggio si e posto H(x) =∫ d

cf (x,y)dy e nel terz’ultimo passaggio si e usata la

definizione di integrale secondo Cauchy della funzione H(x) (che e continua su [a,b]), ossia il fatto che

limk→+∞

k

∑j=1

f (xi,y j)d− c

k=

∫ d

cf (xi,y)dy

per ogni i = 1,2, . . .n fissato. Un risultato analogo vale per il doppio limite a sinistra nella (28) ecomplessivamente si ottiene cosı∫

Ef (x,y)dxdy =

∫ b

a

(∫ d

cf (x,y)dy

)dx =

∫ d

c

(∫ b

af (x,y)dx

)dy (29)

Le formule (29) si chiamano formule di riduzione per gli integrali di funzioni di due variabili e sono unimportante strumento per il calcolo e per la teoria. Ne vedremo diverse generalizzazioni e applicazioni.

14

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4 Lezione − lunedı 24 settembre 2012 10.30 - 12.30 (2 ore)

Primi esercizi sugli integrali

4.1 Primi esercizi sugli integrali di funzioni di due variabili e sul volume dei solidi

Ricordiamo che se X e un insieme ed E e un sottoinsieme di X , si dice funzione caratteristica di E lafunzione

ϕE : X→R , ϕE(x) =

1 se x ∈ E0 se x /∈ E

Scriviamo ora in una forma generale la formula di riduzione per gli integrali di funzioni di due variabili,che e stata illustrata nella lezione precedente nel caso di funzioni definite su un rettangolo6.

Formula di riduzione per gli integrali doppi. Sia f : R2→R una funzione integrabile (il termine saraprecisato assai piu avanti), allora si ha∫

R2f (x,y)dxdy =

∫Rx

(∫Ry

f (x,y)dy)

dx =∫

Ry

(∫Rx

f (x,y)dx)

dy (30)

Noi costruiremo la nostra teoria dell’integrazione in modo che la misura k-dimensionale mk di un insiememisurabile E ⊂ Rk sia uguale all’integrale della sua funzione caratteristica ϕE

mk(E) =∫

EϕEdmk

Pertanto la (30), nel caso particolare in cui si integri una funzione caratteristica f = ϕE diventa

area(E) =∫

R2ϕE(x,y)dxdy =

∫Rx

(∫Ry

ϕEx(y)dy)

dx =∫

Rx

lunghezza(Ex)dx (31)

dove: per ogni a ∈R, Ea := y ∈R∣∣ (a,y) ∈ E e la sezione dell’insieme E con la retta di equazione x = a;

si e scritto area(E) in vece di m2(E) e lunghezza(Ex) in vece di m1(Ex).

Formule analoghe alle precedenti valgono in R3 e in Rn e le consideriamo tutte quante come una versionemoderna del Principio di Cavalieri. Come esempio scriviamo esplicitamente alcune formule di riduzione indimensione 3.

Formule di riduzione per gli integrali tripli. Sia f : R3→R una funzione integrabile, allora si ha∫R3

f (x,y,z)dxdy =∫

R2xy

(∫Rz

f (x,y,z)dz)

dxdy =∫

Rx

(∫R2

yz

f (x,y,z)dydz

)dx =

=∫

Rx

(∫Ry

(∫Rz

f (x,y,z)dz)

dy)

dx

L’ordine in cui si integra successivamente nelle tre variabili x,y,z puo essere scelto arbitrariamente. In di-verse situazioni e necessario valutare quale ordine sia il piu comodo e, come vedremo, si possono ottenereinteressanti informazioni uguagliando le integrazioni ripetute in ordine diverso.

Svolgiamo ora alcuni esercizi per illustrare il significato e l’uso delle formule di riduzione.

Esercizio 4.1.1 Sia a > 0. Il cerchio di raggio a e centro l’origine e l’insieme

Ba = (x,y) ∈ R2 ∣∣ x2 + y2 ≤ a2

Per il Principio di Cavalieri (o meglio, per il Teorma di Fubini), l’area di Ba e

area(Ba) =∫

R2ϕBa(x,y)dxdy =

∫ a

−a

(∫ √a2−x2

−√

a2−x2ϕBa(x,y)dy

)dx =

∫ a

−a2√

a2− x2dx

6Anche se questa formula sara enunciata precisamente come Teorema di Fubini e dimostrata soltanto verso la fine del corso, lapossiamo utilizzare fiduciosamente nei casi che verranno proposti come esercizio.

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Con la sostituzionexa= t e poi con la sostituzione t = sinu si ottiene

∫ a

−a

√a2− x2dx = 2a2

∫ π

2

0cos2 udu

e l’ultimo integrale si puo calcolare ad esempio ricordando che cos(2x) = cos2 x− sin2 x = 2cos2 x− 1,oppure per parti (scrivendo cos2 x = cosx · cosx). Si ottiene cosı

area(Ba) = 4a2[12

x− 12

sinxcosx]π

20 = 4a2 · 1

2· π

2= a2

π

Esercizio 4.1.2 Vogliamo calcolare l’integrale∫ π

2

0cosn(x)dx

che si incontra nel calcolo del volume della palla n-dimensionale. Cominciamo da un caso particolare ecerchiamo la primitiva della funzione cos4 x. Proponiamo due strade. Ecco la prima:∫

cos4 xdx =∫

cos2 x(1− sin2 x)dx =∫

cos2 xdx− 12

∫sin(2x)dx = etc...

Ed ecco la seconda, per parti:∫cos4 xdx =

∫cos3 xcosxdx =

14

cos3 xsinx+34

∫cos2 xdx

Possiamo cosı calcolare ∫ π

2

0cos4(x)dx =

316

π

Vediamo ora il caso generale. Posto

In =∫

cosn xdx

si ha, integrando per parti e ricordando che sin2 x = 1− cos2 x

In =∫

cosn−1 xcosxdx = cosn−1 sinx+(n−1)∫

cosn−2 xsin2 xdx = cosn−1 sinx+(n−1)In−2− (n−1)In

da cui si ottiene la formula ricorsiva

In =1n

cosn−1 sinx+n−1

nIn−2

Si osservi che per n = 2 e n = 4 si ritrovano i casi particolari visti sopra. In modo analogo, il calcolo silascia come esercizio, si ottiene la primitiva della funzione sinn x∫

sinn xdx =−1n

sinn−1 cosx+n−1

n

∫sinn−2 xdx

Esercizio 4.1.3 Calcoliamo la misura della palla n-dimensionale di raggio 1 in Rn. Come vedremo, e comesi intuisce, il volume della palla n-dimensionale di raggio R si ottiene moltiplicando per Rn il volume dellapalla di raggio 1.Per n = 3, affettando ad esempio con i piani z = t si ha

vol3(B1) = 2∫ 1

0area(Et)dt

doveEt = (x,y) ∈ R2

xy∣∣ (x,y,z) ∈ E= (x,y) ∈ R2

xy∣∣ x2 + y2 ≤ 1− t2

Abbiamo quindi

vol3(B1) = 2∫ 1

0π(1− t2)dt =

43

π

16

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Calcoliamo ora la misura 4-dimensionale della palla di raggio 1 in R4. In modo analogo al caso precedentesi ha

vol4(B1) = 2∫ 1

0vol3(Et)dt

doveEt = (x,y,z) ∈ R3

xyz∣∣ (x,y,z,w) ∈ E= (x,y,z) ∈ R3

xyz∣∣ x2 + y2 + z2 ≤ 1− t2

Abbiamo quindi

vol4(B1) = 2∫ 1

0

43

π(1− t2)32 dt

Con la sostituzione t = sinu e ricordando l’esercizio precedente si trova infine

vol4(B1) =83

π

∫ π

2

0cos4 udu =

83

π · 316

π =π2

2

Si lascia per esercizio di calcolare la misura delle palle di dimensione 5 e 6 e di trovare una formula generaleper le palle di dimesione n (ci sono formule differenziate per n pari e n dispari, si trovano ad esempio sullibro Analisi matematica 2 di Enrico Giusti.

Esercizio 4.1.4 Si consideri il triangolo T in R2 di vertici (0,0), (1,3), (4,0). Si calcolino i seguentiintegrali

1area(T )

∫T

xdxdy ,1

area(T )

∫T

ydxdy

Come vedremo meglio nella prossima lezione, questi integrali danno le coordinate del baricentro deltriangolo T .

Ecco infine tre esercizi, non svolti a lezione, che sono stati assegnati nella prima provetta di Analisi Matem-atica III dell’anno accademico 2011-12. Di questi esercizi e riportata la risoluzione, ma si consiglia aglistudenti di leggerla solamente dopo aver affrontato gli esercizi autonomamente.

Esercizio 4.1.5 Calcolare l’integrale ∫E

xydxdy

dove E =(x,y) ∈ R2

∣∣ 0≤ y≤−x2 +2x

.

Si vede subito che il grafico della funzione y =−x2+2x = x(−x+2) sta sopra l’asse x nell’intervallo (0,2).Si ha quindi ∫

Exydxdy =

∫ 2

0xdx

∫ −x2+2x

0ydy =

12

∫ 2

0x(−x2 +2x)2 =

815

Esercizio 4.1.6 Calcolare il baricentro dell’insieme A =C \F dove

C =(x,y) ∈ R2 ∣∣ 1≤ x2 + y2 ≤ 4

, F =

(x,y) ∈ R2 ∣∣ x < 0,y < 0

L’area dell’insieme A e area(A) = 34 (4π−π) = 9π

4 . La coordinata xG del baricentro e

xG =1

area(A)

∫A

xdxdy =4

∫ 2

2dρ

∫π

− π

2

cosθdθ =28

27π

e yG = xG per ragioni di simmetria.

Esercizio 4.1.7 Si calcoli il volume dell’insieme U di R3 che si ottiene come intersezione della palla diraggio 1 e centro l’origine con il semispazio z≥ 1+ x.

La sezione del piano z = x+1 con la palla unitaria e un cerchio che ha distanza√

22 dall’origine (si disegni

la sezione di U con il piano xz) quindi, ruotando opportunamente l’insieme U , si ottiene la parte di pallaunitaria e centro l’origine che sta sopra la quota z =

√2

2 . Affettando ora rispetto alla variabile z si ottiene ilvolume cercato:

vol(U) =∫ 1√

22

π(1− z2)dz = π[z− z3

3]∣∣∣1√2

2

= (8−5√

2)π

12

17

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5 Lezione − giovedı 27 settembre 2012 14.30 - 16.30 (2 ore)

Esercizi

5.1 Centro di massa.

Consideriamo due punti P1 = (x1,y1) e P2 = (x2,y2) in R2 e pensiamo a un sistema di masse costituito dadue masse m1, m2 collocate rispettivamente nei punti P1 e P2. Si chiama centro di massa, o baricentro, delsistema il punto G = (xG,yG) definito da

xG =m1x1 +m2x2

m1 +m2; yG =

m1y1 +m2y2

m1 +m2(32)

Il centro di massa G e caratterizzato dalla proprieta che: per qualsiasi vettore u del piano, e nullo il momentototale M, rispetto al punto G , delle due forze: F1 = m1v, applicata in P1, e F2 = m2v, applicata in P2. Pervedere questo basta ricordare che il momento di una forza F , applicata in un punto P1, rispetto a un puntogenerico P = (x,y) e M = (P1−P)×F , dove si usa la notazione

v×w := det(

v1 w1

v2 w2

)(33)

per il prodotto vettoriale di due vettori v e w7. Si ha pertanto che il momento totale M delle forze F1 = m1u,F2 = m2u come sopra, rispetto a un punto generico P = (x,y) e

M = (P1−P0)×F1 +(P2−P0)×F2 = (P1−P0)×m1u+(P2−P0)e1×m2u

che per la bilinearita del determinante rispetto alle colonnne (o alle righe) diventa

M =[(P1−P0)m1 +(P2−P0)m2

]×u

Se si vuole che M si annulli per qualsiasi u, cio deve valere in particolare quando u = (1,0) e da questo siottiene facilmente la formula per yG; inoltre deve valere quando u = (0,1), e da questo si ottiene la formulaper xG.Osserviamo che combinando le formule per xG e yG si puo scrivere l’equazione vettoriale

G =m1P1 +m2P2

m1 +m2(34)

che si puo interpretare come una media pesata dei due punti (vettori) P1 e P2. Si vede subito che il punto G:- appartiene al segmento di estremi P1 e P2;- e il punto medio del segmento se le masse sono uguali;- sta piu vicino al punto dove si trova la massa maggiore;- si avvicina sempre piu a questo punto quanto piu grande e il rapporto fra le due masse.Se sono date masse m1, ...mk poste nei punti P1, ...,Pk il centro di massa del sistema, definito dalla stessaproprieta caratteristica detta sopra, e

G =m1P1 + ...+mkPk

m1 + ...+mk(35)

In dimensione 3 si ha una definizione del tutto analoga.

Nel caso di una distribuzione di massa di cui sia data la densita8 ρ : R2→R, dove ρ(x,y)≥ 0 e una funzioneintegrabile, il centro di massa e il punto G = (xG,yG), dove

xG =1M

∫R2

xρ(x,y)dxdy ; yG =1M

∫R2

yρ(x,y)dxdy (36)

eM =

∫R2

ρ(x,y)dxdy)

7Il prodotto vettoriale di due vettori che si trovano sul piano xy e un vettore diretto lungo l’asse z, che si puo scrivere come unnumero reale moltiplicato per il vettore unitario dell’asse z; per semplicita prendiamo tale numero reale come prodotto vettoriale deidue vettori v e w nel piano xy.

8Ossia, per ogni insieme (misurabile) E ⊂ R2, la massa che si trova in E e data dall’integrale∫

E ρ(x,y)dxdy.

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e la massa totale della distribuzione.Un caso speciale importante, che corrisponde all’idea fisica di un corpo omogeneo di densita costante,e quello in cui ρ = ϕE e la funzione caratteristica di un insieme E. In tal caso il centro di massa delladistribuzione dipende soltanto da E, si chiama baricentro di E e si scrive

GE = (xE ,yE) =1

area(E)

∫E

Pdxdy :=1

area(E)

(∫E

xdxdy,∫

Eydxdy

)(37)

dove abbiamo denotato con un solo integrale vettoriale i due integrali delle componenti del vettore P =(x,y). La definizione si estende a sottoinsiemi di Rn per ogni n.

5.2 Esercizi sul baricentro di un insieme.

Esercizio 5.2.1 Si trovi il baricentro di un cono circolare retto di altezza h e raggio di base r.

Esercizio 5.2.2 Si trovi il baricentro di un settore circolare di ampiezza α in un cerchio di raggio R.

Esercizio 5.2.3 Si trovino il volume e il baricentro dei due sottoinsiemi di una palla di raggio R che vengonoseparati da un piano posto a distanza h < R dal centro della palla.

Esercizio 5.2.4 i) Siano E ed F due insiemi nel piano o nello spazio. Si provi a dimostrare che

GE∪F =vol(E)GE + vol(F)GF

vol(E)+ vol(F)

e si enuncino le proprieta dell’integrale che occorre avere per fare la dimostrazione (poi le dimostreremo).ii) La formula appena scritta consente anche di trovare il baricentro di un insieme C = A \ B ottenutosottraendo da un insieme A un suo sottoinsieme B. In particolare si trovi il baricentro di un tronco dicono di altezza h e raggi r1, r2, con r1 < r2, utilizzando la formula per il baricentro di un cono trovatanell’esercizio 5.2.1.

Esercizio 5.2.5 Si dimostri che il baricentro di un triangolo di vertici P0, P1, P2, inteso come in(37) euguale al baricentro di tre masse uguali poste nei vertici. Se non si riesce a fare una dimostrazione generale,si cerchi comunque di mostrare l’enunciato per classi di triangoli le piu ampie possibile.

Esercizio 5.2.6 Si trovi il baricentro dell’insieme

T = (x,y,z) ∈ R3 ∣∣ x > 0, y > 0, z > 0,xa+

yb+

zc≤ 1

e si congetturi una formula generale per il baricentro di un tetraedro.

Esercizio 5.2.7 i) Se T : R2→R2 e una traslazione, allora si dimostra facilmente (si prenda nota delleproprieta dell’area o dell’integrale che eventualmente occorrono) che per ogni triangolo E in R2 il traslatodel baricentro di E e uguale al baricentro dell’insieme traslato T (E).i) Sia L : R2→R2 una trasformazione lineare e si dimostri che L(GE) = GL(E). Se non si riesce a fare unadimostrazione generale, si cerchi comunque di mostrare l’enunciato per classi di triangoli e per classi ditrasformazioni lineari le piu ampie possibile, individuando quali strade si potrebbero usare e quali enunciatiparziali o intermedi potrebbero essere utili.

5.3 Esercizi sugli integrali di funzioni di due e tre variabili.

Esercizio 5.3.1 Calcolare l’integrale∫

A

1y

dxdy dove A = (x,y)∣∣ y≥ x2 , x≥ y2.

Esercizio 5.3.2 Calcolare l’integrale∫

E

yzex√x2 + y2

dxdydz

dove E e il semicilindro (x,y,z)∣∣ x2 + y2 ≤ R2 , y≥ 0 , 0≤ z≤ b.

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6 Lezione − venerdı 28 settembre 2012 8.30 - 10.30 (2 ore)

Coordinate affini, coordinate polari

6.1 Cambiamento della misura per trasformazioni lineari

Abbiamo gia dichiarato nella sezione 2.2 che l’area, il volume e in generale la misura k dimensionale checostruiremo in Rk dovranno essere invarianti per traslazioni e rotazioni. Ci aspettiamo invece che la misuradi un insieme f (E), dove f : Rk→Rk e una trasformazione lineare generale, sia diversa dalla misura diE, infatti, se consideriamo ad esempio l’applicazione lineare f : R→R definita da f (x) = cx, dove c e unnumero reale fissato, si vede immediatamente che, per ogni intervallo [a,b]⊂ R, l’immagine f ([a,b]) e unintervallo di estremi f (a) e f (b) e quindi m( f ([a,b])) = |c|m([a,b]) . Vediamo cioe che l’applicazione ftrasforma la misura di un fattore di dilatazione |c|. Se |c|> 1, l’applicazione aumenta la misura; se |c|= 1,l’applicazione non cambia la misura (in effetti e una isometria); se 0 ≤ c < 1, la misura diminuisce e nelsotto-caso c = 0 l’applicazione f manda addirittura tutta la retta nel punto 0 che ha misura nulla. Un altroesempio semplice da considerare e il seguente

Esempio 6.1.1 Sia G : R2→R2 l’applicazione lineare definita da

e1G7−→ a1e1 , e2

G7−→ a2e2 ossia G :(

x1x2

)7−→

(a1 00 a2

)(x1x2

)(38)

dove e1 , e2 sono i vettori della base standard e a1,a2 sono numeri reali. Si vede subito che la mappaG manda il quadrato standard Q = [0,1]× [0,1] in un rettangolo di area |a1a2| e si comprende (la di-mostrazione si vedra piu avanti) che il numero c = |a1a2| e anche il fattore di dilatazione dell’area che valeper tutti i sottoinsiemi del piano. Vediamo un esempio appena piu generale.

Esempio 6.1.2 Sia H : R2→R2 l’applicazione lineare definita da

e1H7−→ a11e1 , e2

H7−→ a12e1 +a22e2 ossia H :(

x1x2

)7−→

(a11 a120 a22

)(x1x2

)(39)

dove a11 , a12 , a22 sono numeri reali. La mappa H (fare un disegno) manda il quadrato standardQ = [0,1]× [0,1] nel parallelogramma generato dai vettori H(e1),H(e2), il quale ha area (definita elemen-tarmente) uguale a |a11a22| . Anche in questo caso si comprende che il numero c = |a11a22| e il fattoredi cambiamento dell’area che vale per tutti i sottoinsiemi del piano.

Per una trasformazione lineare generale si ha il seguente teorema.

Teorema 6.1.3 Sia L : Rk→Rk una applicazione lineare. Allora si ha

m(L(E)) = |detL| ·m(E) per ogni E ⊂ Rk (40)

Dimostreremo piu avanti questo teorema in due passi: con il primo passo vedremo che esiste un numeroc≥ 0 tale che

m(L(E)) = c ·m(E) , ∀E ⊂ Rk; (41)

il secondo passo consistera invece nel mostrare che c = |detL| e per ottenere questo bastera esibire uninsieme F ⊂Rk tale che m(L(F))= |detL|m(F) . Anche se non possiamo dimostrare i passi suddetti primadi aver costruito i fondamenti della teoria della misura, possiamo subito comprenderne le idee essenziali.L’idea del primo passo e che (a causa dell’invarianza della misura rispetto alle traslazioni) tutti i rettangolicon i lati paralleli agli assi si trasformano con uno stesso fattore c ; ma allora (a causa dell’additivita) anchegli insiemi che sono unione disgiunta di rettangoli si trasformano con lo stesso fattore c ; e questo deveallora valere per tutti gli insiemi che si approssimano con tali ‘plurirettangoli’, e cioe tutti i sottoinsiemi delpiano. Il secondo passo si puo dimostrare in diversi modi. Diamo ora una idea di uno di questi modi, poipiu avanti seguiremo una via diversa. Osserviamo per cominciare che in dimensione due ogni applicazionelineare L del piano in se si puo scrivere come composizione di applicazioni che hanno matrice triangolaresuperiore o inferiore (dimostrarlo per esercizio...). Come si e visto nell’esempio 6.1.2, per ciascuna di taliapplicazioni vale la (41), che quindi vale per la loro composizione. In dimensione k > 2 si puo comunquemostrare che ogni applicazione lineare L si puo scrivere come composizione di applicazioni lineari dei tretipi seguenti: i) con matrice diagonale; ii) permutazioni delle coordinate; iii) applicazioni del tipo:

e1H7−→ e1 +αe2 , e2

H7−→ e2, , e3H7−→ e3, . . . ek

H7−→ ek

20

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che sono triangolari nel piano generato da e1, e2 e lasciano identiche le altre componenti dei vettori. Per leapplicazioni di ciascuno di questi tipi si vede facilmente il passo 2 e vale quindi la (41). Ma allora la (41)deve valere anche per la loro composizione.

6.2 Coordinate affini

Chiamiamo rette vettoriali i sottospazi vettoriali di dimensione 1 e chiamiamo piani vettoriali i sottospazivettoriali di dimensione due in Rn. Se V e un sottospazio vettoriale di Rn di dimensione k, ogni traslato diV , ossia ogni insieme del tipo W =V +P0 , si dice sottospazio affine k-dimensionale di Rn. Il sottospaziovettoriale V si chiama direzione di W . I sottospazi affini di dimensione 1 e 2 si chiamano rette e piani inRn. I sottospazi affini k dimensionali si dicono anche k-piani.

Siano P0 e P1 due punti in Rk, con P0 6= P1 L’applicazione

γ : R−→ Rk , γ : t 7−→ P0 + t(P1−P0) (42)

e iniettiva e ha come immagine la retta r che passa per i punti P0 e P1 . Osserviamo che γ(0) = P0 ,γ(1) = P1 e l’intervallo [0,1] viene mandato nel segmento di estremi P0 e P1 . Diciamo che γ e unaparametrizzazione affine della retta r e il numero t si puo pensare come una coordinata affine sulla rettar. Osserviamo che la parametrizzazione manda il punto 1

2 nel punto medio del segmento di estremi P0 e P1 .

Sia ora n ≥ 2 e siano P0 , P1 e P2 tre punti in Rn, non allineati (ossia tali che i vettori b1 = P1−P0e b2 = P2−P0 siano linearmente indipendenti). Il piano che passa per i tre punti e P0 +V dove V e ilsottospazio vettoriale generato da b1,b2. L’applicazione

ψ : R2 −→ Rk , ψ : (u1,u2) 7−→ P0 +u1(P1−P0)+u2(P2−P0) (43)

e iniettiva e ha come immagine il piano W . Se chiamiamo simplesso 2-dimensionale standard in R2 iltriangolo T2 in R2 di vertici 0,e1,e2, allora la parametrizzazione ψ manda T2 nel triangolo E di vertici P0 ,P1 e P2 . Inoltre ψ manda il quadrato standard [0,1]× [0,1] nel parallelogramma (unico) che ha i punti P0 ,P1 e P2 fra i suoi vertici. Diciamo che γ e una parametrizzazione affine del piano W e la coppia di numeri(u1,u2) si puo pensare come un sistema di coordinate affini sul piano W . Osserviamo che se chiamiamo

G :=e1 + e2

3il baricentro dei tre punti 0,e1,e2, allora ψ(G) e il baricentro dei tre punti P0 , P1 e P2 .

Analoghe parametrizzazioni si possono dare per un k-piano in Rn, dove n ≥ k, identificato da k+ 1 puntiP0,P1, . . . ,Pk.

6.3 Applicazioni differenziabili definite su sottoinsiemi in Rk a valori in Rn

In questa sezione stabiliremo termini e notazioni relativi alle applicazioni differenziabili definite su sottoin-siemi di Rk e a valori in Rn. Scriveremo i risultati per dimensioni k, n generiche, ma il lettore e invitato ariscrivere le formule e a costruirsi esempi e visualizzazioni nei casi 1≤ k≤ n≤ 3, che sono di piu immedi-ato interesse e saranno quelli piu comuni anche negli esercizi.

Denotiamo con u = (u1, ...,uk) i punti di Rk e con e1, ...,ek la base standard di Rk. Denotiamo inoltre conx = (x1, ...,xn) i punti di Rn e con ε1, ...,εn la base standard in Rn.Sia A un aperto in Rk e consideriamo una funzione ψ : A→Rn . Per ogni u ∈ A scriviamo

ψ(u) = (ψ1(u), ...,ψn(u)) = ψ1(u)ε1 + . . . +ψn(u)εn

dove le funzioni ψi : A→R sono le componenti di ψ. La funzione ψ e continua in un punto u ∈ A se esolo se tutte le componenti ψi sono continue in quel punto. La funzione ψ si dice di classe C1(A) se e solose tutte le componenti ψi sono funzioni classe C1(A), ossia hanno tutte le derivate parziali in tutti i puntidi A e le funzioni derivate parziali sono continue su A. Induttivamente, una funzione si dice poi di classeCr(A), dove r ∈ N, se tutte le sue derivate esistono in ogni punto di A e sono di classe Cr−1(A). Infine unafunzione e di classe C∞ se e di classe Cr per ogni r ∈ N.

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Nel caso in cui 1 = k ≤ n e ψ e continua, allora diremo che ψ e una curva parametrizzata. Se 2 = k ≤ ne ψ e continua, allora diremo che ψ e una superficie parametrizzata. Nella maggior parte dei casi noi con-sidereremo curve e superfici parametrizzate che sono di classe C1 o C1 a tratti e saranno spesso, ma nonnecessariamente iniettive. Un altro caso di interesse e quello di funzioni lipschitziane. Vedremo piu avantidiversi esempi.

Ricordiamo che una funzione di n variabili a valori in Rn si puo interpretare in due modi significativamentediversi. Un modo, che si usa in particolare se la funzione e un diffeomorfismo tra aperti di Rn, e quello divederla come un sistema di coordinate: nella sezione precedente abbiamo visto le parametrizzazioni affinidel piano, vedremo piu avanti le coordinate polari e le coordinate sferiche, nonche altri sistemi di coordinateche introdurremo ad hoc per risolvere problemi specifici. Un altro modo e quello di vedere una funzioneF : E→Rn, dove E ⊂ Rn, come un campo di vettori su E, dove E non e detto sia un aperto e puo essere adesempio una sottovarieta di dimensione minore di n. In questo punto di vista, se x ∈ E, per rappresentare ilvettore F(x) spesso si pensa o si disegna una freccia che parte dal punto x ∈ E e arriva nel punto x+F(x).Questo corrisponde all’idea che F(x) e un vettore applicato nel punto x e appartiene in effetti a una copiadi Rn che ha l’origine nel punto x.

Una funzione ψ : A→Rn si dice differenziabile nel punto u ∈ A, se esiste una funzione lineare L : Rk→ Rn

tale che

ψ(u) = ψ(u)+L(u−u)+E(u) ; limu→u

E(u)|u−u|

= 0

In tal caso, la funzione lineare L si chiama differenziale di ψ nel punto u e noi la denoteremo dψ(u).I vettori w che stanno nel dominio Rk di L si devono pensare come vettori tangenti all’aperto A nel puntou (con un linguaggio un po’ antico, ma significativo, ancora usato in fisica o in meccanica, tali vettori sidicono anche vettori applicati nel punto u). Tali vettori tangenti sono le possibili velocita (nel punto u) dellecurve differenziabili a valori in A che passano per u e sono anche i possibili vettori rispetto ai quali fare la

derivata direzionale∂ψ

∂w(u) della funzione ψ nel punto u, definita da:

∂ψ

∂w(u) := lim

t→0

ψ(u+ tw)−ψ(u)t

Dalla definizione di differenziale di ψ in u si vede subito che per ogni w ∈ Rk si ha

dψ(u)(w) =∂ψ

∂w(u) =

(∂ψ1

∂w(u), . . . ,

∂ψn

∂w(u))

Ricordiamo che le derivate parziali rispetto ai vettori della base standard ei si denotano comunemente∂ψ

∂ui.

Si scrive pertanto

dψ(u)(ei) =∂ψ

∂ui (u) =

(∂ψ1

∂ui (u), . . .∂ψn

∂ui (u))

Per un generico vettore w = w1e1+ · · ·+wkek ∈Rk, scrivendo ora in colonna le coordinate dei vettori in Rk

e Rn, abbiamo quindi:

dψ(u)(w) = w1∂ψ

∂u1 (u)+ ...wk∂ψ

∂uk (u) =

∂ψ1∂u1

∂ψ1∂u2

. . . ∂ψ1∂uk

∂ψ2∂u1

∂ψ2∂u2

. . . ∂ψ2∂uk

...... . . .

...∂ψn∂u1

∂ψn∂u2

. . . ∂ψn∂uk

·

w1...

wk

dove tutte le derivate parziali sono calcolate nel punto u. La matrice n× k delle derivate parziali di ψ in urappresenta il differenziale dψ(u) rispetto alle basi standard di Rk e Rn e si chiama matrice jacobiana di ψ

in u; noi la denoteremo Dψ(u).

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Ricordiamo che se una funzione ψ e di classe C1(A), allora e differenziabile in ogni punto di A e ricordiamoche invece la sola esistenza delle derivate parziali di una funzione in un punto non implica la differenziabilitain quel punto. Ricordiamo anche il

Teorema 6.3.1 del diffeomorfismo locale. Sia A un aperto di Rn, e sia ψ : A→Rn di classe C1. Supponi-amo inoltre che il differenziale dψ(u) nel punto u ∈ A sia iniettivo, allora esiste un intorno G di u tale cheψ|G e un diffeomorfismo tra G e ψ(G).

Per la dimostrazione si rimanda agli appunti di Analisi II del prof. Gabriele Greco.

6.4 Intervalli in R

Per completezza raccogliamo qui le notazioni che usiamo per gli intervalli in R. Siano a,b ∈ R con a < b.Per gli intervalli in R useremo le notazioni:

[a,b] = x ∈ R∣∣ a≤ x≤ b (a,b) = x ∈ R

∣∣ a < x < b

[a,b) = x ∈ R∣∣ a≤ x < b (a,b] = x ∈ R

∣∣ a < x≤ b[a,+∞) = x ∈ R

∣∣ a≤ x (−∞,b] = x ∈ R∣∣ x≤ b

(a,+∞) = x ∈ R∣∣ a < x (−∞,b) = x ∈ R

∣∣ x < b(−∞,+∞) = R

Gli intervalli non limitati da una parte si chiamano anche semirette.

6.5 Coordinate polari

Consideriamo la funzione ψ : (0,+∞)×R→ R2 definita da

ψ : (ρ,θ) 7→ (ρcosθ,ρsinθ) ∀ρ ∈ (0,+∞) , ∀θ ∈ R (44)

che si descrive anche come x = ρcosθ

y = ρsinθ(45)

E immediato che ψ e una funzione di classe C1 e anzi C∞ e che l’immagine di ψ e uguale al piano R2 privatodell’origine. Per comprendere il comportamento della mappa ψ la lettrice e invitata a fare alcuni disegnidella situazione. Ad esempio, conviene tracciare le curve che si ottengono restringendo la funzione ψ allesemirette θ = θ0: si vede cosı che al variare di ρ da 0 a +∞, il punto ψ(ρ,θ0) percorre una semiretta uscentedall’origine che forma un angolo θ0 con la semiretta positiva dell’asse x. Inoltre si vede che per ρ = ρ0,al variare di θ in R, il punto ψ(ρ0,θ) percorre infinite volte la circonferenza di raggio ρ0. Restringendoopportunamente il dominio di ψ si ottiene un diffeomorfismo:

Proposizione 6.5.1 Considerati gli aperti

A = (0,+∞)× (0,2π)⊂ R2 ; Ω = R2−(x,y) ∈ R2 ∣∣ x≥ 0,y = 0

la mappa ψ ristretta a A e un diffeomorfismo di classe C1 tra A e Ω.

Dimostrazione. Si vede subito che Ω = ψ(A) e che ψ ritretta ad A e iniettiva. Osserviamo che la matricejacobiana Dψ(ρ,θ) e

∂x∂ρ

∂x∂θ

∂y∂ρ

∂y∂θ

=

(cosθ −ρsinθ

sinθ ρcosθ

)(46)

In particolare, per ogni punto (ρ,θ) di A, si ha det(Dψ(ρ,θ)) = ρ > 0 e da questo segue che anche il differen-ziale dψ(ρ,θ) : R2→R2 e invertibile. In questa situazione, per il teorema 6.3.1 del diffeomorfismo locale, siha che la funzione ψ e un diffeomorfismo di un opportuno intorno di (ρ,θ) su un intorno di (x,y) = ψ(ρ,θ).In particolare dunque ψ−1 e di classe C1 in un intorno del punto (x,y). Poiche questo vale per ogni punto(x,y) ∈Ω, la funzione inversa ψ−1 : Ω→ A e di classe C1(Ω) e in conclusione ψ : A→Ω e un diffeomor-fismo, come si voleva dimostrare.

La mappa ψ ristretta all’aperto A si chiama sistema di coordinate polari nel piano.

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Anticipiamo qui ulteriori considerazione sulle coordinate polari, svolte in realta nella lezione di giovedı 4 ottobre.Per comprendere meglio le coordinate polari, studiamo come si comportano intorno a un punto generico.Consideriamo allora un punto fissato P0 = (ρ0,θ0)∈ A (il lettore puo fare un disegno ad esempio prendendoρ0 = 3 e θ0 =

34 π) e poniamo M0 := ψ(P0) ∈R2

xy . Chiamiamo inoltre L0 il differenziale di ψ nel punto P0.Per capire come agisce la mappa ψ, vedremo ora come essa trasforma le curve che passano per il punto P0.Per prima cosa consideriamo una curva parametrizzata α : I→A , dove I = (−δ,δ) e un intorno di 0 in R,definita da

α(t) := P0 + te1 ossia α(t) = (ρ0,θ0)+(t,0) = (ρ0 + t,θ0)

Ricordiamo che denotiamo e1,e2 i vettori della base standard in nel piano ρθ . Si vede subito che α(0) =P0 e che la curva α percorre un segmento della retta di equazione θ = θ0, parallela all’asse ρ. La velocitadella curva α nel punto P0 e α′(0) = e1 .

Consideriamo ora la curva σ : I→R2xy definita da σ(t) := ψ(α(t)) , ossia la trasformata della curva α

attraverso ψ. La curva σ passa per il punto M0 e percorre un segmento della semiretta che congiungel’origine con il punto M0 nel piano xy . Denotiamo b1 := σ′(o) la velocita della curva σ nel puntoM0. Per la definizione di derivata parziale (o per il teorema di derivazione di una funzione composta in piuvariabili, come si preferisce), si ha

b1 =∂ψ

∂ρ(ρ0,θ0) = L0(e1)

In modo analogo si puo considerare una curva β, parallela all’asse θ che passa per P0 e ottenere la derivataparziale di ψ rispetto a θ nel punto P0:

b2 :=∂ψ

∂θ(ρ0,θ0) = L0(e2)

Ricordando la definizione (44) della mappa ψ si vede subito che

b1 = (cosθ0,sinθ0) ; b2 = (−ρ0 sinθ0,ρ0 cosθ0)

(si faccia il disegno nel caso gia indicato di ρ0 = 3 e θ0 =34 π) e si osserva che valgono le seguenti:

|b1|= 1 ; |b2|= ρ0 ; b1 ·b2 = 0

dove l’ultima relazione ci dice che i vettori b1 e b2 sono ortogonali. Insomma vediamo che il differenzialeL0 di ψ nel punto P0 trasforma i vettori della base standard in due vettori b1 e b2 tra loro ortogonali edi lunghezza rispettivamente 1 e ρ0. Pertanto L0 trasforma il quadrato standard di lati e1e2, cha ha areaunitaria, nel rettangolo di lati b1b2, che ha area ρ0. Dunque il fattore con cui la mappa lineare L0 trasformal’area e ρ0, che e proprio il determinante di L0 (il modulo non e rilevante, perche si tratta di un numeropositivo). Poiche la mappa L0 approssima bene la mappa ψ ‘vicino’ al punto P0, in queste vicinanze ancheψ trasforma l’area di un fattore ρ0.

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7 Lezione − Lunedı 1 ottobre 2012 10.30 - 12.30 (2 ore)

Cambiamento di variabile negli integrali

7.1 Primi esempi di curve parametrizzate

Definizione 7.1.1 Una curva parametrizzata in uno spazio metrico E e una funzione continua γ : I→E,dove I e un intervallo in R.

Noi siamo interessati in particolare alle curve negli spazi Rn e agli integrali lungo (su) tali curve. Vediamoin questa sezione qualche primo esempio di curve. L’integrazione sulle curve sara sviluppata gradualmente.

Esempio 7.1.2 La curva parametrizzata

γ : [0,4π]→ R2 , γ(t) = (Rcos t,Rsin t) (47)

che descriviamo anche x = Rcos ty = Rsin t

ha come immagine la circonferenza di raggio R e centro O nel piano e questa circonferenza viene ‘percorsa’due volte (il punto (R,0) viene in effetti raggiunto tre volte). La curva e di classe C∞.

Dall’esempio si vede bene come sia necessario distinguere tra l’immagine S = γ(I), che e un sottoinsiemedi R2, e la funzione γ : I → Rn, che dice come l’insieme S viene percorso. Qualche volta si usa pero iltermine ‘curva’ anche per indicare l’insieme S, e la funzione γ si chiama ‘parametrizzazione’ di S. Altrichiamano S ‘sostegno’ della curva γ. Nonostante questa confusione che si ha comunemente nel linguaggio,con un po’ di attenzione non sorgono equivoci.

Esercizio 7.1.3 Mostrare che la curva γ definita in (47), ristretta all’intervallo aperto I = (a,a+2π), dovea e un numero reale fissato arbitrariamente, e iniettiva ed e un omeomorfismo da I sull’insieme costituitodalla circonferenza meno il punto P = (cosa,sina).

Esercizio 7.1.4 Si descriva una curva parametrizzata iniettiva a valori in R2, la cui immagine sia l’ellissedi centro 0 e di semiassi a e b.

Esercizio 7.1.5 Disegnare il sostegno della curva

α(t) = (Rcos t,Rcos t) ; t ∈ R

e visualizzare mentalmente il movimento del punto α(t) al variare del parametro t. Si osservi che la curvae di classe C∞.

Esercizio 7.1.6 Si descriva una curva parametrizzata iniettiva di classe C1 a valori in R2, la cui immaginesia la frontiera del quadrato [0,1]× [0,1].

Esercizio 7.1.7 Si scriva esplicitamente una funzione γ definita su un opportuno intervallo I a valori in R2,iniettiva e di classe C1, che descriva la cicloide, ossia la traiettoria di un punto P che si trova sul bordo diun cerchio di raggio R, collocato in un piano xy, al rotolare del cerchio stesso sopra l’asse x. [Suggeriamodi pensare che il cerchio si trovi all’inizio del rotolamento col centro nel punto (0,R) e con il punto Pin corrispondenza dell’origine (0,0). Suggeriamo inoltre di prendere come parametro del rotolamentol’angolo θ in radianti. Dopo un giro completo, cioe per il valore θ = 2π del parametro, il centro del cerchiosara nel punto (2πR,R) e il punto P si trovera di nuovo sull’asse x, in corrispondenza del punto (2πR,0).

Vediamo anche un esempio di curva nello spazio 3-dimensionale. . .

Esempio 7.1.8 La curvaγ : R→ R3 , γ(t) = (Rcos t,Rsin t, t) (48)

si dice elica cilindrica di raggio R. Disegnare l’insieme γ([−π,4π]). Si riesce con mezzi elementari a direquanto e lunga questa curva?

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. . . e un esempio di curva nello spazio 1-dimensionale . . .

Esempio 7.1.9 La curva

h : R→ R , h(t) = sin2t , t ∈ [0,π] (49)

si muove sulla retta e ha come immagine l’intervallo [−1,1]. Quanto e lunga questa curva? Vediamo che lacurva parte da 0 quando t = 0, poi si muove fino al punto 1 (per t = π

4 ), torna indietro fino a−1 (per t = 3π

4 )e infine arriva al punto 0 quando t = π. Nel complesso la curva h percorre due volte il segmento [−1,1] ela sua lunghezza (la lunghezza del cammino, non del sostegno) e 4. Osserviamo che questa lunghezza siottiene calcolando l’integrale

lunghezza(h) =∫

π

0|h′(t)|dt

e la stessa formula evidentemente si puo usare per calcolare la lunghezza di una curva a valori in R di classeC1 che abbia un numero finito di massimi e minimi: la lunghezza del cammino totale e infatti la sommadei valori assoluti delle differenze tra ogni minimo (o massimo) e il massimo (o minimo) successivo e bastausare il teorema fondamentale del calcolo per trovare la formula appena indicata.

Osservazione 7.1.10 Occorre fare attenzione a non confondere tra di loro il cammino in R descritto dallafunzione h dell’esempio precedente e il cammino in R2

γ : [0,π]→ R2 , γ(t) = (t,h(t)) (50)

che percorre il grafico (x,y) ∈ R2∣∣ x ∈ [0,π] , y = h(x) della funzione h. Evidentemente la lunghezza

del cammino che percorre il grafico di h e maggiore della lunghezza del cammino di h in R. Ricordiamoche una definizione di lunghezza del grafico (si rimanda al libro citato di G. Greco) si e vista nel corso diAnalisi 1: ∫

π

0

√1+ |h′(t)|2 =

∫π

0

√1+4|cos2t|2

Ricordiamo che l’ultimo integrale sappiamo che esiste, possiamo approssimarlo, possiamo trovare delle

formule che lo esprimono in termini di altri integrali, ma la primitiva di√

1+4|cos2t|2 non e esprimibilein termini di funzioni elementari.

Studieremo piu avanti in generale la questione di come definire la lunghezza di una curva e di comecalcolarla.

7.2 Formula di integrazione per sostituzione

In questa sezione ricorderemo come dalla formula per la derivata di una funzione composta e dal TeoremaFondamentale del Calcolo si ottiene una formula di cambiamento di variabile per gli integrali in dimensione1. Questo approccio non si generalizza a dimensioni maggiori o uguali di 2. Nella prossima sezione ve-dremo una diversa dimostrazione della formula di cambiamento di variabile in dimensione 1, la cui idea sipuo generalizzare al caso di mappe da Rn in Rn e anche da Rk in Rn. Descriveremo schematicamente talegeneralizzazione nell’ultima sezione.

Sia I = [a,b] un intervallo in R e consideriamo una funzione g : [a,b]→R di classe C1([a,b]) e ini-ettiva, che possiamo pensare come una curva parametrizzata a valori in R. Poiche g e continua, l’im-magine H = g(I) della funzione g e un insieme compatto e connesso e quindi e un intervallo chiuso elimitato: H = [c,d]. Poiche g e iniettiva e continua, deve essere monotona: crescente con la derivatag′(t) ≥ 0 ∀t ∈ [a,b] , oppure decrescente, con la derivata g′(t) ≤ 0 ∀t ∈ [a,b] . Nel primo caso si avrag(a) = c , g(b) = d e nel secondo caso si avra g(a) = d , g(b) = c . In entrambi i casi puo capitareche la derivata di g si annulli in un certo insieme di punti; di conseguenza la funzione inversa di g, che enecessariamente continua, non e detto sia differenziabile in tutti i punti di [c,d], in particolare non e dettoche g sia un diffeomorfismo.

Consideriamo ora una funzione continua f : [c,d]→R e sia F : [c,d]→ [c,d] una funzione primitiva dif , ossia tale che F ′(x) = f (x) . Evidentemente la funzione F e di classe C1 su [a,b] e anche la funzionecomposta F g : [a,b]→R lo e. La derivata di tale funzione composta in un punto t ∈ [a,b] e

[F g]′(t) = F ′(g(t))g′(t) = f (g(t))g′(t)

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Nel caso in cui g sia crescente, utilizzando il Teorema Fondamentale del Calcolo, abbiamo quindi∫I

f (g(t))g′(t)dt =∫ b

af (g(t))g′(t)dt =

∫ b

a[F g]′(t)dt =

= [F g](b)− [F g](a) = F(g(b))−F(g(a) =∫ g(b)

g(a)f (x)dx =

∫ d

cf (x)dx =

∫H

f (x)dx (51)

dove a destra abbiamo un integrale nella variabile x e a sinistra un integrale nella nuova variabile t, nelquale compaiono la funzione f (g(t)), ossia la funzione f espressa nella nuova variabile, e la funzione g′(t)che tiene conto dello ‘stiramento’ della lunghezza nel passaggio da una variabile all’altra; approfondiremoquesta idea poco piu avanti in questa sezione.Nel caso in cui g sia decrescente, e quindi g(a)> g(b), in modo analogo otteniamo:∫

If (g(t))g′(t)dt =

∫ b

af (g(t))g′(t)dt = −

(F(g(b))−F(g(a)

)= −

∫ d

cf (x)dx = −

∫H

f (x)dx (52)

e le (51) e (52), qualunque sia il segno di g′, si possono condensare nella∫I

f (g(t))|g′(t)|dt =∫

g(I)f (x)dx (53)

La formula precedente sara chiamata cambiamento di variabile nell’integrale (in dimensione uno).Se poi si ricorda la definizione di integrale orientato (si veda ad esempio G.Greco. Calcolo Differenziale eintegrale, volume I, cap 10):

∫ b

af (x)dx =

∫[a,b] f (x)dx se a < b

−∫[b,a] f (x)dx se a > b

(54)

le (51) e (51), qualunque sia il segno di g′, si possono condensare nell’unica formula∫ b

af (g(t))g′(t)dt =

∫ g(b)

g(a)f (x)dx (55)

Quest’ultima formula sara chiamata cambiamento di variabile nell’integrale orientato (in dimensione uno).

Vedremo nelle prossime due sezioni che entrambe le (53) e (55) si possono generalizzare a dimensionimaggiori di uno, ma non con il metodo di dimostrazione fin qui seguito.Un caso particolare importante della (53) si ha nel caso in cui f (x) = 1 per ogni x:∫

I|g′(t)|dt =

∫g(I)

dx

ossia ∫I|g′(t)|dt = lungh(g(I)) (56)

Detto in parole: la lunghezza dell’immagine di I e uguale all’integrale su I di |g′(t)|. Ricordando ladefinizione di derivata, abbiamo quindi

|g′(t)| = limr→0

lungh(

g(Br(t)

))lungh

(Br(t)

)dove Br(t) = [t− r , t + r] , e questo mostra bene il significato del numero |g(t)| come fattore di dilatazione(o restringimento) della lunghezza causato dal cambiamento di variabile g intorno al punto t.

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7.3 Cambiamento di variabile negli integrali in dimensione 1

Nella sezione precedente abbiamo ottenuto la formula di cambiamento di variabile (53) utilizzando la for-mula per la derivata della funzione composta e il Teorema Fondamentale del Calcolo. In questa sezioneritroveremo la stessa formula di cambiamento di variabile utilizzando un altro approccio. A questo fine siag : [a,b]→R di classe C1([a,b]) , tale che g′ > 0, g(a) = c , g(b) = d e sia f : [c,d]→R una funzionecontinua. Ricordando la definizione di integrale di Cauchy e l’osservazione 3.2.2, abbiamo che∫ d

cf (x)dx = lim

n→∞

n

∑j=1

f (η j)(x j− x j−1)

dove:

1. per ogni n ∈ N, x0,x1, . . .x j, . . .xn e una partizione dell’intervallo [a,b]

2. per ogni j = 1, ...n η j ∈ [x j−1,x j]

3. le partizioni soddisfano alla condizione di ‘infittirsi’ quanto si vuole al tendere di n all’infinito:

limn→∞

maxj|x j− x j−1| = 0 (57)

Grazie al teorema del valor medio di Lagrange, per ogni n ∈ N e ogni j = 1, ...,n possiamo scrivere

x j− x j−1 = g′(ξ j)(t j− t j−1)

dove t j = g−1(x j) e ξ j sta fra t j e t j−1 . Se scegliamo η j = g(ξ j) abbiamo

n

∑j=1

f (η j)(x j− x j−1) =n

∑j=1

f (g(t j))g′(ξ j)(t j− t j−1)

A questo punto aggiungiamo una ipotesi, che semplifica tecnicamente la situazione senza oscurare il ra-gionamento e che alla fine, volendo, si potra rimuovere: supponiamo che g′ ≥ δ > 0 su [a,b]. Dunque g eun diffeomorfismo e la derivata di g−1 e limitata da un numero M; quindi (t j− t j−1)≤M(x j− x j−1) e da(57) segue che

limn→∞

maxj|t j− t j−1| = 0 (58)

Abbiamo pertanto∫ d

cf (x)dx = lim

n→∞

n

∑j=1

[( f g)g′](ξ j)(t j− t j−1) =∫ b

a[ f g](t)g′(t)dt

che e proprio la formula di cambiamento di variabile (53) nel caso di g′ > 0 (il caso g′ < 0 si tratta allostesso modo).

7.4 Cambiamento di variabile negli integrali in dimensione n

In questa sezione, per analogia con il caso 1-dimensionale, enunceremo una formula per il cambiamentodi variabile negli integrali in Rn, utilizzando termini al momento non ancora definiti, che saranno precisatipiu avanti nel corso. Riteniamo che comunque il significato della formula sara sufficientemente chiaro perpoterla gia utilizzare come importante strumento di calcolo.

Teorema 7.4.1 Cambiamento di variabile negli integrali in Rn.Siano A e Ω aperti di Rn. Sia ψ : A→Ω un diffeomorfismo e sia f : Ω→R una funzione integrabile9.Allora si ha ∫

Af (ψ(u))Jψ(u)du =

∫ψ(A)

f (x)dx (59)

doveJψ(u) = |detDψ(u)|

9I termini in corsivo nell’enunciato saranno definiti piu avanti, quando svilupperemo la teoria della misura e dell’integrazione, inparticolare la misura di Lebesgue.

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Inoltre, per ogni insieme misurabile E ⊂ A si ha∫E

Jψ(u)du = m(ψ(E)) (60)

dove m e la misura n-dimensionale in Rn.

Occorre fare diverse osservazioni.

Osservazione 7.4.2 Il numero Jψ(u) = |detDψ(u)| e il fattore con cui il differenziale dψ(u) : Rn→Rn

cambia il volume n-dimensionale e quindi lo pensiamo come il fattore con cui la mappa ψ cambia il volumedi insiemi infinitesimi intorno al punto u. Nel caso della dimensione n = 1 si ha Jψ(u) = |ψ′(u)| e la (59)coincide con (53).

Osservazione 7.4.3 La (59) vale anche se ψ e solamente iniettiva, senza richiedere che ψ sia un diffeo-morfismo. Se poi la funzione ψ non e neppure iniettiva, vale comunque una formula analoga alla (59), incui si tiene conto di quante volte la funzione ψ assume ogni valore x ∈ ψ(A). Precisamente: si introduce lafunzione molteplicita di ψ, definita per ogni x ∈ ψ(A) come segue:

N( f ,x) = Card(u ∈ A

∣∣ ψ(u) = x)

(61)

dove Card(B) e il numero degli elementi di B, se B e un insieme finito, e vale +∞ se B non e finito;dopodiche si puo mostrare che ∫

Af (ψ(u))Jψ(u)du =

∫ψ(A)

N( f ,x) f (x)dx (62)

∫E

Jψ(u)du =∫

ψ(E)N( f ,x)dx (63)

Puo essere utile scrivere la funzione molteplicita e verifica re la validita della (62) per le curve presentatenegli esempi 7.1.2 e 7.1.5.

Osservazione 7.4.4 Abbiamo detto sopra che la formula di cambiamento di variabile (59) in dimensione 1e la formula di cambiamento di variabile (53) per l’integrale non orientato. In dimensione 1 abbbiamo peroanche un integrale orientato e la corrispondente formula (55) di cambiamento di variabile. Sorge quindinaturale la domanda: c’e anche in dimensione n un integrale orientato? c’e un cambiamento di variabileorientato n-dimensionale? Vedremo che la risposta e affermativa: gli integrali orientati n-dimensionalisaranno gli integrali delle cosiddette forme differenziali.

Osservazione 7.4.5 Vedremo piu avanti che le formule (59) e (60) si estendono, formalmente identiche, alcaso di mappe ψ : A→Rn , dove A e un aperto in Rk e k ≤ n , pur di definire opportunamente il fattoreJψ (u) di trasfomazione dell’area. Se k < n tali mappe ψ si interpretano come superfici parametrizzatee la formula generalizzata viene spesso chiamata formula dell’area.

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8 Lezione − Giovedı 4 ottobre 2012 14.30 - 16.30 (2 ore)

Esercizi su coordinate polari. Introduzione agli integrali lungo le curve.

Alcune osservazioni che sono state fatte sulle coordinate polari nella lezione del 4 ottobre si trovano in questo diarioalla fine dell’ultima sezione della lezione del 28 setttembre, a pagina 24.

8.1 Calcolo di un’area in coordinate polari

Vediamo un esempio di curva in coordinate polari e in coordinate cartesiane. Poi calcoleremo l’area di uninsieme, utilizzando le coordinate polari.

Esempio 8.1.1 Spirale di Archimede. La spirale di Archimede e la curva nel piano che viene percorsa daun punto P, vincolato a stare su una semiretta r di origine O, il quale si muove lungo la semiretta stessa convelocita uniforme a partire da O, mentre la semiretta ruota con velocita angolare uniforme intorno al puntoO. Se pensiamo che il punto O sia l’origine di un sistema di assi cartesiani xy, che la semiretta al tempot = 0 sia il semiasse x positivo e che la rotazione sia antioraria, allora le coordinate polari (ρ,θ) del puntoP, all’istante t sono

ρ(t) = ct , θ(t) = ωt (64)

dove c > 0 e la velocita del punto lungo la retta r e ω > 0 e la velocita angolare della retta intorno all’origine. Quindi le coordinate cartesiane del punto P sono

x(t) = ρ(t)cos(θ(t)) = c · t · cos(ωt) , y(t) = ρ(t)sin(θ(t)) = c · t · sin(ωt) (65)

La curva parametrizzata γ : [0,+∞)→R2 , dove γ(t) = (x(t),y(t)) e il modello matematico della spiraledi Archimede.

Esercizio 8.1.2 Consideriamo la curva parametrizzata σ : [0,π]→R2 definita da

x(t) = acos t ; y(t) = asin t ; t ∈ [0,π]

che percorre un arco di spirale di Archimede. Si trovi l’area dell’insieme F racchiuso dall’immagine dellacurva σ e dal segmento dell’asse x di estremi (0,0) e (−1,0) .

Per calcolare l’area di F , consideriamo l’insieme

E = (ρ,θ) ∈ R2 ∣∣ 0≤ θ≤ π , 0≤ ρ≤ aθ

e osserviamo che la mappa ψ delle coordinate polari (44) e biiettiva tra gli insiemi E ed F . Per la (60)abbiamo allora che

area(F) = area(ψ(E)) =∫

EJψ(ρ,θ)dρdθ =

∫E

ρdρdθ =∫

π

0

(∫ aθ

0ρdρ

)dθ =

∫π

0

12

a2θ

2dθ =16

a2π

3

8.2 Introduzione all’integrale di una forma differenziale lungo una curva

Le considerazioni generali e i primi esempi svolti in questa lezione sono inglobati nella lezione di Lunedı 8ottobre.

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9 Lezione − Lunedı 8 ottobre 2012 10.30 - 12.30 (2 ore)

Introduzione alle forme differenziali

9.1 Primi esempi di integrali di 1-forme differenziali lungo una curva.

Soltanto alla fine di questa lezione daremo una definizione generale di 1-forma differenziale, nonche di in-tegrale di una 1-forma differenziale lungo una curva. Per ora cominciamo con qualche esempio e cerchiamodi sviluppare l’intuizione di cio che vogliamo costruire.

Definizione 9.1.1 Sia γ : [a,b]→R2 una curva parametrizzata di classe C1([a,b]), γ(t) = (x(t),y(t)) .

Definiamo il simbolo∫

γ

dx , che chiamiamo integrale di dx lungo γ, ponendo

∫γ

dx :=∫ b

ax′(t)dt

Analogamente definiamo l’integrale di dy lungo γ come∫γ

dy :=∫ b

ay′(t)dt

In tale contesto diciamo che i simboli dx e dy sono 1-forme differenziali

Vediamo subito un esempio e cerchiamo il significato di questi simboli.

Esempio 9.1.2 Sia γ : [0,π]→R2 definita da x(t) = cos t , y(t) = sin t . Si ha allora, grazie al teoremafondamentale del Calcolo: ∫

γ

dx :=∫

π

0x′(t)dt = x(π)− x(0) =−2

∫γ

dy :=∫

π

0y′(t)dt = y(π)− y(0) = 0

Dall’esempio si vede che, anche in generale, l’integrale di dx lungo γ e semplicemente lo spostamento dellavariabile x dal punto iniziale al punto finale della curva; un fatto analogo vale per l’integrale di dy.

Vediamo una situazione piu generale.

Definizione 9.1.3 Sia A un aperto di R2 e sia α : A→R una funzione continua. Per ogni curva γ : [a,b]→Adi classe C1([a,b]), γ(t) = (x(t),y(t)) , definiamo il simbolo∫

γ

α(x,y)dx :=∫ b

aα(x(t),y(t))x′(t)dt (66)

che chiamiamo integrale di α(x,y)dx lungo γ. In questo contesto si dice che l’espressione α(x,y)dx e una1-forma differenziale su A e la funzione α(x,y) si chiama coefficiente della forma differenziale.

Osserviamo che l’integrale a destra di (66) e definito nel senso di Cauchy, poiche la funzione integranda econtinua su [a,b]. Si ha quindi∫

γ

α(x,y)dx = limn→∞

n

∑j=1

α(x(ξ j),y(ξ j))x′(ξ j)(t j− t j−1)

dove, per ogni n ∈ N, (t1, ...tn) e una partizione di [a,b], per ogni j il punto ξ j appartiene all’intervallo[t j−1, t j] e la massima ampiezza degli intervalli della partizione n-esima tende a zero per n che tende ainfinito. Per ogni partizione e per ogni j poniamo ora x j = x(t j) e y j = y(t j) e osserviamo che, grazie alteorema del valor medio di Lagrange, possiamo scegliere ξ j in modo tale che x′(ξ j)(t j−t j−1) = x j−x j−1 .Abbiamo pertanto la formula ∫

γ

α(x,y)dx = limn→∞

n

∑j=1

α(γ(ξ j))(x j− x j−1)

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che da un significato all’integrale della forma α lungo la curva γ.

Osserviamo che se la funzione α dipende soltanto dalla variabile x, e poniamo che sia α(x,y) = f (x), allorapossiamo considerare una funzione primitiva F di f , ossia tale che F ′ = f , su [a,b] e, dalla definizione 9.1.3abbiamo che∫

γ

α(x,y)dx =∫ b

af (x(t))x′(t)dt =

∫ b

a[F x]′(t)dt = [F x](b)− [F x](a)) = F(x(b))−F(x(a))

e in particolare l’integrale lungo la curva γ della forma differenziale α(x,y)dx = f (x)dx dipende solamentedai punti estremi x(a) e x(b) della componente x(t) della curva. Se il coefficiente della forma differenzialedipende da entrambe le variabili, allora NON e detto che l’integrale lungo una curva dipenda soltanto daipunti estremi della curva, vediamo il seguente

Esercizio 9.1.4 Calcolare l’integrale della forma differenziale xydx lungo tre curve in R2 che hanno estreminei punti O = (0,0) e P = (1,1): una curva percorre il segmento di estremi O e P, e le altre due curve vannolungo i lati del quadrato. Si osservi che i tre integrali sono diversi l’uno dall’altro.

Possiamo definire anche l’integrale lungo una curva di una 1-forma del tipo β(x,y)dy e, in generale diamola seguente

Definizione 9.1.5 Sia A un aperto di R2 e siano α,β : A→R funzioni continue. Per ogni curva γ : [a,b]→Adi classe C1([a,b]), γ(t) = (x(t),y(t)) , definiamo il simbolo∫

γ

α(x,y)dx+β(x,y)dy :=∫ b

a

(α(x(t),y(t))x′(t)+β(x(t),y(t))y′(t)

)dt (67)

che chiamiamo integrale della 1-forma differenziale α(x,y)dx+β(x,y)dy lungo γ. L’espressione α(x,y)dx+β(x,y)dy e la generica 1-forma differenziale in due variabili.

Esempio 9.1.6 Si consideri la curva γ(t) = (Rcos t,Rsin t) , dove R > 0 e t ∈ [0,2π]. La curva percorre unacirconferenza di raggio R e centro l’origine. L’integrale lungo γ della forma differenziale xdx+ ydy e∫

γ

xdx+ ydy =∫ 2π

0

(Rcos t · (−Rsin t)+Rsin t · (Rcos t)

)dt = 0

L’integrale lungo γ della forma differenziale −ydx+ xdy e∫γ

−ydx+ xdy =∫ 2π

0

(−Rsin t · (−Rsin t)+Rcos t · (Rcos t)

)dt = 2πR2

9.2 Spazio duale, base duale, covettori e coordinate

Nella prossima sezione daremo una definizione generale di 1-forma differenziale ω su un aperto A di Rn,come funzione definita su A a valori nello spazio Rn, duale di Rn. Poiche gli elementi di Rn∗ si diconoanche covettori, allora una 1-forma differenziale si puo vedere anche come un campo di covettori. In questasezione ricordiamo alcuni fatti sullo spazio duale e sulla base duale e ne approfittiamo per stabilire le no-tazioni di cui ci serviremo.

Sia V uno spazio vettoriale su R di dimensione n. Denotiamo V ∗ lo spazio delle funzioni lineari f : V→R.Ricordiamo che V ∗ si chiama spazio duale di V e gli elementi di V ∗ si chiamano anche covettori di V . Sev ∈V e f ∈V ∗, per indicare il valore che la funzione f assume in corrispondenza all’argomento v, useremoanche il simbolo

〈 f , v〉V ∗,V := f (v) (68)

dove ometteremo l’indicazione degli spazi V ∗,V quando non ci saranno rischi di ambiguita. L’applicazione

( f ,v) 7→ 〈 f , v〉V ∗,V (69)

e una funzione bilineare, definita sul prodotto cartesiano V ∗×V , a valori reali, che si chiama dualita opairing di dualita.

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Ricordiamo che si chiama base dello spazio vettoriale V una n-upla ordinata di vettori w1, . . . ,wn che eun insieme linearmente indipendente e che genera V . In altre parole, se w1, . . . ,wn e una base di V , ognivettore v ∈V si puo scrivere, e in un unico modo, come combinazione lineare dei vettori di base:

v = v1w1 + · · ·+ vnwn

i numeri v1, . . .vn si dicono coordinate del vettore v rispetto alla base w1, . . . ,wn .Osserviamo che abbiamo indicato le coordinate vi con l’indice in alto. Questa convenzione si collocanell’ambito di una piu generale convenzione che vedremo piu avanti. Tale uso puo pero diventare scomodose si deve calcolare con potenze delle coordinate, poiche in tal caso si ha un affollamento di indici in alto.Potra quindi accadere che non saremo sempre consistenti in questo uso e talvolta scriveremo le coordinatecon l’indice in basso. Riteniamo comunque che non ci saranno difficolta di comprensione dovete a questofatto.Si vede immediatamente (il lettore lo faccia per esercizio) che la funzione hi : V→R che al generico vettorev ∈ V associa la sua i-esima coordinata vi, ossia la funzione definita da hi(v) := vi, e lineare e appartienequindi a V ∗. Si vede anche facilmente (la lettrice lo faccia per esercizio) che i vettori h1, . . . ,hn sono unabase di V ∗, la quale si chiama base duale di w1, . . . ,wn . In particolare ne segue che dimV ∗ = dimV .

Ogni covettore f ∈ V ∗ si puo scrivere in un unico modo come combinazione lineare dei vettori della baseduale

f = f1h1 + . . . fnhn

dove fi sono le coordinate del covettore f . Osserviamo che l’indice delle coordinate dei covettori e in basso.Vediamo ora un modo di esprimere le coordinate di un covettore f . Per ogni vettore v ∈V si ha

f (v) = f (∑i

hi(v)wi) = ∑i

f (wi)hi(v)

ossiaf = ∑

if (wi)hi

in altre parole le coordinate del covettore f rispetto alla base duale sono fi = f (wi). A questo puntoosserviamo consideriamo le funzioni ϕi : V ∗→R, definite da

ϕi( f ) = f (wi) ∀ f ∈V ∗

e osserviamo che ciascuna di esse e lineare ed e quindi un elemento dello spazio duale di V ∗, il quale spaziosi denota V ∗∗. La n-upla ϕ1, . . .ϕn e una base di V ∗∗.

E immediato che

hi(w j) = δij =

1 se i = j0 se i 6= j

Se V =Rn, la base duale della base standard e1, . . . ,en si denota e1, . . . ,en e si chiama base duale standard.Per ogni vettore x = (x1, . . .xn) ∈ Rn si ha

x =n

∑i=1

xiei =n

∑i=1

ei(x)ei =n

∑i=1

⟨ei , x

⟩ei

Per ogni covettore f = ( f1, . . . fn) ∈ Rn∗ si ha

f =n

∑i=1

fiei =n

∑i=1

f (ei)ei =n

∑i=1〈 f , ei〉ei

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9.3 1-forme differenziali come campi di covettori

Sia A un aperto in Rn.

Definizione 9.3.1 Si dice forma differenziale di grado 1 su A una funzione ω : A→(Rn)∗.

Le forme differenziali di grado 1 vengono chiamate da alcuni forme differenziali lineari.

Una 1-forma differenziale ω su A associa ad ogni x ∈ A un elemento ω(x) di (Rn)∗, ossia un covettore chesi puo scrivere come combinazione lineare dei vettori della base duale standard e1,e2, ...,en di (Rn)∗. Icoefficienti della combinazione lineare dipendono dal covettore ω(x), che dipende da x, e saranno indicaticon i simboli ωi(x). In conclusione si ha

ω(x) = ω1(x)e1 + ...+ωn(x)en (70)

dove le funzioni ωi : A→R per i = 1, ...,n si dicono coefficienti della forma differenziale ω. Una forma dif-ferenziale si dice essere di classe Ck su A, dove k = 0,1,2, ..., se i suoi coefficienti sono funzioni di classeCk su A.

Utilizzando la notazione introdotta nella (68), per ogni u = (u1, ...,un) ∈ Rn abbiamo

〈ω(x),u〉= 〈ω1(x)e1 + ...+ωn(x)en,u〉= ω1(x)〈e1,u〉+ ...+ωn(x)〈en,u〉= ω1(x)u1 + ...+ωn(x)un (71)

Osserviamo che per ogni i = 1, ...,n la funzione θi : A→(Rn)∗ , che ad ogni x ∈ A associa costantemente ilcovettore ei e una forma differenziale di grado 1 su A. Per ogni vettore u ∈V si ha⟨

θi(x) , u

⟩=⟨ei , u

⟩Conviene ora dare una struttura di spazio vettoriale alle 1-forme differenziali e definire il prodotto di unafunzione per una 1-forma.

Definizione 9.3.2 Se α,β sono forme differenziali di grado uno su A e g : A→R e una funzione, alloradefiniamo le forme α+β e gα su A come segue:

(α+β)(x) := α(x)+β(x) ; (gα)(x) := g(x)α(x)

Possiamo allora scrivere la (71) come

〈ω(x) , u〉= ω1(x)⟨θ

1(x) , u⟩+ ...+ωn(x)〈θn(x) , u〉 ∀x ∈ A∀u ∈ Rn (72)

e quindi abbiamoω(x) = ω1(x)θ1(x)+ ...+ωn(x)θn(x) ∀x ∈ A (73)

da cui, grazie alla definizione 9.3.2, si ottiene

ω = ω1θ1 + ...+ωnθ

n (74)

Osservazione 9.3.3 Osserviamo che il differenziale d f di una funzione differenziabile f : A→R e unaforma differenziale di grado uno su A. Precisamente:

〈d f (x),u〉 =∂ f∂x1

(x)u1 + ...+∂ f∂xn

(x)un =∂ f∂x1

(x)θ1(u)+ ...+∂ f∂xn

(x)θn(u) (75)

ossia

d f =∂ f∂x1

θ1 + ...+

∂ f∂xn

θn (76)

Osserviamo anche che per le funzioni ηi : A→R, definite da ηi(x) = xi ∀x ∈ A, che sono ovviamentedifferenziabili in A, si ha dηi = θi e quindi possiamo riscrivere la (76)anche come segue

d f =∂ f∂x1

dη1 + ...+

∂ f∂xn

dηn (77)

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Infine, con un abuso di linguaggio peraltro usuale, denoteremo con dxi il differenziale dηi, e scriveremo

d f =∂ f∂x1

dx1 + ...+∂ f∂xn

dxn (78)

che e la notazione piu usuale per il differenziale. Con le stesse notazioni una generica forma differenzialesi scrive

ω = ω1dx1 + ...+ωndxn

Esempio 9.3.4 Consideriamo l’aperto A = R2 e la funzione f : A→R definita da f (x) = x21 +x1x2 per ogni

x = (x1,x2) ∈ R2 . Il differenziale d f (x) di f nel punto x = (2,3) e la funzione lineare L : R2→R tale che

L(u) =∂ f∂x1

(x)u1 +∂ f∂x2

(x)u2 = 7u1 +2u2 ∀u = (u1,u2) ∈ R2

La funzione L e un elemento di (Rn)∗, ossia e un covettore e si ha d f (2,3) = L = 7e1 + 2e2. Il gradientedella funzione f nel punto x e invece il vettore ∇ f (x) = 7e1 +2e2 .Il differenziale di f e la seguente forma differenziale su R2 :

d f (x) =∂ f∂x1

(x)e1 +∂ f∂x2

(x)e2 = (2x1 + x2)dx1 + x1dx2

mentre il gradiente di f e il campo di vettori

∇ f (x) =∂ f∂x1

(x)e1 +∂ f∂x2

(x)e2 = (2x1 + x2)e1 + x1e2

Esempio 9.3.5 In R2 si usa spesso denotare le coordinate con le lettere x,y. In tal caso il differenziale diuna funzione f (x,y) si scrive

d f (x,y) =∂ f∂x

(x,y)dx+∂ f∂y

(x,y)dy

e una 1-forma differenziale generica su A⊂ R2 si scrive ad esempio

ω(x,y) = α(x,y)dx+β(x,y)dy

dove α,β sono funzioni definite su A a valori reali.

In questo modo abbiamo ritrovato come casi speciali le 1-forme considerate nella prima sezione di questalezione, ad esempio nella definizione 9.1.5

Ecco infine la definizione di integrale di una 1-forma differenziale lungo una curva.

Definizione 9.3.6 Sia A un aperto in Rn, sia ω una 1-forma differenziale continua su A e sia γ : [a,b]→Auna curva di classe C1. Si chiama integrale della forma differenziale ω lungo la curva γ, e si denota∫

γ

ω

il numero ∫ b

a

⟨ω[γ(t)] ,

dt(t)⟩

dt (79)

dove 〈· , ·〉, con la notazione introdotta nella (68), indica il valore che il covettore ω[γ(t)] (che e una funzionelineare definita su Rn) associa al vettore dγ

dt (t).

Osserviamo che le ipotesi di regolarita della curva γ e della forma ω, necessarie per dare la definizioneprecedente, possono essere ridotte, cio che conta e che sia definito l’integrale che si trova in (79). Adesempio, una condizione sufficiente largamente usata e che la curva sia continua e di classe C1 a tratti ebasta in effetti molto meno.

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10 Lezione − Lunedı 15 ottobre 2012 10.30 - 12.30 (2 ore)

Prima prova intermedia

prova n.1 15 ottobre 2012

1.Calcolare l’integrale

∫H

ydxdy , dove H =(x,y) ∈ R2

∣∣ 0≤ y ; y≤√

2x ; 2x− y−2≤ 0

[R. 43 ]

2.Calcolare l’integrale

∫C(y+ e−x)dxdydz ,

dove C =(x,y,z) ∈ R3

∣∣ y2 +(z−1)2 ≤ 1 ; z≤ 1 ; −2≤ x≤ 0

[R. π

2 (e2−1)]

3.Calcolare il baricentro dell’insieme D = E \F dove

E =(x,y) ∈ R2 ∣∣ |x| ≤ 1 ; |y| ≤ 1

, F =

(x,y) ∈ R2 ∣∣ 0≤ x≤ 1 ; 0≤ y≤ 1

Opzionale: scrivere e risolvere un analogo problema in dimensione 3, dove l’insieme D e la differenza traun cubo di lato 2 e un cubo di lato 1.

[R.(− 16 ,−

16 ) , (− 1

14 ,−114 ,−

114 )]

4.Calcolare l’integrale ∫

R2e−9x2−12xy−5y2

dxdy

[R. π

3 ]

5.Calcolare l’integrale ∫

Axydxdy

dove A =(x,y) ∈ R2

∣∣ x2 + y2 ≤ 1 ; x− y≥ 0 ;√

3x+3y≤ 0

[R.−132 ]

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11 Lezione − Venerdı 19 ottobre 2012 8.30 - 10.30 (2 ore)

Isomorfismi tra V e V ∗. Fibrato tangente. Derivata di una funzione composta.

11.1 Isomorfismo tra uno spazio vettoriale V e il suo spazio duale V ∗.

Sia V uno spazio vettoriale su R di dimensione n. Lo spazio duale V ∗ ha la stessa dimensione di V , quindici sono infiniti isomorfismi tra V e V ∗. Per determinarne uno si possono seguire diversi modi. Un modo e:scegliere una base di V . Infatti, se si sceglie una base (v1, . . .vn) di V , viene individuata la corrispondentebase duale (h1, . . .hn) di V ∗, ed e anche individuata una applicazione lineare ϕ : V→V ∗ tale che

ϕ(v1) = h1, ϕ(v2) = h2, . . . ϕ(vn) = hn,

L’immagine di ϕ e evidentemente tutto V ∗ e quindi ϕ e un isomorfismo. Osserviamo che se u = ∑i uivi ,allora ϕ(u) = ∑i uihi .

Esempio 11.1.1 Sia V = R2. Consideriamo la base standard (e1,e2) in V e la base duale (e1,e2) in V ∗.L’applicazione lineare ϕ : R2→(R2)∗ che manda ei in ei per i = 1,2 e un isomorfismo. La matrice di taleapplicazione rispetto alle basi standard e la matrice identita.

Un altro modo per determinare un isomorfismo tra uno spazio V e il suo duale V ∗, passa attraverso la sceltadi un prodotto scalare g su V . Precisamente, se g e un prodotto scalare su V come definito nella 3.3.5, alloraper ogni v ∈V si definisce una applicazione ϕg(v) ∈V ∗ ponendo

〈ϕg(v) , w〉= g(v,w) ∀v,w ∈V

Si vede subito che l’applicazione ϕg : v 7→ ϕg(v) e un omomorfismo da V a V ∗. Si vede inoltre facilmenteche ϕg e iniettivo, ossia kerϕg = 0. Infatti, se ϕg(v) = 0 si ha anche g(v,w) = 〈ϕg(v) , w〉 = 0 per ogniw ∈ V e quindi, in particolare g(v,v) = 0. Da questo segue poi v = 0, poiche il prodotto scalare e definitopositivo. Dal momento che i due spazi V e V ∗ hanno la stessa dimensione, dall’iniettivita segue infine cheϕg e un isomorfismo lineare.

Nel caso in cui V = Rn e g e il prodotto scalare standard, allora per ogni x ∈ Rn si ha

〈ϕ(x) , y〉= g(x,y) =n

∑i=1

xiyi ∀y ∈ Rn

e in particolare da questo segue ϕ(ek) = ek.

Esercizio 11.1.2 Nello spazio V = R2 consideriamo il prodotto scalare

g(x,y) = x1y1 +12(x1y2 + x2y1)+ x2y2 =

2

∑i=1

gi jxix j

dove x = (x1,x2), y = (y1,y2), g11 = 1, g22 = 1, g12 = g21 =12 . Il prodotto scalare g si puo anche scrivere

in forma matriciale come segue:

g(x,y) = xT ·G · y = (x1,x2)

1 12

12 1

y1

y2

e la matrice simmetrica G = gi j si dice matrice associata al prodotto scalare G rispetto alla base stan-dard.Si mostri che la matrice che rappresenta l’isomorfismo ϕg : V→V ∗ e G. Si generalizzi il risultato all’iso-morfismo determinato da un prodotto scalare g qualsiasi su uno spazio V di dimensione n.

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11.2 Spazio tangente, spazio cotangente; fibrato tangente, fibrato cotangente.

In questa sezione ricordiamo alcuni concetti e introduciamo alcune notazioni che ci saranno utili in seguito.

Ricordiamo [G.Greco - Analisi II] che se E e un sottoinsieme di Rn, per ogni x ∈ E si definiscono i vettoritangenti a E in x. L’insieme dei vettori tangenti a E in x e un cono, si chiama cono tangente a E in x e sidenota TanxE. Se M e una sottovarieta k-dimensionale di Rn allora TanxM e un sottospazio vettoriale di Rn,di dimensione k, che si chiama spazio tangente di M in x. Lo spazio duale

(TanxM

)∗ di TanxM si chiamaanche spazio cotangente di M in x.

Osserviamo che se A e un aperto in Rn allora A e una sottovarieta n-dimensionale e in ogni punto x ∈ A lospazio tangente TanxA e isomorfo a Rn.

Definizione 11.2.1 Sia M una sottovarieta k-dimensionale di Rn. Si dice fibrato tangente di M l’insieme

T M =(x,v)

∣∣ x ∈M , v ∈ TanxM

(80)

Si dice fibrato cotangente di M l’insieme

T ∗M =(x,ξ)

∣∣ x ∈M , ξ ∈ (TanxM)∗

(81)

Osserviamo che se M = A e un aperto in Rn, allora TA = A×Rn e T ∗A = A× (Rn)∗ .

Definizione 11.2.2 Sia M una sottovarieta k-dimensionale di Rn e sia E ⊂M. Si dice fibrato tangente di Msu E l’insieme

TEM =(x,v)

∣∣ x ∈ E , v ∈ TanxM

(82)

Osserviamo che se M = A e un aperto in Rn ed E ⊂ A, allora TEA = A×Rn . In particolare, se x ∈ A siha TxA = x×Rn . Le coppie (x,v) ∈ TxA si possono pensare come vettori applicati nel punto x. Il primoelemento della coppia indica il punto di applicazione e il secondo elemento e il vettore tangente.

Abbiamo finora chiamato campo di vettori su un aperto A una funzione F : A→Rn, d’ora in poi potremopensare piu precisamente un campo di vettori come una funzione

h : A→ A×Rn , h : x 7→ (x,F(x)) (83)

anche se spesso, per brevita, continueremo a considerare F come un campo di vettori.In modo analogo, potremo pensare una 1-forma differenziale su A piu precisamente come un campo divettori cotangenti (o covettori)

ω : A→ A× (Rn)∗ , ω : x 7→ (x,ω(x)) (84)

11.3 Differenziale di una funzione composta. Il differenziale come applicazione fra spazi tangenti.

Abbiamo gia ricordato nella sezione 6.3 la nozione di differenziale di una applicazione differenziabile daRk a Rn e le relative notazioni. Ricorderemo qui la formula per la derivata e il differenziale di una funzionecomposta, aggiungendo qualche integrazione e diverse ripetizioni dei concetti in varie situazioni, sperandoche cio sia utile per il lettore.

Sia (a,b) un intervallo aperto in R e sia data una funzione f : (a,b)→R. Se f e derivabile in un punto

x0 ∈ (a,b) allora indichiamo con f ′(x0) := limh→0

f (x0 +h)− f (x0)

h∈ R la derivata di f in x0.

La funzione f e derivabile in x0 se e soltanto se e differenziabile in x0. Il differenziale di f nel punto x0e la funzione lineare L : R→R definita da L : t 7→ f ′(x0)t; tale funzione lineare si denota d f (x0) o anched f(x0), pertanto si scrive d f(x0) : t 7→ f ′(x0)t oppure anche d f(x0)(t) = f ′(x0)t Del tutto analogo e il caso diuna funzione γ : (a,b)→Rn: se γ e derivabile in un punto x0 ∈ (a,b) allora indichiamo con γ′(x0) ∈ Rn laderivata di γ in x0. La funzione γ e derivabile in x0 se e soltanto se e differenziabile in x0 e il differenziale di

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γ nel punto x0 e la funzione lineare L : R→Rn definita da L : t 7→ γ′(x0)t . Tale funzione lineare si denotadγ(x0) o anche dγ(x0), pertanto si ha dγ(x0) : t 7→ γ′(x0)t ossia dγ(x0)(t) = γ′(x0)t

Sia ora A un aperto in Rn e denotiamo y = (y1, . . . yn) i punti di Rn. Sia data una funzione g : A→R. Se

g e differenziabile in un punto y0 ∈ A allora esistono le derivate parziali di g in y0, che denotiamo∂g∂yi

(y0),

oppure anche Dig(y0). Se indichiamo con dg(y0) il differenziale di g in y0 abbiamo

dg(y0) : u 7−→ ∂g∂y1

(y0)u1 + · · ·+ ∂g∂yn

(y0)un ∀u ∈ Rn

che scriviamo anche

d f(x0)(t) =n

∑i=1

∂g∂yi

(y0)ui

oppure anche ⟨d f(x0) , u

⟩=

n

∑i=1

∂g∂yi

(y0)ui

Siano infine f : (a,b)→R e g : R→R due funzioni tali che: f e derivabile nel punto x0 e g e derivabilenel punto y0 := f (x0). Consideriamo la funzione composta (g f ) : (a,b)→R. E noto dal corso di AnalisiMatematica 1 che la derivata in x0 di (g f ) e

(g f )′(x0) = g′(y0) f ′(x0)

cosa che equivale a dire che il differenziale della funzione composta e la composizione dei differenziali

d(g f )(x0) = dg(y0) d f(x0)

In modo analogo a quanto appena visto consideriamo due funzioni γ : (a,b)→Rn e g : Rn→R tali che: γ

e derivabile nel punto x0 e g e differenziabile nel punto y0 := f (t0). Consideriamo la funzione composta(g γ) : (a,b)→R. E noto dal corso di Analisi Matematica 2 che la derivata di tale funzione composta in t0e

(g γ)′(x0) =n

∑i=1

∂g∂yi

(y0)γ′i(x0) =

⟨dg(y0) , γ

′(x0)⟩

(85)

cosa equivalente a dire che il differenziale della funzione composta d(g γ)(t0) : R→R e la composizionedei differenziali

d(g γ)(x0) = dg(y0) dγ(x0)

Utilizzando i concetti e le notazioni introdotte nella sezione precedente, possiamo pensare che il differen-ziale dγ(x0) sia definito sullo spazio tangente Tx0(a,b), a valori nello spazio tangente Ty0Rn. Inoltre possi-amo pensare che il differenziale dg(y0) sia definito sullo spazio tangente Ty0Rn e prenda i valori nello spaziotangente Tz0R, dove z0 := g(y0). Tutto questo si puo sintetizzare nello schema seguente

Tx0(a,b)dγ(x0)−−→ Ty0Rn

dg(y0)−−→ Tz0R

12 Lezione − Lunedı 22 ottobre 2012 8.30 - 10.30 (2 ore)

Esercizi e anticipazioni

Il materiale svolto in classe in questa lezione e stato suddiviso nel presente Diario tra la lezione del 19ottobre e la lezione del 24 ottobre

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13 Lezione −Mercoledı 24 ottobre 2012 8.30 - 10.30 (2 ore)

Recupero della lezione del 18 ottobre - Esempi di integrazione di 1-forme differenziali. Lavoro di

un sistema termodinamico che compie una trasformazione. Lavoro di un campo di vettori lungo una

curva parametrizzata. Teorema fondamentale del Calcolo per le 1-forme differenziali. Primitive di

una 1-forma

13.1 Esempi di integrali di una 1-forma lungo una curva

Esempio 13.1.1 (esempi di dipendenza dal percorso) Consideriamo la 1-forma ω = xydx definita su R2 e cal-coliamone l’integrale lungo tre diverse curve che vanno dal punto O = (0,0) al punto P = (1,1). Otterremotre risultati diversi.

Cominciamo con la curva γ : [0,1]→R2 definita da γ(t) = (x(t),y(t)) = (t, t). Abbiamo allora∫γ

ω =∫ 1

0

⟨x(t)y(t)dx , γ

′(t)⟩

dt =∫ 1

0x(t)y(t)x′(t)dt =

∫ 1

0t2dt =

13

Prendiamo ora la curva σ : [0,2]→R2, con σ(t) = (x(t),y(t)), definita dax(t) = ty(t) = 0 se t ∈ [0,1] ;

x(t) = 1y(t) = t−1 se t ∈ [1,2]

La curva σ e di classe C1 a tratti e percorre i due lati in basso e a destra del quadrato [0,1]× [0,1]. Su diessa definiamo l’integrale di ω come somma degli integrali su ciascun tratto dove e di classe C1. Abbiamoquindi ∫

σ

ω =∫ 1

0x(t)y(t)x′(t)dt +

∫ 2

1x(t)y(t)x′(t)dt = 0

Consideriamo infine la curva ϕ : [0,2]→R2, con ϕ(t) = (x(t),y(t)), definita dax(t) = 0y(t) = t se t ∈ [0,1] ;

x(t) = t−1y(t) = 1 se t ∈ [1,2]

La curva ϕ e di classe C1 a tratti e percorre gli altri due lati del quadrato detto sopra. L’integrale di ω su ϕ e∫ϕ

ω =∫ 1

0x(t)y(t)x′(t)dt +

∫ 2

1x(t)y(t)x′(t)dt = 0+

∫ 2

11 · (t−1) ·1dt =

12

Esempio 13.1.2 (esempio di indipendenza dal percorso) Calcolare l’integrale della 1-forma xdx+ ydy+ zdzlungo diverse curve che vanno dal punto O = (0,0,0) al punto P = (1,1,1) in R3 (ad esempio: il segmentoOP, diversi percorsi che seguono gli spigoli del cubo unitario) e verificare che il risultato e sempre lo stesso.

Esercizio 13.1.3 (indipendenza dalla parametrizzazione) Sia γ : [a,b]→Rn una curva di classe C1 e sia ω una1-forma continua su Rn. Sia poi α : [c,d]→ [a,b] un diffeomorfismo (ossia un omeomorfismo di classe C1

con inverso di classe C1). Si mostri che ∫γ

ω =∫

γαω (86)

13.2 Altri esempi di integrali di 1-forme differenziali

Esempio 13.2.1 Si calcoli l’integrale della forma differenziale

ω(x,y) = xydx+(y2 +1)dy

lungo la curva γ(t) = (t2, t), t ∈ [0,1].

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Al solito, conviene chiamare x(t) := t2 e y(t) = t le componenti della curva γ , inoltre denoteremo ex,ey i vettori della base standard in R2. Pertanto si puo scrivere

γ′(t) =

(x′(t),y′(t)

)= (2t,1) = 2tex +1 · ey

Per la formula (79) che definisce l’integrale di una 1-forma lungo una curva, si ha∫γ

ω =∫ 1

0

⟨ω[γ(t)] ,

dt

⟩dt =

=∫ 1

0

⟨x(t)y(t)dx+(y2(t)+1)dy , 2tex +1 · ey

⟩dt =

=∫[0,1]

[x(t)y(t) ·2t +(y2 +1) ·1]dt =∫ 1

0[t2 · t ·2t +(t2 +1)]dt

=∫ 1

0[2t4 + t2 +1]dt =

25+

13+1 =

2615

Scriviamo ora di nuovo lo stesso calcolo col formalismo abbreviato, che spesso e piu conveniente:∫γ

ω =∫ 1

0x(t)y(t)dx+(y2(t)+1)dy =

∫ 1

0[x(t)y(t)x′(t)+(y2(t)+1)y′(t)]dt =

=∫ 1

0[t2 · t ·2tdt +(t2 +1) ·1]dt =

2615

Esempio 13.2.2 Calcoliamo infine l’integrale della forma

µ(x,y) =−y

x2 + y2 dx+x

x2 + y2 dy (87)

lungo la curva γ(t) = (cos t,sin t), t ∈ [0,2π] (una circonferenza centrata nell’origine, percorsa in sensoantiorario). Si ha∫

γ

µ =∫ 2π

0

[−sin t

cos2 t + sin2(t)(−sin t)+

cos tcos2(t)+ sin2(t)

cos t]

dt = 2π

Esercizio 13.2.3 Calcolare l’integrale della 1-forma differenziale −ydx+xdy in R3 lungo l’elica cilindricadell’esercizio 7.1.8.

13.3 Esempio: lavoro compiuto da un sistema termodinamico lungo una trasformazione

In questa sezione consideriamo un esempio che trae origine dalla fisica, anche se presenteremo soprattuttol’aspetto matematico. Precisamente, consideriamo un sistema termodinamico i cui stati sono individuati daivalori di tre grandezze fisiche: il volume V , la pressione p, la temperatura assoluta T e supponiamo che inogni stato del sistema le tre grandezze sopra indicate siano collegate dalla relazione

pV = cT (88)

dove c > 0 e una costante al cui valore non siamo qui interessati (rimandiamo pero le lettrici interessateai trattati di termodinamica o a Google). La relazione (88) e verificata con buona approssimazione in certisistemi costituiti da un gas a pressione non elevata e temperatura non troppo bassa, e viene chiamata legge, oequazione dei gas perfetti. L’insieme degli stati del nostro sistema termodinamico si descrive formalmentecome

M = (V, p,T ) ∈ R3 ∣∣V > 0, p > 0,T > 0, pV − cT = 0

e si vede immediatamente, grazie al teorema delle funzioni implicite, che M e una sottovarieta 2-dimensionaledi R3 contenuta nell’aperto E = (R+)3. Infatti, posto g(V,p,T)= pV-cT, la funzione g e di classe C∞(E) e siha

∂g∂V

= p ,∂g∂p

=V ,∂g∂T

= c

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In particolare, la varieta M si puo vedere come grafico di una funzione rispetto a ciascuna coppia delle

variabili V, p,T e noi la vedremo nel seguito come grafico della funzione T = h(V, p) :=pVc

definita sul

piano V p, o meglio sull’aperto A = (V, p)∣∣V > 0 , p > 0 , detto piano di Clapeyron). In questo modo c’e

una corrispondenza biunivoca tra la varieta M degli stati e il piano di Clapeyron A e possiamo identificarelo spazio degli stati con l’aperto A. Per visualizzare M puo essere utile vederla come unione delle curveT = costante. Osserviamo che l’insieme degli stati a temperatura costante To si puo vedere in due modi:i) nell’aperto E, come intersezione del piano T = To con la varieta M degli stati;ii) nel piano di Clapeyron A come linea di livello della funzione h; tale linea di livello e la proiezione dellacurva di cui al punto precedente ed e un ramo di iperbole equilatera.

Si dice processo termodinamico, o trasformazione termodinamica, una curva σ : [a,b]→M. Denoteremocon la lettera t il parametro in [a,b], pensando al tempo, ma un processo termodinamico non e necessari-amente parametrizzato dal tempo. Della curva σ e sufficiente conoscere la proiezione γ(t) = (V (t), p(t))sul piano coordinato V p, poiche la terza componente si ottiene come T (t) = 1

cV (t)p(t).

E importante saper calcolare il lavoro compiuto dal sistema termodinamico lungo un processo. Per farquesto, pensiamo a come si ottiene una piccola variazione del volume, quando si passa dal valore V :=V (t),corrispondente al parametro t, al valore V +∆V := V (t +∆t). Si dovrebbe vedere che ∆V e approssima-tivamente dato da ε ·m(Σt) , dove m(Σt) e l’area della superficie esterna Σt del sistema e ε e la distanza,lungo la direzione normale, di cui ciascun punto della superficie Σt si sposta passando al corrispondentepunto della superficie Σ(t+∆t) . Osserviamo inoltre che in ogni punto della superficie Σt agisce la pressionep(t)ν, di modulo p(t) (uguale in tutti i punti), dove ν (che dipende dal punto) e il vettore normale unitarioa Σt , diretto verso l’esterno. Anche se occorrerebbe scrivere le cose in modo piu preciso, a questo puntosi dovrebbe comprendere che il lavoro ∆L compiuto dal sistema passando dallo stato (V (t), p(t),T (t)) allostato (V (t +∆t), p(t +∆t),T (t +∆t)) e approssimativamente∫

Σt

p(t)ν · ενdΣ = p(t)∫

Σt

εdΣ = p(t)∆V

Pertanto ha senso dire che il lavoro L compiuto lungo il processo e dato dall’integrale della 1-forma pdVlungo la curva γ , ossia:

L =∫

γ

pdV =∫ b

ap(t)V ′t)dt

Come esempio calcoleremo ora il lavoro compiuto dal sistema lungo una trasformazione isoterma, ossiauna trasformazione che si svolge a temperatura costante To, che sara in generale del tipo γ : [t1, t2]→A,γ(t) = (V (t), p(t)), dove p(t)V (t) = cTo. Poniamo inoltre V1 :=V (t1), V2 :=V (t2), p1 := p(t1), p2 := p(t2).Possiamo trovare diverse parametrizzazioni di una trasformazione isoterma. Noi ora considereremo leparametrizzazioni che si ottengono prendendo come parametro una delle variabili V, p.

Prendiamo come parametro la variabile V ∈ [V1,V2]. Per ogni valore di V la pressione p(V ) e data dalla

formulacTo

V. La curva che parametrizza la trasformazione isoterma e allora γ(V ) = (V,

cTo

V)) e il lavoro

compiuto nella trasformazione e ∫γ

pdV =∫ V2

V1

cTo

V·1dV = cTo ln

(V2

V1

)Prendendo invece come parametro la variabile p, abbiamo la curva γ(p) = ( cTo

V , p) definita per p ∈ [p1, p2]e il lavoro e ∫

γ

pdV =∫ p2

p1

p(−cTo

V 2

)d p =−cTo ln

(p2

p1

)= cTo ln

(p1

p2

)I due risultati coincidono, in quanto

p1

p2=

V2

V1, per l’equazione di stato dei gas perfetti (88).

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13.4 Lavoro di un campo di vettori lungo una curva

Diamo ora la definizione di lavoro di un campo di vettori F lungo una curva, che il lettore probabilmentegia ha incontrato nello studio della Fisica in dimensione 3.

Sia g un prodotto scalare fissato su Rn. Ad ogni campo di vettori F : A→Rn, definito su un aperto A in Rn

possiamo associare una 1-forma differenziale ωF definita da⟨ω

F(x) , v⟩= g(F(x),v) ∀x ∈ A ,v ∈ Rn

In altri termini, per ogni x ∈ A, il covettore ω(x) e l’elemento di (Rn)∗ che corrisponde al vettore F(x)attraverso l’isomorfismo determinato da g, introdotto nella sezione 11.1. Nel caso in cui il prodotto scalareg e il prodotto scalare standard, allora si ha⟨

ωF(x) , v

⟩=

n

∑i=1

Fi(x)vi ∀x ∈ A ,v ∈ Rn

ossia ω(x) =n

∑i=1

Fi(x)dxi.

Definizione 13.4.1 Sia A un aperto in Rn, sia F : A→Rn un campo di vettori continuo su A e sia γ :[a,b]→A una curva di classe C1 a tratti. Sia dato un prodotto scalare g in Rn. Si chiama lavoro del campoF lungo la curva γ, rispetto al prodotto scalare fissato g, il numero∫

γ

ωF

Se g uguale e il prodotto scalare standard, il lavoro del campo F lungo γ e

L =∫

γ

n

∑i=1

ωidxi =∫ b

a

n

∑i=1

Fi(γ(t))γ′i(t)dt (89)

Osservazione 13.4.2 Osserviamo che il campo di vettori

F(x,y) =−y

x2 + y2 ex +x

x2 + y2 ey (90)

a cui e associata la forma differenziale (87), a meno di una costante moltiplicativa che dipende dalle unitadi misura, e il campo magnetico che si manifesta nel piano xy, se lungo l’asse z scorre una corrente elettricadi intensita costante nel tempo, diretta verso la direzione positiva dell’asse z stesso (legge di Ampere).

13.5 Teorema fondamentale del Calcolo per le funzioni in Rn. Primitive di una 1-forma.

Ricordiamo che una curva γ : [a,b]→ Rn si dice chiusa se γ(a) = γ(b).

Teorema 13.5.1 Teorema fondamentale del Calcolo per le funzioni in Rn Sia A un aperto in Rn, siaf : A→R una funzione di classe C1(A) e siano p,q ∈ A. Allora vale il seguente enunciato:

Per ogni curva γ : [a,b]→A di classe C1 a tratti, tale che γ(a) = p e γ(b) = q , si ha∫γ

d f = f (q)− f (p)(91)

In particolare, per ogni curva γ chiusa, ossia tale che γ(a) = γ(b) si ha∫

γ

d f = 0. Dimostrazione. Sup-

poniamo per cominciare che la curva γ sia di classe C1. Per la formula (85) di derivazione di una funzionecomposta si ha

( f γ)′(t) =⟨d f (γ(t)) , γ

′(t)⟩

Pertanto, usando nell’ultimo passaggio il Teorema fondamentale del Calcolo per le funzioni da R in R, siottiene ∫

γ

d f =∫ b

a

⟨d f (γ(t)) , γ

′(t)⟩

dt =∫ b

a( f γ)′(t)dt = ( f γ)(b)− ( f γ)(a) = f (q)− f (p)

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come si voleva. Se la curva γ, anziche di classe C1, e di classe C1 a tratti, si applica ad ogni tratto il risultatoappena trovato e si sommano i risultati parziali: immediatamente segue la tesi.

In analogia con il caso delle funzioni reali di variabile reale, si introduce la seguente nozione di primitiva diuna 1-forma.

Definizione 13.5.2 Sia ω una 1-forma differenziale su un aperto A in Rn. Si dice che una funzionedifferenziabile f : A→R e una primitiva di ω in A, se vale

ω(x) = d f (x) ∀x ∈ A

Si dice poi che la forma ω ha localmente una primitiva su A, se per ogni punto x ∈ A esiste un aperto U taleche x ∈U ⊂ A ed esiste una primitiva di ω su U .

Una forma differenziale puo avere primitiva oppure no. Ad esempio la forma ω = xydx dell’esempio 13.1.1non ha una primitiva. Infatti, se avesse una primitiva, grazie al Teorema 13.5.1 dovrebbe avere lo stessointegrale nullo lungo tutte le curve con gli stessi estremi. Ma abbiamo visto nell’esempio 13.1.1 che cosınon e. Vedremo piu avanti che questa forma non ha neppure una primitiva localmente.Anche la forma differenziale µ introdotta in (87), che e definita sull’aperto A = R2 \ 0, non ha unaprimitiva su A. Infatti, se avesse una primitiva, grazie al Teorema 13.5.1 dovrebbe avere integrale nullolungo qualsiasi curva chiusa a valori in A. Ma nell’esempio 13.2.2 abbiamo visto una curva chiusa, chepercorre una circonferenza intorno all’origine, lungo la quale la forma ha integrale non nullo. La forma µha comunque una primitiva localmente su A come vedremo piu avanti.E invece immediato vedere che la forma α = xdx+ ydy+ zdz , considerata nell’esempio 13.1.2 ha unaprimitiva su R2: ad esempio la funzione f (x,y,z) = 1

2 (x2+y2+ z2) verifica α = d f . Anche tutte le funzioni

del tipo f + costante sono primitive di α su R2 e sono in effetti tutte le primitive, come vediamo subito quisotto.

Proposizione 13.5.3 Se A e un aperto connesso in Rn, ω e una 1-forma continua su A e f , g sono primitivedi ω su A, allora la funzione h = f −g e costante.

La proposizione appena enunciata e ben nota in R, dove gli insiemi connessi sono gli intervalli e la di-mostrazione si puo ottenere ad esempio utilizzando il Teorema del valor medio di Lagrange (non serveneppure che ω sia continua). Per la dimostrazione in dimensione n > 1 occorre il seguente risultato.

Proposizione 13.5.4 Sia A un aperto connesso in Rn, allora A e connesso per archi, ossia, comunque presip,q ∈ A esiste una curva continua γ : [a,b]→A tale che γ(a) = p e γ(b) = q . Inoltre la curva γ si puoprendere affine (e quindi di classe C1) a tratti, ossia esiste una partizione x0 = a < x1 < ... < xn = b del-l’intervallo [a,b] tale che la restrizione di γ a ciascuno degli intervalli [x j−1,x j] sia un polinomio di primogrado.

Non dimostriamo la proposizione 13.5.4 e rimandiamo il lettore interessato ai manuali introduttivi di topolo-gia generale, ad esempio ‘Lezioni di topologia generale’ di V.Checcucci, A.Tognoli, E.Vesentini. Di-mostrazione della proposizione 13.5.3. Consideriamo la funzione h = f − g. Dall’ipotesi si ha che h edi classe C1(A) e dh = 0 su A. Mostriamo che h e costante: fissiamo un punto p ∈ A; poiche A e connes-so, dalla proposizione 13.5.4 abbiamo che per ogni altro punto x ∈ A esiste una curva γ : [a,b]→A di classeC1 a tratti, tale che γ(a) = p e γ(b) = x ; dal Teorema fondamentale visto sopra abbiamo quindi che

h(x)−h(p) =∫

γ

dh = 0

e dunque h(x) = h(p) =: c per ogni x ∈ A. In altri termini, le funzioni f e g differiscono per una costante c,ossia f (x) = g(x)− c per ogni x ∈ A.

Osserviamo che se d f = 0 su un aperto non necessariamente connesso, allora la funzione f e costante suciascuna componente connessa di A. Quindi due primitive della stessa 1-forma su un aperto A, in ciascunacomponente connessa di A differiscono per una costante.

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14 Lezione − Venerdı 26 ottobre 2012 8.30 - 10.30 (2 ore)

Una 1-forma differenziale ha primitiva in un aperto A, se e solo se l’integrale della forma lungo

qualsiasi curva chiusa in A e uguale a zero. Forme esatte e forme chiuse. Esatta ⇒ chiusa.

Chiusa ⇒ esatta negli aperti stellati e negli aperti semplicemente connessi. Campi conservativi.

14.1 Se l’integrale di una 1-forma differenziale lungo qualsiasi curva dipende soltanto dagli estre-mi della curva, allora la forma ha una primitiva.

Osservazione 14.1.1 Osserviamo che per una 1-forma differenziale ω su un aperto A di Rn i due enunciatiseguenti sono equivalenti

Comunque prese due curve γ : [a,b]→A e σ : [c,d]→A , di classe C1 a tratti,con gli stessi estremi, ossia tali che γ(a) = σ(c) e γ(b) = σ(d) , si ha∫

γ

ω =∫

σ

ω

(92)

Per ogni curva γ : [a,b]→A di classe C1 a tratti, tale che γ(a) = γ(b) ,

si ha∫

γ

ω = 0 (93)

Il Teorema fondamentale del Calcolo per le 1-forme, che abbiamo dimostrato nella lezione precedente,afferma che se ω ha una primitiva, allora ω verifica le (92), (93). Vediamo ora che vale anche l’implicazioneinversa:

Teorema 14.1.2 Se una 1-forma differenziale ω sull’aperto A in Rn verifica (92), allora ha una primitiva.

Dimostrazione. Facciamo la dimostrazione nell’ipotesi aggiuntiva che A sia connesso, altrimenti si dovracostruire una primitiva in ciascuna componente connessa. Fissato un punto y in A, se una primitiva h esiste,come conseguenza della proposizione 13.5.3, per ogni x ∈ A e per ogni curva γ tale che

γ : [a,b]→ A ; γ e C1 a tratti ; γ(a) = y ; γ(b) = x (94)

deve necessariamente aversih(x) =

∫γ

ω + h(y)

Definiamo allora la funzione g su A come

g(x) :=∫

γ

ω

dove γ e una qualsiasi curva che verifica (94). La definizione e ben posta poiche l’integrale non dipendedalla scelta di γ, grazie all’ipotesi (92). Mostriamo ora che ω = dg. Per far questo dobbiamo provare cheper ogni fissato x ∈ A, e per ogni i = 1, ...,n, si ha

∂g∂xi (x) = ωi(x)

Sia h < dist(x,∂A). Consideriamo la curva β : [0,h]→A , definita da β(t) = x+ tei , per la quale si haevidentemente β(0) = x , β(h) = x+hei e β′(t) = ei. Si vede subito che

g(x+hei) =∫

γ

ω+∫

β

ω

dove γ e come in (94). Per la definizione di derivata parziale si ha allora

∂g∂xi (x) = lim

h→0

g(x+hei)−g(x)h

= limh→0

1h

[∫γ

ω+∫

β

ω

]−

∫γ

ω

= lim

h→0

1h

∫β

ω =

=∂g∂xi (x) = lim

h→0

1h

∫ h

0ωi(x+ tei)dt = ωi(x)

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dove nell’ultimo passaggio si e usata l’ipotesi di continuita di ω (il lettore scriva la giustificazione dettagliatadi questo passaggio).Nelle due sezioni precedenti abbiamo complessivamente dimostrato che ciascuna delle condizioni (92),(93) e necessaria e sufficiente affinche la 1-forma ω abbia una primitiva. Verificare direttamente questecondizioni puo essere pero molto difficile e sono molto utili altre condizioni piu semplici, che vedremonella prossima sezione, le quali in generale sono soltanto necessarie, ma per un’ampia classe di aperti sonoanche sufficienti.

14.2 Forme esatte e forme chiuse. Esatta ⇒ chiusa. Chiusa ⇒ esatta negli aperti stellati e negliaperti semplicemente connessi.

La proposizione seguente stabilisce una semplice condizione necessaria per l’esistenza di una primitiva.

Proposizione 14.2.1 Sia ω = ∑ni=1 ωidxi una 1-forma di classe C1 su A, ossia tale che i coefficienti ωi siano

funzioni di classe C1 su A. Se ω ha una primitiva su A, allora si ha

∂ω j

∂xi(x)− ∂ωi

∂x j(x) = 0 ∀x ∈ A (95)

Dimostrazione. Sia f una primitiva di ω. Allora si ha ωi(x) =∂ fdxi

(x) e quindi la funzione f e di classe

C2. Inoltre∂ω j

dxi(x)− ∂ωi

dx j(x) =

dxi

∂ fdx j

(x)− ∂

dx j

∂ fdxi

(x) = 0

dove nell’ultimo passaggio si e utilizzato il teorema di Schwarz sull’invertibilita delle derivate secondemiste per una funzione di classe C2.

Ora la questione e: la condizione (95) e anche sufficiente? In generale la risposta e negativa, basta infatticonsiderare la forma µ definita in (87): si vede facilmente che µ verifica la condizione necessaria (95) ed’altra parte abbiamo gia visto che µ non ha primitiva, dal momento che il suo integrale lungo una circon-ferenza intorno all’origine e diverso da zero. E pero vero che per molti aperti (ad esempio gli intervalli,i convessi, gli aperti stellati,...) la condizione (95) e anche sufficiente per l’esistenza di una primitiva. Lacaratterizzazione degli aperti per i quali la condizione necessaria (95) e anche sufficiente e stato uno deiproblemi che ha portato alla creazione della topologia algebrica, a cavallo del 1900, in particolare ad operadi Henry Poincare. Prima di proseguire introduciamo alcuni termini di uso corrente.

Definizione 14.2.2 Sia ω una 1-forma di classe C1 su un aperto A di Rn. Si dice che ω e chiusa in A, sevale (95). Si dice che ω e esatta in A, se ω ha una primitiva su A, ossia se esiste una funzione f di classeC1(A) tale che d f = ω.

Utilizzando i termini appena introdotti, la proposizione 14.2.1 si enuncia cosı: se una forma differenziale eesatta su A, allora e chiusa su A. L’implicazione opposta, come si e detto, non e vera in generale. Abbiamopero la seguente

Proposizione 14.2.3 Se A e un intervallo in Rn, allora ogni 1-forma chiusa in A e anche esatta.

Dimostriamo la proposizione nel caso in cui A e un quadrato in due dimensioni; il caso generale si tratta inmodo del tutto analogo. Sia dunque ω = ω1(x)dx1+ω2(x)dx2 una 1-forma sul quadrato aperto A = |x1|<R, |x2|< R, dove R > 0, ω1 e ω2 sono funzioni di classe C1(E) e supponiamo che ω sia chiusa in E, ossiasupponiamo che valga

∂ω2

∂x1 (x1,x2)−∂ω1

∂x2 (x1,x2) = 0 ∀(x1,x2) ∈ A (96)

Vogliamo provare che ω ha una primitiva. Osserviamo che se esiste una primitiva f di ω su A, allora si devenecessariamente avere

f (x1,x2)− f (0,0) =∫

γ

ω

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dove γ e una qualsiasi curva che va dal punto (0,0) al punto (x1,x2) e possiamo imporre che f (0,0) = 0,poiche la primitiva e determinata a meno di una costante additiva. Consideriamo allora per ogni puntox = (x1,x2) ∈ A la curva di classe C1 a tratti γ : [0,2]→A, definita da

γ(t) =

(tx1,0) se t ∈ [0,1](x1,(t−1)x2) se t ∈ [1,2]

e poniamo

f (x1,x2) :=∫

γ

ω =∫ 1

0ω1(tx1,0)x1dt +

∫ 2

1ω2(x1,(t−1)x2)x2dt =

∫ x1

0ω1(u,0)du+

∫ x2

0ω2(x1,v)dv

In questo modo abbiamo definito su A una funzione candidata ad essere una primitiva di ω e ci resta dadimostrare che effettivamente

∂ f∂x1 (x1,x2) = ω1(x1,x2) (97)

∂ f∂x2 (x1,x2) = ω2(x1,x2) (98)

Cominciamo a dimostrare (98). Per la definizione di derivata parziale, abbiamo

∂ f∂x2 (x1,x2) = lim

h→0

1h[ f (x1,x2 +h)− f (x1,x2)] =

=1h

limh→0

∫ x2+h

x2ω2(x1,v)dv = ω2(x1,x2)

dove nell’ultimo passaggio si e usata l’ipotesi che ω e continua su A (in modo analogo a quanto fatto nel-l’ultimo passaggio della dimostrazione del teorema 14.1.2).

Dimostriamo ora la (97). Si ha

∂ f∂x1 (x1,x2) =

∂x1

∫ x1

0ω1(u,0)du+

∫ x2

0ω2(x1,v)dv

dove, per il Teorema fondamentale del Calcolo si ha

∂x1

∫ x1

0ω1(u,0)du = ω1(x1,0)

mentre il secondo termine a destra si trasforma come segue

∂x1

∫ x2

0ω2(x1,v)dv 1

=∫ x2

0

∂ω2

∂x1 (x1,v)dv 2=

∫ x2

0

∂ω1

∂x2 (x1,v)dv 3= ω1(x1,x2)−ω1(x1,0)

dove il passaggio 1= della derivata sotto il segno di integrale deve essere giustificato, ma lo faremo in un

momento successivo del corso10; il passaggio 2= segue da (96) e infine il passaggio 3

= e conseguenzadel Teorema fondamentale del Calcolo. Mettendo insieme le ultime due formule segue la (98) e la di-mostrazione della proposizione 14.2.3 e conclusa.

Una classe piu ampia di aperti per i quali la condizione (95) implica (92) e (93) e la seguente.

Definizione 14.2.4 Un aperto A di Rn si dice stellato (rispetto a un suo punto) se esiste un x ∈ A tale che,per ogni y ∈ A, il segmento di estremi x e y e contenuto in A.

Osserviamo che gli insiemi convessi, ad esempio gli intervalli e le palle sono stellati rispetto ad ogni loropunto. Possiamo ora enunciare il seguente

10Il teorema necessario per giustificare il passaggio si trova ad esempio nel libro di E.Giusti - Analisi II sotto il nome ‘derivazionesotto il segno di integrale’. La derivata di un integrale rispetto a un parametro si tratta come conseguenza dei teoremi di convergenzadella successione degli integrali di una successione di funzioni, che vedremo piu avanti nel corso.

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Proposizione 14.2.5 Lemma di Poincare. Se A e un aperto stellato allora ogni 1-forma differenzialechiusa in A e esatta, ossia la condizione (95) implica (92) e (93).

Non daremo la dimostrazione (che si trova ad esempio nel libro di E.Giusti appena citato in nota). L’ideae simile a quella che si e usata per dimostrare la proposizione 14.2.3: si definisce una funzione f (y) su Acome l’integrale di ω lungo il segmento che va da x a y e poi si prova che d f = ω. Per dimostrare quest’ul-tima uguaglianza occorre a un certo punto derivare un integrale dipendente da un parametro e poi usare la(96).

Dalle proposizioni precedenti segue in particolare che una forma chiusa su un aperto A ha una primitiva suogni intervallo contenuto in A, e quindi e localmente esatta. Consideriamo ora la forma chiusa µ definita in(87) e consideriamo un insieme di intervalli aperti limitati E1,E2, . . .Ek la cui unione E =

⋃kj=1 E j contenga

la circonferenza C di centro l’origine e raggio 1, e con le proprieta seguenti: per j = 2, . . . ,k−1, l’intervalloE j ha intersezione non vuota soltanto con E j−1 e E j+1; Ek ha intersezione non vuota soltanto con Ek−1 eE1; E1 ha intersezione non vuota soltanto con Ek e E2; le intersezioni E j ∩Ei sono due a due disgiunte.Gli intervalli E j sono quindi come gli anelli di una specie di catena la cui unione e una corona che contienela circonferenza C (conviene farsi un disegno...).In ciascuno degli intervalli E j possiamo trovare una primitiva f j di ω. Nell’intervallo E1∩E2 si deve averef1 = f2 + c1, per la proposizione 13.5.3, e quindi la formula

f (x) =

f1(x) se x ∈ E1

f2(x)+ c1 se x ∈ E2

definisce una primitiva f di ω nell’aperto E1∪E2. Diciamo che la primitiva f e stata ottenuta incollando leprimitive f1 e f2. Si puo procedere ulteriormente incollando via via le primitive f1, . . . fk−1 cosı da ottenereuna primitiva g di ω sull’aperto E1 ∪ ·· · ∪Ek−1. Se si vuole ora incollare g alla primitiva fk che abbiamoin Ek, in modo da trovare una primitiva globale sulla corona E, ci si trova pero a dover soddisfare due con-dizioni: una su Ek−1∩Ek e una su Ek∩E1. Se tali due condizioni non sono compatibili, l’incollamento none possibile. Sostanzialmente, la compatibilita c’e se l’integrale della forma lungo la circonferenza e nullo...

In effetti la proprieta‘nell’aperto A ogni forma chiusa e esatta’ (99)

pur richiedendo i concetti di derivata e integrale per essere enunciata, ossia la presenza su A di una strutturadifferenziabile, e topologica, ossia vale per un aperto A in Rn se e solo se vale per tutti gli aperti di Rn

omeomorfi ad A. Per formulare precisamente la proprieta topologica che equivale a (99) si e sviluppato ilconcetto di omotopia, che sara affrontato nei corsi di geometria. Qui diciamo soltanto brevemente che, seX e uno spazio topologico connesso, due curve continue α,β : [0,1]→X si dicono omotope se si possonotrasformare con continuita l’una nell’altra, ossia, precisamente, se esiste una mappa continua

H : [0,1]× [0,1]→X

tale che H(0, t) = α(t) e H(1, t) = β(t) . In tal caso si dice che la funzione H e una omotopia tra α e β.Inoltre, per ciascun s ∈ [0,1] fissato, possiamo definire la curva γs(t) := H(s, t) e pensare che la famiglia dicurve γs sia una trasformazione continua della curva α nella curva β.L’omotopia e una classe di equivalenza tra curve. Se consideriamo in particolare le curve chiuse che hannoestremo iniziale e finale uguali a uno stesso punto fissato p ∈ X , alle classi di equivalenza di tali curve sipuo dare una struttura di gruppo, che ha come elemento neutro la classe delle curve omotope alla curvacostante che ha sempre valore p. Si puo dimostrare che se X e connesso per archi, il gruppo cosı ottenutonon dipende, a meno di isomorfismi, dal punto p che si era fissato. Tale gruppo si chiama primo gruppodi omotopia dello spazio X o anche gruppo fondamentale di X e si denota π1(X). Se una curva chiusa eomotopa alla curva costante, si dice anche che la curva e contraibile. Se tutte le curve chiuse in X sonocontraibili, allora il primo gruppo di omotopia si riduce al solo elemento neutro e si dice che lo spaziotopologico X e semplicemente connesso. Approfondimenti si possono trovare su tutti i testi introduttivi allatopologia algebrica e, per cominciare, anche sugli articoli Homotopy e Fundamental group di Wikipedia.Si puo dimostrare (forse lo faremo piu avanti) che gli aperti di Rn per i quali e vera l’implicazione (99)sono gli aperti semplicemente connessi. Ad esempio, l’insieme R2−O non e semplicemente connesso,poiche ci sono curve non contraibili, e altrettanto e vero per l’aperto che si ottiene da R3 togliendogli unaretta. Invece in R3−O tutti i cammini sono contraibili e ogni forma chiusa e esatta.

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Esercizio 14.2.6 Per ciascuna delle seguenti 1-forme differenziali, stabilire se sono chiuse o esatte e, sepossibile, trovare una primitiva nell’aperto indicato a fianco.

1. ydx+ xdy in R2

2. (x− y)dx+ x2dy in R2

3.1y

dx− xy2 dy in R2−(x,y)

∣∣ y = 0

4. xdx+ zdy+ ydz in R3

5. x3dx1 + x4dx2 + x1dx3 + x2dx4 in R4

Esercizio 14.2.7 .i) Scrivere una omotopia H tra la curva γ(t) = (cos(2πt),sin(2πt)) e la curva σ(t) = (0,0) (dove t ∈ [0,1]).ii) Scrivere una omotopia H tra ciascuna coppia delle tre curve considerate nell’esempio 13.1.1.iii) Scrivere una omotopia tra le curve η(t) = (cos(2πt),sin(2πt)) e ρ(t) =

(cos(2πt2),sin(2πt2)

).

iv) Scrivere una omotopia H tra la curva γ del punto i) e una curva α che percorre una volta il quadratoE = (x,y)

∣∣ |x|< 1 , |y|< 1 in senso antiorario.

14.3 Campi conservativi

Definizione 14.3.1 Sia A un aperto in Rn e sia g un prodotto scalare fissato su Rn. Si dice che il campo econservativo, se la forma ωF , associata al campo F come nella definizione 13.4.1, ha una primitiva u. Lafunzione u si dice potenziale del campo F , rispetto al prodotto scalare g fissato.

Esplicitando la definizione, se u e il potenziale di un campo di vettori F , rispetto al prodotto scalare g, allorasi ha ωF = du, che equivale a dire

〈du(x) , v〉= g(F(x),v) ∀x ∈ A ∀v ∈ Rn

ossia F(x) e il vettore che rappresenta il covettore du(x) attraverso il prodotto scalare g , ossia infine: F(x)e il gradiente ∇u della funzione u, rispetto a g. Se g e il prodotto scalare standard su Rn, allora si ha

〈du(x) , v〉=n

∑i=1

∂u∂xi vi ∀x ∈ A ∀v ∈ Rn

e quindi F i(x) =∂u∂xi ∀i = 1, . . . ,n ∀x ∈ A.

In Fisica il concetto di campo di forze conservativo e molto importante e invece della funzione potenzialesi utilizza comunemente la funzione energia potenziale W definita da W (x) = −u(x). Si ha allora F(x) =−∇W e il lavoro del campo lungo una curva e uguale alla diminuzione dell’energia potenziale passando dalprimo al secondo estremo della curva. In particolare il lavoro di un campo conservativo lungo una curvachiusa e nullo. Anzi: un campo e conservativo in un aperto A se e solo se il lavoro del campo lungo qualsiasicurva chiusa di classe C1 a tratti, a valori in A e nullo.

Esercizio 14.3.2 .

i) Si consideri il campo di vettori F definito su R2−(0,0) da F(x,y) =(

xx2 + y2 ,

yx2 + y2

).

Si mostri che F e un campo conservativo e si trovi un potenziale di F .

ii) Si consideri il campo di vettori E definito su R3−(0,0,0) da E(x) =x|x|3

, dove x = (x1,x2,x3).

Si mostri che F e un campo conservativo e si trovi un potenziale di F .

iii) Si calcoli il lavoro del campo E definito nel punto ii) precedente lungo la curva

γ(t) =(cos(t + sin t),sin(t + sin t),sin3 t

)t ∈ [0,2π]

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15 Lezione − Lunedı 29 ottobre 2012 8.30 - 10.30 (2 ore)

Lunghezza di una curva. Parametro lunghezza d’arco. Curve regolari, versore tangente, versore

normale e curvatura per le curve piane. Integrale lungo una curva rispetto alla lunghezza d’arco.

Formule di Green e teorema della divergenza su un rettangolo. Equazione di Poisson ed equazione

di Laplace.

15.1 Lunghezza di una curva.

Definizione 15.1.1 Sia γ : [a,b]→Rn una curva di classe C1. Si dice lunghezza di γ, e si denota `(γ), ilnumero

`(γ) :=∫ b

a|γ′(t)|dt (100)

dove |γ′(t)| denota la norma euclidea standard del vettore velocita γ′(t) della curva nel punto t.

Il numero |γ′(t)| va interpretato come il fattore di cui un piccolo intervallo intorno al punto t viene approssi-mativamente dilatato (o accorciato) dalla mappa γ.Se h : [a,b]→R e una funzione di classe C1, allora la lunghezza della curva γ(t) = (t,h(t)) che percorre ilgrafico di h e data dalla formula ∫ b

a|γ′(t)|dt =

∫ b

a

√1+ |h′(t)|2dt (101)

Per una curva di classe C1 a tratti la lunghezza si definisce come somma delle lunghezze dei tratti. Per lecurve definite su un intervallo non limitato o non chiuso si utilizza l’integrale in senso generalizzato, chepuo avere valore uguale a +∞.

Si vede subito che la lunghezza della curva dell’esempio 47 e 4πR e che la lunghezza dell’elica cilindricadell’esempio 7.1.8 e 5π

√1+R2 (quest’ultimo risultato si ottiene anche con mezzi elementari, sviluppando

il cilindro di raggio R su un piano e utilizzando il Teorema di Pitagora). Altri classici calcoli di lunghezze(alcuni facili, altri un po’ piu lunghi, qualcuno impossibile...) sono proposti nell’esercizio seguente.

Esercizio 15.1.2 Calcolare la lunghezza delle curve seguenti.

1. L’arco di parabola (t, t2), dove t ∈ [0,a], a > 0;

2. L’ellisse (acos t,bsin t), dove t ∈ [0,2π], a > 0,b > 0;

3. L’arco di spirale di Archimede (t cos t, t sin t) , dove t ∈ [0,k], k > 0;

4. L’arco di spirale logaritmica (e−t cos t,e−t sin t) , dove t ∈ [0,+∞];

5. La cicloide (R(t− sin t),R(1− cos t)), gia descritta nell’esempio 7.1.7.

Ricordiamo che una partizione dell’intervallo [a,b] e un insieme finito di punti t1,< t2 < .. . tn ⊂ [a,b]con a = t1 < t2 < .. . tn = b. La lunghezza di una curva di classe C1 si puo approssimare con la lunghezzadi curve poligonali, ossia affini a tratti, come precisa il teorema seguente.

Teorema 15.1.3 Se γ : [a,b]→Rn una curva di classe C1 a tratti, allora si ha

`(γ) = supσ

n

∑i=1|γ(t j)− γ(t j−1)| = sup

σ

n

∑i=1

dist(γ(t j),γ(t j−1)) (102)

dove l’estremo superiore e esteso a tutte le partizioni σ dell’intervallo [a,b].

Daremo la dimostrazione del teorema (che non e stata fatta in classe) nelle ultime sezioni di questa lezione.Riportiamo invece qui alcune osservazioni.

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Osservazione 15.1.4 Il termine a destra di (102), che puo avere valore +∞, ha senso per funzioni qualsiasi(non di classe C1, e neppure continue) a valori in uno spazio metrico e consente di estendere a tali situazionila definizione di lunghezza di una curva. Tali estensioni sono molto importanti. Qui ci limitiamo a dire che lecurve f : [a,b]→R che hanno lunghezza finita si dicono funzioni a variazione limitata (in senso classico11).Le curve γ : [a,b]→Rn hanno lunghezza finita se e solo se ciascuna loro componente e una funzione avariazione limitata. Le curve di lunghezza finita in questo senso si dicono anche curve rettificabili.

Si ha il seguente importante teorema.

Teorema 15.1.5 Sia M un sottoinsieme di Rn e siano γ : [a,b]→Rn , σ : [c,d]→Rn due curve di classeC1, ciascuna biiettiva tra l’intervallo di definizione e l’insieme M. Allora si ha `(γ) = `(σ).

La dimostrazione generale del teorema conviene farla introducendo una misura 1-dimensionale in Rn, lamisura di Hausdorff H 1, e mostrando che per ogni curva γ : [a,b]→Rn di classe C1 e biiettiva su M si ha`(γ) = H 1(M). Questa via e remunerativa, ma lunga, e non potremo seguirla fino in fondo. Diamo pero ladimostrazione in un caso facile, e tuttavia utile: sia α : [a,b]→ [c,d] e supponiamo che γ = σα. In questocaso si ha

`(σ) =∫ d

c|σ′(t)|dt =

∫ b

a|σ′(α(r))| · |α′(r)|dr =

∫ b

a|γ′(r)|dr = `(γ)

dove, nel secondo passaggio, abbiamo usato la formula di cambiamento di variabile nell’integrale (o in-tegrazione per sostituzione) e, nel terzo passaggio, abbiamo usato la formula per la derivata di una fun-zione composta. Nella situazione del teorema precedente denoteremo talvolta con `(M) il numero `(γ).Concludiamo la sezione con qualche altro esercizio.

Esercizio 15.1.6 Si consideri la curva γ(t) = (x(t),y(t)) dove

x(t) =∫ t

0cos(u2)du , y(t) =

∫ t

0sin(u2)du t ∈ R (103)

Si indaghi il comportamento della curva e si cerchi di disegnarne un tratto. Si stabilisca se `(γ) e finitoo infinito. Questa curva ha interessanti proprieta e applicazioni (ad esempio al tracciato dei binari delleferrovie o dei roller coaster).

Esercizio 15.1.7 Per ogni numero reale p > 0, si consideri la curva ηp(t) = (t,hp(t)) , dove t > 0 ehp(t) = t p sin

( 1t

). Stabilire per quali valori di p la curva ηp(t) ha lunghezza finita.

15.2 Parametro lunghezza d’arco. Curve regolari, versore tangente, versore normale e curvaturaper le curve piane.

Definizione 15.2.1 Sia I un intervallo in R e sia γ : I→Rn una curva di classe C1 a tratti. Fissato un puntox0 ∈ I, la funzione s : I→R definita da

s(t) =∫ t

x0

|γ′(u)|du (104)

si dice una lunghezza d’arco o anche una ascissa curvilinea relativa alla curva γ.

Osserviamo che ci sono infinite funzioni lunghezza d’arco per la curva γ, una per ogni punto x0 che siprende come ‘origine’ dell’ascissa curvilinea; due funzioni lunghezza d’arco differiscono per una costantee spesso useremo comunque l’articolo determinativo nell’espressione ‘la lunghezza d’arco’, come se ce nefosse una sola. L’integrale a destra di (104) e un integrale orientato, quindi ha valori negativi per t < x0. Set > 0, allora il valore della lunghezza d’arco s(t) e la lunghezza della curva γ ristretta all’intervallo [x0, t] ;se invece t < 0, il numero −s(t) e la lunghezza della curva γ ristretta all’intervallo [t,x0]. Nel caso in cuiI = [a,b] si prende di solito x0 = a e la lunghezza d’arco e una funzione s : [a,b]→ [0, `(γ)] .

La funzione lunghezza d’arco e crescente, ossia t1 ≤ t2 =⇒ s(t1) ≤ s(t2) e per ogni t si ha s′(t) = |γ′(t)|,quindi s e una funzione di classe C1(I). In generale non e detto che la lunghezza d’arco sia una funzioneinvertibile.

11C’e anche una nozione ‘moderna’, strettamente collegata, ma non esattamente identica.

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Definizione 15.2.2 Una curva γ : [a,b]→Rn di classe C1([a,b]) si dice regolare in un punto t ∈ [a,b], seγ′(t) 6= 0. Se una curva e regolare in ogni punto, allora si dice che e regolare. Se γ e regolare in t, il vettoreτ(t) := γ′(t)

|γ′(t)| si chiama vettore tangente12 (unitario) alla curva in p.

Se una curva γ : [a,b]→Rn di classe C1([a,b]) e regolare, allora la sua lunghezza d’arco s e strettamentecrescente, quindi s e invertibile, quindi s e un diffeomorfismo da [a,b] a [0, `(γ)]. In tal caso la curvaσ : [0, `(γ)]→R n definita da σ = γ s−1 si chiama parametrizzazione di γ rispetto alla lunghezza d’arco.Per la curva σ cosı definita si ha σ′(u) = γ′(u)

|γ′(u)| e la lunghezza d’arco di σ e s(u) = u. Per questa ragionespesso si denota semplicemente s il parametro u di σ. Nel caso di curve piane si puo introdurre il vettorenormale e si puo definire la curvatura in modo un po’ piu semplice rispetto al caso delle curve nello spazio,come vediamo sotto.

Definizione 15.2.3 Se una curva γ : [a,b]→R2 di classe C1([a,b]) e regolare in t, si chiama vettore normaleunitario alla curva in p, e si denota ν(t) il vettore ottenuto ruotando τ(t) di −π

2 . In altre parole,se τ = (τ1,τ2) , ν = (ν1,ν2) , allora

(ν1,ν2) = (τ2,−τ1) , (τ1,τ2) = (−ν2,ν1) (105)

Definizione 15.2.4 Sia γ : [a,b]→R2 una curva regolare nel piano, tale che |γ′(t)| = 1 per ogni t ∈ [a,b],ossia tale che s′(t) = 1 per ogni t, ossia tale che s(t) = t, ossia parametrizzata secondo la lunghezza d’ar-co. Chiamiamo quindi s il parametro della curva. Dato un valore s0 del parametro, si chiama curvaturavettoriale nel punto s0 il vettore

K(s0) := γ′′(s0) (106)

che e definito purche esista la derivata seconda nel membro a destra di (106). In tal caso si chiama curvaturascalare, o semplicemente curvatura, della curva nel punto p0, la norma k(s0) := |K(s0)| della curvaturavettoriale. Se k(t)> 0 il numero R(t) = 1

k(t) si chiama raggio di curvatura della curva γ nel punto t.

Si verifichi che la curva α(t) = (Rcos( tR ),Rsin( t

R )) , e parametrizzata rispetto alla lunghezza d’arco eche il suo raggio di curvatura, in tutti i suoi punti, e proprio R. Osserviamo che la curvatura vettoriale siinterpreta come l’accelerazione di un punto materiale che si muove secondo la traiettoria γ (e quindi conmodulo della velocita costante e uguale a 1).

Esercizio 15.2.5 Sia γ : [a,b]→R2 una curva regolare nel piano, parametrizzata secondo la lunghezza d’ar-co e derivabile due volte in un punto s ∈ (a,b). Si mostri che la curvatura vettoriale K(s) e ortogonale alversore tangente τ(s).

Esercizio 15.2.6 Sia γ : [a,b]→R2 una curva regolare nel piano, non necessariamente parametrizzata sec-ondo la lunghezza d’arco, derivabile due volte in un punto t ∈ (a,b). Si mostri che

γ′′(t) = K(s(t)) ·

(s′(t)

)2+ τ(s(t))s′′(t) (107)

dove s(t) e la lunghezza d’arco e τ(s), K(s) sono il versore tangente e la curvatura vettoriale della curvaσ = γ s−1 parametrizzata secondo la lunghezza d’arco.

Esercizio 15.2.7 Sia h : [a,b]→R una funzione di classe C1 e si consideri la curva γ(t) = (t,h(t)). Si mostriche γ e una curva regolare e che il versore tangente e il versore normale sono

τ(t) =

(1√

1+ |h′(t)|2,

h′(t)√1+ |h′(t)|2

)ν(t) =

(−h′(t)√

1+ |h′(t)|2,

1√1+ |h′(t)|2

)∀t ∈ [a,b]

(108)

Esercizio 15.2.8 Si mostri che la curva γ definita nell’esercizio 15.1.6 e parametrizzata secondo la lunghez-za d’arco e la curvatura k(s) cresce linearmente col parametro s. Un arco di questa curva si puo quindi usareper raccordare progressivamente due archi circolari di binario con raggio diverso. La curva γ probabilmentee stata scritta per la prima volta da Eulero intorno al 1744, nell’ambito dello studio delle ‘curve elastiche’proposto da Jacob (o James) Bernoulli nel 1691. Un’interessante approfondimento su questa curva si trovain http://levien.com/phd/euler_hist.pdf

12talvolta si trova il termine versore tangente

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15.3 Integrale di una funzione lungo una curva, rispetto alla lunghezza d’arco.

Definizione 15.3.1 Sia γ : [a,b]→Rn una curva di classe C1 a tratti e sia M = γ([a,b]) l’immagine (o ‘sosteg-no’) della curva. Sia poi f : M→R una funzione continua. Chiamiamo allora integrale di f lungo γ rispettoalla lunghezza d’arco il numero ∫

γ

f ds :=∫ b

af (γ(t))|γ′(t)|dt (109)

Per l’integrale rispetto alla lunghezza d’arco vale un risultato simile al teorema 15.1.5, che enunciamo diseguito.

Teorema 15.3.2 Sia M un sottoinsieme di Rn e siano γ : [a,b]→Rn , σ : [c,d]→Rn due curve di classe C1,ciascuna biiettiva tra l’intervallo di definizione e l’insieme M. Sia inoltre f : M→R una funzione continua.Allora si ha

∫γ

f ds =∫

σf ds.

Per la dimostrazione di questo teorema valgono le stesse considerazioni gia fatte per il teorema 15.1.5 e

nella situazione del teorema indicheremo anche con∫

Mf ds l’integrale

∫γ

f ds. Osserviamo che l’ipotesi di

continuita su f garantisce l’esistenza dell’integrale a destra della (109) nel senso di Cauchy, ma l’integralesecondo Riemann esiste in condizioni piu generali e per l’integrale secondo Lebesgue, come vedremo,bastano ipotesi molto piu deboli. Vediamo ora alcuni esempi di integrali rispetto alla lunghezza d’arco.

Esempio 15.3.3 Siano a > 0, b > 0 e consideriamo la curva γ : [0,b]→R2 definita da γ(v) = (a,v), biiettivatra l’intervallo [0,b] e il segmento M di estremi (a,0) e (a,b). Sia f : M→R una funzione continua.Abbiamo allora che ∫

Mf ds =

∫γ

f ds =∫ b

0f (a,v)dv

Esempio 15.3.4 Consideriamo la circonferenza M ⊂ R2 di centro C = (1,2) e raggio 2 e la funzionef (x,y) = x2. Vogliamo calcolare l’integrale

∫M f ds. Consideriamo la curva γ(t) = (1+ 2cos t,2+ 2sin t)

definita per t ∈ [0,2π], che e di classe C1 ed e biiettiva su M. Abbiamo allora∫M

f ds =∫ 2π

0(1+2cos t)2 ·2dt

Esempio 15.3.5 Si dice baricentro di una curva γ : [a,b]→Rn il punto G = (G1, . . . ,Gn) ∈ Rn le cui coor-

dinate sono definite da Gi =1

`(γ)

∫γ

xids . Per esercizio si trovi il baricentro di un arco di circonferenza di

raggio R e ampiezza α ∈ (0,2π).

Esempio 15.3.6 Siano a > 0, b > 0 e consideriamo il rettangolo aperto A = (0,a)× (0,b). Il bordo ∂A diA e unione dei quattro segmenti Γ1, Γ2, Γ3, Γ4, che descriviamo sotto, indicando accanto a ciascuno di essiil vettore normale ν = (ν1,ν2) al bordo, diretto verso l’esterno, di lunghezza 1:

Γ1 = (x,y)∣∣ 0 < x < a , y = 0 , ν = (0,−1)

Γ2 = (x,y)∣∣ x = a , 0 < y < b , ν = (1,0)

Γ3 = (x,y)∣∣ 0 < x < a , y = b , ν = (0,1)

Γ4 = (x,y)∣∣ x = 0 , 0 < y < b , ν = (−1,0)

In questa situazione, se f : ∂A→R e una funzione continua, ricordando l’esempio 15.3.3, abbiamo∫∂A

f ν1ds :=∫

Γ1

f ν1ds+∫

Γ2

f ν1ds+∫

Γ3

f ν1ds+∫

Γ4

f ν1ds =

=∫

Γ2

f ν1ds+∫

Γ4

f ν1ds =∫ b

0f (a,v)dv+

∫ b

0f (0,v)(−1)dv

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15.4 Formule di Green e Teorema della divergenza su un rettangolo

Sia A = (0,a)× (0,b) e sia U un aperto che contiene la chiusura A di A. Sia inoltre f : U→R unafunzione di classe C1(U). Grazie alle formule di riduzione per gli integrali in due variabili e tenendo contodell’esempio 15.3.6 abbiamo∫

A

∂ f∂x1

(u,v)dudv =∫ b

0

∫ a

0

∂ f∂x1

(u,v)du

dv =

∫ b

0 f (a,v)− f (0,v)dv =

∫∂A

f ν1ds

Un risultato analogo si ottiene per la derivata parziale di f rispetto a x2 e complessivamente valgono leseguenti ∫

A

∂ f∂x1

=∫

∂Af ν1ds

∫A

∂ f∂x2

=∫

∂Af ν2ds

(110)

che si chiamano Formule di Green.

Se ora consideriamo un campo di vettori F : U→R di classe C1(U), con F = (F1,F2) , scrivendo la primaformula di Green per la componente F1 e la seconda formula di Green per la seconda componente, e poisommando, otteniamo ∫

A

[∂F1

∂x1+

∂F2

∂x2

]=

∫∂A[F1ν1 +F2ν2]ds

che possiamo riscrivere come ∫A

divF =∫

∂AF ·νds (111)

dove

divF :=∂F1

∂x1+

∂F2

∂x2(112)

si chiama divergenza del campo di vettori F e inoltre F · ν denota il prodotto scalare del campo F colvettore normale ν. La formula (111) si chiama Teorema della divergenza o Teorema di Gauss e si esprimein parole dicendo che l’integrale della divergenza del campo di vettori F su A e uguale al flusso uscente delcampo attraverso il bordo di A . Il Teorema della divergenza vale per aperti molto piu generali in Rn, comevedremo. Per ora vediamo una applicazione classica all’elettrostatica.

Esempio 15.4.1 E un fatto noto sperimentalmente, che il flusso del campo elettrostatico E uscente da unqualsiasi insieme A dello spazio, contenuto in una regione dello spazio in cui si trovi un mezzo omogeneo,e uguale alla somma delle cariche contenute nell’insieme stesso, moltiplicata per una opportuna costante,che dipende dalle unita di misura e dal mezzo. Se la distribuzione di cariche ha una densita ρ, allora questofatto, insieme al teorema della divergenza dice che

c∫

Aρ(x)dx1dx2dx3 =

∫A

divF(x)dx1dx2dx3

per ogni intervallo A dello spazio. Da questo si puo ottenere che

divE(x) = cρ(x) ∀x (113)

D’altra parte e anche noto sperimentalmente che il campo elettrostatico E e conservativo e quindi esiste unpotenziale u tale che E = ∇u. Di conseguenza dall’equazione (113) si ha

3

∑i=1

∂xi

∂u∂xi

(x) = cρ(x) ∀x (114)

dove al primo membro si trova il laplaciano di u, che si denota comunemente ∆u . L’equazione (114) sichiama equazione di Poisson. In una regione di spazio nella quale non si trovano cariche, il potenzialeverifica allora l’equazione

∆u = 0

che si chiama equazione di Laplace. Le funzioni che verificano l’equazione di Laplace si dicono anchefunzioni armoniche.

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16 Lezione − Lunedı 5 novembre 2012 8.30 - 10.30 (2 ore)

Formule di Green in un sottografico nel piano e in aperti decomponibili. Prima formulazione del

Teorema di Stokes per campi di vettori nel piano ed equivalenza tra Formule di Green, Teorema

della divergenza e Teorema di Stokes.

16.1 Formule di Green in un sottografico nel piano

Consideriamo un aperto A⊂ R2 di tipo particolare:

A = (x,y) ∈ R2 ∣∣ a < x < b , 0 < y < h(x)

dove h : [a,b]→R e una funzione di classe C1, tale che 0 < c0 < h(x)< c per ogni x ∈ [a,b]. Diremo che Ae il sottografico della funzione h. Il bordo di A e unione dei quattro insiemi Γi, i = 1,2,3,4 indicati sotto,accanto a ciascuno dei quali indichiamo il vettore normale unitario diretto verso l’esterno di A:

Γ1 = (x,y)∣∣ a < x < b , y = 0 , ν = (0,−1)

Γ2 = (x,y)∣∣ x = b , 0 < y < h(b) , ν = (1,0)

Γ3 = (x,y)∣∣ a < x < b , y = h(x) , ν(x,h(x)) = (ν1,ν2) =

(−h′(x)√1+|h′(x)|2

, 1√1+|h′(x)|2

)Γ4 = (x,y)

∣∣ x = a , 0 < y < h(a) , ν = (−1,0)

Sia inoltre U un aperto che contiene l’insieme [a,b]× [0,c] e sia f : U→R una funzione di classe C1(U).

Teorema 16.1.1 Nella situazione appena descritta, per la funzione f valgono le formule di Green sull’aper-to A.

Dimostrazione - la seconda parte non e stata fatta in classe. La formula di Green che coinvolge la derivata dif rispetto a y, che scriviamo Dy f invece che ∂ f

∂y , si dimostra molto facilmente e lo vediamo subito: per leformule di riduzione e grazie al teorema fondamentale del calcolo 1-dimensionale, si ha∫

ADy f (x,y)dxdy =

∫ b

a

∫ h(x)

0Dy(x,y)dy

dx =

∫ b

a f (x,h(x))− f (x,0)dx =

∫ b

af (x,h(x))dx+

∫ b

af (x,0)(−1)dx

dove e immediato che ∫ b

af (x,0)(−1)dx =

∫Γ1

f ν2ds

e si vede facilmente che ∫ b

af (x,h(x))dx =

∫Γ3

f ν2ds

infatti, basta considerare la curva γ(x) = (x,h(x)), definita su [a,b] (si ricordi l’esercizio 108) e osservareche ∫

Γ3

f ν2ds :=∫

γ

f ν2ds :=∫ b

af (x,h(x))ν2(x,h(x))|γ′(x)|dx =

∫ b

af (x,h(x))dx

Se infine osserviamo che l’integrale di f ν2 su Γ2 e Γ4 e nullo (poiche ν2 = 0 su tali insiemi) otteniamo laformula di Green annunciata:∫

ADy f (x,y)dxdy =

∫Γ1

f ν2ds+∫

Γ2

f ν2ds+∫

Γ3

f ν2ds+∫

Γ4

f ν2ds =∫

∂Af ν2ds

La formula di Green per la derivata Dx f si dimostra come segue. Consideriamo la funzione F : [a,b]→Rdefinita da

F(x) :=∫ h(x)

0f (x,v)dv ∀x ∈ [a,b]

Vogliamo calcolare la derivata di F e per far questo e comodo introdurre una ulteriore funzione

G(x,y) :=∫ y

0f (x,v)dv

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definita sull’insieme E = [a,b]× [0,c]. Si vede subito che

F(x) = G(x,h(x)) ∀x ∈ [a,b]

La funzione G e continua su E ed e di classe C1 sull’aperto (a,b)× (0,c) per la proposizione (16.1.2). Diconseguenza la funzione F e continua su [a,b] e derivabile su (a,b) e precisamente si ha

F ′(x) = DxG(x,h(x))+DyG(x,h(x))h′(x) ∀x ∈ (a,b) (115)

dove, per la proposizione appena citata, si ha

DxG(x,y) =∫ y

0Dx f (x,v)dv ∀(x,y) ∈ (x,y) ∈ (a,b)× (c,d) (116)

e, per il teorema fondamentale del Calcolo, si ha DyG(x,y)) = f (x,y) ∀(x,y) ∈ (x,y) ∈ (a,b)× (c,d) equindi

DyG(x,h(x)) = f (x,h(x)) ∀x ∈ (a,b) (117)

A questo punto integriamo la (115) su [a,b] e, per il teorema fondamentale del Calcolo in una variabile,otteniamo

F(b)−F(a) =∫ b

a

∫ y

0Dx f (x,v)dv

dx+

∫ b

af (x,h(x))h′(x)dx

ossia, ricordando le definizioni date e le formule di riduzione∫ h(b)

0f (b,v)dv+

∫ h(a)

0f (a,v)(−1)dv =

∫A

Dx f (x,y)dxdy+∫ b

af (x,h(x))

h′(x)√1+ |h′(x)|2

√1+ |h′(x)|2dx

da cui infine ∫Γ4

f ν1ds+∫

Γ2

f ν1ds =∫

ADx f dxdy−

∫Γ3

f ν1ds−∫

Γ1

f ν1ds

(l’ultimo integrale a destra e nullo) ossia∫A

Dx f dxdy =∫

∂A f ν1ds

che e la formula di Green annunciata per Dx f e la dimostrazione e conclusa.

Vediamo ora la seguente proposizione (non e stata fatta in classe), che abbiamo usato nella dimostrazioneprecedente e che afferma la continuita e la derivabilita degli integrali dipendenti da un parametro.

Proposizione 16.1.2 Sia U un aperto che contiene l’insieme E = [a,b]× [0,c] e sia f : U→R una funzionecontinua. Consideriamo la funzione G : E :→R definita da

G(x,y) =∫ y

0f (x,v)dv

Se f e continua su E , allora G e continua su E.Se f e di classe C1 su U allora G e di classe C1 su (a,b)× (0,c).

Per la dimostrazione di questa proposizione rimandiamo (almeno per ora) al libro Analisi 2 di E. Giusti.Forse la faremo piu avanti, ma il tempo e poco.

16.2 Formule di Green in aperti piu generali. Equivalenza tra le formule di Green e il teoremadella divergenza. Integrazione per parti in Rn. Esercizi.

Consideriamo i due intervalli aperti B = (−1,0)× (0,1) e C = (0,1)× (−1,1) in R2 e sia A = B∪C .Sia poi f una funzione di classe C1 su un aperto U che contiene la chiusura di A. Sommando le formuledi Green per la derivata parziale rispetto a x1 nei due aperti B e C, si vede che ci sono due integrali sulsegmento Γ = 0× [0,1] = ∂B∩∂C , che hanno valori opposti, poiche la normale esterna cambia versoa seconda che il segmento sia considerato appartenente al bordo di B oppure al bordo di C. Si ottiene cosıla formula di Green per la derivata rispetto a x1 su A. Analogamente si trova la formula per l’altra derivata.Con questo tipo di ragionamento si possono decomporre aperti di forma complessa in aperti semplici suiquali valgono le formule di Green e si possono trattare le situazioni che si incontrano nei casi concreti piucomuni e negli esercizi per la prova scritta. Per enunciare e dimostrare un risultato per aperti generali in Rn

occorre utilizzare tecniche diverse, che vedremo soltanto piu avanti.

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Esercizio 16.2.1 Si dimostrino le formule di Green per la corona circolare (x,y)∣∣ 1 < x2 + y2 < 9.

Osservazione 16.2.2 Nella lezione precedente, dalle formule di Green in un intervallo abbiamo ricavato ilTeorema della divergenza sullo stesso intervallo. Questo fatto vale in generale e vale anche l’implicazioneopposta, precisamente: per un aperto limitato A di R2:i) valgono le formule di Green per le funzioni C1

se e solo seii) vale il teorema della divergenza per i campi di vettori di classe C1. Nel verso i) ⇒ ii) e la stessadimostrazione gia vista per gli intervalli. Vediamo l’altro verso: supponiamo che valga il teorema delladivergenza su A. Sia U un aperto che contiene la chiusura di A e sia f : A→R una funzione di classeC1. Definiamo poi un campo di vettori su U ponendo F(x,y) = ( f (x,y),0). Applicando il teorema delladivergenza abbiamo che ∫

ADx f dxdy =

∫A

divF =∫

∂AF ·νxds =

∫∂A

f νxds

ossia una delle formule di Green. L’altra si ottiene in modo analogo.

Esercizio 16.2.3 Si consideri l’aperto Ω = (x,y)∣∣ x2 + y2 < 4 , x > 0 , y > 0 e il campo di vettori

F(x,y) = (0,x2). Sia ν(x,y) il vettore normale al bordo di Ω, di lunghezza unitaria e diretto verso l’esterno,nel punto (x,y). Si calcolino gli integrali∫

Ω

divFdµ2 ;∫

∂Ω

F ·ν dµ1

e si verifichi che vale il teorema della divergenza. [R: La divergenza di F e zero e anche il flusso e zero,poiche e la somma di tre integrali, sui tre lati del dominio, i quali integrali valgono 8

3 , − 83 e 0]

Esercizio 16.2.4 Siano f e g funzioni di classi C1(R2) e supponiamo che g sia nulla fuori da un intevallolimitato. Mostrare che valgono le seguenti formule di integrazione per parti:∫

R2gDi f dx1dx2 = −

∫R2

f Digdx1dx2 (118)

Esercizio 16.2.5 Enunciare e dimostrare le formule di Green in un intervallo in R3 e le formule di inte-grazione per parti

Si e gia detto che una funzione f : [a,b]→R si dice di classe C1 su [a,b], se e derivabile in ogni puntodi [a,b], intendendo che in a esiste la derivata destra e in b esiste la derivata sinistra, e la derivata f ′ euna funzione continua su [a,b]. Si vede subito che questo e equivalente a dire che esiste una estensionef : U→R di f di classe C1(U), dove U e un aperto che contiene [a,b]. In Rn e conveniente dare la seguente

Definizione 16.2.6 Sia A un aperto in Rn. Si dice che una funzione f : A→R e di classe C1(A) se esisteuna funzione f : U→R di classe C1(U), dove U e un aperto che contiene A, tale che f (x) = f (x) per ognix ∈ A. Si dice che f e una estensione C1 di f .

Con i termini introdotti, nell’enunciato delle formule di Green, anziche dire ‘sia U un aperto che contienela chiusura A di A e sia f : U→R una funzione di classe C1(U)’, possiamo dire semplicemente ‘siaf ∈C1(A).

Esercizio 16.2.7 Siano F un campo di vettori e g una funzione definiti su un aperto A, derivabili nel puntox ∈ A.i) Mostrare che

div(gF)(x) = ∇g(x) ·F(x)+g(x)divF(x)

ii) Supponendo inoltre che su A valga il teorema della divergenza e che F e g siano di classe C1(A), mostrareche ∫

Ω

gdivFdµn =−∫

Ω

∇g(x) ·F(x)dµn +∫

∂Ω

g(x)F(x) ·νdH n−1 (119)

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Osservazione 16.2.8 La divergenza divF = ∑i DiFi appare formalmente come il ‘prodotto scalare’ tra il

vettore degli operatori derivata parziale D = (D1, ...,Dn) = (∂

∂x1, . . . ,

∂xn) e il vettore F = (F1, ...,Fn),

ossia:divF = D · F = ∑

iDiFi

Le derivate parziali Di si denotano anche ∇i e la divergenza si scrive ∇ · F . La formula dell’esercizioprecedente si trova scritta ∇ · (gF) = ∇g ·F +g∇ ·F .

16.3 Laplaciano

Definizione 16.3.1 Sia A un aperto di Rn. Si dice laplaciano di una funzione f : A→R in un punto x ∈ A ilnumero

∆ f (x) := div(∇ f )(x) =n

∑i=1

∂2 f∂x2

i(x) (120)

purche ci siano le condizioni per l’esistenza delle derivate indicate. Se f e di classe C2(A), allora ∆ f (x)esiste per tutti gli x ∈ A ed e una funzione continua su A. Anche l’applicazione

∆ : f 7→ ∆ f ; ∆ : C2(A)→C0(A)

si dice operatore di Laplace o semplicemente laplaciano. Le funzioni per cui ∆ f = 0 in A si dicono funzioniarmoniche su A.

Esercizio 16.3.2 i) Scrivere le funzioni armoniche di due variabili x e y, che sono polinomi di grado minoreo uguale di 2 in x e y.ii) mostrare che la funzione u(x) = ln(|x|) e armonica in R2−0

Esercizio 16.3.3 Unicita della soluzione del problema di Dirichlet per l’equazione di Laplace. Sia Ω

un intervallo limitato in R2 e sia u ∈C2(Ω) una funzione che verifica l’equazione differenziale ∆u(x) = 0su Ω e tale che u = 0 su ∂Ω. Mostrare che in tali condizioni si ha u = 0 su Ω (applicare il teorema delladivergenza al campo di vettori uDu su Ω e ottenere che

∫Ω|Du|2 = 0, quindi...). Dedurre poi da questo che, date

due funzioni continue f : Ω→R e g : ∂Ω→R, se esiste una funzione u ∈C2(Ω) che risolve il problema diDirichlet

∆u = f in Ω

u = g su ∂Ω(121)

allora essa e unica.

Esercizio 16.3.4 Sia A = (0,a)× (0,b)⊂ R2. Si trovino alcune (tutte?) le funzioni u : A→Rtali che

∆u = 0 in Au(x,0) = 0 se x ∈ (0,a)u(x,b) = 0 se x ∈ (0,a)u(a,y) = 0 se y ∈ (0,b)

(122)

Si noti che le funzioni u non hanno un valore asseganto sul segmento 0× [0,b].

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Il problema di Dirichlet per l’equazione di Laplace e un problema classico (1840-50), che si ritrova ininnumerevoli situazioni e che ha molto stimolato lo sviluppo della matematica. Ad esempio la funzioneu che si trova in (121) e il potenziale elettrostatico che si ha in Ω se sul bordo di Ω il potenziale vienevincolato ad essere g. Per aperti particolari ( un intervallo, una sfera, un semipiano...) e per funzioni f , gparticolari, si puo scrivere la soluzione esplicitamente (se non altro come serie di funzioni elementari). Sottoopportune ipotesi assai generali si puo comunque mostrare l’esistenza di una soluzione per il problema diDirichlet in opportuni spazi di funzioni e si possono dare metodi e algoritmi di approssimazione numericadella soluzione, con stime sulla velocita di convergenza.

16.4 La formula di Stokes per i campi di vettori nel piano

Teorema 16.4.1 Sia A un aperto limitato in R2 nel quale valgono le formule di Green (o, che e la stessacosa, il teorema della divergenza). Per ogni punto x∈ ∂A sia ν(x) il vettore normale unitario al bordo, direttoverso l’esterno, e sia τ(x) il vettore tangente al bordo, definito da τ(x) = (−ν2(x),ν1(x)), che ‘orienta’ ilbordo di A in senso antiorario. Sia inoltre F un campo di vettori di classe C1(A). Allora si ha∫

A(D1F2−D2F1) =

∫∂A

F · τds (123)

Per un campo vettoriale F in due dimensioni poniamo

rotF(x) := D1F2(x)−D2F1(x)

Il numero rotF(x) si dice rotazione o rotore del campo F nel punto x. Se F e differenziabile in un aperto Aallora x 7→ rotF(x) e una funzione definita su A e F 7→ rotF e un operatore che manda campi di vettori infunzioni. Occorre dire che questa definizione si deve vedere come un caso particolare della definizione dirotore di un campo di vettori in R3, che daremo piu avanti. Si deve anche dire che il rotore di un campo divettori e stato introdotto nel secolo XIX, ed e utilissimo, per descrivere il comportamento di diversi mezzicontinui, in particolare il moto dei fluidi in due dimensioni, l’interazione dei campi elettrici e magnetici nel-lo spazio e moltissime altre cose. Si tratta pero di un concetto che ha una validita limitata a R3 e che e quasidi ostacolo per arrivare al teorema di Stokes generale (o teorema fondamentale del Calcolo in Rn). Occor-rera quindi, nelle prossime lezioni, formulare il teorema di Stokes nel linguaggio delle forme differenziali,sostituendo al rotore di un campo F il differenziale esterno della 1-forma corrispondente al campo. In talmodo si comprendera meglio il significato del teorema e si avra il linguaggio per estenderlo a situazioni piugenerali.

Dimostrazione del teorema 16.4.1 - Sia F come nelle ipotesi. Ricordando la definizione di τ e le formule diGreen si ha immediatamente∫

∂AF · τds =

∫∂A[F1τ1 +F2τ2]ds =

∫∂A[−F1nu2 +F2ν1]ds =

∫A(D1F2−D2F1)

Esercizio 16.4.2 Consideriamo il campo di vettori H = (−y,x) su R2. Sia A un aperto in R2 nel quale ilteorema di Stokes. Mostrare che si ha

area(A) =12

∫∂A

F · τds

16.5 Esercizi su curve, lunghezza, forme differenziali, campi, divergenza, Green, Sokes

Alcuni fogli di esercizi svolti o assegnati dal Dottor Amedeo Altavilla si trovano gia in rete, altri sarannoaggiunti. Inoltre, tra i molti esercizi svolti che si trovano in rete, si suggeriscono ad esempio quelli che sitrovano nel sito del prof. Fabio Nicola http://calvino.polito.it/˜nicola/, (link ‘didattica’ e ppoilink ‘analisi matematica II’, in particolare :

Curve e integrali curvilinei

Forme e campi (In questo gruppo, ai fini della seconda provetta, non interessano gli esercizi dei punti 2. e3.)

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17 Lezione − Giovedı 8 novembre 2012 13.30 - 15.30 (2 ore)

Area di un parallelogramma nello spazio. Area di una superficie parametrizzata. Area di un grafico.

Parametrizzazione della sfera.

17.1 Area di un parallelogramma nello spazio

Siano b1 e b2 vettori in R3. L’obiettivo di questa sezione e di trovare dei modi per esprimere l’area delparallelogramma generato da b1 e b2. Conviene cominciare a considerare un parallelogramma nel piano:siano u = (u1,u2) e v = (v1,v2) vettori in R2 e sia E il parallelogramma generato da u e v. Consideriamoanche l’applicazione lineare L : R2→R2 determinata dalle condizioni L(e1) = b1 e L(e2) = b2, dove e1,e2sono i vettori della base standard in R2. Evidentemente si ha L(Q) = E, dove Q = [0,1]× [0,1] e sappiamogia dalla sezione 6.1 (si veda la discussione del caso particolare k = n = 2 in fondo alla sezione citata) che

area(E) = |det(L)| (124)

Troveremo ora una nuova espressione per l’area del parallelogramma E: tale area, definita elementarmente,e uguale al prodotto di uno dei lati, pensato come ‘base’ per la proiezione dell’altro lato sulla direzioneortogonale al primo lato (ossia la ‘altezza’). Se chiamiamo α l’angolo tra i vettori u e v, possiamo scrivere

area(E) = |u| |v| sinα

da cui possiamo ottenere

area(E)2 = |u|2 |v|2 sin2α = |u|2 |v|2 (1− cos2

α) = |u|2 |v|2 − (u · v)2

dove u · v denota il prodotto scalare standard di u e v e si e usata la formula (che puo prendersi comedefinizione di coseno dell’angolo) u · v = |u| |v| cosα . Possiamo riscrivere l’ultima formula nelle seguentiforme equivalenti, variamente suggestive:

area(E)2 = det

u ·u u · v

v ·u v · v

= det(LT ·L) (125)

dove, con un abuso di linguaggio, abbiamo denotato con L anche la matrice(

u1 v1

u2 v2

)dell’applicazione

lineare L rispetto alle basi standard e inoltre denotiamo con LT la matrice trasposta di L.

E importante osservare che quest’ultima formula trovata per l’area non richiede l’uso delle coordinate e lascelta di una base ma richiede soltanto di conoscere il prodotto scalare che si da nello spazio. Nella formula(124) e anche presente la scelta di un prodotto scalare: il prodotto standard.

Passiamo ora al problema di esprimere l’area del parallelogramma generato dai vettori b1 = (b11,b

21,b

31) e

b2 = (b12,b

22,b

32), che chiamiamo ancora E, e consideriamo l’applicazione lineare L : R2→R3, che manda e1

in b1 e e2 in b2. La matrice di tale applicazione rispetto alle basi standard e

b1

1 b12

b21 b2

2

b31 b3

2

e sara denotata

anche essa con la lettera L. Inoltre denoteremo con LT la matrice trasposta di L.

Osserviamo ora che il prodotto scalare standard di R3 e in particolare anche un prodotto scalare nel sot-tospazio vettoriale 2-dimensionale V generato dai vettori b1 e b2. Nel piano V rimane quindi valida la (125)e si ha

area(E)2 = det

b1u ·b1 b1 ·b2

b2 ·b1 b2 ·b2

= det(LT ·L) (126)

dove il prodotto scalare e quello su V , che coincide con quello standard di R3.

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Vediamo un esempio particolare. Consideriamo i vettori

b1 = (2,−1,−1) , b2 = (1,2,3) (127)

Si ha allora area(E)2 = det(

6 −3−3 14

)= 75 .

Vogliamo ora trovare un’espressione dell’area di E che utilizzi le coordinate rispetto alla base standard.Per far questo utilizzeremo le proiezioni dell’insieme E sui piani coordinati e conviene introdurre alcunenotazioni. Denotiamo ε1,ε2,ε3 R3 la base standard in R3. Chiameremo π12 la proiezione ortogonale da R3

sul piano coordinato generato da ε1 e ε2. Per ogni vettore u = (u1,u2,u3) ∈ R3 si ha quindi

π12 : (u1,u2,u3) 7→ (u1,u2)

Poniamo E12 := π12(E) . L’insieme E12 e un parallelogramma generato dai vettori π12(b1) = (b11,b

21)

e π12(b2) = (b12,b

22) ed e anche l’immagine dell’applicazione lineare L12 = π12 L . Analogamente si

definiscono le proiezioni ortogonali π13 e π23 e gli insiemi E13 := π13(E) e E23 := π23(E) . Nel casoparticolare dell’esempio in (127) si ha

π12(b1) =

(2−1

); π12(b2) =

(12

); area(E12) =

∣∣∣∣det(

2 1−1 2

)∣∣∣∣ = 5

e analogamente si ottiene

area(E13) =

∣∣∣∣det(

2 1−1 3

)∣∣∣∣ = 7 ; area(E23) =

∣∣∣∣det(−1 2−1 3

)∣∣∣∣ = 1

Possiamo cosı osservare che nell’esempio considerato si ha

area(E)2 = area(E12)2 + area(E13)

2 + area(E23)2 (128)

Questa formula vale in effetti in generale e si puo considerare come una specie di teorema di Pitagoraper le aree. Vedremo piu avanti una dimostrazione geometrica di (128), che e molto semplice e naturale einvitiamo le lettrici a cercarla autonomamente.Utilizzeremo anche le notazioni

M12 := det

b11 b1

2

b21 b2

2

; M13 := det

b11 b1

2

b31 b3

2

; M23 := det

b21 b2

2

b31 b3

2

per i minori della matrice L. Con questa notazione la (128) si scrive anche nella versione algebrica seguente

det(LT L) = ∑i< j

M2i j i, j = 1,2,3 (129)

Le formule appena trovate si estendono a dimensioni piu alte. Ad esempio, se b1, b2 sono vettori di Rn echiamiamo E il parallelogramma generato da b1 e b2, con le ovvie generalizzazioni delle notazioni, si ha

area(E)2 = ∑i< j

area(Ei j)2 i, j = 1,2, . . . ,n (130)

det(LT L) = ∑i< j

M2i j i, j = 1,2, . . . ,n (131)

In questo caso non si ha piu una dimostrazione geometrica semplice (che io sappia) di (130), ma si puodimostrare algebricamente la versione algebrica (131) e si ottiene comunque il risultato. Vi sono an-che generalizzazioni per il calcolo del volume k dimensionale di un parallelotopo generato dai vettorib1, . . .bk ∈ Rn, ma queste richiedono, anche soltanto per essere formulate precisamente, l’introduzionedi uno specifico linguaggio: l’algebra delle forme multilineari antisimmetriche. Vedremo l’inizio di questastrada nelle prossime lezioni, arrivando almeno all’integrazione delle 2-forme differenziali sulle superficiparametrizzate.

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17.2 Area di una superficie parametrizzata

In questa sezione vogliamo definire l’area di una superficie parametrizzata ψ : A→Rn di classe C1(A), doveA⊂R2 e un aperto e n≥ 2. Utilizzeremo le notazioni stabilite nella sezione 6.3. In particolare, u = (u1,u2)

e la variabile in A e x = (x1, . . . ,xn) e la variabile nello spazio di arrivo Rn. La derivata parziale ∂ψ

∂u1 di ψ

rispetto a u1 e un vettore n-dimensionale che denotiamo anche D1ψ e analogamente si ha per D2ψ. Inoltrechiameremo jacobiano della mappa ψ nel punto u ∈ A il numero

Jψ(u) :=√

det(Dψ(u)T Dψ(u)) (132)

dove Dψ(u) e la matrice jacobiana

D jψi(u)

i j, dove i = 1,2 e j = 1, . . . ,n, le cui colonne sono i vettoriD1ψ(u) e D2ψ(u). Nel caso n = 2 si lo jacobiano appena definito coincide con quello definito nel teorema7.4.1, poiche detLT = detL e det(LT L) = detLT ·detL. Possiamo quindi scrivere anche

Dψ(u)T Dψ(u) =

D1ψ ·D1ψ D1ψ ·D2ψ

D2ψ ·D1ψ D2ψ ·D2ψ

(133)

da cui si vede anche che det(Dψ(u)T Dψ(u)

)≥ 0 . Ricordiamo che la matrice jacobiana rappresenta,

rispetto alle basi standard, l’applicazione differenziale di ψ nel punto u, che si denota dψ(u) e che manda ivettori di base e1, e2 dello spazio R2 (che pensiamo come lo spazio tangente T(u)A all’aperto A nel puntou) nei vettori D1ψ(u) e D2ψ(u). L’immagine dell’applicazione dψ(u) e il sottospazio vettoriale Vu di R3

generato dai vettori D1ψ(u) e D2ψ(u) e il parallelogramma Eu generato dai vettori D1ψ(u) e D2ψ(u) el’immagine attraverso il differenziale dψ(u) del quadrato unitario Q = [0,1]× [0,1] ⊂ R2. Osserviamoche la dimensione dello spazio Vu puo essere 0,1,2. Ricordiamo che se dim(Vu) = 2 allora la superficieparametrizzata si dice regolare nel punto u. Per quanto detto nella sezione precedente abbiamo che

Jψ(u) = area(Eu) =area(dψ(u))

area(Q)(134)

e possiamo pensare allo jacobiano della mappa ψ nel punto u come al fattore di dilatazione dell’area associ-ato alla trasformazione lineare dψ(u). Osserviamo che la superficie parametrizzata ψ e regolare in un puntou se e solo se Jψ(u) = area(Eu) > 0. In modo analogo a quanto gia fatto per la definizione di lunghezzadi una curva e per la formula di cambiamento di variabile negli integrali in piu variabili, diamo quindi laseguente

Definizione 17.2.1 Si dice area della superficie parametrizzata ψ di classe C1(A) il numero

area(ψ) =∫

AJψ(u) du1du2 (135)

quando l’integrale a destra ha senso.

Osserviamo che l’integrale a destra di (135) ha senso anche per mappe ψ che sono di classe C1 a tratti, eper aperti o funzioni non limitate, e puo avere eventualmente il valore +∞. Vedremo piu avanti, nell’am-bito della teoria della misura edell’integrazione secondo Lebesgue, che tale integrale ha senso per funzionianche soltanto lipschiziane e su insiemi A molto generali.

Per quanto affermato nella sezione precedente, se ψ e una superficie parametrizzata a valori in R3 si ha

area(ψ) =∫

A

√M2

12 +M213 +M2

23 du1du2 (136)

dove

M12 := det

D1ψ1 D2ψ1

D1ψ2 D2ψ2

; M13 := det

D1ψ1 D2ψ1

D1ψ3 D2ψ3

; M23 := det

D1ψ2 D2ψ2

D1ψ3 D2ψ3

Osserviamo che, come accade per le curve, una superficie parametrizzata puo non essere iniettiva e ricoprirepiu volte l’immagine. L’area che abbiamo definito e quindi in generale un numero diverso, e maggiore,

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dell’area definita elementarmente dell’immagine. Per fare un esempio molto semplice, immediatamentericavato dal caso delle curve, basta considerare la superficie parametrizzata ψ= [0,4π]× [a,b]→R3, definitada

ψ(u) =(

Rcos(u1),Rcos(u1),u2)

(137)

Si vede subito che la superficie ψ e di classe C1([0,2π]× [a,b]), e regolare e copre due volte il cilindro

S = x ∈ R3 ∣∣ x21 + x2

2 = R2 , a≤ x3 ≤ b

Si ha inoltreD1ψ(u) =

(−Rsin(u1),Rcos(u1),0

), D2ψ(u) =

(0,0,1

)Dψ(u)T Dψ(u) =

R2 0

0 1

area(ψ) =

∫ b

a

∫ 4π

0Rdu1

du2 = 4πR(b−a) = 2area(S)

Come nel caso delle curve, si ha anche per le superfici un importante teorema di invarianza dell’area

Teorema 17.2.2 Siano A e Ω due aperti in R2 e siano ψ : A→Rn e η : Ω→Rn due superfici parametrizzatedi classe C1, ciascuna biiettiva sull’immagine, tali che ψ(A) = η(Ω). Allora si ha area(ψ) = area(η).

Non potremo fare la dimostrazione di questo teorema. Osserviamo pero che grazie ad esso possiamo darela seguente

Definizione 17.2.3 Se M ⊂ Rn ed esiste una superficie parametrizzata ψ : A→Rn di classe C1 (eventual-mente ‘a tratti’) e iniettiva tale che M = ψ(A), allora si pone area(M) := area(ψ).

Indichiamo esplicitamente che nella definizione e nel teorema immediatamente precedenti non occorre chele superfici parametrizzate siano regolari, ne che l’insieme M sia una sottovarieta regolare di Rn. Osservi-amo anche che sui sottoinsiemi di A, anche grandi, dove la superficie non e regolare (ossia dove lo jacobianoe nullo) l’area e nulla.

17.3 Esempi ed esercizi: area di insiemi piani nello spazio

Esempio 17.3.1 Area di un triangolo con un vertice nell’origine. Calcoliamo l’area del triangolo T inR3 che ha vertici

P0 = (0,0,0) ; P1 = (1,0,1) ; P2 = (0,1,1)

Per far questo potremmo usare subito la (126), ma preferiamo scrivere per bene anche la parametrizzazione.Nel seguito del corso calcoleremo anche integrali su insiemi piani nello spazio e vogliamo che le parametriz-zazioni lineari o affini siano ben chiare. Ci occorre trovare un aperto A in R2 e una parametrizzazione C1

biiettiva ψ : A→T . Il triangolo T sta sullo spazio vettoriale V generato dai vettori b1 := P1 e b2 := P2 equindi come parametrizzazione di V possiamo considerare l’applicazione lineare ψ : R2→ R3 definita daψ(e1) = b1 e ψ(e2) = b2, ossia ψ(u) = u1b1+u2b2, dove u = (u1,u2)∈R2. Si vede facilmente (il lettore sene convinca chiaramente) che il triangolo T e l’immagine attraverso ψ del triangolo ∆2 ⊂ R2 che ha vertici0,e1,e2, che chiamiamo simplesso standard 2-dimensionale. Poiche ψ e lineare, essa e anche di classe C1 esi ha precisamente dψ(u) = ψ per ogni u ∈ R2. La matrice jacobiana Dψ e costante e l’area e

area(T ) = Jψ · area(∆2) =√

det(AT A) · 12

dove A e la matrice che rappresenta ψ rispetto alle basi standard, ossia

A =

b1

1 b12

b21 b2

2

b31 b3

2

=

1 0

0 1

1 1

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Si ha quindi

det(AT ·A) = det

|b1|2 b1 ·b2

b1 ·b2 |b2|2

= det

2 1

1 2

= 3

In conclusione si ha cosı area(T ) =

√3

2.

Si verifichi il risultato calcolando l’area di S con i metodi elementari della geometria euclidea (si osserviche T e un triangolo isoscele).

Esempio 17.3.2 Area di un parallelogramma in R4. Calcoliamo la misura area(E), dove E ⊂ R4 e ilparallelogramma che ha come vertici i quattro punti

0 , P1 , P2 , P1 +P2

dove P1 = (1,1,0,0) e P2 = (0,0,1,1) . Sia V il piano su cui giace E e consideriamo la parametriz-zazione lineare ψ : R2→ R4 di V , definita da ψ(u) = u1b1 +u2b2, dove abbiamo posto b1 = P1 e b2 = P2 .Osserviamo che

E = u1b1 +u2b2∣∣ 0≤ u1 ≤ 1 , 0≤ u2 ≤ 1 = ψ(Q)

dove Q = u1e1 + u2e2∣∣ 0 ≤ ui ≤ 1 ⊂ R2 e il quadrato standard in R2. Poiche ψ e lineare, la matrice

jacobiana e lo jacobiano Jψ sono costanti. Se A e la matrice che rappresenta ψ, le colonne di A sono ivettori b1 e b2 e si ha

(Jψ)2 = det(AT ·A) = det

|b1|2 b1 ·b2

b1 ·b2 |b2|2

= det

2 0

0 2

= 4

e in conclusione si haµ2(E) = Jψ ·µ2(Q) = 2 ·1 = 2

Si verifichi il risultato calcolando l’area di E con i metodi elementari della geometria euclidea, dopo averosservato che S e un ... (i vettori b1 e b2 sono ... , poiche b1 ·b2 = ...).

Esempio 17.3.3 Area di un triangolo in un sottospazio affine. Calcoliamo l’area del triangolo T divertici

P0 = (1,0,−3) ; P1 = (−2,1,1) ; P2 = (0,3,−1)

Sia W il piano passante per i punti P0, P1 e P2 e consideriamo la parametrizzazione ψ : R2 → R3 di W ,definita da ψ(u) = P0+u1b1+u2b2 , dove b1 = P1−P0 , b2 = P2−P0 . Consideriamo anche l’applicazionelineare L(u)= u1b1+u2b2 e osserviamo che ψ(u)=P0+L(u) . La mappa ψ e affine e ha matrice jacobianaDψ = L in tutti i punti u ∈ R2. Ricordiamo che il triangolo T si descrive come la combinazione convessadei tre vertici, ossia

T = t0P0 + t1P1 + t2P2∣∣ 0≤ t0 + t1 + t2 ≤ 1 = P0 + t1(P1−P0)t2(P2−P0)

∣∣ 0≤ t1 + t2 ≤ 1

e si vede subito che T e l’immagine attraverso ψ del simplesso standard ∆2. Si ha quindi

area(T ) = Jψ · area(∆2) =√

det(AT A) · 12

dove A e la matrice che rappresenta L rispetto alle basi standard, e precisamente

A =

b1

1 b12

b21 b2

2

b31 b3

2

=

−3 −1

1 3

4 2

Calcolato che

Jψ = det(AT ·A) = det

|b1|2 b1 ·b2

b1 ·b2 |b2|2

= det

26 14

14 14

= 168

si ottiene infinearea(T ) =

√42

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17.4 Esempi ed esercizi: area di un grafico

Un caso importante di parametrizzazione e quello dei grafici. Sia A un aperto di R2 e sia h : A→ R unafunzione di classe C1. Vogliamo calcolare l’area del grafico G di h :

G = (x1,x2,h(x1,x2)) ∈ R3 | (x1,x2) ∈ A

Consideriamo quindi la superficie parametrizzata ψ : A→ R3 definita da

(x1,x2) 7→ ψ(x1,x2) := (x1,x2,h(x1,x2))

che ha componenti ψ1(x1,x2) = x1, ψ2(x1,x2) = x2, ψ3(x1,x2) = h(x1,x2). Evidentemente ψ e iniettiva.Inoltre e di classe C1(A) ed e quindi le sue derivate parziali sonolocalmente limitate su A, ossia sonolimitate su ogni palla chiusa Br(p) ⊂ A. Il differenziale Dψ in un punto (x1,x2) ∈ A e rappresentato dallamatrice 3×2

D1ψ1 D2ψ1

D1ψ2 D2ψ2

D1ψ3 D2ψ3

=

1 0

0 1

D1h D2h

dove le derivate parziali sono calcolate nel punto (x1,x2). Ne segue che

(Jψ)2 = det([Dψ]T ·Dψ

)= 1+(D1h)2 +(D2h)2 (138)

e quindi l’area del grafico G e∫A

Jψdµ2 =∫

A

√1+(D1h)2 +(D2h)2dx1dx2 =

∫A

√1+ |∇h|2dx1dx2 (139)

dove il vettore ∇h = (D1h,D1h) e il gradiente di h.

L’integrale che definisce l’area di un grafico, eventualmente calcolato come limite degli integrali sopra unasuccessione crescente di aperti A j che invadono A, puo avere valore +∞. Se il gradiente di h e limitato suA, allora l’area e localmente finita, ed e finita nel caso in cui l’area di A sia finita. Una situazione in cuicertamente questo accade e quella in cui A e limitato e la funzione h e di classe C1 sulla chiusura di A,poiche in tal caso le derivate parziali, che sono continue su A, sono anche limitate e |∇h| e una funzionelimitata su A. Vediamo qualche esempio.

Esempio 17.4.1 Parametrizzazione di una semisfera come grafico e calcolo dell’area.La funzione h(x,y) =

√R2− (x2 + y2), definita sul cerchio BR(0) = (x,y) | x2 + y2 < R2 di raggio R e

centro l’origine in R2, ha come grafico una semisfera in R3. Le derivate parziali di h sono

∂h∂x

=−x√

R2− (x2 + y2);

∂h∂y

=−y√

R2− (x2 + y2)

quindi l’area della semisfera, per la formula data sopra, e

∫BR

√1+ |∇h|2dxdy =

∫BR

√R2

R2− (x2 + y2)dxdy =

∫ 2π

0

∫ R

0

1√1−(

ρ

R ))2

ρdρ

dove nell’ultimo passaggio si sono utilizzate le coordinate polari nel piano. L’ultimo integrale si puocalcolare ad esempio con la sostituzione ρ = Rsin t e si ottiene che l’area della semisfera e 2πR2.

Esercizio 17.4.2 Rappresentare il grafico della funzione h(x,y) = x2 + y2 sul cerchio BR(0) e calcolarnel’area.

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Il grafico G della funzione h e una porzione di un paraboloide di rotazione (fare un disegno). L’area di G e∫BR(0)

√1+4x2 +4y2dxdy = 2π

∫ R

0

√1+4ρ2ρdρ =

π

6

[t

32

]ρ=R

ρ=0=

π

6[(1+4R)

32 −1]

dove si e usata la sostituzione t = 1+4ρ2.

Esempio 17.4.3 Area del grafico di una funzione non limitata. Consideriamo la funzione h(x,y) =1√

x2+y2definita sull’aperto A = 0 < x2 + y2 < R2.

La funzione h e di classe C1 su A. Per visualizzare il grafico G si puo ad esempio disegnare la sezione Γ

di G con il piano verticale xz. Tale sezione e la curva Γ che e il grafico della funzione z = u(x) =1|x|

per

x ∈ (0,1). Poi si osserva che la superficie G e ottenuta ruotando la curva Γ intorno all’asse z.Per comprendere il comportamento della funzione h puo essere utile osservare che il suo vettore gradientee

∇h =− (x,y)

(x2 + y2)32

che si puo scrivere anche∇h = v(x,y) · |∇h|

dovev(x,y) = (− x√

x2 + y2,− y√

x2 + y2) = (− x

ρ,− y

ρ)

e dove si e posto ρ2 = x2 + y2 . Osserviamo che il vettore v ha modulo 1, che |∇h| = 1x2+y2 = 1

ρ2 , che lelinee di livello di h sono le circonferenze centrate nell’origine. Il gradiente, come sappiamo che deve essere,e ortogonale alle linee di livello, ha la stessa direzione in tutti i punti che si trovano su di una semiretta (oraggio) uscente dall’origine e punta verso l’origine.Le derivate della funzione h non sono limitate su A e l’area potrebbe essere infinita. Per calcolare l’area delgrafico conviene considerare gli aperti Aδ = BR \Bδ, con 0 < δ < R e i grafici Gδ di h su Aδ. La funzione hha gradiente limitato su ciascun Aδ e si ha

area(G) =∫

A

√1+ |∇h|2dxdy = lim

δ→∞

∫Aδ

√1+ |∇h|2dxdy

Utilizzando le coordinate polari abbiamo

∫Aδ

√1+ |∇h|2dxdy = 2π

∫ R

δ

√1+

1ρ4 ·ρdρ

dove ∫ R

δ

ρ

√1+

1ρ4 ≥

∫ R

δ

= lnR− lnδ

e quindi

area(G) ≥ limj→∞

(lnR− ln1j) = +∞

Esercizio 17.4.4 Area dei grafici di una famiglia di funzioni non limitate. Dire per quali valori delparametro α≥ 1 l’area del grafico della funzioneh(x,y) = (x2 + y2)−

α

2 sul cerchio B1 = x2 + y2 < 1 e finita.

Esercizio 17.4.5 Calcolare l’area del grafico della funzione h(x,y) = ln(x2 + y2)α sul cerchioB1 = x2 + y2 < 1

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17.5 Esempi ed esercizi: coordinate sferiche nello spazio e parametrizzazione della sfera

Le coordinate sferiche in R3 sono state introdotte nel corso di Analisi II. Per completezza, ricordiamo chele coordinate sferiche di un punto (x,y,z) si ottengono a partire dalla mappa η : R3→R3 definita comesegue

η : (r,ϕ,θ) 7→ (x,y,z) ;

x = r sinθcosϕ

y = r sinθsinϕ

z = r cosθ

(140)

Una figura si trova facilmente in rete, ad esempio un disegno utile e in Wikipedia sotto la voce ‘sistema diriferimento’. La mappa ψ e di classe C1 su R3, la sua matrice jacobiana e

Dη(r,ϕ,θ) =

sinθcosϕ −r sinθsinϕ r cosθcosϕ

sinθsinϕ r sinθcosϕ r cosθsinϕ

cosθ 0 −r sinθ

(141)

e con un calcolo standard si trova che il determinante jacobiano e Jη(r,ϕ,θ) = r2 sinθ, che e diverso dazero se r 6= 0 e sin(theta) 6= 0. Di conseguenza, la mappa η, ristretta all’aperto

A = (0,+∞)× (0,2π)× (0,π)

e iniettiva, ha jacobiano diverso da zero, e ha come immagine l’aperto

R3 \H

dove H := (x,y,z)∣∣ y = 0,x ≥ 0 e un semipiano. Grazie al teorema del diffeomorfismo locale 6.3.1

si vede subito che η−1 e di classe C1 e quindi η e un diffeomorfismo tra A e R3 \H. La mappa η−1 sichiama sistema di coordinate sferiche nello spazio. La coordinata ρ si chiama talvolta raggio, la coordinataϕ viene chiamata azimut (azimuth in inglese) o anche longitudine e l’angolo θ viene chiamato zenit ( zenithin inglese), o anche colatitudine.Le coordinate sferiche si trovano scritte spesso in forma appena diversa, ma equivalente, con la coordinataθ che indica l’angolo tra il vettore (x,y,z) e il piano equatoriale. In tal caso θ varia tra −π

2 e π

2 e si chiamalatitudine.

Se si restringe la mappa η all’insieme di punti Ω := (r,θ,ϕ) ∈ A∣∣ r = R, dove R e un numero pos-

itivo fissato, allora i valori di η stanno sulla superficie sferica di raggio R. Di conseguenza la mappaψ : Ω→R3 definita ottenuta come restrizione di η e una parametrizzazione regolare e iniettiva da A all’in-sieme M ottenuto togliendo alla sfera di raggio R e centro l’origine il semi-meridiano di quei punti chestanno nel semispazio H detto sopra, ossia i punti per cui y = 0,x≥ 0 (sulla Terra corrisponde al ‘meridianodi Greenwich’). La matrice jacobiana di ψ e

Dψ(ϕ,θ) =

Rsinθsinϕ −Rcosθcosϕ

Rsinθcosϕ Rcosθsinϕ

0 −Rsinθ

(142)

dove R e fissato. Le colonne di questa matrice sono i vettori Dϕψ = ∂ψ

∂ϕe Dθψ = ∂ψ

∂θ, che sono i vettori

tangenti rispettivamente alle curve θ = costante (ossia i paralleli) e ϕ = costante (ossia i meridiani) sullasuperficie sferica. Si calcola subito che

[Dψ]T ·Dψ =

Dϕψ ·Dϕψ Dϕψ ·Dθψ

Dϕψ ·Dθψ Dθψ ·Dθψ

=

(R2 sin2

θ 00 R2

)

e si vede quindi che Jψ(ϕ,θ) = R2 sinθ > 0 per ogni (ϕ,θ)∈Ω. Osserviamo di passaggio che i vettori Dϕψ

e Dθψ sono una base ortogonale del piano tangente alla sfera nel punto ψ(ϕ,θ) e l’area del parallelogramma(un rettangolo in questo caso) generato da questi vettori e lo jacobiano Jψ(ϕ,θ), che e uguale al prodottodelle lunghezze dei lati del rettangolo. A questo punto l’area dell’immagine della superficie parametrizzataψ su Ω e ∫

AJψdµ2 = R2

∫ 2π

0

(∫π

0sinθ

)dϕ = 4πR2

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18 Lezione − Giovedı 15 novembre 2012 13.30 - 15.30 (2 ore)

Seconda prova in itinere

prova n.2 15 novembre 2012

1.Calcolare la lunghezza del grafico G della funzione h : [−k,k]→R definita da h(x) = 1

2 (ex + e−x).

Opzionale: trovare le coordinate del baricentro dell’insieme G.

[R. lunghezza: ek− e−k; coordinate baricentro: x = 0, y =14

1ek− e−k [e

2k− e−2k +4k]]

2.Di ciascuna delle 1-forme differenziali sotto indicate, sull’aperto scritto a fianco, dire a) se e chiusa, b) se eesatta, c) nel caso sia esatta trovare una primitiva.

α(x) = x1dx1− x3dx2 + x2dx3 in R3

β(x,y) = (1+ yexy)dx+ xexydy in R2

[R.: α non e chiusa e quindi neppure esatta; β e chiusa ed esatta e una sua primitiva e x+ exy]

3.Si consideri l’insieme aperto A = x ∈ R2

∣∣ |x| < R , x1 > |x2| . Si mostri che su A vale il teorema delladivergenza per il campo di vettori F(x) = x(1−|x|2)

[R. l’integrale della divergenza e il flusso valgono entrambi π

2 (R2−R4) ]

4.Si calcoli l’area del triangolo T in R3 di vertici

P0 = (−2,0,−1) , P1 = (−2,−2,1) , P2 = (2,3,−1)

[R.√

41 ]

5.Calcolare l’area del grafico della funzione h(x,y) = x2− y2 sull’insieme dei punti del cerchio di raggio R ecentro l’origine, nei quali h(x,y)> 0

[R.π

12[(4R2 +1)3/2−1] ]

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19 Lezione − Venerdı 16 novembre 2012 13.30 - 15.30 (2 ore)

Angoli fra rette e piani in R3. Lunghezza e area delle proiezioni ortogonali. Teorema di Pitagora per

le aree. Prodotto vettoriale. Integrale di una funzione sopra una superficie parametrizzata, rispetto

all’elemento d’area. Vettore normale a una superficie parametrizzata. Casi particolari del teorema

della divergenza in R3.

19.1 Sottospazio ortogonale. Proiezioni ortogonali.

In questa sezione ricordiamo alcune nozioni di geometria ortogonale e stabiliamo le notazioni che useremoin seguito.

Definizione 19.1.1 Due sottospazi V e W di Rn si dicono ortogonali fra loro, se il prodotto scalare v ·w ezero comunque siano presi v ∈V e w ∈W . In tal caso si scrive V⊥W .

Si vede immediatamente che se V⊥W , allora V ∩W = 0 e dimV +dimW ≤ n.

Definizione 19.1.2 Sia V un sottospazio vettoriale di Rn. L’insieme

V⊥ = u ∈ Rn∣∣∣ u · v = 0 ∀v ∈V (143)

si dice spazio ortogonale o anche spazio normale di V . Si vede immediatamente che V⊥ e un sottospaziovettoriale di Rn; precisamente V⊥ e il piu grande sottospazio di Rn ortogonale a V . I vettori di V⊥ si diconovettori normali a (di) V . Anche per un sottospazio affine U = P+V di Rn lo spazio V⊥ si chiama spazioortogonale di U .

Proposizione 19.1.3 Sia V un sottospazio vettoriale di Rn e sia k = dimV . Allora:i) Esiste una base ortonormale b1, . . . ,bn di Rn tale che b1, . . . ,bk e una base di V e bk+1, . . . ,bn e una basedi V⊥; in particolare da questo segue che dimV +dimV⊥ = n.ii) Per ogni u ∈ Rn esiste un’unica coppia di vettori v,w tali che

u = v + w v ∈V , w ∈V⊥ (144)

ossia Rn =V ⊕V⊥ . La (144) si chiama decomposizione ortogonale di u rispetto a V e V⊥.

Dimostrazione. I casi estremi k = 0 e k = n si trattano ad hoc in modo evidente. Supponiamo che 0 < k < n.Sia u1, . . . ,uk una base di V . Si vede facilmente (esercizio) che esistono vettori uk+1, . . . ,un in modo cheu1, . . .un sia una base di Rn. Da tale base, con il procedimento di ortogonalizzazione di Gram-Schmidt,otteniamo una base ortonormale b1, . . . ,bn come enunciato nell’asserzione i).Mostriamo ora ii). Ogni vettore u ∈ Rn si scrive in un unico modo come combinazione lineare dei vettoridella base b1, . . . ,bn:

u = x1b1 + . . .xkbk + xk+1bk+1 + . . .xnbn

e per mostrare l’esistenza della decomposizione basta porre

v = x1b1 + . . .xkbk , w = xk+1bk+1 + . . .xnbn

Infine, per mostrare l’unicita della decomposizione (144), supponiamo che si abbia anche u = α+β, conα ∈V e β ∈V⊥. Scrivendo α = y1b1+ . . .ykbk e β = zk+1bk+1+ znbn, per l’unicita delle coordinate rispettoalla base b1, . . . ,bn, si ottiene che v = α e w = β.

Definizione 19.1.4 Proiezione ortogonale Con le notazioni della proposizione precedente, l’applicazionepV : Rn→Rn che a ogni u ∈ Rn associa il vettore pV (u) := v determinato da (144) si dice proiezioneortogonale sul sottospazio V .

Proposizione 19.1.5 i) La proiezione ortogonale pV e una applicazione lineare da Rn in se stesso, la cuiimmagine e V . ii) Per ogni vettore u ∈ Rn si ha |pV (u)| ≤ |u|.

La dimostrazione della proposizione 19.1.5 e molto semplice e si raccomanda comunque di farla peresercizio.

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Esercizio 19.1.6 Sia W un sottospazio vettoriale di Rn. Per ogni vettore v ∈ Rn consideriamo la funzionefv : Rn→ R definita da fv(x) = ‖x− v‖. Si mostri che la funzione fv ristretta al sottospazio W ha un unicopunto di minimo e che tale punto e pW (v).

La proprieta enunciata nell’esercizio precedente non ci occorre immediatamente, ma l’abbiamo ricordataperche permette di definire la proiezione ortogonale senza utilizzare le basi ed e concettualmente impor-tante; inoltre e un buon esercizio di calcolo differenziale in piu variabili; infine, per questa via, si puoestendere il concetto di proiezione ortogonale agli spazi di Hilbert (ossia gli spazi vettoriali H di dimen-sione infinita, sui quali e dato un prodotto scalare definito positivo g, tale che H sia uno spazio metricocompleto rispetto alla distanza indotta dal prodotto scalare g).

Osservazione 19.1.7 Sia V un sottospazio 1-dimensionale (o retta vettoriale) in Rn e sia v ∈ V tale che|v|= 1. Allora per ogni vettore u ∈ Rn si ha la decomposizione ortogonale

u = (u · v)v +(u− (u · v)v

)(145)

e quindipV (u) = (u · v)v ; |pV (u)| = |(u · v)| (146)

Osserviamo che se si prende il vettore unitario −v il valore della formula che da la proiezione ortogonalesu V deve rimanere lo stesso, infatti: (u · v)v = (u · (−v))(−v).

19.2 Angolo fra due vettori, angolo fra due rette; angolo fra due piani in R3.

Ricordiamo che la funzione cosx := ∑∞k=1

(−1)kx2k

(2k)! , definita nel corso di Analisi 1, ristretta all’intervallo[0,π], e monotona decrescente, invertibile e ha come immagine l’intervallo [−1,1]. Ricordiamo anche chesi dice angolo tra due vettori u,v ∈ Rn, l’unico numero αuv ∈ [0,π] tale che

u · v = |u| |v| cosαuv (147)

Osserviamo che se u · v > 0, allora 0≤ αuv <π

2 , e se u · v < 0, allora π

2 < αuv ≤ π. Osserviamo inoltre chese |u| = |v| = 1 allora u · v = cosαuv . Vediamo infine che se v = (v1, . . .vn) ∈ Rn ha norma |v| = 1, perogni i = 1, . . .n si ha vi = v · ei = cosαi dove αi e l’angolo tra il vettore unitario v e l’i-esimo vettore dellabase standard ei. Per questo motivo talvolta le coordinate di un vettore unitario (ossia di lunghezza 1) sichiamano coseni direttori.

Due rette che si intersecano in un punto individuano un piano nel quale determinano due angoli. Il minoredei due (oppure il valore comune se formano due angoli uguali) e quello che si considera angolo tra le duerette non orientate. Precisamente diamo la seguente

Definizione 19.2.1 Siano r ed s due sottospazi vettoriali di dimensione uno in Rn, ossia due rette vettoriali.Si dice angolo tra le rette r ed s il numero αrs ∈ [0, π

2 ] tale che

|u · v|= |u| |v| cosαrs (148)

Definizione 19.2.2 Siano V ed W due sottospazi vettoriali di dimensione due in R3, ossia due piani vetto-riali. Si dice angolo αVW tra V e W l’angolo α`m tra le rispettive rette normali ` = V⊥ e m =W⊥. In altritermini, se nW e nV sono vettori normali rispettivamente a W e a V , tali che |nW |= |nV |= 1 , allora

cosVW = |nV ·nW |

Esercizio 19.2.3 Siano V ed W due piani vettoriali in R3, con V 6= W , allora l’intersezione U = V ∩W euna retta vettoriale. Si considerino le due rette vettoriali r :=U⊥∩V , s =U⊥∩W . Si mostri che α`m = αrs.

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19.3 Lunghezza e area delle proiezioni ortogonali. Dimostrazione del Teorema di Pitagora per learee.

Proposizione 19.3.1 i) Siano r, s rette vettoriali in Rn. Sia I un segmento sulla retta s e sia πr : Rn→Rn laproiezione ortogonale su r. Allora si ha `(πr(I)) = `(I)cosαrs.ii) Siano V ed W piani vettoriali in R3. Sia E un rettangolo in V e sia πW : R3→R3 la proiezione ortogonalesu W . Allora si ha area(πW (E)) = area(E)cosαVW . In altri termini, se nW e nV sono vettori normalirispettivamente a W e a V , tali che |nW |= |nV |= 1 , allora

area(πW (E)) = area(E)|nW ·nV | (149)

Dimostrazione. i) Siano P,Q ∈ Rn gli estremi di I. Si ha `(πr(I)) = |πr(P−Q)| = |(P−Q)| · |cosαrs| =`(I) · |cosαrs|ii) L’enunciato e ovvio se V =W . Consideriamo il caso V 6=W e consideriamo la retta vettoriale U =V ∩W .Dimostriamo l’enunciato solamente per i rettangoli in V che hanno un lato parallelo alla retta U ; per ottenereil risultato per insiemi piu generali, questi devono essere approssimati con unioni di rettangoli del tipodetto13. Consideriamo allora il piano normale U⊥ a U e consideriamo le rette r =U⊥∩V e s =U⊥∩W ;(a questo punto suggeriamo fortemente al lettore, se non lo ha gia fatto, di fare un disegno) prendiamo poiun rettangolo E su V , con i lati paralleli a U e a r, lunghi rispettivamente a e b, la sua proiezione ortogonaleπW (E) su W e un rettangolo in W con i lati paralleli a U e a s, che hanno lunghezza rispettivamente a ebcosαrs = cosαVW . Quindi area(πW (E)) = area(E)cosαVW . Questo per me conclude la dimostrazione.Se pero si sente l’esigenza di formalizzare maggiormente la dimostrazione, si puo procedere come segue: si prende unvettore u∈U tale che |u|= 1 e si prende inoltre un vettore v∈ r con |v|= 1; la coppia u,v e quindi una base ortonormaledi V ; si considera la proiezione ortogonale η = πW (v) di v su W e si vede che e ortogonale a U , quindi appartiene allaretta s; infine si mostra che l’angolo αrs e uguale all’angolo tra le rette normali a r e a s nel piano U⊥, ossia αrs = αVW .D’altra parte si considera l’insieme E = xu+ yv

∣∣ 0≤ x≤ a , 0≤ y≤ b e si vede che

πW (E) = aπW (u)+bπW (v)∣∣ 0≤ x≤ a , 0≤ y≤ b = au+bη

∣∣ 0≤ x≤ a , 0≤ y≤ b1

da cui segue chearea(πW (E)) = |u| · |η| = |u| · |v| · cosαVW

Possiamo ora precisare il risultato gia anticipato nella (128)

Teorema 19.3.2 Siano b1 e b2 vettori linearmente indipendenti in R3 e sia

E = u1b1 +u2b2∣∣ 0≤ u1,u2 ≤ 1

il parallelogramma generato da b1 e b2. Comunque presi i, j ∈ 1,2,3 con i < j, sia poi Ei j la proiezioneortogonale di E sul piano coordinato generato da ei,e j. Si ha allora

area(E)2 = area(E12)2 + area(E13)

2 + area(E23)2 (150)

Dimostrazione. Sia n = (n1,n2,n3) un vettore normale al piano V generato da b1 e b2. Per ogni pianocoordinato i j, grazie alla proposizione 149,ii) si ha area(E) = |n · ek|area(Ei j) , dove il vettore di base ek equello ortogonale a entrambi ei ed e j, e dove n · ek = nk . Si ha pertanto

area(E12) = area(E)|n3| , area(E13) = area(E)|n2| , area(E23) = area(E)|n1|

da cui, prendendo i quadrati e sommando, si ottiene la (150)

Esercizio 19.3.3 Si consideri il triangolo T = (x,y,z) ∈ R3∣∣ x > 0 , y0 , z > 0 , x+ y+ z = 1 e se ne

calcoli l’area: i) con metodi elementari; ii) utilizzando il teorema 19.3.2.

13Potremmo fare ora queste approssimazioni per figure semplici, con metodi elementari, ma aspettiamo a farle piu in generale perla misura di Lebesgue.

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19.4 Integrale di una funzione sopra una superficie parametrizzata, rispetto all’elemento di area.

Utilizzeremo qui le notazioni della sezione 17.2. In particolare ψ : A→Rn e una superficie parametrizzatadi classe C1(A), dove A⊂ R2 e un aperto e n≥ 2, e Jψ(u) e lo jacobiano di ψ definito in (132).

Definizione 19.4.1 Sia M := ψ(A) e sia f : M→R. Si dice integrale della funzione f sopra (o lungo) lasuperficie parametrizzata ψ rispetto all’elemento d’area, il numero∫

ψ

f dσ =∫

Af (ψ(u))Jψ(u) du1du2 (151)

quando l’integrale a destra ha senso.

L’integrale a destra della (151) e definito ad esempio se ψ e di classe C1(A), dove A e un intervallo limitato,oppure un cerchio, oppure e compreso tra due grafici, e la funzione f e continua. Infatti in tal caso la fun-zione integranda f (ψ(u))Jψ(u) e continua ed esiste l’integrale di Cauchy. Vedremo pero piu avanti chel’integrale nel senso di Lebesgue esiste sotto condizioni molto piu generali.Anche per l’integrale rispetto all’elemento d’area si ha un risultato di invarianza rispetto alla parametriz-zazione.

Teorema 19.4.2 Siano A e Ω due aperti in R2 e siano ψ : A→Rn e η : Ω→Rn due superfici parametrizzatedi classe C1, ciascuna biiettiva sull’immagine, tali che ψ(A) = η(Ω) =: M. Allora, per ogni funzionecontinua f : M→R si ha

∫ψ

f dσ =∫

ηf dσ.

Non dimostreremo questo teorema. Osserviamo pero che grazie ad esso possiamo dare la seguente

Definizione 19.4.3 Se M ⊂ Rn ed esiste una superficie parametrizzata ψ : A→Rn di classe C1 (eventual-mente ‘a tratti’) e iniettiva tale che M = ψ(A), allora si pone

∫M f dσ :=

∫ψ

dσ.

In modo analogo a quanto fatto per le curve, possiamo definire il baricentro G = (G1,G2,G3) di un insiemeM, immagine di una superficie parametrizzata iniettiva ψ : A→Rn di classe C1, ponendo per ogni i = 1,2,3

Gi :=1

area(M)

∫M

xidσ =1

area(M)

∫A

ψi(u)Jψ(u)du1du2 (152)

Esercizio 19.4.4 i) Calcolare le coordinate del baricentro della superficie laterale di un cono circolare rettodi altezza h e raggio di base R. E piu basso il baricentro del cono pieno o quello della superficie laterale?ii) Calcolare le coordinate del baricentro delle due porzioni in cui una sfera di raggio R viene divisa da unpiano che dista h < R dal centro.

Esercizio 19.4.5 i) Calcolare l’integrale∫

S(x2 + y2)dσ dove S e la sfera di raggio R e centro l’origine

nello spazio 3-dimensionale dove le coordinate sono chiamate x,y,z. Tale integrale rappresenta il momentodi inerzia della sfera S rispetto all’asse z.

Gli esercizi che riguardano la sfera e conveniente farli utilizzando le coordinate sferiche. Puo essere interes-sante vedere in rete come vengono calcolati dai fisici e dagli ingegneri in modo essenzialmente equivalente,ma con un linguaggio un po’ piu elementare, e un maggior uso di intuizione e considerazioni geomet-riche. Ad esempio si puo vedere http://www.matematicaescuola.it/materiale/fisica/dinamica_rotazionale/guscio_sferico.htm.

In diverse situazioni interessa calcolare l’integrale di una funzione sopra un insieme

M = M0∪M1∪·· ·∪Mp

dove M0 e unione finita di curve, gli insiemi M j sono due a due disgiunti e ciascun M j e immagine di unasuperficie parametrizzata (questo e il caso ad esempio se M e una sfera, o il bordo di un intervallo, o ilbordo di una semisfera). In tal caso l’integrale su M e la somma degli integrali sugli M j. Naturalmenteoccorrerebbe verificare che il risultato non dipende dalla decomposizione... in effetti e sempre piu chiaroche questo modo di definire gli integrali sulle superfici puo andare bene per trattare singoli specifici casi,come accade nelle applicazioni dell’ingegneria o anche della fisica, ma e insoddisfacente dal punto di vistadella trattazione teorica generale... speriamo di riuscire entro la fine del corso almeno a introdurre alcunielementi della teoria della misura di Hausdorff 2-dimensionale e dell’integrale rispetto a questa misura.

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19.5 Prodotto vettoriale di due vettori in R3 e vettore normale a una superficie.

Siano u = (u1,u2,u3), v = (v1,v2,v3) due vettori linearmente indipendenti in R3. Ci poniamo il problemadi trovare un vettore w = (w1,w2,w3) che sia ortogonale a entrambi, ossia un vettore dello spazio normaleal piano generato da u e v. Le condizioni di ortogonalita appena dette si esprimono nel sistema

w1u1 +w2u2 +w3u3 = 0w1v1 +w2v2 +w3v3 = 0

(153)

Per l’ipotesi di lineare indipendenza, almeno uno dei minori

M12 := det

u1 u2

v1 v2

; M13 := det

u1 u3

v1 v3

; M23 := det

u2 u3

v2 v3

(154)

e diverso da zero. Supponiamo che sia M12 6= 0. Possiamo allora risolvere il sistema rispetto a w1 e w2,ponendo w3 = 1, e otteniamo il vettore normale w che ha coordinate

w1 =M23

M12, w2 =

−M13

M12, w3 = 1

Osserviamo che per ogni c 6= 0 anche cw e un vettore normale. Un caso di particolare interesse si ha quandosi prende c = M12 :

Definizione 19.5.1 Si dice prodotto vettoriale (in inglese cross product o anche vector product ) dei vettoriu e v il vettore

u× v :=(M23,−M13,M12

)(155)

Osservazione 19.5.2 Se indichiamo con E il parallelogramma generato da u e v, e per i < j indichiamo conEi j la proiezione di E sul piano coordinato generato da ei,e j, si ha Mi j = area(Ei j. Per il teorema (19.3.2)si ha allora che |u× v| = area(E), ossia |u× v| = |u| |v|sinα , dove α e l’angolo tra i due vettori. Infineosserviamo che e1×e2 = e3. Abbiamo cosı ritrovato la definizione comunemente data in Fisica: il prodottovettoriale di due vettori non allineati u, v e un vettore, il cui modulo e il numero |u| |v|sinα, la cui direzionee ortogonale a entrambi u e v, e ha come verso quello in cui avanza una vite destrogira che viene avvitataportando il vettore u verso il vettore v dalla parte dove c’e l’angolo minore.

Tenuto conto di quanto abbiamo appena visto, se M e una sottovarieta regolare di R3 e ψ : A→R3 e unaparametrizzazione regolare di M, allora per ogni u ∈ A i due vettori D1ψ(u) e D2ψ(u) sono una base delpiano tangente TxM a M nel punto x = ψ(u) e il vettore D1ψ(u)×D2ψ(u) e normale a TxM, ossia allasuperficie M in x.

Esempio 19.5.3 Sia A un rettangolo in R2 e sia h : A→R una funzione di classe C1(A). Sia M il graficodi h su A. Consideriamo la parametrizzazione ψ(x1,x2) = (x1,x2,h(x1,x2)) Il vettore normale unitario a M,diretto verso l’alto, nel punto p = ψ(x1,x2) = (x1,x2,h(x1,x2)) e

ν(p) =b1×b2

|b1×b2|

dove b1 = D1ψ = (1,0,D1h) e b2 = D2ψ = (0,1,D1h) , e di conseguenza

ν(p) =

(−D1h√1+ |∇h|2

,−D2h√1+ |∇h|2

,1√

1+ |∇h|2,

)

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19.6 esercizi

Esercizio 19.6.1 Sia E = [0,a]× [0,b]× [0,c] ⊂ R3 , sia ν un vettore di lunghezza 1, normale al bordo diE, diretto verso l’esterno e siano f : E→R e F : E→R3 funzioni di classe C1(E). Mostrare che valgonole formule di Green ∫

EDi f (x)dx1dx2dx3 =

∫∂E

f νidσ per i = 1,2,3

e il teorema della divergenza ∫E

divF(x)dx1dx2dx3 =∫

∂EF ·νdσ

Esercizio 19.6.2 Sia Ω = [0,a]× [0,b] e sia h : Ω→R di classe C1(Ω) tale che h(x)≥ c > 0 ∀x ∈Ω. Siconsideri l’aperto A = (x, t)

∣∣ x ∈Ω , 0 < h(x) e sia f : A→R di classe C1(A). Si mostri che∫A

D3 f (x)dx1dx2dx3 =∫

∂Af ν3dσ

Esercizio 19.6.3 Si osservi che l’insieme E = x ∈ R3∣∣ |x| < R , x1 > 0 , x2 > 0 , x3 > 0 (un ottavo

della palla di raggio R) si puo vedere come grafico rispetto a ciascuno dei piani coordinati e che quindi,per l’esercizio precedente, in E valgono le formule di Green e il teorema della divergenza. Si mostri poiformalmente che tali teoremi valgono anche nello spicchio F = x ∈ R3

∣∣ |x|< R r x1 > 0 , x2 > 0 (ossiaun quarto della palla di raggio R) e poi nella mezza palla e infine nella palla BR.

Esercizio 19.6.4 Si utilizzi il teorema della divergenza per il campo di vettori F(x) = x sulla palla BR indimensione 3 per trovare l’area della sfera ∂BR. Si generalizzi alla dimensione n (ad esempio: il volume3-dimensionale della sfera di raggio 1 in R4 e 2π2).

19.7 Divergenza del campo elettrostatico generato da una carica puntiforme

Consideriamo il campo di vettori F(x) =x|x|3

=−∇1|x|

definito sull’aperto A = R3 \0. Con semplici

calcoli, che pero il lettore deve comprendere bene, abbiamo

Di |x| =xi

|x|

Di |x|−3 = −3 |x|−4 Di |x| = −3 |x|−4 xi

|x|= −3xi |x|−5

divF(x) =3

∑i=1

Di

(xi |x|−3

)=

3

∑i=1

(xi Di |x|−3 + Dixi |x|−3

)= −3

3

∑i=1

x2i |x|−5 +3|x|−3 = 0

Ne segue pertanto che ∫∂Ω

F ·νdσ =∫

Ω

divFdx1dx2dx3 = 0 (156)

per ogni aperto Ω⊂ A, dove ν e il vettore normale unitario esterno a ∂Ω. D’altra parte osserviamo che∫∂Br

F ·νdσ = 4π (157)

per ogni palla Br con centro nell’origine e che da questo, applicando il teorema della divergenza all’apertoΩ\Br, segue immediatamente∫

∂Ω

F ·νdσ =∫

Ω\Br

divFdx1dx2dx3 +∫

∂Br

F ·νdσ = 4π (158)

dove Br e una palla con centro nell’origine, tale che Br ⊂Ω. In conclusione abbiamo provato che

Proposizione 19.7.1 Per ogni aperto A lipschitziano in Rn si ha∫∂A

F ·νdσ =

4π se 0 ∈ A0 se 0 /∈ A (159)

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19.8 Area di una superficie di rotazione e teorema di Guldino.

Questa sezione non e stata discussa a lezione, ma i contenuti saranno presenti nelle esercitazioni.

Consideriamo uno spazio R3 nel quale utilizziamo le coordinate x,y,z . Sia I un intervallo aperto sull’assez e sia g : I→ R una funzione di classe C1 tale che g(z)> 0 per ogni z ∈ I. Sia inoltre

C = (z,x) ∈ R×R | z ∈ I, x = g(z)

il grafico della funzione g nel piano xz. Vogliamo calcolare l’area della superficie S ottenuta ruotandonello spazio la curva C intorno all’asse z. A tal fine ci occorre una parametrizzazione della superficie S.Consideriamo dunque l’aperto A = (0,2π)× I e la funzione ψ : A→ R3 definita da

ψ : (ϕ,z) 7→ (x,y,z) ;

x = g(z)cosϕ

y = g(z)sinϕ

z = z(160)

Si vede che la funzione ψ e iniettiva e di classe C1 e che S = ψ(A) a meno di una curva che ha misura H 2

nulla. Si ha poi

Dψ =

−g(z)sinϕ g′(z)cosϕ

g(z)cosϕ g′(z)sinϕ

0 1

e si ottiene (Jψ)2 = g(z)2(1+[g′(z)]2). In conclusione l’area di S e

H 2(S)) =∫

AJψdµ2 =

∫ 2π

0dϕ

∫Ig(z)

√1+[g′(z)]2dz = 2π

∫Ig(z)

√1+[g′(z)]2dz (161)

Dimostriamo infine il

Teorema 19.8.1 Teorema di Pappo-Guldino Se S e una superficie ottenuta ruotando un curva C intorno auna retta, allora l’area di S e uguale al prodotto della lunghezza di C per la lunghezza della circonferenzapercorsa dal baricentro di C nella rotazione.

Dimostrazione. Consideriamo una superficie S e una curva C come descritte all’inizio della sezione.Osserviamo che nel piano xz la coordinata xG del baricentro della curva C e

xG =1

H 1(C)

∫C

xdH 1 =1

H 1(C)

∫Ig(z)

√1+[g′(z)]2dz

dove nel secondo passaggio si e utilizzata la parametrizzazione ψ : z 7→ (g(z),z) . La tesi segue immediata-mente osservando che la (161) si puo scrivere anche

H 2(S)) = 2πxG ·H 1(C) (162)

dove 2πxG e la lunghezza della circonferenza che viene percorsa dal baricentro G di C nella rotazione.

Il teorema appena dimostrato va anche sotto il nome di ‘Primo Teorema di Guldino’. Il secondo teoremadi Guldino afferma invece che il volume di un solido di rotazione E e uguale al prodotto dell’area dellafigura F che, ruotando, genera il solido, per la lunghezza della circonferenza percorsa dal baricentro di F .Il lettore e invitato a dimostrare tale enun ciato come semplice esercizio sull’uso delle coordinate polari (ocilindriche in questo caso, ma e la stessa cosa).

Esercizio 19.8.2 Ricalcolare con la nuova formula (161) l’area delle superfici di rotazione considerate negliesercizi della sezione precedente, in particolare l’area della sfera e valutare la convenienza dei due metodi.Il teorema di Guldino, puo anche essere usato per ricavare rapidamente una coordinata del baricentro di unacurva, se e nota l’area della superficie di rotazione.

Esercizio 19.8.3 Calcolare l’area della superficie T 2 (toro 2-dimensionale), che si ottiene ruotando intornoall’asse z un cerchio nel piano xz di raggio r e centro (x = R,z = 0), con 0 < r < R. [Risultato: 2πr ·2πR]

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20 Lezione − Lunedı 19 novembre 2012 10.30 - 12.30 (2 ore)

Funzioni multilineari, prodotto tensoriale di covettori, tensori covarianti. Funzioni multilineari

alternanti, prodotto esterno di covettori, significato geometrico, basi e dimensione del prodotto

esterno.

20.1 Funzioni multilineari, prodotto tensoriale di covettori e tensori covarianti.

Definizione 20.1.1 Siano V , W spazi vettoriali su un campo K. Una applicazione

f : V ×V · · ·×V︸ ︷︷ ︸k

−→W , f : (v1, . . .vk) 7−→ f (v1, . . .vk)

si dice multilineare oppure k-lineare, se e lineare in ciascuno degli argomenti vi, tenendo gli altri fissati.Una funzione multilineare si dice simmetrica se, scambiando tra loro i valori di due argomenti, il suo valorenon cambia; si dice antisimmetrica o alternante se, scambiando tra loro i valori di due argomenti, il suovalore cambia segno.

D’ora in poi V sara uno spazio vettoriale su R di dimensione finita n e denoteremo Multk(V ) lo spaziodelle funzioni k-lineari definite su V ×V · · ·×V︸ ︷︷ ︸

k

a valori in R. Gli elementi di Multk(V ) si dicono anche

forme k-lineari su V .

Definizione 20.1.2 Un modo tipico di ottenere una forma k-lineare f su V e il seguente: si prendono kforme lineari f 1 , . . . f k ∈ V ∗ e si pone

f (v1, . . .vk) = f 1(v1) · f 2(v2) · . . . · f k(vk)

la forma f si denota f 1⊗ f 2⊗·· ·⊗ f k e si dice prodotto tensoriale delle forme lineari f 1 , . . . f k (nell’ordineindicato).

Si vede subito che l’applicazione

⊗k : ( f 1, f 2, . . . f k)) 7−→ f 1⊗ f 2⊗·· ·⊗ f k , ⊗k : V ∗×V ∗ · · ·×V ∗︸ ︷︷ ︸k

−→Multk(V )

e k-lineare. Anche questa applicazione si chiama prodotto tensoriale. Infine, lo spazio Multk(V ) vienedenotato anche V ∗⊗V ∗⊗ . . . ⊗V ∗︸ ︷︷ ︸

k

e si dice che e il prodotto tensoriale di k copie di V ∗. Gli elementi di

Multk(V ) si dicono tensori (covarianti) di ordine k su V .

Puntiamo ora l’attenzione in particolare sulle forme bilineari14 su V = Rn, ossia gli elementi dello spazioMult2(Rn) = V ∗⊗V ∗ che denotiamo anche Bil(Rn). Come si e detto appena sopra, le forme bilineari sidicono anche tensori (covarianti) di ordine 2 su Rn. Vogliamo trovare una base di questo spazio. Sia allorae1, ... en la base standard in Rn∗. Per ogni coppia di indici i, j tra 1 e n possiamo considerare la formabilineare ei⊗ e j definita da

[ei⊗ e j](u,v) := ei(u)e j(v) = uiv j ∀u,v ∈ Rn

dove le parentesi quadre intorno a ei ⊗ e j non sarebbero necessarie, ma le scriviamo come aiuto allapercezione, perche pensiamo siano utili per vedere unitariamente l’oggetto ei ⊗ e j che opera sulla cop-pia (u,v); non scriveremo sempre tali parentesi quadre! Se ora prendiamo η ∈ Bil(Rn) , per ogni coppia divettori u,v ∈ Rn possiamo scrivere

η(u,v) = η(n

∑i=1

uiei,n

∑j=1

v je j) =n

∑i=1

n

∑j=1

uiv jη(ei,ei) =

n

∑i=1

n

∑j=1

η(ei,ei)[ei⊗ e j](u,v) (163)

14Ma le cose che diremo si possono estendere in modo evidente alle forme k-lineari

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e abbiamo quindi

η =n

∑i=1

n

∑j=1

ηi jei⊗ e j

dove abbiamo posto ηi j = η(ei,ei) . In altre parole l’insieme delle forme bilineari

ei⊗ e ji, j=1,...,n (164)

e un insieme di generatori dello spazio Bil(Rn). Mostriamo ora che l’insieme (164) e anche linearmenteindipendente. Per far questo e sufficiente mostrare che se vale

n

∑i=1

n

∑j=1

ci jei⊗ e j = 0 (165)

allora tutti i coefficienti ci j sono uguali a zero, ma questo e immediato, infatti: per ogni coppia h,k ∈1,2, ...,n, da (165) segue

0 =n

∑i=1

n

∑j=1

ci j[ei⊗ e j](ek,ek) = ch,k

In conclusione abbiamo provato la

Proposizione 20.1.3 L’insieme indicato in (164) e una base di Bil(Rn) = Rn∗ ⊗Rn∗. Tale spazio hadimensione n2.

In modo analogo si vede che l’insieme di forme trilineari ei⊗ e j⊗ e`i, j,`=1,...,n e una base dello spazioMult3(Rn) = Rn∗⊗Rn∗⊗Rn∗, che quindi ha dimensione n3. Ogni elemento ξ∈Mult3(Rn) si scrive quindiin uno e un solo modo come combinazione linerare del tipo

ξ =n

∑i=1

n

∑j=1

n

∑`=1

ξi j`ei⊗ e j⊗ e` (166)

dove ξi j`i, j,`=1,...,n sono numeri reali, che si dicono coefficienti del tensore xi.In generale, per qualsiasi k ∈ N, l’insieme

ei1 ⊗ ei2 ⊗·· ·⊗ eiki1,i2...ik=1,...,n

e una base dello spazio Multk(Rn) = Rn∗⊗Rn∗⊗ ...⊗Rn∗︸ ︷︷ ︸k

, che quindi ha dimensione nk

Osservazione 20.1.4 La forma bilineare η in (163) si puo scrivere in modo equivalente in notazione matri-ciale

η(u,v) = uT ·N · v

dove N e la matrice di elementi ηi j, u e v sono vettori colonna e uT e il vettore riga che si ottiene comematrice trasposta di u. Per avere una notazione grafica analoga per i tensori di ordine 3, ossia le formetrilineari, o piu in generale per i tensori di ordine k, occorrerebbero ‘matrici’ ‘cubiche’ o in dimensionek. Questo e evidentemente inaccessibile alla nostra percezione e si deve quindi usare la notazione con gliindici come in (166). In queste formule spesso si omette il segno di sommatoria nel caso di indici ripetuti inalto e in basso (convenzione di Einstein) http://en.wikipedia.org/wiki/Einstein_notation. Conquesta convenzione la (163) diventa

η(u,v) = η(uiei,v je j) = uiv jη(ei,ei) = η(ei,ei)[ei⊗ e j](u,v)

e la (166) diventaξ = ξi j`ei⊗ e j⊗ e`

Esercizio 20.1.5 Scrivere la matrice che rappresenta i seguenti tensori covarianti di ordine 2 su R4:i) e3⊗ e4 , e1⊗ e1 , e1⊗ e2 + e2⊗ e1

Esercizio 20.1.6 Sia µ : Rn∗×Rn∗→R una applicazione bilineare. Si mostri che esiste una ed una solaapplicazione lineare λ : Bil(Rn)→R, ossia λ : Rn∗⊗Rn∗→R, tale che µ( f ,g) = λ( f ⊗g).

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La parte conclusiva di questa sezione non e stata fatta a lezione e viene inserita per completezza. Puo darsi che vengasvolta in lezioni successive. La situazione dell’esercizio precedente si esprime dicendo che l’applicazionebilineare µ viene fattorizzata dal prodotto tensoriale e dall’applicazione lineare λ. Questa proprieta sichiama proprieta di fattorizzazione universale del prodotto tensoriale e puo essere usata per definire ilprodotto tensoriale di due spazi vettoriali generali in modo intrinseco, senza ricorrere a una base.

Definizione 20.1.7 Sia E ⊂ Rn. Si dice campo di tensori (covarianti) di ordine 2 su E una applicazioneT : E→Bil(Rn) = Rn∗⊗Rn∗. Per ogni x ∈ E si puo scivere il tensore T (x) come combinazione linearedegli elementi di base ei⊗ e j:

T (x) = Ti j(x)ei⊗ e j (167)

I coefficienti Ti j, che sono funzioni di x, si dicono coefficienti del campo di tensori T .

Spesso un campo di tensori viene identificato con l’insieme dei coefficienti Ti j(x). Molto spesso ci siriferisce a un campo di tensori T (x) chiamandolo semplicemente tensore, questo potrebbe portare a qualcheconfusione, che pero di solito e facilmente superabile grazie al contesto.

Osserviamo che un campo di covettori su A (ossia una forma differenziale su A) si puo vedere come uncampo di tensori covarianti (o semplicemente un tensore covariante) di ordine 1 su Rn. Infatti, per ognix ∈ A, si ha α(x) ∈Rn∗ = Mult1(Rn). Dati due campi di covettori α e β su A, possiamo definire il campo ditensori di ordine due α⊗β su A, definito da

[α⊗β](x) := α(x)⊗β(x)

In particolare, per ogni coppia di indici i, j ∈ 1, ...,n possiamo considerare il campo di tensori dxi⊗dx j,che ad ogni punto x ∈ A associa il tensore ei⊗ e j e la (167) si puo scrivere anche

T (x) = Ti j(x)dxi⊗dx j (168)

Esempio 20.1.8 Sia α = αidxi un campo di covettori, ossia un tensore covariante di ordine 1, allora si puoconsiderare il tensore covariante di ordine 2 definito da

Ti j(x) =∂αi

∂x j(x)

Le combinazioni lineari di derivate di tensori covarianti di ordine k sono il modo tipico per produrre tensoricovarianti di ordine k+1.

20.2 Lunghezza di una curva su una di una superficie parametrizzata, prima forma fondamentalee metrica riemanniana.

Questa sezione non e stata fatta a lezione e viene inserita per completezza. Puo darsi che venga svolta in lezioni suc-cessive. Ci poniamo qui il problema di trovare una formula per la lunghezza di una curva differenziabilesu una superficie, in termini di una parametrizzazione della superficie stessa. Questo problema si incontraad esempio se abbiamo una curva σ su una carta geografica e vogliamo calcolare la lunghezza della cor-rispondente curva che si trova sulla superficie terrestre. Ci troveremo naturalmente a considerare un campodi tensori covarianti di ordine 2 simmetrici, che chiameremo prima forma fondamentale della superficie.Formuliamo il problema precisamente come segue:

data una superficie parametrizzata regolare ψ : A→R3 cerchiamo una formula che, per ogni curva σ : I→Adi classe C1, esprima la lunghezza della curva γ = ψσ in termini di σ e di ψ.

Otteniamo facilmente una risposta nel modo che segue. Per trovare la lunghezza di γ dobbiamo integrare suI il modulo del vettore velocita γ′(t). Ricordando che per j = 1,2,3 si ha

γ′j(t) =

2

∑r=1

∂ψ j

∂ur(σ(t))σ′r(t)

possiamo scrivere

||γ′(t)||2 =3

∑j=1

γ′j(t)γ

′j(t) =

3

∑j=1

(2

∑r=1

∂ψ j

∂ur(σ(t))σ′r(t)

)(2

∑s=1

∂ψ j

∂us(σ(t))σ′s(t)

)=

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2

∑r=1

2

∑s=1

(3

∑j=1

∂ψ j

∂ur(σ(t))

∂ψ j

∂us(σ(t))

)σ′rσ′s =

2

∑r,s=1

grs(σ(t))σ′r(t)σ′s(t)

dove si e posto

grs(u) =3

∑j=1

∂ψ j

∂ur(u)

∂ψ j

∂us(u) =

(∂ψ

∂ur(u),

∂ψ

∂us(u))

R3(169)

Quindi abbiamo

`(γ) =∫

I

2

∑r,s=1

grs(σ(t))σ′r(t)σ′s(t)

12

dt =∫

I||σ′(t)||gσ(t)dt (170)

dove || ||gu e la norma associata al prodotto scalare gu in R2 rappresentato dalla matrice grs(u):

gu(v,w) =2

∑r,s=1

grs(u)vrws (171)

In conclusione, la lunghezza della curva γ si ottiene come integrale su I di una opportuna norma || ||gu delvettore velocita σ′(t) di σ, norma che dipende dal punto σ(t) ∈ A per il quale passa la curva. Questa normae determinata per ogni punto u ∈ A da come la funzione ψ ‘trasforma’ lo spazio in una zona infinitesimaintorno a u e lo porta nella superficie ψ(A). La norma || ||gu e associata al prodotto scalare gu ∈ Bil(R2).La forma bilineare gu si dice (Gauss 1827) prima forma fondamentale della superficie parametrizzata ψ inu. La funzione g : A→Bil2 che manda u in gu e un campo di tensori covaranti di ordine 2 simmetrici suA. Accenniamo soltanto che si chiama oggi metrica riemanniana su A⊂ Rp (Riemann 1854) una funzioneche associa ad ogni punto di A un prodotto scalare definito positivo su Rp, non necessariamente ottenuto dauna immersione ψ come in (169). Data una metrica riemanniana su A e naturale definire la lunghezza dellecurve e si possono poi studiare le proprieta della geometria riemanniana cosı ottenuta su A.Accanto ai tensori covarianti su uno spazio vettoriale V si possono considerare i tensori cosiddetti con-trovarianti. Non ne parliamo qui per mancanza di tempo e rimandiamo per eventuali approfondimenti allediverse fonti disponibili anche in rete.

20.3 Funzioni multilineari alternanti, prodotto esterno di covettori, significato geometrico del prodot-to esterno, basi e dimensione dello spazio prodotto esterno.

Siano V e W spazi vettoriali e sia α : V ×V→ W una applicazione bilineare15 antisimmetrica, ossia tale che

α(u,v) =−α(v,u) ∀ (u,v) ∈V ×V (172)

Osserviamo che la (172) equivale aα(u,u) = 0 ∀u ∈V (173)

Infatti, da (172), nel caso u = v, si ottiene α(u,u) =−α(u,u) e ne segue (173). Viceversa, dalla formula

α(u+ v,u+ v) = α(u,u)+α(u,v)+α(v,u)+α(v,v)

si vede che da (173) segue 0 = α(u,v)+α(v,u), ossia (172).

Denoteremo d’ora in avanti con il simbolo A2(V ) l’insieme delle funzioni (o forme) bilineari antisimmet-riche definite su V ×V a valori in R. Tale insieme e banalmente un sottospazio vettoriale di Bil(Rn).

Definizione 20.3.1 Prodotto esterno di covettori. Per ogni coppia ordinata f ,g di covettori in V ∗, sidefinisce la forma bilineare alternante f ∧g ∈ A2(V ) ponendo

[ f ∧g](u,v) = f (u)g(v)− f (v)g(u) = det(

f (u) f (v)g(u) g(v)

)(174)

15Puo esssere utile pensare una applicazione bilineare come un prodotto (in generale non commutativo) che gode della proprietadistributiva rispetto alla somma.

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Le parentesi quadre nel membro a sinistra, intorno al simbolo f ∧ g non sarebbero necessarie e sono statescritte come aiuto percettivo al lettore, al fine di identificare tale simbolo come un unico oggetto. L’elementof ∧ g ∈ A2(Rn) si dice prodotto esterno dei covettori f e g (nell’ordine). Il simbolo f ∧ g si legge effeesterno gi. Il segno ‘ ∧ ’ si legge ‘wedge’ (cuneo), oppure ‘esterno’.Lo spazio A2(V ) si denota anche V ∗∧V ∗ e si chiama anche spazio prodotto esterno di V ∗ con V ∗.L’applicazione

∧ : V ∗×V ∗→ A2(V ) = V ∗∧V ∗ (175)

che manda la coppia ordinata (f,g) nella forma f ∧g , si chiama prodotto esterno ed e bilineare antisimmet-ica (lo si verifichi) .

Vediamo ora in qualche dettaglio alcune situazioni particolari.

Esempio 20.3.2 Sia V = R2 . Consideriamo in R2 la base standard e1,e2 e sia e1,e2 la base duale inR2∗. Ricordiamo che per ogni vettore u = (u1,u2) si ha e1(u) = u1 , e2(u) = u2 . Possiamo quindi fare ilprodotto esterno dei covettori e1 e e2, ottenendo la forma bilineare e1∧ e2 : R2×R2→ R definita da

e1∧ e2(u,v) = u1v2−u2v1 = det(

u1 v1

u2 v2

)(176)

Osserviamo che la forma bilineare e1∧e2 e stata gia vista nella sezione 5.1, nella formula (33), con il nomedi prodotto vettoriale di due vettori in R2 e coincide con la terza componente del prodotto vettoriale deivettori (u1,u2,0), (v1,v2,0) in R3, definito da (155). Un significato geometrico della forma e poi anche gianoto dalla sezione 6.1:

|e1∧ e2(u,v)| = area del parallelogramma generato da u e v (177)

La forma e1∧e2(u,v) si puo quindi vedere come un’area con segno. Vedremo piu avavnti una precisazionedi questo significato quando parleremo di sistemi di riferimento e di orientazione in uno spazio vettoriale.

Proposizione 20.3.3 Se η ∈ A2(R2) , ossia η e una forma bilineare antisimmetrica su R2, allora esiste unnumero c ∈ R tale che η = ce1∧ e2 . Di conseguenza lo spazio A2(R2) ha dimensione 1.

Dimostrazione. Utilizzando la bilinearita di η e le (172), (173), per ogni coppia ordinata u,v di vettori inR2 si ha

η(u,v) = η(u1e1 +u2e2,v1e1 + v2e2

)=

= u1v1η(e1,e1

)+u1v2

η(e1,e2

)+u2v1

η(e2,e1

)+u2v2

η(e2,e2

)=

= 0+u1v2η(e1,e2

)+u2v1

η(e2,e1

)+0 =

= η(e1,e2) ·(

u1u2−u2u1)

= c · [e1∧ e2](u,v)

dove si e posto c = η(e1,e2) e le parentesi quadre servono soltanto come aiuto percettivo al lettore perraggruppare visivamente e identificare come un unico oggetto il simbolo e1∧ e2 .

Esempio 20.3.4 Sia V = R3. Consideriamo in R3 la base standard e1,e2,e3 e sia e1,e2,e3 la base duale inR3∗ . Possiamo allora considerare le tre forme bilineari antisimmetriche e1∧e2 , e1∧e3 , e2∧e2 definiteda

e1∧ e2(u,v) = u1v2−u2v1 = det(

u1 v1

u2 v2

)e1∧ e3(u,v) = u1v3−u3v1 = det

(u1 v1

u3 v3

)e2∧ e3(u,v) = u2v3−u3v2 = det

(u2 v2

u3 v3

)

le quali altro non sono che i minori 2×2 della matrice

u1 v1

u2 v2

u3 v3

pensati come funzioni delle colonne.

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Anche per le forme ei∧e j c’e un significato geometrico immediato, che segue da quanto si e detto in diversimomenti, in particolare nella sezione 17.1: siano u, v vettori in R3 e chiamiamo E il parallelogrammagenerato da u e v; consideriamo i vettori π12(u) = (u1,u2); e π12(v) = (v1,v2) , che sono le proiezioniortogonali di u e v sul piano coordinato W12 generato da e1, e2. I vettori π12(u) e π12(v) generano l’insiemeE12 proiezione ortogonale di E su W12. Da quanto detto nell’esempio precedente si ha e1 ∧ e2(u,v) =area(E12) e analogamente si ha per le altre coppie di indici. Riassumendo:

ei∧ e j(u,v) =−e j ∧ ei(u,v) = area(Ei j) i < j i, j = 1,2,3

ossia la forma ei∧e j(u,v) si puo pensare come un’area con segno della proiezione sul piano coordinato Wi jdel parallelogramma generato da u e v. Vedremo piu avanti il significato del segno in termini di orientazionedei sottospazi.

Esercizio 20.3.5 Si mostri che se per una certa coppia di vettori u, v si ha ei∧ e j(u,v) = 0, allora il pianogenerato da u e v e ortogonale al piano Wi j.

Proposizione 20.3.6 L’insieme

λ(3,2) :=

ei∧ e ji< j =

e1∧ e2 ; e1∧ e3 ; e2∧ e3

e una base dello spazio A2(R3) , il quale ha pertanto dimensione uguale a 3.

Dimostrazione. Per prima cosa dimostriamo che l’insieme λ(3,2) genera lo spazio A2(R3) .Sia η ∈ A2(R3) . Per bilinearita e antisimmetria, ragionando come nella dimostrazione della proposizione20.3.3, per ogni coppia (u,v) ∈V ×V si ha

η(u,v) = η(

u1e1 +u2e2 +u3e3 , v1e1 + v2e2 + v3e3)=

= η(e1,e2)[e1∧ e2](u,v)+η(e1,e3)[e1∧ e3](u,v)+η(e2,e3)[e2∧ e3](u,v)

ossiaη = c12 [e1∧ e2]+ c13 [e1∧ e3]+ c23 [e2∧ e3]

dove si e posto c12 := η(e1,e2) , c13 := η(e1,e3) , c23 := η(e2,e3) (e le parentesi quadre servono soltantocome aiuto visivo per il lettore).Dimostriamo ora che l’insieme λ(3,2) e linearmente indipendente. A tal fine cominciamo con l’osservareche se i, j,h,k ∈ 1,2,3 e si ha inoltre i < j e h < k , allora vale

ei∧ e j(eh,ek) =

1 se i = h e j = k0 in ogni altro caso (178)

e che, quindi, per qualsiasi forma β ∈ A2(R3), scritta come combinazione lineare degli elementi di λ(3,2),ossia del tipo β = a12 e1∧ e2 +a13 e1∧ e3 +a23 e2∧ e3, si ha β(e1,e2) = a12 , β(e1,e3) = a13 , β(e2,e3) =a23 . Pertanto, se β = 0, allora devono essere nulli tutti i coefficienti ahk e questa e appunto la lineareindipendenza di λ(3,2).

Esempio 20.3.7 Sia V = Rn. Consideriamo in Rn la base standard e1, . . .en e sia e1, . . . ,en la base dualestandard in Rn∗. Generalizzando quanto si e fatto nell’esempio precedente per R3, possiamo considerare le(

n2

)=

n(n−1)2

forme bilineari antisimmetriche ei∧ e j , i = 1, . . . ,n i < j definite da

ei∧ e j(u,v) = uiv j−u jvi det(

ui vi

u j v j

)le quali altro non sono che i minori 2×2 della matrice n×2 che ha come colonne i vettori u = (u1, . . . ,un)e v = (v1, . . . ,vn). Anche in questo caso il numero |ei ∧ e j(u,v)| e uguale all’area del parallelogrammagenerato dalla proiezione di u e v sul piano coordinato generato da ei, e j e il significato del segno sarachiarito piu avanti in relazione al concetto di orientazione di un sottospazio 2-dimensionale di Rn.

Proposizione 20.3.8 L’insieme λ(n,2) :=

ei∧e j∣∣∣ i, j = 1, . . . ,n , i< j

e una base dello spazio A2(Rn).

Pertanto si ha dimA2(Rn) =

(n2

)=

n(n−1)2

.

Dimostrazione. Si procede come per la proposizione 20.3.6, utilizzando la (178), che vale anche peri, j,h,k ∈ 1, . . . ,n , i < j , h < k .

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21 Lezione − Venerdı 23 novembre 2012 8.30 - 10.30 (2 ore)

Accorpata alla successiva

22 Lezione − Lunedı 26 novembre 2012 10.30 - 12.30 (2 ore)

Forme differenziali di grado 2. Differenziale di una 1-forma. Sistemi di riferimento e orientazione

in uno spazio vettoriale. Integrale di una 2-forma sopra una superficie parametrizzata. Pull-back di

forme differenziali.

22.1 Forme differenziali di grado 2, o 2-forme differenziali, su Rn.

Definizione 22.1.1 Sia U un sottoinsieme di Rn, con n≥ 2. Si dice forma differenziale di grado 2, oppure2-forma differenziale, su U una applicazione ω : U→ A2(Rn), ossia una applicazione che ad ogni puntox ∈U associa una forma bilineare antisimmetrica ω(x) : Rn×Rn→R.

Per ogni x ∈U e per ogni coppia di vettori u,v ∈ Rn si puo quindi calcolare il numero ω(x)(u,v). Qualchevolta, per ridurre la complessita grafica delle formule, scriveremo ωx al posto di ω(x) e ωx(u,v) al posto diω(x)(u,v).

Se ω,η sono 2-forme differenziali su U , e a ∈ R allora si definiscono le 2-forme differenziali ω+η e aω

su U ponendo(ω+η)x = ωx +ηx , (aω)x = aωx ∀x ∈U

Con tali operazioni, analoghe a quelle introdotte nella definizione 9.3.2 per le 1-forme, le 2-forme differen-ziali su U sono uno spazio vettoriale su R. Nella definizione appena citata abbiamo detto cos’e il prodottodi una funzione per una 1-forma. Generalizziamo ora tale nozione e introduciamo il prodotto esterno tra1-forme differenziali.

Definizione 22.1.2 Se f : U→R e una funzione e ω e una 2-forma differenziale, definiamo la 2-forma f ω

su U ponendo( f ω)x = f (x)ωx

Se α, β sono 1-forme differenziali su U , la forma differenziale di grado 2 che ad ogni x∈U associa la formabilineare antisimmetrica αx∧βx si chiama prodotto esterno delle forme differenziali α e β e si denota α∧β.In altri termini:

[α∧β]x(u,v) = [αx∧βx](u,v) = αx(u)βx(v)−αx(v)βx(u)

Raccogliamo ora alcune proprieta del prodotto tra forme differenziali. Diremo che le funzioni sono formedifferenziali di grado zero, o 0-forme.

Proposizione 22.1.3 i) Le forme dello stesso grado si possono sommare e moltiplicare per un numero reale.Con queste operazioni sono uno spazio vettoriale su R.ii) Se f e una forma di grado zero (cioe una funzione) e α e una forma di grado k, dove k = 0,1,2, alloraabbiamo gia definito la k-forma f α; se g e una ulteriore 0-forma e β e una k-forma, si ha

( f +g)α = f α+gα , f (α+β) = f α+ f β

iii)Se α,β sono 1-forme, alloraf (α∧β) = ( f α)∧β = α∧ ( f β)

Per ogni coppia di indici i, j ∈ 1,2, ...n, possiamo considerare la 2-forma differenziale dxi ∧dx j, che adogni x ∈ Rn associa costantemente la forma bilineare antisimmetrica ei ∧ e j. Se i = j si ha dxi ∧ dxi = 0,se i 6= j si ha dxi ∧ dx j = −dx j ∧ dxi. Per quanto si e visto nella proposizione 20.3.8, se ω e una 2-formadifferenziale su U , allora per ogni x ∈U , la forma bilineare antisimmetrica ωx si scrive in un unico modo

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come combinazione lineare delle forme bilineari di base ei ∧ e ji< j, con coefficienti i quali sono numerireali che dipendono da x. Se denotiamo tali coefficienti con ωi j(x), allora abbiamo

ωx = ∑i< j

ωi j(x)ei∧ e j = ∑i< j

ωi j(x)dxi∧dx j ∀x ∈U (179)

ossiaωx(u,v) = ∑

i< jωi j(x)dxi∧dx j(u,v) = ∑

i< jωi j(x)(uiv j−u jvi) ∀x ∈U ∀u,v ∈ Rn (180)

Con le notazioni introdotte, le due formule precedenti si scrivono sinteticamente ω = ∑i< j ωi jdxi∧dx j .Osserviamo che nel caso particolare in cui si prendono u = eh, v = ek si ottiene

ωx(eh,ek) = ∑i< j

ωi j(x)dxi∧dx j(eh,ek) = ωhk(x) (181)

Inoltre, se ω e una 2-forma differenziale su un aperto A in R2, per ogni x ∈ A si ha ωx = c(x)dx1∧dx2 esi ha

ωx(e1,e2) = c(x)dx1∧dx2(e1,e2) = c(x) (182)

22.2 Differenziale di una 1-forma.

Una 2-forma differenziale ω si dice continua su U , se i suoi coefficienti ωi j : U→ R sono funzioni continue.Se U e un aperto, una forma differenziale si dice poi di classe Ck(U) o di classe C∞(U), se lo sono icoefficienti.

Definizione 22.2.1 Sia U un aperto in Rn e sia α =n

∑i=1

αidxi una 1-forma differenziale di classe Ck. Si

dice differenziale esterno, o semplicemnte differenziale di α la 2-forma

dα =n

∑i=1

dαi∧dxi =n

∑i=1

(n

∑j=1

∂αi

dx j dx j

)∧dxi (183)

Svolgendo i calcoli con le regole trovate nella sezione precedente, vediamo che il differenziale di α si scriveanche

dα =n

∑i=1

(n

∑j=1

∂αi

dx j dx j

)∧dxi = ∑

i< j

(∂α j

∂xi −∂αi

∂x j

)dxi∧dx j (184)

e si vede che se α e di classe Ck allora dα e di classe Ck−1. In R2 si ha α = α1dx1 +α2dx2 e

dα =2

∑i=1

(2

∑j=1

∂αi

dx j dx j

)∧dxi =

(∂α2

∂x1 −∂α1

dx2

)dx1∧dx2 (185)

Se si usa la notazione (x,y) per le coordinate, una forma differenziale generica si scrive α = αxdx+αydxe il suo differenziale diventa

dα =

(∂αy

∂x− ∂αx

dy

)dx∧dy (186)

Nel caso n = 3 si ha α = α1dx1 +α2dx2 +α3dx3 e

dα =

(∂α2

∂x1 −∂α1

dx2

)dx1∧dx2 +

(∂α3

∂x1 −∂α1

dx3

)dx1∧dx3 +

(∂α3

∂x2 −∂α2

dx3

)dx2∧dx3 (187)

Con la notazione (x,y,z) per le coordinate si ha α = αxdx+αydy+αzdz e

dα =

(∂αy

∂x− ∂αx

dy

)dx∧dy+

(∂αz

∂x− ∂αx

dz

)dx∧dz+

(∂αz

∂y−

∂αy

dz

)dy∧dz (188)

Osservazione 22.2.2 Ricordando quanto si e detto nella sezione 14.2, una 1-forma differenziale di classeC1(U) e chiusa se e solo se dα = 0. In particolare, come si era gia visto, se α = d f dove f : U→R e unafunzione di classe C2, allora dα = 0, infatti, per il teorema di Schwarz, si ha

∂αi

dx j =∂α j

∂xi ∀i, j = 1,2, ...n

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Esercizio 22.2.3 Mostrare che il differenziale della 1-forma α = (x2+y2)dx+2xydy in R2 e uguale a zeroe trovare poi una primitiva di α, con i metodi gia visti nelle lezioni precedenti.

Proposizione 22.2.4 i) Se α, β sono 1-forme di classe C1(U) e c ∈ R, allora si ha

d(α+β) = dα+dβ , d(cα) = cdα

In altri termini: il differenziale e un operatore lineare dallo spazio delle 1-forme di classe Ck allo spaziovettoriale delle 0-forme di classe Ck−1

ii) Se inoltre f e una funzione di classe C1(U), allora si ha

d( f α) = d f ∧ α+ f dα (189)

Dimostrazione. E molto semplice, basta scrivere le definizioni. Scriviamo soltanto la dimostrazione dellaparte ii) e raccomandiamo comunque ai lettori di fare anche questa parte autonomamente come esercizio edi controllare poi la soluzione. Sia α = ∑

ni=1 αidxi. Si ha allora

d( f α) = d( fn

∑i=1

αidxi)1= d(

n

∑i=1

f αidxi)2=

n

∑i=1

d( f αi)∧dxi 3=

n

∑i=1

(d f αi + f dαi)∧dxi = d f ∧n

∑i=1

αidxi + fn

∑i=1

dαi∧dxi = d f ∧α+ f dα

dove il passaggio 1= e possibile per la proposizione 22.1.3, il passsaggio 2

= e la definizione di differenzialedi una forma che ha come coefficienti le funzioni f αi, il passaggio 3

= e la regola di derivazione di unprodotto di funzioni e nei passaggi successivi si usano ancora le stesse proprieta.

22.3 Sistemi di riferimento e orientazione in uno spazio vettoriale.

In questa sezione V sara uno spazio vettoriale su R di dimensione finita n. E noto dal corso di algebralineare che, per ogni applicazione lineare L : V→V , il determinante della matrice che rappresenta L rispettoa una base di V non dipende dalla base. Tale numero si dice determinante dell’applicazione L e si denotadetL.

Definizione 22.3.1 Si dice sistema di riferimento in uno spazio vettoriale V ogni n-upla ordinata (w1,w2, ...,wn)di vettori di V che siano linearmente indipendenti e generino V . In sintesi: un sistema di riferimento e unabase ordinata. Nello spazio Rn il sistema di riferimento standard e (e1,e2, . . . ,en).

Definizione 22.3.2 Due sistemi di riferimento (v1,v2, ...,vn) e (w1,w2, ...,wn) in V si dicono equiorientatise l’applicazione L : V→V definita da

L(v1) = w1 , L(v2) = w2 , ... L(vn) = wn

ha determinante positivo.

Dalla nota formula det(LM) = det(L) ·det(M) segue immediatamente che la relazione di equiorientazionee una relazione di equivalenza ed e immediato anche che in qualsiasi spazio vettoriale le classi equivalenzasono due: fissato un sistema di riferimento, gli altri possono essere equiorientati con esso (e stanno in unaclasse) oppure no (e stanno nell’altra classe).

Definizione 22.3.3 In un spazio vettoriale V di dimensione finita si dice orientazione la scelta di una classedi sistemi di riferimento equiorientati. Tutti i sistemi di riferimento orientati come quello scelto si dirannoorientati positivamente. Gli altri si diranno orientati negativamente.

Per scegliere un’orientazione su V basta scegliere un sistema di riferimento, poiche di conseguenza sidetermina una classe di sistemi con esso equiorientati. Ad esempio in R2 una orientazione standard edeterminata dalla base standard (e1,e2) cosı ordinata. L’altra orientazione di R2 e quella cui appartiene ilsistema di riferimento (e2,e1) i cui elementi sono quelli della base standard, ordinati in modo invertito. InR3 l’orientazione standard e quella del sistema di riferimento (e1,e2,e3), che e ad esempio la stessa (lo siverifichi) del sistema (e3,e1,e2). L’altra orientazione e determinata ad esempio dal sistema (e1,e3,e2).

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Esercizio 22.3.4 i) Dato il sistema di riferimento (w1,w2) in uno spazio vettoriale di dimensione 2, direse i sistemi di riferimento sotto indicati sono equiorientati con esso oppure nov1 = w1−w2,v2 = w1 +w2,v1 = w2−w1,v2 = w1 +w2,v1 = 2w1−3w2,v2 = w1−w2,ii) Dire se il sistema di riferimento

w1 = (1,−1,0) , w2 = (0,−1,1) , w3 = (1,0,1)

e orientato come il sistema di riferimento standard in R3.

Occorre impadronirsi del significato geometrico-fisico intuitivo del concetto di orientazione. Tale signifi-cato e strettamente collegato al modo in cui si rappresentano le coordinate cartesiane su un foglio o su unasuperficie piana. Ogni individuo che ha davanti a se un foglio di carta ha intuitivamente chiaro il significatodi retta orizzontale e retta verticale. Inoltre ha chiaro il significato di muoversi verso destra e muoversiverso sinistra sulla retta orizzontale, nonche il significato di muoversi verso l’alto e muoversi verso il bassosulla retta verticale. Preso un punto O del foglio si possono quindi tracciare un segmento orizzontale diestremi O e P1, in modo che il punto P1 sia a destra di O, e un segmento verticale di estremi O e P2, inmodo che il punto P2 sia in alto rispetto a O. A questo punto e convenzione abituale far corrispondere ilsegmento OP1, o semplicemente il punto P1, al vettore e1 della base standard di R2 e di far corrispondereil segmento OP2, o semplicemente il punto P2, al vettore e2. E anche convenzione usuale prendere i puntiP1 e P2 in modo che i due segmenti OP1 e OP2 abbiano la stessa lunghezza (misurata ad esempio con uncompasso). La rotazione che porta e1 su e2 percorrendo l’angolo minore si dice antioraria. Se pensiamoche il piano suddetto sia immerso nello spazio 3-dimensionale, una vite come quelle che si trovano normal-mente in commercio, posta con l’asse ortogonale al foglio e con la testa parallela al foglio, avvitata in sensoantiorario, avanza verso di noi. Una tale vite si dice destrogira.Per dare un sistema di coordinate nello spazio fisico, ossia una corrispondenza biunivoca tra lo spazio fisicoe lo spazio R3, occorre porre nello spazio fisico i vettori (e1,e2,e3). Per fare questo si possono collocare apiacere i primi due vettori ortogonali e1,e2, dopodiche il vettore e3 si colloca in direzione ortogonale al pi-ano π individuato da e1,e2 e, usualmente, orientato nel verso in cui avanza una vite destrogira che ha l’asseperpendicolare al piano π e la cui testa viene ruotata portando e1 verso e2. Un tale sistema di riferimento sichiama destrogiro. Se si prendesse e3 nel verso opposto si avrebbe un sistema di riferimento sinistrogiro.Questo modo di individuare i sistemi di riferimento nello spazio fisico, che si utilizza anche per determinareil verso del prodotto vettoriale nello spazio fisico, si chiama regola della mano destra: il pollice della manodestra corrisponde al vettore e1, il dito indice corrisponde a e2 e il dito medio corrisponde a e3 (per diverseversioni di questa regola si veda ad esempio http://en.wikipedia.org/wiki/Right-hand_rule. Ioho pero imparato da piccolo a chiamare questa convenzione regola del cavatappi, nome che tuttora trovopiu significativo e preferisco, anche se pressoche inesistente nella lingua inglese, a causa, suppongo, dellamodesta diffusione nei paesi di quella lingua, almeno in tempi andati, della cultura enologica.Nulla impedirebbe di usare convenzioni opposte per i concetti di destra, sinistra, verso orario e antiorario,vite destrogira, ma questi sono quelli che si usano, credo a causa del fatto che la maggioranza degli indi-vidui ha una prevalenza innata per l’uso della mano destra (si veda http://it.wikipedia.org/wiki/Lateralizzazione). Si e a lungo creduto che tutte le leggi fisiche fossero invarianti rispetto all’inver-sione dell’orientazione nel sistema di riferimento, ma cosı non e (si vedano le voci parita e chiralita suWikipedia).

Esercizio 22.3.5 Perche guardandosi allo specchio la destra si scambia con sinistra, ma non si scambianol’alto e il basso?

Osservazione 22.3.6 Vedremo piu avanti come a partire dalla nozione di orientazione di uno spazio vetto-riale si puo definire intrinsecamente l’orientazione di una superficie due dimensionale in Rn.

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22.4 Integrale di una 2-forma differenziale sopra un aperto orientato in R2

Sia A un sottoinsieme di R2 e sia (e1,e2) il sistema di riferimento standard in R2. Sia inoltre ω una 2-forma differenziale su A, ossia una applicazione che ad ogni x ∈ A associa una forma bilineare alternanteωx : Rn ×Rn→ R. Ricordiamo dalla (182) che la forma differenziale ω si puo scrivere come prodottof (x)dx1 ∧ dx2 della funzione f : A→R con la forma costante dx1 ∧ dx2, dove f (x) = ωx(e1,e2) . Se lafunzione f e integrabile su A, possiamo infine considerarne l’integrale e lo chiameremo integrale della 2-forma ω sull’aperto A con l’orientazione standard (ossia orientato positivamente). Precisamente, diamo laseguente

Definizione 22.4.1 Sia A un aperto in R2 e sia ω una 2-forma differenziale su A. Si dice integrale di ω suA orientato con l’orientazione standard il numero∫

A+ω :=

∫A

ωx(e1,e2)dx1dx2 (190)

purche l’integrale a destra esista in qualche senso (Cauchy, Riemann, Lebesgue). Analogamente si diceintegrale di ω su A orientato con l’orientazione opposta di quella standard il numero∫

A−ω :=

∫A

ωx(e2,e1)dx1dx2 (191)

Osserviamo che questa definizione e del tutto analoga a quella di integrale orientato su un intervallo in R,che e stata ricordata in (54). Poiche la forma bilineare ωx e antisimmetrica, per ogni x si ha ωx(e1,e2) =−ωx(e2,e1) e quindi si ha anche ∫

A−ω = −

∫A+

ω

D’ora in poi considereremo soltanto integrali di 2-forme differenziali su aperti A ⊂ R2 orientati in modo

standard, ossia orientati positivamente, e li denoteremo semplicemente∫

Aω senza mettere il segno ‘+’

all’apice di A.

Osserviamo che l’integrale della 2-forma dx1∧dx2 su A (orientato positivamente... ma non lo diremo piu)e uguale all’area di A. L’integrale della 2-forma dx2∧dx1 su A e invece uguale all’opposto dell’area di A.

22.5 Integrale di una 2-forma differenziale sopra una superficie parametrizzata.

D’ora in avanti nell’aperto A⊂R2 chiamiamo (ε1,ε2) il sistema di riferimento standard e denotiamo (u1,u2)le coordinate rispetto a tale sistema di riferimento. Consideriamo inoltre un aperto U in Rn, dove denotiamole coordinate con x1,x2, . . . ,xn, e una superficie parametrizzata ψ : A→U di classe C1(A).

Definizione 22.5.1 Con le notazioni appena introdotte, se ω e una 2-forma differenziale su U , si diceintegrale di ω su ψ il numero ∫

ψ

ω :=∫

Aωψ(u)

(dψu(e1),dψu(e2)

)du1∧du2 (192)

dove dψu : R2→ Rn e il differenziale della mappa ψ nel punto u ∈ A e a destra si trova l’integrale della2-forma differenziale ωψ(u)

(dψu(e1),dψu(e2)

)du1 ∧ du2 sull’aperto A orientato positivamente, come

definito nella definizione 22.4.1. In somma:∫ψ

ω :=∫

Aωψ(u)

(dψu(e1),dψu(e2)

)du1du2

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22.6 Pull-back di una forma differenziale.

Siano A ⊂ Rk e U ⊂ Rn. Chiamiamo u i punti di A e chiamiamo x i punti di U . Sia (ε1, . . . ,εk) la basestandard in Rk e sia (e1, . . . ,en) la base standard in Rn. Sia ψ : A→U una mappa differenziabile e scriviamo

ψ(u) = (ψ1(u), ...,ψn(u)) =n

∑i=1

eiψi(u) dove, per ogni i, la funzione differenziabile ψi : U→R e la

componente i-esima di ψ.

Definizione 22.6.1 Se α e una 1-forma differenziale su U , si dice pull-back di α, e si denota con il simboloψ∗α, la 1-forma differenziale su A definita da

(ψ∗α)u(v) = αψ(u)(dψu(v)

)∀u ∈ A , ∀v ∈ Rk (193)

dove dψu : R k→Rn e il differenziale di ψ nel punto u e dψu(v) si puo interpretare come il vettore derivata

direzionale∂ψ

∂v(u) dell’applicazione ψ nella direzione v, nel punto u.

Comprenderemo il senso di questa definizione attraverso le diverse osservazioni e proposizioni che seguono.Cominciamo con l’osservare che se f : U→R e una funzione differenziabile, allora il pull-back della 1-forma differenziale d f e definito da

(ψ∗ d f )u(v) = d fψ(u)(dψu(v)

)∀u ∈ A , ∀v ∈ Rk (194)

ossia, ricordando la formula per il differenziale di una funzione composta,

(ψ∗ d f )u(v) = d( f ψ)u(v) ∀u ∈ A , ∀v ∈ Rk (195)

che si scrive sinteticamente(ψ∗ d f ) = d( f ψ) (196)

In particolare, per ogni i= 1, ...n il pull-back della forma dxi (che e il differenziale della funzione coordinatax 7→ xi) e

ψ∗(dxi) = d ψ

i (197)

La seguente proposizione e utile sia come strumento tecnico, sia come esercizio per comprendere il signifi-cato del pull-back.

Proposizione 22.6.2 Se α =n

∑i=1

αidxi dove αi sono funzioni definite su U a valori reali, allora si ha

ψ∗α =

n

∑i=1

(αi ψ)dψi (198)

Dimostrazione. Faremo una catena di trasformazioni graduali e del tutto elementari, che pero richiedonouna precisa comprensione della situazione e delle definizioni. Vale la pena di capirla. Se il lettore trovapero difficile seguire questa catena di passaggi, puo andare oltre e vedra piu avanti che la (198) si ritrova inaltro modo.

Scriviamo v =k

∑j=1

ε jv j. La (193) si scrive allora, per ogni u ∈ A e per ogni v ∈ Rk,

(ψ∗α)u(v) = αψ(u)(dψu(

k

∑j=1

ε jv j))=

k

∑j=1

αψ(u)(dψu(ε j)

)v j =

k

∑j=1

αψ(u)( ∂ψ

∂u j(u))

)v j = (199)

k

∑j=1

n

∑i=1

αi(ψ(u))∂ψi

∂u j(u)v j =

n

∑i=1

αi(ψ(u))

[k

∑j=1

∂ψi

∂u j(u)du j(v)

]=

n

∑i=1

αi(ψ(u))dψi(v)

che sinteticamente si scrive come in (198) e la prova e conclusa.

Definiamo ora il pull-back per le 2-forme (una definizione analoga si puo dare per le k-forme).

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Definizione 22.6.3 Se ω e una 2-forma differenziale su U , si dice pull-back di ω, e si denota con il simboloψ∗ω, la 2-forma differenziale su A definita da

(ψ∗ω)u(v1,v2) = ωψ(u)(dψu(v1),dψu(v2)

)∀u ∈ A , ∀v1,v2 ∈ Rk (200)

E comodo definire il pull-back anche per le 0-forme, ossia le funzioni: se f : U→R si dice pull-back di fattraverso ψ, e si denota ψ∗ f , la funzione definita su A da (ψ∗ f )(u) := f (ψ(u)) , ossia ψ∗ f = f ψ .

Il pull-back e insomma una applicazione che manda forme differenziali di grado k su U in forme differen-ziali dello stesso grado su A. Vedremo qui di seguito che il pull-back conserva (commuta con) le operazionidi somma e prodotto di forme differenziali e con l’operatore di differenziazione. Se avessimo definitol’algebra delle forme differenziali di tutti i gradi k da k = 0 fino a k = n potremmo mostrare che ψ∗ e unomomorfismo dall’algebra delle forme differenziali su U all’algebra delle forme differenziali su A.

Proposizione 22.6.4 Siano f e g 0-forme differenziali (ossia funzioni), α e β 1-forme differenziali, ω edη 2-forme differenziali su U . Allora si ha

ψ∗( f +g) = ψ

∗ f +ψ∗g , ψ

∗( f ·g) = ψ∗ f ·ψ∗g (201)

ψ∗(α+β) = ψ

∗α+ψ

∗β , ψ

∗( f ·α) = ψ∗ f ·ψ∗α , (202)

ψ∗(ω+η) = ψ

∗ω+ψ

∗η , ψ

∗( f ·ω) = ψ∗ f ·ψ∗ω , ψ

∗(α∧β) = ψ∗α ∧ ψ

∗β (203)

Dimostrazione. E una semplicissima conseguenza delle definizioni. Mostriamo solo un paio delle formuleelencate, cominciando dalla prima delle (201): per ogni u ∈ A si ha

ψ∗( f +g)u = ( f +g)(ψ(u)) = f (ψ(u))+g(ψ(u)) = (ψ∗ f )u +(ψ∗g)u

Mostriamo ora l’ultima delle (203): per ogni u∈A e comunque presi v,w∈Rk si ha (prima per la definizionedi pull-back, poi per la definizione di prodotto esterno di 1-forme)

ψ∗(α∧β)u(v,w) = (α∧β)ψ(u)(dψu(v),dψu(w)) =

= αψ(u)(dψu(v))βψ(u)(dψu(w))−αψ(u)(dψu(w))βψ(u)(dψu(v)) =

= ψ∗αu(v)ψ∗βu(w)−ψ

∗αu(w)ψ∗βu(v) = [ψ∗αu∧ψ

∗βu](v,w) = [ψ∗α∧ψ

∗β]u(v,w)

che e la scrittura estesa della formula voluta.

Possiamo ora ri-dimostrare la (198): utilizzando la proposizione 22.6.4, per una 1-forma differenziale del

tipo α =n

∑i=1

αidxi si ha

ψ∗α = ψ

(n

∑i=1

αidxi

)=

n

∑i=1

ψ∗(αidxi) =

n

∑i=1

ψ∗(αi)ψ

∗(dxi) =n

∑i=1

αi ψdψi

dove nell’ultimo passaggio si e usata la (197).

A questo punto, con lo stesso metodo, e facile mostrare un risultato analogo per le 2-forme differenziali:

Proposizione 22.6.5 Se ω = ∑i< j

ωi jdxi∧dx j dove ωi j sono funzioni definite su U a valori reali, allora si ha

ψ∗ω = ∑

i< j(ωi j ψ)dψ

i∧dψi (204)

Mostriamo infine che il pull-back commuta con l’operatore di differenziazione d.

Proposizione 22.6.6 .i) Sia f una funzione su U . Allora si ha ψ∗(d f ) = d(ψ∗ f ) .

ii) Sia α =n

∑i=1

αidxi una 1-forma differenziale su U . Allora si ha

ψ∗(dα) = d(ψ∗α) (205)

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Dimostrazione. La i) equivale alla (196) che gia si e dimostrata. Proviamo ora la ii). Cominciamo atrasformare il membro a sinistra di (205), usando la definizione di differenziale di una 1-forma e l’ultimadelle (203)

ψ∗(dα) = ψ

(n

∑i=1

dαi∧dxi

)=

n

∑i=1

ψ∗(dαi)∧ψ

∗(dxi) =

=n

∑i=1

d(ψ∗αi)∧dψi) =

n

∑i=1

d(αi ψ)∧dψi)

dove nel penultimo passaggio si e usata la parte i) della proposizione. Ora vedremo che la stessa espressionesi ottiene trasformando il membro a sinistra della (205)e cosı la ii) sara dimostrata:

d(ψ∗α) = d(ψ∗(

n

∑i=1

αidxi

)) = d

(n

∑i=1

ψ∗(αidxi)

)=

n

∑i=1

d(ψ∗(αidxi) =n

∑i=1

d(ψ∗αi ·ψ∗(dxi)) =

=n

∑i=1

d(αi ψ ·dψi) =

n

∑i=1

[d(αi ψ)∧dψ

i +αi ψ∧ddψi]= n

∑i=1

d(αi ψ)∧dψi

dove nel penultimo passaggio si e usata la formula di Leibniz (189) e nell’ultimo passaggio si e usato ilfatto che ddψi = 0.

22.7 Pull-back di una forma e integrazione

In questa sezione indichiamo la stretta relazione fra pull-back di una forma e integrazione, limitandoci alle1-forme e alle 2-forme, in alcune situazioni particolari, che ci occorreranno per dimostrare piu avanti ilTeorema di Stokes per superfici 2-dimensionali in Rn.

Proposizione 22.7.1 Siano A, U , ψ come nella sezione precedente. Sia σ : [a,b]→A una curva di classeC1. Consideriamo la curva γ := ψσ : [a,b]→U ⊂ Rn. Allora, per ogni 1-forma α su U si ha∫

γ

α =∫

σ

ψ∗α. (206)

Dimostrazione. Ricordando la definizione di integrale di una 1-forma lungo una curva e la formula per laderivata di una funzione composta si ha∫

γ

α =∫[a,b]

αγ(t)(γ′(t))dt =

∫[a,b]

αψ(σ(t))(dψσ(t)(σ′(t)))dt =

∫[a,b]

[ψ∗α]σ(t)(σ′(t)))dt =

∫σ

ψ∗α.

Proposizione 22.7.2 Siano A, U , ψ come nella sezione precedente e supponiamo inoltre che A sia un apertoin R2. Per ogni 2-forma ω su U si ha ∫

ψ

ω =∫

Aψ∗ω. (207)

Dimostrazione. Si tratta di una immediata conseguenza delle definizioni: ricordando la definizione diintegrale di una 2-forma su una superficie parametrizzata (22.5.1) e su un aperto (orientato positivamente)A (190), si ha∫

ψ

ω =∫

Aωψ(u)

(dψu(ε1),dψu(ε2)

)du1∧du2 =

∫A(ψ∗ω)u(ε1,ε2)du1du2 =

∫A

ψ∗ω

A questo punto abbiamo sviluppato tutta l’algebra necessaria per enunciare e dimostrare il Teorema diStokes, cosa che faremo nella prossima lezione.

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23 Lezione − Giovedı 29 novembre 2012 13.30 - 15.30 (2 ore)

Simplessi e catene. Teorema di Stokes

23.1 Simplessi e catene differenziabili di dimensione zero e 1. Integrale di una 1-forma su simplessie catene 1-dimensionali; integrale di una zero forma su una 0-catena. Bordo di una 1-catenae catene chiuse. Riscrittura del teorema fondamentale del calcolo per le 0-forme differenziali13.5.1

In questa sezione introdurremo una particolare famiglia di curve ‘semplici’, che chiameremo 1-simplessihttp://en.wikipedia.org/wiki/Simplex e che useremo come ‘mattoni’ per costruire le 1-catene, ossiale combinazioni lineari formali, a coefficienti interi, di 1-simplessi http://en.wikipedia.org/wiki/Chain_(algebraic_topology). Vedremo che le 1-catene differenziabili sono gli oggetti naturali sui qualiintegrare le 1-forme differenziali. Vedremo poi gli zero simplessi, che sono i punti nello spazio, e le 0-catene, che sono combinazioni di punti a coefficienti interi, nonche l’integrale di una 0-forma su una 0-catena. Definiremo inoltre un operatore bordo, che ad ogni 1-catena associa una 0-catena e con questolinguaggio riscriveremo il teorema fondamentale del Calcolo per le funzioni in Rn 13.5.1. Nella sezionesuccessiva introdurremo i 2-simplessi, e i 2-cubi, che sono particolari superfici parametrizzate, e le 2-catene, che rappresentano ‘superfici’ piu complesse. Definiremo inoltre il bordo di una 2-catena, che sarauna 1-catena. Con questo linguaggio potremo enunciare con precisione il Teorema di Stokes per le 1 formedifferenziali in Rn, in una forma identica a quella per le 0-forme. Tale forma vale in generale per le k-formedifferenziali.

Definizione 23.1.1 1-simplessi.i) Si dice simplesso standard 1-dimensionale (o 1-simplesso standard) il segmento [0,1].

ii) Si dice simplesso 1-dimensionale (o 1-simplesso) in uno spazio topologico X ogni applicazione continuaσ : [0,1]→ X (ossia, ogni curva parametrizzata continua definita su [0,1] a valori in X).iii) Si dice simplesso differenziabile 1-dimensionale o 1-simplesso differenziabile in U ⊂ Rn ogni appli-cazione σ : [0,1]→U che sia di classe C1([0,1])(ossia: una curva parametrizzata di classe C1([0,1]) avalori in U .

In modo analogo si possono definire simplessi affini (se l’applicazione e affine), lipschitziani, di classeCk, ecc... I simplessi differenziabili cosı definiti non e detto siano regolari, ossia non e detto che abbianoderivata diversa da zero in ogni punto. Ad esempio la curva σ tale che σ(t) = p per ogni t ∈ [0,1] e unsimplesso differenziabile e ha derivata nulla in ogni punto.

Definizione 23.1.2 1-catena.i) Si dice catena 1-dimensionale o 1-catena (a coefficienti interi) in uno spazio topologico X una scrittura

formale del tipoc = a1σ1 +a2σ2 + . . .arσr (208)

dove σi, per i = 1,2, ...,r, sono 1-simplessi in X e ai sono numeri interi, che si chiamano coefficienti.ii) Si dice catena differenziabile 1-dimensionale o 1-catena differenziabile in U ⊂ Rn ogni 1-catena in Ucome in (208) tale che ogni simplesso σi sia di classe C1([0,1]).

Osserviamo che le 1-catene in X si possono vedere come funzioni definite sull’insieme degli 1-simplessi avalori in Z, che sono diverse da zero al piu in un insieme finito di punti. Ad esempio, la catena c in (??) siidentifica con la funzione che a ciascuno dei simplessi σi associa il coefficiente ai ∈ Z, e che a tutti gli altrisimplessi associa l’elemento 0 ∈ Z. Sull’insieme di tali funzioni (che identifichiamo con l’insieme dellecatene) si puo dare una naturale operazione di somma, con la quale esso diviene un gruppo commutativo:l’elemento neutro e la 1-catena che ha tutti i coefficienti nulli e l’elemento opposto della catena =∑

ri=1 aiσi

e −c = ∑ri=1(−ai)σi . Le 1-catene si possono anche moltiplicare per i numeri interi nel modo ovvio:

m · c :=r

∑i=1

(mai)σi

Osserviamo di passaggio, ma non useremo questo fatto esplicitamente, che con le operazioni di somma eprodotto appena definite l’insieme delle 1-catene e un modulo sull’anello Z http://en.wikipedia.org/wiki/Module_(mathematics)16.

16Se si prendessero come coefficienti i numeri reali, invece degli interi, si otterrebbero le catene reali, che sono uno spazio vettorialesu R.

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Definiamo ora l’integrale di una 1-forma su una 1-catena.

Definizione 23.1.3 Integrale di una 1-forma su una 1-catena.Se c = a1σ1 + a2σ2 + . . .arσr e una 1-catena differenziabile in un aperto U ⊂ Rn e α e una 1-forma

differenziale continua su U , allora si dice integrale della forma α sulla catena c, e si denota∫

cα il

numero ∫cα := a1

∫σ1

α+a2

∫σ2

α+ . . . ar

∫σr

α (209)

dove l’integrale∫

σiα e il solito integrale di una 1-forma lungo una curva parametrizzata, gia introdotto nella

definizione 9.3.6.

Osserviamo che per ogni curva γ : [a,b]→ Rn di classe C1, la funzione composta σ = γ h, dove h :[0,1]→ [a,b] e la funzione affine definita da h(t) = a+(b− a)t, e un 1-simplesso differenziabile tale che∫

γ

α =∫

σ

α per ogni 1-forma differenziale α. La dimostrazione e una immediata conseguenza delle

definizioni e della formula di integrazione per sostituzione (o di cambiamento di variabile negli integrali indimensione 1). In generale due catene c e k in U si dicono equivalenti se∫

cα =

∫k

α per ogni 1-forma differenziale contina α in U

Vediamo ora gli 0-simplessi e le zero catene.

Definizione 23.1.4 0-simplessi e 0-catene.i) Si dice simplesso standard 0-dimensionale (o 0-simplesso standard) l’insieme 0 che contiene come

unico elemento il numero 0.ii) Si dice simplesso 0-dimensionale (o 0-simplesso) in uno spazio topologico X ogni applicazione λ :0→ X .iii) Si dice catena 0-dimensionale (o 0-catena) in uno spazio topologico X una scrittura formale del tipo

ξ = a1λ1 +a2λ2 + . . .arλr (210)

dove λi, per i = 1,2, ...,r, sono 0-simplessi in X e ai sono numeri interi.

Identificheremo ogni 0-simplesso λ con il punto λ(0) e scriveremo la 0-catene ξ anche come combinazioneformale di punti a coefficienti interi:

ξ = a1λ1 +a2λ1 + . . .arλr = a1 p1 +a2 p2 + . . .ar pr

dove pi = λi(0) per i = 1, ...,r Come abbiamo visto sopra per le 1-catene, anche le 0-catene ξ si possonovedere come funzioni definite sull’insieme dei simplessi 0-dimensionali (ossia su X) a valori in Z, che sonodiverse da zero in un insieme finito di punti. Quindi anche in questo caso c’e una naturale operazione disomma nell’insieme delle 0-catene, che lo rende un gruppo commutativo: l’elemento neutro e la 0-catenache ha tutti i coefficienti nulli e la catena opposto di ξ e −ξ = ∑

ri=1(−ai)pi, infine il prodotto della 0-catena

ξ per un numero intero m ∈ Z e mξ = ∑ri=1(mai)pi.

Definizione 23.1.5 Integrale di una 0-forma differenziale su una 0-catena.Se ξ = a1 p1 +a2 p2 + . . .ar pr e una 0-catena in un aperto U ⊂ Rn e f e una 0-forma differenziale su U ,

ossia una funzione definita su U a valori reali, allora si dice integrale della 0-forma f sulla catena ξ, e si

denota∫

ξ

f il numero ∫ξ

f := a1 f (p1)+a2 f (p2)+ . . . ar f (pr) (211)

Concludiamo questa lunga sequenza di nozioni con la definizione di bordo di una 1-catena. Prima sidefinisce il bordo per un 1-simplesso e poi si estende per ‘linearita’ alle catene.

Definizione 23.1.6 Bordo di una 1-catena.i) Si dice bordo di un 1-simplesso σ : [0,1]→U ⊂ Rn, e si denota ∂σ, la 1-catena

∂σ := σ(1)−σ(0)

ii) Si dice bordo di una 1-catena c = a1σ1 +a2σ2 + . . .arσr in U ⊂ Rn, e si denota ∂c la 1-catena

∂c :=r

∑i=1

ai∂σi

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Utilizzando i termini appena introdotti, e immediato riformulare il teorema fondamentale del calcolo 13.5.1per le funzioni in Rn nei modi seguenti.

Teorema 23.1.7 Teorema fondamentale del calcolo per le funzioni sugli 1-simplessi. Per ogni 1-simplessodifferenziabile σ in un aperto U ⊂ Rn e per ogni 0-forma f di classe C1 definita su U , si ha∫

σ

d f =∫

∂σ

f (212)

Dimostrazione. Non c’e a dire il vero niente da dimostrare, e sufficiente mettere insieme i nomi che si sonodati ai diversi oggetti: il simplesso 1-dimensionale σ e una curva parametrizzata di classe C1([0,1]) a valoriin U ; posto σ(0) = p e σ(1) = q, per il teorema 13.5.1 si ha∫

σ

d f = f (q)− f (p)

d’altra parte, per la definizione di bordo di un 1-simplesso, si ha ∂σ = q− p e per la definizione 23.1.5 siha ∫

∂σ

f = f (q)− f (p)

e la ‘dimostrazione’ e conclusa.

Teorema 23.1.8 Teorema fondamentale del calcolo per le funzioni sulle 1-catene. Per ogni 1-catenadifferenziabile c in un aperto U ⊂ Rn e per ogni 0-forma f di classe C1 definita su U , si ha∫

cd f =

∫∂c

f (213)

Dimostrazione. Anche qui non c’e quasi niente da fare, e sufficiente ricordare come e definito l’integralesulle catene: se c = a1σ1 +a2σ2 + . . .arσr, allora (nel passaggio ∗

= si utilizza il teorema precedente)∫c

d f =r

∑i=1

ai

∫σi

d f ∗=

r

∑i=1

ai

∫∂σi

f =∫

∑ri=1 ai∂σi

f =∫

∂cf

L’integrale di una 1-forma α su una 1-catena differenziabile c viene anche denotato

〈c , α〉 (214)

e la (213) si scrive allora〈c , d f 〉 = 〈∂c , f 〉 (215)

Diamo ancora una definizione e poi qualche esempio

Definizione 23.1.9 1-catene chiuse. Una 1 catena c si dice chiusa se ∂c = 0

Esempio 23.1.10 .i) Un simplesso σ e una catena chiusa se e solo se σ(0) = σ(1)

ii) Consideriamo i simplessi σ1 e σ2 definiti da

σ1(t) = (t,0) , σ2(t) = (1, t)

e la catena c = σ1 +σ2 . Allora si ha

∂c = ∂σ1 +∂σ2 = [(1,1)− (1,0)]+ [(1,0)− (0,0)] = (1,1)− (0,0)

iii) Consideriamo anche i simplessi

σ3(t) = (t,1) , σ4(t) = (0, t)

e la catena k = σ3 +σ4 . Allora si ha ∂c = ∂k e ∂(c−k) = 0. In altre parole la catena ρ := c−k e chiusa.Integrare una 1-forma sulla catena ρ dell’esempio precedente produce lo stesso risultato che integrarla suuna curva γ di classe C1 a tratti che parametrizzi il bordo del quadrato Q = [0,1]× [0,1] in senso antiorario.iv) Consideriamo il simplesso µ(t) = (2cos2πt,2sin2πt) e la catena λ = ρ−µ. La catena λ parametrizzail bordo dell’aperto A = B2(0)\Q lasciando l’aperto a sinistra del verso di percorrenza.

In generale si comprende che le 1-catene sono un oggetto algebricamente efficiente che sostituisce le curveC1 a tratti. Nella prossima sezione, ad esempio, utilizzeremo la 1-catena ρ come ‘bordo’ del quadrato Q perenunciare il teorema di Stokes per le 1-forme su Q.

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23.2 Cubi e simplessi 2-dimensionali. Teorema di Stokes.

Definizione 23.2.1 Cubi e simplessi 2-dimensionali.i) Si dice cubo standard 2-dimensionale (o 2-cubo standard), e lo si denota Q2, l’insieme

[0,1]× [0,1] = (u1,u2) ∈ R2 ∣∣ 0≤ u1 ≤ 1 , 0≤ u2 ≤ 1

ii) Si dice simplesso standard 2-dimensionale (o 2-simplesso standard), e lo si denota ∆2, l’insieme

(u1,u2) ∈ R2 ∣∣ u1 ≥ 0, u2 ≥ 0, u1 +u2 ≤ 1

iii) Si dice cubo differenziabile 2-dimensionale (o 2-cubo differenziabile) in un aperto U ⊂ Rn ogni appli-cazione ψ : Q2→U di classe C1(Q2) (ossia ogni superficie parametrizzata di classe C1 definita su Q2).iv) Si dice simplesso differenziabile 2-dimensionale (o 2-simplesso differenziabile) in un aperto U ⊂ Rn

ogni applicazione ψ : ∆2→U di classe C1(∆2) (ossia ogni superficie parametrizzata di classe C1 definita su∆2).

Si possono definire anche 2-cubi e 2-simplessi che sono funzioni solamente continue a valori in uno spaziotopologico; con questi si costruiscono le catene che si utilizzano per la teoria dell’omologia singolarehttp://en.wikipedia.org/wiki/Singular_homology. In questa sede non ci interessa tale teoria e d’o-ra in poi considereremo solamente simplessi e cubi differenziabili in U ⊂Rn; spesso ometteremo l’aggettivodifferenziabile.

D’ora in poi denoteremo ∆0 il simplesso standard 0-dimensionale (che coincide con il cubo standard 0-dimensionale) e ∆1 il simplesso standard 1-dimensionale (che coincide con il cubo standard 1-dimensionale).Naturalmente si possono definire analogamente i simplessi e i cubi standard k-dimensionali per ogni k ∈N.

Definizione 23.2.2 Catene 2-dimensionali. Si dice catena (differenziabile) 2-dimensionale in un apertoU ⊂ Rn una scrittura formale del tipo

η =r

∑i=1

aiψi

dove, per ogni i, ψi e un 2-cubo o un 2-simplesso (differenziabile) e ai ∈ Z.

Chiamiamo momentaneamente W l’insieme di tutti i 2-simplessi e i 2-cubi in U . Come abbiamo gia vistoper le 0-catene e per le 1-catene, anche le 2-catene conviene pensarle come funzioni η : W→ Z, che hannovalore diverso da zero al piu in un insieme finito di punti, e si vede subito che le 2-catene sono un gruppocommutativo in cui l’elemento neutro e la catena che ha tutti i coefficienti nulli, inoltre l’elemento oppostodi η = ∑

ri=1 aiψi e η = ∑

ri=1(−ai)ψi.

Nella teoria dell’integrazione delle forme differenziali si usano di solito catene formate soltanto con cubi osoltanto con simplessi, e piu spesso catene di soli simplessi, ma e comodo anche usare entrambi.

Definizione 23.2.3 Integrale di 2-forme differenziali sulle 2-catene. Sia ω una 2-forma differenzialedefinita su un aperto U ⊂ Rn. Per ogni 2-catena (differenziabile) η = ∑

ri=1 aiψi si definisce integrale di ω

su η, e lo si denota∫

η

ω , estendendo linearmente l’integrale gia definito sui simplessi in (22.5.1).

∫η

ω :=r

∑i=1

ai

∫ψi

ω (216)

Definizione 23.2.4 Bordo dei 2-simplessi.i) Si dice bordo del 2-cubo standard Q e si denota ∂Q, la 1-catena

∂Q := σ1 +σ2−σ3−σ4 (217)

dove gli 1-simplessi σi sono definiti come nell’esempio 23.1.10 ii) Si dice bordo del 2-simplesso standard∆2, e si denota ∂∆2, la 1-catena

∂∆2 := τ0− τ1 + τ2

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dove gli 1-simplessi τi sono definiti come segue

τ0(t) = (1− t, t) , τ1(t) = (0, t) , τ2(t) = (t,0) (218)

iii) Si dice bordo di un due-cubo ψ, la 1-catena

∂ψ := ψσ1 +ψσ2−ψσ3−ψσ4 (219)

iii) Si dice bordo di un due-simplesso ψ, la 1-catena

∂ψ := ψ τ0−ψ τ1 +ψ τ2 (220)

Definizione 23.2.5 Bordo di una 2-catena.Si dice bordo di una 2-catena η = a1ψ1 +a2ψ2 + . . .arψr, e si denota ∂η la 1-catena

∂η :=r

∑i=1

ai∂ψi

A questo punto siamo in grado di enunciare e dimostrare il Teorema di Stokes. Procediamo per generalitacrescente.

Teorema 23.2.6 Teorema di Stokes sul cubo e sul simplesso standard.i) Per ogni 1-forma differenziale α di classe C1 definita sul cubo standard Q2 si ha∫

Q2

dα =∫

∂Q2

α =∫

σ1

α+∫

σ2

α−∫

σ3

α−∫

σ4

α (221)

ii) Per ogni 1-forma differenziale α di classe C1 definita sul simplesso standard ∆2 si ha∫∆2

dα =∫

∂∆2

α =∫

τ0

α−∫

τ1

α+∫

τ2

α (222)

Dimostrazione. Dimostriamo i), l’enunciato ii) e del tutto analogo. Per la (185) e grazie alle formule diGreen in un rettangolo (110), possiamo scrivere∫

Q2

dα =∫

Q2

[D1α2−D2α1]du1du2 =

∫ 1

0α2(1, t)dt−

∫ 1

0α2(0, t)dt +

∫ 1

0α1(t,0)dt−

∫ 1

0α1(t,1)dt =∫

σ2

α−∫

σ4

α+∫

σ1

α−∫

σ3

α =∫

∂Q2

α

Teorema 23.2.7 Teorema di Stokes sui cubi e sui simplessi.Se α e una 1-forma differenziale di classe C1 su un aperto U ⊂ Rn e ψ e un simplesso o un cubo

(differenziabile) in U , allora si ha ∫ψ

dα =∫

∂ψ

α (223)

Dimostrazione. Supponiamo che ψ sia un cubo, se fosse un simplesso la dimostrazione e identica. Per laproposizione 207 si ha ∫

ψ

dα =∫

Q2

ψ∗(dα)

Per la (205) si ha ∫Q2

ψ∗(dα) =

∫Q2

d ψ∗(α)

Per il Teorema di Stokes sul cubo standard, appena dimostrato sopra, si ha∫Q2

d ψ∗(α) =

∫∂Q2

ψ∗(α) =

∫σ1

ψ∗(α)+

∫σ2

ψ∗(α)−

∫σ3

ψ∗(α)−

∫σ4

ψ∗(α)

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e per la (206) l’ultimo membro a destra e uguale a∫ψσ1

α+∫

ψσ2

α−∫

ψσ3

α−∫

ψσ4

α

che a sua volta, per la definizione (219), e uguale a∫∂ψ

α

La dimostrazione e conclusa.

Teorema 23.2.8 Teorema di Stokes sulle 2-catene.Se α e una 1-forma differenziale di classe C1 su un aperto U ⊂ Rn e η e una 2-catena (differenziabile) in

U , allora si ha ∫η

dα =∫

∂η

α (224)

Dimostrazione. Se η = ∑ri=1 aiψi, per la definizione di integrale su una catena e per il Teorema di Stokes

per i simplessi e i cubi, si ha immediatamente:∫η

dα =R

∑i=1

∫ψi

dα =R

∑i=1

∫∂ψi

α =∫

∂η

α

e la dimostrazione del Teorema di Stokes per le 2-catene in Rn e conclusa.

Osserviamo che il Teorema di Stokes ha esattamente la stessa forma del Teorema fondamentale del Calcoloper le funzioni, o 0-forme, (Teorema 23.1.8) e possiamo a tutti gli effetti considerarlo come la generaliz-zazione 2 dimensionale del Teorema Fondamentale del Calcolo. La teoria qui sviluppata per le 2-formedifferenziali e per le 2-catene si estende alle k-forme differenziali e alle k-catene, per k = 3,4, ...,n con lostesso linguaggio e le stesse idee, con qualche complessita tecnica, di cui si fanno pero carico l’algebra es-terna [di H.Grassmann] http://en.wikipedia.org/wiki/Exterior_algebra e il calcolo differenzialeesterno [di E.Cartan]. Si definisce il differenziale esterno di una k-forma differenziale, che e una (k+ 1)-forma differenziale, si definisce il bordo di una (k+1)-catena, che e una k-catena e si dimostra in generaleche se α e una k-forma differenziale di classe C1 su un aperto U ⊂Rn e η e una (k+1)-catena differenziabilein U , allora vale ∫

η

dα =∫

∂η

α (225)

che si scrive anche〈η , dα〉 = 〈∂η , α〉 (226)

Quest’ultima formulazione suggerisce una dualita fra le catene e le forme differenziali. Cosı e in effetti: el’operatore differenziale esterno si trasforma nell’operatore bordo.

Per ogni grado k si possono definire le k-forme ω chiuse, che sono quelle tali che dω = 0 e le k forme esatte,ossia quelle che si possono ottenere come differenziale di una (k−1) forma. Se denotiamo con F k lospaziodelle k-forme differenziali su un aperto U ⊂ Rn, allora le k-forme chiuse C k sono il nucleo dell’operatore

d : F k→ F k+1

mentre le k-forme esatte E k sono l’immagine dell’operatore

d : F k−1→ F k

Poiche ddω = 0, per ogni k si ha che E k e un sottospazio vettoriale di C k e si puo considerare lo spazioquoziente

Hk(U) := C k/E k

La dimensione di Hk e una misura di quanti ‘buchi’ k-dimensionali ha l’aperto U . Un teorema di De Rhamlega in modo preciso gli spazi Hk, che sono la coomologia di De Rham dell’aperto U, alla topologia, e inparticolare all’omologia, dello spazio topologico U . Il tutto si estende alle varieta differenziabili.

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Le sezioni seguenti, che completano la parte di integrazione delle forme differenziali sono state in effettisvolte nelle lezioni del 10, 13 e 14 dicembre.

23.3 Integrali di forme differenziali in R2

Esercizio 23.3.1 Si considerino le funzioni lineari f ,g : R2→R definite da

f (u) =−2u1 +u2 , g(u) = 3u1−u2 , ∀u = (u1,u2) ∈ R2

Poiche lo spazio A2(R2) delle 2-forme bilineari alternanti in R2 ha dimensione 1, si deve avere

g∧ f = ce1∧ e2 (227)

per un opportuno c ∈ R. Si chiede di trovare tale valore di c.Soluzione. Svolgiamo l’esercizio in due modi equivalenti. Primo modo: la (227) equivale a dire che perogni coppia di vettori u,v ∈ R2 si ha

[g∧ f ](u,v) = c [e1∧ e2](u,v)

Prendendo in particolare u = e1, v = e2 si ottiene

[g∧ f ](e1,e2) = c [e1∧ e2](e1,e2)

dove [e1∧ e2](e1,e2) = e1(e1)e2(e2)− e1(e2)e2(e1) = 1 . Si ha quindi

c = [g∧ f ](e1,e2) = g(e1) f (e2)−g(e2) f (e1) = 3 ·1− (−1) · (−2) = 1

In conclusione si ha g∧ f = e1∧ e2.Vediamo ora il secondo modo di svolgimento che usa la bilinearita del prodotto esterno (che si puo vederecome una proprieta ‘distributiva’ del prodotto rispetto alla somma): per le funzioni g ed f si ha:

g(u) = 3e1(u)− e2(u) , f (u) =−2e1(u)+ e2(u) ∀u ∈ R2

in altri termini si hag = 3e1− e2 , f =−2e1 + e2

e quindi

g∧ f = (3e1− e2)∧ (−2e1 + e2) = 3e1∧ (−2e1)+3e1∧ e2 +(−e2)∧ (−2e1)+(−e2)∧ e2 =

= 3e1∧ e2 +2e2∧ e1 = 3e1∧ e2−2e1∧ e2 = e1∧ e2

Esercizio 23.3.2 Si consideri la 2-forma differenziale ω = (x1x2 + x21)dx1∧dx2 su R2 e se ne calcoli l’in-

tegrale sul quadrato standard Q in R2.Soluzione. Consideriamo su R2 l’orientazione standard. Per la definizione 22.4.1 l’integrale cercato e∫

Qω =

∫Q

ωx(e1∧ e2)dx1dx2 =∫

Q(x1x2 + x2

1)[dx1∧dx2](e1,e2)dx1dx2 =

=∫

Q(x1x2 + x2

1)dx1dx2 =∫ 1

0x1dx1 ·

∫ 1

0x2dx2 +

∫ 1

0x2

1dx1 =12· 1

2+

13=

712

Esercizio 23.3.3 Siano date due funzioni f 1, f 2 : Q→R di classe C1(Q). Si possono allora considerare idifferenziali d f 1 e d f 2, che sono 1-forme differenziali, e la 2-forma differenziale d f 1∧d f 2. Che significato

geometrico ha l’integrale∫

Qd f 1∧d f 2 ?

Soluzione. Consideriamo la mappa f : Q→R2 definita da f (u) := ( f 1(u), f 2(u)) e sia D f (u) la suamatrice jacobiana. Scriviamo ora i differenziali delle funzioni f 1, f 2

d f 1u =

∂ f 1

∂u1(u)du1 +

∂ f 1

∂u2(u)du2 , d f 2

u =∂ f 2

∂u1(u)du1 +

∂ f 2

∂u2(u)du2

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e osserviamo che

[d f 1∧d f 2]u =

(∂ f 1

∂u1(u)

∂ f 2

∂u2(u)− ∂ f 2

∂u1(u)

∂ f 1

∂u2(u))

du1∧du2 = det(D f (u))du1∧du2

A questo punto, grazie alla formula (60) possiamo dire che: se il determinante det(D f (u)) e sempre mag-giore di zero, allora

∫Q d f 1 ∧ d f 2 = area( f (Q)); se il determinante det(D f (u)) e sempre minore di zero,

allora∫

Q d f 1 ∧ d f 2 = −area( f (Q)); in generale l’integrale∫

Q d f 1 ∧ d f 2 rappresenta un’area con segnodi f (Q) e puo essere nulla anche se area( f (Q)) 6= 0, ad esempio se la mappa f copre due volte lo stes-so insieme, una volta con orientazione opposta dell’altra. Questo accade ad esempio nel caso particolareseguente

f 1(u) =((2u1−1)2,u2

)dove si vede facilmente che f (Q) = Q, ma

∫Q

d f 1∧d f 2 = 0.

Esercizio 23.3.4 Si consideri la 1-forma differenziale α = x2dx+ xydy in R2. Si verifichi che per α vale ilteorema di Stokes sul quadrato Q.

Soluzione. Occorre verificare che∫

Qdα =

∫∂Q

α . Calcoliamo il primo integrale: il differenziale di α e la

2-formadα = (Dxαy−Dyαx)dx∧dy = (Dx(xy)−Dy(x2))dx∧dy = ydx∧dy

e si ha quindi∫

Qdα =

∫Q

ydxdy =12

. Calcoliamo ora il secondo integrale: per la definizione (217) il

bordo di Q e la catena σ1+σ2-σ3-σ4 dove i simplessi σi sono definiti nell’esempio 23.1.10; gli integrali diα sui simplessi sono i seguenti∫

σ1

α =∫ 1

0t2dt ,

∫σ2

α =∫ 1

0tdt =

12

,∫

σ3

α =∫ 1

0t2dt ,

∫σ4

α = 0

e insomma si ottiene ∫∂Q

α =∫

σ1

α+∫

σ2

α−∫

σ3

α−∫

σ4

α =12

che completa la verifica.

23.4 Esercizi di integrazione su curve e superfici in R3.

Esercizio 23.4.1 Siano R,a> 0. Si consideri il quadrato standard Q= [0,1]× [0,1] e denotiamo u=(u1,u2)i punti di Q. Si consideri la superficie parametrizzata ψ : Q→R3 le cui componenti sono le funzioni

x1 = ψ1(u) = Rcos(πu1)x2 = ψ2(u) = Rsin(πu1)x3 = ψ3(u) = au2

(228)

dove x = (x1,x2,x3) denota il generico punto in R3.

i. Si osservi che la mappa ψ e di classe C∞.

ii. Si rappresenti graficamente e si descriva a parole l’insieme M = ψ(Q).

iii. Si scrivano la matrice jacobiana e il differenziale di ψ.

iv. Si rappresentino graficamente e si descrivano a parole il piano tangente TpM a M nel generico punto

p = ψ(u) ∈ Q e i vettori b1(u) =∂ψ

∂u1(u), b2(u) =

∂ψ

∂u2(u) che sono una base di TpM . Si scriva

inoltre il prodotto vettoriale b1×b2 e si descriva la retta normale NpM a M in p

v. Si scriva lo jacobiano Jψ di ψ e si calcoli l’area di ψ(Q).

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Soluzione. i) Ciascuna delle componenti ψi e una funzione di classe C∞(Q), quindi anche ψ lo e.

ii) I punti u ∈ Q che sono del tipo u = (u1,0), ossia quelli che stanno sul ‘lato inferiore’ di Q, vengonomandati dalla mappa ψ, in corrispondenza biunivoca, nei punti della semicirconferenza di raggio R sulpiano coordinato x1x2, che sta nel semipiano x2 ≥ 0. I punti del tipo u = (u1,s), ossia quelli che stannosul segmento orizzontale ad altezza s di Q, vengono mandati dalla mappa ψ, in corrispondenza biunivoca,nei punti della semicirconferenza di raggio R sul piano x3 = as, che sta nel semipiano delle x2 ≥ 0. Sivede cosı che l’immagine di ψ, composta di tutte le semicirconferenze suddette, e il semi cilindro che: hacome proprio asse l’asse x3; ha altezza a, e precisamente e compreso tra i piani x3 = 0 e x3 = a; sta nelsemispazio x2 > 0. Per completezza si puo osservare anche che, per ogni t ∈ [0,1] fissato, i punti del tipou = (t,u2), ossia quelli che stanno sul ‘segmento verticale’ di ascissa t in Q, vengono mandati dalla mappaψ, in corrispondenza biunivoca, nel segmento ‘verticale’ di estremi (R,0,0) e (R,0,a).

iii) La matrice jacobiana Dψ(u) di ψ nel punto u ha come colonne i due vettori∂ψ

∂u1(u),

∂ψ

∂u2(u), ossia le

derivate parziali di ψ rispetto a u1 e u2 (si veda la sezione 6.3, quindi

Dψ(u) =

∂ψ1

∂u1(u)

∂ψ1

∂u2(u)

∂ψ2

∂u1(u)

∂ψ2

∂u2(u)

∂ψ3

∂u1(u)

∂ψ3

∂u2(u)

=

−πRsin(πu1) 0

πRcos(πu1) 0

0 a

(229)

Il differenziale dψu della mappa ψ in un punto u ∈ Q e

dψu =2

∑i=1

∂ψ

∂ui(u)dui =

2

∑i=1

3

∑j=1

∂ψ j

∂ui(u)ε jdui = −πRsin(πu1)ε1du1 +πRcos(πu1)ε2du1 +aε3du2

dove ε1,ε2,ε3 e la base standard in R3.

iv) Il piano tangente TpM a M in un punto p = (p1, p2, p3) = ψ(u) ∈ M e l’insieme (spazio affine 2-dimensionale)

TpM = p+ c1b1(u)+ c2b2(u)∣∣ c1,c2 ∈ R (230)

dove

b1(u) =∂ψ

∂u1(u) = (−πRsin(πu1),−πRsin(πu1),0)

b2(u) =∂ψ

∂u2(u) = (0,0,a) = aε3

(231)

Talvolta si chiama spazio tangente di M in p anche lo spazio vettoriale generato da b1,b2 (non traslato sup).Osserviamo che b1 e b2 sono le colonne della matrice jacobiana e sono vettori ortogonali. Se per ognip definiamo il vettore unitario τ(p) = (− p2

|p|,

p1

|p|,0), vediamo che b1(u) = τ(ψ(u)) per ogni u ∈ Q, e

vediamo che la terna ordinata di vettori (p|p|

,τ,ε3) e un sistema di riferimento ortonormale in R3 orientato

positivamente.A questo punto, grazie all’osservazione 19.5.2, si vede subito che il prodotto vettoriale di b1 per b2 e

[b1×b2](u) = |b1| · |b2|p|p|

= πRa(cos(πu1),sin(πu1),0) (232)

(le parentesi quadre a sinistra non sono necessarie e sono state messe solamente come supporto percettivo)dove p = ψ(u). Il prodotto vettoriale suddetto si puo scrivere anche usando la definizione 19.5.1:

[b1×b2](u) = (M23(u),−M13(u),M12(u)) = (πRa cos(πu1),πRa sin(πu1),0) (233)

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dove

Mi j(u) = det

∂ψi∂u1

∂ψ j∂u2

∂ψ j∂u1

∂ψ j∂u2

(234)

e il determinante della matrice quadrata che si ottiene scegliendo le righe i, j della matrice jacobiana Dψ(u).Per quanto appena detto, in ogni punto p = ψ(u) ∈M il vettore

ν(p) :=p|p|

=b1×b2

|b1×b2|

e ortogonale a TpM e la retta per p ortogonale a M, ossia la retta normale, e

NpM = p+ cν(p)∣∣ c ∈ R

La funzione p 7→ ν(p) e un campo di vettori normali a M, di lunghezza unitaria, continuo e anzi di classeC∞(M).

v) Per lo jacobiano di ψ si hanno le diverse formule equivalenti

Jψ(u) =√

det([Dψ]T Dψ) =

∑i< j

M2i j

12

= |b1×b2|= |b1| · |b2|sinα

dove α e l’angolo tra b1 e b2, che in questo caso e π

2 . In tutti i modi si ottiene Jψ(u) = πRa. Infine l’areadella superficie M (ossia l’area di ψ, poiche ψ e una parametrizzazione iniettiva di M), e:

area(M) =∫

QJψ(u)du1du2 = πRa · area(Q) = πRa

che corrisponde all’area del semi-cilindro nota elementarmente.

Esercizio 23.4.2 Nella stessa situazione dell’esercizio 23.4.1, per i, j = 1,2,3 i < j , si calcolino gliintegrali delle forme differenziali dxi∧dx j sul simplesso ψ definito in (228).

Soluzione. Per la (207), e poi per la terza delle (203) e per la (197) si ha∫ψ

dxi∧dx j =∫

Qψ∗(dxi∧dx j) =

∫Q

ψ∗(dxi)∧ψ

∗(dx j) =∫

Qdψ

i∧dψj

Con un calcolo come quello che si e fatto nell’esercizio 23.3.3 si vede ora che

dψi∧dψ

j = Mi j(u)du1∧du2

dove Mi j(u) e il minore gia considerato in (234), ossia il determinante jacobiano della mappa πi j ψ :Q→R2 che si ottiene componendo ψ con la mappa πi j : R3→R2 definita da

πi j : (x1,x2,x3) 7−→ (xi,x j)

Tenendo conto dell’esercizio 23.3.3 vediamo quindi che l’integrale∫

ψ

dxi∧dx j ha il significato di un’area

con segno della mappa πi j ψ. Facendo i calcoli nel caso particolare in considerazione, per l’integrale della2-forma dx1∧dx2 si ottiene: ∫

ψ

dx1∧dx2 =∫

QM12(u)du1du2 = 0

poiche M12(u) = 0 per ogni u ∈Q; questo e legato al fatto che il piano tangente TpM e sempre verticale e laproiezione sul piano coordinato x1x2 della superficie M ha dimensione 1. Per la forma dx1∧dx3 si ha poi∫

ψ

dx1∧dx3 =∫

QM13(u)du1du2 =

∫Q−πRasin(πu1)du1du2 =−2Ra

ossia l’integrale e uguale a −area(π13(M)). La cosa era attesa poiche si vede evidentemente che la mappaπ13 ψ e biunivoca e di classe C1, e il fatto che M13(u) < 0 per ogni u dice che la mappa π13 ψ manda

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il sistema di riferimento standard (e1,e2) nel sistema di riferimento (w1,w2) orientato negativamente (siosservi che w1 = π13(b1) e w2 = π13(b2), si disegnino i vettori w1,w2 e si veda sul disegno che l’orientazionee rovesciata. Infine per la 2-forma dx2∧dx3 si ottiene∫

ψ

dx2∧dx3 =∫

QM23(u)du1du2 =

∫Q

πaRcos(πu1)du1du2 = 0

in questo caso il minore M23(u) e non nullo e la proiezione dell’immagine di ψ sul piano coordinato x2x3 el’insieme π23(M) = (x2,x3)

∣∣ 0 ≤ x2 ≤ R , 0 ≤ x3 ≤ a che area uguale a aR 6= 0 , ma l’area con segnoche viene calcolata dall’integrale della 2-forma e zero poiche l’immagine viene percorsa esattamente duevolte, una volta con orientazione positiva e l’altra con orientazione negativa.

Esercizio 23.4.3 Si verifichi che per la 1-forma differenziale α(x) =−x2x3dx1 + x1x3dx2− x1x2dx3 in R3

vale il teorema di Stokes sul quadrato parametrizzato ψ (semicilindro) introdotto nell’esercizio 23.4.1.

Soluzione. Occorre verificare che nel caso particolare assegnato vale l’uguaglianza∫

ψ

dα =∫

∂ψ

α .

Calcoliamo il differenzialedα = 2x3dx1∧dx2−2x1dx2∧dx3

abbiamo quindi ∫ψ

dα =∫

Q2x3(u)M12(u)du1du2 +

∫Q(−2x1(u)M23(u)du2du3

dove, come si e visto negli esercizi immediatamente precedenti 23.4.1, M12(u) = 0 per ogni u e M23(u) =πaRcos(πu1). Pertanto si ha∫

ψ

dα =∫

Q(−2Rcos(πu1))πaRcos(πu1)du2du3 =−2πR2a

∫ 1

0cos2(πu1) = πR2a

A questo punto occorre verificare che lo stesso risultato si ottiene calcolando l’integrale su ∂ψ della 1-formaα. Ricordiamo che il bordo di ψ e la catena

∂ψ = ψσ1 +ψσ2−ψσ3−ψσ4

Semplici calcoli portano a ∫ψσi

α = 0 , per i = 1,2,4

mentre si ha

−∫

ψσ3

α =∫ 1

0[−Rsin(πt) ·a(−πRsin(πt)+Rcos(πt) ·a(πRcos(πt))]dt = πR2a

La verifica e cosı conclusa.

Esercizio 23.4.4 Ripetere gli esercizi 23.4.1, 23.4.2 e 23.4.3 per la superficie parametrizzata

x1 = ϕ1(u) = u1 R cos(πu2)x2 = ϕ2(u) = u2 R sin(πu2)x3 = ϕ3(u) = au2

u ∈ Q (235)

dove x = (x1,x2,x3) denota il generico punto in R3.

Esercizio 23.4.5 Ripetere gli esercizi 23.4.1, 23.4.2 e 23.4.3 per la superficie parametrizzata

x = ρR cosθ

y = ρR sinθ

z = aρ

(ρ,θ) ∈ [0,R]× [π

3,π] (236)

dove (x,y,z) denota il generico punto in R3.

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23.5 Flusso di un campo di vettori attraverso una superficie orientata in R3

Definizione 23.5.1 Sottovarieta orientabile.Sia M una sottovarieta regolare di dimensione 2 in R3. Si dice che M e orientabile se esiste un campo divettori h : M→R3 tale che:

i. h e una funzione continua

ii. h(x) e ortogonale al piano tangente TxM per ogni x ∈M

iii. |h(x)|= 1 per ogni x ∈M

Un tale campo di vettori si dice orientazione di M.

Se h e una orientazione di una sottovarieta orientabile 2-dimensionale M in R3, allora, per qualsiasi altraorientazione h1, e per qualsiasi punto x∈M il prodotto scalare g(x) = h(x) ·h1(x) puo avere soltanto i valori+1 e −1. Se inoltre assumiamo che M e connessa, poiche g e una funzione continua, segue che g deveessere costante: nel caso in cui g(x) e costantemente uguale a 1 si ha h1 = h, altrimenti si ha h1 = −h. Inconclusione: una varieta orientabile connessa ha esattamente due orientazioni.

Definizione 23.5.2 Sottovarieta orientata.Una sottovarieta orientabile si dice orientata se e stata scelta una sua orientazione 17.

Definizione 23.5.3 Flusso di un campo di vettori attraverso una superficie orientata.Sia M una sottovarieta regolare 2-dimensionale in R3, orientata dal campo di vettori normali ν. Per og-

ni campo di vettori F : M→R3 si dice flusso del campo F attraverso M l’integrale∫

MF · νdσ, quan-

do tale integrale ha senso(si veda la sezione 19.4 per la definizione dell’integrale di una funzione su unasuperficierispetto all’elemento di area dσ). Il flusso del campo F attraverso M si denota anche ΦM(F).

Vogliamo ora scrivere il flusso utilizzando una parametrizzazione della superficie. Supponiamo che lavarieta M sia l’immagine di una parametrizzazione 2-dimensionale ψ : A→R3 di classe C1, regolare einiettiva, dove A e un aperto connesso di R2, allora per ogni x ∈M, utilizzando anche le notazioni

b1(u) =∂ψ

∂u1(u) , b2(u) =

∂ψ

∂u2(u) , p = ψ(u)

introdotte nell’esercizio 23.4.1, si ha

ν(p) =b1(u)×b2(u)|b1(u)×b2(u)|

oppure ν(p) =− b1(u)×b2(u)|b1(u)×b2(u)|

Nel primo caso di dice che l’orientazione di ψ e la stessa di M, nel secondo si dice invece che l’orientazionedi ψ e opposta a quella di M. Se l’orientazione di ψ e la stessa di M, allora il flusso di F attraverso M si puoscrivere come un integrale sul dominio A della parametrizzazione

ΦM(F) :=∫

MF ·νdσ =

∫A

F(ψ(u)) ·ν(ψ(u))Jψ(u)du1du2 =∫

AF(ψ(u)) · [b1×b2](u)du1du2 (237)

dove nell’ultimo passaggio si e usato il fatto che Jψ(u) = |b1 × b2| . Se invece l’orientazione di ψ eopposta a quella di M, nella formula appena vista si deve cambiare il segno all’ultimo integrale. Osserviamoche l’ultimo integrale a destra di (237) ha senso per ogni simplesso o quadrato differenziabile ψ, nonnecessriamente regolare e iniettivo e senza l’ipotesi che l’immagine sia una sottovarieta regolare, e taleintegrale si puo chiamare flusso di F attraverso il simplesso ψ. Precisamente diamo la seguente

Definizione 23.5.4 Flusso di un campo di vettori rispetto a un quadrato, un simplesso o una catena.Sia T il quadrato o il 2-simplesso standard in R2 e sia ψ : T→U ⊂ R3 una mappa differenziabile, non

necessariamente regolare. Sia inoltre F : U→ R3 un campo di vettori. Si dice flusso del campo F attraversoψ, e si denota Φψ(F), l’integrale

Φψ(F) =∫

TF(ψ(u)) · [ ∂ψ

∂u1× ∂ψ

∂u2](u)du1du2 (238)

17Una definizione analoga si puo dare per le sottovarieta (n−1)-dimensionali in Rn. Anche per le varieta k-dimensionali in Rn sipuo definire la nozione di orientazione, in modo intrinseco, ad esempio utilizzando un ‘campo’ di sistemi di riferimento (si ricordi lasezione 22.3)

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Se ξ = ∑ri=1 aiψi e una 2-catena differenziabile, allora il flusso del campo F attraverso ξ, che si denota

Φξ(F), si definisce come segue

Φξ(F) =r

∑i=1

aiΦψi(F) (239)

Osserviamo che l’integrale che definisce il flusso di un campo F attraverso un simplesso ψ e certamentedefinito nel senso di Cauchy se F e una funzione continua e la funzione ψ e di classe C1(T ). Per l’e-sistenza dell’integrale secondo Riemann bastano pero condizioni piu deboli e ancor meno e necessario perl’esistenza dell’integrale nel senzo di Lebesgue.

Esercizio 23.5.5 Si calcoli il flusso del campo di vettori F(x) = x attraverso il semicilindro M = ψ(u) ,dove ψ e la superficie parametrizzata definita in (228), orientato dal campo di vettori normali che vale e1nel punto q = (R,0,0).

Soluzione. Osserviamo subito che [b1× b2](q) = (1,0,0) = e1, e quindi ψ ha la stessa orientazione di M.Di conseguenza il flusso cercato e∫

MF ·νdσ =

∫A

F(ψ(u)) · [b1×b2](ψ(u))du1du2 =

=∫

A

3

∑i=1

xi(u) [b1×b2]i(ψ(u))du1du2 =∫

Aψ1(u)M23(u)−ψ2(u)M13(u)du1du2 =

=∫

QRcos(πu1)πRacos(πu1)+Rsin(πu1)πRasin(πu1)du1du2 = πR2 a

23.6 Teorema di Stokes per i campi di vettori in R3

Definizione 23.6.1 Rotore di un campo di vettori.Sia U un aperto in R3 e sia F : U→R3 un campo di vettori. Scriviamo

F = (F1,F2,F3)) = F1ε1 +F2ε2 +F3ε3

dove ε1,ε2,ε3 e la base standard di R3, e supponiamo che ciascuna delle componenti Fi sia differenziabilein un punto x ∈U . Si dice rotore del campo di vettori F nel punto x il vettore

rotF(x) = (D2F3(x)−D3F2(x))ε1− (D1F3(x)−D3F1(x))ε2 +(D1F2(x)−D2F1(x))ε3

Se il campo F e differenziabile in ogni punto di U , allora si puo considerare la funzione x 7→ rotF(x), cheancora si chiama rotore di F e si denota rotF . Infine si puo considerare l’operatore rot : F 7→ rotF , che sichiama rotore.

Osservazione 23.6.2 Consideriamo un campo di vettori G : A→R2 , dove ;G = (G1,G2), definito su unaperto A in R2 e differenziabile in A. Consideriamo poi il campo F(x1,x2,x3) := G(x1,x2), definito perogni (x1,x2,x3) ∈U := A×R. Allora il rotore di F puo avere soltanto la terza componente non nulla, chenon dipende da x3. Precisamente si ha

rotF(x1,x2,x3) = [D1G2(x1,x2)−D2G1(x1,x2)]ε3

Per questo motivo la funzione D1G2−D2G1 , definita su A a valori reali, si chiama talvolta ‘rotore’ delcampo G (si veda il teorema 16.4.1 e la considerazione che lo segue).

Osservazione 23.6.3 Si noti che le componenti del rotore

[rotF ]1 = D2F3−D3F2 =

(det

D2 F2D3 F3

)

[rotF ]2 =−(D1F3−D3F1) =−det(

D1 F1D3 F3

)[rotF ]3 = D1F2−D2F1 = det

(D1 F1D2 F2

)102

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sono formalmente i ‘minori’ della matrice di simboli D1 F1D2 F2D3 F3

e si possono vedere come le componenti del prodotto vettoriale formale tra il vettore dei simboli dellederivate parziali ∇ = (D1,D2,D3) e il vettore F . Si usa quindi anche la notazione

∇×F := rotF

Abbiamo gia dato la definizione (89) di ‘lavoro del campo F lungo una curva differenziabile σ : [a,b]→Rn’che denoteremo ora anche

Lσ(F) :=∫ b

aF(σ(t)) · γ′(t)dt (240)

La definizione si estende immediatamente alle 1-catene differenziabili γ = ∑ri=1 aiσi come indicato sotto

Lγ(F) :=r

∑i=1

aiLσi(F) (241)

L’integrale (240) di un campo di vettori F lungo una curva (o una catena) chiusa γ, specialmente in Fisica,viene chiamato anche circuitazione del campo lungo γ e si trova denotato talvolta∮

γ

F · τds

Possiamo infine enunciare il teorema di Stokes per i campi di vettori in R3.

Teorema 23.6.4 Teorema di Stokes per una catena differenziabile.Se ξ=∑

ri=1 aiψi e una 2-catena differenziabile in un aperto U ⊂R3 e F e un campo di vettori differenziabile

su U , alloraΦξ(rotF) = L∂ξ(F) =

∮∂ξ

(F)F · τds (242)

Prima di dimostare il teorema, osserviamo che se la catena ξ e costituita da un solo quadrato18 differenzi-abile ψ : Q→R3, che e regolare e iniettivo e ha come immagine la sottovarieta M allora la (242) si scriveanche ∫

MrotF ·νdσ =

∫∂M

F · τds (243)

dove si e posto

∂M =4⋃

i=1

Γi , Γi = [ψσi]([0,1]) σi come nell’esempio 23.1.10

ν(p) =b1(u)×b2(u)|b1(u)×b2(u)|

, p = ψ(u) , ∀u ∈ Q

τ(p) =γi(t)|γi(t)|

, per p = γi(t) ∈ Γi , i = 1,2

τ(p) =− γi(t)|γi(t)|

, per p = γi(t) ∈ Γi , i = 3,4

Osservazione 23.6.5 Osserviamo che nell’enunciato del Teorema di Stokes, grazie alle definizioni utiliz-zate, la catena (che e una ‘superficie’) e il suo bordo (che e una ‘curva’) sono orientati automaticamentein un modo reciprocamente coerente. Precisamente: si rappresenti con un disegno o con un modellino3-dimensionale il caso di un simplesso regolare e si osservi che le orientazioni del simplesso e del suo bor-do, determinate dal vettore normale ν e dal vettore tangente τ definiti come sopra, sono tali che: nei puntip ∈ ∂M, se chiamiamo k(p) il vettore unitario tangente a M che punta verso l’esterno di M, la terna k,τ,νe un sistema di riferimento orientato positivamente in R3. In altri termini, ‘camminando’ lungo il bordo inverso positivo e con la ‘testa’ verso la direzione della normale alla superficie, la superficie rimane a sinistra.Questa situazione generalizza quella che si e incontrata nella formula di Stokes nel piano (16.4.1).

18In modo del tutto analogo si tratta il caso di un simplesso.

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Dimostrazione. Mostriamo che vale (242) nel caso di una superficie parametrizzata ψ : Q→R3 di classeC1 sul quadrato standard Q. Il caso di un simplesso si tratta in modo del tutto analogo e il caso generalesegue immediatamente. Consideriamo la 1-forma differenziale ω associata al campo di vettori F come nellasezione 13.4:

ω = F1dx1 +F2dx2 +F3dx3

E immediato che il lavoro del campo F lungo il bordo di ψ e uguale all’integrale su ∂ψ della forma ω, ossia

L∂ψ(F) =∫

∂ψ

ω

D’altra parte, grazie al teorema di Stokes 223 per le forme differenziali si ha∫∂ψ

ω =∫

ψ

e la dimostrazione sara conclusa se proveremo che∫ψ

dω = Φψ(rotF) (244)

Mostriamo ora quest’ultima formula: cominciamo a osservare che

dω = [D1F2−D2F1]dx1∧dx2 +[D1F3−D3F1]dx1∧dx3 +[D2F3−D3F2]dx2∧dx3

abbiamo allora ∫ψ

dω =∫

Qψ∗(dω) =

=∫

Q

[D1F2−D2F1]ψ dψ

1∧dψ2 +[D1F3−D3F1]ψ dψ

1∧dψ3 +[D2F3−D3F2]ψ dψ

2∧dψ3 =

=∫

Q[rotF ]3 ψM12 +[−rotF ]2 ψM13 +[rotF ]1 ψM23du1du2 =

=∫

Q[rotF ]3 ψν3 +[−rotF ]2 ψ(−ν2)+ [rotF ]1 ψν1du1du2 =

=∫

Q[rotF ] ·νdu1du2 = Φψ(rotF)

come si voleva dimostrare.

23.7 L’elettromagnetismo

In questa sezione e nella prossima utilizzeremo la teoria sviluppata nelle lezioni precedenti per dare unadescrizione sintetica delle leggi dell’elettromagnetismo. A lezione si e rapidamente discussa solamente una delleequazioni di Maxwell, ma si suggerisce comunque la lettura di queste sezioni, che dovrebbero aiutare a comprendere ilsignificato dei concetti matematici astratti presentati nel corso.

Lo sviluppo del calcolo differenziale e integrale in R3, in particolare delle formule di Green, del teoremadella divergenza (o di Gauss) e del teorema di Stokes, avviene soprattutto nella parte centrale del secoloXIX, in stretto collegamento con l’esplorazione sperimentale e la formulazione teorica delle leggi dell’elet-tromagnetismo, cui contribuiscono molti matematici e fisici (per maggiori informazioni si veda ad esempiohttp://en.wikipedia.org/wiki/History_of_electromagnetic_theory). In sintesi ricordiamo quiche i fenomeni elettrici e magnetici sono noti dall’antichita come curiosita naturali e vengono anche uti-lizzati per applicazioni pratiche, ad esempio nella bussola, la cui invenzione e attribuita ai Cinesi, ma nonsono collegati gli uni agli altri. All’inizio dell’Ottocento l’invenzione della pila di Volta (1800) consente diprodurre facilmente correnti continue di una certa intensita e si rende possibile l’osservazione e l’indaginesperimentale sull’elettricita e il magnetismo: la prima osservazione documentata, anche se non ben chiara,dell’effetto magnetico di una corrente avviene a Trento nel 1802 da parte dal giurista (e fisico dilet-tante) Giandomenico Romagnosi http://www.lincei.it/pubblicazioni/rendicontiFMN/rol/pdf/S2000-02-03.pdf; la prima accurata indagine sperimentale di tali effetti e dovuta a H.C.Oersted nel 1820.Le leggi delle forze elettromagnetiche e dell’induzione sono scoperte sperimentalmente da A.M.Ampere e

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M.Faraday nella prima meta dell’Ottocento ed e infine con J.C. Maxwell, intorno al 1864, che si ha l’ideadi campo elettromagnetico e si da una descrizione completa della sua dinamica, mediante un sistema diequazioni che legano i vettori campo elettrico E e induzione magnetica B con le loro derivate e con lecariche e la corrente. Come conseguenza delle sue equazioni, Maxwell ottiene le equazioni che descrivonola propagazione delle onde elettromagnetiche e ne prevede la velocita, che risulta (entro i limiti di preci-sione delle misure) pari alla velocita della luce: questo e un passo decisivo verso la comprensione della lucecome fenomeno elettromagnetico19. Sara infine con Einstein, all’inizio del secolo XX, che si avra la for-mulazione relativistica delle leggi dell’elettromagnetismo, invariante rispetto alle trasformazioni di Lorentznello spazio-tempo. Come riferimenti generali per l’elettromagnetismo e le equazioni di Maxwell diamo:R. Feynman, Lectures on Physics vol II e ad esempio la voce di Wikipedia sulle equazioni di Maxwellhttp://it.wikipedia.org/wiki/Equazioni_di_Maxwell.

Il campo elettromagnetico nello spazio-tempo e descritto da due campi di vettori dipendenti dal tempo

Et : R3 −→ R3 campo elettrico (245)

Bt : R3 −→ R3 campo magnetico (246)

che consideriamo anche come funzioni definite sullo spazio-tempo R3x×Rt

E(x, t) := Et(x) , B(x, t) := Bt(x)

La presenza del campo elettrico e del campo magnetico si manifesta sulle cariche elettriche con una forzache dipende dalla posizione e dalla velocita delle cariche stesse. Precisamente, su una carica q, che in uncerto istante t e concentrata in un punto x e si muove con velocita v, il campo elettromagnetico agisce conuna forza

F = q(Et(x)+ v×Bt(x)) (247)

dove v×B e il prodotto vettoriale dei vettori v e B. Questa formula si ottiene sperimentalmente e comprendecomplessivamente la definizione fisica della carica elettrica e dei campi E e B. Il campo elettrico e il campomagnetico e le loro derivate, insieme alle cariche e alle correnti elettriche, sono collegate tram loro dal sis-tema delle equazioni di Maxwell che descrivono completamente i fenomeni elettromagnetici ‘classici’ (nonrelativistici e non quantistici). Prima di scrivere le equazioni di Maxwell preciseremo i concetti di carica ecorrente.

Nella teoria di Maxwell si pensa che in ogni ‘regione’ dello spazio sia contenuta una certa carica elettrica.La carica si puo quindi descrivere come una funzione di insieme q : F→R, definita su una opportunafamiglia F di insiemi nello spazio, ed e ragionevole attendersi che q sia additiva. Ad esempio, una caricadi valore c concentrata in un punto p si puo vedere come la misura cδp, dove δp e la misura di Dirac inp. Se abbiamo invece un insieme di cariche c1, ...,cn ∈ R concentrate rispettivamente nei punti p1, ..., pn,allora la carica complessiva e la misura c1δ1 + ...+ cnδn. Possiamo anche avere una carica distribuita conuna densita ρ rispetto a una misura µ definita su una σ-algebra F e la carica q in un insieme F e data quindida

q(F) =∫

Fρ(x)dµ

dove la funzione ρ e µ-sommabile. Come famiglia F conviene prendere sempre la famiglia di Borel, ossiala piu piccola σ-algebra in R3 che contiene gli aperti (e quindi i chiusi), poiche gli aperti sono misurabiliper tutte le misure che possono capitare e tale classe comprende tutti gli insiemi nei quali ci puo interessaredi misurare la carica contenuta. Come misura µ si puo prendere la misura di Lebesgue in R3, ma si puoprendere anche la misura 2-dimensionale su una superficie M o la misura 1-dimensionale su una curva Γ

e avremo allora rispettivamente distribuzioni superficiali o distribuzioni lineari di cariche. Per semplicitad’ora in poi assumiamo che per ogni t la densita di carica al tempo t rispetto alla misura di Lebesgue sia lafunzione ρt : R3→R e consideriamo anche la funzione ρ : R3×Rt→R, definita da ρ(x, t) := ρt(x).

19Then, all of a sudden, light was no longer ‘something else’, but was only electricity and magnetism in this new form− little piecesof electric and magnetic fields which propagate through space on their own. R. Feynman, Lectures on Physics II 18.5

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Nella teoria di Maxwell si definisce inoltre la corrente elettrica come un campo di vettori J : R3x×Rt→R3,

dipendente dal tempo, che denotiamo J(x, t) e anche Jt(x), mediante il quale si rappresenta il flusso del-la carica attraverso una superficie. Precisamente si assume20 che per ogni superficie S sufficientementeregolare e orientata si abbia

ddt

QS(t) = ΦS(Jt) (248)

dove QS(t) e la quantita di carica che fluisce attraverso S nell’intervallo di tempo [t0, t], e t0 e un istante ditempo fissato, minore di t. L’assunzione fatta, sotto ipotesi minimali di regolarita per il campo J, implicache per ogni disco piano Sr, di raggio r, centrato in un punto x e con vettore normale unitario ν, si ha

J(x, t) ·ν = limr↓0

(Q′Sr

(t)πr2

)(249)

ossiaQ′Sr(t) = aJ(x,y) ·ν+ ε(r) (250)

dove il termine di errore ε(r) e un infinitesimo di ordine superiore a r, precisamente: limr↓0

ε(r)r

= 0. Questo

implica che la componente J1(x, t) del vettore si puo pensare come la carica per unita di area che nell’inter-vallo tra t e t +dt fluisce attraverso un elemento infinitesimo di piano, collocato in x e parallelo a e2e3, indirezione e1. Analogamente si ha per le altre componenti.

Consideriamo ora per ogni aperto A la carica contenuta in A al tempo t:

qt(A) =∫

Aρtdµ =

∫A

ρ(x, t)dµ(x) (251)

e assumiamo che valgaqt(A)+Q∂A(t) = qt0(A) ∀t > t0 (252)

che esprime la legge di conservazione della carica elettrica: la carica che si trova in A al tempo t piu lacarica uscita attraverso il bordo nell’intervallo [t0, t] e uguale alla carica che si trovava in A al tempo t0. Sele funzioni in (252) sono derivabili rispetto a t segue immediatamente che

ddt

qt(A)+ddt

Q∂A(t) = 0 (253)

e in effetti, sotto ipotesi naturali di regolarita per la funzione ρ, per il campo J e per l’aperto A, si puodimostrare che

ddt

qt(A) =ddt

∫A

ρ(x, t)dµ(x) =∫

A

∂tρ(x, t)dµ(x) (254)

e (per il teorema della divergenza)

Φ∂A(Jt) =∫

AdivJt(x)dµ(x) (255)

Di conseguenza si ha ∫A

∂tρ(x, t)dµx +

∫A

divJ(x, t)dµx = 0 (256)

che si puo chiamare equazione di continuita per la carica in forma integrale. Osserviamo che l’operatoredivergenza qui denotato con div si applica alle variabili spaziali, a tempo fissato, e precisamente

divJ(x, t) =∂J1

∂x1+

∂J2

∂x2+

∂J3

∂x3

Quest’ultima relazione e verificata in particolare se A e un qualsiasi cubo o una qualsiasi sfera e, se lefunzioni sotto gli integrali sono continue21, segue l’uguaglianza puntuale

∂tρ(x, t) + divJ(x, t) = 0 ∀x,∀t (257)

che si chiama equazione di continuita per la carica.20In effetti nei libri di fisica si ‘dimostra’, ma le dimostrazioni sono intuitivamente convincenti e pero quasi sempre incomplete.

Una ‘dimostrazione’ da ipotesi minimali si puo fare, ma e un po’ delicata.21Se gli integrandi sono soltanto funzioni sommabili allora l’uguaglianza puntuale segue quasi-ovunque rispetto alla misura di

Lebesgue.

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23.8 Le equazioni di Maxwell

Enunciamo prima di tutto le equazioni di Maxwell come uguaglianze di integrali. Poi utilizzeremo i teoremidella divergenza e di Stokes per ottenere equazioni differenziali equivalenti.

La prima equazione integrale di Maxwell e

per ogni aperto limitato A in R3, in ogni istante di tempo, il flusso del campo elettrico Et uscente da A eproporzionale alla carica elettrica contenuta in A, ossia

ε0 Φ∂A(Et) = qt(A) (258)

ovveroε0

∫∂A

E(x, t) ·ν(x)dµ(x) =∫

Aρ(x, t)dµ(x) (259)

Questa prima equazione e sostanzialmente equivalente alla legge di Coulomb, che esprime la forza di at-trazione o repulsione di due cariche elettriche, unita al principio della sovrapposizione lineare dei campielettrici prodotti da piu cariche, l’una e l’altro ricavati sperimentalmente. La costante ε0 si esprime sem-plicemente in funzione della costante che compare nella legge di Coulomb.

La seconda equazione integrale di Maxwell e

per ogni superficie regolare orientata S, con bordo ∂S orientato coerentemente con S, e per ogni istante ditempo t la circuitazione del campo elettrico Et lungo il bordo ∂S e uguale alla derivata rispetto al tempodel flusso del campo induzione magnetica Bt attraverso S, ossia

L∂S(Et) = − ddt

ΦS(Bt) (260)

ovvero ∮∂S

E(x, t) · τ(x)ds = − ddt

∫S

B(x, t) ·ν(x)dσ (261)

Questa seconda equazione esprime le osservazioni sperimentali di Faraday e di Oersted, e in particolare ilfatto che il moto di un magnete vicino a un circuito produce una corrente nel circuito stesso.

La terza equazione integrale di Maxwell e

per ogni aperto limitato A in R3, in ogni istante di tempo, il flusso del campo induzione magnetica Btuscente da A e nullo, ossia

Φ∂A(Bt) = 0 (262)

dove Bt(x) := B(x, t), ovvero ∫∂A

B(x, t) ·ν(x)dµ(x) = 0 (263)

Questa terza equazione equivale all’osservazione sperimentale che il campo induzione magnetica non hasorgenti isolate, ossia non si possono separare un polo magnetico positivo da un polo magnetico negativo.

La quarta equazione integrale di Maxwell e

per ogni superficie regolare orientata S, con bordo ∂S orientato coerentemente con S, la circuitazione delcampo induzione magnetica Bt lungo il bordo ∂S e proporzionale alla combinazione lineare di due quantita:il flusso del vettore corrente elettrica Jt attraverso S e la derivata rispetto al tempo del flusso del campoelettrico Et attraverso S, e precisamente

c2L∂S(Bt) =ddt

ΦS(Et) +1ε0

ΦS(Jt) (264)

(dove c e una costante positiva che si ricava sperimentalmente collegandola alla legge di Ampere e chevedremo avere il significato di velocita di propagazione delle onde elettromagnetiche) ovvero

c2∮

∂SB(x, t) · τ(x)ds =

ddt

∫S

E(x, t) ·ν(x)dσ+1ε0

∫S

J(x, t) ·ν(x)dσ (265)

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Questa quarta equazione, nel caso in cui il campo elettrico non varia nel tempo e quindi il primo terminea destra e nullo, condensa le osservazioni sperimentali di Ampere sul campo magnetico generato da unacorrente. Il termine a secondo membro che contiene la derivata del flusso del campo elettrico viene in-serito da Maxwell al fine di rendere matematicamente e fisicamente consistente il sistema delle le quattroequazioni. Tale termine ha una importanza fondamentale per determinare l’accoppiamento delle equazioni(e dei campi) che porta alla propagazione delle onde elettromagnetiche.

Vediamo ora le equazioni di Maxwell in forma differenziale. Per il teorema della divergenza la prima e laterza equazione (259) e (263) si scrivono per ogni aperto A per cui valgono le formule di Green∫

AdivE(x, t) ·ν(x)dµ(x) =

1ε0

∫A

ρ(x, t)dµ(x) (266)

∫A

divB(x, t) ·ν(x)dµ(x) = 0 (267)

D’altra parte, la seconda e la quarta equazione integrale di Maxwell (261) e (265), trasformando il membroa sinistra con il Teorema di Stokes e a destra portando la derivata dentro l’integrale, diventano∫

SrotE(x, t) ·ν(x)dσ = −

∫S

∂tB(x, t) ·ν(x)dσ (268)

c2∫

SrotB(x, t) ·ν(x)dσ =

∫S

( ∂

∂tE(x, t)+

1ε0

J(x, t))·ν(x)dσ (269)

dove l’operatore rot si riferisce alle coordinate spaziali x, con t fissato. Sotto minimali ipotesi di regolaritaper le funzioni integrande, poiche (266) e (267) valgono in particolare per ogni cubo A di qualunque centroe spigolo, e (268) (269) valgono per ogni disco piano S, di qualunque centro, raggio e vettore normale, siottiene l’uguaglianza puntuale degli integrandi, ossia le equazioni differenziali di Maxwell:

divE(x, t) =1ε0

ρ

rotE(x, t) = − ∂

∂tB(x, t)

divB(x, t) = 0

c2rotB(x, t) =∂

∂tE(x, t)+

1ε0

J(x, t)

(270)

Nel caso in cui il campo magnetico e il campo elettrico sono stazionari, ossia non dipendenti dal tempo,i termini che contengono derivate rispetto al tempo si annullano e le equazioni di Maxwell si possonosuddividere in due gruppi di due equazioni, ciascun gruppo disaccoppiato dall’altro:

divE =1ε0

ρ

rotE = 0

equazioni del campo elettrico statico (271)

divB = 0

c2rotB = 1ε0

J

equazioni del campo magnetico statico (272)

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23.9 Potenziali elettromagnetici e onde elettromagnetiche piane. Velocita di propagazione

Indicheremo qui sinteticamente la via per trovare soluzioni particolari delle equazioni di Maxwell, fra cuile onde piane. A tal fine cerchiamo il campo induzione magnetica B del tipo

B = rotA (273)

dove A e un campo di vettori, dipendente anche dal tempo, che si dice potenziale vettore di Bt , e l’operatorerot agisce sulle variabili spaziali per ogni tempo fissato. Per i campi B di questo tipo la terza equazione diMaxwell divB = 0 e verificata automaticamente (infatti si prova facilmente che div(rotF) = 0 per ognicampo di vettori F di classe C2(R3)). Non sappiamo a priori se sara possibile trovare soluzioni di questotipo, ma possiamo ragionare euristicamente22 per trovare delle funzioni candidate ad essere soluzioni epoi controlleremo se effettivamente verificano le equazioni di Maxwell. Procediamo: con l’ipotesi (273)seconda equazione di Maxwell diventa

rotE =∂

∂t(rotA) = rot(

∂A∂t

)

dove abbiamo invertito l’ordine tra le derivate spaziali e la derivata temporale (euristicamente pensiamo checi sia abbastanza regolarita delle soluzioni) ossia

rot(E− ∂A∂t

) = 0 (274)

che e la condizione trovata a suo tempo in R3 per l’esistenza di un potenziale. Possiamo allora scrivere23

E− ∂A∂t

= ∇(−φ) (275)

dove φ e una funzione di x e t che si chiama (energia) potenziale scalare e ∇ e il vettore gradiente rispettoalle coordinate spaziali. Si ha dunque

E =−∇φ− ∂A∂t

(276)

e dalla prima equazione di Maxwell si ottiene

∆φ+∂

∂t(divA) =− ρ

ε0(277)

dove ∆φ = div(∇φ) e il laplaciano di φ rispetto alle variabili spaziali e di nuovo si sono invertite derivatespaziali con derivate temporali. Osserviamo ora che vale l’identita differenziale

rot(rotA) = ∇(divA)−∆A (278)

dove il laplaciano del campo di vettori A si ottiene prendendo il laplaciano di ogni componente. Da taleidentita e dalla quarta equazione di Maxwell, tenendo anche conto della (276), si ottiene

Jε0

= c2rot(rotA)− ∂E∂t

=−c2∆A+ c2

∇(divA))+∂

∂t∇φ+

∂2

∂t2 A (279)

che conviene riscrivere come segue

∆A− 1c2

∂2A∂t2 −∇

(divA+

1c2

∂φ

∂t

)=− J

ε0(280)

A questo punto si osserva che se i potenziali A e φ verificano anche la relazione

divA+1c2

∂φ

∂t= 0 (281)

le due equazioni (277) e (280) diventano22Si dice euristico un procedimento non rigoroso mediante il quale si riesce a intuire e prevedere un possibile risultato, che dovra

poi essere dimostrato per altra via.23Il segno meno davanti a φ e per mantenere convenzioni standard in Fisica: invece del potenziale si usa l’energia potenziale.

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∆φ− 1

c2∂2φ

∂t2 = − ρ

ε0

∆A− 1c2

∂2A∂t2 = − J

ε0

(282)

che sono equazioni delle onde non omogenee. Osserviamo che l’equazione per il potenziale vettore e ineffetti un sistema di equazioni, una per ciscuna compnente:

∆A1−1c2

∂2A1

∂t2 = −J1

ε0

∆A2−1c2

∂2A2

∂t2 = −J2

ε0

∆A3−1c2

∂2A3

∂t2 = −J3

ε0

(283)

Ai nostri fini osserviamo che in una regione dello spazio in cui le cariche e le correnti sono nulle, leequazioni precedenti diventano

∆φ− 1c2

∂2φ

∂t2 = 0 , ∆A− 1c2

∂2A∂t2 = 0 (284)

Prendendo il gradiente spaziale della prima equazione e il rotore della seconda si ottengono le equazionidelle onde per il campo elettrico e per il campo magnetico:

∆E− 1c2

∂2E∂t2 = 0 , ∆B− 1

c2∂2B∂t2 = 0 (285)

che hanno come soluzione particolare ad esempio24 l’onda pianaE = (0,u(x1− ct),v(x1− ct))

B = (0,−v(x1− ct))c

,u(x1− ct)

c)

(286)

dove f ,g : R→R sono funzioni qualsiasi. A questo punto si verifica direttamente che le funzioni in (286)sono soluzioni delle equazioni di Maxwell nel caso di cariche e correnti nulle. Tale soluzione si interpretacome un’onda che si propaga in direzione x1 con velocita c e che in ogni istante di tempo e costante suipiani ortogonali a x1. Si nota che in ogni punto e in ogni istante di tempo i vettori E e B sono ortogonalialla direzione di propagazione e ortogonali tra loro. Piu in generale si possono avere onde piane che si pro-pagano in qualsiasi direzione. Di particolare importanza sono le onde piane del tipo E = ei(k·x−ct) poichedalla loro sovrapposizione (utilizzando la sintesi di Fourier) si ottengono le onde generali.

Poiche la costante c e collegata ad altre costanti elettriche e magnetiche che erano note sperimentalmente,in particolare dai lavori di Coulomb, Ampere e Faraday, Maxwell la calcolo verso il 1860 e trovo che eramolto vicina, considerati gli errori di misura, alla velocita della luce, gia misurata indipendentemente daH.Fizeau e L.Foucault nel 1849 e 1850. Maxwell ritenne che questa non poteva essere una semplice casualecoincidenza e ne trasse una definitiva convinzione sulla natura elettromagnetica e sulle leggi di propagazionedella luce, che era stata gia intuita da alcuni. La forma attuale delle equazioni di Maxwell, e lo sviluppo delcalcolo differenziale vettoriale, con gli operatori divergenza e rotore, e stata data da O.Heaviside verso il1885. Osserviamo infine che per descrivere il campo elettromagnetico nella materia, al fine di tenere contodelle cariche degli elettroni e dei nuclei, si usa introdurre altri due campi di vettori: il campo spostamentoelettrico D, legato a E da una opportuna relazione, che si dice relazione costitutiva del mezzo, e il campomagnetizzazione H, a sua volta legato a B. Le equazioni di Maxwell sono allora date in termini dei quattrocampi E,D,B,H e delle due relazioni costitutive.

24R.Feynman cit. vol. II 20.7

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24 Lezione − Venerdı 30 novembre 2012 13.30 - 15.30 (2 ore)

Funzioni di insieme. Volume elementare degli intervalli. Misura di Peano-Jordan. Esempi di insiemi

numerabili.

25 Lezione − Lunedı 3 dicembre 2012 13.30 - 15.30 (2 ore)

Misura di Lebesgue in Rn. Subadditivita numerabile. La misura di Lebesgue di un intervallo e

uguale al volume elementare.

26 Lezione − Giovedı 6 dicembre 2012 13.30 - 15.30 (2 ore)

Misure esterne. Insiemi misurabili per una misura esterna (definizione di Caratheodory) e proprieta.

27 Lezione − Lunedı 10 dicembre 2012 13.30 - 15.30 (2 ore)

Esercizi sull’integrazione di forme differenziali in R2. Misure numerabilmente additive su una σ-

algebra. Convergenza puntuale e convergenza uniforme di una successione di funzioni. Approssi-

mazione di una funzione non-negativa con una successione crescente di funzione semplici. Idea

dell’integrale di Lebesgue

28 Lezione − Giovedı 13 dicembre 2012 13.30 - 15.30 (2 ore)

Esercizi sull’integrazione di forme differenziali

29 Lezione − Venerdı 14 dicembre 2012 13.30 - 15.30 (2 ore)

Rotore di un campo di vettori in R3. Flusso di un campo di vettori. Il Teorema di Stokes per i campi

di vettori in R3. Equazioni di Maxwell. Ulteriori esercizi sull’integrazione delle forme differenziali.

30 Lezione − Lunedı 17 dicembre 2012 13.30 - 15.30 (2 ore)

Terza prova in itinere

31 Lezione − Venerdı 21 dicembre 2012 13.30 - 15.30 (2 ore)

Funzioni misurabili. Integrale rispetto a una misura. Teorema di convergenza monotona. Teorema

di convergenza dominata. Funzioni sommabili. Spazio delle funzioni sommabili e norma L1.

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31.1 Il teorema di convergenza dominata di Lebesgue

Per tutta la parte di teoria della misura si rimanda al Diario del Corso per l’a.a. 2011/12. In questa sezioneenunciamo e dimostriamo il teorema di convergenza dominata di Lebesgue, che e di grande importanza enon si trova nel Diario 2011-12. A lezione si e dato l’enunciato senza dimostrazione.

Teorema 31.1.1 Teorema di Convergenza Dominata di Lebesgue Sia (X ,F ,µ) uno spazio con unamisura. Sia f j : X → R una successione di funzioni µ-misurabili. Siano inoltre f : X → R e g : X → Rfunzioni µ-misurabili e supponiamo che valgano le seguenti ipotesi

(*) f j(x)→ f (x) per j→ ∞ ∀x ∈ X

(**) | f j(x)| ≤ g(x) ∀x ∈ X , ∀ j ∈ N

(***)∫

X gdµ <+∞

Allora si ha:

(i) f e sommabile;

(ii) limj→∞

∫X

f jdµ =∫

Xf dµ

(iii) limj→∞

∫X| f j− f |dµ = 0 ossia lim

j→∞‖ f j− f‖L1(X ,µ) = 0

Dimostrazione. Da (*) e (**) segue che | f (x)| ≤ g(x) per ogni x e pertanto si ha∫

X | f | ≤∫

g. Da (***)segue allora che

∫X | f |<+∞ e (i) e provato.

Dimostreremo ora (iii), da cui poi otterremo immediatamente (ii). Consideriamo la successione di funzionih j = 2g− | f j− f |. Da (*) segue che per ogni x ∈ X si ha h j(x)→ 2g(x) . Inoltre si ha | f j(x)− f (x)| ≤| f j(x)|+ | f (x)| ≤ 2g(x) e quindi h j(x)≥ 0 per ogni x. Dal lemma di Fatou, applicato alle funzioni h j, si haallora

liminfj→∞

∫X

h j ≥∫

Xlimj→∞

h j =∫

X2g

dove il membro a sinistra si scrive anche

liminfj→∞

∫X(2g−| f j− f |) =

∫X

2g+ liminfj→∞

∫X(−| f j− f |) =

∫X

2g− limsupj→∞

∫X(| f j− f |)

In conclusione si ha quindi ∫X

2g− limsupj→∞

∫X(| f j− f |)≥

∫X

2g

da cui limsupj→∞

∫X(| f j− f |)≤ 0 e quindi lim

j→∞

∫X(| f j− f |) = 0 . Abbiamo cosı provato (iii).

Per mostrare (ii), basta osservare che∣∣∣∣∫Xf jdµ−

∫X

f dµ∣∣∣∣= ∣∣∣∣∫X

( f j− f )dµ∣∣∣∣≤ ∫

X| f j− f |dµ

e prendere il limite per j→ ∞, tenendo conto di (iii).

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prova n.3 17 dicembre 2012

Cognome Nome matricola

1.Calcolare le coordinate del baricentro del’insieme

E = (x,y,z) ∈ R3 ∣∣ |x|+ |y| ≤ z≤ c

[R. (0,0, 34 c) ]

2.Calcolare l’integrale della funzione f (x1,x2,x3) = x1x2 sul triangolo T ⊂ R3 di vertici

P0 = (0,0,−1) , P1 = (2,0,1) , P2 = (0,1,1)

[R.√

66 ]

3.Si consideri l’insieme aperto A = x ∈ R3

∣∣ R < |x| < 2R , , 0 ≤ x3 ≤ x1 . Si mostri che su A vale ilteorema della divergenza per il campo di vettori F(x) = x

[R. L’integrale della divergeza e 72 πR2 ]

4.Si considerino i seguenti quattro punti in R3

P0 = (0,0,0) , P1 = (1,0,0) , P2 = (0,1,1) , P3 = (0,0,1)

e le quattro curve

γ1(t) = tP1 , γ2(t) = P1 + t(P2−P1) , γ3(t) = P2 + t(P3−P2) , γ4(t) = tP3

definite su [0,1].i) Si dia una rappresentazione grafica delle curve γi(t);ii) si calcoli l’integrale della 1-forma α(x) = x1dx2 sulla catena γ1(t)+ γ2(t)+ γ3(t)− γ4(t);iii) si dia una interpretazione geometrica dell’integrale suddetto.

[R. ii) 12 ; iii) area dell’insieme contenuto nella proiezione della catena sul piano coordinato x1x2 ]

5.Si consideri la superficie parametrizzata ψ : [0,1]× [0,1]→ R3 definita da

ψ(u1,u2) =(u1 sinπu2 ,−u1 cosπu2 , 2u2

)i) si dia una rappresentazione grafica della superficie ψ;ii) si calcoli l’integrale

∫ψ

dx1∧dx2;iii) si calcoli l’integrale

∫ψ

x1dx1∧dx2;iv) si dia una interpretazione geometrica degli integrali suddetti.

[R. π

2 ; 23π

; area e prima coordinata del baricentro della proiezione sul piano coordinato x1x2 ]

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Indice1 Lezione − lunedı 17 settembre 2012 10.30 - 12.30 (2 ore)

Introduzione alla Teoria della Misura e dell’Integrazione. 11.1 Argomenti del corso, testi e riferimenti suggeriti, prerequisiti . . . . . . . . . . . . . . . . 11.2 Lunghezza e area in una prospettiva storica. Due enunciati del Teorema di Pitagora . . . . 21.3 Grandezze e proporzioni nella matematica greca. Archimede e la sfera. . . . . . . . . . . 3

2 Lezione − giovedı 20 settembre 2012 10.30 - 12.30 (2 ore)Introduzione al punto di vista moderno sulla misura 42.1 Notazioni per oggetti in R2 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 42.2 Misura come funzione di insieme - cosa ci aspettiamo da una buona nozione di ‘misura’. . 52.3 Insieme di Cantor . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7

3 Lezione − venerdı 21 settembre 2012 10.30 - 12.30 (2 ore)Prime definizioni del concetto di integrale 83.1 Area e volume nel Seicento prima del Calcolo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 83.2 L’integrale di Cauchy . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 93.3 Richiami su spazi metrici, funzioni continue, norme, prodotto scalare. . . . . . . . . . . . 103.4 L’integrale di Cauchy per funzioni di due variabili e le formule di riduzione . . . . . . . . 14

4 Lezione − lunedı 24 settembre 2012 10.30 - 12.30 (2 ore)Primi esercizi sugli integrali 154.1 Primi esercizi sugli integrali di funzioni di due variabili e sul volume dei solidi . . . . . . 15

5 Lezione − giovedı 27 settembre 2012 14.30 - 16.30 (2 ore)Esercizi 185.1 Centro di massa. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 185.2 Esercizi sul baricentro di un insieme. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 195.3 Esercizi sugli integrali di funzioni di due e tre variabili. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 19

6 Lezione − venerdı 28 settembre 2012 8.30 - 10.30 (2 ore)Coordinate affini, coordinate polari 206.1 Cambiamento della misura per trasformazioni lineari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 206.2 Coordinate affini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 216.3 Applicazioni differenziabili definite su sottoinsiemi in Rk a valori in Rn . . . . . . . . . . 216.4 Intervalli in R . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 236.5 Coordinate polari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 23

7 Lezione − Lunedı 1 ottobre 2012 10.30 - 12.30 (2 ore)Cambiamento di variabile negli integrali 257.1 Primi esempi di curve parametrizzate . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 257.2 Formula di integrazione per sostituzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 267.3 Cambiamento di variabile negli integrali in dimensione 1 . . . . . . . . . . . . . . . . . . 287.4 Cambiamento di variabile negli integrali in dimensione n . . . . . . . . . . . . . . . . . . 28

8 Lezione − Giovedı 4 ottobre 2012 14.30 - 16.30 (2 ore)Esercizi su coordinate polari. Introduzione agli integrali lungo le curve. 308.1 Calcolo di un’area in coordinate polari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 308.2 Introduzione all’integrale di una forma differenziale lungo una curva . . . . . . . . . . . . 30

9 Lezione − Lunedı 8 ottobre 2012 10.30 - 12.30 (2 ore)Introduzione alle forme differenziali 319.1 Primi esempi di integrali di 1-forme differenziali lungo una curva. . . . . . . . . . . . . . 319.2 Spazio duale, base duale, covettori e coordinate . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 329.3 1-forme differenziali come campi di covettori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 34

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10 Lezione − Lunedı 15 ottobre 2012 10.30 - 12.30 (2 ore)Prima prova intermedia 36

11 Lezione − Venerdı 19 ottobre 2012 8.30 - 10.30 (2 ore)Isomorfismi tra V e V ∗. Fibrato tangente. Derivata di una funzione composta. 3711.1 Isomorfismo tra uno spazio vettoriale V e il suo spazio duale V ∗. . . . . . . . . . . . . . . 3711.2 Spazio tangente, spazio cotangente; fibrato tangente, fibrato cotangente. . . . . . . . . . . 3811.3 Differenziale di una funzione composta. Il differenziale come applicazione fra spazi tan-

genti. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 38

12 Lezione − Lunedı 22 ottobre 2012 8.30 - 10.30 (2 ore)Esercizi e anticipazioni 39

13 Lezione −Mercoledı 24 ottobre 2012 8.30 - 10.30 (2 ore)Recupero della lezione del 18 ottobre - Esempi di integrazione di 1-forme differenziali. Lavoro diun sistema termodinamico che compie una trasformazione. Lavoro di un campo di vettori lungo unacurva parametrizzata. Teorema fondamentale del Calcolo per le 1-forme differenziali. Primitive diuna 1-forma 4013.1 Esempi di integrali di una 1-forma lungo una curva . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4013.2 Altri esempi di integrali di 1-forme differenziali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4013.3 Esempio: lavoro compiuto da un sistema termodinamico lungo una trasformazione . . . . 4113.4 Lavoro di un campo di vettori lungo una curva . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4313.5 Teorema fondamentale del Calcolo per le funzioni in Rn. Primitive di una 1-forma. . . . . 43

14 Lezione − Venerdı 26 ottobre 2012 8.30 - 10.30 (2 ore)Una 1-forma differenziale ha primitiva in un aperto A, se e solo se l’integrale della forma lungoqualsiasi curva chiusa in A e uguale a zero. Forme esatte e forme chiuse. Esatta ⇒ chiusa.Chiusa ⇒ esatta negli aperti stellati e negli aperti semplicemente connessi. Campi conservativi. 4514.1 Se l’integrale di una 1-forma differenziale lungo qualsiasi curva dipende soltanto dagli

estremi della curva, allora la forma ha una primitiva. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4514.2 Forme esatte e forme chiuse. Esatta ⇒ chiusa. Chiusa ⇒ esatta negli aperti stellati e

negli aperti semplicemente connessi. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4614.3 Campi conservativi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 49

15 Lezione − Lunedı 29 ottobre 2012 8.30 - 10.30 (2 ore)Lunghezza di una curva. Parametro lunghezza d’arco. Curve regolari, versore tangente, versorenormale e curvatura per le curve piane. Integrale lungo una curva rispetto alla lunghezza d’arco.Formule di Green e teorema della divergenza su un rettangolo. Equazione di Poisson ed equazionedi Laplace. 5015.1 Lunghezza di una curva. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5015.2 Parametro lunghezza d’arco. Curve regolari, versore tangente, versore normale e curvatura

per le curve piane. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5115.3 Integrale di una funzione lungo una curva, rispetto alla lunghezza d’arco. . . . . . . . . . 5315.4 Formule di Green e Teorema della divergenza su un rettangolo . . . . . . . . . . . . . . . 54

16 Lezione − Lunedı 5 novembre 2012 8.30 - 10.30 (2 ore)Formule di Green in un sottografico nel piano e in aperti decomponibili. Prima formulazione delTeorema di Stokes per campi di vettori nel piano ed equivalenza tra Formule di Green, Teoremadella divergenza e Teorema di Stokes. 5516.1 Formule di Green in un sottografico nel piano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5516.2 Formule di Green in aperti piu generali. Equivalenza tra le formule di Green e il teorema

della divergenza. Integrazione per parti in Rn. Esercizi. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5716.3 Laplaciano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5816.4 La formula di Stokes per i campi di vettori nel piano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5916.5 Esercizi su curve, lunghezza, forme differenziali, campi, divergenza, Green, Sokes . . . . 59

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17 Lezione − Giovedı 8 novembre 2012 13.30 - 15.30 (2 ore)Area di un parallelogramma nello spazio. Area di una superficie parametrizzata. Area di un grafico.Parametrizzazione della sfera. 6017.1 Area di un parallelogramma nello spazio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 6017.2 Area di una superficie parametrizzata . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 6217.3 Esempi ed esercizi: area di insiemi piani nello spazio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 6317.4 Esempi ed esercizi: area di un grafico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 6517.5 Esempi ed esercizi: coordinate sferiche nello spazio e parametrizzazione della sfera . . . . 67

18 Lezione − Giovedı 15 novembre 2012 13.30 - 15.30 (2 ore)Seconda prova in itinere 68

19 Lezione − Venerdı 16 novembre 2012 13.30 - 15.30 (2 ore)Angoli fra rette e piani in R3. Lunghezza e area delle proiezioni ortogonali. Teorema di Pitagora perle aree. Prodotto vettoriale. Integrale di una funzione sopra una superficie parametrizzata, rispettoall’elemento d’area. Vettore normale a una superficie parametrizzata. Casi particolari del teoremadella divergenza in R3. 6919.1 Sottospazio ortogonale. Proiezioni ortogonali. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 6919.2 Angolo fra due vettori, angolo fra due rette; angolo fra due piani in R3. . . . . . . . . . . . 7019.3 Lunghezza e area delle proiezioni ortogonali. Dimostrazione del Teorema di Pitagora per

le aree. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7119.4 Integrale di una funzione sopra una superficie parametrizzata, rispetto all’elemento di area. 7219.5 Prodotto vettoriale di due vettori in R3 e vettore normale a una superficie. . . . . . . . . . 7319.6 esercizi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7419.7 Divergenza del campo elettrostatico generato da una carica puntiforme . . . . . . . . . . . 7419.8 Area di una superficie di rotazione e teorema di Guldino. . . . . . . . . . . . . . . . . . . 75

20 Lezione − Lunedı 19 novembre 2012 10.30 - 12.30 (2 ore)Funzioni multilineari, prodotto tensoriale di covettori, tensori covarianti. Funzioni multilineari alter-nanti, prodotto esterno di covettori, significato geometrico, basi e dimensione del prodotto esterno.

7620.1 Funzioni multilineari, prodotto tensoriale di covettori e tensori covarianti. . . . . . . . . . 7620.2 Lunghezza di una curva su una di una superficie parametrizzata, prima forma fondamentale

e metrica riemanniana. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7820.3 Funzioni multilineari alternanti, prodotto esterno di covettori, significato geometrico del

prodotto esterno, basi e dimensione dello spazio prodotto esterno. . . . . . . . . . . . . . 79

21 Lezione − Venerdı 23 novembre 2012 8.30 - 10.30 (2 ore)Accorpata alla successiva 82

22 Lezione − Lunedı 26 novembre 2012 10.30 - 12.30 (2 ore)Forme differenziali di grado 2. Differenziale di una 1-forma. Sistemi di riferimento e orientazionein uno spazio vettoriale. Integrale di una 2-forma sopra una superficie parametrizzata. Pull-back diforme differenziali. 8222.1 Forme differenziali di grado 2, o 2-forme differenziali, su Rn. . . . . . . . . . . . . . . . . 8222.2 Differenziale di una 1-forma. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 8322.3 Sistemi di riferimento e orientazione in uno spazio vettoriale. . . . . . . . . . . . . . . . . 8422.4 Integrale di una 2-forma differenziale sopra un aperto orientato in R2 . . . . . . . . . . . . 8622.5 Integrale di una 2-forma differenziale sopra una superficie parametrizzata. . . . . . . . . . 8622.6 Pull-back di una forma differenziale. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 8722.7 Pull-back di una forma e integrazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 89

23 Lezione − Giovedı 29 novembre 2012 13.30 - 15.30 (2 ore)Simplessi e catene. Teorema di Stokes 9023.1 Simplessi e catene differenziabili di dimensione zero e 1. Integrale di una 1-forma su sim-

plessi e catene 1-dimensionali; integrale di una zero forma su una 0-catena. Bordo di una1-catena e catene chiuse. Riscrittura del teorema fondamentale del calcolo per le 0-formedifferenziali 13.5.1 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 90

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23.2 Cubi e simplessi 2-dimensionali. Teorema di Stokes. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9323.3 Integrali di forme differenziali in R2 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9623.4 Esercizi di integrazione su curve e superfici in R3. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9723.5 Flusso di un campo di vettori attraverso una superficie orientata in R3 . . . . . . . . . . . 10123.6 Teorema di Stokes per i campi di vettori in R3 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 10223.7 L’elettromagnetismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 10423.8 Le equazioni di Maxwell . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 10723.9 Potenziali elettromagnetici e onde elettromagnetiche piane. Velocita di propagazione . . . 109

24 Lezione − Venerdı 30 novembre 2012 13.30 - 15.30 (2 ore)Funzioni di insieme. Volume elementare degli intervalli. Misura di Peano-Jordan. Esempi di insieminumerabili. 111

25 Lezione − Lunedı 3 dicembre 2012 13.30 - 15.30 (2 ore)Misura di Lebesgue in Rn. Subadditivita numerabile. La misura di Lebesgue di un intervallo euguale al volume elementare. 111

26 Lezione − Giovedı 6 dicembre 2012 13.30 - 15.30 (2 ore)Misure esterne. Insiemi misurabili per una misura esterna (definizione di Caratheodory) e proprieta.

111

27 Lezione − Lunedı 10 dicembre 2012 13.30 - 15.30 (2 ore)Esercizi sull’integrazione di forme differenziali in R2. Misure numerabilmente additive su una σ-algebra. Convergenza puntuale e convergenza uniforme di una successione di funzioni. Approssi-mazione di una funzione non-negativa con una successione crescente di funzione semplici. Ideadell’integrale di Lebesgue 111

28 Lezione − Giovedı 13 dicembre 2012 13.30 - 15.30 (2 ore)Esercizi sull’integrazione di forme differenziali 111

29 Lezione − Venerdı 14 dicembre 2012 13.30 - 15.30 (2 ore)Rotore di un campo di vettori in R3. Flusso di un campo di vettori. Il Teorema di Stokes per i campidi vettori in R3. Equazioni di Maxwell. Ulteriori esercizi sull’integrazione delle forme differenziali.

111

30 Lezione − Lunedı 17 dicembre 2012 13.30 - 15.30 (2 ore)Terza prova in itinere 111

31 Lezione − Venerdı 21 dicembre 2012 13.30 - 15.30 (2 ore)Funzioni misurabili. Integrale rispetto a una misura. Teorema di convergenza monotona. Teoremadi convergenza dominata. Funzioni sommabili. Spazio delle funzioni sommabili e norma L1. 11131.1 Il teorema di convergenza dominata di Lebesgue . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 112

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CORREZIONI PRINCIPALI

15 ottobre 2012Modificata l’osservazione 3.2.4Modificata la iv) della definizione di distanza 3.3.1

22 ottobreModificato il primo m(F) in m(E) nelle (6), (7), (8) (sezione 2.2).

8 novembreAggiunto un fattore 1

2 che moltiplica l’integrale nel secondo termine della formula nell’esercizio 16.4.2

10 novembreAggiunti riferimenti a esercizi nella sezione 16.5

15 novembreSono stati tolti i valori assoluti ai determinanti nella definizione dei minori Mi j nella sezione 17.1, dopo la(128) e nella sezione 17.2, dopo la (136).

29 novembreNella dimostrazione della proposizione 20.3.3 diversi u1 e u2 dovevano essere v e sono stati modificati.Sono stati aggiunti i segni di = prima dei determinanti nelle tre formule in centro pagina in fondo a pag.80.

Nella formula (152) che definisce il baricentro di una superficie, si e aggiunto il fattore1

area(M)davanti

agli integrali, nonche lo jacobiano nell’ultimo integrale a destra.

30 novembreNella (175) lo spazio V ×V e stato modificato in V ∗×V ∗.

5 dicembreSi e aggiunto il termine differenziale esterno nella definizione 22.2.1

7 dicembreNel nome del teorema 13.5.1 e nel titolo della relativa sezione si e cambiato ‘per le 1-forme differenziali’in ‘per le funzioni in Rn’

10 dicembreCorrezioni nella definizione 23.2.1

27 dicembreNel titolo della lezione 19 del 16 novembre si e eliminata la frase ‘Flusso di un campo di vettori’ e si escritto ‘Casi particolari del teorema della divergenza in R3’.L’osservazione 22.3.6 e stata quasi completamente eliminata.

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Syllabus 2012-13

Per la parte di calcolo differenziale e integrale inRn, tutto il Diario 2012-13 con l’esclusione diProposizione 16.1.1 seconda parte della dimostrazioneProposizione16.1.2Della sezione 23.7, soltanto le prime due equazioni di maxwell (258), (259), (260), (261), (266), (268).Della sezione 31.1 solo l’enunciato del teorema di convergenza dominata.

Per la Parte di Teora della Misura, valgono le indicazioni sommarie date per ogni lezione, con i seguentiriferimenti complessivi al diario 2011-12.

Sez. 3.2 e Sez. 3.3. Sez. 4.1.Sez. 6.2: def.6.2.1; 6.2.2; 6.2.4. Prop. 6.2.5. Def 6.2.6. Prop. 6.2.7. Teorema 6.2.10 i,ii,iii,iv. Sez 6.3. Sez6.4Sez 7.1. Sez 7.3 tutta, ma dim teo 7.3.5 solo fino al punto 5.Teo 9.1.1 No dim punto i) Dim solo dei punti ii,iii, iv.Sez 9.2. Sez 9.3 solo 9.3.1, 9.3.2, 9.3.3, 9.3.4.Sez 10.1 prop. 10.1.1, Teo 10.1.4 solo enunciatoSez 10.2 Prop. 10.2.2Sez 11.1 Teorema 11.1.1 solo enunciatoSez 14.2. Sez 14.3Sez 14.3. Sez 14.3: def 14.4.2Sez 15.1 Def 15.1.1 Prop 15.1.7 i) senza dim. Prop 15.1.8 senza dim.Sez 15.2.2 senza dim Def 15.2.3 (integrale). Prop 15.2.4 senza dimSez 16.1.5 senza dim solo nel caso in cui esiste il lim

j→∞ f jpuntuale.

Sez 16.2.2 solo enunciato (conv momotona) Es 16.2.4. Es 16.2.5Sez 16.3 enunciato e idea della dimSez 17.1: 17.1.1; 17.1.2; 17.1.3Sez 17.2; 17.2.1; 17.2.2; prop 17.2.3 solo enunciatoSez 17.3: 17.3.1; 17.3.2; 17.3.3Sez 21.4, Def 21.4.1 nei casi p = 1 e p = 2, comprese (120), (121), (122)

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