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Dipartimento di Politiche Pubbliche e Scelte Collettive – POLIS Department of Public Policy and Public Choice – POLIS Working paper n. 62 December 2005 La politica sanitaria in Italia: dalla riforma legislativa alla riforma costituzionale P. Pellegrino UNIVERSITA’ DEL PIEMONTE ORIENTALE “Amedeo AvogadroALESSANDRIA

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Dipartimento di Politiche Pubbliche e Scelte Collettive – POLIS Department of Public Policy and Public Choice – POLIS

Working paper n. 62

December 2005

La politica sanitaria in Italia: dalla riforma legislativa alla riforma costituzionale

P. Pellegrino

UNIVERSITA’ DEL PIEMONTE ORIENTALE “Amedeo Avogadro” ALESSANDRIA

1

La politica sanitaria in Italia: dalla riforma legislativa alla riforma costituzionale

P. Pellegrino1

ABSTRACT Dopo le importanti riforme amministrative che hanno segnato la vita politica italiana dell’ultimo decennio, stiamo assistendo a un intenso processo di riforma costituzionale in grado di influire sui contenuti della politica sanitaria. Ma quali sono state le tappe di questo articolato processo normativo? Attraverso le pagine che seguono si procederà ad una sintetica ricostruzione ragionata del percorso seguito in Italia, analizzando i momenti fondamentali del percorso di riforma, legislativo prima e costituzionale poi, degli ultimi anni. Si dedicherà poi un approfondimento ad un aspetto specifico di questo processo di trasformazione, i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), che possono essere considerati come uno strumento chiave alla base della nuova politica sanitaria e dei possibili scenari in tema di rapporti tra lo Stato e le Regioni.

1 Un ringraziamento al Prof. Zanola per i proficui commenti e osservazioni che hanno accompagnato la stesura di questo articolo. Ogni eventuale errore è da imputarsi esclusivamente all’autrice. Ricerca co-finanziata PRIN 2003.

2

1. Introduzione Gli scenari di formulazione, attuazione e valutazione delle politiche pubbliche sono in

continua evoluzione. Le riforme degli ultimi anni, prima amministrative e poi costituzionali, stanno

modificando sostanzialmente l’assetto di governo nazionale del territorio e dei suoi cittadini a

favore di forme di governo decentrate. Cambiamenti così significativi sono destinati ad incontrare

diverse difficoltà e ostacoli nel corso della loro realizzazione ed è quanto sta avvenendo soprattutto

nei settori in cui le modifiche riguardano il sistema di diritti civili, costituzionalmente garantiti e

tutelati.

Tra questi settori un ruolo di rilievo è occupato dalla sanità che, ancor più che in altri settori,

coinvolge da vicino la persona e i diritti legati alla vita umana e alla sua salvaguardia. A partire

dagli anni ’90, le pressioni comunitarie e la spinta alla realizzazione del patto di stabilità interna

(Peres, 2002) hanno indotto il legislatore ad introdurre nuovi modelli organizzativi in sanità a

dimensione regionale con significative modifiche nella titolarità delle responsabilità amministrative

e politiche. Tra i principali obiettivi, accanto al miglioramento dei servizi sanitari, il contenimento e

la riduzione dei costi, da operarsi attraverso l’uso esclusivo di riforme legislative a Costituzione

invariata.

Tuttavia, il processo di modifica organizzativa non poteva prescindere da una definizione

puntuale dei contenuti assistenziali che il sistema sanitario deve continuare a garantire. E così,

accanto alla responsabilizzazione dei governi locali attraverso un coinvolgimento politico maggiore

delle Regioni nell’allocazione delle risorse, rimaneva viva l’esigenza di salvaguardare il principio di

equità, particolarmente sentito in un ambito così delicato quale quello sanitario (Taroni, 2000). Sul

finire degli anni ’90, quindi, l’attenzione si sposta verso le inevitabili modifiche del testo

costituzionale. Si trattava di trovare un punto di equilibrio tra il riconoscimento dell’autonomia e

della diversità regionale da una parte, in qualche misura funzionale al controllo della spesa sanitaria,

e il mantenimento e la salvaguardia dell’interesse nazionale dall’altra.

Lo scopo di questo lavoro è di procedere a una ricostruzione “ragionata” di questo processo

normativo che ha segnato la politica sanitaria in Italia, analizzando le tappe fondamentali del

percorso di riforma legislativo prima e costituzionale poi degli ultimi anni. A questo proposito

l’articolo risulta così organizzato. Nel paragrafo 2 sono illustrati i principali interventi legislativi

degli anni ’90. Il paragrafo 3 approfondirà un aspetto specifico di questo processo di

trasformazione, i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA). Nel paragrafo 4 saranno illustrati i

contenuti delle trasformazioni costituzionali in atto. Alcune osservazioni conclusive circa l’assetto

di governo della nuova politica sanitaria e i possibili scenari in tema di rapporti tra lo Stato e le

Regioni saranno infine illustrate nel paragrafo 5.

3

2. La politica sanitaria degli anni ‘90 La politica sanitaria in Italia nel corso degli ultimi anni è stata caratterizzata da una forte

spinta al decentramento. Tra le principali cause degli interventi normativi degli anni ‘90 la

convinzione da parte del legislatore che l’attribuzione del potere decisionale, e delle responsabilità

finanziarie conseguenti, a livello locale avrebbe potuto responsabilizzare maggiormente gli

amministratori pubblici verso comportamenti di spesa virtuosi (Pisauro, 2002 e Dirindin, 2001). A

partire dagli anni ‘90, dunque, si assiste a tre significative modifiche legislative nazionali in materia

di sanità, tutte a Costituzione invariata.

La prima di queste modifiche è rappresentata dai d.lgs. nn. 502/92 e 517/93 che introducono

alcuni meccanismi di concorrenza amministrata attraverso il trasferimento di importanti competenze

organizzative e finanziarie alle Regioni. Uno fra gli obiettivi principali è quello di tendere al

contenimento della spesa sanitaria, da realizzarsi attraverso la sperimentazione di nuovi modelli

organizzativi maggiormente concorrenziali tra fornitori di prestazioni. Per quanto attiene la

programmazione della politica sanitaria essa è garantita a livello centrale attraverso la definizione

del Piano sanitario nazionale, che precisa i livelli di assistenza da assicurare su tutto il territorio

nazionale e ne stabilisce i finanziamenti. L’esigenza che il governo vuole garantire è duplice: da un

lato garantire a tutti i cittadini un trattamento assistenziale uniforme su l’intero territorio nazionale,

dall’altro sensibilizzare (responsabilizzare) le Regioni sulla loro capacità di spesa sanitaria. Queste

ultime, infatti, sono a conoscenza del tetto di spesa a loro assegnato nel Piano e, nel caso di

disavanzo, sono tenute a far ricorso alla propria autonomia tributaria, o meglio a risorse proprie, per

coprire la spesa eccedente. I poteri delle Regioni, a fronte di questa forte responsabilità di spesa,

sono rafforzati notevolmente: sono le stesse Regioni, infatti, a decidere nello specifico la

programmazione territoriale, l’organizzazione delle proprie strutture sanitarie, controllando le

attività e i risultati finali della gestione.

Tuttavia, questo iniziale progetto di autonomia regionale viene successivamente modificato

nei suoi contenuti attraverso numerosi provvedimenti legislativi, attenuando, almeno in parte, la sua

portata innovativa (Maino, 2001). Inoltre, il rigore contabile perseguito dalla riforma di fatto viene

meno. Infatti, da un parte l’impianto iniziale della riforma non prevede un sistema efficace di

sanzioni per chi non rispetta i tetti di spesa, dall’altra è operativo in quegli anni un meccanismo di

contabilità nazionale secondo il quale si procede ad assegnazioni inferiori a quelle reali, ripianate

successivamente in sede di consultivo (Zanola, 1998).

E’ in questo contesto che si inserisce la cosiddetta Riforma ter (d.lgs. 229/99), nota anche

come Riforma Bindi. La riforma delinea un sistema sanitario integrato dove le responsabilità

programmatorie sono attribuite sia al governo centrale che agli enti locali, definendo in tal modo un

4

modello di cooperazione amministrata2. Da questo momento, infatti, le Regioni concorrono alla

definizione del Piano sanitario nazionale e a loro volta i comuni sono responsabili

dell’organizzazione dei servizi, attraverso la definizione dei distretti, nella maniera più utile (perché

vicina) per i cittadini.

Un ulteriore passo in avanti, in tema di finanza regionale, è infine compiuto con il decreto

legislativo 56/2000 (cd. Federalismo fiscale) che abolisce il Fondo Sanitario Nazionale di parte

corrente e assegna direttamente le risorse tributarie alle Regioni a statuto ordinario secondo il

principio della compartecipazione al gettito delle principali imposte (IVA, IRPEF e intero gettito

IRAP) e l’aumento della compartecipazione regionale all’accisa sulla benzina. La l. 488/2001,

inoltre, rimuove il vincolo di destinazione sulla spesa sanitaria, confermando la piena responsabilità

delle Regioni nella copertura di eventuali disavanzi finanziari. e introduce un fondo di solidarietà

perequativa3 operativo fino al 2013, anno di entrata a pieno regime della riforma (Muraro, 2002).

L’obiettivo primario delle riforme legislative (a Costituzione invariata) degli anni ’90 sembra

essere il tentativo di incidere sulla disciplina finanziaria delle Regioni, anche attraverso un loro

maggiore coinvolgimento. Diventa interessante, pertanto, poter capire se queste riforme abbiano

realmente conseguito questo obiettivo, valutazione, questa, tutt’altro che semplice. Seguendo le

analisi condotte dall’Isae, i valori della spesa corrente per la sanità e dell’incidenza di quest’ultima

sul Pil, infatti, nel biennio successivo ai primi interventi normativi sembrano contrarsi per poi,

successivamente, riprendere a crescere. D’altronde, non sembra che la prima contrazione della

crescita sia imputabile interamente agli effetti della riforma, dal momento che i tagli alla spesa

farmaceutica e al blocco delle risorse per il personale di quegli anni contribuiscono a rallentare la

spesa (Isae, 2004).

Dunque, la vera novità delle riforme legislative degli anni ’90 sembra essere non tanto il

risanamento dei conti pubblici sanitari, quanto il nuovo ruolo assunto dalle Regioni. E’, infatti, a

partire da quegli anni che inizia a delinearsi una nuova modalità decisionale, all’interno dei rapporti

tra Stato-Regioni, che si rafforza forse proprio in campo sanitario. Il governo centrale programma la

politica sanitaria con il Piano sanitario nazionale, fissa gli obiettivi fondamentali di prevenzione,

cura e riabilitazione, fissa le linee di indirizzo del SSN, stabilisce i LEA e i finanziamenti in parte

corrente e conto capitale. Tutte queste decisioni e i contenuti dei nuovi provvedimenti in materia

vengono definiti in seno alla Conferenza Stato-Regioni, attraverso pareri, intese, accordi,

deliberazioni tra i due livelli di governo, centrale e regionale. Si arriva così all’accordo Stato-

Regioni del 8 agosto del 2001, propedeutico alla legge 405/2001, e l’accordo del 22 novembre

2 La riforma prevede inoltre alcune misure di carattere specifico quali, ad esempio, la libera scelta, l’accreditamento, l’esclusività del rapporto di lavoro della dirigenza sanitaria. 3 Il Fondo calcola le risorse da attribuire alle Regioni sulla quota di compartecipazione all’IVA, in funzione di: popolazione residente, capacità fiscale, fabbisogni sanitari e dimensione geografica

5

2001, relativo alla definizione dei nuovi Livelli Essenziali di Assistenza (che diventerà il DPCM del

29 novembre 2001) che segnano una tappa significativa nelle relazioni Stato-Regioni.

6

3. Livelli essenziali di assistenza, standard minimi e interesse nazionale I Livelli essenziali di assistenza (Lea), introdotti nel 1992 con il decreto legislativo 5024,

rappresentano sostanzialmente lo strumento con cui si vorrebbero salvaguardati i principi di

universalità nell’accesso delle prestazioni erogate e di equità del servizio. In altre parole, sono lo

strumento con cui garantire l’omogeneità di diritti relativi alla salute per tutti i cittadini a

prescindere dal tipo di organizzazione sanitaria preposta. Allo stesso tempo, definendo le attività

finanziabili a carico del SSN, si punta a responsabilizzare le Regioni alla copertura delle spese

superiori al finanziamento in conto capitale. La loro è quindi una duplice funzione: governo della

spesa pubblica e tutela del principio di salvaguardia nazionale del diritto alla salute.

Nel paragrafo precedente si è illustrato come il percorso di riforma (a Costituzione invariata)

possa essere interpretato come uno strumento per incidere sulla disciplina finanziaria delle Regioni,

limitando per quanto possibile disavanzi di spesa sanitaria. In questo quadro, il ruolo dei Lea teneva

conto dell’esigenza di garantire ai cittadini un determinato livello di trattamento sanitario, ma

l’accento era posto sulla definizione delle attività finanziabili a carico del SSN nell’ambito delle

risorse garantite. Erano principalmente uno strumento di programmazione della spesa. È

interessante notare, quindi, che mentre i LEA inizialmente nascevano principalmente come

strumento di garanzia all’interno di un processo di riforma legislativa volta al contenimento dei

costi, negli ultimi anni, soprattutto in concomitanza con la riforma costituzionale (di cui si tratterà

in seguito) potrebbero rivestire un ruolo chiave nella definizione e nel mantenimento dell’interesse

nazionale.

Alla fine degli anni ’90, come evidenziato precedentemente, l’attenzione del legislatore verso

il mondo della sanità ha subito una svolta. Sicuramente i motivi, anche storici dietro questo

cambiamento sono molteplici: le spinte federaliste sono alimentate dalla presenza di forze partitiche

che rivendicano poteri sempre maggiori per le Regioni e, allo stesso tempo, reclamano per le stesse

una più importante autonomia finanziaria.

I pro e i contro legati a riforme di questo tipo sono ampiamente dibattuti in letteratura. Infatti,

se da un lato un processo radicale di federalismo, soprattutto finanziario, contribuirebbe a

valorizzare le particolari esigenze locali a livello regionale, dall’altro rischierebbe di esaltare forti

squilibri territoriali esistenti in Italia. Far dipendere la capacità di spesa di un ente dalla propria

capacità di entrata (soprattutto di natura impositiva) vorrebbe dire rafforzare soprattutto quegli

ambiti locali già più ricchi, o comunque meno gravati, ad esempio da significativi problemi

strutturali.

4 Per una completa ricostruzione dell’evoluzione dei LEA si rimanda a G. France, 2003.

7

Tuttavia la sfida complessa e cruciale è proprio questa: quale equilibrio è possibile tra

federalismo e conseguente autonomia nel definire programmi sanitari differenziati e la necessità di

garantire il diritto alla salute a la sua tutela a tutti i cittadini sul territorio nazionale?

L’attuale definizione dei Lea segue i principi enunciati prima nel Piano Sanitario Nazionale

del 1998/2000 e poi nel decreto legislativo 229 del 1999. Successivamente, con l’intesa raggiunta

nei due accordi Stato–Regioni del 2001 citati, sono stati precisati i loro contenuti. Il primo accordo

stabiliva le risorse attribuite alle Regioni per la Sanità (anni 2002-2004) e impegnava il Governo ad

adottare, sempre attraverso la Conferenza Stato-Regioni, un provvedimento per la definizione

puntuale dei LEA in relazione alle risorse stanziate. Le Regioni avrebbero potuto offrire prestazioni

superiori5, ma soltanto ricorrendo a risorse proprie. L’elenco predisposto nel secondo accordo,

tuttavia, non è andato molto oltre la previsione delle prestazioni ammesse, escludendone poche, di

fatto, rispetto a quelle già ammesse dal SSN (Isae, 2004). Per quanto riguarda le erogazioni di altre

prestazioni, ha richiamato le Regioni al rispetto del principio di appropriatezza organizzativa e di

economicità nell’utilizzazione delle risorse (ad esempio, nell’allegato 2C, ovvero nella quarta lista

predisposta con l’accordo, viene indicata una serie di servizi che più opportunamente possono

essere deospedalizzati o comunque non forniti con ricovero ordinario).

È utile rimarcare che i LEA indicano quali sono le prestazioni che si ha diritto a ricevere, ma

non precisano né la modalità di erogazione, né il “quantum”. Oggi i LEA sono dettagliati in quattro

liste6 (Arcà, 2003). La prima è una lista positiva di prestazioni garantite, articolata in 3 macrolivelli:

assistenza distrettuale; assistenza ospedaliera; assistenza sanitaria collettiva in ambiente di vita e di

lavoro. Ogni macrolivello è suddiviso, articolato in microlivelli distinti in servizi o gruppi di servizi

(prestazioni).

La seconda è una lista negativa di prestazioni, si tratta cioè, di interventi totalmente esclusi da

contribuzione pubblica. La terza lista prevede invece prestazioni, o gruppi di servizi parzialmente

esclusi dai LEA: si tratta di misure erogabili dalle Regioni con proprie risorse, secondo specifiche

condizioni cliniche. L’ultima lista dei LEA ha un contenuto molto diverso dalle precedenti, indica

infatti una serie di casi in cui le prestazioni sono incluse nei LEA, ma spesso sono erogate secondo

un profilo organizzativo potenzialmente inappropriato per le quali occorre comunque individuare

modalità di erogazione più efficienti, a parità di beneficio del paziente. Si parla di casi trattati

solitamente in regime di ricovero ordinario o in day hospital che le strutture sanitarie possono

trattare con diverse modalità assistenziali.

5L’accordo prevedeva anche altri impegni per il Governo, in questa sede se ne ricordano solo alcuni: l’attivazione di un tavolo di monitoraggio e verifica sui LEA effettivamente erogati e sulla corrispondenza dei livelli di spesa. Si segnala, comunque, che il testo integrale degli accordi è interamente pubblicato sul sito del Ministero della Salute. 6 Così come descritti dal DPCM 29 novembre 2001 e succ. modifiche.

8

Rimangono, tuttavia, dubbi su come garantire effettivamente l’uniformità dell’assistenza sul

territorio nazionale. Che rapporto esiste tra la definizione dei LEA e l’applicazione di standard

minimi (espressione, questa, che evoca qualcosa di diverso dal livello essenziale di assistenza)?

Nella definizione dei LEA, infatti, non si trova alcuna indicazione, come già accennato, circa il

quantum da fornire. Questo può sembrare in fondo naturale, in un contesto di processo di

federalismo in atto, dal momento che l’intenzione è differenziare sulla base delle esigenze espresse

a livello locale. Inoltre, se l’obiettivo principale fissato è la riduzione dei costi, questa si è

veramente raggiunta? Ed è possibile cercare di raggiungere un trade-off tra questa esigenza e la

rinnovata necessità di salvaguardia del principio di equità fra cittadini, a livello nazionale? Prima di

offrire alcune considerazioni conclusive, è utile sintetizzare il percorso di riforme costituzionali, in

continuo divenire, che sta interessando il nostro paese.

9

4. La Riforma della Costituzione: verso una nuova sanità pubblica Abbiamo precisato inizialmente che l’attenzione posta al contenimento della spesa e la

relativa efficienza volta a garantirla, avrebbe potuto finire per trascurare principi costituzionalmente

garantiti, quali l’equità, l’uguaglianza dei cittadini su tutto il territorio nazionale e gli aspetti

solidaristici essenziali delle politiche sanitarie (o comunque socio-assistenziali). Anche per questi

motivi, nel momento in cui inizia ad emergere la volontà delle Regioni di decidere autonomamente

in materia di sanità, l’attenzione si sposta al testo costituzionale, alle tutele offerte e alla sua

eventuale e necessaria modifica, cercando equilibri faticosi tra l’autonomia regionale e la garanzia

dei diritti dei singoli cittadini. I principali interventi di modifica del sistema sanitario, prima del

2001 erano stati compiuti infatti a Costituzione invariata, come se interessassero aspetti che non

legati direttamente alla definizione di diritti fondamentali del cittadino. Non si metteva in

discussione, in altre parole, il contenuto del diritto alla salute, ma si cercava di garantire le forme di

assistenza sanitaria attraverso modalità più efficienti. Nel momento in cui però si inizia a credere

che l’efficienza potrebbe essere realizzata solo attraverso una “regionalizzazione” del sistema

sanitario nel suo complesso, si sente il bisogno di chiarire al legislatore regionale, che nel declinare

i principi alla base del sistema sanitario, non potrà evitare di considerare alcuni principi base,

essenziali in materia, stabiliti appunto nella Costituzione.

Un primo passo verso una nuova definizione del testo costituzionale è stato compiuto con la

legge costituzionale 18 ottobre 2001 n. 3 di riforma del titolo V della Costituzione (nella parte

relativa ai rapporti tra Stato – Regioni ed Enti locali).

L’obiettivo è ridefinire l’assetto di competenze legislative tra governi centrali ed enti locali.

Quindi, fermo restando il testo dell’art. 32 della Costituzione, che individua “la tutela della salute

come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”, il nuovo testo dell’art. 117,

classifica le materie di intervento pubblico in tre nuove classi di competenze: a legislazione

esclusiva dello Stato, a legislazione concorrente (le Regioni possono legiferare all’interno di un

quadro di riferimento stabilito dal livello di governo centrale) e a legislazione esclusiva delle

Regioni.

Tra le materie attribuite a competenza concorrente Stato-Regioni troviamo “la tutela della

salute”, a fronte del vecchio art. 117, che limitava la competenza concorrente delle Regioni al più

ristretto ambito dell’”assistenza sanitaria e ospedaliera”. Questo vuol dire che esiste una potestà

legislativa e regolamentare regionale in materia, all’interno di un quadro normativo statale di

principi fondamentali che stabiliscano standard e/o livelli omogenei di prestazioni e servizi (Maino,

2003).

10

A pochi mesi dall’approvazione della legge costituzionale 3/2001, la nuova coalizione di

governo, nella figura dell’allora Ministro per le Riforme Istituzionali, Umberto Bossi7, ha

presentato un nuovo disegno di legge di ulteriore modifica dell’art. 117 della Costituzione. “La

proposta Bossi” in origine, tra l’altro, voleva assegnare alle Regioni competenza esclusiva in

materia di sanità, istruzione e polizia locale.

Il 16 novembre 2005, il Senato della Repubblica ha approvato, in via definitiva, il Disegno di

legge costituzionale n. 2544-B, senza ulteriori modificazioni, rispetto a quelle introdotte dalla

Camera dei deputati alla prima proposta. Tuttavia, la complessità della riforma presenta delle

caratteristiche peculiari anche riguardo la sua entrata in vigore. Come riporta uno dei maggiori

quotidiani nazionali8 “La nuova legge stessa scagliona i vari termini per l'entrata in vigore delle

varie e complesse riforme che, nell'insieme, non dovrebbero essere operative prima del 2011 (vale a

dire all'inizio della legislatura successiva a quella della promulgazione della legge). La

promulgazione, comunque, non potrà avvenire prima della prossima legislatura, perché dopo la

pubblicazione della legge approvata in gazzetta ufficiale la Costituzione prevede novanta giorni di

tempo perché i cittadini contrari indicano, con procedure previste, un referendum confermativo

(dato che né Camera né Senato in seconda lettura l'hanno approvata con la maggioranza dei due

terzi)”. Proviamo a condurre alcuni ragionamenti sulla base del testo approvato.

La previsione della lettera m dell’art 117 al secondo comma, riguardo la competenza esclusiva

del governo centrale in materia di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni riguardanti

diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale viene ampliata dalla

competenza (alla lettera m bis) circa le “norme generali sulla tutela della salute (e sicurezza e

qualità alimentare)”.

Quindi per la tutela della salute si dovrebbe parlare non più di competenza concorrente, ma

esclusiva dello Stato, così come avveniva già per i livelli essenziali delle prestazioni.

Una modifica molto corposa è quella che riguarda la nuova previsione del quarto comma del

testo dell’art. 117, così sostituito:

“Spetta alle Regioni la POTESTÀ LEGISLATIVA ESCLUSIVA nelle seguenti materie:

a) assistenza e organizzazione sanitaria;

b) organizzazione scolastica, gestione degli istituti scolastici e di formazione,

salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche;

7 Leader della Lega Nord, il partito che aveva tra i punti chiave del suo programma elettorale progetti devolutivi e/o federalisti molto marcati. 8 www.repubblica.it, 16-novembre-2005, nel dossier di approfondimento sulla riforma costituzionale appena approvata.

11

c) definizione della parte dei programmi scolastici e formativi di interesse

specifico della Regione;

d) polizia amministrativa regionale e locale;

e) ogni altra materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato”.

Compare, inoltre, una modifica introdotta proprio alla Commissione Senato, che introduce,

nel testo dell’art. 127, un’articolata procedura di annullamento delle leggi regionali che ledano

“l’interesse nazionale”:

Il Governo, si legge, qualora ritenga che una legge regionale pregiudichi l’interesse nazionale

della Repubblica, può in caso il Consiglio Regionale in questione non rimuova le disposizioni

pregiudizievoli, sottoporre la questione al Parlamento in seduta comune, che potrà deciderne

l’annullamento.

Questa introduzione, nelle intenzioni volta probabilmente a mitigare o controllare la portata

federalista della modifica, sembra un’inversione di marcia del processo di decentramento in atto.

Accanto ai Lea infatti, ora si dovrebbe tener conto delle norme generali poste a tutela della salute,

decisi dal Parlamento in seduta comune e anche dell’interesse nazionale. Cosa vuol dire questo?

Quali sono i limiti reali che il legislatore regionale d’ora in poi incontrerà? Quali nel concreto i

contenuti di autonomia legislativa? Non è molto semplice rispondere a queste domande.

Se la riforma verrà approvata così come formulata allo stato attuale, diventeranno cruciali i

successivi decreti di attuazione della Riforma costituzionale, nella speranza che si chiariscano

alcuni punti.

Il percorso politico ed il conseguente dibattito hanno assunto e continuano a mantenere toni

accesi e complessi. Rimane, infatti, ancora decisiva la definizione di strumenti posti a tutela

dell’interesse nazionale: qualunque ipotesi di scenario, sia essa positiva o negativa rischia di essere

superata non appena formulata. Si pensi, ad esempio, ai diversi soggetti istituzionali (e al loro

cruciale coordinamento) chiamati a decidere in materia di livelli di assistenza, legislazione di

dettaglio in ambito di assistenza e organizzazione sanitaria (Bordignon e Brosio, 2004; Pisauro e

Salvemini, 2004). Non è difficile ipotizzare, inoltre, che il contenzioso tra i diversi livelli di

governo, riguardo appunto i conflitti di competenze, sia destinato ad aumentare vertiginosamente, i

continui richiami della Corte Costituzionale, ma anche della Corte dei Conti, in tal senso, sono

spesso riportati sulle pagine dei maggiori quotidiani nazionali.

12

5. Nuovi rapporti Stato – Regioni: alcune considerazioni Il nostro Paese sta andando nella direzione di un forte rafforzamento del sistema federale9.

Dopo il Canada, infatti, siamo il paese che ha trasferito il maggior numero di funzioni,

amministrative e non, dallo Stato ai governi locali (Isae, 2004). È possibile parlare di decentramento

in diverse accezioni: con riguardo alla sfera di programmazione ed indirizzo, il riferimento è quindi

alla competenza legislativa10, oppure si discute di sfera di gestione ed organizzazione produttiva dei

servizi e allora il riferimento è alla competenza amministrativa. Tuttavia, non è così scontato

credere che per migliorare l’efficienza e la qualità del servizio offerto, tenendo conto delle

specificità locali e delle differenti preferenze, sia necessario devolvere l’intera competenza di

legiferare in materia (Petretto, Lorenzini e Sciclone, 2003). Devolvere alle Regioni la competenza

esclusiva in materia di politica sanitaria, ad esempio, potrebbe invece voler dire non guardare solo

all’organizzazione del servizio, ma ai contenuti politici degli indirizzi da seguire, enfatizzando

maggiormente lo status di cittadino regionale piuttosto che l’interesse nazionale e, anche se si

ritiene esistano esternalità in materia, trascurarne l’importanza.

Questo processo di cambiamento istituzionale presenta costi e benefici per la collettività e per

le amministrazioni chiamate ad attuare le riforme. Da un lato potrebbe non riuscire a contenere i

livelli di spesa e razionalizzare i costi della pubblica amministrazione, visto che l’impiego delle

risorse finanziarie nel complesso non sembra diminuire. D’altro lato, consentirà una maggiore

attenzione ai bisogni e alle preferenze delle comunità locali, differenziando, così come nei propositi

in fondo condivisibili, dei processi di decentramento, interventi e misure politiche in modo che

corrispondano maggiormente al profilo del territorio in esame.

Appare tuttavia complicato il tentativo di conciliare questo interesse locale, che è l’essenza di

tutte le riforme in senso federalista, con la tutela e salvaguardia di un interesse nazionale. Di

recente, forse in risposta alla crescente domanda di federalismo degli ultimi anni, l’attenzione al

concetto di interesse nazionale, che appare strettamente collegato al concetto di cittadinanza

nazionale, sembra sempre più marcata. Questo per evitare, probabilmente, che eccessive

differenziazioni nell’organizzazione possano portare all’individuazione di diverse finalità politiche,

diverse priorità e modalità per raggiungere gli obiettivi prefissati.

Un certo grado di uniformità, infatti, aiuta a garantire, sull’intero territorio nazionale il diritto

e l’accesso ad alcuni servizi previsti dalla Costituzione e perciò ritenuti fondamentali; e accanto a

considerazioni soggettive, quali l’importanza che evidentemente ognuno di noi può attribuire alla

9 Il termine decentramento viene usato nella trattazione come “sinonimo” di processo federale, seppure esistano tra i due termini alcune differenze significative. Si rimanda, per una trattazione efficace dei modelli di governo territoriale, si rimanda a Brosio, Maggi e Piperno, 1998. 10 Anche qui vale la distinzione tra competenza esclusiva delle Regioni se spillover e interesse nazionale sono trascurabili, concorrente se questi elementi permangono in una certa misura.

13

cittadinanza e solidarietà nazionale piuttosto che regionale, possono essere presi in esame aspetti

“economici”, quali, ad esempio, la promozione dell’efficienza allocativa (France, 2004).

Non si comprende chiaramente se queste criticità possano essere risolte nell’ultima proposta

di riforma del testo costituzionale, che mantiene come competenza concorrente (o esclusiva dello

Stato) la tutela della salute, ma prevede che l’assistenza e l’organizzazione sanitaria diventi una

competenza esclusiva delle Regioni. Difficile avanzare ipotesi, probabilmente si avrebbero riflessi

soprattutto in termini di finanziamento delle politiche, nel caso in cui, a fronte di un aumento di

competenze da svolgere, si rivendicassero maggiori coperture finanziarie.

In questo caso, si evidenzierebbero in tutta la loro gravità i profondi divari esistenti tra i

bilanci regionali. Sebbene infatti, ancora non siano state fornite cifre ufficiali circa i costi

complessivi dei LEA, è possibile avanzare alcune riflessioni circa i comportamenti diversi, adottati

dalle Regioni per ripianare il disavanzo sanitario che si è realizzato nel mancato contenimento delle

risorse stanziate11.

In effetti, sembrano emergere i primi squilibri, o quanto meno le prime differenziazioni

politiche, sul territorio nazionale. Infatti, le Regioni più ricche (in prevalenza del nord Italia) sono

ricorse soprattutto a strumenti di inasprimento fiscale, coscienti di poter contare su un robusto

bacino d’entrata; le Regioni del sud, invece, hanno adottato un altro tipo di politica, quella del

contenimento delle spese. Accanto a valutazioni positive di un atteggiamento che comunque può

portare a ridurre sprechi o inefficienze, è necessario tenere sotto controllo il rischio che questo si

trasformi in una modifica al ribasso del livello di erogazione del servizio ovvero di quel quantum

cui abbiamo accennato in precedenza.

L’ipotesi, che in fondo sembra qualcosa di più che un’idea, potrebbe avere riflessi rilevanti

per il mantenimento di standard nazionali, pregiudicando il principio di equità su tutto il territorio

nazionale, dal momento che ci sono cittadini che, per motivi di stabilità di bilancio, ricevono

probabilmente trattamenti differenti in risposta a situazioni omogenee.

Ci sembra, pertanto, che fino a quando si riterrà di analizzare il problema cercando di definire

“geometricamente” competenze e ruoli, si finirà per proporre soluzioni solo apparentemente

semplificatrici. Infatti, qualunque sia la portata o le sfumature di cambiamento che avrà il nuovo

assetto costituzionale, sembra permanere l’esigenza di mantenere una cornice comune di diritti e di

erogazioni pubbliche pur nella salvaguardia delle specificità regionali. A fronte di tensioni

crescenti tra decentramento da una parte ed esigenza di standard nazionali e integrazione politica

dall’altra, appare sempre più necessaria la creazione di un sistema di coordinamento tra lo Stato e le

Regioni, sul modello del coordinamento aperto. Lo Stato fissa annualmente le linee guida da

11 Ci si riferisce ai dati e alle informazioni contenute nel Secondo rapporto sul federalismo curato dall’Isae (2004).

14

adottare da parte regionale (senza dimenticare la partecipazione necessaria degli enti locali) e queste

predispongono a loro volta i piani di azione con cui fissare obiettivi coerenti e compatibili con le

linee guida nazionali indicando le strategie per raggiungerli, oltre che lo stato di realizzazione degli

obiettivi fissati in precedenza.

La mancata attuazione della precedente riforma che voleva accorpare in un unico dicastero

sanità, assistenza, previdenza e lavoro, ha aggravato la crisi del welfare. I nuovi bisogni sociali e

vincoli di bilancio sempre più stringenti, dimostrano come sia sempre più necessario governare le

interdipendenze fra le diverse ma simili e strettamente connesse politiche, e rendono sempre più

evidente come al di là di nette demarcazioni e attribuzioni di competenze in testi di legge, contino

molto i luoghi, sedi e processi decisionali più appropriati che riescano a sviluppare sinergie utili

(Bin, 2003). Iniziano a svilupparsi nuove iniziative: modelli e programmi socio–sanitari integrati in

Regioni quali Toscana, Emilia, Veneto, Lombardia, reti ed istituzioni, aree distretti e società della

salute, per avvicinare l’organizzazione dei servizi sul territorio alle specificità locali e tentare di

razionalizzare l’impiego delle risorse a disposizione (ad es. piani socio assistenziali, piani per la

salute, piani di zona)12.

Questa riflessione poggia anche sull’osservazione del crescente impegno e partecipazione

richiesti alla Conferenza Stato – Regioni, (e al legame molto forte con la futura Camera o Senato

delle Regioni). Attraverso questi meccanismi istituzionali, si potrebbe permettere alle Regioni (ma

questo vale per tutti gli enti locali) di essere parte attiva del processo decisionale nazionale, creando

un terreno stabile di confronto in cui la logica di mediazione non è più solo tra Stato e Regioni (o

per lo meno non esclusivamente), ma tra le stesse Regioni.

12 Per alcune interessanti ricostruzioni delle nuove esperienze dei Piani di Zona e dei Piani per la Salute in Emilia Romagna si veda Bobbio, 2004.

15

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Department of Public Policy and Public Choice “Polis” The Department develops and encourages research in fields such as:

• theory of individual and collective choice; • economic approaches to political systems; • theory of public policy; • public policy analysis (with reference to environment, health care, work, family, culture,

etc.); • experiments in economics and the social sciences; • quantitative methods applied to economics and the social sciences; • game theory; • studies on social attitudes and preferences; • political philosophy and political theory; • history of political thought.

The Department has regular members and off-site collaborators from other private or public organizations.

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Working paper, Center for the Study of Law and Society, University of California, Berkeley.