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Diritto Penale
Forme di manifestazione del reato
A cura di
Roberto Garofoli
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DIRITTO PENALE
Forme di manifestazione del reato
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Dottrina
Il delitto tentato e i reati di attentato
SOMMARIO
1. Le caratteristiche generali. – 2. L’idoneità … – 3. … e l’univocità degli atti. – 4. Il tentativo di reato in concorso. – 5.
Il tentativo di delitto circostanziato ed il tentativo circostanziato di delitto. – 6. I delitti di attentato.
1. Le caratteristiche generali
Ricorre la figura del delitto tentato nei casi in cui l'agente
non riesce a portare a compimento il proprio disegno
criminoso, ma soltanto alcuni degli atti preparatori volti a
realizzarlo. Il fondamento della punibilità del tentativo sta
nell'esigenza di prevenire la messa in pericolo dei beni
giuridicamente tutelati.
Non sempre é agevole, tuttavia, individuare il momento in
cui può dirsi perfezionata la fattispecie tentata; la
maggiore difficoltà consiste proprio nel comprendere quale
sia l'inizio dell'attività punibile, posto che alcuni degli atti
compiuti dall'agente possono non avere rilevanza penale.
Da un lato, infatti, il rischio é quello di arretrare
eccessivamente la soglia di punibilità e considerare
penalmente rilevanti condotte che di per sé non lo sono, in
contrasto con il principio di materialità di cui agli artt. 25
Cost. 2 e 115 cod. pen.
Dall'altro lato, non attribuendo rilievo penale a condotte
che in qualche maniera già si inseriscono nel disegno
criminoso, si potrebbe verificare uno spostamento in
avanti della soglia di punibilità ed eludere, così, le
esigenze preventive tipiche dell'istituto.
Il problema, quindi, é proprio quello di stabilire quando
un'azione, pur non portata a compimento rispetto alla
fattispecie consumata, possa essere ritenuta penalmente
rilevante e qualificarsi come delitto tentato.
Nel codice Zanardelli l'inizio dell'attività punibile era
individuato in base alla distinzione tra atti preparatori ed
atti esecutivi; solo questi ultimi, in quanto aggressivi del
bene giuridico protetto, assumevano rilevanza sul piano
penale e quindi erano punibili.
2. L’idoneità….
Superata oggi la distinzione suddetta, data la difficoltà
pratica di stabilire, il più delle volte, quando determinati atti
possano considerarsi meramente preparatori, il vigente
codice penale stabilisce che il tentativo si realizza quando
sussiste il duplice requisito della idoneità ed univocità degli
atti, sempre che l'azione non si compia o l'evento non si
verifichi (art. 56 cod. pen.).
L'azione é inidonea al compimento del reato quando non
vi é alcuna efficacia causale con l'evento criminoso. Detta
idoneità va valutata in base ad un giudizio ex ante ed in
concreto (criterio c.d. della prognosi postuma; sul punto,
vedi più approfonditamente Fiandaca-Musco e Antolisei),
nel senso che bisogna stabilire se quegli atti posti in
essere, qualora la causa impeditiva non avesse ostacolato
il compimento dell'azione criminosa, sarebbero stati
oggettivamente e concretamente idonei ad integrare il
reato .
3. …e l’univocità degli atti
Il secondo requisito é l'univocità degli atti, vale a dire che
l'attività posta in essere dall'agente, valutata nel contesto
in cui essa é stata realizzata, deve essere atta a denotare
in maniera non equivoca il proposito criminoso sotteso.
Posto, infatti, che in dottrina l'univocità viene intesa in una
duplice accezione, secondo la tesi cosiddetta soggettiva
essa andrebbe vista come la prova dell'intenzione
criminosa in sede processuale. Si é sostenuto, tuttavia,
che una tale definizione renderebbe superfluo il requisito
dell'univocità, traducendolo nella necessità di fornire la
prova dell'elemento soggettivo (Bricola-Zagrebelsky).
Diversamente, la teoria cosiddetta oggettiva ritiene
l'univocità come una caratteristica appunto oggettiva della
condotta, da cui traspaia l'intenzione criminosa
dell'agente. In tale ottica la prova dell'elemento soggettivo
é problema diverso ed ulteriore rispetto all'accertamento
dell'elemento materiale del delitto tentato.
I requisiti dell'idoneità ed univocità degli atti, infatti,
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attengono alla sfera dell'elemento materiale del reato, il cui
accertamento é diverso rispetto a quello dell'elemento
soggettivo. In particolare, l'univocità degli atti va desunta
dalla condotta in concreto posta in essere dagli agenti,
senza dare rilievo, nella fase dell'accertamento
dell'elemento materiale, ad atti di volizione interna che non
si siano tradotti in attività obiettivamente valutabili
Il proposito criminoso, infatti, va accertato solo
successivamente, al fine cioè di stabilire se la condotta,
idonea in maniera non equivoca al compimento del reato,
sia posta in essere con dolo. In questa distinta fase il
giudice potrebbe avvalersi di ogni elemento di prova, quali,
ad esempio, le intercettazioni telefoniche.
Non mancano, tuttavia, in giurisprudenza posizioni
secondo cui nel tentativo la direzione univoca dell'atto può
essere desunta sia dalle modalità oggettive della condotta,
sia aliunde, ossia tenendo conto di altri elementi di prova
(ad esempio le dichiarazioni dell'agente o le intercettazioni
telefoniche)
4. il tentativo di reato in concorso
Date le considerazioni che precedono, l'ulteriore problema
é quello di individuare l'inizio dell'attività punibile con
riferimento all'esecuzione del reato in concorso.
Se, infatti, per la configurabilità di quest'ultimo nella
fattispecie monosoggettiva é necessario che l'agente
ponga in essere una condotta penalmente rilevante di per
sé, nel senso che la propria azione deve essere diretta in
maniera non equivoca alla commissione del reato , nella
fattispecie concorsuale l'univocità degli atti va esaminata
con riferimento alla complessiva situazione
oggettivamente esistente. Più precisamente, nel caso di
esecuzione del reato in concorso, a taluni correi spetta il
compito di porre in essere azioni atipiche che,
isolatamente considerate, non appaiono univocamente
dirette alla commissione del reato . Dette azioni atipiche,
riferite all'ipotesi monosoggettiva, potrebbero rimanere
nell'area del penalmente irrilevante, in quanto non
qualificabili come univocamente dirette alla commissione
del reato; riferite, invece, alla fattispecie concorsuale, le
medesime azioni potrebbero determinare l'inizio
dell'attività punibile nel momento in cui coincidono con il
ruolo specifico che ciascuno dei correi doveva
intraprendere.
Dalla distinzione suddetta é agevole desumere una
importante considerazione: il momento che rappresenta
l'inizio dell'attività punibile, nell'ipotesi di esecuzione del
reato in concorso, potrebbe risultare anticipato rispetto alla
fattispecie monosoggettiva. Ciò in considerazione del fatto
che, come sopra detto, le azioni atipiche normalmente
penalmente irrilevanti, possono assumere rilevanza
penale nella fattispecie concorsuale se, valutate nel
complesso dell'attività posta in essere e con riferimento al
ruolo specifico svolto da ciascun correo, sono rivolte alla
commissione del reato.
In altre parole, sembra quasi potersi affermare che nel
caso di concorso nel reato, l'univocità dei singoli atti é
valutata non soltanto rispetto alla commissione del delitto,
ma anche rispetto allo svolgimento dello specifico compito
che ciascuno dei correi deve portare a compimento per la
commissione del delitto medesimo.
É quindi necessario, al fine di valutare l'univocità nel caso
di tentativo di reato in concorso, combinare due criteri: da
un lato la necessaria visione di insieme delle condotte dei
correi e dall'altro la considerazione delle condotte anche
atipiche degli stessi. Se così non fosse, si sposterebbe
troppo in avanti l'inizio dell'esecuzione del reato .
5. Il tentativo di delitto circostanziato ed il tentativo
circostanziato di delitto
Altra questione particolarmente dibattuta sia in dottrina
che in giurisprudenza attiene all'applicabilità, al delitto
tentato, delle circostanze aggravanti ed attenuanti.
Posto, infatti, che si é soliti distinguere tra tentativo di
delitto circostanziato (ipotesi in cui, se il delitto fosse
giunto a consumazione, sarebbe stato caratterizzato dalla
presenza di una o più circostanze; queste ultime, cioè,
ancorché non realizzate compiutamente, rientrano nel
proposito criminoso dell'agente) e tentativo circostanziato
di delitto (ipotesi in cui le circostanze si perfezionano in
tutto o in parte nel contesto della stessa azione tentata), in
dottrina ed in giurisprudenza non sembrano esservi dubbi
sulla compatibilità strutturale tra il tentativo e le circostanze
compiutamente realizzatesi.
Tuttavia, la questione va analizzata in maniera più
approfondita, tenuto conto del fatto che le soluzioni trovate
non sono univoche, sia con riferimento alle due figure
sopra descritte, sia perché, anche all'interno di ciascuna
figura, andrebbe ricercata la compatibilità strutturale del
tentativo con le specifiche circostanze: alcune di esse,
infatti, richiedono la necessaria consumazione del reato
per la loro applicazione.
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Come già accennato, pare pacificamente ammessa la
figura del tentativo circostanziato di delitto ed é invece
controversa la configurabilità del tentativo di delitto
circostanziato. Non mancano, inoltre, posizioni intermedie,
secondo le quali anche la fattispecie del tentativo
circostanziato di delitto non sarebbe configurabile sempre
ed in ogni caso, ma andrebbe fatta una distinzione a
seconda che le circostanze siano interamente o
parzialmente realizzate ovvero se ci si trovi di fronte a
circostanze comuni o speciali. Il problema é quello di
valutare la compatibilità delle figure sopra descritte con il
principio di legalità vigente nell'ordinamento penale.
Orbene, non si ritiene che si verifichi la violazione del
principio di legalità ammettendo la compatibilità tra
tentativo e circostanze compiutamente realizzatesi, atteso
che l'art. 59 cod. pen. prevede l'applicabilità di dette
circostanze senza fare distinzione tra fattispecie tentata e
consumata e che l'art. 56 cod. pen., nello stabilire che
l'azione vada valutata in base ai criteri dell'idoneità ed
univocità degli atti, non può non tenere in considerazione,
a tal fine, quelle circostanze che hanno contribuito a
caratterizzare le modalità dell'azione medesima.
Al contrario, se si applicasse la pena prevista per il
tentativo semplice in caso di tentativo circostanziato, si
correrebbe il rischio di violare o eludere il principio di
eguaglianza, poiché si destinerebbe il medesimo
trattamento sanzionatorio a situazioni differenti
(Iannarone).
Parte della dottrina, comunque, ha espresso perplessità in
merito all'ammissibilità della figura già quando la
circostanza da tenere in considerazione ai fini del
trattamento sanzionatorio sia solo in parte realizzata,
poiché, anche in tal modo, si violerebbe il principio di
legalità che impone l'applicazione delle circostanze solo in
presenza dei presupposti previsti dalla legge (presupposti
che potrebbero non sussistere in caso di realizzazione
delle circostanze solo in parte e che, a maggior ragione,
non sussistono ove le circostanze non si siano affatto
realizzate ma siano solo tentate). Non solo. Limiti di
carattere strutturale impongono che talune circostanze
siano compatibili solo con la fattispecie delittuosa
consumata (Fiandaca-Musco).
Altra parte della dottrina, invece, pur ammettendo la figura
del tentativo circostanziato di delitto, ne ha limitato la
configurabilità solo in presenza di circostanze comuni e
non anche di quelle speciali, poiché queste ultime, in
quanto previste solo con riferimento alla fattispecie
consumata, non potrebbero essere valutate nell'ambito di
quella tentata senza incorrere nella violazione del principio
di legalità (Padovani; Gallisai Pilo).
Coloro che invece tendono ad ammettere la fattispecie del
tentativo circostanziato di delitto senza riserve,
argomentano che l'art. 56 cod. pen. ha funzione estensiva
della punibilità nel momento in cui consente di reprimere
fatti che non raggiungono la soglia della consumazione
(tesi del tentativo come reato autonomo, che deriva dalla
combinazione di due norme, l'art. 56 cod. pen. e la norma
di parte speciale di volta in volta violata) e che altrimenti si
rischierebbe di differenziare immotivatamente il
trattamento sanzionatorio, poiché l'unica distinzione tra
circostanze comuni e speciali consiste nel rispettivo
ambito di applicazione e non anche nella struttura (De
Luca).
6. I delitti di attentato
Tra le forme di manifestazione del reato il codice penale
annovera la categoria del cosiddetto attentato; l’elemento
che lo accomuna alla figura del tentativo é rappresentata
dalla circostanza che si tratta di previsioni finalizzate “a
perseguire un illecito indipendentemente dall’effettivo
conseguimento del risultato criminoso che l’autore
persegue” (E. Gallo).
La principale caratteristica dei delitti di attentato é data dal
fatto che il legislatore considera “perfetto il compimento di
“atti diretti a” offendere un bene ritenuto meritevole di
protezione anticipata perché di rango particolarmente
elevato” (Fiandaca-Musco).
Con il termine delitti di attentato – detti anche a
consumazione anticipata – si intendono quei delitti
consistenti in atti diretti a ledere il bene protetto considerati
dal legislatore come delitti perfetti e che, senza un tale
espressa previsione, risulterebbero semplici delitti tentati.
Fattispecie esemplare é quella disciplinata dall’art. 276
cod. pen. che sanziona la condotta di colui che attenta alla
vita, alla incolumità o alla libertà personale del Presidente
della Repubblica.
Condotte che normalmente refluirebbero nell’ipotesi
dell’omicidio, delle lesioni o del sequestro di persona a
livello di tentativo, con conseguente applicazione della
disciplina di cui all’art. 56 cod. pen., assurgono, quindi, a
delitti perfetti, in ragione della particolarità del bene
protetto. Altrettanto é a dirsi con riguardo alle previsioni di
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cui agli artt. 295 e 296 cod. pen. che offrono la medesima
disciplina allorché l’attentato sia posto in danno dei Capi di
Stati esteri.
Talvolta, peraltro, vengono elevate a delitti perfetti
fattispecie che non meriterebbero, in via ordinaria,
neppure una sanzione a livello di tentativo: é quanto si
verifica nelle ipotesi in cui nella formulazione della norma
si richiede solo la direzione, non anche l’idoneità ed
univocità degli atti.
Tipiche ipotesi sono quelle delineate dall’art. 241 cod.
pen., che sanziona gli attentati contro l’integrità,
l’indipendenza o l’unità dello Stato, e l’attentato contro la
costituzione dello Stato, di cui all’art. 283 cod. pen.
Ciò posto, va anche rimarcato, sulla base di un’agevole
disamina finalistica delle disposizioni volte ad enucleare
ed incriminare siffatta tipologia delittuosa, che si é per lo
più al cospetto di reati contro la personalità dello Stato,
“radicati in quella tradizione di pensiero che per i crimina
lesae maiestatis rifiutava la distinzione tra consumazione e
tentativo, atti preparatori e atti esecutivi”, rispondendo “alla
finalità politica di una più rigorosa tutela di certi interessi
statuali”. Illeciti che talvolta “esprimono anche la esigenza
reale di bloccare sul nascere fenomeni che altrimenti
potrebbero non essere più controllabili e travolgere le
stesse istituzioni, con conseguente impossibilità di punire il
reato consumato (es.: artt. 241, 283, 286)” (Mantovani).
La mancanza di una disposizione di parte generale intesa
a dettare una omogenea disciplina dei delitti di attentato
ha determinato il sorgere di una accesa disputa dottrinaria
tra chi ritiene che il delitto di attentato sanzioni già l’attività
“preparatoria”, e chi, invece, individua la soglia della
rilevanza penale della condotta solo in presenza degli
elementi che la parte generale del codice penale richiede
per il tentativo.
Il problema si é riproposto con l’entrata in vigore del
codice Rocco posto che, sotto il vigore del codice
Zanardelli, non vi erano dubbi sulla “completa omogeneità
concettuale e funzionale del tentativo e dell’attentato: solo
gli atti esecutivi potevano configurare sia l’uno che l’altro
tipo delittuoso” (Fiandaca-Musco).
In generale, si é assistito alla contrapposizione frontale tra
due diverse impostazioni ricostruttive.
Nel prime applicazioni giurisprudenziali i delitti di attentato
furono interpretati in chiave di atti preparatori sul
presupposto secondo cui anche la punibilità del tentativo
era stata anticipata all’area degli atti preparatori; si ritenne,
infatti, che con l’introduzione nell’ordinamento del principio
dell’idoneità ex art. 56 cod. pen. si era finalmente superata
la dibattuta questione della distinzione dell’iter criminis in
atti preparatori e atti esecutivi. Secondo un indirizzo di
pensiero i compilatori del codice “adottando
fideisticamente il principio causale condizionalistico e
risolvendo l’idoneità in termini causali, … potevano, infatti,
ragionevolmente sostenere che anche un atto preparatorio
possedesse capacità causale, e quindi idoneità, a
cagionare l’evento naturalistico significativamente
rilevante” (E. Gallo).
Sul punto é opportuno richiamare le stesse parole usate
da Alfredo Rocco nella Relazione ministeriale ove si legge
che “una volta estesa, come oggi fa l’art. 56, la nozione di
tentativo agli atti preparatori, é evidente che le due nozioni
oggi equivalgono, di modo che l’attentato, sin dal primo
stadio degli atti preparatori, é elevato a reato perfetto”.
Successivamente, mentre per il tentativo si cominciarono
a sanzionare le condotte costituenti attività esecutiva, per
l’attentato, invece, si sviluppò la tendenza ad attribuirgli
una sostanziale autonomia che lo svincolasse, sul
versante strutturale, dalla disciplina dettata in tema di
tentativo; si ritenne così di poter ricondurre nell’alveo dei
delitti di attentato gli atti più remoti purché sintomatici di
una volontà intesa a ledere il bene protetto.
Si é quindi affermata, tanto in giurisprudenza quanto nel
dibattito dottrinale (Zuccalà) un’interpretazione di tipo
soggettivistico secondo cui il delitto di attentato deve
intendersi come un reato di mera disubbidienza.
Elemento qualificante della categoria sarebbe, pertanto, la
finalità criminosa perseguita dall’agente: sarebbe quindi
sufficiente qualunque atto intenzionalmente diretto a
produrre il risultato lesivo.
Si tratta, tuttavia, di ricostruzione che, pur avendo il pregio
di rispecchiare fedelmente un sistema ordinamentale nel
quale, effettivamente, sussistono ipotesi di reato a
consumazione anticipata che appaiono sanzionare la
mera intenzione criminosa dell’autore del reato, di contro,
presenta il grosso limite di trascurare l’idoneità offensiva
della condotta; ciò in netto dispregio al principio di
necessaria offensività del reato così come delineato dalla
dottrina maggioritaria e dalla più recente giurisprudenza,
anche costituzionale.
Successivamente, quindi, il recupero e la valorizzazione
del principio di offensività, ormai desunto dalla dottrina
prevalente e dalla stessa Consulta dai principi
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costituzionali e dall’art. 49 del codice penale, e lo
svilupparsi della concezione realistica del reato, hanno
indotto la scienza giuridica a porre un freno a questa
tendenza di criminalizzazione anticipata.
Il meccanismo seguito a livello dottrinale é stato quello di
interpretare l’inciso “fatto diretto a“ – tipico delle fattispecie
a consumazione anticipata – come “fatto idoneo diretto a”,
ponendo, in tal modo, i paletti necessari ad evitare forme
di straripamento della rilevanza penale di condotte la cui
offensività talvolta veniva incentrata esclusivamente sulla
ricerca della volontà di ledere il bene protetto.
Allo stesso modo l’inciso “chiunque attenta a” é stato
interpretato come “chiunque compie atti idonei diretti a”,
recuperando così il requisito dell’idoneità forgiato
specificamente per il tentativo.
Alla luce dell’indirizzo dottrinale allo stato prevalente (E.
Gallo; Musco), si é tornati quindi all’originario
riconoscimento di una sostanziale omogeneità strutturale
fra tentativo e attentato: l’attentato é considerato punibile
solo allorquando risulti accertata la sussistenza di
un’attività idonea a ledere il bene protetto con
conseguente esclusione dalla sfera del penalmente
rilevante di tutte le condotte meramente preparatorie.
La dottrina dominante e la costante giurisprudenza hanno
così accolto un’interpretazione oggettiva delle fattispecie
di attentato al cui interno si individuano due diversi
orientamenti: taluni evidenziano una coincidenza
strutturale delle fattispecie di attentato e del tentativo (E.
Gallo); altri ritengono, invece, che tra le due intercorra più
semplicemente un rapporto di analogia strutturale (De
Francesco; Padovani).
Tale ultimo assunto – maggiormente convincente per
l’attenzione prestata alla ratio ed alle finalità dei delitti di
attentato – é stato in passato fatto proprio dalla Suprema
Corte che, a Sezioni Unite (Cass. Sez. Un. 18 marzo
1970, Kofler), ha confermato un indirizzo giurisprudenziale
già in atto (Cass. 27 novembre 1968, Muther).
Ebbene, secondo la teoria oggettiva, i delitti di attentato
devono essere inquadrati nello schema del reato inteso
come offesa ai beni giuridici di modo che potranno dirsi
integrati solamente allorché siano stati posti in essere atti
esecutivi idonei a realizzare l’intento proprio dell’agente.
I fautori della interpretazione oggettiva muovono
principalmente da una duplice constatazione.
La prima, esposta dalla prevalente dottrina (Marinucci-
Dolcini; Pannain), muove dallo stesso tenore letterale dei
delitti di attentato che, impiegando l’espressione “fatto
diretto a”, non lascia dubbi sul fatto che il concetto di
direzione debba essere riferito anche alla condotta
materiale e non al solo atteggiamento psicologico
dell’autore del reato.
La seconda constatazione alla base dell’interpretazione
oggettiva é di natura sistematica: l’interpretazione
soggettiva si pone in contrasto con la previsione, inserita
nella maggior parte delle fattispecie di delitto di attentato,
dell’aumento di pena in presenza della verificazione
dell’evento dannoso (é quanto si riscontra nell’ipotesi di
reato prevista dall’art. 433 cod. pen. e nelle fattispecie di
cui agli artt. 420 e 432 del codice penale).
Solo l’accoglimento di una interpretazione in chiave
oggettiva spiegherebbe una differenziazione sanzionatoria
a fronte di una volontà delittuosa destinata a restare
identica in colui che solo persegue e nel soggetto che,
invece, anche consegue l’evento lesivo (Marinucci-
Dolcini).
Quest’ultima interpretazione raccoglie, del resto, il plauso
di chi pone in luce la necessità di un rispetto
incondizionato del principio di offensività sia che lo si
desuma dalle norme costituzionali, sia che lo si enuclei
dall’art. 49, secondo comma, cod. pen.; un’interpretazione
diversa ben difficilmente potrebbe sottrarre le norme
esaminate ad una declaratoria di illegittimità
costituzionale.
L’abbandono delle interpretazioni soggettivistiche da parte
della più attenta dottrina e della più recente giurisprudenza
evita, inoltre, le pericolose strumentalizzazioni politiche di
tali fattispecie; si é rimarcato, infatti, che, ritenendo
“sufficiente qualunque “atto intenzionalmente diretto” al
risultato lesivo (la cui direzione criminosa può essere
desunta aliunde e non necessariamente dalla condotta,
che é mero sintomo rilevatore, assieme agli altri mezzi
probatori, della volontà ostile), e prescindendo del tutto dal
pericolo dell’evento, si trasformerebbe il delitto di attentato
in un reato di mera disubbidienza (Mantovani).
Delineate le linee generali della categoria, é necessario
distinguere le varie tipologie di delitti di attentato presenti
nel nostro ordinamento.
In dottrina é stato ravvisato un primo gruppo in quelle
fattispecie che vengono già indicate dalla rubrica
legislativa con la formula “attentato” e la cui condotta viene
descritta con l’inciso “chiunque commette un fatto diretto
a”.
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Caso tipico é la norma sugli attentati contro l’integrità,
l’indipendenza o l’unità dello Stato (art. 241 cod. pen.), cui
si affianca quella riguardante l’attentato contro la
costituzione dello Stato (art. 283 cod. pen.). Oltre a queste
fattispecie, rinvenibili sotto il titolo primo del libro secondo
del codice penale, afferenti i delitti contro la personalità
dello Stato, deve menzionarsi anche la figura dell’attentato
a impianti di pubblica utilità (art. 420 cod. pen.) che trova
la sua disciplina nel titolo quinto del libro secondo del
codice penale in tema di delitti contro l’ordine pubblico.
La seconda categoria individuata dalla dottrina é quella dei
delitti designati nella rubrica legislativa con la formula
“attentato” ma caratterizzati da una condotta che, a livello
descrittivo, si atteggia a condizione obiettiva di punibilità: é
il caso della norma sugli attentati alla sicurezza degli
impianti di energia elettrica e del gas ovvero delle
pubbliche comunicazioni (art. 433 cod. pen.) che, dopo
aver riportato in apertura il “chiunque attenta” – tipico dei
delitti a consumazione anticipata – conclude con “qualora
dal fatto derivi pericolo per la pubblica incolumità”.
L’ultima tipologia, infine, riguarda i delitti che, pur non
espressamente denominati come attentati, risultano
strutturati con caratteristiche tipiche dei delitti di attentato:
é il caso della fattispecie delineata dall’art. 286 cod. pen.
che, sotto il titolo “guerra civile”, incrimina la condotta di
“chiunque commette un fatto diretto a”..
Le circostanze del reato
SOMMARIO
1. La nozione. – 2. La distinzione tra elementi accidentali e costitutivi. – 3. La classificazione. – 4. La valutazione delle
circostanze. – 5. Il concorso di circostanze aggravanti e attenuanti
1. La nozione
Il codice penale dedica alle circostanze del reato un
intero capo – il II del titolo III del libro I – ma non definisce
la categoria. Nondimeno, se nell’art. 59 cod. pen. (e
probabilmente anche nell’art. 70 cod. pen.) la nozione di
circostanza é utilizzata in modo lato – come comprensiva
anche di elementi che, occasionalmente, si
“congiungono” al reato, in modo da incidere sull’an, non
solo sul quantum di responsabilità (“cause di non
punibilità” in senso lato) – nelle disposizioni seguenti,
invece dedicate alle circostanze in senso stretto,
espresse cioè nei termini di attenuanti o aggravanti, si
delinea un tipo di disciplina che lascia intendere la
tipologia di fenomeno presupposta. In particolare, il capo
in questione é in larga misura dedicato ai criteri di
ponderazione delle modifiche quantitative e qualitative,
derivanti dall’applicazione delle circostanze, sulla pena
già idealmente riferibile ad uno specifico reato (v. in
particolare l’art. 63, primo comma, cod. pen., secondo il
quale la circostanza aumenta o diminuisce la pena
“base” previamente determinata all’interno dei margini
edittali applicando i criteri di cui all’art. 133 cod. pen.; con
l’eccezione delle circostanze autonome e indipendenti,
che prima ancora incidono sulla stessa pena edittale).
Per circostanza, quindi, si intende una fattispecie prevista
dalla legge allo scopo precipuo di incidere sulla
dosimetria sanzionatoria (Melchionda), anche oltre i limiti
edittali – come ben si evince dagli artt. 63 ss. cod. pen. –
senza alterare il titolo di responsabilità; nel senso che la
figura che si va a regolamentare presuppone già
l’integrazione di un reato a tutti gli effetti e non comporta
il venir meno di quel reato, né l’integrazione di un reato
diverso: gli artt. 61 e 62, primo comma, cod. pen.,
d’altronde, chiaramente distinguono tra “circostanza” ed
“elemento costitutivo”. Tanto premesso, si può
brevemente definire la circostanza nei termini di un
elemento accidentale o accessorio di un reato già
perfezionato (si parla così di accidentalia delicti) i cui
effetti si riverberano sul quantum e sul quomodo della
risposta sanzionatoria (precisa il concetto di
“accessorietà”, come riferito alla disposizione normativa
che prevede la circostanza, non necessariamente al
contenuto tipico: Padovani).
Che la circostanza sia elemento accidentale del reato,
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nel senso precisato, é pacifico per la giurisprudenza,
tanto che la stessa normalmente non spende tempo in
definizioni generali della categoria, ma casomai in
precisazioni di dettaglio laddove utili per definire singoli
problemi interpretativi, in particolare quanto ai criteri di
distinzione dagli elementi costitutivi. Una definizione
generale é offerta dalla risalente Cass. pen., sez. V, 2
dicembre 1966, Bianco: “Costituiscono circostanze del
reato in senso proprio (accidentalia delicti) quelle che si
aggiungono agli elementi costitutivi dell’azione vietata
fissata dal precetto primario e influiscono sulla sanzione
tipica contenuta nel precetto secondario nel senso di
variarne in più o in meno la entità; hanno cioè come
effetto, per volontà espressa dal legislatore, di modificare
la sanzione e si differenziano da quell’elemento che l’art.
133 cod. pen. sottopone all’attenzione del giudice per
disciplinarne il potere discrezionale di determinare in
concreto la entità della pena, stabilita dal legislatore in
astratto in un minimo ed un massimo». In dottrina taluno
contesta la natura accidentale della circostanza,
ritenendo il reato circostanziato una fattispecie in sé
autonoma, rispetto alla quale, dunque, la circostanza
sarebbe elemento essenziale (da ultimo, ampiamente e
per tutti, Spena).
La questione non é tuttavia di grande interesse per il
pratico (Fiandaca-Musco) se non forse nella misura in cui
condiziona la configurabilità di un “delitto circostanziato
tentato”; importa invece distinguere un’ipotesi non
circostanziata di reato da una forma di manifestazione, in
termini circostanziati, di altro reato. A questo specifico
fine, peraltro, a poco serve verificare il carattere
“accidentale” o essenziale di un dato elemento, essendo
questo attributo una conseguenza, non già una
premessa, della qualificazione di un coefficiente come
costitutivo o circostanziale.
In questa prospettiva, si può sin da subito chiarire che il
rapporto tra reato base non circostanziato e reato
circostanziato é altro rispetto a quello intercorrente tra
due titoli autonomi di reato (anche chi considera
fattispecie autonoma quella circostanziata, la considera
tuttavia particolarmente “dipendente” dalla fattispecie
base: Spena; cfr. altresì Melchionda), e che per altro
verso le circostanze di cui si tratta – c.d. proprie – sono
diverse da quelle cui fa riferimento l’art. 133 cod. pen. –
c.d. improprie – le quali guidano il giudice nella
determinazione in concreto, entro i limiti edittali, della
pena applicabile ad un dato reato in quanto integrato nei
suoi estremi costitutivi essenziali; inoltre, ciascun fattore
cui fa riferimento l’art. 133 cod. pen. può operare, nel
singolo caso, in termini di estensione della pena verso il
massimo edittale o di limitazione verso il minimo, mentre
la singola circostanza propria o é aggravante, o é
attenuante: la disciplina del capo in esame non considera
l’ipotesi di circostanze idonee ad operare in entrambe le
direzioni.
2. La distinzione tra elementi accidentali e
costitutivi
Una corretta definizione di circostanza aiuta ad orientarsi
riguardo al problema, poco sopra accennato, della
distinzione rispetto ad un elemento costitutivo (in dottrina
v. in particolare (Bartoli; Concas; Padovani; Guerrini). La
questione ha un notevole impatto applicativo (v. sul
punto Marinucci-Dolcini). Si considerino, ad es.: la
possibilità di bilanciamento delle circostanze con
conseguente, eventuale “elisione” dei relativi effetti; i
peculiari criteri soggettivi di imputazione delle attenuanti
e delle aggravanti e la disciplina dell’erronea
supposizione (art. 59, primo, secondo e terzo comma,
cod. pen.); l’irrilevanza delle circostanze – almeno di
quelle ad effetto comune – per il computo del termine
utile a prescrivere ex art. 157, secondo comma, cod.
pen.; in materia di concorso di persone, l’applicazione
degli artt. 116 e 117, ovvero dell’art. 118 cod. pen.
Significative anche le implicazioni processuali, ad es. in
tema di competenza (art. 4 cod. proc. pen.), di modifica
dell’imputazione ex art. 423 cod. proc. pen., di
individuazione – in taluni casi – dei termini massimi di
custodia cautelare.
Il problema neppure si pone rispetto a circostanze c.d.
“estrinseche”, «basate su fatti successivi alla
consumazione del reato, e che quindi per loro stessa
essenza risultano meramente eventuali rispetto al reato
stesso» (Cadoppi; Veneziani).
Se la circostanza svolge la specifica funzione di
modificare tipologia o entità della risposta sanzionatoria
riferibile ad un reato già integrato in ogni aspetto,
evidentemente la fattispecie circostanziata non può che
essere costituita, appunto, da tutti gli elementi tipici di
una data figura criminosa (ché altrimenti, in relazione a
un fatto atipico, non vi sarebbe alcuna pena base da
“modificare”), alcuni dei quali vengono poi ad essere
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specificati, o rispetto ai quali altri ne vengono aggiunti
Zuccalà; Padovani). Due fattispecie tra di loro
incompatibili – per diversità necessaria dei requisiti
caratterizzanti – non possono dunque costituire forme di
manifestazione – circostanziata e non circostanziata –
del medesimo reato. Se fosse vero il contrario, se cioè
potesse essere ad es. una fattispecie aggravata
strutturalmente differente dalla fattispecie base, ne
deriverebbero conseguenze assurde; per dirne una, in
caso di inapplicabilità dell’aggravante in seguito al
bilanciamento con una o più attenuanti ai sensi dell’art.
69 cod. pen., nel fatto dell’agente non sarebbe
riconoscibile alcuna “fattispecie non circostanziata”,
sicché egli, lungi dal vedersi applicata una pena “non
aumentata”, o “la pena che sarebbe inflitta se non
concorresse” alcuna circostanza – come richiesto dallo
stesso art. 69 commi 2 e 3 cod. pen. – andrebbe in realtà
esente da qualsiasi responsabilità.
Contrariamente a quanto é stato scritto (Pistorelli),
dunque, la nuova ipotesi di deturpamento e
imbrattamento di cose immobili altrui, inserita nel comma
2 dell’art. 639 cod. pen. dall’art. 3 comma 3 lett. a) legge
15.7.2009, n. 94, non é una aggravante della fattispecie
di deturpamento o imbrattamento di cose mobili altrui di
cui tratta il comma 1, stante l’evidente incompatibilità tra
le due figure quanto ad oggetto materiale. Per gli stessi
motivi, ci pare superfluo dilungarsi in un’indagine testuale
e teleologica circa i rapporti tra artt. 609-bis e 609-quater
cod. pen., come fa invece Cass., Sez. III, 23.3.2007,
Tomasetti: per escludere che la seconda fattispecie
possa essere forma di manifestazione circostanziale
della prima, basta rilevare (come pure la sentenza fa) il
difetto di un rapporto di specialità unilaterale, posto che
gli atti sessuali con minorenne si caratterizzano per la
mancanza di costrizione della vittima invece tipica della
violenza sessuale. Ancora, il comma 2 dell’art. 346 cod.
pen. non é circostanza aggravante del comma 1, perché
tra le due ipotesi di millantato credito sussiste difformità
strutturale: «infatti, mentre nella previsione del comma
primo il raggiro consiste nel presentare il pubblico
ufficiale, destinatario di pressioni amicali, come
arrendevole, in quella del comma secondo il pubblico
ufficiale é prospettato dall’agente come persona corrotta
o corruttibile» (Cass. pen., sez. VI, 20 febbraio 2006,
Ippaso).
Il suddetto rapporto di specialità, nondimeno, se é
necessario, non é tuttavia sufficiente ad individuare
un’ipotesi circostanziale (per tutti Melchionda), dato che
pure tra figure autonome può intercorrere la medesima
relazione. Altrettanto può dirsi rispetto all’incidenza d’un
certo elemento aggiuntivo sulla gravità del reato e perciò
sulla pena: tale elemento, difatti, non necessariamente é
circostanziale, ben potendo implicare un mutamento del
titolo di reato (così, ad es., non v’é dubbio che la violenza
sessuale, di cui all’art. 609-bis, sia fattispecie autonoma
rispetto alla violenza privata descritta nell’art. 610 cod.
pen., pur costituendo dal punto di vista strutturale
un’ipotesi speciale di violenza privata connotata per una
particolare gravità). Non vi sono, insomma, elementi
“ontologicamente” circostanziali o costitutivi in ragione
delle loro caratteristiche strutturali; tanto che uno stesso
elemento, già circostanziale, con un sol tratto di penna
del legislatore può divenire indicativo d’un diverso titolo di
reato (così é accaduto per le ipotesi di furto in abitazione
e di furto con strappo, un tempo aggravanti del furto di
cui all’art. 624 cod. pen., confluite come reati autonomi
nell’art. 624-bis cod. pen. per l’intervento dell’art. 2
comma 2 legge 26.3.2001, n. 128) (per tutti Zaza).
Si tratta di intendere, piuttosto, a quale disciplina il
legislatore abbia voluto sottoporre una certa figura
penalmente rilevante. Per sciogliere il dilemma, decisiva
é cioè l’intentio legis, che potrà essere ricostruita
valutando gli “indizi” – sia di carattere valoriale che
formale – reperibili nelle disposizioni oggetto della
querelle (Vassalli; Gallo; Cass. pen., sez. un., 26 febbraio
2002); avendo ben cura a non sovrapporre, a tale
indagine, le personali convinzioni o “impressioni”
dell’interprete circa la scarsa adeguatezza o, piuttosto,
l’eccessivo rigore del regime sanzionatorio che potrebbe
derivare adottando l’una o l’altra opzione. Piaccia o non
piaccia, l’art. 25 comma 2 Cost. rimette al legislatore, non
al giudice, il compito di far corrispondere la pena ritenuta
opportuna al disvalore astratto del fatto criminoso.
In linea di principio, dunque, é un’inversione logica
ritenere preferibili certi effetti e, di conseguenza,
scegliere la qualifica del fatto più consona. A meno che,
anche in ragione di un’interpretazione storica, non risulti
la chiara intenzione del legislatore di preferire, appunto,
una certa disciplina: detta interpretazione, se coerente
con altri indici, consentirà di risolvere la questione della
intentio legis. Così, ad es., é indubbio che la
riconduzione delle ipotesi di furto in abitazione e furto con
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strappo, già elencate tra le aggravanti dell’art. 625 cod.
pen., nel contesto della nuova ed autonoma disposizione
dell’art. 624-bis, sia stata compiuta al fine specifico di
sottrarre quelle fattispecie alla disciplina caratteristica
delle circostanze, ed in particolare alla possibilità di un
bilanciamento con attenuanti.
A volte il testo di legge può contenere indicazioni
dirimenti. Tanto accade non solo quando
espressamente, nel testo della norma, si qualifica un
fatto come circostanziale, come ad es. negli stessi artt.
61 e 62 cod. pen. (altra cosa é quando detta
denominazione é operata dalla rubrica, di per sé, come
noto, non vincolante), ma anche quando la disciplina
della fattispecie non può non essere quella propria delle
circostanze. Così, ad es., ove prescriva un “aumento” o
una “diminuzione” di pena”, senza specificarne l’entità, la
legge compie per forza di cose un rinvio implicito agli artt.
64 e 65 cod. pen., norme appunto dedicate a precisare
l’entità di aumenti o diminuzioni conseguenti
all’applicazione di circostanze indeterminate. Si pensi,
altresì, ai sempre più frequenti casi in cui la natura
circostanziale del precetto é dimostrata proprio dalla
previsione di un regime derogatorio rispetto a quello
proprio delle circostanze, ad es. rispetto ai criteri di cui
all’art. 69 cod. pen. (Marinucci-Dolcini).
Particolarmente indicativa dell’intentio legis, ma non
determinante, é poi una rubrica che espressamente parli
di “circostanze” (per contro, la presenza di uno specifico
nomen iuris nella rubrica lascerà propendere per
l’individuazione di un’autonoma figura di reato:
Marinucci-Dolcini). In questo caso, fin dove possibile la
relativa fattispecie dovrà essere interpretata come se
effettivamente fosse una circostanza – quindi, tra l’altro,
un’ipotesi speciale rispetto a quella base – mentre
l’intitolazione della norma potrà essere tenuta in non cale
solo se il tipo di struttura del fatto, o la sua disciplina,
risultino necessariamente incompatibili con l’opzione
circostanziale (Marinucci-Dolcini). Così, per intendersi,
invece che ritenere ipotesi autonoma di reato la
fattispecie di cui all’art. 583 comma 1 n. 1 – chiaramente
rubricata come “circostanza aggravante” – sol perché
l’elemento dell’“incapacità di attendere alle ordinarie
occupazioni” sarebbe diverso, non specializzante,
rispetto alla “malattia” quale evento tipico delle lesioni, si
impone di valutare se quella norma possa essere
interpretata come circostanziale; come in effetti accade,
perché il disposto normativo ben può essere riferito al
caso in cui, pur non seguendo alla lesione una malattia
per un tempo superiore ai quaranta giorni, bensì una
malattia più breve, ciò nondimeno a quest’ultima si
aggiunga un’incapacità di attendere alle ordinarie
occupazioni della stessa durata.
L’indicazione della rubrica non é tuttavia probante
quando controbilanciata da dichiarazioni di intenti di
segno contrario. Così, se l’art. 640-bis é rubricato come
“truffa aggravata”, l’art. 7 della legge 31.5.1965, n. 575
(disposizioni contro la mafia), come modificato dal d.l. n.
152/1992, convertito in legge 12.7.1991, n. 203, fa
riferimento ai “delitti previsti” dall’art. 640-bis: Cass., Sez.
Un., 26.2.2002, Fedi, cit.. Da segnalare, tuttavia, che la
rubrica dell’art. 640-bis cod. pen. é in sé ambigua,
perché non parla di “circostanza” – nozione che rimanda
immediatamente, ed etimologicamente, alla natura
“accidentale” dell’elemento specializzante – ma allude
solo ad un “aggravamento”, fenomeno che potrebbe dirsi
sussistente anche nel caso di reato autonomo speciale
unilateralmente caratterizzato da più elevati margini
edittali rispetto all’ipotesi generale.
Poco probante il criterio topografico: come vi possono
essere circostanze sicuramente tali stabilite in norme
autonome rispetto all’ipotesi criminosa cui accedono,
così una stessa norma può prevedere più fattispecie
autonome di reato (c.d. “fattispecie a più norme”).
Suggestivi, ma anch’essi non decisivi, dati strutturali (ad
es. Cass., Sez. I, 8.11.1990, Filomeno), inerenti alla
sanzione o al precetto. Lasciamo parlare le Sezioni
Unite: «In certi casi il legislatore determina la pena
richiamando quella prevista in altra norma e applicando
sulla stessa una variazione frazionaria in aumento o in
diminuzione. Nonostante la determinazione per
relationem possa far pensare alla configurazione di una
circostanza, sono però frequenti i casi in cui é indubbia la
previsione di uno autonomo reato: così per la corruzione
di persona incaricata di un pubblico servizio (art. 320
cod. pen.); per la subornazione (art. 377), la cui pena é
stabilita in relazione a quelle previste per la falsa
testimonianza e la falsa perizia o interpretazione; per i
[…] delitti colposi contro la salute pubblica di cui al
secondo comma dell’art. 452. In altri casi invece il
legislatore determina la pena modificandone la specie o
mutando la cornice edittale rispetto alla pena di
riferimento. Anche in questi casi in genere l’indizio non é
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univoco, perché, con siffatte variazioni del trattamento
sanzionatorio, talvolta il legislatore ha inteso configurare
una figura nuova di reato e talaltra ha semplicemente
previsto una circostanza c.d. autonoma o indipendente».
Per quanto riguarda, poi, la costruzione del precetto «si
sostiene che quando la fattispecie é descritta attraverso
un mero rinvio al fatto-reato tipizzato in altra disposizione
di legge, ci si trova in presenza di una circostanza
aggravante [una proposta di questo tenore é quella di
Melchionda). Si replica in contrario che vi sono casi in cui
un reato sicuramente autonomo é descritto solo per
relationem. Così per il reato di cui all’art. 251 comma 2
cod. pen., nel quale l’inadempimento colposo di contratti
di fornitura in tempo di guerra é indicato richiamando
l’inadempimento doloso di cui al comma 1 dello stesso
articolo (“se l’inadempimento del contratto, totale o
parziale, é dovuto a colpa”). […] Altro esempio si può
ravvisare nei delitti colposi contro la salute pubblica di cui
all’art. 452 cod. pen., individuati richiamando
semplicemente i “fatti” preveduti dagli artt. 438 e 439 cod.
pen.». Nondimeno, é proprio in considerazione del
rapporto strutturale tra gli artt. 640 e 640-bis cod. pen.
che le stesse Sezioni Unite arrivano ad affermare la
natura circostanziale della seconda fattispecie, dato che
il rinvio al “fatto” dell’art. 640 cod. pen., operato dall’art.
640-bis cod. pen., sarebbe volto a costruire una
fattispecie davvero strutturalmente corrispondente a
quella richiamata, dal punto di vista oggettivo e
soggettivo, salva l’aggiunta dell’elemento specializzante;
mentre i richiami contenuti nell’art. 251 comma 2 e
nell’art. 452 cod. pen., non potrebbero essere indice di
un’ipotesi circostanziale per il semplice fatto che dette
norme delineano ipotesi colpose che rinviano, per la
costruzione del fatto tipico, a corrispondenti ipotesi
dolose, come tali intrinsecamente eterogenee (Cass.,
Sez. Un., 26.2.2002, Fedi, cit.). Solo in virtù di una
petizione di principio, peraltro, si può sostenere che la
strutturazione di una fattispecie mediante il rinvio agli
elementi costitutivi di altra fattispecie caratterizzi
indubbiamente la prima nei termini di una circostanza;
una tale, “economica” tecnica normativa sarebbe in
realtà perfettamente consentita ad un legislatore
intenzionato a descrivere un’ipotesi autonoma di reato.
Contraddicendo in parte il rigore della sua mirabile pars
destruens, dunque, la sentenza delle Sezioni Unite alla
fine attribuisce anch’essa valore decisivo ad un elemento
al più puramente indiziario; anzi, a conti fatti, ad essere
enfatizzata é unicamente la relazione di specialità
unilaterale tra le due figure criminose, la quale, come si é
visto, é il punto di partenza, non certo la méta, d’ogni
tentativo di soluzione del problema. Spesso, peraltro, le
motivazioni delle sentenze tese ad affermare la natura
circostanziale d’una certa fattispecie, una volta private
d’ogni orpello privo di effettiva capacità esplicativa – ad
es., appunto, il riferimento al “bene giuridico” inteso come
mera perifrasi delle caratteristiche strutturali della
fattispecie – si scoprono fondate prevalentemente
sull’accertamento di un rapporto di specialità unilaterale,
nel senso che, a conti fatti, attribuiscono la natura di
elemento accidentale ad un elemento aggiuntivo o
specializzante in quanto tale: v. ad es., in materia di
contrabbando di tabacchi esteri in quantitativi superiori ai
quindici chilogrammi, di cui all’art. 2 legge 18.1.1994, n.
50: Cass., Sez. III, 22.5.1996, Stella, in Cass. pen., 1996,
525 («che si tratti di circostanza aggravante é
comprovato dalla considerazione che la fattispecie tipica
di cui all’art. 2 l. n. 50/94 comprende tutti gli elementi
essenziali del delitto di contrabbando semplice previsto
dal d.P.R. n. 43/73 e vi aggiunge due elementi specifici,
cioè l’oggetto del contrabbando (tabacco estero) e la
quantità minima») o riguardo all’ipotesi di
favoreggiamento personale allo scopo specifico di
aiutare taluno ad eludere le investigazioni o le ricerche in
relazione ad un delitto di associazione mafiosa, di cui
all’art. 378 comma 2 cod. pen.: Cass., Sez. VI,
22.3.1996, Vinci, in Cass. pen., 1997, 1723.
Mancando, dunque, quegli elementi probanti che si son
detti decisivi, ed essendo ambigue (perché poche, o non
concordanti) le indicazioni fornite da profili meramente
indizianti, la soluzione, secondo ampia giurisprudenza,
dovrebbe essere affidata ad una considerazione
teleologica. In particolare, essendo la circostanza un
mero elemento accidentale, essa non potrebbe “mutare”
l’obiettività giuridica della fattispecie; ove, perciò, si
possa ritenere che le due ipotesi poste a confronto
tutelano un bene giuridico differente, esse sicuramente
non costituiscono, l’una, circostanza dell’altra (Cass.,
Sez. Un., 19.6.1982, Greco, in CED, 1982/11399; Cass.,
Sez. Un., 31.5.1991, Parisi, in CED, 1991/9148; Cass.,
Sez. Un., 20.4.1994, Petrongari, in CED, 1994/6; Cass.,
Sez. Un., 29.10.1997, Deutsch, in CED, 1998/119; in
dottrina, ampiamente, e con numerosi riferimenti alla
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giurisprudenza: Zaza).
Autorevole dottrina (Padovani) individua invece il criterio
risolutore nel principio di legalità. Poiché la Costituzione
pretende che il legislatore stabilisca ciò che é reato con
norma di legge determinata, le perplessità circa la natura
di un fatto penalmente rilevante sarebbero, di per sé,
indice di indeterminatezza, dunque di una norma inadatta
a delineare un fatto tipico criminoso; per esclusione, tale
norma dovrebbe dunque intendersi come circostanziale.
A questa impostazione la giurisprudenza più informata
ha obiettato che l’art. 25 comma 2 Cost. vale anche per
le circostanze del reato, le quali, dunque, devono essere
previste dalla legge e in modo determinato tanto quanto
gli elementi costitutivi (Cass., Sez. Un., 26.2.2002, Fedi,
cit.). La dottrina ora evocata richiamava peraltro non solo
la citata disposizione costituzionale, ma anche l’art. 1
cod. pen. Quest’ultima norma, in effetti, può oggi
guadagnare un senso specifico ed autonomo, rispetto
all’art. 25 Cost., se in essa si legge la pretesa di un
coefficiente qualificato di “certezza” per quanto riguarda
la classificazione d’un fatto come reato, rispetto ad altre
attribuzioni (unicamente di “reato” e di “pena”, non di
“circostanze”, la norma parla). Sicché, in conclusione,
ferma restando la garanzia della legalità predisposta
dalla Costituzione, valida anche per gli accidentalia
delicti, l’art. 1 cod. pen. può suonare come una sorta di
disposizione di carattere interpretativo, appunto volta a
stabilire come non possa scorgersi una figura criminosa
(ma casomai una circostanza) in un precetto penalmente
sanzionato non chiaramente volto a configurare un titolo
autonomo di reato; l’art. 1 cod. pen., così inteso,
verrebbe a costituire una peculiare espressione del
principio di determinatezza, impedendo il verificarsi di
dubbi irresolubili, inammissibili ex art. 25 Cost., riguardo
alla natura specifica di certe norme penali (nel dubbio
suggerisce di operare per la qualifica circostanziale,
stante la ratio del codice Rocco, prima, della riforma del
’74, poi, anche Contento).
3. La classificazione
Le circostanze si dividono in:
- attenuanti (determinano una minore gravità del reato
comportando una diminuzione della pena), e aggravanti
(determinano una maggiore gravità del reato e,
conseguentemente, un aumento della pena);
- comuni (si trovano nella parte generale del Codice
Penale e sono applicabili a tutti i tipi di reato) e speciali
(sono applicabili solo a determinate fattispecie di reato
es. 576 e 625 cod. pen.);
- intrinseche (riguardano la condotta illecita) ed
estrinseche (sono estranee all’esecuzione e/o
consumazione del reato e riguardano i cd. fatti
successivi);
- a efficacia comune (determinano un aumento o una
diminuzione della pena fino a 1/3) e a efficacia speciale
(possono comportare a seconda dei casi, a)
l’applicazione di una pena diversa da quella prevista dal
Codice penale per il reato non circostanziato; b) la
determinazione di una pena in maniera indipendente da
quella ordinaria del reato; c) l’applicazione di un aumento
e/o diminuzione della pena superiore a 1/3 della pena
base);
- oggettive (riguardano la natura, l’oggetto, il tempo, il
luogo dell’azione, nonché la gravità del danno o del
pericolo e le condizioni e qualità personali della persona
dell’offeso) e soggettive (riguardano le condizioni o
qualità personali del colpevole, l’intensità del dolo o il
grado della colpa e i rapporti tra agente e soggetto
passivo del reato).
Quest’ultima distinzione assume rilevanza soprattutto in
ambito di concorso di persone con riferimento al
problema della loro applicabilità a tutti i correi.
L. 288/1944 ha introdotto l’art. 62 bis cod. pen. che, nel
2005 é stato sostituito dalla L. 251 (meglio conosciuta
come Legge Cirielli) con la attuale disposizione.
Il primo comma di detto articolo, stabilisce che “il giudice,
indipendentemente dalle circostanze previste nell’articolo
62, può prendere in considerazione altre circostanze
diverse, qualora le ritenga tali da giustificare una
diminuzione della pena. Esse sono considerate in ogni
caso, ai fini dell’applicazione di questo capo, coma una
sola circostanza, la quale può anche concorrere con una
o più delle circostanze indicate nel predetto articolo 62”.
La legge Cirielli ha quindi previsto l’applicabilità delle
circostanze attenuanti generiche (ovvero delle
circostanze diverse da quelle previste dall’art. 62 cod.
pen.) nel caso in cui il giudice le ritenga tali da giustificare
una diminuzione della pena. Tra gli elementi a
disposizione del giudice ai fini della valutazione vi é la
gravità del reato, la capacità di delinquere del reo, ecc.
4. La valutazione delle circostanze
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Nella vecchia formulazione dell’art. 59 cod. pen.
“Circostanze non conosciute o erroneamente supposte”
(rimasta in vigore fino al 1990) le circostanze venivano
attribuite in base a un criterio obiettivo per cui esse,
sostanzialmente, venivano riconosciute e ciò a
prescindere dall’effettiva conoscenza (o meno) del
soggetto agente e se il soggetto si rappresentava per
errore come esistente una circostanza, questa non
veniva valutata né a suo carico né a suo favore.
Si trattava di una disciplina rigida che prevedeva
l’applicazione di tali circostanze per il solo fatto di
esistere.
Nel 1990 poi é entrata in vigore la Legge 7 febbraio 1990
n. 19 “Modifiche in tema di circostanze, sospensione
condizionale e destituzione dei pubblici dipendenti” che
ha riformulato (modificandolo) l’art. 59 del cod. pen. e ha
stabilito che “le circostanze che aggravano la pena sono
valutate a carico dell’agente soltanto se da lui conosciute
ovvero ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore
determinato da colpa”.
Il legislatore ha quindi previsto un nuovo criterio di
imputazione delle circostanze, più precisamente per
quelle aggravanti, che da oggettivo é stato modificato in
soggettivo. Pertanto, perché tali circostanze possano
essere riconosciute, occorre un coefficiente soggettivo
rispettivamente costituito o dallo loro effettiva
conoscenza o dallo loro colpevole ignoranza.
Inalterata é invece rimasta la disciplina per l’applicazione
delle circostanze attenuanti (imputazione obiettiva).
Pertanto l’applicazione delle circostanze aggravanti
dipende dall’effettiva conoscenza delle stesse da parte
del reo al momento della commissione del reato (o
comunque dal fatto che le stesse sono state ignorate per
colpa o per errore determinato da colpa) mentre
l’applicazione delle circostanze attenuanti non dipende
dall’effettiva conoscenza del soggetto.
La modifica introdotta trova ispirazione al principio
(tutelato dalla Costituzione) della colpevolezza e per la
soggettività della responsabilità penale.
Una disciplina particolare é prevista per l’ipotesi di errore
sulla persona offesa da un reato.
Il primo comma dell’art. 60 cod. pen. “Errore sulla
persona dell’offeso” stabilisce infatti che “nel caso di
errore sulla persona offesa da un reato, non sono poste
a carico dell’agente le circostanze aggravanti, che
riguardano le condizioni o qualità della persona offesa, o
i rapporti tra offeso e colpevole” e al secondo comma
“sono invece valutate a suo favore le circostanze
attenuanti, erroneamente supposte, che concernono le
condizioni, le qualità o i rapporti predetti”.
Il tipico caso é quello di un uomo che convinto di
uccidere il suo nemico, per un errore di percezione,
uccide un uomo che in realtà é il padre. Di certo l’uomo
risponderà di omicidio semplice ma non certo di
parricidio giacché per la contestazione di tale tipo di reato
occorre la effettiva consapevolezza da parte del soggetto
agente di uccidere il proprio padre.
5. Il concorso di circostanze aggravanti e
attenuanti
L’art. 63 cod. pen. “applicazione degli aumenti o delle
diminuzioni di pena” stabilisce le modalità di aumento e/o
diminuzione della pena nel caso in cui in un medesimo
contesto del reato si verificano più circostanze attenuanti
e aggravanti. In particolare, il Codice prevede che se le
circostanze sono omogenee (ovvero tutte aggravanti e/o
tutte attenuanti), si verifica un aumento o una
diminuzione della pena quante sono le circostanze
concorrenti.
Per converso, se le circostanze sono eterogenee
(contemporaneamente aggravanti e attenuanti), si deve
procedere a un giudizio di comparazione tra tutte,
secondo il libero apprezzamento del giudice. Si potrà
quindi giungere a un giudizio di prevalenza delle
circostanze aggravanti e/o di quelle attenuanti o
comunque a un giudizio di equivalenza per cui si procede
al reciproco annullamento e alla semplice applicazione
della pena base prevista dal Codice penale per quelle
fattispecie di reato.
La disciplina del concorso omogeneo si distingue poi a
seconda che le circostanze siano ad efficacia comune
e/o ad efficacia speciale.
Nel primo caso (efficacia comune), l’art. 63, secondo
comma, cod. pen. stabilisce che “se concorrono più
circostanze aggravanti, ovvero più circostanze
attenuanti, l’aumento o la diminuzione di pena si opera
sulla quantità di essa risultante dall’aumento o dalla
diminuzione precedente”. Nella fattispecie occorre però
far salvo quanto disposto dall’articolo 66 cod. pen. che
stabilisce “se concorrono più circostanze aggravanti, la
pena da applicare per effetto degli aumenti non può
15
superare il triplo del massimo stabilito dalla legge per il
reato […] né comunque eccedere: 1) gli anni trenta, se si
tratta della reclusione; 2) gli anni cinque, se si tratta
dell’arresto; […]”.
Per quanto attiene al concorso di circostanze attenuanti,
l’art. 67 cod. pen. stabilisce che la pena da applicare non
può essere inferiore a dieci anni se la pena prevista per il
delitto é l’ergastolo mentre negli altri casi non può essere
inferiore a un quarto.
Nel secondo caso (efficacia speciale), l’art. 63, quarto
comma, cod. pen. stabilisce che “se concorrono più
circostanze aggravanti tra quelle indicate nel secondo
capoverso di questo articolo, si applica soltanto la pena
stabilita per la circostanza più grave; ma il giudice può
aumentarla”.
Il concorso criminoso
SOMMARIO
1. Premessa. – 2. La struttura oggettiva del concorso di persone nel reato. – 3. Il contributo di ciascun concorrente
nella fattispecie concorsuale. – 4. L’ambito di efficacia del concorso materiale e morale. – 5. Il concorso eventuale e il
concorso necessario; reati associativi. – 6. Le circostanze del concorso di persone nel reato.
1. Premessa
Nel caso di commissione di un reato da parte di una
pluralità di agenti, non prevista come elemento costitutivo
di fattispecie, possono essere adottati diversi modelli di
regolamentazione normativa. Il codice Zanardelli, negli
artt. 63 e 64, adottò l’opzione di tipizzare i diversi apporti
dei concorrenti, differenziando le conseguenze
sanzionatorie.
Tale modello é stato abbandonato dal codice Rocco, che
ha equiparato sul piano normativo i singoli apporti,
rimettendo all’operare delle circostanze e alla
commisurazione della pena il compito di diversificare in
concreto i diversi contributi.
Tale rivisitazione dell’istituto é riconducibile all’affermarsi di
una nuova filosofia della fattispecie concorsuale,
imperniata su di una valutazione unitaria della stessa, che
riveste una maggiore pericolosità rispetto alla fattispecie
monosoggettiva (Insolera).
L’art. 110 cod. pen., fondamento della nuova disciplina sul
concorso di persone nel reato, esprime i due principi-
cardine della materia, che sono il principio della pari
responsabilità dei concorrenti e il teorema dell’equivalenza
delle condizioni, come criteri d’individuazione del
contributo punibile.
Al fine di spiegare il fondamento della punibilità del
concorso, sono state elaborate le seguenti teorie:
a) dell’accessorietà;
b) della fattispecie plurisoggettiva eventuale (Mantovani);
c) delle fattispecie soggettive differenziate.
Quanto alla teoria dell’accessorietà, essa estende la
tipicità della condotta principale (descritta cioè nella norma
di parte speciale), alle condotte accessorie, in sé atipiche,
poste in essere dai compartecipi. Tale teoria presuppone
la sussistenza di una condotta principale che integri gli
estremi della fattispecie tipica, cui accedano i contributi
atipici dei concorrenti.
Si distinguono, inoltre, le due varianti dell’accessorietà
estrema, per cui é richiesta anche la punibilità in concreto
dell’autore della condotta principale, comprese
l’imputabilità e la colpevolezza dell’autore; e quella
dell’accessorietà limitata, che richiede semplicemente
l’antigiuridicità del fatto principale, prescindendo cioè
dall’imputabilità e dalla colpevolezza dell’autore. Il limite di
tale teoria sta nel fatto che essa non riesce a giustificare i
concorrenti nelle ipotesi di esecuzione frazionata, ove
nessuno dei concorrenti realizzi il fatto tipico, che
scaturisce dalla combinazione delle condotte dei
concorrenti (ad esempio, é il caso della rapina in cui A
realizzi la minaccia e B sottragga il portafogli), ovvero non
riesce a giustificare la punibilità del reato proprio nel caso
in cui la condotta tipica sia posta in essere dall’extraneus,
dovendo essere invece l’intraneus l’autore della condotta
principale.
A superamento degli evidenziati inconvenienti, é stata più
recentemente coniata la teoria della fattispecie
plurisoggettiva eventuale, per la quale dalla combinazione
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della norma sul concorso con la norma incriminatrice di
parte speciale nasce una nuova fattispecie plurisoggettiva,
autonoma e diversa da quella monosoggettiva, con una
sua nuova tipicità. Conseguentemente, non é necessario
che l’intera condotta tipica sia posta in essere da un solo
soggetto, cui accedano le condotte secondarie dei
partecipi, ben potendo la condotta principale essere
frazionata tra più soggetti. In altri termini, é in rapporto a
tale nuova fattispecie che va stabilito se la condotta del
partecipe é tipica o meno (Dell’Andro).
Una variante della precedente teoria é costituita dalla
teoria delle fattispecie plurisoggettive differenziate, per cui
dall’incontro delle norme sul concorso con la norma
incriminatrice di parte speciale non nascerebbe una sola
fattispecie plurisoggettiva eventuale, bensì nascerebbero
tante fattispecie plurisoggettive quanti sono i concorrenti.
Tali fattispecie avrebbero in comune il medesimo nucleo di
accadimento materiale, ma si distinguerebbero tra loro per
l’atteggiamento psichico relativo ai singoli concorrenti e
per il concreto atteggiarsi delle singole condotte (Pagliaro;
Fiandaca-Musco).
Tale tesi meglio spiega perché ai partecipi possano
applicarsi diverse circostanze, o é possibile l’esclusione
della pena per taluni soltanto, o ciascuna condotta può
essere sorretta da un diverso elemento soggettivo. Si é
peraltro criticata in questa tesi la moltiplicazione delle
fattispecie tipiche, a seconda del diverso atteggiarsi
dell’elemento psichico dei concorrenti (Mantovani).
2. La struttura oggettiva del concorso di persone
nel reato.
Nel nostro ordinamento i requisiti strutturali del concorso di
sono: 1) la pluralità di agenti; 2) la realizzazione della
fattispecie tipica; 3) il contributo di ciascun concorrente
alla realizzazione del reato comune; 4) l’elemento
soggettivo (Fiandaca-Musco).
Il primo requisito é ovvio, atteso che si può parlare di
concorso solo in presenza di un reato commesso da più
soggetti. Dal carattere plurisoggettivo della fattispecie
concorsuale va distinta la questione della concreta
punibilità dei concorrenti: il concorso é comunque
configurabile anche se taluno dei concorrenti non é
punibile per ragioni inerenti alla sua persona, come si
desume dai riferimenti normativi di cui agli artt. 112 cod.
pen., che fa riferimento al concorrente non imputabile o
non punibile, e art. 119 cod. pen., che fa riferimento alle
circostanze soggettive che hanno effetto solo rispetto al
concorrente cui si riferiscono. Ulteriori riferimenti normativi,
che venivano tradizionalmente ricondotte alla fattispecie
dell’autore mediato, possono rinvenirsi negli artt. 45, 48 e
54, ultimo comma, cod. pen.
Sul versante del fatto, sulla base del principio di materialità
del fatto, é richiesto che i singoli contributi posti in essere
da ciascun concorrente confluiscano nella realizzazione di
una fattispecie di reato, perlomeno nella forma tentata.
Il limite minimo costituito dal tentativo é desumibile dall’art.
115 cod. pen., che stabilisce il principio della non punibilità
dell’accordo o istigazione non seguiti dalla commissione
del reato. Da quest’ultima disposizione si ricava la regola
generale per cui non é concepibile il concorso di persone
nel reato, se non si verifichi, anche nella forma del
tentativo, un’offesa al bene giuridicamente protetto (Gallo).
Requisito fondamentale nella fattispecie concorsuale é
quello del contributo, materiale o morale, posto in essere
da ciascun concorrente alla realizzazione del fatto
delittuoso. Il problema fondamentale che si pone é quello
d’individuare il comportamento atipico minimo che sia tale
da integrare gli estremi del concorso.
Nel nostro ordinamento il problema viene risolto, oltre che
sulla base del principio di tassatività, anche con
riferimento a:
a) principio di materialità, in forza del quale non é
sufficiente una mera adesione interna al reato posto in
essere da altri, ma occorre porre in essere un
comportamento materiale esteriore;
b) principio della responsabilità personale, per cui il
comportamento esteriore deve tradursi in un contributo
rilevante, di natura materiale o morale, alla realizzazione
del reato (Mantovani).
3. Il contributo di ciascun concorrente nella
fattispecie concorsuale
Nell’individuazione dell’ambito del contributo alla
fattispecie concorsuale, la dottrina ha evidenziato i limiti
del criterio causal-condizionalistico, per cui l’azione del
partecipe dev’essere condicio sine qua non nella
realizzazione del reato. Esso é incapace di comprendere
quei contributi privi del requisito dell’indefettibilità.
Già il Pedrazzi proponeva un adattamento del paradigma
causale, prospettando una valutazione ancorata alle
modalità concrete di verificazione del fatto principale: «…
Basta che l’influsso del partecipe si eserciti su qualche
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particolare, anche secondario dell’impresa criminosa,
ovvero in relazione al contributo offerto alla figura giuridica
del bene protetto, o del piano organizzativo …».
Tali criteri si sono tuttavia rivelati generici e insufficienti,
non riuscendo nell’intento di rendere tassative le modalità
del concorso. Così, essi porterebbero ad includere
nell’area l’autore mediato che ha trovato ragione d’essere
nel sistema tedesco, fondato sulla tipizzazione delle
fattispecie concorsuali.
Per eccesso pecca, inoltre, il criterio prognostico, per cui é
sufficiente che un soggetto apporti un aiuto qualsiasi alla
realizzazione del reato, a prescindere dalla reale
pericolosità dell’anzidetto contributo.
In posizione intermedia vi é poi la tesi della causalità
agevolatrice, per cui é apprezzabile ai fini del concorso
non solo il contributo necessario, ma anche quello che
abbia agevolato la commissione del reato. Il limite di
questa teoria é costituito dal fatto che essa lascia impunita
la partecipazione ex ante agevolatrice, ma ex post inutile o
dannosa (il contributo dello scassinatore, in presenza di
una cassaforte aperta, che comunque potrebbe avere
rilievo sotto il profilo morale, come rafforzamento dell’altrui
proposito criminoso).
É stata peraltro elaborata la teoria della prognosi postuma,
per cui é richiesto che la condotta del partecipe sia ex ante
idonea a facilitare la realizzazione del reato, anche se ex
post si riveli inutile o dannosa (Donini).
Gli appigli di diritto positivo per risolvere i casi grigi sono
comunque costituiti dal principio causalistico di cui all’art.
40 cod. pen., dall’art. 114 cod. pen., che prevede
l’attenuante della partecipazione di minima importanza
relativamente ad alcune condotte concorsuali di minor
incisività sul piano causale, nonché dall’art. 116 cod. pen.,
il quale richiedendo che l’evento non voluto sia la
conseguenza della condotta del concorrente, dimostra che
vi possono essere condotte di concorso che non siano
condiciones sine quibus non.
In definitiva, mentre, in virtù del principio di responsabilità
per fatto proprio, nella fattispecie monosoggettiva occorre
che il soggetto abbia anche materialmente causato il
reato, nella fattispecie plurisoggettiva é sufficiente che
abbia agevolato la sua esecuzione da parte di altri, poiché
in forza del vincolo associativo diventino proprie anche le
condotte dei concorrenti.
4. L’ambito di efficacia del concorso materiale e
morale
Tradizionalmente, si distingue tra i seguenti tipi di
concorso:
1) contributo necessario, qualora il concorrente abbia
posto in essere una condicio sine qua non del reato. Tale
contributo può manifestarsi non solo come partecipazione
materiale, ma anche come partecipazione morale, che dia
luogo alla determinazione dell’altrui proposito criminoso
prima inesistente, o di altrui attività preparatorie (ideazione
del piano criminoso, messa a disposizione dei mezzi);
2) contributo agevolatore, che abbia reso più probabile
l’esecuzione del reato, e che può manifestarsi anche a
livello morale attraverso il rafforzamento dell’altrui
proposito criminoso, o il sostegno nelle attività
preparatorie o esecutive.
Con riferimento al concorso morale, il codice Rocco
utilizza il termine generale di istigazione, la cui rilevanza
penale é desumibile dall’art. 115, terzo comma, cod. pen.,
che ha stabilito la non punibilità dell’istigazione cui non é
seguita l’esecuzione del reato, così implicitamente
dicendo che, quando l’istigazione venga accolta,
l’istigatore risponde del reato a titolo di concorso.
Anche nella partecipazione psichica, non pare possibile
utilizzare meri criteri di idoneità ex ante, dovendo valutarsi
anche la concreta efficacia del contributo psichico alla
consumazione del reato. Come non é possibile valutare ai
fini del concorso una condotta che, considerata ex post,
non risulti avere in alcun modo agevolato la consumazione
del reato, così non può esservi complicità morale, a
prescindere da un’effettiva influenza psichica
sull’esecutore materiale del reato. É pur vero che una
condotta inutile o dannosa sul piano materiale, potrà
spiegare una concreta efficacia determinatrice o
rafforzatrice dell’altrui determinazione psicologica.
Le forme di partecipazione psichica trovano un
ampliamento in condotte diversificate rispetto
all’istigazione per determinazione o rafforzamento, quali
l’accordo criminoso, il consiglio tecnico o la promessa
d’aiuto. É comunque da escludersi che possano spiegare
efficacia rafforzatrice dell’altrui proposito criminoso la mera
complicità morale o connivenza, così come é escluso che
possa bastare la mera presenza sul luogo del delitto (il
caso del soggetto presente con atteggiamento aggressivo
sul luogo del lancio di materie esplodenti) (Fiandaca-
Musco).
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5. Il concorso eventuale e il concorso necessario:
reati associativi
Il concorso di persone nel reato indica, in via generale, il
fenomeno della realizzazione plurisoggettiva del reato.
Esso può essere l'unico modo di manifestazione di un
determinato tipo di reato, e in tal caso si parlerà di
concorso necessario (es. classico é quello della rissa ex
art. 588 cod. pen. dove non é configurabile la
realizzazione monosoggettiva della fattispecie
contemplata dalla norma) ovvero può trattarsi di una delle
modalità di realizzazione di una fattispecie astratta di reato
realizzabile in forma monosoggettiva o in forma
plurisoggettiva, in tale ultima ipotesi si parlerà di concorso
eventuale.
Il concorso eventuale, dunque, rispetto al concorso
necessario si caratterizza per il fatto che la fattispecie di
reato contemplata dalla norma può indifferentemente
essere realizzata da un unico soggetto o da più soggetti.
Con riferimento alle fattispecie di concorso necessario, un
ruolo peculiare viene svolto da tutte le ipotesi di
associazione per delinquere, laddove lo stesso fatto di
partecipare stabilmente all'associazione, a prescindere
dalla realizzazione di alcuno dei reati scopo
dell'associazione, configura un fatto di reato del quale
sono tenuti a rispondere tutti i partecipanti.
La differenza tra le fattispecie di reato associativo e il
concorso eventuale é che, nel secondo caso, il vincolo
associativo é preordinato alla commissione di un solo
reato ed é pertanto occasionale mentre, nel primo, il
vincolo é preordinato alla commissione di una serie
potenzialmente indefinita di reati.
Con riferimento ai reati associativi, tra i problemi
maggiormente dibattuti in dottrina vi sono:
a) la responsabilità per i reati scopo in capo ai
partecipanti;
b) la configurabilità di un concorso eventuale esterno nel
delitto associativo.
Con riferimento al primo dei delineati profili, la
giurisprudenza esclude che la mera partecipazione
all'associazione possa far sorgere automaticamente una
responsabilità per i reati scopo dei quali dovranno
rispondere solo i soggetti che abbiano posto in essere i
presupposti materiali e psicologici del fatto di reato
realizzato.
Il concorso eventuale esterno al reato associativo é,
invece, stato considerato ammissibile qualora la
partecipazione sia risultata isolata e confinata ad un atto
unico posto in essere anche a soli fini utilitaristici purché
abbia avuto l'effetto di rafforzare l'associazione. Il
presupposto negativo é quello della mancata
partecipazione stabile nell'associazione e nella mancata
possibilità, da parte di questa, di fare affidamento durevole
sull'apporto del partecipante esterno.
6. Le circostanze del concorso di persone nel reato
Il concorso di persone nel reato presenta, all'art. 112 cod.
pen., alcune circostanze aggravanti della pena specifiche
per le forme plurisoggettive di commissione del reato.
la prima delle circostanze aggravanti contemplata dall'art.
112 cod. pen. é quella relativa al numero di persone che
abbiano concorso nella realizzazione del fatto penalmente
rilevante. Più precisamente, ove tale numero ecceda le
cinque unità si applicherà l'aggravante di cui al n. 1 del
primo comma dell'art. 112 cod. pen.. Secondo la
giurisprudenza, peraltro, tale aggravante troverà
applicazione anche qualora si tratti di reato a concorso
necessario salvo che il numero eccedente le cinque unità
sia elemento strutturale del fatto di reato.
Il n. 2 dell'art. 112 cod. pen. riguarda il ruolo rivestito nella
fattispecie criminosa plurisoggettiva posta in essere e
s'applica a coloro che abbiano organizzato o promosso la
cooperazione ovvero che abbiano diretto l'attività
esecutiva.
Il n. 3 dell'art. 112 cod. pen. riguarda, invece, coloro che
abbiano determinato a commettere il reato persone
sottoposte alla loro autorità direzione o vigilanza.
Il n. 4 dell'art. 112 cod. pen. riguarda, infine, coloro che
abbiano determinato a commettere un reato persona
minore di anni 18 o persona in situazione di infermità o
deficienza psichica ovvero che si siano avvalsi delle
stesse per la commissione di reati per i quali sia previsto
l'arresto in flagranza.
Il secondo comma dell'art. 112 cod. pen., prevede un
aumento della pena sino alla metà per chi si sia avvalso,
per la commissione di un delitto che preveda l'arresto in
flagranza, di persona non punibile o non imputabile per
una qualità personale.
L'ultimo comma, per le fattispecie di cui al n. 4 del primo
comma e di cui al secondo comma, prevede un ulteriore
aggravamento di pena (rispettivamente sino alla metà o
sino ai due terzi), ove il soggetto che si sia avvalso della
persona minore o della persona in situazione di infermità o
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deficienza psichica o di persona non imputabile o non
punibile per una qualità personale, sia il genitore
esercente la potestà.
L'ultimo comma dell'art. 112 cod. pen. prevede che gli
aggravamenti di pena si applichino anche se taluno dei
soggetti che abbiano concorso nel reato non siano punibili
o imputabili; ciò che conforta la tesi secondo la quale, ai
fini della configurabilità del concorso di persone nel reato é
sufficiente che anche una sola delle persone che abbiano
materialmente concorso sia effettivamente assoggettabile
a pena.
L'art. 114 cod. pen. prevede le circostanze attenuanti
specifiche del concorso di persone. Innanzitutto, può
essere diminuita la pena del concorrente che abbia
prestato un contributo di minima importanza. Secondo la
giurisprudenza della Suprema Corte l'individuazione del
contributo di minima importanza va verificata sul piano
oggettivo della causalità e va riconosciuta ogni qual volta
tale contributo possa essere eliminato senza apprezzabili
conseguenze sull'eziologia del reato. Inoltre può applicarsi
una diminuzione di pena in favore del soggetto minore di
anni 18 o del soggetto che versi in situazione di deficienza
psichica o in stato di infermità o se sia stato determinato al
reato da persona al cui potere di direzione o vigilanza.
Sotto il profilo dell'applicazione delle circostanze nel reato
plurisoggettivo, deve sottolinearsi come, a mente dell'art.
118 cod. pen.: "Le circostanze che aggravano o
diminuiscono le pene concernenti i motivi a delinquere,
l'intensità del dolo, il grado della colpa e le circostanze
inerenti alla persona del colpevole sono valutate soltanto
riguardo alla persona cui si riferiscono.".
Ciò comporta che le circostanze aggravanti oggettive e
quelle soggettive diverse da quelle di cui all'art. 118 cod.
pen. si estenderanno ai compartecipi solo a condizione
che esse siano conosciute o conoscibili mentre le
circostanze che diminuiscono la pena diverse da quelle di
cui all'art. 118 cod. pen. si estenderanno
automaticamente; tutte le circostanze indicate all'art. 118
cod. pen. sono, invece, incomunicabili.
Con riferimento alle circostanze di esclusione della pena,
l'art. 119 cod. pen. stabilisce, invece che: "Le circostanze
soggettive, le quali escludono la pena per taluno di coloro
che sono concorsi nel reato hanno effetto soltanto
riguardo alla persona a cui si riferiscono. Le circostanze
oggettive che escludono la pena hanno effetto per tutti
coloro che sono concorsi nel reato."
A tale riguardo, una peculiare problematica si é posta con
riferimento alla desistenza nell'ambito del concorso di
persone. Si é, cioè, discusso se, per poter godere della
causa di esclusione della pena prevista dall'art. 56, terzo
comma, cod. pen. il concorrente debba escludere solo il
proprio contributo causale o debba impedire che il reato
sia compiuto. L'opinione largamente maggioritaria della
dottrina così come quella della giurisprudenza, ritengono
che la desistenza del complice consista nell'eliminazione
del personale contributo causale alla fattispecie
concorsuale così da elidere ogni efficienza eziologica della
propria condotta nell'eventuale produzione del risultato
offensivo programmato. La desistenza ha, naturalmente,
in tale caso, efficacia solo in favore del soggetto che
l'abbia posta in essere non essendo estensibile ai
compartecipi (diverso il caso in cui la desistenza riguardi
l'autore in quanto, in tale ipotesi, il reato non sarà
commesso e, della stessa, per motivi evidenti, si
gioveranno anche i correi).
Con riguardo, invece, al recesso attivo, nessun particolare
problema si pone nel concorso di persone in quanto si
tratta della possibilità, offerta a tutti i concorrenti, di
eliminare le conseguenze offensive di una condotta
criminosa già realizzata; anche con riferimento al recesso
attivo, della diminuzione di pena in esso prevista potrà
giovarsi solo il correo che l'abbia posto in essere.
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