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Diritto penale I - PUL 2018 (prof. Luciano Eusebi)
22.2
- diritto privato (o civile) e diritto pubblico; il diritto penale come ambito del diritto
pubblico; l’inflizione della pena come massima espressione del potere di ingerenza dello Stato
nella sfera dei diritti individuali, posto che può implicare la privazione della libertà personale:
per cui, eccezionalmente, tale potere non è esercitato da organi amministrativi (dal potere
esecutivo), ma direttamente dal potere giudiziario (ne deriva che se contro un atto
amministrativo è possibile il ricorso a un giudice, contro un provvedimento giudiziario penale è
possibile il ricorso a un grado superiore di giudizio);
illeciti amministrativi e illeciti penali (reati);
- richiamo della nozione di divisione dei poteri (potere esecutivo, potere legislativo, potere
giudiziario);
potere esecutivo come potere di obbligare: è il potere originario dal punto di vista storico, il potere
del sovrano, che solo successivamente diviene un potere attribuito dalla legge così come fissata dal
Parlamento (e, in tal senso, diviene potere esecutivo della legge);
è esercitato, oggi, dalle pubbliche amministrazioni, che in ambito statale hanno al loro vertice il
Governo, quale autorità di natura politica;
il potere giudiziario, in quanto potere indipendente dall’esecutivo, dirime il contenzioso tra il potere
esecutivo e le persone (fisiche o giuridiche) oppure tra queste ultime;
- la radicata incidenza nella nostra cultura di un modello (retributivo) della giustizia
fondato sulla corrispettività dei comportamenti (positivo per positivo, negativo per negativo) o, in
altre parole, sull’immagine della immagine della bilancia;
- il ruolo pressoché esclusivo che mantiene nel sistema penale la condanna alla pena detentiva (art. 17 c.p.), come espressione di tale concetto della giustizia, posto che quest’ultimo esige – una volta abbandonato il criterio del taglione – un’unità di misura omogenea (la durata della permanenza in carcere) attraverso la quale costruire la corrispettività tra reato e pena.
- il rapporto tra criminologia (conoscenza del fenomeno criminale con riguardo ai contesti
di manifestazione dei singoli reati e alle caratteristiche personali degli autori), politica criminale
(intesa come strategia complessiva di contrasto della criminalità, non riferita soltanto alla previsione
di reati) e diritto penale: il rischio che il dare per scontata la caratterizzazione retributiva della
giustizia (secondo cui tutto quel che c’è da fare nei confronti dei reati è prevedere ritorsioni per il
caso della loro commissione) conduca a trascurare la conoscenza dei contesti in cui si
producono i reati (criminologia) e la progettazione di strategie complessive di contrasto del
fenomeno criminale (politica criminale) che non si riducano all’intervento penale (e a un
intervento penale che utilizzi pressoché esclusivamente la condanna a pena detentiva);
la tradizionale riduzione della politica criminale al diritto penale e a un diritto penale che, nel
momento della condanna, resta incentrato sulla inflizione di una pena detentiva (v. art. 17 c.p.,
considerato il ruolo del tutto secondario assunto dalle condanne a mera pena pecuniaria) riflette,
infatti, l’idea (retributiva) soggiacente al diritto penale tradizionale, secondo cui la pena (poena, cioè
sofferenza) dovrebbe consistere in un corrispettivo rispetto al reato (negativo per negativo, danno per
danno); impostazione, questa, che richiede una unità di misura omogenea idonea a rappresentare
attraverso la pena la gravità di ciascun reato: unità di misura che viene a concretizzarsi nella durata –
dosabile in maniera aritmetica – della detenzione inflitta (la cui persistente centralità, pertanto, non
dipende da considerazioni attinenti alla sua efficienza preventiva, posto che da questo punto di vista
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si rivela addirittura controproducente, ma dal modello di giustizia retributiva che le fa da sfondo);
se ne deduce il fatto che la pena non è intesa, nel momento della condanna, come un progetto,
significativo per il suo destinatario e per il suo rapporto con la persona offesa e con la società, ma,
per l’appunto, come un corrispettivo essenzialmente riferito alla gravità del reato (v. infra il
commento all’art. 133 c.p.): così che solo dopo la sua inflizione si vorrebbe piegare la condanna (v.
infra) ad assumere effetti rieducativi, come richiede l’art. 27, comma 3, Cost.; del resto, il giudice che
condanna non applica la pena sulla base di una conoscenza della personalità dell’imputato, stante la
preclusione di perizie sulla medesima ai sensi dell’art. 220, comma 2, c.p.p. (la portata garantistica
di tale norma, rivolta a evitare che il giudice possa rimanere influenzato da simili perizie nella
valutazione dei fatti e delle responsabilità, potrebbe pur sempre rimanere salvaguardata ove le perizie
di cui s’è detto fossero ammesse solo dopo le conclusioni sulla colpevolezza e, dunque, ai soli fini
della determinazione della pena, secondo prospettiva del c.d. processo bifasico);
- gli effetti di questa situazione sulla tradizionale marginalità sia degli studi criminologici
sulle forme di manifestazione dei reati, sia della progettazione politico-criminale: come se si
desse per scontato che la risposta ai reati consista semplicemente nel prevedere dei corrispettivi
sanzionatòri, così che, ai fini giuridici, quegli studi e quella progettazione risulterebbero
sostanzialmente inutili;
il che continua a comportare, soprattutto, una forte disattenzione nei confronti della prevenzione
primaria, attinente al contrasto dei fattori (personali, economici, culturali, ecc.) che favoriscono la
criminalità ed attuata attraverso interventi che dunque, si collocano in una fase antecedente rispetto
all’adozione di condotte penalmente rilevanti);
- la carenza di una seria progettazione politico-criminale è peraltro favorita, altresì, dalla caduta
di ruolo, cui si assiste da anni non solo in Italia, del potere legislativo rispetto a quello esecutivo
e a quello giudiziario; il sostanziale controllo dei governi sui parlamenti e sulla stessa
elaborazione legislativa riduce, infatti, gli spazi di una progettazione politico-criminale di ampio
respiro e di lungo periodo, quale dovrebbe essere propria dell’iniziativa parlamentare, in favore di
proposte legislative legate a situazioni contingenti e proclivi a perseguire il consenso dell’opinione
pubblica (attraverso letture semplificate del fenomeno criminale da parte del mass-media) per
fini elettorali (il c.d. populismo penale): con ciò trovando incentivo, per esempio, il continuo
aumento delle pene edittali (soprattutto nei minimi, non gestibili dal giudice, così da precludere
l’applicabilità della sospensione condizionale, dell’affidamento in prova al servizio sociale o della
detenzione domiciliare), come pure il ricorso ai reati colposi di evento, l’esclusione del
giudizio di prevalenza ed equivalenza fra circostanze aggravanti e attenuanti o le restrizioni
nell’accesso ai c.d. benefici penitenziari;
- ne deriva, inoltre, il dilatarsi dei casi in cui la descrizione delle condotte penalmente
significative resta alquanto generica o ricorre a concetti-valvola che, di fatto, consegnano la
definizione dei confini di ciò che sia da ritenersi rilevante dal punto di vista penale alla
giurisprudenza; ma anche il dilatarsi dei casi in cui la giurisprudenza tende ad assumere un ruolo
di supplenza rispetto al legislatore, attraverso letture delle norme penali che sembrano
oltrepassare i confini dell’interpretazione, per collocarsi nell’ambito del ricorso all’analogia in
malam partem. Con una palese tensione tra il c.d. diritto vivente giurisprudenziale, da un lato, e i
principi di determinatezza delle fattispecie penali e di riserva di legge (v. infra), dall’altro;
- critica della nozione di giustizia (retributiva) fondata sul concetto di corrispettività, vale a dire
intesa come reciprocità dei comportamenti (come «bilancia»);
il rischio che il suddetto modello della giustizia fornisca un alibi all’agire negativo nei confronti
di chi sia giudicato negativamente (sia esso o meno colpevole);
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l’incidenza della medesima nozione di giustizia sul piano storico (per esempio, con riguardo alla
giustificazione della guerra) e nei rapporti sociali: esemplificazioni;
il rischio di un’interpretazione (fallimentare) della vita come continua eliminazione dal nostro
orizzonte delle realtà che giudichiamo negative in quanto ci pongono problemi;
l’alternativa costituita da una giustizia consistente nel rispondere con progetti positivi dinnanzi alle
realtà negative (o alle situazioni personali problematiche);
- la centralità che mantiene nel sistema penale, come già si accennava, la condanna alla
pena detentiva (art. 17 c.p.), come espressione di un concetto di giustizia tuttora incentrato
sull’idea di corrispettività (retribuzione);
- l’immagine alternativa della giustizia che emerge dagli artt. 2 e 3 della Costituzione, come
agire in modo corrispondente alla dignità umana (al fine di «rimuovere gli ostacoli» che
«impediscono il pieno sviluppo della persona umana»: art. 3, secondo comma): la «dignità sociale»
di ciascuno, e dunque l’atteggiamento richiesto verso ciascun altro, non viene fatto dipendere, infatti,
dal giudizio sulle altrui «condizioni personali e sociali», ma dalla stessa esistenza in vita di ogni essere
umano (art. 3, primo comma) co. 1, quale fondamento del principio di uguaglianza ex art. 3 Cost.);
l’adempimento, conseguente, dei doveri come presupposto per la sussistenza dei diritti;
- i riflessi controproducenti di una visione retributiva della giustizia con riguardo alla
prevenzione dei reati:
a) l’indifferenza – già menzionata – della visione retributiva rispetto al ruolo centrale che
dovrebbe avere l’intervento sui fattori che favoriscono la criminalità, cioè l’intervento
precedente la commissione dei reati (prevenzione primaria);
i due livelli della prevenzione primaria:
- il livello educativo-culturale (attinente al radicamento, nel contesto sociale, dei valori che
si pongono in antitesi all’agire criminoso, coinvolgendo il ruolo delle famiglie e della scuola,
come altresì, per esempio, l’impegno nel volontariato, la partecipazione virtuosa alla vita politica,
l’espletamento in modo corretto e appassionato dei propri impegni di lavoro, e così via), ma anche
politico-sociale, attinente alla serietà e all’efficienza della presenza delle pubbliche istituzioni sul
territorio;
- il livello relativo alle norme giuridiche specificamente orientate a ostacolare l’operatività
dei menzionati fattori criminogenetici: norme che coinvolgono settori dell’ordinamento giuridico
diversi da quello penale (per esempio, relative al diritto dei mercati finanziari, al diritto tributario,
all’organizzazione dei servizi sociali, e così via;
i motivi delle resistenze constatabili rispetto a un’attuazione efficace della prevenzione primaria,
posto che essa incide su egoismi e interessi diffusi (si pensi all’eliminazione dei paradisi bancari per
ostacolare i traffici della criminalità organizzata, alla tracciabilità dei pagamenti, al ruolo
dell’infedeltà fiscale e della disponibilità di fondi neri, a una buona legge sugli appalti per arginare la
corruzione, all’importanza dei compiti assolti dai servizi sociali, ecc.);
in questo modo, il ricorso al diritto penale tradizionale – che colpisce a posteriori, e solo
sporadicamente (data l’incidenza della c.d. cifra oscura) la tenuta di condotte illecite o la causazione
di eventi offensivi – ha sovente fatto da alibi per la mancata attivazione di interventi idonei a
contrastare gli spazi di praticabilità in concreto delle condotte illecite;
b) la contemporanea disattenzione connessa al modello retributivo del punire (incentrato
sull’inflizione di un corrispettivo inteso come sofferenza) circa il contrasto degli interessi materiali
soggiacenti al reato e, segnatamente, dei profitti conseguiti in modo criminoso (esemplificazione
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con riguardo alla confisca dei profitti derivanti da reato, facoltativa ai sensi dell’art. 240 c.p. e
resa obbligatoria solo negli ultimi decenni in determinati ambiti del contrasto della criminalità
organizzata);
c) il nesso tra visione retributiva della giustizia e il modello «negativo» della prevenzione
generale e speciale, che fonda la prevenzione generale sull’intimidazione (o deterrenza) e la
prevenzione speciale sulla neutralizzazione e sull’intimidazione (quali fattori di natura coercitiva); (si
rammenti che la prevenzione generale consiste nel dissuadere la generalità della popolazione
dall’intento di commettere reati e la prevenzione speciale nell’evitare che chi abbia commesso reati
torni a commetterne).
le ragioni dell’inadeguatezza di tale modello:
l’intimidazione, non presupponendo alcuna interiorizzazione del rispetto delle norme, può funzionare
– come può accadere per esempio nel rapporto tra un genitore e un figlio – solo ove sussista un totale
dominio/controllo sui suoi destinatari: ma se tale controllo totale sussistesse, paradossalmente non vi
sarebbe bisogno di pene esemplari (come insegna lo Beccaria), perché già opererebbe in senso
generalpreventivo l’alta probabilità di essere scoperti; in ogni caso, tale possibilità di controllo totale
negli Stati democratici non è possibile e il rischio è che proprio lo Stato più debole, cioè quello che
ha scarse capacità di intercettare le attività criminose, usi la pena esemplare, ordinariamente nei
confronti dei trasgressori più deboli, per nascondere tale debolezza e riaffermare la sua presenza;
la neutralizzazione apparentemente parrebbe funzionare, mettendo l’agente di reato nella condizione
fisica di non poter nuocere: ma il problema è che se ci si limita a politiche di neutralizzazione, i posti
di lavoro criminale lasciati liberi dai soggetti neutralizzati saranno coperti da altri soggetti; la
criminalità va studiata anche secondo categorie economiche; finché ci sono opportunità appetibili di
trarre beneficio da attività criminose (non adeguatamente contrastate attraverso la prevenzione
primaria), queste verranno percorse e vi sarà chi tenterà di sfruttarle, posto che la domanda di accesso
ad attività criminose lucrative rischia di essere superiore all’offerta: almeno nella misura in cui non
operino nella società forti controspinte culturali nei confronti dei modelli comportamentali criminosi.
23.2
- la prevenzione generale e speciale intese in senso «positivo», orientate a tenere elevati i livelli
di consenso, cioè di adesione per scelta, al rispetto delle norme, e, dunque, a tenere elevata
l’autorevolezza del messaggio correlato ai precetti penali;
la prevenzione, dunque, dipende soprattutto dalla capacità dell’ordinamento giuridico di ottenere dai
cittadini un’adesione alle sue norme per scelta, e non per timore: in altre parole, non si fonda tanto su
fattori di coazione esterna, fondati sulla forza, bensì, soprattutto, sul consenso;
la contraddittorietà generalpreventiva della pena di morte secondo la riflessione di Cesare Beccaria
(l’inadeguatezza a fungere da criterio orientativo dei comportamenti in sede sociale di una pena
costruita nei suoi contenuti sul modello del reato);
in particolare, la prevenzione speciale positiva in quanto orientata al recupero – secondo la
terminologia dell’art. 27, co. 3, Cost. alla rieducazione – del condannato, cioè a far sì che la rinuncia
a delinquere per il futuro da parte dell’agente di reato dipenda da una scelta personale;
l’incidenza generalpreventiva di un’avvenuta rieducazione, in quanto fattore di riaffermazione/
ri-consolidamento dell’autorevolezza di una norma violata, che deriva, per l’appunto, da un avvenuto
recupero dell’agente di reato ai sensi dell’art. 27, co. 3, Cost.;
ciò anche in rapporto alla c.t. teoria delle associazioni differenziali in E. Sutherland: se è vero che
si tende ad agire secondo quanto è approvato nel gruppo in cui si cerca riconoscimento, il fatto che
membri di un gruppo pongano in discussione scelte di tipo criminoso può divenire «modello» per altri
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membri;
- il problema della possibilità di realizzare il consenso su alcuni criteri comportamentali di fondo
(ai fini della prevenzione primaria nel suo primo livello e della prevenzione generale positiva)
nelle società democratiche, pluralistiche e multiculturali;
l’esperienza morale come esperienza tipica e generalizzata degli esseri umani (essa consiste nella
consapevolezza del fatto non ci sono solo questioni rispetto alle quali si tratta di decidere, ma anche
questioni – quelle che di solito riferiamo agli interrogativi sul bene e sul giusto – rispetto alle quali si
tratta di comprendere);
il significato delle dichiarazioni dei diritti umani e dei principi costituzionali;
- le cinque critiche logico-razionali nei confronti dell’idea retributiva della giustizia:
1) la non quantificabilità della colpevolezza interiore (possiamo conoscere empiricamente soltanto
i fattori che incidono sull’uso della libertà, non l’uso stesso di quest’ultima);
2) il diritto penale non esaurisce il male presente nella società e, pertanto, non definisce il confine
tra bene e male (l’attribuzione di responsabilità penale non può servire a far sì che la società si
avverta come comunità dei “giusti”, col rischio di utilizzare il condannato come capro espiatorio del
male in essa presente)
3) la visione retributiva trascura il problema della corresponsabilità sociale rispetto ai fattori
che favoriscono la criminalità e, pertanto, il ruolo della prevenzione primaria (solo una società che
non si sente la società dei “giusti” – seconda critica – sarà disponibile ad assumere i sacrifici
necessari – terza critica – per fare prevenzione primaria);
1.3 (segue)
4) l’inadeguatezza della pena a «cancellare» la realtà del reato e l’improponibilità della
visione (idealistica) hegeliana della pena retributiva come negazione della negazione della legge;
5) l’inesistenza in natura di una pena corrispondente al reato, da considerarsi giusta in sé:
significativamente Hegel segnala la dipendenza materiale della pena retributiva da ciò che richiede la
società in una data epoca storica nei confronti del reato commesso: Hegel, infatti, considera
l’eguaglianza retributiva come meramente ideale (o «di valore»);
ne deriva l’insostenibilità della visione tradizionale secondo cui la pena retributiva, in quanto pena
(ritenuta) giusta, sarebbe in grado di fungere da argine al perseguimento delle finalità preventive (la
garanzia dell’individuo nei confronti della potestà punitiva statuale dipende, piuttosto, dall’opzione
per una prevenzione reintegratrice, piuttosto che intimidativa e neutralizzativa);
il problema per cui frequentemente s’è definita in dottrina come prevenzione generale positiva non
già, come s’è illustrato, la prevenzione orientata al consenso, bensì quanto viene proposto dalle
concezioni neo-retributive: il fatto, cioè, per cui la pena dovrebbe soddisfare quel bisogno emotivo
di reazione nei confronti dell’agente di reato che insorgerebbe nei cittadini per continuare a rendere
tabù nella loro psiche il rispetto delle norme trasgredite e, dunque, per reprimere l’impulso a emulare
le condotte criminose; si tratta di un’illustrazione della classica teoria retributiva utilizzando, in modo
discutibile, terminologie di tipo psicoanalitico; ma, a ben vedere, si tratta di quanto Hegel stesso finiva
per riconoscere, secondo quanto s’è visto nella quinta critica: la pena retributiva finisce per rendersi
espressione di supposti bisogni emotivi di reazione al reato riscontrabili nella società in una data
epoca storica;
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allo scopo di evitare questa confusione terminologica si potrebbe descrivere la prevenzione generale
orientata al consenso, secondo la prospettiva sopra illustrata, anche come prevenzione generale
reintegratrice;
- l’equivoco insito nel pensiero retributivo di Kant (e di Hegel): validità delle premesse: critica
della visione utilitaristica della prevenzione generale e speciale negativa, in quanto orientate a
utilizzare il condannato per fini di intimidazione (esemplarità) e di difesa sociale
(neutralizzazione); inaccettabilità, tuttavia, delle conclusioni di natura retributiva: Kant deriva dalle
sue premesse che si dovrebbe infliggere una pena giusta in quanto non motivata da finalità
strumentali di natura preventiva e ravvisa simile pena, addirittura, nel taglione; non avvertendo che
proprio il concepire la pena come corrispettivo comporta, come s’è visto, un orientamento
intimidativo (e neutralizzativo) della prevenzione; ma altresì non avvertendo che non esiste,
come si evince dalla quinta critica, alcuna pena giusta in sé;
la contraddittorietà, in ogni caso, del concepire, da parte di Kant, l’essere umano come «fine» e
dell’accogliere il taglione come criterio della pena giusta in sé;
si noti che le conclusioni di Kant, forse, sarebbero state diverse ove avesse potuto considerare,
all’epoca in cui scrisse, un’impostazione a sua volta diversa, cioè (come s’è descritto) di natura
positiva, della prevenzione generale e speciale;
- l’incidenza complessa del pensiero della Scuola Positiva, tra ottocento e novecento, quale
corrente antagonista alle impostazioni retributive la quale tuttavia, per la sua visione dell’uomo e
per i suoi effetti, non può risultare accettabile;
la visione deterministica del positivismo e la negazione dell’autonomia personale (dunque, della
libertà del volere);
la negazione del concetto di colpevolezza in favore del concetto di pericolosità;
la sostituzione della pena con la misura di sicurezza, secondo il principio «rieducare i rieducabili e
neutralizzare i non rieducabili» (sulla base di un concetto meccanicistico di rieducazione, che riduce
il condannato a oggetto dell’intervento statuale e che sfocia facilmente nella neutralizzazione);
l’utilizzazione delle idee positivistiche da parte dei regimi totalitari;
in particolare, l’approccio di Cesare Lombroso; la riconoscibilità al positivismo di aver comunque evidenziato l’incidenza di fattori criminogenetici
e l’obiettivo della rieducazione intesa in senso sociale (e non come mera emenda interiore);
le resistenze culturali (anche in Assemblea Costituente) all’accoglimento dell’idea rieducativa,
proprio per il timore dell’apertura al pensiero positivistico e alle ideologie dei paesi totalitari;
- la differenza strutturale tra la prevenzione speciale positiva come sopra illustrata, che valorizza e
non nega l’autonomia (la libertà) individuale, e la concezione rieducativa del positivismo;
potremmo riassumere il ruolo del riferimento alla libertà del volere (all’autonomia della persona) in
ambito penalistico nel modo seguente:
come libertà riferita al passato per giustificare la pena, nella visione retributiva; come libertà negata
nel positivismo;
come libertà riferita al futuro, da riconquistare attraverso nuove scelte personali, nella prevenzione
speciale positiva;
- profili storici dell’approccio al ruolo della pena e del carcere nel secondo dopoguerra:
- i limiti di un sistema che si è limitato a ipotizzare una trasformazione in senso rieducativo
del carcere, mantenendone la centralità senza mettere in discussione il modello retributivo della
giustizia con riguardo alla condanna;
- il ruolo dell’ordinamento penitenziario italiano del 1975 (v. infra), che introduce, fra
l’altro, l’idea di una pur contenuta modificabilità della pena, nella durata e nei modi, durante la fase
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esecutiva;
- il neoconservatorismo penale degli anni ’70-’90, con il connesso revival di
impostazioni retributive e orientate alla deterrenza;
- i segni recenti di apertura alla messa in discussione della modalità tradizionale del
condannare, nel solco di una risposta al reato intesa come «progetto» (o «percorso»), secondo la
prospettiva della giustizia riparativa (restorative justice);
2.3
- completiamo la riflessione sulla giustizia, evidenziando il rapporto fra concezioni della pena
e riferimenti di carattere teologico:
la visione retributiva della giustizia, infatti, ha cercato supporto, oltre che (come s’è visto) nel pensiero
di alcuni importanti filosofi, anche attraverso l’utilizzazione di supposti modelli religiosi: il che
costituisce un equivoco da chiarire:
la lettura corretta, nel contesto storico-culturale, delle pagine veterotestamentarie di natura legislativa
o nelle quali emergono concetti di violenza;
la giustizia divina da intendersi, al contrario, nella Bibbia come giustizia salvifica (tzedaka): sia
nell’Antico Testamento (esemplificazioni: i racconti di Adamo e di Caino),
sia nel Nuovo Testamento: la giustizia che si esprime in Gesù come spendita dell’amore dinnanzi al
male, la quale si rivela salvifica nella risurrezione; ciò che salva secondo il cristianesimo – vale a dire,
ciò che apre alla pienezza della vita, nonostante la morte – non è la croce in quanto sofferenza pagata
da Gesù a compensazione dei peccati (se fosse così, ben poco cambierebbe rispetto alla logica tutta
umana della giustizia retributiva, per cui il male dev’essere compensato da un altro male), ma è,
semmai, l’amore portato fino alla croce;
l’inutilizzabilità a fini retributivi del riferimento all’inferno, in quanto nozione che indica non una
pena, ma il fallimento (la separazione da Dio) connessa a una chiusura radicale nei confronti della
logica dell’amore, nonostante la disponibilità divina all’accoglienza e al perdono;
illustrazione dei due testi di lettura proposti, a scelta, con riguardo a questa materia: E. Wiesnet,
Pena e retribuzione. La riconciliazione tradita, Giuffré; L. Eusebi, La Chiesa e il problema della
pena. Sulla risposta al negativo come sfida giuridica e teologica, La Scuola.
si noti il parallelismo che può individuarsi tra la prospettazione biblica di una nozione salvifica della
giustizia non ispirata al modello del corrispettivo e l’immagine della giustizia desumibile dagli artt. 2
e 3 (v. supra) della Costituzione;
- nel solco già richiamato della giustizia riparativa, e anche sulla base di una rivisitazione circa
il rapporto del diritto penale col pensiero filosofico e teologico, con gli apporti degli studi
criminologici nonché con i principi costituzionali e ricompresi nelle dichiarazioni internazionali
dei diritti umani, può dunque constatarsi l’esigenza del passaggio da una visione della risposta al
reato intesa come corrispettivo (negativo per negativo) a una risposta al reato intesa come
progetto (come tale significativo anche per il destinatario dei provvedimenti penali e per il suo
rapporto con la società e con la vittima); ovvero come una facere, piuttosto che come un mero pati;
si noti, in particolare, che solo nell’ambito di un progetto la sanzione penale può prevedere un
impegno in favore della vittima (v. anche infra) e che, del pari, solo nell’ambito di un progetto
l’ordinamento giuridico può cercare di rimediare alle deprivazioni sociali che di fatto risultano aver
caratterizzato la vita di molti autori di reato;
il nostro sistema sanzionatorio penale, tuttavia, si configura, per così dire, come un sistema a
clessidra: tutti i reati confluiscono nella condanna a una pena detentiva (e/o pecuniaria), salva la
possibilità, solo dopo la condanna, di non applicare in tutto o in parte la condanna stessa nella forma
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detentiva (v. infra), promuovendo almeno in parte, attraverso l’ordinamento penitenziario, percorsi
di reintegrazione sociale;
sebbene, pertanto, l’art. 27, co. 3, Cost. esiga che le pene, sia nella loro definizione legislativa,
sia nella loro applicazione giudiziaria, debbano rispondere all’orientamento rieducativo, la pena
inflitta dal giudice al termine di un processo rimane di fatto concepita quale corrispettivo aritmetico
rispetto al reato commesso (salvo solo il rilievo attribuito a condotte post delictum ritenute
significative); rimane di conseguenza il fatto che la pena, in quel momento, non si configura
come un progetto significativo nel senso cui poco sopra s’è fatto riferimento;
le stesse condizioni personali dell’imputato rilevano solo se queste ultime siano tali da consentire
l’esclusione dell’imputabilità (o l’attenuante per seminfermità): ove ciò non avvenga, la persona del
condannato, in sostanza, non conta al momento della condanna, stante del resto l’art. 220, co. 2, c.p.p.
(v. infra): né ciò è smentito come subito si vedrà, nonostante le apparenze, dall’art. 133, co. 2, c.p.;
vi è dunque la necessità di introdurre nuove forme sanzionatorie che aprano alla dimensione
progettuale/riparativa già nel momento della condanna o anche attraverso strumenti di definizione
anticipata del processo (v. infra), superando la prospettiva di una risposta al reato costruita (quasi)
sempre, in sede di condanna, sulla detenzione;
8.3
- la determinazione della pena in sede di condanna ai sensi degli artt. 132 (che affida al giudice
una discrezionalità con obbligo di motivazione) e 133 c.p.;
i due parametri indicati dall’art. 133 c.p. circa la determinazione giudiziaria della pena: la
nozione di gravità del reato (co. 1) e l’ambiguità della nozione di capacità a delinquere (co. 2); il
«compromesso», in tal senso, fra utilizzo di elementi della «Scuola classica» e utilizzo di elementi
della «Scuola positiva»;
quattro profili critici riferibili all’art. 133 c.p., e in particolare al concetto di capacità a
delinquere:
a) indica gli indici da tenere in considerazione, ma non dice in che modo (cioè secondo
quali finalità);
b) non offre strumenti per acquisire dati riguardanti la personalità dell’imputato, come
invece richiederebbe, per molti dei suoi aspetti, il concetto di capacità a delinquere: l’art. 220, co.
2, c.p.p., infatti, non consente perizie sul carattere e sulla personalità dell’imputato nonché, in
genere, sulle qualità psichiche indipendenti da cause patologiche; da cui l’irrilevanza sostanziale
della personalità nel momento di inflizione della pena, salvo che ai fini di un’esclusione
dell’imputabilità (si noti che l’art. 220, co. 2, ha una motivazione garantistica, in quando
intende evitare che il giudice possa rimanere influenzato da simili perizie nella valutazione dei fatti
e delle responsabilità: tale sua finalità, tuttavia, potrebbe pur sempre rimanere salvaguardata ove le
perizie di cui s’è detto fossero ammesse solo dopo le conclusioni sulla colpevolezza e, dunque, ai
soli fini della determinazione della pena, secondo prospettiva del c.d. processo bifasico);
c) di quei dati, comunque, il giudice potrebbe tener conto solo dal punto di vista aritmetico, e
non secondo una logica progettuale (dal che la terminologia invalsa di «commisurazione» della
pena): avrebbe senso, in altre parole, tener conto della personalità e del contesto di vita
dell’imputato se il giudice avesse uno spazio di costruzione della risposta sanzionatoria che investa
i suoi contenuti;
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d) il concetto di «capacità a delinquere» rischia, infine, di permettere aumenti di pena
all’interno dello spazio edittale in forza di fattori (della personalità, del carattere o dell’ambiente
di vita del soggetto agente) estranei al fatto colpevole: rischia, cioè, di aprire a logiche
incostituzionali di c.d. colpa d’autore;
ne deriva che il giudice, per valutare la colpevolezza ai fini della determinazione della pena, può
utilizzare solo fattori personali o contestuali che abbiano inciso sul fatto commesso e siano pertinenti
rispetto alla responsabilità del soggetto agente nei confronti di quel fatto (si parla in tal senso di
colpevolezza «del fatto»);
potrebbe ammettersi, invece, l’utilizzo di fattori estranei al fatto (per esempio concernenti la salute)
in senso favorevole all’imputato, nella misura in cui ciò non rappresenti una discriminazione, ma
risponda a esigenze di garanzia del principio di uguaglianza inteso in senso sostanziale;
in questo senso, il concetto di capacità a delinquere ai fini della determinazione della pena va inteso
come riferito alla capacità a delinquere che può ritenersi espressa nel fatto di reato, e non come
capacità a delinquere intesa come previsione sulla capacità futura di commettere nuovi reati in base
alle caratteristiche personali del condannato (cioè come pericolosità);
l’intera problematica evidenzia, pertanto, gli intenti repressivi che erano propri del codice Rocco:
volti a permettere l’utilizzo da parte del giudice (anche) di valutazioni – svincolate dal fatto – inerenti
alla personalità del condannato, onde appesantire l’intervento sanzionatorio (al che si aggiungeva
l’applicabilità ulteriore (obbligatoria per i reati non lievi) di una misura di sicurezza da eseguirsi dopo
la pena);
si tratta di intenti repressivi che trovano conferma come subito vedremo, sempre attraverso il
«compromesso» tra Scuola classica e Scuola positiva, nel sistema del c.d. doppio binario, che
consente di aggiungere alla pena, per il soggetto imputabile ritenuto pericoloso, una misura di
sicurezza (sebbene tale possibilità, come subito diremo, sia oggi utilizzata molto raramente);
resta tuttavia un dato molto importante desumibile dall’art. 133 c.p.: tale norma ha riguardo, oltre che
alla gravità del fatto, soltanto a fattori soggettivamente orientati, concernenti, cioè, la persona del
soggetto giudicato colpevole, mentre non vengono in alcun modo contemplate valutazioni del giudice
riferite alla deterrenza, alla sicurezza sociale o al soddisfacimento di aspettative sanzionatorie, quale
ne sia la provenienza; ciò significa che devono rimanere rigorosamente escluse valutazioni da
parte del giudice, con riguardo alla pena da applicarsi nel caso concreto, che risultino di carattere
generalpreventivo (tali valutazioni, infatti, competono soltanto al legislatore nel momento in cui
definisce le pene edittali, e pur sempre secondo la prospettiva costituzionale di una prevenzione
generale reintegratrice);
- la determinazione, in sede di condanna, della pena pecuniaria, in rapporto ai problemi che essa
comporta rispetto al principio di uguaglianza ove sia applicata, come nell’ordinamento italiano,
secondo un’entità assoluta; la mitigazione molto parziale del problema attraverso le previsioni degli
artt. 133-bis e -ter c.p.;
- il ruolo delle pene accessorie e la relativa elencazione (art. 19 c.p.), che possono essere
applicate solo in aggiunta a una pena principale (art. 20 c.p.)
- le misure di sicurezza:
i presupposti per la loro applicabilità (le mds personali, detentive o non detentive, sono indicate all’art.
215 c.p.): commissione di un reato e pericolosità sociale del soggetto agente (artt. 202 e 203 c.p.),
secondo la prospettiva, propria del positivismo, di una misura tesa a rieducare e, fino a quando non
10
sia venuta meno la pericolosità, a neutralizzare autori di reato ritenutipericolosi;
si consideri l’ultimo comma dell’art. 215 c.p.: «quando la legge stabilisce una misura di sicurezza
senza indicarne la specie, il giudice dispone che si applichi la libertà vigilata, a meno che, trattandosi
di un condannato per delitto, ritenga di disporre l’assegnazione di lui a una colonia agricola o ad una
casa di lavoro»;
il carattere indeterminato della durata delle misure di sicurezza, secondo la prospettiva propria
del positivismo, fino al venir meno della pericolosità (artt. 207 e 208 c.p.):
l’art. 1, comma 1-quater, del d.l. n. 52/2014, conv. in l. n. 81/2014, ha tuttavia previsto che «le misure
di sicurezza detentive non possono durare oltre il tempo stabilito per la pena detentiva prevista
per il reato commesso, avuto riguardo alla previsione edittale massima», secondo i criteri di cui
all’art. 278 c.p.p.;
- l’ambito applicativo delle misure di sicurezza:
a) la possibilità, secondo il codice del 1930, che la sentenza di condanna disponga, nei
confronti di soggetti imputabili, l’applicazione di una misura di sicurezza dopo l’esecuzione
della pena detentiva: o sulla base del giudizio di pericolosità operato dal giudice, o nei casi di
pericolosità presunta ai sensi dell’art. 204 c.p.;
l’avvenuta abrogazione dell’art. 204 c.p. e l’estrema rarità attuale del fatto che un giudice usi del suo
potere discrezionale per dichiarare la pericolosità di un condannato, disponendo l’esecuzione nei suoi
confronti, dopo la pena, di una misura di sicurezza (stante l’insostenibilità, in base all’art. 27, co. 3,
Cost, di una funzione retributiva della pena e rieducativa della sola misura di sicurezza; e stante,
altresì, l’esigenza di evitare che l’intervento sanzionatorio configuri un bis in idem sostanziale;
b) l’applicabilità della misura di sicurezza nei confronti dell’autore di reato non imputabile
(v. infra), cioè non capace di intendere e di volere ai sensi dell’art. 85 c.p. (e pertanto non
punibile), che sia ritenuto dal giudice socialmente pericoloso: il che costituisce l’ambito operativo
reale, oggi, delle misure di sicurezza;
c) l’applicabilità eccezionale, ex art. 202, co. 2, c.p., della misura di sicurezza nei
confronti di soggetti imputabili non autori di reato: artt. 49, co. 4, e 115, co. 2 e 4, c.p.
- le misure di sicurezza detentive per gli adulti non imputabilii:
in particolare, l’art. 222 c.p. prevede[va] nei confronti dell’autore di delitto doloso punibile con pena
detentiva non inferiore a due anni, ove prosciolto per infermità psichica, l’ospedale psichiatrico
giudiziario: l’art. 3-ter, co. 4, d.l. 211/2011, come in seguito ripetutamente modificato, ha peraltro
stabilito che «dal 31 marzo 2015 gli ospedali psichiatrici giudiziari sono chiusi e le misure di
sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario e dell'assegnazione a casa di cura e custodia
sono eseguite esclusivamente all'interno delle strutture sanitarie di cui al comma 2 [le c.d. R.E.M.S.,
Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza], fermo restando che le persone che hanno
cessato di essere socialmente pericolose devono essere senza indugio dimesse e prese in carico, sul
territorio, dai Dipartimenti di salute mentale».
l’art. 3-ter, comma 4, del d.l. n. 211/2011, prevede peraltro, in conformità a Corte cost. n. 223/ 2003,
che il giudice può disporre il ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario (o in una casa di cura e
custodia per i semimputabili ex artt. 221 e 89 c.p.) – ora R.E.M.S. – solo quando «siano acquisiti
elementi dai quali risulta che ogni misura diversa non è idonea ad assicurare cure adeguate e a
fare fronte alla pericolosità sociale»;
- la disciplina e l’ambito applicativo della libertà vigilata (artt. 228-230 c.p.);
11
- le misure di sicurezza detentive per i minorenni (art. 36 d.P.R. 448/1988, in rapporto agli
artt. 223 e 228 c.p.): applicabilità delle prescrizioni comportamentali e della permanenza in
casa in luogo della libertà vigilata, e del collocamento in comunità in luogo del riformatorio
giudiziario (cioè di tre dei quattro provvedimenti che fingono anche da misure cautelari, ex artt. 19
ss. d.P.R. 448/1988);
9.3
torniamo dunque alla pena, e al momento della condanna:
- il mancato superamento della centralità che assume la pena detentiva, non essendosi addivenuti
a una diversificazione della gamma, limitatissima, delle pene principali; il momento della condanna,
come s’è visto, resta infatti incentrato sulla pena detentiva (essendo marginale l’applicazione di una
pena pecuniaria non congiunta a quella detentiva);
- la possibile diversificazione successiva – secondo il già menzionato un modello “a clessidra” –
della pena detentiva inflitta:
sia attraverso istituti che ne escludono l’esecuzione detentiva,
sia attraverso istituti che diversificano in certa misura l’esecuzione della medesima (v. infra);
la stessa esigenza di ridurre il sovraffollamento penitenziario imposta all’Italia dalla Corte europea
dei diritti dell’uomo (sentenza Torreggiani, dell’8 gennaio 2013) è stata perseguita agendo
essenzialmente sull’ambito applicativo delle misure alternative (v. infra) e sulla restrizione delle
condizioni di applicabilità della custodia cautelare, piuttosto che attraverso la via più naturale
costituita dall’introduzione di pene principali non detentive;
- gli strumenti attraverso i quali lo stesso giudice che condanna può evitare l’esecuzione della
pena detentiva inflitta:
a) la sospensione condizionale (artt. 163-168 c.p.): presupposti, criteri applicativi, effetti,
revoca; il maggior ambito applicativo dell’istituto (condanna detentiva fino a tre anni, invece che
fino a due, per l’autore di reato minorenne);
l’applicabilità della sospensione condizionale anche alle pene accessorie (v. supra);
il ragguaglio fra pena detentiva e pecuniaria ai sensi dell’art. 135 c.p. (250 euro corrispondono a
un giorno di pena detentiva) e la possibilità di sospendere la (sola) pena detentiva entro il limite di
durata previsto anche quando quel limite sarebbe superato a seguito del ragguaglio con la pena
pecuniaria aggiuntiva (art. 163, ultima parte dei commi 1, 2 e 3);
il regime particolarmente favorevole (sospensione per un solo anno) nel caso di condanna a pena non
superiore a un anno e avvenuta riparazione del danno (art. 163, co. 4, c.p.);
b) le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi, (artt. 53-58 l. n. 689/1981, legge che
ha previsto, fra l’altro, un ampio provvedimento di depenalizzazione – cioè di trasformazione di
illeciti penali in illeciti amministrativi – e che comprende, inoltre, le norme riguardanti gli illeciti
amministrativi e le relative sanzioni): presupposti, criteri applicativi, revoca;
c) il perdono giudiziale relativo ai soli condannati minorenni (art. 169 c.p., come
riformulato quanto al primo comma dall’art. 19 r.d. n. 1404/1934, istitutivo del Tribunale per i
minorenni); si consideri che l’art. 97 c.p. fissa la soglia di imputabilità del minorenne a
quattordici anni e che l’art. 98, co. 1, c.p. e prevede l’applicazione in favore del medesimo di una
attenuante obbligatoria;
12
- gli strumenti che permettono di non eseguire in forma detentiva la pena inflitta nella sentenza
di condanna attraverso la decisione del Tribunale di sorveglianza in merito all’applicabilità, fin
dall’inizio della fase esecutiva, delle misure alternative (v. infra) dell’affidamento in prova al
servizio sociale e della detenzione domiciliare (presupposta la sospensione dell’esecuzione prevista
dall’art. 656. co. 5, c.p.p.), oppure per residui di pena che rientrino dei limiti di applicabilità a esse
relativi:
a) l’affidamento in prova al servizio sociale (art. 47 ord. penit.): presupposti e disciplina
(si consideri l’estensione dell’applicabilità dell’affidamento in prova per pene detentive, o residui
di pena, (da tre) fino a quattro anni, di cui al comma 3-bis dell’art. 47 ord. penit., aggiunto
dall’art. 3 d.l. n. 146/2013, conv. in l. n. 10/2014;
si noti che solo nel momento in cui la risposta al reato assume contenuti progettuali attraverso un
programma prescrittivo, come accade nell’affidamento in prova nonché – vedi infra – attraverso la
messa alla prova e le procedure di mediazione penale, può recuperarsi una dimensione riparativa, o
anche riconciliativa, del provvedimento penale nei confronti della persona offesa (cfr. art. 47, co.
7, ord. penit.; art. 28, co. 2, d.P.R. n. 448/1988), laddove la tradizionale pena detentiva non offre alla
vittima alcunché;
b) la detenzione domiciliare (art. 47-ter e ord. penit.), concernente, di regola, la pena detentiva
fino a quattro anni, quando sussistano particolari condizioni di età, salute, genitorialità;
l’esecuzione presso il domicilio, con eccezioni, delle pene detentive (o dei residui di pena) fino a
18 mesi (art. 1
l. n. 199/2010, previsione resa permanente dall’art. 5 d.l. n. 146/2013 conv. in l. n. 10/2014); artt.
47-quater (detenzione domiciliare e AIDS) e 47-quinquies (ulteriori benefici per le condannate
madri);
c) si rammenti che sono eseguibili in regime di semilibertà anche le pene dell’arresto e della
reclusione non superiore a 6 mesi, se non il condannato non è stato ammesso all’affidamento in
prova (art. 50, co. 1, ord. penit.);
- nell’ambito del sistema vigente – tuttora carcerocentrico in sede di condanna e operante secondo
il richiamato meccanismo a clessidra – assume peraltro un ruolo fondamentale l’ordinamento
penitenziario, del quale si richiamano di seguito alcune caratteristiche fondamentali:
- i principi dell’ordinamento penitenziario (l. n. 354/1975):
a) centralità del trattamento rieducativo individualizzato, avente per fine il reinserimento sociale;
b) possibile flessibilizzazione della pena detentiva in rapporto all’evolversi del trattamento – sia
con riguardo alla durata, sia con riguardo ala modalità di esecuzione – attraverso l’applicabilità
delle misure alternative;
15.3 (segue)
c) istituzione di un servizio sociale relativo all’amministrazione della giustizia, con il compito
di seguire il trattamento in carcere e l’esecuzione delle misure alternative;
d) giurisdizionalizzazione della fase esecutiva attraverso la creazione di un nuovo settore
della magistratura, costituita dal Tribunale di sorveglianza e dal Magistrato di sorveglianza;
13
e) previsione di forme d’interazione fra carcere e società;
- le norme principali dell’ordinamento penitenziario:
il ruolo del «trattamento» individualizzato e l’obbligo relativo allo studio della personalità (in
contrapposizione al divieto di perizie sulla personalità e sul carattere durante il processo, ai sensi del
già citato art. 220, co. 2, c.p.p.);
si vedano a tal proposito, in particolare, gli artt. 1, primo e ultimo comma, e 13 ord. penit., nonché gli
artt. 27 (specie per quanto concerne il concetto di «riflessione sulle condotte poste in essere»), 28 e
29 reg. ord. penit. (d.P.R. n. 230/23000);
l’art. 1 reg. ord. penit. (d.P.R. 230/2000): i fini del trattamento, sia in rapporto ai condannati che
agli indagati o imputati che si trovino in custodia cautelare;
il rapporto fra l’obiettivo della rieducazione/risocializzazione e il presupposto costituito dalla
«modificazione delle condizioni e degli atteggiamenti personali, nonché delle relazioni familiari
e sociali che sono di ostacolo a una costruttiva partecipazione sociale» (co. 2), laddove simile
mutamento (interiore) degli atteggiamenti personali del condannato definitivo non può che costituire
una scelta autonoma da parte del medesimo, la quale può essere favorita ma non coartata (secondo
una prospettiva del tutto diversa, dunque, da quella della Scuola positiva);
- la necessaria limitazione dei fini del trattamento al mero sostegno degli «interessi umani, culturali e
professionali» (co. 1) con riguardo ai detenuti in stato di custodia cautelare, non potendo questi
ultimi essere considerati colpevoli (v. art. 27, co. 2, Cost.);
gli elementi del trattamento ai sensi dell’art. 15 ord. penit.: istruzione,lavoro, religione, attività
culturali, ricreative e sportive, contatti col mondo esterno e rapporti con la famiglia;
15.3
ulteriori norme significative dell’ordinamento penitenziario:
- art. 17 ord. penit. - partecipazione del mondo “esterno” ad attività in carcere, in base
ad autorizzazione del magistrato di sorveglianza su parere del direttore del carcere;
- art. 19 ord. penit. - istruzione;
- artt. 20 e 21 ord. penit. - lavoro e lavoro esterno: sull’importanza fondamentale del lavoro ai
fini del trattamento rieducativo e sulla inadeguatezza dell’offerta in tal senso; presupposti e limiti
circa l’ammissione al lavoro esterno;
- artt. 30 e 30-ter ord. penit. - permessi e permessi-premio: il ruolo dei permessi-premio nel
quadro del trattamento; presupposti e limiti;
- le varie forme del diritto di reclamo – in merito alla violazione di suoi diritti ai sensi dell’art. 69,
co. 6, ord. penit. – da parte del detenuto (art. 35 ord. penit.) e, in particolare, il reclamo in
sede giurisdizionale previsto dall’art. 35-bis ord. penit., introdotto con d.l. n. 146/2013, conv.
in l. n. 10/2014;
- la flessibilizzazione della pena in sede esecutiva, attraverso le misure alternative:
a) la liberazione anticipata (art. 54 ord. penit.), in quanto unica misura incidente sulla durata
della pena (si tenga conto della norma temporanea di cui all’art. 4 d.l. n. 146/2013 conv. in l. n.
10/2014 che aveva previsto, con eccezioni, l’estensione per due anni della detrazione di pena da 45 a
75 giorni per semestre: liberazione anticipata speciale);
b) le misure alternative incidenti sulla modalità di esecuzione della pena:
oltre all’affidamento in prova al servizio sociale e alla detenzione domiciliare di cui già s’è detto,
14
che sono applicabili anche in corso di esecuzione, in particolare per residui di pena inferiori a quattro
anni (e oltre al caso circoscritto di applicabilità ab initio della semilibertà), sono previste:
- la semilibertà (presupposti e regime: artt. 48 ss. ord. penit.), che di fatto presuppone per lo
più la precedente concessione di permessi premio, facenti parte del trattamento (art. 30-ter ord.
penit.), e
- la liberazione condizionale (artt. 176 ss. c.p.), ricompresa nel codice penale e qualificata
come causa di estinzione della pena, ma applicata dal Tribunale di Sorveglianza e operante, in
concreto, come una misura alternativa, sulla base del giudizio di sicuro ravvedimento; nella fase di
liberazione condizionale il condannato è sottoposto al regime della libertà vigilata (art. 230, co. 1,
n. 2, c.p.);
si considerino le condizioni di applicabilità di permessi-premio, lavoro esterno semilibertà e
liberazione condizionale nei confronti del condannato all’ergastolo (artt. 30-ter, co. 4, lett. d; 21, co.
1; 50, co. 5, ord. penit.; 176, co. 3, c.p.);
- i compiti della magistratura di sorveglianza: del magistrato di sorveglianza (competente,
fra l’altro, circa l’approvazione e le modifiche del programma di trattamento, la revoca delle
misure di sicurezza, i permessi, i reclami giurisdizionali, la liberazione anticipata: ex artt. 69 e 69-bis
ord. penit.) e del magistrato di sorveglianza (competente circa le misure alternative diverse dalla
liberazione anticipata e la liberazione condizionale, ex art. 70 ord. penit.);
- norme su servizio sociale e UEPE nonché, in particolare, sulle competenze di assistenti sociali
ed educatori (artt. 72, 80, 81, 82 ord. penit.); l’assistente volontario (art. 78 ord. penit.);
il rapporto complesso tra funzione di aiuto e funzione di controllo (che si esplica attraverso relazioni
all’autorità giudiziaria) degli operatori del servizio sociale (cfr. art. 47, co. 9 e 10, ord. penit.);
- l’art. 4-bis ord. penit.: presupposti diversificati, in funzione della gravità del reato
nonostante identiche entità di pena, circa l’accesso alle misure alternative, ai permessi-premio
e al lavoro all’esterno;
in particolare, i reati c.d. ostativi di cui al co. 1 di tale norma, che richiedono per l’applicazione dei
benefici penitenziari (tranne la liberazione anticipata), la collaborazione di giustizia, ove tuttora
suscettibile di risultare rilevante: il che muta in radice il ruolo delle misure alternative, trasformandole
in un incentivo per la collaborazione (che, in tal caso, non è semplicemente incentivata attraverso
norme premiali di riduzione della pena, come accade durante il processo, ma risulta tale per cui la sua
assenza produce il venir meno di diritti – l’accesso ai benefici penitenziari – ordinariamente
riconosciuti);
il che si rende drammatico, in particolare, nel caso dell’ergastolo – il c.d. ergastolo ostativo – poiché
l’esclusione dai benefici di cui sopra rende impossibile per l’ergastolano non solo qualsiasi
differenziazione del regime sanzionatorio, ma anche la possibilità stessa di poter pervenire, attraverso
la liberazione condizionale, al fine-pena (si rammenti in proposito che la Corte Europea dei Diritti
dell’Uomo esige che dopo un congruo numero di anni debba essere valutata la rieducazione
dell’ergastolano onde rendere possibile il fine pena);
l’esigenza, pertanto di restituire al Tribunale di Sorveglianza la possibilità di valutare se la mancata
collaborazione (che potrebbe derivare, per esempio, dal timore di ritorsioni nei confronti dei familiari)
costituisca o meno indice di mancata rieducazione;
- i problemi connessi all’art. art 41-bis ord. penit., che consente la sospensione per via
amministrativa dell’applicabilità delle norme dell’ordinamento penitenziario che si pongano in
contrasto, per gli autori di gravi reati, con esigenze di sicurezza e di ordine;
la motivazione fondata sull’esigenza di evitare la partecipazione ad attività criminose dall’interno del
carcere e i rischi di un’applicazione troppo estesa, o meramente retributiva, della suddetta facoltà (che
15
potrebbe paradossalmente cementare, anche in condizione detentiva, la solidarietà tra appartenenti
a grandi associazioni criminose, implicando la rinuncia di fatto a perseguire intenti rieducativi);
16.3
- il sistema penale minorile:
richiamo del già citato art. 98 c.p., che prevede un’attenuante obbligatoria circa la pena applicabile
nei confronti del minorenne imputabile;
il dPR 448/1988 (processo penale minorile); i principi fondamentali di cui all’art. 1: la finalità
educativa, l’importanza riconosciuta alla personalità del minorenne, l’apertura del processo al
dialogo);
il ruolo esteso all’intera fase processuale dei servizi sociali minorili (art. 6 dPR 448/1988 e artt. 9
ss. d. lgs. 272/1988; l’inammissibilità della costituzione della parte civile (art. 10 dPR 448/88);
- le norme fondamentali di cui agli artt. 9 e 28 dPR 448/88:
a) l’obbligo di studio della personalità del minorenne (anche senza disporre una perizia in
modo formale), in senso opposto a quanto dispone per gli adulti l’art. 220, co. 2, c.p.p.;
b) la possibilità per il giudice di disporre durante il processo la messa alla prova del minorenne
sulla base di un programma predisposto dai Servizi sociali minorili (USSM), ai sensi dell’art. 27
delle norme di attuazione di cui al d.lgs. 272/1989, con estinzione del reato in caso di esito positivo
della prova medesima (art. 29 d.P.R. 448/1988); nel caso, invece, di esito negativo il procedimento
penale prosegue, fini alla sentenza;
con la messa alla prova, dunque, la risposta al reato può concretizzarsi interamente in un progetto,
posto che attraverso di essa si evita di giungere alla determinazione di una pena detentiva come
corrispettivo del reato e, pertanto, si abbandona davvero un’impostazione retributiva della giustizia;
l’assenza di limiti di gravità del reato per l’applicabilità della messa alla prova e la sua durata
ordinaria fino a un anno o fino a tre anni per reati più gravi;
la differenza strutturale della messa alla prova rispetto all’affidamento in prova al servizio sociale in
quanto misura alternativa applicata dopo la sentenza di condanna;
- l’estensione agli adulti (ex art. 5 l. n. 67/2014) della sospensione del procedimento con
messa alla prova, su richiesta dell’imputato (non implica ammissione di colpevolezza), con
riguardo a un ambito limitato di reati (in particolare, reati puniti con pena detentiva non superiore a
quattro anni): artt. 168-bis ss. c.p.; artt. 464-bis ss. c.p.p.; art. 141-bis s. att. c.p.p.;
la problematicità del disposto secondo cui la concessione è subordinate alla prestazione di lavoro di
pubblica utilità;
l’espressa menzione agli artt. 464-bis, co. 4, lett. c) e 141-ter, co. 3, att. c.p.p che il programma di
messa alla prova preveda «le condotte volte a promuovere, ove possibile, la mediazione con la
persona offesa»;
- il ricorso alla mediazione penale è stato finora abbastanza ampiamente sperimentato, pur
in mancanza di una norma specifica a tal proposito, nel sistema penale minorile, o come elemento
della messa alla prova (art. 28 d.P.R. n. 448/1988) o come fase di ulteriore studio della
personalità del minorenne (ex art. 9 d.P.R. n. 448/1988
l’importanza della mediazione penale, quale forma più avanzata della giustizia riparativa;
ratio e finalità degli strumenti di giustizia riparativa (restorative justice), anche in rapporto alla
16
posizione della vittima del reato, la cui esigenza fondamentale sta nel vedere riconosciuta, fatta verità
non solo in senso storico-fattuale sul reato, l’ingiustizia di quanto accaduto: il che trova la risposta
più credibile ove l’addivenire a un tale giudizio possa realizzarsi attraverso lo stesso soggetto agente;
la mediazione penale consente di discutere secondo verità sul fatto di reato, cioè di rielaborare quanto
accaduto, poiché ciò che viene detto dalle persone che partecipano alla mediazione non è riferito al
giudice (evitandosi di violare in tal modo il principio nemo tenetur se detegere): l’ufficio di
mediazione riferisce al giudice, piuttosto, un giudizio sulla validità della mediazione medesima, che
ordinariamente si conclude con la proposta, da parte dello stesso soggetto ritenuto autore del reato, di
una condotta riparativa (consistente in un impegno personale, e non nel mero risarcimento del danno);
se con una auspicabile evoluzione in senso prescrittivo delle sanzioni penali, intese come progetto,
può prospettarsi il recupero di un dialogo con l’autore del reato (oggi impossibile) relativamente alla
configurazione della risposta sanzionatoria al reato (ferma la già avvenuta decisione sul fatto e sulla
responsabilità), con la mediazione diviene possibile recuperare la dimensione del dialogo già nello
stesso ambito temporale del processo (nel frattempo sospeso) e relativamente al reato stesso:
anticipandosi la rielaborazione critica del medesimo, ora prevista soltanto in sede di trattamento
penitenziario nella fase esecutiva della pena (v. supra), al momento stesso del processo; il che è
quanto dire anticipare a quel momento il conseguimento degli effetti di prevenzione generale positiva
e di risocializzazione;
sulla possibilità di una più ampia utilizzazione, per il futuro, della mediazione penale (come fattore
di cui il giudice possa tener conto nel determinare la pena, sia nel tipo che nel quantum, oppure anche
come fattore che possa consentire di non iniziare un processo penale);
- la sentenza di non luogo a procedere in ambito minorile per irrilevanza del fatto (art. 27
d.P.R. 448/1988), anche in rapporto ai problemi concernenti l’obbligo di esercizio dell’azione
penale da parte del pubblico ministero (ex art. 112 Cost.) e l’obbligo di denuncia delle notizie di
reato da parte di pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio (ex artt. 361 e 362 c.p.);
i presupposti della suddetta sentenza: fatto occasionale e tenue, nocumento della celebrazione del
processo rispetto alle esigenze educative del minorenne;
- l’introduzione nel codice penale (dunque, anche con riguardo agli adulti), avvenuta con d.lgs.
n. 28/2015, dell’art. 131-bis c.p. che prevede rispetto a un ambito di reati non particolarmente
gravi la non punibilità per particolare tenuità del fatto (riferita alle modalità della condotta e alla
esiguità del danno o del pericolo, ferma la non abitualità del comportamento), limitatamente a reati
per i quali la legge prevede una pena detentiva non superiore a quattro anni;
la differenza rispetto alla non procedibilità di cui all’art. 27 d.P.R. n. 448/1988;
la differenza fra irrilevanza o particolare tenuità del fatto (il reato può sussistere o sussiste) e fatto
inoffensivo (il reato non sussiste, mancando il requisito dell’offesa del bene tutelato);
- l’introduzione nel codice penale, ex art. 1, co. 1, l. n. 103/2017, dell’art. 162-ter c.p., che
prevede l’estinzione del reato a seguito di condotte riparatorie (in sostanza, essenzialmente
risarcitorie), per soli reati perseguibili a querela non soggetta a remissione.
23.3
- la competenza in materia penale del giudice di pace: principi (art. 2 d.lgs. 274/2000);
l’applicabilità di sole pene non detentive: permanenza domiciliare, lavoro di pubblica utilità
(con il consenso del condannato) e pena pecuniaria (artt. 52-54 d.lgs. 274/2000);
gli strumenti di definizione anticipata del processo:
17
a) il tentativo di conciliazione finalizzato alla remissione della querela e il possibile ricorso,
per tale fine, alla mediazione penale (art. 29, co. 4); l’espressa previsione del fatto che le
dichiarazioni rese dalle parti nella fase di conciliazione «non possono essere utilizzate in alcun
modo ai fini della deliberazione»;
b) il non luogo a procedere in caso di tenuità del fatto (art. 34 d.lgs. n. 274/2000): dà luogo
a una improcedibilità come l’art. 27 d.P.R. n. 448/1988 in ambito minorile (v.infra), ma con
una definizione più complessa dei presupposti; il problema del ruolo attribuito, in proposito, alla
persona offesa;
c) la procedura riparativa (art. 35 d.lgs. n. 274/2000), possibile per qualsiasi reato di
competenza del giudice di pace, quale strumento che potrebbe trovare, in futuro, ambiti di
significativa utilizzazione anche nel diritto penale generale; l’eccessiva caratterizzazione
risarcitorio-restitutoria, piuttosto che riparativa, dei requisiti richiesti dalla norma richiamata e il
rischio di un’eccessiva dipendenza dal parere della persona offesa (cui si aggiunge la genericità dei
criteri valutativi assegnati al giudice);
- l’obbligo del giudice di pace di favorire in ogni caso la conciliazione, ex art. 2, co. 2, d.lgs.
n. 274/2000;
- la responsabilità amministrativa degli enti per reati commessi nel loro interesse o a
loro vantaggio (d.lgs. n. 231/2001): la ratio della previsione di una responsabilità degli enti con
riguardo agli illeciti penali commessi nel loro interesse o a loro vantaggio e i motivi della sua
configurazione come responsabilità «amministrativa» per reato (art. 1); la strategia intesa a creare
un interesse degli enti ad «autocontrollarsi», onde prevenire la commissione dei suddetti reati; gli
enti cui la normativa risulta applicabile (art. 1);
la competenza, rispetto a simile forma particolare di illecito amministrativo, della magistratura
penale (artt. 34-36);
il ruolo dei «modelli di organizzazione e di gestione» e dell’organo interno di vigilanza (art. 5); i
criteri di responsabilità dell’ente (art. 8);
la possibile esclusione della responsabilità dell’ente e i relativi requisiti: il diverso regime in rapporto
a condotte poste in essere da soggetti “apicali” (si richiede, fra l’altro, la prova da parte dell’ente che
tali soggetti abbiano commesso il reato eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e di
gestione) o da soggetti “non apicali” (artt. 6 e 7);
le sanzioni applicabili: art. 9:
la sanzione pecuniaria per quote, applicata in ogni caso, (artt. 10-11) e le ipotesi della sua riduzione
(art. 12);
la particolare temibilità delle sanzioni interdittive, fino alla interdizione dall’esercizio dell’attività
(artt. 13-16);
la confisca obbligatoria, anche per equivalente, del prezzo o del profitto relativi al reato (art. 19);
le disposizioni in materia di delitti tentati (art. 26);
i reati di cui gli enti possono rispondere (artt. 24 ss.);
i principi garantistici del diritto penale:
il diritto penale, come già s’è detto (supra, all’inizio del corso), costituisce espressione
particolarmente delicata della potestà pubblica di obbligare, in quanto applicando “pene” si manifesta
come «arma a doppio taglio» (F. von Lizst), che tutela beni di rilievo giuridico, sacrificando a sua
volta beni giuridici fondamentali, come la libertà personale;
- da questa presa d’atto deriva la c.d. teoria del “bene giuridico”: elaborazione di matrice
liberal-garantistica, in quanto finalizzata a pre-selezionare i beni suscettibili di essere tutelati
18
penalmente dal legislatore:
dovrà trattarsi esclusivamente dei beni fondamentali per la convivenza civile, cioè attinenti, in via
diretta o indiretta, alla salvaguardia dei diritti umani inviolabili e tali che la loro offesa risulti
suscettibile di un accertamento materiale;
per la suddetta funzione limitativa dei poteri coercitivi derllo Stato, in quella che costituisce la loro
massima espressione, la teoria del bene giuridico è stata fortemente avversata da parte dei regimi
totalitari;
si consideri, in questa medesima prospettiva, l’inadeguatezza della c.d. concezione metodologica del
bene giuridico elaborata in Italia all’epoca dell’introduzione del codice Rocco, nell’ambito del c.d.
orientamento tecnico-giuridico: tale concezione si configurava infatti come finalizzata alla mera
catalogazione a posteriori dei beni, o interessi, giuridici che il legislatore avesse (già) scelto di tutelare
penalmente;
il tentativo operato dal prof. Franco Bricola di identificare i beni giuridici penalmente tutelabili con
quelli di rango costituzionale, sulla base dell’art. 13 Cost.: se la pena incide su diritti costituzionali
del condannato, e in particolare sulla sua libertà, allora la previsione di un reato potrà riguardare, a
sua volta, soltanto la tutela di beni di rango costituzionale analogo a quello dei beni sui quali la pena
incide;
si noti che simile approccio ha il merito di rendere possibile sollevare la questione di costituzionalità
di un certo reato (per contrasto, in particolare, con l’art. 13 Cost.) nel caso in cui quel reato risultasse
tutelare un bene di rango eccessivamente modesto rispetto a quello del bene sul quale la sanzione
penale incide;
12.4
- la riflessione sul bene giuridico, peraltro, assume interesse non soltanto per il legislatore penale,
ma anche dopo le scelte che il medesimo abbia operato, e dunque per il giudice:
a) l’individuazione del bene tutelato dalla norma penale può infatti favorire, anzitutto, l’attività
interpretativa del giudice in senso restrittivo rispetto alla descrizione letterale della fattispecie di reato
(mentre non sarebbe ammissibile l’operazione opposta, vale a dire estendere l’ambito applicativo
della norma penale in considerazione di supposte esigenze ulteriori di tutela del bene giuridico cui
tale norma appresti tutela: posto che ciò si risolverebbe in una violazione del principio di legalità, sia
con riguardo al canone della determinatezza, sia, soprattutto, sotto il profilo del divieto di analogia:
v. infra); se ne deduce che la funzione selettiva dell’ambito del punibile correlata alla considerazione, in sede
di giudizio, del bene giuridico che una data fattispecie di reato intenda tutelare viene resa per gran
parte vana ove si affermi che simile fattispecie abbia carattere plurioffensivo, cioè miri a tutelare una
serie variegata e assai discrezionalmente dilatabile di beni: la categoria del reato plurioffensivo,
pertanto, andrebbe evitata o, comunque, utilizzata con estrema parsimonia;
b) in particolare, tuttavia, la riflessione sul bene giuridico rileva, con riguardo al giudice, affinché
possa trovare attuazione, in sede di giudizio, il principio di “offensività”:
tale principio esprime l’esigenza che il giudice non si limiti, per punire, a constatare l’essersi
verificato un accadimento storico corrispondente ai requisiti di una certa fattispecie di reato, ma
accerti anche l’effettiva offesa, in termini di lesione o messa in pericolo (v. infra), del bene giuridico
che il legislatore, attraverso quella fattispecie, intendeva tutelare;
il principio di offensività, tuttavia, non trova espressione esplicita nel codice penale italiano, a
differenza di quanto accede nei codici penali europei recenti, ed è stato desunto, nel nostro sistema
penale, attraverso due strade:
- o desumendolo direttamente dalla Costituzione e, in particolare, dall’art. 13 della medesima
19
(il diritto penale non può produrre, attraverso la pena, un’offesa di beni fondamentali del cittadino,
e in particolare della libertà personale, se non si sia verificata effettivamente l’offesa, da
parte del cittadino, del bene tutelato dalla norma trasgredita);
- oppure individuando un appiglio codicistico positivo del suddetto principio facendo leva
sul conetto di inidoneità dell’azione di cui all’art. 49 c.p. (reato impossibile), che esclude il
configurarsi del reato: intendendo tale concetto non (o non soltanto) come inidoneità materiale
a cagionare l’evento in senso naturalistico (in antitesi all’idoneità degli atti richiesta dall’art.
56 c.p. per la configurabilità del tentativo), bensì (anche) come inidoneità a ledere il bene giuridico e,
dunque, come inoffensività (c.d. concezione realistica del reato);
deve rimaner per fermo, in ogni caso, che il giudice non può operare un giudizio di offensività riferito
a beni diversi da quello che il legislatore ha inteso tutelare mediante la fattispecie di reato della quale
si discuta, ma deve soltanto verificare che il fatto posto in essere dal soggetto agente in conformità ai
requisiti di tale fattispecie realizzi davvero l’offesa del bene giuridico che si voleva proteggere (p. es.:
non è offensivo il “furto” di pochi acini d’uva, perché non comporta una effettiva lesione del bene
costituito dal patrimonio; non sono offensive espressioni formalmente diffamatorie, se si sta
attribuendo in aula a qualche studente la commissione di un reato per ragioni di esemplificazione,
oppure se tali espressioni avvengono nel contesto di una rappresentazione teatrale, ciò non
comportando alcuna offesa dell’altrui onore);
la precisazione è importante perché alcuni regimi totalitari consentivano al giudice, attraverso
clausole generali inserite nei codici penali, di valutare ai fini della punibilità se un reato, poniamo un
omicidio politico, fosse da ritenersi non offensivo con riguardo a supposti interessi superiori dello
Stato o a concetti simili;
appare pertanto opportuno non utilizzare – con riguardo a fatti formalmente conformi alla descrizione
normativa della fattispecie, ma non risultanti offensivi del bene che la medesima abbia inteso tutelare – la qualifica, cui talora s’è fatto ricorso, di fatti inoffensivi conformi al tipo, in quanto tale
formula potrebbe lasciar intendere che si ammetta un giudizio sull’offensività riferito a
interessi diversi rispetto alla tutela di quel solo bene: è corretto affermare, piuttosto, che in
assenza di offensività manca il requisito stesso della tipicità del reato (v. infra), per cui il fatto non
è tipico;
- si consideri in ogni caso la differenza che sussiste fra fatto inoffensivo (manca il reato) e fatto
tenue ai sensi del cit. art. 131-bis c.p. (il reato sussiste ma non è punibile) oppure non procedibile
ai sensi degli artt. 35 d.lgs. n. 274/2000 o 27 d.P.R. 448/1988 (non viene proseguito l’iter
processuale): v. supra;
- il principio di legalità quale fondamentale principio liberal-garantistico che attiene alla tutela
del cittadino nei confronti della potestà punitiva statuale, espresso all’art. 25 Cost., oltre che
all’art. 1 c.p., nei suoi profili di:
1) riserva di legge, in forza della quale l’introduzione di norme penali è riservata al
potere legislativo, con esclusione sia di atti provenienti dal potere esecutivo (diversamente da quanto
accade negli altri settori del diritto, dove tali atti hanno un ruolo integrativo della legge, secondo la
gerarchia delle fonti), sia di un ruolo creativo del diritto da parte del potere giudiziario: ciò
in quanto, costituendo le sanzioni penali lo strumento di massima ingerenza dei poteri pubblici
nella sfera dei diritti dei cittadini, si vuole che la loro utilizzazione venga decisa dall’organo
massimamente rappresentativo dei cittadini stessi e vagliata secondo le procedure proprie del
dibattito parlamentare (è infatti esclusa anche la competenza in materia penale delle leggi regionali);
si consideri come questa impostazione che si rifà alla tradizione illuministica risulti oggi ampiamente
minata sia dalla disponibilità dei parlamenti a farsi interpreti di istanze demagogiche e di c.d.
populismo penale, sia dal marcato svuotamento dell’autonomia dei parlamenti stessi rispetto al ruolo
20
dominante dei governi, sia dall’attivismo creativo giudiziario (il c.d. diritto vivente), che tende a
debordare rispetto alla funzione meramente interpretativa del diritto, con un ricorso sostanziale anche
a soluzioni di analogia in malam partem (v. infra): attivismo in parte favorito dalla scarsa qualità e
coerenza della odierna legislazione penale, nonché dall’ampio utilizzo, in essa, di terminologie
generiche o di c.d. concetti valvola (nonostante il principio di determinatezza, del quale subito
diremo);
la natura tendenzialmente assoluta e non meramente relativa della riserva di legge; la tradizionale
ammissione, tuttavia, che il divieto di prevedere norme penali non valga per i decreti legislativi e, più
problematicamente, per i decreti legge (in quanto atti del Governo aventi, a certe condizioni, forza di
legge);
il problema delle c.d. norme penali in bianco, attraverso le quali il legislatore penalizza la violazione
di provvedimenti provenienti da autorità amministrative o, comunque, si lascia a una fonte secondaria
(cioè non legislativa) la determinazione della condotta rilevante ai fini penali: l’esigenza, in proposito,
che sia quantomeno ben delineate la tipologia e le caratteristiche del provvedimento cui si dà rilievo
ai fini penali;
2) determinatezza (o precisione, o tassatività) delle fattispecie di reato, in forza della quale
si richiede che il legislatore descriva quest’ultima nel modo più preciso possibile, così che
ciascun cittadino possa sempre essere sempre in grado di individuare, al momento in cui tiene la
condotta, il confine tra ciò che sia da ritenersi lecito o illecito sul piano penale;
si veda a proposito della determinatezza anche quanto verrà indicato infra, circa le faratteristiche del
fatto tipico;
esemplificazioni circa fattispecie scarsamente determinate e di dubbia conformità al principio della
riserva di legge (in part., l’art. 650 c.p.);
3) divieto di analogia, espressamente previsto dall’art. 14 delle c.d. preleggi circa «le leggi
penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi», in deroga a quanto
comunemente previsto dal precedente art. 12, co. 2:
la nozione di «leggi penali», come norme incriminatrici o tali da consentire una risposta sanzionatoria
più sfavorevole: la rilevanza di principio del divieto, quale divieto a contenuto garantistico, nei soli
casi in cui l’analogia rilevi in malam partem;
la nozione di «leggi che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi»: il problema, in particolare,
dell’applicabilità per analogia delle cause di giustificazione; fermo che queste ultime – v. infra – non
sono norme penali nel senso appena indicato, ci si chiede se siano a loro volta norme che riflettono
regole generali o siano da annoverarsi tra quelle che fanno eccezione alle regole suddette: una risposta
in linea di principio affermativa deve tuttavia tener conto del fatto che un’applicazione estensiva delle
medesime implica l’indicazione per il futuro di un più ampio spazio di compromissione giustificata
di un certo bene, per cui, quantomeno, non possono ritenersi estensibili per analogia quegli elementi
della causa giustificativa che sono descritti in modo ben specificato dalla norma che la preveda);
4) irretroattività delle norme penali, cioè delle norme incriminatrici e in malam partem (art. 2,
co. 1 c.p.);
abrogazione e successione di norme penali; i problemi connessi al confine fra le due categorie e alle
diverse conseguenze che ne derivano: nel primo caso se il reato è stato commesso nella vigenza della
norma abrogata il soggetto agente non può essere punito e, se vi è stata condanna, ne cessano
l’esecuzione e gli altri effetti penali (art. 2, co. 2); nel secondo caso, se il reato è stato commesso
prima della modifica si applicano le disposizioni più favorevoli (art. 2, co. 4);
ove dunque una certa materia già rilevante ai fini penali sia regolata da nuove norme penali si tratta
di chiedersi se le vecchie norme siano state abrogate e ci si trovi di fronte a norme nuove da esse
autonome, nel qual caso i fatti commessi prima del passaggio dalla vecchia alla nuova disciplina non
21
potranno più essere puniti, o se invece tra le vecchie e le nuove norme vi sia una continuità di fondo
nella costruzione del reato, nel qual caso i fatti pregressi alla riforma rimarranno pur sempre punibili,
sebbene secondo la disciplina, fra le due, più favorevole;
si pongono peraltro due ulteriori problemi:
a) come ci si comporta quando successivamente alla commissione del fatto si sia avuto un
mutamento di fondo, in senso sfavorevole, nell’interpretazione giurisprudenziale della fattispecie
incriminatrice (scil., nel diritto vivente), per cui al momento del fatto il soggetto agente poteva ancora
far conto sull’irrilevanza penale del suo agire? la Corte europea dei diritti dell’uomo ha riconosciuto
che anche in questi casi debba valere, ai sensidell’art. 7 c.e.d.u. il principio di irretroattività: cfr. la
sentenza 14 aprile 2015 sul caso Contrada, secondo la quale non si sarebbe dovuto condannare
quest’ultimo autore per concorso esterno in associazione mafiosa perché, all’epoca dei fatti (1979-
1988), il rilievo del concorso c.d. esterno ai fini del reato associativo «non era sufficientemente chiaro
e il ricorrente non poteva conoscere nello specifico la pena in cui incorreva per la responsabilità penale
che discendeva dagli atti compiuti»;
b) nel caso della successione di norma penale più favorevole l’art. 2, co. 4, prevede tuttavia che
ove già vi sia stata una condanna irrevocabile per fatti commessi nella vigenza della disciplina
pregressa la condanna stessa non possa venir meno (salva l’ipotesi, di cui al co. 3, nella quale
vi sia stata condanna a pena detentiva e la nuova disciplina preveda la sola pena pecuniaria,
ipotesi nella quale la pena detentiva si converte immediatamente in quella pecuniaria, secondo il
criterio di ragguaglio di cui all’art. 135 c.p.); la scelta dell’intangibilità del giudicato nel caso di
successione di norme penali è tuttavia giustamente criticata in dottrina e ha trovato aperture nella
giurisprudenza della stessa Corte di giustizia UE; un possibile rimedio può essere costituito, in ogni
caso, dalla procedura di revisione del giudicato ai sensi dell’art. 673 c.p.p.;
c) si noti, peraltro, come si ponga altresì la questione, circa la quale si segnalano ancora una
volta sentenze significative delle Corti europee, inerente al rilievo che dovrebbe essere
attribuito, nei confronti del giudicato, ai mutamenti favorevoli nell’interpretazione
giurisprudenziale (anche a seguito di sentenze della Corte e.d.u.) di una data norma penale
l’inapplicabilità delle disposizioni richiamate dell’art. 2 c.p. alle leggi eccezionali o temporanee (art.
2, co. 5);
- i temi da ultimo considerati impongono altresì di affrontare l’interrogativo circa l’ammissibilità
di un sindacato da parte della Corte costituzionale su norme penali favorevoli (lo sono, per
esempio, le circostanze attenuanti o le cause di esclusione della punibilità: v. infra), cioè circa la
possibilità di sollevare una questione di legittimità costituzionale rispetto a simile tipologia di
norme; si pongono infatti, a prima vista, due questioni:
- quella concernente l’irrilevanza, comunque, della pronuncia nel processo a quo, posto che anche
nel caso di accoglimento del ricorso bisognerebbe pur sempre applicare, nel processo a quo, la
norma favorevole dichiarata incostituzionale, e ciò in forza del principio di irretroattività delle
innovazioni normative in malam partem;
- quello per cui un accoglimento del ricorso comporterebbe un’espansione dell’ambito del
punibile non avente base legislativa, in contrasto con il principio della riserva di legge;
l’esito di una totale sottrazione al giudizio della Corte costituzionale di simili norme appare tuttavia
inaccettabile (rimarrebbe escluso, per esempio, qualsiasi sindacato sulle norme di non punibilità
dell’aborto, come altresì, del resto, il sindacato su ipotetiche norme favorevoli di ingiustificato
privilegio); ne deriva che, per un verso, la rilevanza nel processo a quo potrebbe essere intesa come
rilevanza della questione in termini di principio, così che essa rileverebbe in quel processo se non si
dovesse rispettare il principio di irretroattività; mentre per il secondo profilo problematico appare
22
ammissibile la dichiarazione di incostituzionalità quanto la norma di favore (rispetto alla scelta
legislativa di penalizzare in un dato modo un certo fatto illecito) non appaia ragionevole, violando in
tal modo il principio di uguaglianza: cioè quando la sua motivazione non possa essere riferita ad
alcuna esigenza costituzionalmente significativa;
13.4
- il principio di sussidiarietà o di extrema ratio del diritto penale:
la teoria del bene giuridico riflette sui beni che, in astratto, potrebbero o meno costituire oggetto di
tutela penale, ma non implica che per la tutela di quei beni (e comunque per ogni modalità di tutela
di quei beni) si debba fare ricorso al diritto penale;
in linea di principio, infatti, il ricorso al diritto penale deve ritenersi ammissibile solo quando altri
strumenti di tutela meno invasivi rispetto ai diritti individuali si manifestino insufficienti: ed è proprio
questa esigenza che risulta espressa dal principio di sussidiarietà o di extrema ratio del diritto penale;
appare peraltro piuttosto irrealistico – anche per esigenze di organicità e di messaggio del sistema,
come pure per esigenze relative agli strumenti d’indagine – che determinati profili di tutela relativi a
beni fondamentali possano fuoriuscire dall’ambito penale, almeno finché un diritto penale si dia: più
che di extrema ratio del ricorso al diritto penale in quanto tale, pertanto, si dovrà parlare di extrema
ratio (o sussidiarietà) del ricorso alla pena detentiva (potendosi ben ipotizzare, per il futuro,
sanzioni penali non detentive);
si noti che nella Costituzione è formalmente menzionato in solo caso con riguardo al quale si
fariferimento a una previsione penale: quello di cui all’art. 13, co. 4;
- ciò rimanda a quello che dovrebbe costituire l’impinato complessivo, ovvero la “piramide”,
della politica criminale, tale per cui si può passare a un livello successivo d’intervento, solo quando
quello precedente non appaia sufficiente:
a) i due livelli della “prevenzione primaria” (v. supra):
1. la dimensione politico-sociale ed educativo culturale;
2. l’intervento giuridico, attraverso norme non penali, sui fattori che favoriscono la riminalità;
b) la fase successiva alla commissione del fatto illecito:
3. la previsione di illeciti (e sanzioni) amministrativi;
4. la previsione di illeciti penali caratterizzati da sanzioni non detentive;
5. la previsione di illeciti penali caratterizzati da sanzioni detentive;
anche quando si ritenga, tuttavia, che le esigenze preventive richiedano il ricorso alla penadetentiva,
si dovranno comunque percorrere, per la tutela del bene interessato, anche i precedenti gradini della
piramide (il contrasto della criminalità organizzata richiede pur sempre prevenzione primaria, ecc.);
- il principio di frammentarietà: indica che non necessariamente il diritto penale tutela tutte
le possibili forme di aggressione di un dato bene; come pure, inoltre, che la sfera di ciò che
risulta penalmente antigiuridico risulta più ristretta rispetto a ciò che risulta antigiuridico rispetto
all’intero ordinamento (sul piano civile, amministrativo, ecc.) e altresì più ristretta, in ogni caso,
rispetto a quanto sia da considerarsi riprovevole sul piano morale (guai se si considerasse
riprovevole solo ciò che è penalmente vietato o che subisce una condanna penale!);
- il rapporto tra diritto penale interno e normative europee: effetti restrittivi e dilatativi
dell’ambito del punibile; il ruolo del diritto europeo ai sensi delle limitazioni alla sovranità
ammesse dall’art. 12 della Costituzione;
in particolare, la problematicità, in rapporto alla «riserva di legge», degli effetti dilatativi
dell’intervento penale e, segnatamente, delle richieste di penalizzazione nonché delle richieste
23
sanzionatorie derivanti da atti normativi europei (in particolare, dalle direttive);
le previsioni in materia penale del Trattato di Lisbona (in part., l’art. 83: vedi materiali didattici
nella pagina web-docente UC): gli ambiti in cui è previsto un potere di intervento del diritto europeo
attraverso direttive, rispetto ad alcune forme di criminalità grave e ad ambiti nei quali si realizzino
provvedimenti di armonizzazione;
- la prima sentenza Taricco (è riportata anch’essa, con un commento, tra i suddetti materiali
didattici) della Corte di giustizia dell’Unione Europea (CGUE, Grande Sezione, 8-9-2015)
che, di fatto, attribuiva al giudice nazionale il potere di disapplicare norme interne relative alla
prescrizione dei reati (art. 157 c.p.) ove non le ritenga nel loro complesso adeguate al dovere degli
Stati (desunto, in particolare, dall’art. 325 TFUE) di prevedere una tutela efficace degli interessi UE
(nel caso di specie rispetto alla prevenzione di delitti di frode tributaria che compromettano il
gettito dovuto alla UE), assegnando in tal modo al giudice poteri aventi, di fatto, natura legislativa;
ne derivava la violazione del divieto di retroattività di una disciplina più sfavorevole, ma soprattutto
la violazione dello stesso principio di divisione dei poteri: questioni sulle quali è stata
chiamata a pronunciarsi la Corte Costituzionale, prospettando la possibilità di far valere i c.d.
controlimiti attinenti ai principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale interno anche nei
confronti delle sentenze della CGUE (cui compete l’interpretazione autentica delle normative UE,
quali i Trattati e i Regolamenti, che hanno efficacia diretta negli ordinamenti dei singoli Stati e
sono dunque immediatamente applicabili dai giudici); la Corte costituzionale s’è pronunciata con
ord. n. 24/2017 (essa pure tra i materiali didattici) recependo pienamente, nella sostanza, le riserve
sopra enunciate nei confronti della sentenza Taricco e proponendone, in tal senso, una lettura
conforme ai principi costituzionali italiani e al principio di legalità riconosciuto dall’art. 49 della
Carta dei Diritti UE, ma rimettendo nuovamente la questione per una conferma o smentita di tale
lettura alla CGUE, che dovrà prossimamente pronunciarsi: senza dunque aver attivato (per ora) i c.d.
controlimiti. Su questa base la nuova sentenza della Corte e.d.u. (Grande Sezione) 5-12-2017 ha s’
ribadito il sussistere del summenzionato dovere di disapplicare da parte del giudice, ma «a meno
che una disapplicazione siffatta comporti una violazione del principio di legalità dei reati e delle
pene a causa dell’insufficiente determinatezza della legge applicabile, o dell’applicazione retroattiva
di una normativa che impone un regime di punibilità più severo di quello vigente al momento della
commissione del reato».
- il ruolo della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) e della relativa Corte;
il problema dell’interpretazione delle norme interne secondo la CEDU in base all’interpretazione
che ne dia la CorteEDU e la questione di costituzionalità che si ritiene proponibile in caso di
incompatibilità ai sensi dell’art. 117 Cost. (salvo il principio di resistenza ove quell’interpretazione
risulti incompatibile con principi costituzionali fondamentali);
introduzione alla teoria del reato e ai suoi elementi:
a) fatto tipico, costituito dalla condotta, dall’eventuale evento naturalistico e dagli altri elementi
richiesti dalla norma incriminatrice, nonché (v. supra) dall’effettiva offesa del bene giuridico che la
norma incriminatrice intende tutelare
la descrizione normativa del fatto tipico deve essere conforme al principio di materialità, cioè deve
riferirsi a fattori (condotte, eventi, stati soggettivi, ecc.) che abbiano una proiezione nel mondo esterno
e risultino suscettibili di accertamento: non può dunque avere per oggetto giudizi morali o mere
condizioni personali, il che condurrebbe a un’inaccettabile c.d. colpa d’autore, svincolata
dall’effettiva offesa di beni giuridici;
il fatto tipico si distingue in
24
- fatto tipico oggettivo (condotta, causalità, evento, offesa del bene giuridico, ecc.) e
- fatto tipico soggettivo, che è costituito dalla natura dolosa o colposa (v. infra) del fatto medesimo;
invero, il codice Rocco prevedeva anche casi non richiedenti il profilo soggettivo e, in particolare
(rispetto ad alcuni almeno degli elementi essenziali del fatto tipico oggettivo), casi di responsabilità
senza dolo e senza colpa, cioè di responsabilità oggettiva (ai sensi dell’art. 43, co. 3, c.p.): ma simili
fattispecie di reato sono da considerarsi oggi incostituzionali a seguito dell’avvenuto riconoscimento
del rango costituzionale che assume il principio di colpevolezza (v. infra) e vanno reinterpretate in
conformità a quest’ultimo;
b) antigiuridicità penale, che si sostanzia nell’assenza di cause di giustificazione (v. infra);
c) colpevolezza, consistente nella attribuibilità (o rimproverabilità) personale del fatto medesimo,
cioè nella circostanza che il soggetto agente fosse in grado di dominare il fatto medesimo;
la nozione di rimproverabilità personale onde definire il concetto di colpevolezza potrebbe
risultare equivoca, in quanto potrebbe indurre a fondare la colpevolezza su giudizi circa lo stile di vita
o altre caratteristiche meramente personali di quel soggetto (e dunque, sulla c.d. colpa d’autore),
aprendo al recepimento, nell’attribuire la colpevolezza, a indebite considerazioni emotive o prima
facie di prevenzionegenerale;
ai fini della colpevolezza risultano necessari, come vedremo, il sussistere del dolo o della colpa,
l’imputabilità, la conoscibilità del divieto e l’esigibilità della condotta;
il dolo e la colpa dunque (v. infra), quali elementi necessari ai fini del giudizio di colpevolezza,
costituiscono oggi anche elementi indispensabili del fatto tipico, in quanto necessitante in ogni caso
della componente soggettiva;
le diverse tipologie di reato:
- con riguardo alla configurazione del fatto tipico oggettivo, abbiamo:
- reati di pura condotta e
- reati con evento naturalistico, che possono configurarsi a condotta libera
(causalmente orientati) o a condotta vincolata, cioè descritta dal legislatore;
si noti bene che l’offesa del bene tutelato – da molti definito evento in senso giuridico – deve
sussistere sia con riguardo ai reati con evento naturalistico, sia con riguardo ai reati di pura condotta;
- con riguardo alla condotta, i reati si distinguono, inoltre, in
reati attivi (o commissivi) e reati omissivi (consistenti nell’astensione da un dovere di attivarsi) i
reati omissivi si distinguono in tre tipologie:
a) reati omissivi propri (di pura condotta omissiva), descritti come tali dalla norma
incriminatrice (p. es., l’omissione di soccorso);
b) reati nei quali la stessa norma incriminatrice prevede che l’evento naturalistico sia causato
da una condotta omissiva;
c) reati omissivi impropri, che vengono creati dall’art. 40, co. 2, c.p., ai sensi del quale
non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo, in
rapporto a singoli reati previsti in forma commissiva;
l’art. 40, co. 2, c.p., costituisce, peraltro, una delle norme più problematiche della parte generale del
codice penale, data la sua genericità (in palese contrasto con il principio di determinatezza);
25
ne derivano molteplici interrogativi, riguardanti in particolare:
a) le tipologie di reato in cui il reato omissivo improprio sia configurabile (essendo stato
concepito, originariamente, avendo presenti i delitti contro la vita e contro l’incolumità personale); b) la sua riferibilità, secondo l’impianto originario del codice, ai soli reati con evento
naturalistico nonché, in particolare, ai soli reati a condotta libera, cioè che non prevedano specifiche
modalità della condotta; si constata, tuttavia, la non rara applicazione giurisprudenziale dell’art. 40.
co. 2, c.p. anche a reati di pura condotta, specie nell’ambito del diritto penale economico;
c) l’ulteriore riferibilità originaria del reato omissivo improprio a condotte direttamente
impeditive dell’evento e non al contrasto diretto di un comportamento causale altrui (salvo il
caso in cui ciò costituisca un contenuto esplicito dell’obbligo);
d) la ricostruzione delle fonti dell’obbligo di impedire (sia esso un obbligo di protezione
nei confronti di qualcuno o un obbligo di controllo rispetto a determinate fonti di pericolo): in
proposito vi sono ottime ragioni che consigliano di mantenere, per ragioni di legalità,
l’individuazione delle fonti dell’obbligo nella legge o nel contratto, evitando il riferimento troppo
generico a c.d. posizioni di garanzia; si consideri, in proposito, che il passaggio da un approccio
formale a un approccio sostanziale nella lettura di una data fattispecie non risulta accettabile
quando viene a costituire un’estensione dell’ambito del punibile, in contrasto con il principio di
legalità (e in particolare con la riserva di legge): come può accadere mediante il passaggio da una
definizione delle fonti dell’obbligo di impedire fondata sulla legge o sul contratto a una definizione
fondata su meno precisabili posizioni di garanzia; ben diverso è il caso, invece, nel quale il
passaggio dall’approccio formale a quello sostanziale comporti una restrizione in senso
garantistico dell’ambito del punibile, come avviene attraverso il riconoscimento (v. supra) del
principio di offensività;
e) la non configurabilità di ogni obbligo avente significato di prevenzione come un
obbligo di impedire l’evento ai sensi dell’art. 40, co. 2, c.p. (occorre in proposito che
quest’ultima finalità emerga in modo chiaro dalla norma che istituisce l’obbligo e che siano
attribuiti al soggetto obbligato i poteri o i mezzi necessari a impedire: non sarebbe di certo
accettabile, infatti, che la moltiplicazione, negli ultimi anni, dei soggetti cui vengono attribuiti
doveri finalizzati a prevenire finisca per dilatare la sfera applicativa del reato omissivo improprio);
- con riguardo al bene giuridico tutelato i reati si distinguono in:
- reati di danno, che comportano la lesione del bene giuridico tutelato, e
- reati di pericolo, implicanti una tutela anticipata del medesimo bene: comportano,
infatti, non già la lesione, ma la messa in pericolo del bene giuridico tutelato;
i reati di pericolo si distinguono in:
- reati di pericolo concreto, nei quali si richiede al giudice di accertare che si sia
effettivamente determinato un pericolo (non un danno!) nel caso concreto per il bene oggetto di
tutela;
- reati di pericolo astratto, attraverso i quali il legislatore non richiede al giudice un
accertamento del pericolo, in quanto sussiste una base scientifica adeguata per ritenere che il fatto
risulti sempre pericoloso rispetto al bene tutelato;
- reati di pericolo presunto, da ritenersi incostituzionali perché puniscono sempre,
prevedendolo come reato, un certo fatto, senza alcuna prova scientifica che esso metta
effettivamente in pericolo nel caso concreto il bene tutelato e senza richiedere al giudice uno
specifico accertamento a tal proposito (posto che, invece, la sanzione penale incide in modo
certo su beni fondamentali del condannato);
esemplificazione in materia di incendio (art. 423 c.p.): tale delitto, posto a tutela della pubblica
incolumità (non del patrimonio!), veniva tradizionalmente utilizzato, con riguardo al secondo comma
(incendio di cosa propria), come modello di un reato di pericolo concreto (in quanto la norma precisa
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in tal caso «se dal fatto deriva pericolo per la pubblica incolumità») e, con riguardo al primo comma
(incendio di cosa altrui), come modello di un reato di pericolo presunto, non essendo esplicitamente
richiesta, in tale diverso caso, alcun accertamento da parte del giudice circa il determinarsi in concreto
di un pericolo;
stante l’incostituzionalità di principio dei reati di pericolo presunto, si è peraltro addivenuti a una
lettura dello stesso art. 423, co. 1, c.p., la quale ravvisa nel cagionare un incendio non un mero
appiccare il fuoco, bensì il produrre un fuoco di caratteristiche tali da manifestarsi oggettivamente
pericoloso per l’incolumità personale: tesi questa fatta propria in due occasioni dalla stessa Corte
costituzionale (n. 286/1974 e n. 71/1979), che ha per l’appunto richiesto, ai fini dello stesso art. 423,
co. 1, c.p., un evento idoneo a creare una situazione di pericolo per la pubblica incolumità (sebbene
utilizzando l’avverbio potenzialmente, piuttosto che l’avverbio concretamente: tuttavia, una
interpretazione teleologica costituzionalmente orientata conduce a esigere il realizzarsi effettivo del
pericolo);
si noti altresì che la distinzione fra reati di pura condotta e reati con evento naturalistico non
coincide affatto con la distinzione fra reati di danno e reati di pericolo (che attiene al bene
tutelato): posto che possono ben darsi reati con evento naturalistico, come ancora una volta il
cagionare un incendio ai sensi del cit. art. 423 c.p., che costituiscono reati di pericolo (per quanto
concerne l’incendio, nei confronti della pubblica incolumità);
- con riguardo alla catalogazione legislativa, i reati si distinguono in due categorie, le quali si
riconoscono in modo formale a seconda del tipo di pene previste (v. art. 17 c.p.): delitti, sanzionati con l’ergastolo, la reclusione o la multa, i quali richiedono il dolo, salvo che sia
prevista espressamente l’ipotesi colposa (v. art. 42, co. 2 c.p.) e
contravvenzioni, sanzionate con l’arresto o l’ammenda, le quali sono sempre punibili sia per dolo
che per colpa (v. art. 42, co. 4, c.p.);
nel codice penale i delitti sono previsti nel libro II, mentre le contravvenzioni nel libro III;
19.4
- operata una visione sintetica degli elementi del reato, si tratta ora di ripercorrerli secondo il percorso
accertativo proprio del processo, che muove a ritroso dall’evento (prendiamo in considerazione, per
semplificare, il modello di un reato con evento naturalistico, ma quanto si dirà vale, in linea di
principio, anche con riguardo all’evento in senso giuridico, cioè all’offesa del bene tutelato, che deve
pur sempre sussistere anche nei reati di pura condotta);
il giudice dovrà dunque verificare, in primo luogo, se l’evento sia stato causato da unacondotta
umana (o, comunque, da un fattore naturalistiao a sua volta attivato da una condotta umana): posto
che, ovviamente, è solo di tale eventualità che si occupa il diritto penale; il giudice dovrà dunque
accertare il sussistere di un nesso di causalità tra l’evento stesso e una tale condotta;
simile problematica, si osservi, riguarderà soprattutto i reati colposi, come dimostra l’esperienza
giurisprudenziale: posto, infatti, che la condotta dolosa mira a immutare, affinché si producal’evento,
un contesto situazionale nel quale, altrimenti, l’evento stesso pressoché certamente non si produrrebbe,
è quasi impossibile che, ove l’evento si sia prodotto e vi sia stato il dolo di produrlo, possano esservi
dei dubbi sulla causalità della condotta; mentre ove l’evento si sia prodotto, ma nessuna condotta sia
stata prescelta proprio per produrlo (cioè non vi sia dolo intenzionale), può darsi assai più facilmente
il dubbio che l’evento sia stato prodotto, piuttosto che dalla condotta pericolosa (colposa) che sia stata
posta in essere, da qualche altra sequenza causale;
successivamente, il giudice dovrà interrogarsi, come vedremo, circa la prospettiva mentale che abbia
dato causa alla condotta produttiva dell’evento, interrogandosi, dunque, in merito a un secondo nesso
causale, nel cui ambito la condotta non costituisce più l’antecedente, bensì il conseguente rispetto alla
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prospettiva mentale;
- il codice penale esige all’art. 40, co. 1, che sussista il nesso di causalità tra condotta ed evento, ma
non ne dà la definizione; questa va pertanto ricavata alla luce della nozione di causalità valida in
ambito scientifico;
in tal senso la definizione del nesso di causalità risulta espressa dalla formula della condicio sine qua
non (si può dire che B è stato causato da A ove, senza A, B non si sarebbe prodotto);
(a sua volta, la causalità di una condotta omissiva potrà essere affermata quando in assenza
dell’omissione, vale a dire ove fosse stato posto in essere il comportamento dovuto, l’evento non si
sarebbe verificato:
la formula della condicio sine qua non, tuttavia, costituisce solo la definizione del nesso di causalità,
ma non ci dice nulla circa l’effettivo sussistere di quel nesso; a questo fine sarà necessario, pertanto,
disporre di un criterio idoneo ad accertare che sussistano effettivamente le condizioni indicate dalla
formula suddetta, cioè che davvero, eliminato l’antecedente, il conseguente sarebbe venuto meno
(giudizio ipotetico controfattuale);
un criterio che è dato, nel nostro caso, dalla riconducibilità dell’ipotesi causale formulata dal giudice
nel caso concreto a regolarità già note, cioè a generalizzazioni (leggi scientifiche) che ricolleghino
elementi ripetibili dell’antecedente al verificarsi di elementi ripetibili del conseguente: così da potersi
concludere che il conseguente si è verificato in quanto s’è verificato l’antecedente e che, eliminando
quest’ultimo, quel conseguente non si sarebbe realizzato (modello della sussunzione sotto leggi
scientifiche);
tuttavia non disponiamo, in molti casi, di leggi scientifiche universali (del tipo “tutte le volte che A,
allora B”), ma di sole leggi statistiche (del tipo “tutte le volte che A, B si verifica in una certa
percentuale di casi); le leggi statistiche, però, non consentono di raggiungere il necessario livello di
prova oltre ogni ragionevole dubbio del nesso causale: se tra A e B intercorre solo una legge
statistica, A è idoneo a cagionare B ma non è detto che lo abbia cagionato, perché B potrebbe essere
stato prodotto da un antecedente causale diverso (problema della pluralità delle cause); il che
evidenzia, fra l’altro, la non validità a risolvere il problema causale delle vecchie teorie della c.d.
causalità adeguata, fondate sul riscontro della mera idoneità causale della condotta (cioè della sua
pericolosità ex ante);
dunque, va affermata la tendenziale necessità del ricorso, circa la prova del nesso causale, a leggi
universali, posto che ove la condotta sia legata all’evento da una legge soltanto statistica (meglio, ove
condotta ed evento siano sussumibili sotto una legge meramente statistica), l’evento potrebbe essere
stato prodotto anche da una condotta diversa;
ove nondimeno si utilizzino leggi statistiche (che siano quantomeno espressive di una idoneità
statistica elevata), dovrà di conseguenza escludersi, per conseguire un livello di prova oltre ogni
ragionevole dubbio, che abbia agito una condotta diversa da quella cui si riferisca quella specifica
legge statistica, cioè dovrà escludersi qualsiasi eventuale fattore causale alternativo (come affermato
da C s.u. 11-9-2002, Franzese): fine per il quale il giudice potrà utilizzare due criteri:
- quello storico (domandandosi quale dei potenziali fattori causali alternativi si sia
effettivamente verificato) e
- quello consistente nella migliore descrizione possibile dell’evento (meglio è descritto l’evento,
più si restringe il ventaglio degli antecedenti causali plausibili); nondimeno, l’attendibilità oltre ogni ragionevole dubbio della prova così conseguita rimane pur
sempre problematica in relazione alla possibilità che possano aver operato nel caso concreto,
causando l’evento, fattori causali non noti;
la condotta, tuttavia, che si sia provato costituire condicio sine qua non dell’evento rappresenta, di
28
quest’ultimo, soltanto una condizione necessaria (cioè sine qua non), la quale onde produrre l’evento
medesimo ha agito nel contesto di altri fattori causali necessari; si tratta del c.d. problema delle
concause, sia di carattere fisico-naturalistico, sia consistenti, spesso, in altre condotte umane,
contemporanee o, soprattutto, antecedenti (fino, per paradosso, al ruolo pur sempre causale della
madre, ma anche del padre…, che ha messo al mondo l’autore del reato): l’insieme di tutti i fattori
necessari per il prodursi di un evento ne individua la condizione sufficiente, che in termini assoluti
non è ricostruibile (bisognerebbe poter spiegare l’universo fin dalle sue origini…);
a questo punto, dunque, diventa indispensabile domandarsi quale debba essere, nel quadro delle molte
condotte umane che siano state antecedenti causali dell’evento, la condotta penalmente rilevante: la
condotta, cioè, che sia da ritenersi rilevante ai fini della c.d. imputazione oggettiva, comune alla
responsabilità per dolo e per colpa:
di questo problema il codice penale si manifesta consapevole all’art. 41 c.p., il cui co. 2 prevede che
«le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità [cioè la rilevanza di condotte causali
pregresse] quando sono state da sole sufficienti a determinare l’evento». Tale norma, tuttavia, ha
suscitato sempre difficoltà interpretative, dato l’utilizzo del concetto, in sé contraddittorio, di cause
da sole sufficienti (essa, del resto, sembra comprensibile solo alla luce di quanto immediatamente
preciseremo nel testo, cioè solo ove venga riferita ai casi in cui l’evento lesivo, pur causalmente
riconducibile alla condotta di un certo soggetto, rappresenti il concretizzarsi di un rischio
radicalmente diverso da quello che tale soggetto abbia attivato: si pensi all’ipotesi in cui A cagioni il
ferimento di B in un incidente stradale senza porlo in pericolo di vita, ma poi B deceda in ospedale
per un incendio, per una trasfusione infetta o per un errore medico);
simile condotta penalmente rilevante non potrà che essere una condotta illecita: non tuttavia una
qualsiasi condotta illecita, bensì una condotta che abbia violato una regola finalizzata a impedire
il verificarsi dell’evento (sovente definita quale regola cautelare o, in senso lato, di diligenza) e che,
in tal senso, abbia prodotto un rischio non consentito di causazione dell’evento stesso (per cui
l’evento prodottosi risulta rilevante ai fini penali se costituisce la concretizzazione dello specifico
rischio illecito attivato dalla condotta):
ciò vale, come s’è detto, per la forma base del rimprovero soggettivo, cioè per la colpa, ma anche
rispetto al dolo: la volontà soggettiva di produrre un evento in sé rilevante ai fini penali non
rileverebbe ove fosse perseguita – per quanto l’ipotesi costituisca un caso poco realistico – attivando
una condotta del tutto lecita: si pensi all’esempio classico del nipote che, col fine di vedere morto lo
zio ricco da cui vorrebbe ereditare, gli consigli di fare un viaggio in aereo piuttosto che in treno, per
vederlo morto nel caso in cui l’aereo precipiti, come poi, incredibilmente, accade;
20.4
dobbiamo constatare che le condotte umane hanno struttura finalistica:
- ciascuna condotta umana cosciente e volontaria (v. art. 42, co. 1, c.p.) è conseguenza di una
prospettiva mentale finalistica (cioè dell’instaurarsi attuale nella mente dell’intento di perseguire
un certo risultato), orientata o a una modifica del mondo esterno o alla modifica di una condizione
soggettiva (quale si realizza, poniamo, attraverso la condotta dello studiare);
ciò secondo lo schema PX–>C–>X (prospettiva mentale, condotta, risultato oggetto della
prospettiva mentale);
si noti che le prospettive mentali (le intenzioni) sono realtà, sebbene realtà di tipo non empirico
(non constatabili sul piano di un mero accertamento materiale): può dirsi, anzi, che costituiscono le
realtà più significative della vicenda umana, posto che tutto ciò che gli esseri umani hanno
29
realizzato, nel bene e nel male, lungo la storia costituisce l’effetto di prospettive mentali e di
condotte scelte e adottate per conseguire l’oggetto di tali prospettive;
- la produzione di eventi voluti e non voluti:
lo schema della responsabilità dolosa: (PX=E C X=E) e lo
schema della responsabilità colposa: (PX C↓E X);
nella prima l’oggetto della prospettiva mentale è proprio l’evento penalmente rilevante causato
dalla condotta;
nella seconda, l’oggetto della prospettiva mentale è un risultato diverso (x) dall’evento penalmente
rilevante (E), ma la condotta C cagiona l’evento E come risultato non voluto (deve trattarsi, come
vedremo, di una condotta che crea un rischio non consentito della causazione di E, vale a dire che
viola una regola finalizzata a evitare l’evento E);
si noti che si collocano nel secondo schema anche le figure del dolo diretto e (del dolo eventuale (v.
infra), figure, queste ultime, di creazione dottrinale e giurisprudenziale (cioè non previste dal codice
penale) nelle quali l’evento, in realtà, non è voluto (non è oggetto di intenzione); il che rappresenta,
specie per il dolo eventuale, una palese forzatura di quanto stabilito all’art. 43 c.p. e, in tal modo, del
principio costituzionale di legalità (artt. 25 Cost. e 1 c.p.);
- sulla base di quanto s’è detto, può essere utile illustrare l’iter motivazionale complessivo del
comportamento umano, vale a dire il concatenarsi delle triadi prospettiva-condotta-evento;
ciascuna catena PX C X (prospettiva mentale, condotta, evento) costituisce, nel suo insieme, la
condotta (CA) derivante da una prospettiva mentale antecedente (PA) e orientata a un evento
ulteriore (EA), catena questa che, a sua volta, costituisce la condotta CB derivante da una prospettiva
antecedente PB e orientata a un evento ulteriore EB, e così via (a sua volta la condotta C può essere
suddistinta in ulteriori catene del tipo PX C X, fin quando la condotta non potrà più essere
suddistinta essendo venuta a coincidere con un mero movimento corporeo); tutto questo secondo il
seguente schema:
si consideri che, talora, la norma penale dà rilievo a prospettive pregresse – alla prospettiva della
prospettiva – quali moventi o motivi (per esempio ai fini di determinate circostanze aggravanti o
attenuanti o ai fini dell’art. 133 c.p.), oppure come fine ulteriore necessario per il configurarsi del
reato (casi di dolo specifico);
la categoria del dolo specifico concerne, in tal senso, i casi in cui la norma penale richiede, per il
configurarsi del fatto tipico, che la condotta risulti finalizzata a un certo scopo ulteriore rispetto alla
causazione dell’evento naturalistico (o rispetto alla condotta, ove si tratti di un reato di pura condotta),
senza necessità, tuttavia, che tale scopo si realizzi;
30
lo schema appena illustrato consente fra l’altro di riflettere sulla troppo scarsa attenzione dedicata dal
diritto penale all’interrogativo circa il perché si determini una data prospettiva mentale, da perseguirsi
secondo un dato progetto causale (per lo più il diritto penale si limita a ricostruire per esclusione le
prospettive mentali che abbiano operato, senza interrogarsi ulteriormente: salvo solo il caso estremo
costituito dall’esclusione dell’imputabilità);
il profilo psicologico del reato:
- la coscienza e volontà della condotta ai sensi dell’art. 42, co. 1, c.p., come requisito generale di
tutti i reati ed espressione – esso pure – del necessario carattere personale della responsabilità
penale (ex art. 27, co. 1, Cost.): requisito che non attiene alla colpevolezza, bensì allo stesso
fatto tipico soggettivo, e che non va confuso con la rappresentazione (o previsione) e la volizione
dell’evento (scil., del fatto tipico), di cui all’art. 43, in quanto elementi del dolo (sebbene il primo
sussista anche nel caso di colpa cosciente);
la tendenza, non condivisibile, a normativizzare le nozioni di coscienza e volontà della condotta in
riferimento ad atti inconsapevoli (c.d. automatici o riflessi), ma che, si suppone, l’agente avrebbe
potuto dominare; in ogni caso, la suitas non sarebbe da riferirsi a valutazioni, che devono rimanere
successive, concernenti la colpa, bensì dovrebbe semmai comportare, quantomeno, che la condotta di
cui si discuta rimanga causalmente correlata a una pregressa condotta (davvero) cosciente e volontaria
di tale soggetto.
- la previsione del possibile realizzarsi dell’evento quale caratteristica sia del dolo che della colpa
con previsione, o cosciente (sussistendo, invece, nella colpa incosciente la mera prevedibilità
dell’evento): si noti che l’art. 43 c.p. (come anche l’art. 61, n. 3), non parla ai fini della colpa cosciente
di (mera) rappresentazione del rischio, cioè di mera rappresentazione del carattere pericoloso della
condotta (cioè del rischio a essa riferibile), ma di rappresentazione (previsione) dell’evento come
possibile esito della condotta: evento che, dunque, dev’essere stato oggetto di rappresentazione ai fini
della colpa cosciente secondo le caratteristiche concrete essenziali del suo realizzarsi (sulla
problematicità di un simile accertamento v. infra);
- il reato doloso in rapporto a quello colposo (introduzione); le definizioni del reato colposo (o
contro l’intenzione) e del reato doloso (o secondo l’intenzione), nell’art. 43 c.p.;
in particolare, la definizione del dolo nell’art. 43 c.p., fondata sulla rappresentazione e sulla
volizione dell’evento; è la volizione, peraltro, che costituisce elemento caratteristico del dolo, in
quanto la rappresentazione dell’evento, come già si diceva, può essere presente anche nella colpa, nel
qual caso si tratterà di colpa cosciente (sui profili problematici relativi all’accertamento del profilo
rappresentativo v. infra);
- richiamando quanto già s’è detto supra circa la struttura finalistica delle condotte umane,
per valutare se una condotta di cui si sia già comprovata la causalità rispetto al prodursi
dell’evento penalmente significativo risulti dolosa o colposa (o anche caratterizzata da dolo
diretto o da dolo eventuale), vale a dire per accertare l’elemento soggettivo del reato, il giudice
dovrà interrogarsi preliminarmente – come già sappiamo – su quale sia stata la prospettiva
mentale (P) che abbia dato causa alla condotta (C) produttiva dell’evento (E) e dunque, in
particolare, se tale prospettiva abbia avuto per oggetto un evento X qualsiasi (PX) o proprio
l’evento E (PE): caso, quest’ultimo, in cui la condotta potrà dirsi caratterizzata dal dolo
intenzionale;
in particolare, pertanto, l’accertamento della volizione (ovvero dell’intenzionalità) nel dolo,
richiederà di prendere in considerazione il nesso causale tra la condotta (C) e la prospettiva (P) che,
per l’appunto le abbia dato causa, tendendo conto del fatto che mentre nell’accertamento del nesso di
31
causalità tra la condotta (C) e l’evento (E) la condotta stessa costituisce l’antecedente (rispetto
all’evento), nell’accertamento dell’elemento soggettivo la condotta costituisce il conseguente,
rispetto alla prospettiva mentale (P); come, allora, il giudice potrà accertare quale sia stata la prospettiva (P) che abbia dato causa alla
condotta (C) e, in particolare, se tale prospettiva sia stata proprio quella di cagionare l’evento (E): o, in altre parole, il giudice come dovrà condurre l’accertamento del dolo intenzionale (o del suo non
sussistere)?
a tal proposito va segnalata innanzitutto l’inadeguatezza del riferimento generico, circa
l’accertamento del dolo (intenzionale), a massime di esperienza, cioè a regolarità riguardanti il
comportamento umano in rapporto alla presenza di un dato fattore (del tipo: chi ha subìto un torto, si
vendica): regolarità, si noti, che comunque saranno sempre di tipo statistico, stante la capacità di
autodeterminazione degli esseri umani (per cui, a differenza delle leggi scientifiche riscontrabili tra
accadimenti naturalistici, il fatto che una massima di esperienza possa essere smentita in un certo
numero di casi non la falsifica: è contemporaneamente vero, per esempio, sia che vi sono persone le
quali avendo subìto un torto si vendicano, sia che si sono persone le quali avendo subìto un torto non
si vendicano):
il rischio, infatti, è quello di trascurare, facendo riferimento per l’accertamento del dolo a massime di
esperienza (è, in effetti, abbastanza facile reperire massime di esperienza utili all’ipotesi accusatoria),
fattori rilevanti nel caso concreto che le smentiscano; per esempio, se A ha travolto, in automobile, B
e risulta che A avesse subìto in precedenza dei torti da B, si potrebbe essere indotti a concludere che
la condotta di A è stata dolosa, in forza della massima di cui sopra: quando invece l’attenta
considerazione dell’intero contesto situazionale potrebbe condurre a conclusioni diverse;
in realtà, per accertare che proprio una certa prospettiva mentale P abbia dato causa alla condotta C
e, quindi, per accertare il dolo intenzionale (cioè che la prospettiva P fosse proprio quella di cagionale
l’evento E verificatosi), si dovrà escludere ogni diversa prospettiva mentale che possa
plausibilmente aver dato causa alla condotta: il che può avvenire solo attraverso la descrizione
più accurata possibile del contesto in cui la condotta è stata tenuta (meglio, infatti, vienedescritto
tale contesto, più si riduce il ventaglio delle prospettive rispetto ad esso plausibili);
si pone, con ciò, una problematica simile a quella già considerata in materia di causalità, con riguardo
alla pluralità delle cause (v. supra): salvo che nel nostro caso, a differenza di quello richiamato, non
sarà utilizzabile, in aggiunta, il criterio storico: circa l’accertamento della causalità tra condotta ed
evento, infatti, si discute di un conseguente (l’evento) e di un antecedente (la condotta ipotizzata
causale) che si sono entrambi verificati, e si tratta di stabile se tra di essi c’è stato un nesso causale,
laddove invece circa l’accertamento del dolo è dato solo il conseguente, rappresentato dalla condotta,
e si tratta di individuare l’antecedente, vale a dire quale prospettiva mentale abbia dato causa alla
condotta stessa);
- constateremo più oltre, dopo aver analizzato la responsabilità per colpa, come giurisprudenza
e dottrina abbiano ritenuto di poter ravvisare il dolo non soltanto secondo i requisiti appena
descritti secondo la formulazione dell’art. 43, co. 1, c.p. (dolo intenzionale), ma anche in due
situazioni (di
c.d. dolo diretto e dolo eventuale, o indiretto) nelle quali l’evento, in realtà, non è voluto (non è
oggetto di intenzione): con una palese forzatura, almeno per quanto concerne il dolo eventuale, di
quanto previsto dal citato art. 43, co. 1, c.p. e, in tal modo, del principio costituzionale di legalità (artt.
25 Cost. e 1 c.p.);
26.4
il reato colposo:
32
- gli elementi descritti in precedenza come requisiti necessari dell’imputazione oggettiva (v.
supra), costituiscono la base per la seconda forma di manifestazione del fatto tipico soggettivo, che
è quella colposa;
la responsabilità per colpa richiede, infatti, che l’evento lesivo prodottosi costituisca la conseguenza
non voluta di una condotta la quale abbia creato il rischio non consentito della sua causazione,
così che il rimprovero di colpa consiste, essenzialmente, nel non aver ottemperato, trovandosi nella
condizione di poterlo fare, allo standard comportamentale richiesto, nell’ambito di una certa
attività, onde evitare il prodursi dell’evento offensivo determinatosi;
- su questa base, emerge quella che possiamo definire un’aporia di fondo con riguardo allo schema
del reato colposo di evento, vale a dire una contraddittorietà del medesimo sia dal punto di vista
della razionalità preventiva, sia rispetto al principio di colpevolezza: il reato colposo, infatti,
colpisce il soggetto più sfortunato fra molti trasgressori egualmente rimproverabili, vale a dire il
solo soggetto la cui condotta antidoverosa (e pericolosa) sfocia effettivamente nel prodursi
dell’evento lesivo;
ciò non può produrre una prevenzione efficace, in quanto il soggetto che agisce in tal modo farà
ampiamente conto, oltre che sull’incidenza della cifra oscura (cioè sulla possibilità, che caratterizza
tutti i reati, di non essere individuato come trasgressore), sull’alta probabilità che l’evento lesivo non
si realizzi;
ma ciò si pone altresì in contrasto con il principio di colpevolezza, dato che non appare accettabile
il fatto per cui, a parità di condotta colpevole (di c.d. disvalore della condotta), l’assenza di
conseguenze penali – non essendosi verificato l’evento lesivo – o il configurarsi di conseguenze
penali talora drammatiche – ove l’evento lesivo si sia verificato – venga a dipendere dal caso:
potrebbe in tal senso parlarsi di una responsabilità oggettiva mascherata:
il problema risultava meno grave fino ad alcuni anni orsono, perché il reato colposo di evento non
conduceva mai, in pratica, a scontare una pena detentiva: ma oggi, in alcuni ambiti (relativi soprattutto
alla circolazione stradale e all’infortunistica sul lavoro) non è più così, posto che in essi il reato
colposo può comportare detenzioni di lunga durata;
- vi sarebbe pertanto l’esigenza di operare, piuttosto, un intervento anticipato rispetto al momento
in cui una certa condotta pericolosa cagioni un evento lesivo, vale a dire un intervento riferito già
alla realizzazione delle condotte pericolose, attraverso sanzioni amministrative o sanzioni penali
non detentive (si pensi, per l’appunto, alle sanzioni concernenti la violazione delle norme sulla
circolazione stradale o delle norme intese alla prevenzione degli infortuni sul lavoro);
risulta peraltro disfunzionale a questo fine la mancanza di un apparato di pene principali non detentive
(si consideri che l’alternativa tra competenza amministrativa oppure penale circa l’accertamento e la
sanzione di illeciti non sanzionati in modo detentivo dipende soprattutto da considerazioni
concernenti l’opportunità dell’affidare o meno alla pubblica amministrazione la gestione di
determinati contenziosi, vale a dire circa la sussistenza o meno della necessità di fare pur sempre
affidamento, per una data materia, ai maggiori poteri di indagine e alla peculiare indipendenza della
magistratura);
- alla luce di quanto s’è detto emerge una vere e propria c.d. schizofrenia del legislatore penale,
che ha agito negli ultimi decenni in modo ambivalente: ha sì introdotto, infatti, talune discipline
finalizzate all’intervento diretto sulle condotte pericolose (cioè di c.d. prevenzione anticipata), ma
nel contempo ha progressivamente enfatizzato, in alcuni settori, il livello della pena applicabile nel
caso della produzione di un evento non voluto, come accade nelle ipotesi aggravate dell’omicidio
colposo e delle lesioni colpose o in quelle dell’omicidio stradale e delle lesioni stradali (v. infra): fino
a livelli di pena vicini a quelli propri dell’omicidio doloso;
- ciò premesso, ai fini della colpa occorre
33
1. in primo luogo, che il soggetto cui venga addebitata l’illiceità della condotta sia un
soggetto competente a contrastare il prodursi dell’evento lesivo nei confronti della persona
offesa: un soggetto, dunque, che possa essere individuato come garante rispetto alla gestione del
rischio che si sia risolto a danno della specifica persona offesa (il datore di lavoro in un’impresa di
nettezza urbana, pur dovendo governare i fattori di rischio derivanti, per i lavoratori,
dall’espletamento delle loro mansioni, non può essere ritenuto competente rispetto al mal
funzionamento di un cancello presso uno dei tanti luoghi di raccolta dei rifiuti, ove ne sia derivato
un danno per il lavoratore; e sebbene, per esempio, fossero presenti in un cantiere fattori di
rischio che, in effetti, si sarebbero dovuti annullare o controllare, ma ciò non può comportare
la responsabilità del titolare di quel cantiere rispetto a danni che si siano prodotti verso chi,
poniamo, si sia introdotto nottetempo nel cantiere stesso, avendo forzato il cancello d’ingresso:
esempi, questi, tratti dalla giurisprudenza della Cassazione);
sempre ai fini della colpa, occorre altresì
2. che l’evento non voluto rilevante sul piano penale costituisca l’effetto, ex art. 43 c.p.,
- o della violazione di una regola finalizzata a evitarlo scritta («inosservanza di leggi,
regolamenti, ordini o discipline»): c.d. colpa specifica;
- oppure della violazione di una regola finalizzata a evitarlo non scritta (negligenza o
imprudenza o imperizia): c.d. colpa generica;
l’evento penalmente rilevante dovrà configurarsi, in tal modo, come effetto della creazione di un
rischio non consentito del suo prodursi, attraverso la violazione di una regola scritta o non scritta
finalizzata a evitarlo;
considerato che una condotta potrà dirsi rischiosa rispetto al prodursi di un evento ove risulti idonea,
secondo un giudizio ex ante, a determinarlo (salvo il problema – v. infra – dell’entità del rischio
rilevante);
su questa base, ai fini dell’imputazione soggettiva della colpa risulterà necessario:
2.1. che il rischio dovesse essere percepito e, in particolare, che l’evento dovesse essere preveduto
da parte del soggetto agente, al pari di come l’avrebbe dovuto prevedere (secondo un iter causale
analogo a quello che abbia cagionato l’evento) qualsiasi individuo il quale avesse intrapreso una
condotta come quella di cui si discuta, nelle medesime circostanze e nelle medesime condizioni
soggettive (a parte le inadeguatezze a lui rimproverabili) in cui si sia trovato il soggetto agente:
il primo elemento del rimprovero di colpa, dunque, è dato dal fatto che il soggetto agente avrebbe
dovuto prevedere il verificarsi dell’evento;
2.2. ciò peraltro non risulta sufficiente: occorrerà altresì, affinché quel rischio possa dirsi non
consentito, che il soggetto agente avrebbe dovuto evitare di tenere la condotta: posto che correre
certi livelli di rischio non di rado è permesso dall’ordinamento e, in certi casi, è doveroso (si pensi a
un’operazione chirurgica certamente rischiosa, ma necessaria per cercare di salvare il malato);
non basta dunque, ai fini della colpa, che il possibile verificarsi di un evento offensivo come esito
della tenuta di una data condotta si dovesse prevedere o che, addirittura, sia stato effettivamente
previsto: vi sono molti casi, infatti, nei quali un agire pur implicante rischi è consentito o addirittura
doveroso;
in altre parole, non è sufficiente, ai fini del rimprovero di colpa, la prevedibilità dell’evento,
proprio perché il rischio di cui si doveva essere consapevoli potrebbe risultare consentito: per cui
è necessario domandarsi, altresì, se la condotta dovesse o meno essere evitata;
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in questo senso, il rimprovero di colpa consiste nel non aver ottemperato ai criteri comportamentali
richiesti per una certa attività onde evitare che da essa derivino eventi lesivi, vale a dire nell’aver agito
sebbene un dato evento lesivo si dovesse prevedere come conseguenza possibile della condotta, in un
contesto nel quale la condotta avrebbe dovuto essere evitata (sempre che il soggetto – v. supra – fosse
competente rispetto alla gestione del rischio nei confronti della persona offesa);
il rimprovero di colpa, pertanto, ha contenuto prioritariamente normativo, e non psicologico (come
invece il dolo), consistendo in un giudizio: quello di non aver rispettato lo standard comportamentale
richiesto per una determinata attività (ma si vedano, infra, le considerazioni sulla c.d. doppia misura
della colpa);
2.3. ma come si può rispondere alla domanda se, da parte del soggetto agente, l’evento dovesse
essere preveduto e la condotta dovesse essere evitata?
2.3.1. la risposta è più semplice quando sussista, rispetto alla condotta della quale si discuta, una
regola di diligenza scritta, cioè positivizzata (colpa specifica, cui si riferisce l’art. 43 c.p. avendo
riguardo a leggi, regolamenti, ordini o discipline): regola la quale rende palese il rischio connesso
alla tenuta di una determinata condotta e segnala entro che limiti, o con quali modalità, quest’ultima
possa essere tenuta; in tal caso, infatti, si tratterà di confrontare la condotta posta in essere dal soggetto
agente con quella espressamente richiesta (senza che l’osservanza di quest’ultima esoneri, peraltro,
da eventuali doveri comportamentali ulteriori, suscettibili di rilievo in termini di colpa generica);
appaiono alquanto discutibili, tuttavia, norme cautelari così generiche – come per esempio l’art. 141,
co. 1, d.lgs. n. 285/1982 (cod. strad.) – da rendere praticamente impossibile al soggetto agente il poter
far conto sulla correttezza della propria condotta (si consideri la problematica interazione tra la norma
richiamata – secondo cui «è obbligo del conducente regolare la velocità del veicolo in modo che,
avuto riguardo alle caratteristiche, allo stato ed al carico del veicolo stesso, alle caratteristiche e
alle condizioni della strada e del traffico e ad ogni altra circostanza di qualsiasi natura, sia evitato
ogni pericolo [!] per la sicurezza delle persone e delle cose ed ogni altra causa di disordine per la
circolazione» – e le altre norme del cod. strad. che indicano limiti precisi);
resta aperto, nondimeno, il problema della scarsa determinatezza che caratterizza le fonti della regola
scritta richiamate nell’art. 43 c.p.: il che prospetta una violazione sostanziale, circa la delimitazione
della responsabilità penale colposa anche specifica, del principio di riserva di legge;
2.3.2. l’accertamento è, invece, più problematico quando una regola di diligenza positivizzata non
sia disponibile (colpa generica, cui fa riferimento l’art. 43 c.p. avendo riguardo a negligenza,
imprudenza, imperizia), posto che in tale ipotesi il comportamento dovuto nella situazione concreta
dovrà inevitabilmente essere ricostruito a posteriori dal giudice;
2.3.2.1. a tal fine potrà dirsi, anzitutto, che l’evento doveva essere previsto quando fosse possibile
prevederlo (prevedibilità dell’evento); quando, dunque, fosse prevedibile: ma da parte di chi?
tradizionalmente, a tal proposito, di dice: da parte (dal punto di vista) dell’agente modello (l’ homo
eiusdem professionis vel condicionis), espressione che tuttavia va usata con cautela in quanto troppo
facilmente utilizzabile per riferire il giudizio a un soggetto ideale che sa sempre prevedere tutto e sa
sempre scongiurare qualsiasi evento offensivo; col pericolo che si operi una valutazione non riferita
al contesto situazionale concreto in cui abbia operato il soggetto agente e alle sue reali condizioni,
bensì alla luce di tutto quanto sia stato conosciuto a posteriori e di una regola comportamentale creata,
essa pure, a posteriori dal giudice;
appare dunque necessario precisare che quel giudizio andrà effettuato sulla base delle conoscenze
note e delle prassi comportamentali riconosciute come valide, all’epoca della condotta, nella
cerchia di coloro che svolgono l’attività o la professione della quale si discuta, avendo riguardo
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al contesto effettivo in cui abbia agito l’agente concreto e alle sue caratteristiche personali: escludendo
il rilievo dei soli fattori che siano a lui direttamente rimproverabili;
l’espressione agente modello può dunque essere utilizzata solo se intesa come riassuntiva dei requisiti
appena indicati;
non sarà sufficiente, per esempio, che si affermi la prevedibilità (o addirittura la previsione) dell’evento
conseguente a una data condotta in base al solo fatto che il soggetto agente rivesta una certa posizione
(per esempio quella di imprenditore), supponendo che abbia acquisito tutte le conoscenze, talvolta
innumerevoli, teoricamente riferibili a quella posizione: rispetto a conoscenze non ordinarie sitratterà
di domandarsi, piuttosto, se vi siano stati nel contesto concreto segnali idonei a indurre un
professionista serio del medesimo settore ad acquisire o approfondire certe conoscenze di carattere
particolare;
non potrà giungersi, peraltro, ad affermare che il giudizio sulla prevedibilità debba essere effettuato
dal punto di vista dell’agente concreto (che potrebbe non esser stato in grado di prevedere l’evento
proprio in ragione di un suo comportamento antidoveroso: si pensi a un medico che da anni non curi
il suo aggiornamento): ove così si affermasse, infatti, verrebbe meno il carattere stesso di giudizio
normativo proprio del rimprovero di colpa, cioè volto a riscontrare l’eventuale contrasto della condotta
con uno standard comportamentale socialmente richiesto;
nel senso descritto, si cerca dunque di avvicinare quanto più possibile il criterio di accertamento della
colpa generica a quello della colpa specifica (si rammenti ciò che s’è detto in rapporto alla
responsabilità medica), onde evitare accertamenti della colpa del tutto indeterminati;
2.3.2.2. si tratterà, poi, di rispondere al quesito circa il sussistere o meno del dovere di evitare la tenuta
della condotta (evitabilità della condotta), vale a dire circa il sussistere o meno, alla luce del contesto
concreto, del dovere di astenersi da una condotta pericolosa, nell’assenza di una regola scritta (come
si osservava supra, infatti, la circostanza per cui taluno agisca pur potendo prevedere o
prevedendo che la sua condotta possa talora cagionare un evento lesivo – cioè potendosi rendere
conto, o rendendosi conto, del carattere rischioso del suo agire – non implica ancora la colpa, perché
sussistono rischi consentiti e, anzi, rischi che è doveroso correre: altrimenti i chirurghi non
opererebbero mai…: ai fini della colpa, pertanto, ci si dovrà interrogare, per l’appunto, anche sulla
evitabilità della condotta);
deve osservarsi che tale giudizio – il quale andrà esso pure effettuato dal punto di vista di cui s’è detto
in rapporto al giudizio di prevedibilità – risulta meno problematico quando rischi e benefici
riguardino il medesimo individuo, potendosi operare in tal caso un bilanciamento fra gli stessi (si
pensi ai rischi e ai benefici prevedibili, per il medesimo paziente, di un difficile intervento chirurgico);
quel giudizio, invece, risulterà assai più problematico quando rischi e benefici riguardino individui
diversi: in quest’ultima ipotesi, infatti, si pone il problema se davvero il criterio della diligenza riferito
alla responsabilità colposa possa consistere nel criterio del c.d. rischio zero, cioè dalla esclusione ex
ante di qualsiasi rischio, benché minimo (il che solleva il problema generale del rischio minimo
significativo ai fini della responsabilità colposa);
a quest’ultimo proposito l’auspicio è che delle esigenze meramente precauzionali si occupi in via
diretta il legislatore, vietando espressamente quelle condotte che, sebbene a rischio statistico (una
tantum) molto basso, si ritenga non debbano essere comunque tenute (sulla base del c.d. principio di
precauzione), data la gravità degli effetti che ne potrebbero derivare; il che vale a maggior ragione
per quelle condotte la cui stessa pericolosità resti dubbia, in quanto non scientificamente provata pur
in presenza di elementi che la rendano plausibile;
2.4. non è tuttavia sufficiente, onde ascrivere la responsabilità per colpa, aver accertato secondo i
criteri summenzionati l’avvenuta violazione di una regola (scritta o non scritta) finalizzata a evitare
l’evento; bisognerà domandarsi, in effetti, non solo se il soggetto agente abbia disatteso lo
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standard comportamentale oggettivamente richiesto per una data attività, ma anche se quel
soggetto sia stato soggettivamente in grado di ottemperare a quello standard nel caso concreto
(salva l’irrilevanza scusante di cause addebitabili alla sua colpevolezza): si pensi al caso del medico
che sia costretto a rientrare in sala operatoria dopo un lunghissimo intervento chirurgico in stato di
grande stanchezza (stante l’urgenza e l’accidentale indisponibilità di altri medici in grado di affrontare
quel caso), con riguardo a un errore dovuto proprio a tale incolpevole condizione; oppure al caso in
cui le pregresse e ormai immodificabili condizioni culturali di un dato soggetto non gli abbiano
consentito di adeguarsi al comportamento dovuto; oppure al problema dei tassi di fallimento nella
percezione di segnali che avrebbero richiesto l’approfondimento di determinate conoscenze;
si tratta della problematica comunemente indicata come doppia misura (oggettiva e soggettiva) della
colpa, problematica negli ultimi anni giustamente valorizzata onde contrastare le tendenze, di cui s’è
detto, a operare presunzioni nell’accertamento della prevedibilità e dell’evitabilità dell’evento;
si noti, peraltro, che la corretta ricostruzione della colpa generica secondo quanto sopra s’è evidenziato
(riferendo, cioè, i giudizi di prevedibilità dell’evento e di evitabilità della condotta al contesto effettivo,
situazionale e personale, in cui abbia agito l’agente concreto – escluso soltanto il rilievo di fattori del
cui sussistere lo stesso soggetto agente risulti responsabile – potrebbe stemperare, almeno in certa
misura, la questione;
quest’ultima si configura particolarmente delicata, invece, con riguardo alla colpa specifica, posto che
in quest’ultimo caso la regola scritta risulta espressa non con riguardo alle peculiarità della situazione
concreta in cui si sia trovato ad agire un determinato soggetto, bensì in termini generali;
il tema della doppia misura della colpa esige che siano tracciati in modo non strumentale i confini della
c.d. colpa per assunzione, cioè della colpa dipendente dall’aver assunto un’attività o un compito
nonostante la consapevolezza del non possedere competenze adeguate a quelle richieste per il loro
svolgimento. È chiaro, infatti, che potrebbe risultare facile aggirare la problematica della doppia misura
della colpa presumendo nel soggetto agente la coscienza di tale inadeguatezza o non considerando
un’eventuale impossibilità dell’astensione;
3. ciò considerato, deve altresì rilevarsi che ai fini della responsabilità per colpa non è sufficiente che
risulti causale la condotta posta in essere fisicamente dal soggetto attivo, come richiesto dall’art. 40,
co. 1, ma altresì che risulti causale la violazione della regola finalizzata a evitare l’evento, come
richiesto dall’art. 43 c.p. a proposito del reato colposo: norma la quale richiede – è la c.d. causalità
della colpa – che l’evento si sia verificato «a causa di negligenza o imprudenza o imperizia ovvero
per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline», cioè che l’evento si sia verificato come
conseguenza causale della violazione di una regola – nel primo gruppo di casi non scritta, nel
secondo scritta (v. supra) – finalizzata a evitarlo;
pertanto si potrà dire (applicando la formula della condicio sine qua non) che la causalità di tale
violazione sussiste quando nel caso in cui la violazione non ci fosse stata – cioè nel caso in cui la
regola suddetta fosse stata rispettata – l’evento non si sarebbe verificato;
mentre non sussisterà la causalità della suddetta violazione, e quindi non sussisterà il reato, quando
anche nel caso in cui la violazione non ci fosse stata – cioè anche nel caso in cui la regola suddetta
fosse stata rispettata – l’evento si sarebbe verificato ugualmente: in altre parole quando l’evento non
sarebbe stato evitabile nemmeno tenendo il comportamento doveroso, cioè il comportamento
alternativo lecito; dunque, dovrà accertarsi, attraverso il giudizio controfattuale tipico della prova
relativa alla causalità, se l’evento si sarebbe o meno verificato ove fosse stato tenuto il comportamento
doveroso, cioè il comportamento alternativo lecito;
in altre parole, necessita che sia provata l’evitabilità dell’evento attraverso il rispetto della regola
37
che il soggetto agente avrebbe dovuto rispettare (in questo caso, dunque, non viene in gioco
l’evitabilità della condotta, di cui supra 2.3.2.2., bensì l’evitabilità dell’evento);
la prova della causalità penalmente significativa richiederà sempre, in questo senso, un giudizio
controfattuale riferito al comportamento alternativo lecito (non è decisivo il fatto che guidare
un’automobile sia stato causa di una lesione, bensì il fatto che lo sia stato, per esempio, il superamento
del limite di velocità: e ciò lo si potrà affermare ove si provi che, nel caso in cui il limite fosse stato
rispettato, l’evento non si sarebbe prodotto, mentre non lo si potrà affermare nel caso in cui l’evento
si sarebbe prodotto ugualmente anche rispettando quel limite: ad esempio perché una persona si sia
immessa sulla carreggiata immediatamente prima del sopraggiungere di un’automobile, rendendo
vano l’effetto di qualsiasi frenata; del pari, la responsabilità colposa del medico che pure abbia agito
in modo antigiuridico dovrà essere esclusa ove l’evento dannoso per il paziente si sarebbe prodotto
anche se il medico avesse tenuto il comportamento corretto);
non basta, si noti, che sia risultata causale la violazione di una regola qualsiasi, ma necessita che sia
risultata causale la violazione proprio di una regola finalizzata a evitare l’evento: se Tizio
tenendo la sinistra nella guida di un veicolo fa schizzare un sassolino che acceca una persona, la sua
violazione è sì risultata causale, ma non costituisce la violazione di una regola finalizzata a evitare
quel tipo di eventi; se il medico violando il consenso, sebbene rispettando la lex artis (v. supra), ha
operato essendone derivato un danno per il malato ha del pari posto in essere una trasgressione che è
risultata causale, non costituente, tuttavia, la violazione di una regola finalizzata a evitare un danno
alla salute;
si consideri inoltre che, diversamente dai casi in cui una condotta può essere tenuta se si rispettano
certe regole, nei casi in cui una condotta non dev’essere essere mai tenuta (p. es. sparare a una
persona) il giudizio sulla causalità della condotta coincide con il giudizio sulla causalità della colpa:
chiedersi, infatti, che cosa sarebbe avvenuto se si fosse tenuto il comportamento alternativo lecito
coincide, in quel caso, con il chiedersi che cosa sarebbe avvenuto se non si fosse tenuta la condotta
stessa, in quanto sempre illecita;
va peraltro evidenziato un elemento contraddittorio nella ricostruzione della c.d. causalità della
colpa: mentre il giudizio controfattuale nel caso di prova della causalità relativa alla condotta deve
attestare oltre ogni ragionevole dubbio che in assenza della condotta (attiva od omissiva) l’evento
non si sarebbe realizzato, nel giudizio controfattuale relativo al comportamento alternativo lecito in
tema di reati commissivi colposi si è soliti ritenere sufficiente, per affermare la responsabilità per
colpa, il fatto che tenendo il comportamento alternativo lecito vi sarebbe stata una significativa
probabilità di non realizzazione dell’evento offensivo (un indirizzo dottrinale che può considerarsi
particolarmente sensibile ha richiesto il sussistere di una probabilità superiore, per lo meno, al 50%);
la razionalità di una simile diversità di valutazione, tuttavia, sfugge: tanto più ove si consideri che è
piuttosto facile descrivere un medesimo comportamento sia come omissivo, sia come commissivo
colposo per mancato rispetto di un certo adempimento (secondo la visione tradizionale, del resto,
finirebbe per essere più garantito nell’ipotesi della causazione di un danno, poniamo, il medico che
abbia omesso in radice di visitare il malato, contravvenendo ai suoi doveri, rispetto al medico che
abbia correttamente visitato il medesimo e, successivamente, abbia attivato la terapia necessaria, ma
compiendo un errore nel corso della sua esecuzione).
27.4
si rammenti che l’imputazione del reato per colpa solleva molte ulteriori problematiche particolari; fra
di esse, per esempio:
- il tema relativo alla differenziazione delle responsabilità nell’ambito di equipe o di
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collegi (consigli di amministrazione, collegi peritali, ecc.);
- il tema dell’affidamento che possa essere legittimamente riposto, senza ulteriore verifica,
nella correttezza di comportamenti altrui;
- il tema della c.d. colpa di organizzazione, cioè della rilevanza ai fini del prodursi di un
evento offensivo non voluto di carenze organizzative o strutturali a molte del comportamento
posto in esse dal soggetto che abbia tenuto la condotta immediatamente lesiva (si pensi
all’inadeguatezza di una diagnosi medica per la obsolescenza dei macchinari disponibili);
- il tema della delega di funzioni, da parte del soggetto titolare di obblighi nell’ambito di
una organizzazione complessa;
- veniamo ora al problema, già evidenziato, costituito dalla introduzione, senza una base
normativa, delle figure del dolo diretto e del dolo eventuale, riferite a particolari situazioni in cui
l’evento, anche se preveduto, non è voluto, al pari di quanto accade nella colpa cosciente;
1. meno problematica risulta la figura del dolo diretto, essendo essa chiaramente caratterizzata da
uno stato psicologico diverso dal dolo intenzionale, ma anche dalla colpa cosciente; il dolo
diretto si caratterizza, infatti, per la certezza oggettiva oltre ogni ragionevole dubbio e per la
cognizione soggettiva nei medesimi termini del realizzarsi dell’evento non voluto (il criterio è quello
della certezza oltre ogni ragionevole dubbio, non quello dell’alta probabilità!);
nel dolo diretto, dunque, il soggetto agente non è semplicemente consapevole di esporre taluno, con
la sua condotta, a un certo rischio (come nella colpa cosciente), ma è pienamente disposto, per
raggiungere lo scopo della sua condotta, a pagare il prezzo costituito dal verificarsi (certo) dell’evento
lesivo in sé non voluto;
2. le cose stanno in modo assai diverso per il dolo eventuale, che vorrebbe individuare un
elemento aggiuntivo rispetto alla rappresentazione in termini di possibilità (e non di certezza) di un
evento non voluto propria della colpa cosciente, in modo da far sì che una condotta avente le
caratteristiche di quest’ultima sia punita non a titolo di colpa, ma a titolo di dolo: elemento
aggiuntivo la cui individuazione si è rivelata oltremodo incerta;
l’estensione del dolo alla figura eventuale è stata inizialmente riferita ad eventi (per lo più di sangue)
derivanti da condotte di base illecite (del tipo, rapinatore che per darsi alla fuga spara all’impazzata,
o “punta” ad alta velocità una pattuglia di polizia, provocando la lesione o la morte della vittima quale
fatto per sé non voluto ed ex ante incerto;
successivamente si è avuta un’estensione del ricorso a tale categoria nell’ambito penale economico, in
quanto talora la giurisprudenza non voleva limitare la punibilità di delitti economici al solo caso in cui
risultasse provato il dolo intenzionale o diretto (si rammenti, infatti, che ai sensi dell’art. 42, co. 2 e
4, c.p. i delitti sono puniti, di regola, solo per dolo, a meno che sia espressamente prevista la loro
punibilità anche per colpa (come accade per omicidio e lesioni), mentre le contravvenzioni sono
sempre punite sia per dolo che per colpa);
come già si osservava, in anni recenti il dolo eventuale è stato utilizzato, tuttavia, anche in rapporto a
omicidio e lesioni, con conseguenze sanzionatorie molto pesanti: tendenza, questa, ora contrastata dalla
cit. sentenza della Cassazione a sezioni unite sul caso ThyssenKrupp (v. infra);
si consideri, peraltro, che il dolo eventuale non rappresenta una forma diminuita del dolo, ma
individua i requisiti sufficienti per punire a titolo di dolo: così che la definizione del dolo eventuale,
nella misura in cui tale figura viva in giurisprudenza e dottrina, viene a costituire la vera definizione
del dolo, in quanto indica gli elementi bastanti perché un delitto sia punibile per dolo;
- il darsi, anche nel dolo eventuale come nella colpa (e di per sé anche nel dolo diretto), di una
condotta che non è stata prescelta al fine di cagionare l’evento offensivo penalmente rilevante; solo
nel caso di dolo intenzionale, infatti, la condotta è prescelta al fine di cagionare l’evento e, pertanto,
39
fra quelle che possano avere un’idoneità elevata a conseguire tale scopo (caratterizzandosi dunque per
altro livello di pericolosità): laddove invece nel contesto della colpa (soprattutto) cosciente, ma anche
in quello del dolo eventuale, la condotta che cagiona l’evento non voluto manifesta, di regola, una
modesta idoneità ex ante a cagionarlo, non essendo stata prescelta per quel fine (potrebbe darsi più
facilmente una condotta caratterizzata da un alto livello di pericolosità nella colpa incosciente, posto
che il soggetto che agisce, in tal caso, non è di regola consapevole del rischio che sta producendo);
sono dunque rari i casi ricompresi nel dolo eventuale in cui davvero sussista un’alta probabilità di
causazione dell’evento (sebbene sovente si ravvisi – v. infra – in tale alta probabilità una caratteristica
di tale categoria);
- l’inadeguatezza delle teorie tradizionali della rappresentazione e del consenso a delimitare la
categoria del dolo eventuale:
la teoria della rappresentazione ha riguardo all’entità probabilistica del rischio di causazione
dell’evento ovvero, di fatto, al giudizio sul tipo di rischio attivato (in termini di riprovevolezza sociale,
ecc.); essa dà luogo a una normativizzazione della responsabilità dolosa o, in altre prole, alla perdita
di qualsiasi differenza qualitativa tra dolo e colpa (la differenza fra dolo e colpa finirebbe per
diventare meramente quantitativa, cioè fondata solo sulla diversa gravità del rischio, e la definizione
del dolo eventuale finirebbe per costituire la vera definizione del dolo: tutto ciò dimentica che il dolo
costituisce uno stato psicologico, mentre la colpa ha natura prioritariamente normativa, in quanto
giudizio di inottemperanza rispetto al comportamento dovuto); le caratteristiche oggettive del rischio
non hanno a che fare con i profili attinenti alla prova dell’elemento soggettivo e, pertanto, della
colpevolezza: un rischio grave, infatti, può essere attivato sia con dolo, sia con colpa;
la teoria del consenso ha riguardo a un elemento di approvazione interiore della possibilità che si
determini l’evento offensivo, elemento che si vorrebbe costituire una sorta di analogo della volizione;
la nozione di consenso, tuttavia, risulta inadeguata a individuare uno stato psicologico effettivo che
differenzi il dolo eventuale dalla colpa cosciente, lasciando in tal modo aperta – come evidenzia la
formula classica, a lungo dominante in giurisprudenza, dell’accettazione del rischio – la più ampia
discrezionalità in sede giurisprudenziale (di per sé, tutti coloro che agiscono in colpa cosciente,
accettano di produrre un rischio): così che, pur quanto si dichiari di optare per la teoria del consenso,
onde evitare la critica di appiattire il dolo sull’elemento rappresentativo, si finisce facilmente per
adoperare nel giudizio in concreto valutazioni pur sempre riferite al giudizio sul tipo di rischio
cagionato, cioè riferite, in realtà, alla teoria della rappresentazione;
- considerato quanto sin qui detto in rapporto all’accertamento dell’elemento rappresentativo
(la previsione dell’evento) e circa i criteri tradizionali di ricostruzione del dolo eventuale, deve
constatarsi come si sia determinato in giurisprudenza, finora, un troppo facile passaggio,
attraverso criteri presuntivi od oltremodo discrezionali, dalla constatazione della colpa
incosciente, all’attribuzione della colpa cosciente e, di qui, all’attribuzione del dolo eventuale
(specie ove si ricorra, per quest’ultima categoria, alla nozione tradizionale di accettazione del
rischio);
ciò, per quanto riguarda il primo passaggio, in conseguenza della maggior propensione a logiche
presuntive dell’accertamento concernente l’elemento rappresentativo rispetto a quello
concernente l’elemento volitivo: circa la prova dell’elemento rappresentativo, infatti, appare
inevitabile – ferma in ogni caso la necessità di tener conto di tutti i dati del caso concreto – un certo
grado di generalizzazione (del tipo: presenti certe caratteristiche del caso concreto, solitamente una
persona con le caratteristiche del soggetto agente si rappresenta la possibilità che tendendo una certa
condotta ne derivi un dato evento offensivo): infatti, non potendosi cogliere direttamente quanto un
determinato individuo si sia rappresentato nella propria mente; è facile, su questa via, scivolare verso
vere e proprie presunzioni, espresse attraverso formule di stile (“non poteva non sapere”) o desumendo
40
automaticamente la rappresentazione dell’evento dalla presenza di elementi sintomatici (i c.d.
“segnali” o “campanelli d’allarme”); se dunque è problematico l’accertamento della prevedibilità (v.
supra), lo è anche l’accertamento della previsione (o rappresentazione);
circa il secondo passaggio (che implica transitare dall’imputazione colposa a quella dolosa), in
conseguenza dell’incertezza, relativa al confine tra colpa cosciente e dolo eventuale, che s’è dimostrata
aperta a valutazioni giudiziarie oltremodo discrezionali;
- per opporsi a simili tendenze – rimanendo fermo il fatto che la figura del dolo eventuale non ha
un riscontro di diritto positivo, in palese contrasto col principio costituzionale di legalità, ma preso
atto che tale figura nondimeno sussiste nella prassi giudiziaria penale – deve constatarsi che l’unico
stato psicologico davvero diverso dalla volizione dell’evento (dolo intenzionale) e dalla mera
previsione del suo possibile realizzarsi (colpa cosciente) è quello in cui il soggetto agente è
disposto, per realizzare i suoi fini, non soltanto a produrre un rischio di causazione dell’evento
offensivo, ma a produrre l’evento stesso; ciò si realizza senza dubbio, come già s’è detto, nel caso
del dolo c.d. diretto (in cui il soggetto non agisce al fine di cagionare l’evento offensivo, ma
quest’ultimo risulta, oltre ogni ragionevole dubbio, conseguenza certa della sua condotta e come tale
viene rappresentato dal soggetto che agisce); il medesimo stato psicologico può tuttavia
riscontrarsi anche quando sussistono le condizioni della (prima) formula di Frank (giurista
tedesco attivo tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento): il soggetto agente era consapevole
della pericolosità della sua condotta, non era certo del verificarsi dell’evento (altrimenti si
tratterebbe di dolo diretto), ma vi sono gli elementi per ritenere oltre ogni ragionevole dubbio
che avrebbe continuato ad agire anche nel caso in cui fosse stato certo di produrre l’evento
offensivo (o, meglio, non vi è alcun elemento il quale possa deporre nel senso che dinnanzi al
verificarsi certo dell’evento il soggetto agente avrebbe rinunciato a tenere la sua condotta);
se, dunque, la categoria del dolo eventuale viene di fatto utilizzata, l’unica definizione che consente
di circoscriverne i confini, limitandone l’ambito applicativo, è quella rappresentata dalla formula di
Frank; formula che si fonda su un giudizio ipotetico controfattuale (come avviene in merito alla
causalità), ma è intesa a cogliere una condizione psicologica reale;
la formula di Frank, già fatta valere in dottrina, è stata utilizzata da Cass. sez. unite 26-11-2009, n.
12433, in tema di dolo eventuale e ricettazione (v. infra), nonché da altre sentenze successive della
Cassazione; in senso ampiamente conforme alla medesima impostazione muove, con ampio apparato
argomentativo, Cassazione sez. unite 24 aprile 2014 (ThyssenKrupp), cit.: come già si diceva, tale
sentenza si oppone molto fermamente ai processi di normativizzazione del dolo, e, in tal senso, alle
impostazioni fondate sulle teorie della rappresentazione e su formule indeterminate come quelle
proprie delle teorie del consenso, ribadendo che il dolo si fonda sul «momento volitivo»; in tale quadro,
essa riconosce il ruolo fondamentale della formula di Frank: cade tuttavia in un equivoco quando
afferma che tale formula non può costituire l’unico indicatore del dolo eventuale, e ciò poiché non
sempre il giudizio controfattuale da essa espresso offrirebbe risultati evidenti, così che ad essa
dovrebbero affiancarsi altri indizi (di cui fornisce esemplificazioni al n. 51); l’equivoco sta nel fatto
che qualsiasi definizione di concetti non suscettibili di immediata accertabilità empirica necessita di
criteri finalizzati a valutare se nel caso concreto sussistano i requisiti richiesti dalla definizione stessa
(come s’è visto anche per la formula della condicio sine qua non in quanto definizione della causalità,
definizione la quale necessita, perché possa dirsi che ne sussistano i presupposti nel caso concreto, del
ricorso al criterio del riferimento a leggi scientifiche): per cui gli indizi ulteriori di cui parla la sentenza
delle Sezioni Unite non costituiscono affatto indicatori del dolo eventuale che si affiancano alla
formula di Frank, ma criteri cui è necessario fare riferimento per verificare se si realizzino i presupposti
di tale formula in quanto unica possibile definizione del dolo eventuale: cioè per verificare se sussistano
elementi i quali consentano di concludere in modo univoco (oltre ogni ragionevole dubbio, vale adire
senza l’emergere di alcun fattore il quale deponga in senso contrario) che il soggetto avrebbe agito
anche nella certezza di realizzare l’evento non voluto.
41
- deve evidenziarsi, peraltro, la non configurabilità del dolo eventuale nei reati omissivi
impropri quanto l’omissione non abbia avuto un fine dal quale sia derivato il rischio che il
soggetto abbia omesso di contrastare (quando, cioè, il rischio sia insorto indipendentemente dalla
condotta omissiva dell’imputato: esempio del vigile del fuoco che non sia intervenuto in una stanza in
fiamme nonostante dovesse o dei genitori che per motivazioni religiose non si siano attivati per la
trasfusione di sangue necessaria alla sopravvivenza della figlia minorenne); deve, infatti, essere
ritenuto requisito minimo del dolo eventuale – anche nel caso in cui, per ipotesi, sussistano i requisiti
di cui alla formula di Frank – il fatto che il rischio per la persona offesa sia insorto quale costo di
un fine perseguito con la sua condotta dal soggetto agente;
3.5
- si consideri inoltre – circa gli elementi del fatto tipico i quali, nei reati dolosi, devono costituire,
per l’appunto, oggetto del dolo – che l’elemento intenzionale di una data fattispecie
criminosa riguarda soltanto (oltre alla volontà di tenere la condotta, ai sensi dell’art. 42, co. 1,
c.p.) l’evento inteso in senso naturalistico (ai sensi dell’art. 43 c.p.) e, quando richiesto, il fine
oggetto del dolo specifico (solo l’evento e tale fine costituiscono, infatti, gli scopi perseguiti
attraverso la condotta):
gli altri elementi della fattispecie (per esempio un’eventuale qualifica soggettiva) e la stessa offesa
del bene tutelato (in termini di danno, o in termini di pericolo) devono costituire invece – anche
quando sussista, nei termini predetti, il dolo intenzionale e affinché si possa parlare di dolo
intenzionale – oggetto di una rappresentazione certa e dunque, potremmo dire, di una
rappresentazione in termini di dolo diretto;
si rammenti che l’offesa del bene tutelato – evento in senso giuridico – deve essere presente anche
nei reati di pura condotta, nei quali il dolo viene tendenzialmente a coincidere con la volontà di tenere
la condotta, ferma restando, peraltro, la necessità che sussista la consapevolezza di offendere, in tal
modo, quel bene;
- il dolo risulta escluso, ovviamente, nel caso di errore di fatto, vale a dire nel caso in cui il reato
è commesso a seguito dell’erronea percezione o valutazione di un dato della realtà rilevante ai fini
del reato medesimo (mi impossesso di una cosa altrui, credendola mia; durante alla caccia, sparo
verso un cespuglio che vedo muoversi credendo di colpire della selvaggina, mentre dietro il
cespuglio c’era una persona);
la disciplina dell’errore di fatto (art. 47, co. 1, c.p.): tale errore scusaquando non sia dovuto a colpa
(per negligenza, ecc.), nel qual caso si risponde a titolo di colpa purché il delitto colposo sia previsto
dalla legge;
ove l’errore sia scusato, residua la responsabilità (co. 2) per un eventuale reato diverso (se p. es. non
sono punito per peculato, in seguito a un errore sulla mia qualifica di pubblico ufficiale, ma sussistono
i requisiti di una appropriazione indebita, ne rispondo);
si noti che sia l’errore di diritto, sia l’errore di fatto, investono elementi della fattispecie integratrice,
per cui sono entrambi errori sul fatto;
- la disciplina (analoga a quella concernente l’errore di fatto) in tema di erronea
supposizione dell’esistenza di una causa (nel codice circostanza) di esclusione della pena (v.
infra), ex art. 59, co. 4, c.p. (si rammenti il caso Re Cecconi);
la disciplina (implicante essa pure una responsabilità analoga) del c.d. eccesso colposo di cui all’art.
55 c.p., relativo ad alcune cause di giustificazione: la distinzione tra eccesso effettivamente colposo
(p.es., la persona in legittima difesa credeva, per un errore di valutazione del contesto, di reagire in
modo proporzionato) ed eccesso doloso (quella medesima persona era pienamente consapevole di
reagire in modo sproporzionato);
42
queste normative, che riprendono la disciplina dell’errore di fatto, configurano insieme a quest’ultima,
ipotesi di c.d. colpa impropria;
- l’art. 5 c.p., relativo all’errore di diritto su norma penale, cioè all’errore circa il sussistere, o
circa l’interpretazione, di una fattispecie penale (e dunque di un divieto penalmente signbificativo):
norma la quale prevedeva l’irrilevanza in ogni caso, secondo il brocardo ignorantia legis non
excusat, dell’errore di diritto, anche ove l’errore non fosse dovuto a colpa e risultasse, pertanto,
inevitabile; la Corte costituzionale, tuttavia, ha sancito con la sentenza n. 364/1988
l’incostituzionalitàdell’art. 5 c.p., nella parte in cui precedentemente non escludeva la
punibilità ove l’errore risultasse inevitabile (cioè non colposo) e ciò per contrasto con il
principio di colpevolezza: riconosciuto proprio in tale sentenza come desumibile dall’art. 27, co.
1, Cost.;
la sentenza n. 364/1988 della Corte costituzionale (seguita dalla sentenza n. 1085/1988), infatti, ha
riconosciuto per la prima volta l’operatività nell’ordinamento penale italiano del principio di
colpevolezza ricavandolo dall’art. 27, co. 1, della Costituzione (secondo cui «la responsabilità
penale è personale»):
con tale sentenza, infatti, la Corte costituzionale ha stabilito che la responsabilità personale (cioè
tipica degli esseri umani) è solo la responsabilità colpevole, vale a dire quella che presuppone la
dominabilità del fatto (v. supra) da parte del soggetto agente, ovvero la sua rimproverabilità (mentre
la responsabilità che attribuiamo ai fattori fisico-naturalistici, o anche agli animali, viene a coincidere
con la mera efficacia causale del loro operare);
circa le conseguenze del riconoscimento, nel nostro ordinamento penale, del principio di colpevolezza
torneremo tra poco;
- si consideri la diversa rilevanza dell’errore colposo di diritto (che secondo
l’impostazione dominante lascia sussistere la responsabilità a titolo di dolo) e dell’errore colposo
di fatto (punibile ex art. 47, co. 1, c.p. solo a titolo di colpa):
il permanente profilo di contraddittorietà di questo assetto normativo in rapporto al principio di
colpevolezza, il quale dovrebbe esigere, come diremo, non soltanto che per punire sia
necessaria, almeno, la colpa, ma anche che non si risponda per dolo quando sussista nel
soggetto agente la sola colpa (come avviene nel caso dell’art. 5, ma anche nelle ipotesi, pur
reinterpretate come si dirà poco oltre, di cui agli artt. 116 e 117 c.p.);
piuttosto che concludere nel senso, pur sempre, della responsabilità per dolo nei casi di errore di
diritto colposi (che non è affatto detto siano in ogni caso strutturalmente più gravi degli errori di fatto
colposi), sarebbe preferibile prevedere un’inversione dell’onere della prova, addebitando alla difesa
la dimostrazione della circostanza che un errore colposo sulla norma penale vi sia effettivamente
stato, così che in tal caso si risponda solo per colpa, al pari di quanto previsto per l’errore di fatto,
purché il delitto colposo sia previsto dalla legge;
- l’errore di diritto su norma extrapenale (art. 47, ult. co., c.p.) cioè su una norma non
penale richiamata dalla fattispecie incriminatrice o su un concetto che trova la sua definizione al di
fuori del codice penale: dinnanzi al disposto dell’art. 47, ult. co., c.p., per cui simile errore
risulterebbe sempre scusabile (perfino senza specificazioni con riguardo all’errore colposo), la
giurisprudenza ha introdotto la distinzione fra norme extrapenali integratrici o non integratrici
della fattispecie penale, ritenendo di poter estende all’errore su una norma ritenuta integratrice la
disciplina di cui all’art. 5
c.p. e, di fatto, giudicando sempre le norme extrapenali come integratrici (secondo una vera e propria
abrogazione di fatto della norma in esame);
da dottrina, di conseguenza, ha cercato in vario modo di rendere non soltanto fittizio il distinguo, per
43
esempio sostenendo che siano da considerarsi su norma integratrice gli errori che cadano su un
concetto il quale entri effettivamente a far parte della fattispecie penale (p. es. quello di proprietà),
mentre su norma non integratrice gli errori che investano i criteri applicativi di quel concetto (p. es. i
modi di acquisto della proprietà);
- tornando all’avvenuto riconoscimento nel nostro ordinamento del principio di colpevolezza,
si consideri come da ciò derivi che tutti i requisiti necessari perché si configuri un reato o perché
un reato sia punito più severamente devono costituire oggetto, quantomeno, della forma meno
grave dell’imputazione soggettiva, che è quella colposa:
vale a dire, ne deriva l’incostituzionalità della responsabilità senza colpevolezza e, in particolare,
della responsabilità oggettiva:
già s’è detto, infatti, che il codice Rocco prevedeva ipotesi di responsabilità senza colpevolezza e, in
particolare, di responsabilità oggettiva, cioè fondata sul mero nesso di causalità tra condotta ed
evento, senza dolo né colpa: come si evince dall’art. 42, co. 3, c.p.;
ipotesi, queste, riconducibili per lo più alla logica del c.d. versari in re illicita, secondo la quale ove
si sia voluta, anche a titolo di concorso, la commissione di un reato pur modesto, ogni ulteriore
conseguenza non voluta di quel fatto viene posta a carico del soggetto agente sulla base del solo
rapporto causale con la condotta che il medesimo abbia tenuto; le ipotesi di responsabilità oggettiva, dunque, dovranno essere re-interpretate, oggi, richiedendo almeno la colpa (generica) del soggetto agente rispetto alla verificazione dell’evento non voluto, cioè la sua prevedibilità (dato che il dovere di evitare la tenuta della condotta, trattandosi di una condotta di base penalmente illecita, deve ritenersi scontato);
si è resa necessaria, pertanto, una rilettura in base al principio di colpevolezza delle ipotesi di
responsabilità oggettiva presenti nel codice Rocco, rilettura che esige, quantomeno, il sussistere della
colpa in rapporto al prodursi dell’evento non voluto, e dunque, come s’è detto, la sua prevedibilità;
restano, peraltro, tutte le problematicità correlate a quest’ultimo concetto (v. supra): in particolare,
ove essa fosse interpretata con prevedibilità in astratto o riferita a livelli statistici minimi si avrebbe
una vera e propria frode delle etichette, con il perdurare di fatto della responsabilità oggettiva;
peraltro, come già si accennava, il riconoscimento del principio di colpevolezza dovrebbe esigere un
passo ulteriore, non ancora acquisito: non soltanto, cioè, che non si possa rispondere di un reato doloso
sulla base della mera responsabilità oggettiva, ma anche che non si possa rispondere di un reato
doloso sulla base di una mera responsabilità colposa;
passiamo dunque a considerare alcune ipotesi di responsabilità oggettiva presenti nella parte generale
del codice Rocco e che, dunque, hanno necessitano di una rivisitazione onde evitare il contrasto con
il principio di colpevolezza:
- la preterintenzione ex artt. 43 c.p., della quale l’unica fattispecie codicistica è costituita
dall’omicidio preterintenzionale (art. 584 c.p.);
la formale configurazione della preterintenzione, all’art. 43 c.p., come terza tipologia dell’elemento
soggettivo, pur essendo stata tradizionalmente intesa, nel passato, come fattispecie implicante una
responsabilità oggettiva rispetto al prodursi dell’evento non voluto, date le condotte dolose di base;
nell’omicidio preterintenzionale (art. 584 c.p.), premesso infatti il dolo di realizzare i delitti di
percosse o lesioni, si attribuiva la responsabilità per l’eventuale prodursi della morte sulla base del
mero nesso di causalità tra quest’ultima e le condotte dirette a produrre percosse o lesioni,
l’esigenza, conseguente, che per evitare il contrasto col principio di colpevolezza sia constatabile,
quantomeno, la colpa rispetto all’evento non voluto, vale a dire la sua «prevedibilità» (posto che
l’ulteriore elemento costituito dalla «evitabilità» della condotta base è difficilmente discutibile,
trattandosi di una condotta che produce un delitto base doloso); ciò vale anche con riguardo all’evento
44
rilevante nell’ambito dei delitti aggravati dall’evento, dei quali si dirà più specificamente infra;
vanno peraltro richiamati, come anche poco sopra già si accennava, i problemi riferibili al concetto
di prevedibilità, anche per quanto concerne il livello della prevedibilità rilevante: vi è il pericolo,
infatti, di vere e proprie presunzioni della medesima, che ricondurrebbero, di fatto, alla responsabilità
oggettiva: p. es., ove si giunga ad affermare che tutte le volte in cui si attinga il corpo di un’altra
persona sarebbe sempre prevedibile una possibile lesione; oppure che «la disposizione di cui all’art.
43 assorbe la prevedibilità di (un) evento più grave nell’intenzione di risultato» (così una sentenza
della Cassazione nel 2006); ed è anche per questo che di recente autorevole dottrina ha richiesto ai
fini di un rispetto non soltanto formale del principio di colpevolezza con riguardo all’art. 584 c.p. che
sussista non la mera prevedibilità, bensì la previsione dell’evento morte;
- la disciplina concernente il concorso di persone di cui all’art. 116 c.p. (reato diverso da
quello voluto da taluno dei concorrenti), ai sensi della quale ove Tizio e Caio concorrano
volontariamente in un reato (p. es. un furto in abitazione), ma poi Tizio compia volontariamente
un reato più grave non voluto da Caio (p. es. un omicidio all’interno di quella abitazione) anche
Caio ne risponde sulla base della mera responsabilità oggettiva, cioè per il solo fatto che abbia
dato un contributo causale (comunque necessario) al prodursi dell’evento più grave (essendo
prevista soltanto, in quel caso, un’attenuante obbligatoria);
anche in questo caso, pertanto, sarà oggi necessario richiedere la prevedibilità (o, meglio ancora, la
previsione: v. infra, sub art. 117 c.p.), cioè che il soggetto (Caio) il quale non voleva l’evento più
grave lo potesse almeno prevedere (o lo abbia preveduto); sebbene pur operando questo passo in
avanti rispetto alla mera responsabilità oggettiva, resti il fatto che si fa rispondere di un reato doloso
(quello voluto da Tizio) un soggetto (Caio) che rispetto ad esso si trova al massimo in colpa: il che,
come si accennava supra, appare contraddittorio rispetto a un recepimento non riduttivo del principio
di colpevolezza;
- la disciplina concernente essa pure il concorso di persone di cui all’art. 117 c.p. (mutamento
del titolo del reato per taluno dei concorrenti), per cui, secondo la sua lettura tradizionale
(v. in contrario infra), ove un soggetto sappia di commettere un reato in concorso con un altro
soggetto (p. es. un’appropriazione indebita), ma poi in funzione della qualifica a lui non nota (p.
es. di pubblico ufficiale) dell’altro soggetto quel reato si configuri in realtà più grave (divenendo, nel
nostro esempio, un peculato), anche il primo soggetto ne risponde sulla base di una mera
responsabilità meramente oggettiva (salva un’attenuante facoltativa);
pure in questo caso va oggi richiesta, pertanto, almeno la prevedibilità del mutamento della qualifica
dell’altro concorrente: col riproporsi degli interogativi già evidenziati con riguardo all’art. 116; alcuni
Autori, tuttavia, sono giunti opportunamente a ritenere, data la rigorosità così palesemente
eccessiva di questa disciplina, che il soggetto non qualificato risponda secondo le regole generali,
vale a dire solo se sia effettivamente a conoscenza della qualifica dell’altro soggetto; del pari, s’è
richiesto per l’applicabilità dell’art. 117 c.p. che debba essere comunque il soggetto qualificato, e non
l’altro concorrente, a realizzare la condotta tipica (nel caso in cui la condotta tipica, e non un mero
apporto accessorio, fosse invece realizzata dal soggetto non qualificato si applicherebbero le regole
generali);
4.5
(segue) - l’adeguamento al principio di colpevolezza, realizzato nel 1990 con una espressa modifica
legislativa, del regime di rilevanza soggettiva delle circostanze aggravanti (art. 59, co. 2, c.p.), le
quali, in precedenza, rilevavano oggettivamente, mentre ora devono risultare conoscibili (rilevano
solo se conosciute o ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa);
- la permanente rilevanza oggettiva (perché in bonam partem) delle circostanze attenuanti e
delle cause (o circostanze) di esclusione della punibilità: art. 59, co. 1, c.p.);
45
- la discutibile irrilevanza delle circostanze non solo aggravanti, ma anche attenuanti,
ritenute per errore esistenti (putative): mentre, come già s’è detto, le cause (circostanze)
putative (cioè erroneamente supposte) di esclusione della pena rilevano ai sensi dell’art. 59, co. 4.,
c.p.).
- le condizioni oggettive di punibilità relative al caso per cui ai fini della punibilità del reato la
legge richiede il verificarsi di una condizione il cui verificarsi rileva anche se non voluto (art. 44
c.p.): possono tuttavia ritenersi non coperte dal principio di colpevolezza, e pertanto
rilevare oggettivamente (invero la norma, tuttavia, esclude solo il rilievo del dolo) solo se estrinseche
al reato, cioè tali che dal loro sussistere o meno non dipenda la lesione del bene giuridico protetto dal
reato cui si riferiscono (in quanto rispondenti a mere valutazioni politico-criminali del
legislatore circa l’opportunità di punire); ed è questo, per l’appunto, il criterio cui si deve ricorrere
per stabilire se un determinato fattore menzionato dalla norma incriminatrice come necessario per
punire debba essere ritenuto condizione di punibilità o elemento del reato (coperto dal dolo);
condizioni che, dunque, debbano considerarsi intrinseche al reato (tali, cioè, che dal loro sussistere o
meno dipenda la lesione del bene giuridico protetto) costituiscono a tutti gli effetti elementi della
fattispecie di reato e necessitano, pertanto, di essere coperti dal dolo o dalla colpa, in conformità al
principio di colpevolezza;
esemplificazione con riguardo al ruolo del pubblico scandalo rispetto al delitto di incesto (art. 564
c.p.) e al ruolo della dichiarazione di fallimento con riguardo ai delitti di bancarotta (artt. 216 e 217
l.fall.);
- l’imputabilità (artt. 85-98 c.p.): problemi relativi alla definizione e all’accertamento;
l’inadeguatezza di un’interpretazione letterale, che si rivelerebbe oltremodo restrittiva, della formula
di cui all’art. 85 costituita dall’incapacità d’intendere e di volere; il necessario riferimento al pur
problematico concetto di una capacità normale;
in particolare, l’esclusione dell’imputabilità per vizio totale di mente ed età inferiore a quattordici
anni (artt. 88 e 97 c.p.) o inferiore al 18 anni per immaturità (art. 98 c.p.); il carattere non esaustivo
del riferimento esplicito a tali condizioni e l’apertura alla rilevanza di forme psicotiche gravi;
la problematicità dell’accertamento del vizio di mente;
la non punibilità del soggetto inimputabile autore di reato (per mancanza di colpevolezza), ma
l’applicabilità nei suoi confronti, ove giudicato socialmente pericoloso, di una misura di sicurezza:
v. supra; l’irrilevanza ai fini della non imputabilità del vizio parziale di mente, che comporta, invece, una
diminuzione di pena (art. 89 c.p.);
10.5
le presunzioni (o finzioni) di imputabilità, concernenti l’ubriachezza e l’assunzione di stupefacenti
(artt. 91-95 c.p.) e il loro contrasto con il principio di colpevolezza (eluso dall’impostazione superata
che considerava l’imputabilità indipendente dalla colpevolezza);
in particolare, l’irrilevanza circa il giudizio sull’imputabilità dell’aver agito in stato di ubriachezza
(o assunzione di stupefacenti) volontaria o colposa (art. 92 c.p.), oppure abituale (art. 94 c.p.),
addirittura con pena aumentata in quest’ultimo caso; fatta salva l’esclusione totale o parziale dell’imputabilità ove venga riconosciuta la cronica intossicazione (art. 95 c.p.) e, totale, nelle ipotesi ben rare di caso fortuito o forza maggiore (art. 91 c.p.);
le difficoltà frapposte al superamento delle presunzioni di imputabilità con riguardo, in particolare, ai
reati colposi e dunque, per esempio, al fenomeno degli incidenti stradali del sabato sera (con cenni
46
sul rapporto con i reati di omicidio/lesioni colposi e omicidio stradale); l’esigenza, anche in questi
casi, di intervenire piuttosto con provvedimenti adeguati in senso preventivo nel momento in cui si
assumano lucidamente alcool o stupefacenti sapendo che, successivamente, ci si metterà alla guida;
gli artt. 87 e 92, co. 2, circa lo stato preordinato di incapacità di intendere e di volere (actio libera
in causa), i quali, di per sé, non si pongono in contrasto con il principio di colpevolezza, poiché
assumono che il soggetto abbia deciso lucidamente di commettere il reato doloso prima di assumere
alcol o stupefacenti (ma si sarebbe meglio gestita la problematica sulla base dei principi generali,
evitando una disposizione che potrebbe favorire presunzioni circa l’intento doloso);
la norma che dichiara irrilevanti ai fini dell’imputabilità gli stati emotivi o passionali (art. 90 c.p.):
assunto peraltro che una componente emotiva e appetitiva esiste in tutte le condotte umane, si può
giungere a non escludere il rilievo dei suddetti stati quando assumano carattere patologico (con ciò
ritornando alla regola generale in tema di imputabilità);
- il rilievo onde poter escludere la colpevolezza della categoria costituita dall’inesigibilità
(consistente nell’impossibilità di richiedere al soggetto che si trova in una certa condizione
quanto si può richiedere, generalmente, ad altri soggetti): v. supra;
- i casi della aberratio ictus (offesa arrecata a persona diversa da quella voluta: art. 82 c.p.) e
della aberratio delicti (reato diverso da quello voluto: art. 83 c.p.) in quanto norme previste dal
codice Rocco in senso (discutibilmente) derogatorio rispetto all’applicabilità delle regole
generali nelle ipotesi ivi contemplate;
i profili di responsabilità oggettiva nell’art. 82 c.p. (ai sensi di tale norma il soggetto agente risponde,
poniamo, di un omicidio doloso, piuttosto che del concorso fra un omicidio tentato e un omicidio
colposo);
la responsabilità a titolo di colpa per l’evento non voluto nell’art. 83 c.p. (il codice Rocco riteneva
che si dovesse punire per colpa anche in assenza di una prevedibilità dell’evento non voluto,
configurando in tal senso un’ipotesi di responsabilità oggettiva: oggi in conformità al principio di
colpevolezza si dovrà comunque richiedere il sussistere effettivo della colpa);
la aberratio ictus plurilesiva (art. 82, co. 2, c.p.), che propone un’ipotesi di cumulo giuridico delle
pene (pena per il reato più grave aumentata fino alla metà);
la aberratio delicti plurilesiva (art. 83, co. 2, c.p.), che prevede l’applicabilità delle norme sul
concorso di persone (la norma si riferisce al caso in cui si verifichi anche «l’evento voluto»: appare
tuttavia illogico non considerare rilevante pure il tentativo riferito all’evento voluto, così da evitare
l’incongruenza della sua punizione fuori dal caso di aberratio e della sua non punizione ove si
accompagni a un evento colposo non voluto: ma non può negarsi che in tal modo si perviene a forzare
in malam partem il dato normativo testuale);
- il secondo elemento del reato, costituito dall’antigiuridicità in quanto assenza di cause di
giustificazione (o scriminanti), le quali rendono lecito il fatto cui si riferiscono sulla base di un
bilanciamento, e dunque di una scelta opertata dall’ordinamento giuridico, fra beni in conflitto;
l’inquadramento dell’antigiuridicità come categoria autonoma rispetto al fatto tipico e alla
colpevolezza nell’ambito della teoria tripartita del reato ha una funzione anche didattica: rendendo
chiaramente percepibile, rispetto alla pregressa concezione bipartita (elemento oggettivo ed elemento
soggettivo) che quando operi una causa di giustificazione si realizza pur sempre un evento offensivo,
così che si dovrebbe comunque agire al meglio per prevenirlo; di per sé, tuttavia, potrebbe dirsi che
in presenza di una causa di giustificazione il soggetto agente non viola con il suo agire, in realtà,
alcuna regola finalizzata ad evitare l’evento, potendosi di conseguenza escludere lo stesso fatto tipico;
47
- la legittima difesa (art. 52 c.p.) rispetto alla condotta in atto di un soggetto aggressore, la quale
dia luogo al pericolo attuale di un’offesa ingiusta nei confronti di un qualsiasi diritto proprio od
altrui, e purché la difesa sia proporzionata all’offesa; sempre che il soggetto sia stato costretto a
commettere il fatto giustificato per la necessità di difendere tale diritto;
il requisito, comune a legittima difesa e stato di necessità, della proporzione tra quanto si tutela e
quanto si sacrifica;
richiamo della disciplina concernente l’eccesso colposo (art. 55 c.p.): v. supra;
- il problematico inquadramento giuridico dello stato di necessità (art. 54 c.p.), quale norma
che lascia impunita una condotta offensiva posta in essere nei confronti di un soggetto non
aggressore, vale a dire innocente: per cui ha un ambito applicativo più ristretto rispetto alla
legittima difesa, in quanto riferito, salva sempre la proporzionalità, al solo «pericolo attuale di
un danno grave alla persona» (si consideri anche l’ulteriore requisito dell’inevitabilità altrimenti);
l’ipotesi nella quale il soggetto attivo agisce per salvare se stesso appare inquadrabile più come causa
di esclusione della colpevolezza che come causa di giustificazione;
diversamente il c.d. soccorso di necessità (che sia realizza in favore di un terzo), specie conriguardo
all’ipotesi della condotta posta in essere privilegiando la tutela di un bene preminente rispetto a un
altro bene entrambi riferibili a una medesima persona (è il caso del medico che agisce per la
salvaguardia della vita o della salute in situazioni nelle quali il paziente non è in grado di prestare il
proprio consenso);
risulta invece delicatissima, e dai confini molto problematici, l’intervento in favore di un terzo, ma a
danno di un altro soggetto: in tal caso colui che agisce, non essendo egli stesso in pericolo, opera una
scelta, quanto alla tutela, fra altri soggetti (di certo l’art. 54 c.p., in simili casi, non potrebbe essere
applicato senza delimitazioni implicite);
- il consenso dell’avente diritto, rispetto alla compromissione di beni disponibili (art. 50 c.p.);
cenni sulle altre cause di giustificazione di applicabilità generale previste agli artt. 50 ss. c.p.;
si consideri, in ogni caso, che cause di giustificazione sono previste altresì con riguardo a reati
specifici (esemplificazioni riferite alla libertà di cronaca, ai sensi dell’art. 596 c.p. e dell’art. 21 Cost.);
11.5
circa la legittima difesa si considerino altresì le discutibili modifiche introdotte nell’anno 2006,
attraverso i commi 2 e 3 dell’art. 52 c.p., circa la proporzionalità della reazione con «un’arma
legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo» nel caso di violazione del domicilio o di luoghi in cui
sia esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale;
tali nuove norme, in ogni caso, non introducono affatto la libertà del ricorso alle armi contro chi si
introduca nel domicilio, richiedendo il fine di difendere «la propria o la altrui incolumità» oppure il
sussistere del «pericolo d’aggressione» rispetto alla difesa di beni propri od altrui, e sempre che non vi
sia desistenza»;
i rischi della incentivazione del ricorso alle armi per fini di difesa domiciliare;
- la differente ratio delle diverse situazioni di esclusione della punibilità (ovvero, secondo la
terminologia utilizzata dal codice penale, delle diverse circostanze che escludono la pena):
a) cause di giustificazione, le quali rendono il fatto lecito (non antigiuridico), presupponendo
una scelta operata dall’ordinamento giuridico tra beni in conflitto (nel nostro caso, da un lato,
l’onore/reputazione e, dall’altro, l’interesse sociale alla trasparenza della pubblica amministrazione,
all’emergere dei fatti costituenti reato e, in genere, alla libera manifestazione del pensiero);
b) cause di esclusione della colpevolezza, in presenza delle quali il fatto resta illecito, ma
si configura non colpevole, per mancanza di imputabilità del soggetto agente oppure per
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inesigibilità, in situazioni particolari, del comportamento ordinariamente richiesto (cfr. l’art. 384
c.p.);
c) cause di non punibilità in senso stretto, in presenza delle quali il fatto resta illecito e
colpevole, ma non è punibile in forza di una valutazione di non opportunità dell’intervento penale
in un dato contesto (come nel caso della non punibilità ex art. 649, co. 1, concernente i delitti contro il
patrimonio commessi nei confronti dei congiunti ivi indicati);
in quest’ultima categoria sono da ricomprendersi anche le cause di non punibilità di natura premiale
(cioè quelle correlate a un comportamento post delictum, come un’eventuale collaborazione di
giustizia, che il diritto penale intenda promuovere);
la diversa rilevanza delle suddette cause di non punibilità nel concorso di persone, ai sensi dell’art.
119 c.p.: si applicano rispetto a tutti i concorrenti solo le cause di non punibilità aventi natura oggettiva,
quali sono senza dubbio le cause di giustificazione; mentre si applicano soltanto al concorrente cui si
riferiscano le cause di non punibilità aventi natura soggettiva, quali sono quelle che escludono la
colpevolezza; circa la qualifica oggettiva o soggettiva delle cause di non punibilità in senso stretto si
afferma per lo più che debba operarsi una valutazione specificamente riferita a ciascuna di esse;
la già menzionata (v. supra) rilevanza oggettiva delle cause di esclusione della punibilità, ex art.
59, co. 1, c.p., e la disciplina (analoga a quella concernente l’errore di fatto) in tema di erronea
supposizione dell’esistenza di una causa di esclusione della punibilità, ex art. 59, co. 4, c.p.;
critica dell’opinione per cui la distinzione fra le tre diverse categorie di non punibilità richiamate supra
rileverebbe non soltanto, come già s’era detto, con riguardo all’art. 119 c.p. in rapporto al concorso
di persone, ma anche con riguardo all’art. 59, commi 1 e 4, c.p.; secondo tale opinione, infatti, il co.
1 di tale articolo non sarebbe applicabile alle cause di esclusione della colpevolezza e il co. 4 non
sarebbe applicabile alle cause di non punibilità in senso stretto, poiché verrebbe meno, in tali casi, la
ratio della non punibilità: si tratterebbe, peraltro, di una forzatura in malam partem del principio di
legalità, che violerebbe in particolare il divieto di analogia (l’art. 59 c.p. non fa distinzione fra le
situazioni di non punibilità);
- il delitto tentato (art. 56, co. 1, c.p.), riferito ai soli delitti posti in essere con dolo (v. infra):
la differenza tra tentativo compiuto (la condotta idonea è stata portata a termine) e tentativo
incompiuto (l’esecuzione della condotta già idonea ha subito un’interruzione non spontanea:
diversamente, si tratterebbe di desistenza volontaria, che esclude la punibilità del tentativo: v. infra);
la necessità, per quanto concerne il tentativo incompiuto, di definire i requisiti minimi perché una
condotta che pure non abbia causato l’evento naturalistico costituente reato risulti, tuttavia,
penalmente rilevante: il confronto con il distinguo tra atti (ancora) preparatori ed atti (già) esecutivi
di cui al codice Zanardelli del 1889;
i requisiti del codice vigente fondati sui concetti di:
a) idoneità degli atti, da valutarsi ex ante (dato che ex post, nel delitto tentato, gli atti
dimostrano di essere stati oggettivamente inidonei); la nozione di idoneità deve tener conto del fatto che se gli atti compiuti fino al momento
dell’interruzione non spontanea della condotta fossero valutati di per sé solirisulterebbero sempre
(ancora) inidonei: si pone conseguentemente il delicato problema di una considerazione degli atti
idonei alla luce dell’intero contesto in cui sono inseriti e degli sviluppi prevedibili;
si evidenzia, comunque, in dottrina che deve sussistere un pericolo rilevante di realizzazione
dell’evento, in termini non di mera possibilità, ma di probabilità (più probabile che non); si richiede,
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in altre parole, una significativa entità del rischio prodotto (problemativa, questa, invece ampiamente
irrisolta, come in precedenza si osservava, rispetto al reato colposo);
si tratterà, inoltre, di domandarsi da quale punto di vista vada riguardata l’idoneità: se da quello del
solo soggetto agente (giudizio c.d. a base parziale) oppure da quello di ciò che comunque era già noto
ad altri e, in particolare, alla vittima (giudizio a c.d. base totale): ciò che poteva risultare idoneo al
soggetto agente, infatti, potrebbe essere già stato reso oggettivamente inidoneo dalla vittima
potenziale, configurando in tal modo un reato impossibile; l’impostazione oggettivistica del codice e
dell’art. 49 c.p. (vedi infra) sembra orientare in quest’ultimo senso, non accolto, peraltro, dalla
giurisprudenza;
b) direzione non equivoca (o univocità) degli atti, tale per cui gli atti siano spiegabili
esclusivamente in rapporto alla produzione dell’evento, senza che residuino altre finalità plausibili
degli stessi; si tratta di un giudizio che andrebbe condotto in base alle caratteristiche meramente
oggettive del contesto di realizzazione della condotta, in modo da evitare che esso si sovrapponga a
quello, successivo, sul dolo;
la compatibilità del tentativo, ex art. 56 c.p., con soli delitti, in quanto puniti a titolo di dolo;
l’incompatibilità con il tentativo, riconosciuta dalla giurisprudenza, del dolo eventuale (stante il
requisito di cui alla definizione normativa, degli atti diretti in modo…: formula che, per sé,
escluderebbe anche il dolo diretto, di cui tuttavia la giurisprudenza invece ammette, talora
estendendone inaccettabilmente i limiti, la compatibilità con dolo eventuale);
la motivazione premiale, onde cercare di scongiurare fino all’ultimo il realizzarsi dell’evento
offensivo, della non punibilità del tentativo a seguito di desistenza volontaria, ex art. 56, co. 2, c.p.;
se invece la desistenza non è tale si configura, sussistendone i requisiti, il tentativo incompiuto;
la differenza con il recesso attivo, ex art. 56, co. 3, c.p. (implicante l’impedimento dell’evento a
seguito di una condotta già completata), che comporta, invece, una diminuzione di pena rispetto a
quella prevista per il tentativo: perplessità di tale differenza circa le scelte sanzionatorie;
la differenza, altresì, con la circostanza attenuante del ravvedimento post delictum di cui all’art. 62
n. 6 c.p.
- il reato impossibile (per inidoneità dell’azione o inesistenza dell’oggetto), ex art. 49, co. 2.
c.p.): non punibilità (salvo che sussistano i presupposti di un reato diverso: co. 3) e applicabilità
di una misura di sicurezza (co. 4), sebbene non sussista il reato;
ciò configura una ipotesi di c.d. quasi reato, al pari di quanto previsto dall’art. 115 c.p., che sancisce
in materia di concorso di persone la non punibilità, salvo esplicite eccezioni, del mero accordo: anche
in tal caso infatti, come pure in quello dell’istigazione accolta senza commissione del reato, oppure
anche non accolta ove si tratti di delitto, è applicabile una misura di sicurezza;
si rammenti (v. supra) l’utilizzazione che s’è proposta dell’art. 49 c.p. come ancoramento di diritto
positivo del principio di offensività, intendendosi in tal senso l’inidoneità come inoffensività rispetto
al bene tutelato (posto che la non punibilità della condotta inidonea nel significato tradizionale è già
desumibile, a contrariis, dall’art. 56 c.p.);
- la non punibilità del reato putativo, cioè erroneamente supposto (art. 49, co. 1, c.p.), come pure
(v. supra) dell’aggravante putativa (art. 59, co. 3): non si è puniti se si ritiene erroneamente – sia
per ragioni di diritto che per ragioni di fatto – di aver commesso un reato, o dato luogo a
un’aggravante, che invece non sussistono;
- le circostanze attenuanti e aggravanti del reato;
le tipologie delle circostanze a) frazionarie; b) autonome (mutamento del tipo di pena) o indipendenti
50
(ambito edittale distinto da quello previsto per il reato base); e le diverse modalità della loro incidenza
in sede di determinazione della pena in senso lato;
le circostanze comuni (artt. 61 e 62 c.p.) e le circostanze riferite a specifiche tipologie di reato;
la reintroduzione, avvenuta con d.lgs.lt. n. 288/1944 (e con le modifiche di cui alla l. n. 251/2005),
delle attenuanti generiche (art. 62-bis c.p.); richiami all’art. 59 c.p.: la rilevanza oggettiva delle circostanze attenuanti e l’esigenza della
conoscibilità per le aggravanti; l’irrilevanza dell’erronea supposizione dell’esistenza delle circostanze
sia aggravanti che attenuanti (con effetti, nel secondo caso, sfavorevoli all’imputato);
il giudizio di equivalenza o prevalenza fra circostanze eterogenee, ex art. 69 c.p. (cioè nel caso di
concorso tra circostanze aggravanti e attenuanti), e la riforma estensiva di tale regime, con d.l. n.
99/1974, anche alle circostanze autonome o indipendenti, che in precedenza ne erano escluse;
secondo tale giudizio – che non dipende dal confronto fra il numero di attenuanti o aggravanti – il
giudice può valutare fra loro equivalenti le aggravanti e le attenuanti disapplicandole, oppure ritenere
prevalenti le une o le altre, disapplicando quelle soccombenti;
la grande importanza di simile giudizio, che ha consegnato al giudice un’ampia discrezionalità a fini
di mitigazione delle scelte sanzionatorie molto severe del codice Rocco (essendosi constatata nel
1974, ma fino ad oggi la situazione non è mutata, l’impossibilità politica di una riforma complessiva
del codice Rocco);
va peraltro segnalato come da vari anni si sia tornati discutibilmente a precludere tale giudizio,
sovente in un’ottica di c.d. populismo penale, rispetto alle circostanze aggravanti relative a specifici
reati, in deroga alla regolamentazione generale prevista dall’art. 69 c.p.: rendendo dunque rispetto ad
essi il regime sanzionatorio assai più severo;
del pari, si rende da anni manifesta una tendenza all’abuso nella previsione legislativa di circostanze
aggravanti, il cui regime complessivo appare oggi disorganico e quasi ingovernabile (si consideri, in
proposito, il ruolo del tutto marginale delle circostanze in altri ordinamenti penali europei);
un ulteriore elemento mitigativo delle suddette asperità sanzionatorie si è avuto con l’assimilazione
giurisprudenziale ai delitti circostanziati dei c.d. delitti aggravati dall’evento: si tratta di quei delitti che si caratterizzano, come accade nella preterintenzione (v. supra), per un reato
doloso base e per una pena autonoma (o un ambito edittale autonomo) nel caso che da quel reato derivi
un evento ulteriore, ancorché non voluto;
nell’ambito del codice Rocco la causazione del suddetto evento era inquadrata come rilevante in
termini di responsabilità oggettiva, ma, conformemente a quanto s’è detto circa l’omicidio
preterintenzionale, oggi dovrà ritenersi richiesta, circa la responsabilità relativa alla causazione di tale
evento, almeno la prevedibilità (o la stessa previsione);
i delitti aggravati dall’evento in un primo tempo erano stati intesi quale istituto autonomo, così che
l’evento aggravante non era identificato come una circostanza; avendoli considerati poi, invece, come
aggravanti, s’è resa possibile anche rispetto ad essi, e dunque in presenza dell’evento aggravante,
l’applicabilità del giudizio di equivalenza e di prevalenza ai sensi dell’art. 69 c.p., che rende dunque
possibile, ove sussistanto una o più attenuanti, di tornare ad applicare il reato base (o addirittura di
applicare il reato base attenuato, nel caso di attenuante/i prevalenti);
17.5
il concorso di circostanze fra loro omogenee e la problematica introduzione del concetto di
circostanze a effetto speciale (artt. 63 c.p.); l’aumento o la diminuzione frazionaria non
specificamente determinati e i limiti degli aumenti in caso di concorso fra circostanze (artt. 64 ss. cp.)
l’abolizione, con il già citato d.l. n. 99/1974, degli aumenti obbligatori di pena in caso di recidiva
(art. 99 c.p.); si noti che Corte cost. n. 185/2015 ha fatto cadere il caso di recidiva reiterata
obbligatoria, successivamente reintrodotto, di cui all’art. 99 co. 5. c.p.;
51
i motivi che rendono comunque discutibile, in rapporto al principio della colpevolezza riferita al fatto,
la rilevanza (pur non obbligatoria) della recidiva circa la determinazione della pena;
la dichiarata incostituzionalità (Corte cost. n. 249/2010) dell’art. 61, co. 11-bis, c.p., introdotto nel
2008, concernente «l’aver il colpevole commesso il fatto mentre si trova illegalmente sul territorio
nazionale»;
si rammenti, in proposito l’altro intervento attuato con il d.l. n. 99/1974 (provvedimento rivolto,
nell’impossibilità di addivenire a una riforma organica del codice penale, ad ampliare con finalità
mitigative, la discrezionalità giudiziaria), vale a dire l’estensione del cumulo giuridico al concorso
formale e al reato continuato fra reati eterogenei, ex art. 81 c.p. (v. infra);
la rilevanza delle circostanze attenuanti e aggravanti nel concorso di persone (art. 118 c.p.)
- il concorso di persone:
reati a concorso eventuale e a concorso necessario (questi ultimi prevedono talora la punibilità di tutti
i concorrenti, come nella corruzione o nell’associazione per delinquere, talora la punibilità di uno
soltanto fra di essi, venendo considerato l’altro come vittima, come nel caso della concussione o
dell’estorsione);
la scelta, discutibile, del codice italiano di punire tutti i concorrenti secondo il medesimo ambito
edittale previsto per il reato commesso (equiparazione dei concorrenti), senza distinzioni edittali
riferite al tipo di apporto (come invece avviene in altri ordinamenti);
il rilievo di c.d. condotte atipiche;
il contributo di natura materiale oppure morale (istigazione);
l’esigenza cardine, per individuare la condotta rilevante ai fini del concorso di persone, rappresentata
dal fatto che essa risulti causale rispetto alla realizzazione in concreto del reato:
- la connessa problematica relativa all’individuazione della condotta partecipativa rilevante; è
necessario, come s’è detto, che essa risulti causale rispetto alla realizzazione in concreto del
reato, stanti i rischi derivanti sotto il profilo del principio di legalità dal prospettare la sufficienza di
criteri meno stringenti fondati sulle nozioni generiche di agevolazione o rinforzo; resta peraltro
problematica la circostanza per cui nel concorso di persone la causalità è riferita al reato così come
realizzatosi hic et nunc, manifestandosi per molti versi dipendente, pertanto, dalla modalità di
descrizione del fatto: ciò in quanto, trattandosi di un reato cui concorrono più persone, il giudizio
controfattuale relativo alla condotta del partecipe non potrà riferirsi all’esclusione tout court
del realizzarsi del fatto medesimo (che potrebbe essere realizzato comunque dagli altri
concorrenti), ma assumerà una forma di questo tipo: senza l’apporto X il fatto non si sarebbe
realizzato in quel dato modo, per cui la risposta viene a dipendere dalla maggiore o minore
specificazione descrittiva del fatto medesimo;
- l’esigenza che la condotta rilevante ai fini del concorso di persone, sebbene possa risultare
atipica (cioè da sola non ricomprensibile in una data fattispecie incriminatrice), abbia pur sempre
attivato un rischio non consentito in relazione al prodursi dell’evento: in altre parole, che essa si
configuri pur sempre ex ante, nel contesto in cui viene tenuta, come violazione di una regola rivolta
ad evitare il prodursi del fatto (al pari di quanto s’è detto per la condotta nei reati monosoggettivi):
la necessità che sia accertato, in tutti i concorrenti in un delitto doloso, del dolo relativo al realizzarsi
del fatto tipico;
l’attenuante riferita al contributo di minima importanza (art. 114 c.p.), rappresentato da un
contributo ex post pur sempre causale, ma ex ante facilmente sostituibile e tale da non aver prodotto,
52
già di per sé, un rischio elevato di verificazione dell’evento;
la fattispecie di cooperazione colposa (art. 113 c.p.), che richiede pur sempre, ai fini della punibilità,
una condotta la quale già di per sé costituisca la violazione di una regola cautelare finalizzata a evitare
l’evento;
l’irrilevanza circa il concorso di persone, salve esplicite eccezioni, del mero accordo, ai sensi
dell’art. 115 c.p. (come pure dell’istigazione, ove il reato non sia stato commesso): v. già supra;
in tali casi, come pure in quello dell’istigazione non accolta, è applicabile una misura di sicurezza
(ipotesi di c.d. “quasi reato”, in parallelo con l’art. 49 c.p.);
richiami alla disciplina particolare, già discussa, di cui agli artt.116 e 117 c.p.
- introduzione alle problematiche di ambito biogiuridico aventi rilievo penale:
la rilevanza delle diverse fasi della vita ai fini del diritto penale:
in particolare, il permanente sussistere di illeciti penali in materia di interruzione della gravidanza e
l’inquadramento delle ipotesi (v. infra) di non punibilità, in quello che, tuttavia, dovrebbe rimanere
un contesto di prevenzione dell’aborto;
i delitti in materia di aborto:
- art. 593-bis c.p., introdotto dal d.lgs. n. 21/2018 (già art. 17 l. n. 194/1978): aborto colposo,
punibile solo con riguardo alla condotta di un soggetto diverso dalla madre;
- art. 593-ter c.p., introdotto dal d.lgs. n. 21/2018 (già art. 18 l. n. 194/1978): interruzione
della gravidanza su donna non consenziente (co. 1) e aborto preterintenzionale (co. 2 e 4: si
noti, con riguardo al co. 4 concernente l’ipotesi in cui derivi anche la morte della donna, la
disomogeneità sanzionatoria rispetto all’art. 584 c.p.);
- art. 19 l. n. 194/1978: aborto su donna consenziente, ove sia compiuto al di fuori dei requisiti
e delle procedure che non lo puniscono ai sensi della legge in esame; tale delitto è
sanzionato penalmente con la reclusione nei confronti di chi pratica l’aborto sulla donna e, ora,
come illecito amministrativo con riguardo alla donna (co. 2): la legge in tal caso prevedeva
tuttavia, rispetto alla donna, un delitto punito con la multa fino a euro 51, ma il provvedimento
generale di trasformazione in illeciti amministrativi (cioè di depenalizzazione), salve esplicite
eccezioni, dei reati esterni al codice penale puniti con la sola pena pecuniaria posto in essere dal
d.lgs. n. 8/2016 ha fatto sì che questa trasformazione si realizzasse – senza che il legislatore, è da
ritenersi, ne abbia avuto consapevolezza
– anche con riguardo al delitto previsto dall’art. 19, co. 2, con riguardo alla donna: e a questo
punto, stante il criterio di conversione tra pena pecuniaria e sanzione amministrativa previsto dal
suddetto provvedimento, l’illecito risulta sanzionato rispetto alla donna con una sanzione
pecuniaria amministrativa da 5000 a 10000 euro; l’inopportunità, in ogni caso, del fatto che
venga prevista, nell’ipotesi di cui s’è discusso, una sanzione avente natura pecuniaria, la quale
finisce per rappresentare una «monetizzazione» dell’atto abortivo (piuttosto, si preveda un
obbligo di altra natura);
- profili nuovi concernenti la tutela della vita umana:
il bene giuridico vita umana: la nozione di vita dell’individuo umano (e di qualsiasi specie vivente)
quale sequenza esistenziale autonoma, continua e coordinata;
in particolare, il concetto di autonomia come non necessità, per la prosecuzione del percorso
53
esistenziale, di alcun ulteriore impulso (o stimolo) dall’esterno: la sequenza esistenziale, in altre
parole, procede, dal momento in cui ha inizio, per forza propria e secondo un programma a essa
interno (espresso dall’informazione genetica propria di ciascun individuo, egualmente presente in
ciascuna delle sue cellule fin dalla prima di esse, cioè dallo zigote), potendo essere soltanto interrotta
(per ragioni patologiche o per il venir meno delle condizioni ambientali o di alimentazione che ne
rendono possibile la prosecuzione);
il concetto di continuità indica, a sua volta, che lo svolgersi di tale sequenza è unitario, non può
interrompersi e riprendere, e non consente di individuare stacchi qualitativi;
il concetto di coordinamento attiene invece all’interazione fra le diverse tipologie cellulari e, dunque,
tra i diversi organi, del corpo, assicurata dell’informazione genetica;
la nozione di morte (la fine della vita umana) come cessazione del coordinamento sistemico
dell’organismo, momento identificato, dopo la dinamica cellulare delle primissime fasi della vita
embrionale, nella morte cerebrale (o encefalica) completa (relativa, cioè, sia agli emisferi che al
tronco- encefalo);
la differenza radicale tra la morte cerebrale e le situazioni di coma;
il possibile prelievo di organi, a certe condizioni, dopo la morte cerebrale;
l’evolversi delle cognizioni relative agli stati di minima coscienza e agli stati di coma c.d. vegetativi;
il sussistere delle suddette condizioni che definiscono il sussistere di una vita individuale dal momento
della fecondazione (o concepimento), con la quale, dunque, si ha l’inizio della vita di un nuovo
essere umano; tale inizio, cioè l’attivarsi della suddetta sequenza, può peraltro realizzarsi anche
altrimenti: si pensi al separarsi in fase precocissima di una cellula o di un piccolo gruppo di cellule
ancor totipotenti (lo sono le prime otto cellule) dall’embrione, con il che prende avvio la vita di un
gemello monozigote; oppure si pensi (pur non essendo eticamente accettabile: v. infra) a un processo
di clonazione;
la vita come uno svolgimento esistenziale unitario dal suo inizio, che non consente di scindere
dimensione biologica (meramente corporea) e una dimensione metabiologica (come se la psiche fosse
una realtà svincolata dal corpo e calata dall’esterno in esso, secondo quanto ritenevano le antiche
impostazioni dualiste (si pensi a Cartesio): in realtà la sequenza esistenziale è unitaria ed esprime nel
corso del tempo sia capacità fisiche che psichiche: alcune si perfezionano solo a una certa epoca, altre
si perdono precocemente (si pensi alla capacità di costruire organi e tessuti in fase prenatale o alla
capacità di elaborazione linguistica nei primi anni di vita);
la tutela giuridica della vita umana prenatale come espressione della tutela dei diritti inviolabili
dell’uomo, che risulta correlata all’esistenza in vita, sulla base degli artt. 2 e 3 della Costituzione
(l’irrilevanza, già richiamata supra, di un giudizio sulle «condizioni personali e sociali» di un
individuo, e dunque sulle capacità o qualità che sia in grado di manifestare in un dato momento della
sua vita, ai fini della sua dignità sociale, cioè del rispetto dei suoi diritti inviolabili nei rapporti con
gli altri);
il rilievo giuridico della vita umana anche prenatale, in base alla Dichiarazione universale dei diritti
del fanciullo (Preambolo, punto 3): «considerato che il fanciullo, a causa della sua immaturità fisica
e intellettuale, ha bisogno di una particolare protezione e di cure speciali, compresa una adeguata
protezione giuridica, sia prima che dopo la nascita»): il fatto, dunque, che un individuo nella parte
iniziale della sua vita non abbia ancor acquisito talune capacità dell’adulto non lo rende minore nella
dignità, ma anzi lo rende titolare di un maggior diritto alla tutela;
le vicende relative alla fase iniziale della vita umana;
54
la struttura della legge n. 194/1978: premesse e considerazioni generali;
i principi affermati all’art. 1: «lo Stato tutela la vita umana dal suo inizio», «l’interruzione
volontaria della gravidanza non è mezzo per il controllo delle nascite»;
il concepito non solo come oggetto di tutela, ma anche come soggetto di diritti (si veda l’art. 1 l. n.
40/2004, ai sensi del quale «la legge … assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il
concepito»: quest’ultimo termine, fra l’altro, esplicita la tutela della vita umana prenatale dal
momento della fecondazione);
il problema, ovviamente, non è dato dalla rinuncia a utilizzare la previsione di una pena detentiva nei
confronti della donna per fini di prevenzione dell’aborto, punto sul quale può esservi amplissimo
consenso; si tratta, piuttosto, di domandarsi se sussista effettivamente un intento di prevenzione
dell’aborto, dato che le relazioni ministeriali annuali sulla legge 194 indicano, attualmente,
un’incidenza di quasi centomila aborti legali per anno, con una somma dal 1978 ad oggi – in anni
passati il numero delle donne in età fertile era assai maggiore di quello attuale – di quasi sei milioni
di interruzioni della gravidanza (si tenga conto di molte interruzioni ripetute la parte della medesima
donna);
le ipotesi di non punibilità:
cenni di carattere comparato: il modello dei «termini», proposto in alcuni contesti soprattutto
anglosassoni (nessuna rilevanza del concepito e totale autodeterminazione entro una certa epoca della
gravidanza) e il modello misto, seguito anche dalla normativa italiana (rilevanza di termini, requisiti
e procedure); una strategia alternativa si sarebbe potuta fondare sulla promozione di un sistema
normativo fortemente orientato all’aiuto nei confronti della donna in gravidanza;
i requisiti rilevanti ai fini della non punibilità, secondo la legge n. 194/1978:
in particolare, la necessità, in ogni caso (a parte le ipotesi molto rare di pericolo per la vita della
donna) del pericolo per la salute fisica o psichica della donna, derivante
a) nei primi novanta giorni di gravidanza (come pericolo serio), ai sensi dell’art. 4 l. n. 194/1978,
da uno dei quattro sotto-requisiti cui ivi la legge attribuisce rilievo;
b) dopo il novantesimo giorno e fino al momento in cui il feto potrebbe sopravvivere a un
parto prematuro (come pericolo grave), ai sensi dell’art. 6 l. 194/1978, da «accertati processi
patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro»;
ciò significa che i sotto-requisiti, nei primi novanta giorni, e i processi patologici, dopo il
novantesimo giorno, non assumono rilievo in modo autonomo, ma solo se ne deriva un pericolo
(serio o grave) per la salute fisica o psichica della donna riferito alla prosecuzione della gravidanza;
c) dal momento, invece, in cui il feto potrebbe sopravvivere a un parto prematuro (art. 7, co. 3, l.
n. 194/1978) – possibilità che inizia a darsi, oggi, dalla ventunesima settimana di gestazione – può
essere indotto un parto pretermine nel solo caso di pericolo di vita per la donna, adottando
tuttavia «ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto»;
- le contraddizioni circa l’inquadramento giuridico delle ipotesi di non punibilità dell’aborto:
inquadramento il quale appare esser stato ricercato, sulla premessa della sentenza n. 27/1975 della
Corte costituzionale (che aveva dichiarato l’incostituzionalità dei reati di aborto previsti nel codice
penale del 1930, nell’ambito dei delitti contro la «integrità e la sanità della stirpe»), attraverso un
riferimento estensivo allo stato di necessità (art. 54 c.p.: v. supra), in quanto unica norma che consente
55
di non punire un atto deliberatamente offensivo posto in essere nei confronti di un non aggressore (di
qui il requisito del «pericolo per la salute fisica o psichica»);
dello stato di necessità, tuttavia, manca nel caso in esame (oltre all’attualità del pericolo, problema
secondario) il requisito fondamentale della proporzionalità (v. art. 54 c.p.) fra quanto si sacrifica e
quanto si tutela: non sussistendo proporzione tra il bene vita e il bene salute (nella l. n. 194/1978,
anche «psichica»);
tale problema fu presente alla sentenza n. 27/1975 della Corte costituzionale, che però ebbe a
superarlo proponendo una discriminazione priva di supporto razionale tra il rango del bene vita prima
e dopo la nascita (affermò che il concepito «persona deve ancora diventare»), sulla base di un
riferimento implicito, del tutto improprio, all’art. 1 cod. civ. (concernente l’acquisto dalla nascita della
capacità giuridica): tale norma, infatti, non ha riguardo ai diritti umani inviolabili (che ex artt. 2 e 3
Cost. dipendono dalla mera esistenza in vita di un dato individuo), ma all’insieme dei diritti diversi
da quelli inviolabili, soprattutto di natura patrimoniale;
un orientamento, quest’ultimo, che impone di riflettere sui rischi (constatabili non soltanto con
riguardo alla vita prenatale) di c.d. flessibilizzazione dei diritti inviolabili, suscettibile di minare
l’impianto complessivo, concepito settant’anni orsono, inerente alla tutela intangibile dei diritti
umani; (si consideri, peraltro, che Corte cost. n. 27/1975 aveva richiesto a fini della non punibilità un
pericolo grave e medicalmente accertato per la vita o la salute della donna, senza menzione della
salute psichica);
- l’aborto farmacologico: il ricorso ospedaliero alla c.d. pillola RU 486: problemi;
in particolare, i rischi connessi a una utilizzazione illegale extraospedaliera del farmaco;
si considerino, altresì, i riflessi in merito alla offuscata percezione del fatto abortivo da parte della
donna e alla radicale riduzione dell’impatto psicologico dell’induzione dell’aborto per il medico e gli
altri operatori sanitari;
- l’abortività precoce: la possibile incidenza abortiva precoce della c.d. pillola del giorno dopo e
della pillola dei cinque giorni dopo (e l’analoga incidenza da tempo nota, della spirale o iud);
a seconda del momento del ciclo femminile in cui viene assunta, infatti, tale pillola può bloccare
l’ovulazione, ove questa non sia ancora avvenuta, oppure può agire dopo che l’ovulazione sia
avvenuta e l’ovulo sia stato fecondato dallo spermatozoo, impedendo che l’embrione in tal modo
formatosi possa annidarsi nella parete dell’utero (ciò in quanto tale pillola provoca una irritazione
della parete uterina, oltre a una riduzione nella motilità delle tube): così da agire, in questo caso, non
come un contraccettivo, ma come uno strumento abortivo precoce;
l’offuscamento del problema che si è avuto proponendo una modifica terminologica fuorviante circa
i confini della gravidanza, sovente definita negli ultimi anni non più come la fase ricompresa tra il
concepimento e il parto, ma come la fase ricompresa tra l’annidamento dell’embrione in utero e il
parto: così s’è potuto affermare che la pillola del giorno dopo non interrompe mai la gravidanza in
tal senso definita, lasciando credere che il suo effetto sia sempre contraccettivo, come invece non è;
l’embrione, infatti, esiste dalla fecondazione e, anzi, alla conclusione dell’annidamento manifesta già
una struttura estremamente complessa, con tre strati cellulari e con la visibilità delle strutture nervose
proprie della c.d. stria primitiva;
24.5
- il problema eugenetico, inerente alla utilizzazione per finalità abortive di dati genetici acquisiti
precocemente, a vita già in atto, attraverso la diagnosi prenatale;
l’esigenza che l’enorme incremento della possibilità di acquisizione di dati genetici, anche in
un’epoca esistenziale molto precoce, resti utilizzata per fini terapeutici e non per fini di selezione
(cioè di screening eugenetico);
l’incidenza statistica nient’affatto trascurabile dell’amniocentesi rispetto all’induzione di un aborto
56
spontaneo;
(v. anche infra la problematica analoga della diagnosi preimpiantatoria su embrioni);
- il ruolo di prevenzione rispetto all’aborto (prevenzione primaria) che compete al colloquio con
la donna (di cui all’art. 5, co. 1, l. 194/1978), in quanto finalizzato a «rimuovere le cause» che la
porterebbero a interrompere la gravidanza», offrendole «tutti gli aiuti necessari sia durante la
gravidanza sia dopo il parto»;
si tratta, soprattutto, di lasciar percepire alla donna, specie rispetto a messaggi in altro senso, che la
prosecuzione della gravidanza sarebbe comunque stimata (e supportata) dalle istituzioni pubbliche;
come pure di evitare che la donna identifichi emotivamente nell’aborto uno strumento idoneo, per
così dire, a riportare indietro le lancette dell’orologio: si tratta dunque di far sì che la donna possa
riuscire a prendere atto, realisticamente e senza rimozioni, della realtà nuova costituita dalla
gravidanza: anche quale possibile opportunità;
va altresì presa in esame l’incidenza, sovente trascurata, di conseguenze psichiche negative
dell’aborto per la donna, rilevabili anche a lunga distanza: come evidenziato, fra l’altro, nella terza
e quarta edizione del Manuale internazionale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM);
deve altresì essere data informazione circa il diritto fondamentale della donna di poter partorire
nell’anonimato, in modo da non assumere il ruolo genitoriale (art. 30, co. 1, d.P.R. 396/2000, ord.
stato civile), così che il bambino – salvo un breve spazio temporale per un eventuale ripensamento –
sarà adottato;
l’esigenza che la donna, in tal caso, sia rispettata e stimata nella sua scelta spesso dolorosa, in quanto
ha dato al bambino la vita senza chiedere nulla in cambio;
l’importanza, dunque, del suddetto diritto a fini di prevenzione dell’aborto (come pure di
pericolosissimi parti clandestini, seguiti, poi, dalla eliminazione del neonato: si rammenti del resto,
per evitare simile esito, che il neonato può essere lasciato anonimamente nelle culle protette (le c.d.
“ruote”) presenti ormai nel perimetro esterno di molti ospedali;
vi è la necessità inoltre, da parte degli operatori del consultorio o del centro socio-sanitario, di offrire
aiuto alla donna sul piano sociale (bisogni abitativi, economici, tutela dei diritti, ecc.), attraverso un
impegno concreto di tipo organizzativo (che non si limiti, cioè, a dare mere informazioni, che la
donna, in quel contesto, ben difficilmente sarebbe in grado di gestire);
va anche rimarcato che, nel quadro dell’impegno preventivo, può assumere un ruolo importante la
collaborazione con il volontariato sociale (per esempio, con i Centri di aiuto alla vita): anche per
quanto concerne possibilità di aiuto sul piano economico, possibilità prevista a livello istituzionale
solo da alcune regioni;
la finalità preventiva del colloquio, peraltro, finisce per essere depotenziata, di fatto, dalla possibilità
per la donna di potersi rivolgere direttamente a un medico di fiducia (art. 5, co. 2, l. 194/1978), col
rischio del venir meno, in tal modo, di qualsiasi effettivo impegno di aiuto alla donna e di prevenzione
dell’aborto (sebbene il medico stesso debba valutare con la donna le circostanze che la porterebbero
a interrompere la gravidanza e a informarla sugli aiuti sociali che potrebbe ricevere);
la mancata previsione, non condivisibile, di una specifica fase di colloquio in relazione ai casi in cui
l’interruzione della gravidanza non è punibile dopo il novantesimo giorno: la donna si rivolge
direttamente alla struttura sanitaria, ove devono essere accertati i processi patologici rilevanti e la loro
incidenza in termini di pericolo grave per la salute della donna (art. 7, co. 1, l. n. 194/1978);
si consideri anche la posizione in cui si viene a trovare il padre del concepito, che partecipa al
57
colloquio solo se la donna lo permette; ciò ha un effetto ambivalente: da un lato il padre può trovarsi
nella condizione di non poter neppure esprimere un parere o fornire aiuto, mentre dall’altro gli è
consentita in tal modo una facile deresponsabilizzazione rispetto all’aborto, che può riferire a una
decisione della donna nella quale non è coinvolto;
[è disponibile su questi temi, tra i materiali didattici, il parere del Comitato Nazionale per la Bioetica,
del 2005, sul tema dell’aiuto alla donna in gravidanza]
- la procedura autorizzativa circa l’interruzione della gravidanza nei primi novanta giorni, sia a
seguito di colloquio presso un consultorio o un centro socio-sanitario, sia a seguito di colloquio presso
il medico di fiducia (art. 5, co. 3 e 4, l. n. 194/1978): il ruolo anche accertativo del medico rispetto
alla sussistenza dei requisiti richiesti dalla legge;
aborto e donna minorenne, nei primi novanta giorni: normativa e problematiche (art. 12 l. n.
194/1978); il ruolo dei genitori (o del tutore) e la procedura davanti al giudice di pace nel caso di
dissenso;
l’esigenza di evitare che la ragazza giovane subisca un’induzione di fatto, da parte della famiglia o
del suo contesto di vita, a interrompere la gravidanza;
aborto e donna interdetta (art. 13 l. n. 194/1978);
la non praticabilità, in qualsiasi caso, dell’aborto senza il consenso della donna (artt. 12, co. 1, e
13, co. 2, l. n. 194/1978);
- l’obiezione di coscienza di cui all’art. 9 l. n. 194/1978 e il suo riferimento a tutte le procedure e
attività «specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza»:
l’interpretazione di tale concetto sulla base della nozione di rilevanza causale; la configurazione da
parte della legge di due categorie distinte a priori – non obiettori e obiettori – tra i medici e gli altri
professionisti sanitari operanti nell’ambito del servizio sanitario pubblico;
la collocazione giuridica dell’obiezione di coscienza: il suo fondamento come diritto costituzionale
(inquadrabile come causa di giustificazione), ove riferita all’intento di non derogare alla tutela della
vita umana o di altri diritti umani inviolabili;
quando l’ordinamento giuridico richieda, per qualsiasi ragione, a chi rivesta un certo ruolo la
disponibilità a tenere condotte lesive di un diritto inviolabile non può obbligare: per cui non può
prevedere l’obbligo di svolgere un’attività implicante quel ruolo ove tale attività abbia come elemento
caratterizzante la possibile tenuta di tali condotte (si pensi alle forze armate); quando invece si tratti
di un’attività o professione (è il caso delle professioni sanitarie) per le quali la suddetta possibilità
non costituisce elemento caratterizzante dovrà sempre ammettersi l’obiezione di coscienza (il cui
diritto, in questo caso, non dipende da una mera scelta legislativa, ma è desumibile direttamente dalla
Costituzione);
- le problematiche etiche e giuridiche connesse alla generazione umana extracorporea
(fecondazione in vitro) e la l. n. 40/2004 (c.d. procreazione medicalmente assistita);
l’esigenza di considerare, rispetto alle tecniche di fecondazione in vitro,
a) sia la questione relativa alla tutela dell’embrione fuori dal corpo femminile,
b) sia la questione in gran parte nuova concernente i “criteri” della generazione umana,
rispetto alla quale emergono esigenze di tutela riferibili a un bene che può essere identificato
in alcune condizioni essenziali di umanità della generazione (si pensi, alle problematiche
estreme della clonazione o della gravidanza artificiale):
58
a) la possibilità, da alcuni decenni, della generazione e, dunque, del sussistere di embrioni umani
al di fuori del corpo femminile;
la non praticabilità di un proseguimento al di fuori del corpo femminile dell’esistenza degli embrioni
generati in vitro; la necessità, a tal fine, che gli stessi siano trasferiti nell’utero di una donna e i
problemi connessi alle chance minoritarie di annidamento per ciascun tentativo;
il riconoscimento dell’embrione come soggetto di diritti tutelato dal concepimento, ex art. 1, co.1,
l. n. 40/2004 (v. supra);
la rilevanza penale della vita umana nella fase postnatale attraverso i delitti di omicidio e infanticidio
in condizioni di abbandono materiale e morale (art. 578 c.p.), durante la gravidanza attraverso i delitti
di aborto e nella fase embrionale al di fuori del corpo femminile attraverso il divieto della
soppressione di embrioni umani previsto e sanzionato come delitto dall’art. 14, co. 1 e 6, l. n.
40/2004;
b) la necessità di considerare, ben più pressantemente rispetto al passato, il problema costituito
dai criteri di umanità della generazione, posto che le tecniche di fecondazione in vitro
estendono in maniera rilevantissima le modalità attraverso le quali si rende possibile realizzare
l’avvio di una nuova vita umana;
si rende fra l’altro non eludibile, in tal senso, una riflessione circa le caratteristiche proprie del
procreare umano:
se esso debba identificarsi sempre più col diritto di chiedere, da parte di chiunque (coppia
eterosessuale od omosessuale, persona singola), l’applicazione di una qualsiasi modalità tecnicamente
idonea a generare: quale che sia la provenienza dei gameti, oppure ricorrendo a una surrogazione di
maternità (il c.d. utero in affitto o procreazione per altri), oppure programmando una selezione
precoce tra molti embrioni che si sia deciso di generare (v. infra), oppure attraverso una clonazione,
oppure, tra qualche decennio, attraverso la sostituzione del ruolo gestazionale di una donna mediante
un utero artificiale (ectogenesi), ecc.: e ciò solo in base al fatto che ci si dica disposti ad accudire il
nuovo nato (con ciò sovrapponendosi, fra l’altro, i profili del procreare e dell’adottare),
oppure se il procreare umano, che pure necessita della dimensione biologica, costituisca in primis,
come riterremmo, un atto relazionale di due persone generanti (necessariamente di sesso diverso), che
le coinvolge (anche nella loro corporeità);
i limiti di un approccio della Corte costituzionale che sembra argomentare, nelle sentenze recenti sulla
legge n. 40/2004, con riguardo prevalente al desiderio del figlio, inquadrato come elemento del diritto
alla salute;
la riflessione della Chiesa cattolica sul legame fra sessualità e generazione;
la distinzione, nella materia in esame, tra quanto è oggetto di regole giuridiche e la riflessione affidata
alla responsabilità di ciascun individuo;
- l’impianto della legge n. 40/2004, che nella stesura originaria intendeva garantire a ogni
embrione generato (non più di tre per ogni ciclo di stimolazione ovarica) quantomeno la possibilità di
proseguire nel suo iter esistenziale, evitando la generazione di embrioni sovrannumerari (il cui
destino è la morte o la crioconservazione) rispetto a quelli trasferiti in utero e, nel contempo,
evitando stimolazioni ormonali particolarmente pesanti nei confronti della donna; come pure
mantenendo il ricorso alla c.d. procreazione medicalmente assistita (pma) nell’ambito, e attraverso
i gameti, di una coppia stabile, limitatamente al caso di sterilità o infertilità;
le vicende relative al trasferimento degli embrioni nell’utero della donna; il problema del venir meno
di un’indicazione numerica precisa circa il numero degli embrioni generabili, a seguito della sent.
n. 151/2009 Corte cost. che ha inciso sul testo dell’art. 14, co. 2 (ora tale norma richiede che il ricorso
alla pma non deve «creare un numero di embrioni superiore a quello strettamente necessario», essendo
59
venute meno le ulteriori parole «ad un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a
tre»); pare tuttora deducibile, peraltro, dall’impianto dell’art. 14 la non programmabilità ex ante della
generazione di embrioni destinati alla crioconservazione;
il problema degli embrioni eventualmente non trasferiti, che, ai sensi della stessa giurisprudenza della
Corte costituzionale, devono essere crioconservati;
le permanenti preclusioni penalmente sanzionate previste dalla legge n. 40/2004 (si vedano in
particolare gli artt. 12, 13 e 14): accesso non meramente discrezionale, finalità procreativa, divieto di
clonazione, di ectogenesi (v. supra), di maternità surrogata, di ibridazione uomo-animale, ecc.
in particolare, il divieto di ricerca clinica e sperimentale a danno dell’embrione: «la ricerca clinica e
sperimentale su ciascun embrione umano è consentita a condizione che si perseguano finalità
esclusivamente terapeutiche e diagnostiche ad essa collegate volte alla tutela della salute e allo
sviluppo dell’embrione stesso, e qualora non siano disponibili metodologie alternative» (art. 13, co.
2, l. n. 40/2004);
l’avvenuta abrogazione del divieto di fecondazione eterologa, con sentenza della Corte cost. n.
162/2014: tecnica attraverso la quale la generazione avviene attraverso i gameti di due soggetti tra i
quali non sussiste una relazione (almeno uno di tali soggetti mette a disposizioni gameti prelevati dal
suo corpo, al di fuori di fuori di una relazione con l’altro soggetto generante);
la questione della diagnosi preimpiantatoria su embrioni, che implica la generazione di più
embrioni, in un contesto di possibile trasmissione di malattie genetiche, e il successivo prelievo di
cellule ancor totipotenti (come tali suscettibili, fra l’altro, di evolvere in un ulteriore individuo) da
ciascuno degli embrioni generati, onde effettuare uno screening genetico: con successiva esclusione
dal trasferimento in utero, e la conseguente estinzione (ma Corte cost. n. 229/2015 ne esige la
crioconservazione ad oltranza), degli embrioni con caratteristiche genetiche indesiderate (si
richiamino le considerazioni precedentemente svolte sul problema eugenetico);
la estrema problematicità etica di una simile procedura, che implica fin dall’inizio la decisione di
generare embrioni destinati a essere esclusi dal procedere nella loro vita, cioè la programmazione a
priori di una selezione fra di essi (simile procedimento, in altre parole, non consente di procreare un
figlio sicuramente sano, bensì opera attraverso la generazione di più embrioni fra i quali si programma
fin dall’inizio una selezione, che avviene a vita già iniziata);
l’apertura a tale tecnica (che comporta, peraltro, un numero significativo di falsi positivi e falsi
negativi) desumibile dalle sentenze nn. 96 e 229/2015 Corte cost. (anche in rapporto
all’interpretazione del divieto di selezione eugenetica degli embrioni, previsto dall’art. 13, co. 3b,
legge n. 40/2004);
la permanente rilevanza che, per sé, dovrebbe mantenere rispetto all’utilizzabilità di tale tecnica il già
citato divieto di ricerca clinica e di sperimentazione a danno di ciascun singolo embrione, di cui all’art.
13, co. 2, l. n. 40/2004;
- va infine constatata una scarsa informazione sulla rilevazione naturale della fertilità
femminile, circa la quale esiste, per esempio, un apposito “centro” presso la Facoltà di medicina
(il policlinico Gemelli) della Università Cattolica a Roma ([email protected]);
25.5
- il rapporto tra medico e paziente e le problematiche del fine-vita:
la permanente dignità del malato anche quando non possa più recuperare condizioni ordinarie di vita
e rappresenti, sul piano economico, un costo per la società;
la nozione di proporzionalità dell’intervento terapeutico;
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il ruolo della medicina palliativa, intesa al contrasto della sofferenza e a contrastare qualsiasi forma
di abbandono del malato grave;
l’inaccettabilità del c.d. accanimento terapeutico, ma anche delle prospettive eutanasiche (il rischio
connesso a queste ultime di pressioni, nei confronti di soggetti «deboli» che non possono recuperare
condizioni di piena efficienza, verso la rinuncia alle terapie);
si tratta, dunque, di riflettere sui limiti di utilizzazione, in determinate condizioni di malattia avanzata,
delle risorse tecniche oggi disponibili, e non di ipotizzare interventi eutanasici;
il ruolo del consenso nell’attività medica;
la necessità di considerare, in ogni caso, l’incidenza psicologica della condizione di malattia in merito
alle decisioni del malato (sovente, la prima risposta a una notizia sfavorevole inattesa circa la salute
è costituita dalla rimozione, con il rifiuto delle proposta terapeutica: per cui il paziente necessita di
vicinanza, anche da parte del medico, nell’elaborare il suo nuovo stato); del pari, il rifiuto delle terapie
può talvolta costituire un appello a non essere abbandonato, vale a dire una protesta contro
l’abbandono;
- commento della legge n. 219/2017 (Norme in materia di consenso informato e di
disposizioni anticipate di trattamento): il riferimento della legge alle scelte concernenti i trattamenti
sanitari e non a forme di collaborazione del medico per la morte;
il ruolo fondamentale dell’informazione, specie con riguardo alle disposizioni anticipate di
trattamento, come altresì delle cure palliative e del sostegno nei confronti del malato;
si rimanda al testo di commento della nuova legge ricompreso fra i materiali didattici nella pagina
web docente in unicatt.it;
- analisi critica dell’ordinanza 14-2-2018 della Corte d’assise di Milano che solleva una questione
di legittimità costituzionale circa l’art. 580 c.p. (con riguardo all’aiuto materiale al suicidio),
argomentando in base alla legge n. 219/2017 (la quale tuttavia ha per oggetto esclusivo, come si
diceva, le decisioni sui trattamenti sanitari e non legittima affatto il diritto a un’altrui collaborazione
per la morte);
- il concorso di reati (artt. 71 ss. c.p.):
unità e pluralità delle condotte: la condotta resta unica, e dunque unico il reato, se i comportamenti
posti in essere si realizzano in un medesimo contesto spazio-temporale (se per esempio Tizio sottrae
più cose materiali da un supermercato caricandole progressivamente su un automezzo);
se tuttavia una medesima condotta provoca più lesioni del bene vita o del bene incolumità si ritiene
da sempre che vengano a configurarsi più reati;
concorso materiale (omogeneo o eterogeneo): più reati con più azioni;
concorso formale (omogeneo o eterogeneo). Più reati posti in essere con un’unica azione;
concorso materiale e reato continuato, ex art. 81, co. 2, c.p.: più reati fra loro collegati da un
“medesimo disegno criminoso”;
ambito di applicabilità del cumulo giuridico (pena per il reato in concreto più grave, aumentabile dal
giudice fino al triplo, purché non si superi il livello del cumulo materiale) e del cumulo materiale,
consistente nella sommatoria – salvi i limiti di cui subito diremo – delle pene (oggi applicabile al solo
concorso materiale non caratterizzato da continuazione); la riforma, in proposito, attuata con d.l. n.
99/1974 (v. anche infra, in materia di circostanze), che ha esteso la disciplina del cumulo giuridico
anche al reato continuato omogeneo e al concorso formale;
i limiti massimi di pena nel caso di concorso di reati ex artt. 71 ss. c.p.;
il concorso apparente di norme penali e il principio di specialità (art. 15 c.p.);
61
l’interpretazione del concetto di “stessa materia” di cui all’art. 15 c.p.: norme riferibili – secondo
l’orientamento della dottrina – alla medesima situazione di fatto oppure – in un senso che ridurrebbe
moltissimo la riconoscibilità di un concorso solo apparente – alla tutela del medesimo bene
giuridico);
l’ulteriore criterio giurisprudenziale dell’assorbimento o consunzione, anche in rapporto al c.d.
antefatto o postfatto non punibile.
- le diverse modalità della confisca dei profitti provenienti da reato nel sistema penale:
a) la confisca diretta, definita all’art. 240, co. 1, c.p. come misura di sicurezza patrimoniale
e considerata in genere da tale norma come facoltativa (in rapporto al prodotto o al profitto del
reato), ma resa obbligatoria negli ultimi decenni rispetto a svariate tipologie criminose (p.es., art.
416-bis, co. 7); viene considerata confisca diretta anche quella del danaro che non consista nelle
medesime specie monetarie provenienti dal reato, sempre che sussista la prova della
derivazione da reato dell’entità di denaro sottoposto a confisca;
b) la confisca nella forma per equivalente, che non richiede il sussistere del nesso causale tra i
beni (equivalenti) confiscati e il reato commesso e da molti autori considerata una nuova forma di
vera e propria pena patrimoniale autonoma (i suoi possibili contenuti necessiterebbero peraltro
di una maggiore determinatezza); si vedano p. es. l’artt. 644, co. 6, c.p. e, in materia di delitti
contro la pubblica amministrazione e l’art. 322-ter c.p. (si consideri a quest’ultimo proposito la
problematica sovrapposizione tra questa disposizione e l’oggetto della riparazione pecuniaria ex
art. 322-quater c.p., introdotta nel 2015, dovuta dal p.u. o incaricato di p.s. in favore della p.a. di
appartenenza)
c) la confisca c.d. allargata di cui, ora, all’art. 240-bis c.p. (introdotto dall’art. 6 d.lgs. n.
21/2018, con cui è stato abrogato il corrispondente art. 12-sexies d.l. n. 306/1992 conv. con l. n.
356/1992), che non richiede la prova del nesso causale tra il profitto e il reato, facendo derivare
dalla mancata giustificazione della legittima provenienza, da parte di chi sia stato condannato per i
delitti gravi ivi previsti, dei beni di cui abbia la disponibilità in valore sproporzionato al reddito o
all’attività economica (secondo una sostanziale inversione dell’onere della prova): confisca essa pure
applicabile, ai sensi del secondo co., anche per equivalente; il riferimento all’attività economica è
importante onde evitare l’applicazione della norma nel caso in cui i beni abbiano provenienza
lecita, ma non risultino in conseguenza di (mera) evasione fiscale;
si consideri altresì, in proposito, la disposizione (ora prevista all’art. 578-bis c.p.p., introdotto dal
d.lgs. n. 21/2018), secondo cui «quando è stata ordinata la confisca in casi particolari prevista dal
primo comma dell'articolo 240-bis c.p. e da altre disposizioni di legge, il giudice di appello o la corte
di cassazione, nel dichiarare il reato estinto per prescrizione o per amnistia, decidono
sull'impugnazione ai soli effetti della confisca, previo accertamento della responsabilità
dell'imputato;
si noti come, invece, fosse stato dichiarato incostituzionale l’art. 12-quinquies, co. 2, d.l. n. 306/1992,
cit., che qualificava come reato autonomo la mancata giustificazione dei beni di cui sopra da parte di
chi fosse sottoposto a procedimento penale per una serie di gravi reati: ciò poiché in tal caso alla
mancata giustificazione non conseguiva, come invece ex art. 12-sexies, una conseguenza (soltanto)
patrimoniale del reato per cui un dato soggetto veniva condannato, bensì il configurarsi di un reato
autonomo e, pertanto, di un’inversione dell’onere della prova, dalla quale veniva fatta dipendere (non
soltanto una mera conseguenza patrimoniale, bensì) una restrizione della libertà personale;
d) la confisca come misura di prevenzione (ma si discute sulla sua natura effettiva) prevista
62
dall’art. 24 d.lgs. n. 159/2011 (codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione), sul
presupposto del previo sequestro di cui al precedente art. 20, fondato sulla sproporzione (v. supra) o
su sufficienti indizi della provenienza illecita dei beni di cui si abbia la disponibilità: la confisca
consegue, anche in questo caso, alla mancata giustificazione della provenienza legittima di tali beni;
in sintesi, dunque, si può oggi addivenire, rispetto ai reati gravi richiamati dalla norme suddette, sia
alla confisca (in vari casi anche per equivalente) dei profitti provenienti dai medesimi, ove vi sia stata
condanna, sia, sempre in caso di condanna, alla confisca dei beni di cui il condannato abbia la
disponibilità in modo sproporzionato, nel caso in cui non sia in grado di giustificarne la provenienza
legittima, sia alla confisca degli stessi beni nell’ambito di un procedimento di prevenzione, sempre
nel caso in cui l’interessato non sia in grado di giustificarne la provenienza legittima.
- quanto detto impone un richiamo alle misure di prevenzione (e dunque, in particolare, al cit.
d.lgs. n. 159/2011: si segnalano gli artt. 1-6, 8, 15, 16, 18-20, 24, 25, 31-34, 67, 71), quali
provvedimenti che – diversamente dalle pene e, di regola, dalle misure di sicurezza – non
presuppongono la commissione di un reato;
il problema degli elementi di fatto che siano idonei a costituire un presupposto sufficientemente
determinato per attestare la pericolosità dei destinatari, evitando di sconfinare in giudizi di mero
sospetto o inerenti alla personalità; gli interrogativi correlati di costituzionalità;
le misure di prevenzione personali applicabili dall’autorità amministrativa di polizia (questore):
avviso orale, foglio di via obbligatorio;
…e dall’autorità giudiziaria (tribunale): sorveglianza speciale, divieto ed obbligo di soggiorno;
la distinzione fra misure di prevenzione di carattere personale e di carattere patrimoniale:
l’autonomia, introdotta nel 2009, tra le due categorie; il ruolo, a tale proposito, della legge n. 646/1982
(c.d. Rognoni - La Torre), con finalità di contrasto della criminalità di tipo mafioso;