dispensa - storia della linguistica

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CORSO DI LINGUISTICA GENERALE (prof. E. Assenza) Breve storia della linguistica Il primo approccio scientifico allo studio delle lingue risale agli inizi del XIX secolo, prima di allora la lingua era stata oggetto o dell’empirismo normativo della grammatica e della retorica, o della speculazione filosofica (da Aristotele agli Stoici, dagli scolastici “modi significandi” alla Grammaire générale et raisonnée di Port Royal). Agli albori dell’Ottocento, in seguito al movimento culturale provocato, in Europa, dal Romanticismo, lo studio delle lingue verrà orientato all’individuazione di rapporti di somiglianza reciproca e di eventuali legami di parentela genetica, condotta sul confronto sistematico tra le lingue indoeuropee. In effetti, il metodo comparativo aveva già avuto i suoi antecedenti nelle classificazioni linguistiche del Primo trattato grammaticale islandese (seconda metà del XII sec.) che per primo aveva individuato la parentela fra islandese e inglese, e nel I libro del De vulgari eloquentia di Dante (1265-1321) dove viene elaborata una genesi della differenziazione di lingue e dialetti a partire da un idioma unitario: a causa del trascorrere del tempo e della diversa distribuzione dei popoli nello spazio geografico si formano tre famiglie europee: la germanica a nord, la latina a sud, la greca tra Europa e Asia. Il metodo impiegato da Dante è quello di assumere come basi comparativa un significato e osservare come questo viene espresso nelle diverse lingue. Il metodo comparativo si era poi sviluppato nel corso dei secc. XVI e XVII (le ricerche di Giusto Scaligero, di 1

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Breve Storia della linguistica in italiano

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CORSO DI LINGUISTICA GENERALE (prof. E. Assenza)

Breve storia della linguistica

Il primo approccio scientifico allo studio delle lingue risale agli inizi del XIX secolo, prima di allora la lingua era stata oggetto o dell’empirismo normativo della grammatica e della retorica, o della speculazione filosofica (da Aristotele agli Stoici, dagli scolastici “modi significandi” alla Grammaire générale et raisonnée di Port Royal).

Agli albori dell’Ottocento, in seguito al movimento culturale provocato, in Europa, dal Romanticismo, lo studio delle lingue verrà orientato all’individuazione di rapporti di somiglianza reciproca e di eventuali legami di parentela genetica, condotta sul confronto sistematico tra le lingue indoeuropee.

In effetti, il metodo comparativo aveva già avuto i suoi antecedenti nelle classificazioni linguistiche del Primo trattato grammaticale islandese (seconda metà del XII sec.) che per primo aveva individuato la parentela fra islandese e inglese, e nel I libro del De vulgari eloquentia di Dante (1265-1321) dove viene elaborata una genesi della differenziazione di lingue e dialetti a partire da un idioma unitario: a causa del trascorrere del tempo e della diversa distribuzione dei popoli nello spazio geografico si formano tre famiglie europee: la germanica a nord, la latina a sud, la greca tra Europa e Asia. Il metodo impiegato da Dante è quello di assumere come basi comparativa un significato e osservare come questo viene espresso nelle diverse lingue.

Il metodo comparativo si era poi sviluppato nel corso dei secc. XVI e XVII (le ricerche di Giusto Scaligero, di Sassetti, di Leibniz, di Stiernhelm e Jäger), fino alla svolta data nel 1786 dal giurista e orientalista Sir William Jones con l’individuazione di un rapporto certo di parentela storica tra il sanscrito da un lato e il greco, latino, gotico e celtico dall’altro. Nel sostenere l’origine comune di queste lingue Jones si basa su due prove: l’etimologia nelle radici dei verbi e la struttura nelle forme della grammatica.

La novità introdotta nel XIX secolo, che fornirà i presupposti per l’autonomia della linguistica, consiste nel fondare il metodo di comparazione tra lingue su criteri prettamente linguistici e basati non soltanto sulle corrispondenze lessicali, ma anche sul controllo sistematico delle strutture interne delle lingue (di elementi fonetici, morfologici, sintattici). L’obiettivo è quello di ricostruire, attraverso processi deduttivi, l’indoeuropeo.

Nel 1808, col saggio Sulla lingua e la sapienza degli indiani, Friedrich Schlegel (1772-1829) definisce questo nuovo indirizzo di studi “grammatica comparativa”. In pratica il metodo comparativo si fonda sul confronto tra la morfologia flessiva e derivativa del sanscrito e quella delle altre lingue indoeuropee, in particolare latino e greco.

Allo Schlegel, si deve anche l’elaborazione di un nuovo metodo di classificazione delle lingue che inaugura la linguistica testuale, o tipologia linguistica. Il criterio

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tipologico, basato su un’indagine di tipo comparativo, mira all’individuazione di un tipo linguistico al quale assegnare una determinata lingua e assume come parametro di base per la determinazione tipologica, le differenze tra le varie lingue del mondo. La nozione di tipo linguistico si lega perciò al concetto di ‘variazione possibile’. In altre parole il modello di riferimento per l’individuazione delle caratteristiche tipologiche di una data lingua è dato da una serie di possibilità teoriche che si combinano tra loro in base a un principio implicazionale che investe tutti i livelli della grammatica di ciascuna lingua storico-naturale (la fonologia e, in misura maggiore, la morfologia e la sintassi). Il primo modello di classificazione ‘tipologica’, elaborato da Schlegel, fissa un tripartizione in: lingue isolanti (prive di struttura grammaticale), lingue agglutinanti (o lingue ad affissi) e lingue flessive (dove i tratti morfologici sono affidati alla flessione).

In realtà il primo modello di classificazione ‘tipologica’, cui Schlegel si ispira, risale a Wilhelm von Humboldt, importante studioso che visse a cavallo dei due secoli (1767-1835). Il tema generale che attraversa i suoi scritti è l’interesse a spiegare la creatività infinita del linguaggio, il suo aspetto creativo. Egli vede nella lingua “un prodotto storico” che il parlante eredita e, a sua volta, rielabora. La lingua non è perciò un fenomeno collettivo e fisico, e non è un prodotto (érgon). Essa è enérgeia, “creazione continua” e individuale, espressione, fatto estetico. L’antinomia érgon / enérgeia, espressa da Humboldt nel saggio introduttivo all’opera sulla lingua Kawi dell’isola di Giava (1836-40), rivendicava la necessità teorica di ricondurre il linguaggio ai meccanismi creativi che lo producono, e di identificarlo con «il sempre rinnovato lavoro dello spirito per rendere il suono articolato [“la forma esterna”] idoneo ad esprimere il pensiero [forma interna o innere Sprachform]». Dal concetto di innere Sprachform che determina la struttura fonetica, lessicale e grammaticale (in pratica la struttura semantica e grammaticale) di ogni lingua Humboldt elabora la prima tipologia di tripartizione delle lingue in isolante (stadio di semplice riferimento a oggetti), agglutinante (incorporamento di elementi ausiliari forniti di significato), flessivo (variazioni grammaticali della forma delle parole affidate a mutamenti interni della radice, o affissi innestati nella parola sì che la sua unità formale risulti rafforzata).

Il principio soggiacente al modello di Humboldt e di Schlegel e, in generale, a tutti i primi tentativi di classificazione, consiste nel disporre verticalmente i vari sistemi tipologici, secondo una gerarchia che vede alla base le lingue isolanti e al vertice il tipo flessivo indoeuropeo, considerato il più evoluto.

Anche il criterio tipologico risente perciò, almeno alle sue origini, del clima culturale dell’epoca, che il romanticismo e il colonialismo avevano improntato a una visione spiccatamente eurocentrica.

La data di nascita ufficiale della disciplina viene fissata, per l’Europa, nel 1816, con la pubblicazione del volume di Franz Bopp (1791-1867) Sul sistema di coniugazione del sanscrito comparato con quello del greco, latino, persiano e germanico. (In effetti, i rapporti di parentela genetica tra le lingue indoeuropee erano già stati individuati, in ambito germanico, da Rask – con uno studio del 1814, che però verrà pubblicato soltanto nel 1818 – e da Gyarmathi, in campo ugrofinnico).

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Bopp abbandona i confronti lessicali, poco probanti, di Schlegel e fonda il suo processo di comparazione sulla struttura grammaticale delle lingue indoeuropee. Sostituisce perciò alla classificazione ‘tipologica’ di Schlegel, una classificazione genealogica, considerando ‘affini’ quelle lingue che si presentano come il prodotto dello svolgimento di un unico idioma originario.

Insieme a Rask e Bopp, un ruolo importante nella nascita della linguistica storica scientifica è occupato da Grimm (1789-1863). La sua Deutsche Grammatik (‘Grammatica germanica’) è salutata come l’inizio della linguistica germanica: suoi sono i termini ancora attuali di Ablaut ‘gradazione o apofonia vocalica’ e Umlaut ‘metafonia o mutamento vocalico in dipendenza dal contesto’. Nel 1822 Grimm formulò la prima fra le leggi fonetiche sulle quali si baserà la struttura e il sostegno dell’indoeuropeo e di altre famiglie di lingue (si tratta della Lautverschiebung o ‘rotazione consonantica’ che riguarda il comportamento delle occlusive sorde, aspirate e sonore rispettivamente nel greco, nel gotico e nell’antico tedesco. In seguito meglio precisata da Verner in base alla posizione dell’accento).

A partire da questo momento, le lingue romanze acquistano un’importanza particolare, in quanto unico gruppo di lingue genealogicamente affini con base conservata (il latino). Sarà compito di Friedrich Diez (1794-1876) adattare il metodo storico-comparativo, inaugurato in ambito germanico, alle lingue neolatine. Lo farà individuando sei lingue romanze: due a Est (italiano e valacco, alias rumeno), due a Nord-Est (provenzale e francese) e due a Sud-Ovest (spagnolo e portoghese) e compilando due lavori molto importanti, la Grammatica delle lingue romanze (1836-43) e il Dizionario etimologico delle lingue romanze (1854).

Per tutto il secondo ‘800 e fino ai primi decenni del ‘900, la grammatica comparata, (intesa come il controllo sistematico di elementi fonetici, morfologici, sintattici e lessicali finalizzati alla ricostruzione dell’indoeuropeo) costituirà il solido paradigma scientifico per tutte le ricerche di linguistica storica e di etimologia.

Restando all’800, intorno alla metà del secolo, gli studi glottologici verranno investiti da un nuovo flusso, quello delle correnti positiviste e naturaliste (in particolare le teorie evoluzioniste di Darwin), che avevano permeato di sé il pensiero dell’epoca.

Movendo dalla considerazione che «la capacità di trasformazione delle specie nel tempo, affermata da Darwin, è ormai diventata cosa generalmente ammessa per gli organismi linguistici», il tedesco August Schleicher (1821-1868) vedrà nelle lingue «organismi naturali che, senza essere determinabili dal volere dell’uomo, sono sorti, cresciuti e sviluppati secondo leggi fisse e poi invecchiano e muoiono» (La teoria darwiniana e la linguistica, 1863). Altri con lui, parleranno di “vita delle parole” (La vie de mots -Dermesteter 1887) e di Life and Growth of Language (Whitney 1876).

Anticipando il principio teorico dei neogrammatici, Schleicher (1821-1868) giungerà a postulare l’esistenza di rigide leggi fonetiche che consentono, procedendo deduttivamente, di ricostruire le fasi dello sviluppo delle lingue a partire dalle loro origini e di individuarne l’archetipo. Descriverà dunque i processi di formazione delle lingue a partire dal loro archetipo come rapporti di gemmazione da un unico tronco comune, e per

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poterli rappresentare elaborerà il modello dell’albero genealogico (Stammbaumtheorie 1856-57).

Ma già nel 1868, Gaston Paris (1835-1903) opponendosi a Schleicher avvertiva che «tutte queste parole (organismo, nascita, crescita, sviluppo, vecchiaia, morte) non sono applicabili se non alla vita animale» e che «lo sviluppo del linguaggio non ha cause in sé stesso, ma piuttosto nell’uomo, all’interno delle leggi fisiologiche e psicologiche della natura umana». In seguito, nel 1887, Paris avrebbe precisato: «l’espansione e la scomparsa delle lingue non dipende minimamente dalla loro costituzione organica, bensì dalla qualità e dal successo degli uomini che le parlano, vale a dire da circostanze puramente storiche ed esterne» (concetto condiviso dai Neogrammatici).

Circa un decennio dopo (1872) la formulazione del modello dendrologico, un allievo dello Schleicher, Jhoannes Schmidt (1843-1901), osserverà come «le lingue non si dividono nettamente a un dato punto nel tempo, corrispondente a una linea divisoria dell’albero; il processo di suddivisione ha inizio a livello sub dialettale e avanza per divergenze dialettali crescenti finché è giustificato cominciare a parlare di due o più lingue distinte» (Robins: 2004). Invalidando così le singole suddivisioni della Stammbaumtheorie, Schmidt fornì a questa un supplemento con la sua Wallentheorie o teoria delle onde: le innovazioni linguistiche si propagano come onde irradiantisi da centri dotati di particolare potere, che si allontanano progressivamente da questi punti e si intersecano spesso reciprocamente. La ‘teoria delle onde’ supera il limite principale dello schema ad albero, che non riusciva a dare ragione di certe affinità fra lingue geograficamente molto lontane fra loro. Ad esso si sostituisce adesso l’immagine di aree di continuità geografica (in età preistorica) e il criterio temporale viene completato con la considerazione spaziale nella ricostruzione e nell’interpretazione storica dei fatti linguistici. Inoltre il procedimento ricostruttivo della grammatica comparata trascurava del tutto le vicende intermedie che avrebbero potuto spiegare le eccezioni alle regole, soprattutto fonetiche, caratterizzanti le singole fasi. Dal momento che l’obiettivo della ricostruzione era stabilire regole assolute, le fasi ricostruite risultavano irrealisticamente unitarie ed epurate da ogni traccia di variabilità interna o di interferenza esterna. Accanto al concetto di prestigio culturale che consente a un sistema linguistico di diventare egemonico rispetto agli altri, la teoria di Schmidt introduce una concezione di tipo stratigrafico dell’area linguistica, che risulta così caratterizzata dalla sovrapposizione di ondate innovative via via succedutesi.

Un fronte di critiche ancora più compatto, rispetto a quello provocato dalle teorie dello Schleicher, si schiererà, qualche anno dopo, contro i Neogrammatici della Scuola di Lipsia. I neogrammatici si batterono al pari di Schleicher per fare della linguistica una scienza dura, ma mentre il primo si era ispirato alla biologia, questi ultimi presero a modello le scienze fisiche esatte di natura inanimata (geologia e fisica). Nell’articolo che può essere considerato il manifesto della scuola, elaborato nel 1878 da Brugmann e Osthoff essi affermeranno il principio dell’ineccepibilità delle leggi fonetiche, mitigato dal fattore psicologico dell’analogia. In tale articolo si dichiara che tutti i mutamenti di suono, in quanto meccanici, avvengono in uno stesso dialetto ed entro un dato periodo di tempo secondo leggi che non ammettono eccezioni, e lo stesso suono nello stesso ambiente

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si svilupperà sempre nello stesso modo. Le leggi fonetiche agiscono pertanto per cieca necessità, indipendentemente dalla volontà dell’individuo.

In pratica, mentre nel programma della Scuola elaborato da Brugmann e Osthoff si insiste sul fattore psicologico, in seguito i neogrammatici punteranno l’attenzione precipuamente sulle leggi fonetiche, ricorrendo all’analogia come a un ultimo rifugio. (Eppure ricordiamo che c’era già stato chi, come Wilhelm Humboldt (1767-1835), aveva visto nella lingua “un prodotto storico” che il parlante eredita e, a sua volta, rielabora).

Alla base della teoria neogrammatica stava la considerazione che l’esistenza della linguistica comparativa e storica come scienza poggiava sulla premessa della regolarità del mutamento di suono: «se si ammettono deviazioni facoltative, casuali, senza alcun nesso reciproco, si finisce in sostanza per affermare che l’oggetto dell’indagine, la lingua, non è accessibile all’analisi scientifica» (A. Leskien 1876).

Due campi che i neogrammatici ritennero importanti per questa nuova impostazione furono la fonetica descrittiva, data l’importanza che essi attribuirono alle lingue vive e all’inadeguatezza della letteratura delle lingue morte nell’informare sulla loro reale pronuncia, e la dialettologia che assunsero come un campo vitale per l’indagine scientifica in quanto i dialetti rappresentavano l’ultimo stadio nella differenziazione della famiglia indoeuropea.

Ma gli attacchi più energici ai principi dei neogrammatici giunsero proprio dai dialettologi vale a dire dagli specialisti di quella branca di studi fondata su lingue e dialetti vivi che i neogrammatici avevano incoraggiato). In particolare dall’ambiente italoromanzo (che per eccellenza si occupava di dialetti vivi) dei cosiddetti preascoliani. Essi, infatti, pongono la tipologia delle lingue in relazione con le vicende storiche in cui le lingue stesse sono state coinvolte. Di grande interesse sono i contributi di Carlo Cattaneo (che elabora il concetto di sostrato come risultante della mescolanza tra lingue dominanti e lingue assoggettate e che legge negli assetti linguistici attuali del territorio i risultati di contatti e conflitti di lingue e culture) e di Bernardino Biondelli (che al concetto controverso di “confine linguistico” sostituisce quello di “zona” e ricerca gli effetti dei sostrati non solo nei suoni e nelle parole ma anche nel sistema concettuale delle lingue).

Successivamente, le due lettere glottologiche di Graziadio Isaia Ascoli (1882 e 1886) e l’opuscoletto di Schuchardt, Intorno alle leggi fonetiche. Contro i neogrammatici (1885), negheranno recisamente che le norme linguistiche possano avere un’applicazione generale e assoluta come le leggi fisiche: due fattori imprescindibili, il tempo e lo spazio, ne limitano l’azione.

Anche la visione monolitica della lingua subisce, per mano di Schuchardt, un durissimo colpo, dal momento che lo studioso giungerà a negare persino il concetto stesso di dialetto, considerato il fatto che all’interno di una stessa comunità linguistica vivono infinite varietà individuali dipendenti dall’età, dal sesso, dalla condizione sociale.

Alle osservazioni di Schuchardt si accorderanno altre autorevoli voci, come quelle di Louis Gauchat (1866-1942) che nel 1903 pubblica un saggio dal titolo significativo Ci sono confini dialettali? e dell’abate Pierre Rousselot che osserverà la mancanza di un’unità linguistica assoluta anche all’interno di una stessa famiglia.

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Persino dal suo stesso entourage, la Scuola di Lipsia riceverà attacchi. Lo scacco maggiore che i neogrammatici subiscono sarà, infatti, il frutto di un autogol: una nuova disciplina, quella geolinguistica che proprio all’ambiente neogrammatico inferirà i suoi colpi più duri, nascerà da un paradosso teorico della Scuola.

L’origine della geolinguistica come metodo speciale di indagine coincide, infatti, con l’inaugurazione degli atlanti linguistici e cioè con la prima rappresentazione cartografica dei fenomeni linguistici e con lo studio e le conclusioni che dall’esame di essa sono state tratte1.

Il paradosso sta nel fatto che il primo atlante linguistico viene programmato proprio da un neogrammatico, George Wenker (1852-1911), che movendo da un’impostazione precipuamente meccanica della fenomenologia linguistica, decide di raccogliere, con un questionario fonetico (impartito per corrispondenza!), gli esiti della seconda rotazione consonantica tedesca e di riportarli su carta per tracciare i confini tra i dialetti alto- e basso-tedeschi. Già nelle prime carte, però, gli esiti si sfrangiano, si distribuiscono sul territorio in modo disomogeneo, oscillano da parola a parola consentendo, tutt’al più, di tracciare qualche fascio di isoglosse2.

L’esperimento di Wenker si rivela un fallimento ma apre le porte alla geografia linguistica (o geolinguistica), che nell’atlante linguistico individua il proprio strumento euristico e che riceve autonomia scientifica nel momento stesso in cui l’osservazione dei dati cartografati consente di formulare principi linguistici nuovi e rivoluzionari.Il padre ufficiale della geolinguistica è Jules Gilliéron (1854-1926) che, insieme ai suoi allievi, realizza l’Atlante Linguistico Francese (ALF).

La pubblicazione dei fascicoli dell’Atlante durò dal 1902 al 1912 formando 12 grandi volumi in folio e tutti i romanisti riconobbero la portata monumentale dell’opera, solo pochi, però, ne intravidero il carattere rivoluzionario.

Una rivoluzione che Terracini definirà ‘copernicana’ perché fissa, per la prima volta in modo sistematico, i rapporti di correlazione tra variabilità interna e variabilità esterna alla lingua. La possibilità, cioè, di leggere nel dato geografico l’indizio o la traccia di un episodio riguardante comunque la storia della cultura: il principio di coerenza geografica,

1 A seconda del carattere del fenomeno rappresentato, si può costruire una carta fonetica o fonologica, che mostra le varie realizzazioni di un fono in una determinata area e consente, così, lo studio dell’evoluzione o dei mutamenti che hanno subito, nel tempo, i suoni; oppure una carta lessicale, che mostra la distribuzione dei vari tipi lessicali (lessotipi) usati in un determinato territorio per esprimere un dato concetto o per designare un oggetto, trascurandone, del tutto o in parte, le singole varianti fonetiche; o ancora una carta linguistica che, all’obiettivo della carta lessicale aggiunge anche la registrazione delle varianti fonetiche e morfologiche di un lessotipo, con una trascrizione fonetica rigorosa. Quest’ultimo tipo di carta, che è quello preferito degli atlanti linguistici, offre molteplici informazioni e consente più applicazioni di ricerca, vale a dire studi fonetici e fonologici, lessicali, morfologici, sintattici e semantici insieme.2 Isoglossa = linea immaginaria che su una carta linguistica collega tutti i punti e delimita le aree aventi in comune il medesimo uso o fenomeno linguistico (che può essere una particolarità fonetica, morfologica, sintattica o lessicale).

Tale linea viene perciò a separare due aree contigue che divergono nei rispetti di uno o più fenomeni linguistici. A seconda che si tratti di fenomeni fonetici, morfologici o lessicali si parla più frequentemente di isofona, isomorfa, isolessi.

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in forza del quale si giustifica un punto isolato in quanto avanguardia o retroguardia di ciò che accade in aree adiacenti; il principio stratigrafico applicato nella ricostruzione e ricomposizione di aree lessicali unitarie sulla base dei ‘relitti’ conservati in punti laterali; il riconoscimento del carattere dinamico della lingua; il concetto di vitalità, ossia l’idea che la lingua, coinvolta in un conflitto di aree, si ‘ammali’ e da sé organizzi le terapie atte a risolvere patologie quali la collisione omonimica e l’ipertrofia semantica, l’opacità del significante o l’erosione del corpo della parola3.

I tre primi bersagli, raggiunti precocemente dallo stesso Gilliéron, appaiono nell’introduzione al suo lavoro sulla terminologia dell’ape (Généalogie des mots indiquant l’abeille’, Parigi, 1918):- dall’individuazione di un punto da cui irradia una forma riconosciuta come più recente rispetto ad altra, è possibile risalire al riconoscimento del carattere individuale dell’innovazione. La causa dell’innovazione può essere data all’interno dell’individuo dall’esigenza di intensificazione espressiva.- l’innovazione anziché solo all’interno dell’individuo, può essere determinata da cause esterne a lui (collisione omonimica, ipertrofia semantica; logoramento fonetico).- le innovazioni non irradiano a macchia d’olio (Schmidt), ma sono ora favorite da itinerari preferenziali consueti, ora ostacolate da barriere geografiche o politiche, ecclesiastiche o amministrative.

In quegli stessi anni, tra la fine dell’800 e i primi del ‘900, in opposizione al positivismo (e quindi ancora una volta alla neogrammatica) si sviluppano, sempre in ambito romanzo, due importanti indirizzi:

- il movimento Wörter und Sachen (‘Parole e cose’) che trovò il suo principale organo nella rivista, fondata da R. Meringer e Meyer-Lübke: Wörter und Sachen (1909-1937 e 1938-1944). Questo indirizzo propugna lo studio accoppiato della storia degli oggetti insieme alla storia della parole e dichiara pericolosa e vuota di senso l’indagine etimologica affidata al puro materiale linguistico.

- la scuola idealistica ed estetica di Karl Vossler, che molto deve alle geniali intuizioni di Humboldt e alla filosofia di Benedetto Croce (1902). L’idealismo pone in evidenza l’importanza del singolo parlante nell’origine e nella diffusione dei mutamenti linguistici. Ogni mutamento linguistica ha origine con innovazioni nella parlata abituale

3 Gilliéron applica, per la prima volta su larga scala, i concetti di omofonia e di etimologia popolare, traendo esempio proprio dalla semplice disposizione geografica delle forme. Omofonia: G. osserva, per esempio, che, per esprimere il concetto di ‘segare’, i dialetti della Francia meridionale e sud-orientale presentano cinque forme diverse: 1) serrà; 2) résega; 3) resegà; 4) segà; 5) seità. L’area di serrà si trova in quattro regioni separate l’una dall’altra nella Francia meridionale, mentre le altre voci occupano zone compatte. La disposizione di queste quattro aree sulla carta fa supporre che serrà occupasse un tempo un’area più vasta e continua: i termini serro ‘sega’ e sarò ‘segatura’, etimologicamente affini al verbo serrà, si trovano anche nelle aree che presentano uno degli altri quattro tipi succitati; la perdita di serrà nel senso di ‘segare’ è dovuta, in queste zone, all’omofonia di un altro verbo serrà che ha il senso ‘chiudere’. L’analisi della carta fermer ‘chiudere’ dell’ALF dimostra che le continuazioni di serrà ‘chiudere’ si trovano in quelle regioni dove manca serrà ‘segare’. Un esempio di etimologia popolare: il francese fumier ‘letamaio’ è una continuazione del latino *fimarium; la forma più antica era, in francese, femier. Il mutamento e > u potrebbe essere dovuto, nell’interpretazione di G., all’etimologia popolare che riconnette fumier con fumée (per il fumo che emana dai letamai).

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dell’individuo, e quelle che danno origine ad alterazioni permanenti nella lingua vi riescono perché vengono imitate da altri parlanti e così si diffondono. Ma gli idealisti diedero eccessivo rilievo all’elemento letterario ed estetico nell’evoluzione delle lingue in un campo che per la maggior parte dei parlanti è semplicemente un’attività sociale non meditata.

In Italia, Matteo Bartoli (1873-1946), di formazione mittleeuropea e forte della frequentazione con Gilliéron, innesterà alle teorie idealistiche di ispirazione crociana e vossleriana, le applicazioni della geografia linguistica gilliéroniana. Ne nascerà una nuova linguistica spaziale, o neolinguistica, tesa a stabilire un rapporto cronologico tra diverse fasi linguistiche coesistenti e concorrenti in area romanza e indoeuropea sulla base della loro distribuzione areale. La neolinguistica (1925) è teorizzata attraverso una serie di norme areali (dell’area isolata, dell’aria centrale e delle aree laterali, dell’area più vasta e delle aree di più recente romanizzazione)4 alle quali il Bartoli accorderà, forse, un’eccessiva centralità finendo col cadere, a sua volta, nel meccanicismo.

Il risultato migliore si avrà con Benvenuto Terracini (1886-1968), formatosi insieme al Bartoli, ma con una propria personalità di studioso. Dal contatto con la Scuola di Alti Studi di Parigi, con Gilliéron e Meillet, tra la fine del XIX e i primi del XX secolo, Terracini ricava i vettori principali dei suoi interessi linguistici: la lingua in atto e l’aspetto dinamico dei punti linguistici saranno i capisaldi delle sue teorie. Da Gilliéron, Terracini coglie l’attenzione che il linguista deve avere a contemperare le esigenze di sistematizzazione e ordinamento con il “sentimento dei parlanti” (nell’interim c’è stato anche Croce e l’Idealismo). Il fenomeno-lingua è la costante dialettica tra l’attività del parlante/individuo, punta di diamante del mutamento linguistico, e l’operazione di conservazione della comunità; è la risultante della dialettica tra punto e area. Per questa ragione, Terracini è visto come il padre della sociolinguistica. Per quanto infatti non abbia mai usato il termine ‘sociolinguistica’, è pur vero che a partire da lui l’interesse al rapporto lingua/società sarà una costante.

A partire dal primo ventennio del ‘900, anche la linguistica francese aveva rivolto la sua attenzione agli aspetti sociali del linguaggio. La scuola di Bréal e dei suoi collaboratori, tra i quali Saussure e Meillet, investirà la procedura comparativa – fino al quel momento basata sul confronto tra lingue diverse per estrarne leggi generali del linguaggio – di un nuovo mandato: fare la “histoire des langues”. Come afferma Meillet, se non c’è comparazione non c’è storia e “giacché il metodo comparativo è l’unico che permette di fare la storia delle lingue, ne consegue che finché una lingua è isolata essa risulta dénuée d’histoire”.

4 Norma dell’area isolata: l’area isolata conserva la fase linguistica più antica; norma dell’aria centrale e delle aree laterali: l’aria centrale presenta la fase seriore rispetto alle aree laterali; norma dell’area più vasta: l’area più vasta presenta la fase anteriore rispetto a un’area meno estesa; norma delle aree di più recente romanizzazione: le aree di più recente romanizzazione (rispetto all’Italia) presentano la fase anteriore. La fase scomparsa è di norma più antica di quella sopravvissuta.

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La ricostruzione passerà attraverso il ‘confronto tra’ e il ‘passaggio da’ uno stato di lingua ad altri stati di essa (ora ricostruiti ora attestati), sottoponendo il processo comparativo ad una interpretazione rigorosamente sistematica.

Per dare un fondamento teorico alla sua linguistica storico-comparativa Meillet parte dall’assioma saussuriano dell’arbitrarietà del segno linguistico, il quale riceve il suo valore in virtù di una tradizione. Ciascuna di queste ‘tradizioni’ può essere ricondotta a una origine comune (Ursprache), attraverso l’analisi delle concordanze fra le diverse lingue: se tali concordanze non sono motivabili come prestiti, esse dimostrano l’esistenza di una origine monogenetica. Va da sé che, siccome ciascun fatto linguistico fa parte di un insieme dove tout se tient, il confronto tra stati non potrà mai essere di tipo “atomistico” ma dovrà essere condotto con il massimo rigore sistematico (si anticipa, così, il principio della diacronia strutturalista elaborato, circa un decennio dopo, dal Circolo di Praga).

Ma il carattere dominante delle teorie linguistiche di Meillet consiste in quello che si può chiamare il suo ‘sociologismo’. Già Breal, opponendosi al fondamentalismo neogrammatico, aveva ricercato le ragioni del mutamento linguistico nelle “cause intellettuali”, nel “passato di un popolo” e nel “suo sviluppo originale”. Meillet ne completerà il pensiero giungendo ad affermare che nelle lingue “esiste un elemento che, nelle sue modificazioni, provoca continue variazioni, a volte improvvise, a volte lente, ma mai del tutto interrotte: è la struttura della società”. Il linguaggio è perciò “essenzialmente un fatto sociale” e il principale compito della linguistica generale deve consistere «nel determinare a quale struttura sociale corrisponde una data struttura linguistica» (Linguistique historique et linguistique générale, 1921: 16-18).

Precedendo dunque i futuri orientamenti della sociolinguistica, Meillet punterà l’attenzione sull’analisi dettagliata dei legami tra ambienti, classi o strati sociali, da un lato, e varietà sociali della lingua dall’altro; sui fattori tecnici, economici e sociologici della creazione del lessico e sulle ‘vicissitudini’ che le parole attraversano nel passaggio da un ambiente sociale a un altro, vale a dire il fenomeno dei “prestiti sociali”.

Se un appunto si può muovere a Meillet, è quello di aver posto attenzione esclusiva ai fattori esterni del solo cambio linguistico, trascurando la dinamica interna al funzionamento delle lingue e di non essere giunto a chiarire i legami basilari tra linguaggio e società, volendo considerare soltanto l’azione del motore sociale sulla lingua e non anche viceversa.

Nel complesso, aldilà delle differenze teoriche caratterizzanti, i movimenti linguistici fin qui descritti possono essere ricondotti all’etichetta unica di STORICISMO e all’opinione condivisa che non appena si vada al di là della semplice enunciazione di singoli fatti, non appena si cerchi di afferrare la loro interconnessione, di capire i fenomeni, si entra nel dominio della storia, per quanto magari in modo inconsapevole.

L’avvio di una nuova era nella storia delle teorie linguistiche, la nascita di una «linguistica rinnovata» (Benveniste), è opera della scuola ginevrina di Saussure.

Con il 1916, data di pubblicazione del Cours de linguistique générale, si suole segnare la nascita di questo nuovo movimento, comunemente definito strutturalismo.

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La teoria saussuriana, che molto deve alla sociologia di Durkheim e alla psicologia collettiva di Tarde, si fonda principalmente su una serie di distinzioni, e fosse o non fosse per la mania dicotomica che gli è stata attribuita, è proprio lo studioso ad affermare che «il linguaggio è riconducibile a cinque o sei distinzioni o paia di cose».

Innanzitutto, carica di importanti conseguenze, la dicotomia tra linguistica diacronica e linguistica sincronica che attacca la tesi dei neogrammatici secondo cui la linguistica, nella misura in cui è scientifica ed esplicativa, deve essere necessariamente storica. In contrapposizione a tale concezione, Saussure afferma che la descrizione sincronica di una lingua può essere ugualmente scientifica ed esplicativa.

La descrizione sincronica differisce da quella diacronica, o storica, per il fatto che è strutturale invece che causale. Invece di seguire l’evoluzione storica di specifiche forme o significati, la spiegazione sincronica dimostra come tutte le forme e i significati, in un punto preciso del tempo, sono strettamente interrelati in un particolare sistema linguistico.

È importante precisare che Saussure, opponendosi ai neogrammatici, non negava affatto la validità della spiegazione storica; quello che egli intendeva dire era che la spiegazione sincronica e quella diacronica sono complementari e che la seconda dipende logicamente dalla prima.

Tra le altre importanti dicotomie della lingua, individuate da Saussure, vanno ricordate:

- l’opposizione tra tutte le istituzioni sociali e la semiologia, ossia tra tutto ciò che le istituzioni sociali hanno in comune e quello che i sistemi di segni hanno di specifico;

- la distinzione tra il linguaggio in generale e ogni singola lingua nella sua specificità e, all’interno di ciascuna lingua, la dicotomia tra langue e parole, ovvero tra sistema linguistico e comportamento linguistico: langue è, l’insieme di unità e regole che fanno parte del sistema appartenente a tutta la collettività dei parlanti e parole il fatto individuale, realizzazione variabile in ogni parlante.

Ciò che bisogna sottolineare è l’astrattezza della concezione saussuriana del sistema linguistico. Una lingua (langue), dice Saussure, è forma, non sostanza; è struttura ed è indipendente dal mezzo fisico in cui si realizza. Pertanto, la lingua è un sistema a due livelli di rapporti, sintagmatici e associativi (o paradigmatici). Da qui l’ulteriore opposizione tra:

- serie associative in absentia (classi di unità disponibili nella memoria e costituenti ciascuna un asse paradigmatico) e serie di successioni in praesentia nella catena (asse sintagmatico).

Ma ci sono altri aspetti peculiari dello strutturalismo saussuriano. Uno di questi è rappresentato dall’affermazione secondo cui «la linguistica ha per unico e vero oggetto la lingua considerata in sé stessa e per sé stessa», nel senso che un sistema linguistico è una struttura che può essere analizzata a prescindere non solo dalle forze storiche che la hanno determinata ma anche dalla matrice sociale in cui opera e dal processo psicologico attraverso il quale viene appresa e diventa fruibile nel comportamento linguistico. Questa famosa citazione dall’ultima frase del Cours, che in realtà pare sia stata aggiunta dai curatori, è stata utilizzata spesso per giustificare il principio dell’AUTONOMIA della

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linguistica (e cioè della sua indipendenza da altre discipline) e il principio secondo cui ogni sistema linguistico è unico e va descritto nei suoi propri termini.

A questo punto, sembrerebbe emergere una certa contraddizione tra il punto di vista di Saussure (ammesso che sia stato davvero il suo punto di vista) secondo cui il sistema linguistico deve essere studiato facendo astrazione dalla società in cui opera, e l’opinione (questa certamente di Saussure) che le lingue sono dei fatti sociali; ma la contraddizione è soltanto apparente. Dicendo che i sistemi linguistici sono dei fatti sociali, Saussure affermava più cose nello stesso tempo: che sono diversi dagli oggetti materiali, per quanto non meno reali; che sono esterni all’individuo e lo assoggettano alla loro forza vincolante; che sono sistemi di valore mantenuti dalla convenzione sociale.

Più in particolare, la sua opinione era che si trattasse di sistemi semiotici il cui significato (signifié) è associato in modo arbitrario al significante (signifiant). Questo è il famoso principio dell’arbitrarietà del segno linguistico (arbitraire du signe): «la lingua è una convenzione, e la natura del segno sul quale si conviene è indifferente». Il rapporto tra significato e realtà extralinguistica designata non sussiste affatto: il significato è all’interno del segno, è parte di esso, è l’aspetto concettuale cui si connatura una forma fonica materiale. I significati non possono esistere indipendentemente dalle forme cui sono associati e viceversa; essi sono il prodotto delle relazioni semantiche esistenti tra una data parola e le altre dello stesso sistema linguistico. Analogamente il signifiant di una parola la sua forma fonologica, risulta dalla rete di opposizioni e di equivalenze che un particolare sistema linguistico impone al continuum sonoro. Il valore del segno è determinato in negativo dall’opposizione con tutti gli altri segni del sistema. Prova ne sia, che «quando due termini si confondono per alterazione fonetica, le idee tenderanno a confondersi del pari, per poco che si prestino a ciò». Dunque «nella lingua un concetto è una qualità della sostanza fonica, così come una determinata sonorità è una qualità del concetto» e questa relazione è affatto necessaria: il significante, costituendo l’aspetto materiale del significato, non può che possederne gli stessi tratti distintivi e, come osserva Benveniste, questa «consustanzialità del significante e del significato assicura l’unità strutturale del segno linguistico».

In altre parole, il segno non è una forma dotata di significato: è un’entità composta che risulta dall’imposizione della struttura su due tipi di sostanza attraverso i rapporti combinatori e contrastivi del sistema linguistico.

L’immagine complessiva di lingua che emerge dal Cours è quella di un monosistema costituito da elementi connessi tra di loro, ossia da una rete di puri valori relazionali (la langue). Per spiegare il funzionamento di tale sistema è necessario identificare il “modello” astratto soggiacente, separando via via i tratti “pertinenti” da quelli non pertinenti per i singoli aspetti che si considerano. Questa nozione è a fondamento dello strutturalismo europeo di ispirazione saussuriana, i cui sviluppi non tardarono a manifestarsi presso le Scuole di Praga e di Copenaghen.

A parte il gruppo saussuriano di Ginevra, nel decennio successivo alla sua pubblicazione, il Cours ebbe scarso peso in Francia, nonostante la portata delle sue teorie.

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Fu forse proprio per merito dei praghesi, come ha osservato De Mauro, che esso tornò a circolare come testo teorico fondamentale.

Il Circolo di Praga, costituitosi negli anni Trenta, vanta senz’altro un’originalità e un’autonomia proprie (rifiutando, ad esempio, la rigidità della distinzione tra linguistica sincronica e diacronica e la tesi dell’omogeneità del sistema linguistico), ma presenta molti punti di contatto coi principi di Saussure, primo fra tutti la concezione della lingua come “sistema”. In ambito praghese matura un movimento particolare all’interno dello strutturalismo, il funzionalismo, caratterizzato dalla convinzione che la struttura fonologica, grammaticale e sintattica delle lingue sia determinata dalle funzioni a cui esse devono assolvere nella società in cui operano. Figure di spicco del movimento praghese, sono quelle di Jakobson e Trubeckoj, ai quali si deve l’elaborazione della teoria fonologica.

La fonologia è, secondo la definizione di Trubeckoj, una fonetica funzionale. La sua unità minima di analisi – “l’unità fonologica che, all’interno di una data lingua, non può essere analizzata in unità fonologiche ancora più piccole e successive” – è il fonema ed è anch’esso “un concetto essenzialmente funzionale”. Il suo carattere funzionale è dovuto al fatto che esso entra a far parte di almeno una opposizione fonologica, vale a dire “ogni opposizione fonica di due suoni che, in una data lingua, permette di differenziare dei significati intellettuali”.

Allo scopo di identificare i singoli fonemi, Trubeckoj realizza dei modelli per la classificazione delle opposizioni fonologiche: bilaterali o multilaterali, proporzionali o isolate, privative, graduali, equipollenti. Diventa così possibile definire il fonema come un insieme di tratti fonologici “pertinenti” che lo oppongono a tutti gli altri, il che coincide a dimostrare scientificamente l’intuizione saussuriana secondo la quale “nella lingua ci sono solo differenze”. Ma quando Trubeckoj passa ad estendere la sua analisi alla fonologia diacronica risulta chiaro, per quel tempo, l’attacco a Saussure, che sembrava limitare il concetto di sistema all’analisi sincronica, riservando alla diacronia l’osservazione di fatti isolati. Anche Jakobson, pioniere insieme a Trubeckoj della fonologia diacronica, dichiara inconcepibile porre una barriera tra il metodo sincronico e il metodo diacronico alla maniera di Saussure (per quanto questo, come è stato in seguito dimostrato, non fosse esattamente nelle intenzioni del linguista ginevrino) e afferma che “lo studio sincronico non soltanto non esclude le nozioni di sistema e di funzione, ma al contrario deve ritenersi incompleto qualora si trascurino queste nozioni” (“Change”, 3: 23-4).

Se la lingua è un sistema “où tout se tient”, il passaggio da uno stato di lingua a un altro non può avvenire per mezzo di mutamenti isolati e decontestualizzati. Dal momento che un sistema fonologico non si compone di una mera lista di singoli fonemi, ma è bensì un tutto organico ascritto a una struttura regolata da leggi proprie, la fonologia diacronica non può limitarsi all’analisi di singoli fonemi perdendone di vista l’iter evolutivo nel suo complesso e, per poterlo spiegare, non può prescindere da una concezione teleologica che renda conto della logica interna al mutamento fonologico.

Nel campo della fonologia, Martinet è con tutta probabilità il continuatore più attento delle teorie di Trubeckoj, che completerà in più punti: riprendendo concetti come

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quello di arcifonema e neutralizzazione, oppure ridefinendo quando e come analizzare un fonema come unico oppure come composto da due fonemi, o ancora puntualizzando alcune questioni relative alla morfonologia (sua la teoria della doppia articolazione).

Un’altro contribuito importante della Scuola di Praga, giunge dalla grammatica funzionale, teoria grammaticale basata su una concezione pragmatica della lingua come forma d’interazione sociale applicata ai suoi molteplici contesti d’uso.

Al di là dell’ambito fonologico, i linguisti della Scuola di Praga sottolineano, in pratica, la MULITFUNZIONALITÀ della lingua e l’importanza delle funzioni espressiva, sociale e comunicativa in opposizione, o in aggiunta, alla sua funzione descrittiva.

In ambiente praghese, la teoria funzionalista (che a partire dagli anni ’60 riceve un proprio statuto teorico-metodologico) si lega, in particolare, al nome di Jakobson. Il linguistica, prendendo spunto dalla Sprachtheorie di Bühler sugli atti di comunicazione (1934), individua sei funzioni a seconda che il focus della comunicazione sia spostato sul contesto (f. referenziale), sull’emittente (f. emotiva), sul destinatario (f. conativa), sul contatto (f. fatica), sul messaggio (f. poetica) o sul codice (f. metalinguistica). La teoria funzionalista di Jakobson riscosse un grande ‘successo di pubblico’ giacché essa dava l’impressione di poter descrivere esaurientemente tutte le possibili applicazioni di una lingua. In realtà, come ha ben osservato De Mauro, questi principi funzionali peccano di una certa generalizzazione in quanto qualsiasi schema delle funzioni attivate dal linguaggio rischia di risultare forzatamente riduttivo. Le sei funzioni jakobsoniane sembrerebbero più che altro da ascrivere unicamente alla funzione della comunicazione, come ‘usi’ particolari del linguaggio che possono occorrere o meno in ogni situazione comunicativa.

In seguito altri autori – Halliday (1973 e 1975), Brown-Yule (1986), Nuyts (1989) – tenteranno, dopo Jakobson, altre classificazioni in prospettiva funzionalista, tenendo tuttavia presente che nella realtà, le varie funzioni, pur con differenze gerarchiche, non occorrono isolatamente ma tendono bensì a intersecarsi l’un l’altra.

In Danimarca, sempre nella prima metà del XX secolo, prende sviluppo la Scuola di Copenaghen che, in un certo senso, rappresenta un’emanazione delle teorie saussuriane e praghesi. Essa si caratterizza principalmente per il carattere teorico e astratto e per l’interesse accordato agli aspetti formali e logici, tanto da essere definita “un’algebra del linguaggio”.

Gli esponenti più rappresentativi sono Brøndal e Hjelmeslev. Insieme elaborano una nuova teoria descrittiva, la ‘fonematica’, che presentano nel 1935 in occasione del II Convegno internazionale delle Scienze fonetiche e, nel 1938, fondano la rivista “Acta linguistica”, il cui sottotitolo “Rivista strutturale di Linguistica internazionale” segna a battesimo la definizione ufficiale di ‘Strutturalismo’.

Particolarmente attratto dalla Logica di Carnap e della scuola di Vienna, Hjelmeslev enuncia, nel 1936, i nuovi principi della “glossematica”, presentati come la continuazione e conclusione in forma rigorosamente scientifica delle idee contenute nel Cours. In accordo con Saussure, Hjelmeslev vede come “unico e vero oggetto” della linguistica “lo studio della lingua in sé e per sé” (principio di immanenza), considera la lingua “una forma e non una sostanza” (Cours: 157) e, ancora come Saussure, reputa la

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sostanza – il suono e il senso – non importante in sé. Trasferisce poi le dicotomie saussuriane di signifiant ~ signifié sui due piani dell’espressione e del contenuto, ciascuno dotato di una sostanza e di una forma; riformula l’opposizione langue ~ parole in quella di schema e testo (o uso) e trasforma i due assi d’analisi, paradigmatico e sintagmatico, in funzione aut (o sistema) e funzione in (o processo). All’interno del sistema, i rapporti paradigmatici vengono tradotti in correlazioni e quelli sintagmatici, in relazioni. Chiamerà, ancora, funzione ogni relazione intercorsa tra termini (o unità linguistiche) e questi ultimi, funtivi. Giacché inoltre, i fonemi sono ‘vuoti’ di sostanza fonica, Hjelmeslev li rinomina cenemi (la fonematica, di conseguenza, cenematica), mentre i morfemi, o monemi, in quanto dotati di significato autonomo, diventano pleremi.

Nel complesso, il linguista danese, sembra forse indugiare eccessivamente in questioni di definizione (ben 108 neologismi elencati alla fine dei suoi Prolegomena to a Theory of Language), trascurando troppo il concetto di sostanza fonica (il che gli procurerà successivamente le critiche di Martinet) e insistendo sulla forma del contenuto, nello sforzo di dimostrare, nonostante la mancata corrispondenza biunivoca, condizioni di isomorfismo tra il piano dell’espressione e il piano del significato, anch’esso risultante dalla doppia articolazione in pleremi e in cenemi.

Ma lo sforzo principale di Hjelmeslev, destinato comunque a restare inatteso, fu quello di voler trasformare la glossematica in una sorta di algebra in grado di formalizzare l’analisi descrittiva di tutte le lingue partendo dal presupposto che tutte le lingue condividono leggi strutturali universali.

In America, la linguistica strutturale trova i suoi rappresentanti di spicco nelle figure di Sapir e di Bloomfield. Essa si caratterizza per l’attenzione precipua accordata alla sincronia, giacché assume come oggetto privilegiato di osservazione, lingue – come ad esempio quelle amerindie – del tutto prive di documentazione scritta e di attestazioni storiche. È all’interno di questo particolare campo di osservazione che Sapir elabora la prima classificazione tipologica di un gruppo di lingue, indipendentemente dal criterio genealogico. (segnando una tappa importante nella storia della linguistica del ‘900.)

Le lingue amerindie, per la loro eterogeneità culturale e per l’impossibilità di essere raggruppate in famiglie secondo un criterio genetico, ponevano di necessità il ricorso ad altri modelli di classificazione. Sapir abbandona dunque le tradizionali classificazioni della grammatica comparata, basate il più delle volte su semplici criteri di corrispondenza morfologica e introduce una griglia molto complessa, che tiene conto della natura dei concetti espressi da una lingua (concreti, derivati, relazionali concreti, relazionali puri) e del grado di complessità dei meccanismi di formazione delle parole e della morfologia.

Fin dal 1921, anno in cui pubblica Language, Sapir mostra inoltre una chiara consapevolezza dell’opposizione tra fonetica e fonologia e individua – al di là del sistema fonetico oggettivo, specifico di ogni lingua e descrivibile solo mediante una rigida analisi fonetica – un sistema più “limitato, interno o ideale”, le cui unità designerà in seguito (1925) sound-patterns. In risposta alla concezione maccanicistica della lingua, Sapir sottolinea l’aspetto psicologico del fonema e la forma linguistica sulle funzioni ad essa legate.

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Anche l’evoluzione linguistica viene vista come un percorso strettamente connesso ai fattori psicologici e alla storia dell’uomo. Abbandonati i rigidi criteri delle leggi fonetiche che spiegano l’evoluzione come la risultante di pressioni interne al sistema sulla lingua, Sapir introduce il concetto di drift (tendenza linguistica) in stretta relazione con le variazioni individuali. L’evoluzione segue un suo cammino ben preciso e le variazioni in grado di modificarla sono unicamente quelle che si muovono lungo la sua stessa direzione (“proprio come, in una baia, soltanto le onde che avanzano in un certo senso segnalano la marea che sale”). In altre parole “l’evoluzione di una lingua è costituita da una selezione inconscia delle variazioni individuali, che tendono tutte verso un dato punto, selezione attuata involontariamente da parte dei parlanti. La direzione presa dall’evoluzione può essere dedotta, in generale, dalla storia della lingua”. Con queste interessanti affermazioni, Sapir concilia l’esperienza individuale, incomunicabile nella sua totalità, con la comunicazione sociale e afferma la sua visione sociologica del linguaggio come prodotto culturale e non come funzione biologica.

Il rapporto tra lingua e cultura, inteso come conoscenza del mondo, è alla base di un’altra teoria, nota come ipotesi Sapir-Whorf, che pone la lingua come prius dell’iter cognitivo dell’uomo. L’ipotesi, già formulata circa un secolo prima da Humboldt e ampiamente esposta da Whorf, vede nel linguaggio il principale fattore di condizionamento delle idee e dell’attività sociale e, al contempo, il mezzo privilegiato per esprimerle. Non dunque semplicemente uno strumento di comunicazione o di riflessione, ma il passe-partout per accedere all’intelligenza del mondo, giacché «il ‘mondo reale’ è, in gran parte, fondato inconsciamente sulle abitudini linguistiche del gruppo. [...] Se vediamo, sentiamo e percepiamo in un certo modo, questo è dovuto, in larga misura, alle abitudini linguistiche della nostra comunità che favoriscono certe nostre scelte nell’interpretazione» (Linguistique: 134-35).

Di segno opposto al mentalismo di stampo humboldtiano sostenuto da Sapir, e da questi a sua volta attaccato per il suo descrittivismo antimentalistico, Bloomfield rappresenta la seconda figura di spicco della linguistica americana della prima metà del ‘900.

L’antimentalismo bloomfieldiano rappresenta uno sviluppo estremo del positivismo e del descrittivismo di cui si compone l’altro fronte del pensiero linguistico dell’epoca (quello che Marx ed Engels definiranno “materialismo meccanicistico”, o “volgare”).

Le teorie di Bloomfield, concentrate in Language (opera più volte rimaneggiata dall’autore), mirano a circoscrivere l’analisi linguistica ai soli fatti osservabili per renderla il più scientifica possibile. Il linguista dovrà rifiutare qualsiasi “terminologia teleologica o animistica” e tralasciare qualsiasi processo non fisico (pensiero, concetto, immagine, atto di volontà) che preceda l’effettiva emissione di un segnale linguistico.

Perciò la sua teoria fonologica (che tuttavia tradisce un debito nei confronti di Saussure, di Sapir e di Trubeckoj), rifiuta l’idea di fonema come concetto costruito, come somma di tratti pertinenti frutto di una selezione all’interno di tutte le possibili realizzazioni foniche di un dato sistema linguistico. Pur mantenendo il procedimento della commutazione e della scomposizione in tratti distintivi elaborato dalla scuola praghese,

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BLOOMFIELD preferisce definire i fonemi in base alla loro distribuzione nella catena del discorso, salvo poi ad estendere la commutazione a tutti e due i livelli del significante, per poter isolare le unità minime o morfemi.

Così facendo, dà adito all’equivoco di dover operare soltanto a livello formale escludendo il livello semantico: i suoi diretti successori, i distribuzionalisti, pur mantenendo il tipo di analisi del maestro, ne ridurranno, infatti, la complessità teorica non uscendo mai dal piano delle forme, classificate secondo le posizioni reciproche, indipendentemente dai significati. Eppure Bloomfield aveva aperto il IX capitolo di Language, intitolato “Il significato”, asserendo che «lo studio dei suoni del discorso, qualora avvenga senza tener conto dei loro significati, è una pura astrazione» (p. 132).

Anche in ambito sintattico Bloomfield cercherà di individuare – nell’ordine dei morfemi, nell’intonazione, nell’alternanza fonetica, nella selezione – le eventuali possibilità universali di costruire il senso della frase a partire dai suoi morfemi. E anche in ambito sintattico i suoi eredi ne ridimensioneranno i criteri di analisi, privilegiando il procedimento sintattico fondato sull’ordine, ossia sulla mera distribuzione delle unità, indipendentemente dal senso.

In realtà, Bloomfield si era semplicemente limitato ad affermare, in base alle conoscenze dell’epoca, che la semantica è “il punto debole dello studio della lingua” e si era sforzato di elaborare un metodo di analisi dei signifiés per quanto possibile autonomo dalla conoscenza scientifica del mondo in generale e dunque fondato su procedimenti puramente linguistici. Lo dimostra la sua celebre definizione ‘comportamentistica’ del significato di una forma linguistica (“la situazione in cui il parlante la enuncia e la risposta che essa provoca nell’ascoltatore”) e la proposta di applicare all’analisi semantica della frase, il modello dei tratti semanticamente distintivi, modello che concentra l’attenzione esclusivamente sugli aspetti ‘individuali’ dei significati.

Il perpetuarsi degli equivoci dei post-bloomfieldiani, farà sì che per un intero 25ennio (gli anni tra il 1930 e il 1955) gli indirizzi di scuola americana escludano categoricamente la semantica da ogni tipo di analisi linguistica.

Dalle ceneri dal distribuzionalismo bloomfieldiano, a partire dal 1955 e sempre in America, nasce un nuovo movimento capitanato da Noam Chomsky.

Chomsky risponde in modo critico a tutta la linguistica distribuzionalista successiva a Sapir, da Bloomfield a Hockett, alla quale darà la definizione di linguistica tassonomica (includendovi anche la Scuola di Praga, ad esclusione di Jakobson). La critica che Chomskj rivolge alla linguistica tassonomica è quella di limitare l’obiettivo a una mera classificazione gerarchica delle unità linguistiche (in particolare quelle fonologiche), senza fornire una spiegazione di come i dati vengano così organizzati. Il limite dell’analisi tassonomica consisterebbe dunque nel limitarsi a procedure di scoperta (prova di distribuzione e di commutazione) che assicurerebbero soltanto un’osservazione adeguata della teoria e non l’adeguatezza descrittiva (ossia la capacità di predire anche le forme linguistiche che non occorrono ma sono possibili) né quella esplicativa (e cioè la capacità di dimostrare le proprietà universali ed essenziali del linguaggio). Compiti che si proporrà la linguistica generativa.

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Sulla formazione di Chomsky incidono, con molta probabilità, la fonologia antidistribuzionalistica di Jakobson (che prende in ampia considerazione la semantica) e le suggestioni intellettuali del Massachussets Institute of Tecnology (MIT), che il linguista frequenta a partire dal 1954. Nel MIT coabitano la teoria dell’informazione, la logica, la matematica, la psicologia, la cibernetica e, last but not the list, la traduzione automatica.

A partire dal 1957, anno in cui pubblica Syntactic Structures, Chomsky diventa il portavoce ufficiale di una nuova linguistica americana ribelle alla ‘tirannia’ bloomfieldiana delle precedenti generazioni. Due anni dopo, nella recensione al libro di Skinner, Verbal Behavior, sferza un attacco molto forte al comportamentismo ed espone le basi della sua teoria.

Contro gli strutturalisti behavioristi, che spiegano l’acquisizione linguistica su base comportamentista, Chomsky oppone l’ipotesi dell’innatismo. Alla base dell’ipotesi stanno due tipi di problemi. Primo problema: “Perché anche le persone più stupide riescono a parlare, mentre le scimmie più intelligenti non vi riescono?” (Formal Analysis: 277) e, come è possibile che un bambino impari la sua lingua in tempi così brevi, senza un insegnamento esplicito, in base a un’esperienza personale parzialmente diversa da quella di tutti gli altri appartenenti alla comunità linguistica, e tuttavia attraversando stadi di acquisizione analoghi e giungendo alle stesse intuizioni linguistiche?

Secondo problema: come spiegare l’attitudine del parlante a produrre, comprendere e giudicare grammaticalmente accettabili, un numero infinito di frasi della propria lingua?

Chomsky individua la soluzione nella conoscenza implicita (competenza) che il parlante adulto ha della propria lingua materna (chiaramente un parlante ‘ideale’ che conosce perfettamente la propria lingua in una comunità parlante omogenea) e nella grammatica, formulata come un sistema formale costituito da regole ricorsive applicabili ad infinitum così da consentire un uso infinito partendo da un insieme finito di elementi.

Col concetto di competenza, il cui correlato concreto è la performance (la materializzazione della langue nella parole), Chomsky trasforma la nozione saussuriana di langue come concetto astratto, in sistema interiorizzato in ogni parlante, fornendo con ciò una risposta all’imperante antimentalismo bloomfieldiano, che escludeva categoricamente la possibilità di un’astrazione qualsiasi nel cervello contemporaneamente a un’operazione linguistica.

Per quanto riguarda le grammatiche di ciascuna lingua ‘naturale’, esse si compongono di proprietà universali che le rendono biologicamente possibili: tali proprietà si ritrovano all’interno di una grammatica universale e astratta che contiene tutti gli aspetti intrinseci al linguaggio.

Giacché questi aspetti (universali e astratti) della lingua, non possono giungere al parlante attraverso le modalità dell’apprendimento linguistico spontaneo, non possono che essere innati, parte del patrimonio biologico della specie umana. Peraltro, vista l’eccezionalità dei tempi e dei modi dell’apprendimento, è di gran lunga più plausibile che “una grammatica si acquisisca con la semplice differenziazione di uno schema fisso innato, piuttosto che con l’acquisizione di dati, sequenze, collegamenti e nuove associazioni di idee” (è evidente l’attacco a Skinner!).

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Il bambino disporrebbe, dunque, fin dalla nascita di un meccanismo congenito (built-in) di acquisizione linguistica, il Language Acquisition Device (LAD), che gli consente di scegliere, tra tutte le grammatiche teoricamente possibili, quella compatibile coi dati della propria esperienza linguistica. E, dal momento che nessun individuo nasce predisposto ad apprendere una lingua in particolare, questo ‘schema fisso innato’ non può che corrispondere alla grammatica universale.

Per individuare gli universali linguistici, basta procedere riducendo l’enorme numero di strutture superficiali specifiche di ciascuna lingua, a un nucleo condiviso di strutture profonde (categorie, funzioni, regole). Queste ultime si esprimono nella semantica (universali sostanziali) e nel modello trasformazionale, comprendente forme e regole comuni a tutte le lingue (universali formali).

La prima formulazione del modello risale agli anni 1955-57 e verrà in seguito ridefinita nella cosiddetta teoria standard (1965).

Il modello elaborato da Chomsky comprende due tipi di regole: le regole di struttura sintagmatica e le regole trasformazionali.

Le prime, riscrivono i simboli categoriali e introducono gli elementi lessicali (es: F→ SN + SV; SN→ Art + N; Art → il, ecc.), dando luogo alla struttura profonda di una frase, che rappresenta il contenuto semantico degli enunciati con simboli astratti. Questi simboli descrivono le relazioni semantiche fondamentali tra gli elementi del fenomeno extralinguistico, la cui rappresentazione linguistica sarà costituita dall’enunciato. Da ciò deriva l’idea che queste strutture profonde siano quasi universali.

Il secondo ordine di regole comprende più funzioni: annullamento, sostituzione, permutazione, addizione, creazione di frasi complesse a partire da un numero ristretto di frasi nucleari (kennel sentences). Quest’ultima funzione non agisce sulle frasi nucleari astratte, ma sui loro indicatori sintagmatici astratti (interpreta cioè, sotto forma di componente fonetica, gli indicatori sintagmatici astratti prodotti dalla componente sintattica). Le regole trasformazionali, applicate in modo ciclico, producono la struttura superficiale di una frase. In altre parole, la struttura superficiale “riguarda l’organizzazione superficiale della frase in quanto fenomeno fisico”. Una struttura profonda è perciò “convertibile in struttura superficiale tramite una serie di operazioni formali che possiamo chiamare trasformazioni grammaticali”5.

Tra il 1975 e il 1977, la teoria sintattica di Chomsky si evolve nella teoria standard estesa, che riconosce l’apporto semantico anche della struttura superficiale (dunque le trasformazioni cambiano il significato), postula l’esistenza di una struttura superficiale più astratta (struttura-S) rispetto alla concreta realizzazione fonetica della frase, e condensa le regole di riscrittura sintagmatica e le trasformazioni nella teoria X-barra e in una serie di principi (di conservazione della struttura, di aggiunzione, di soggiacenza, ecc.).

Quanto finora esposto della teoria chomskiana, rende conto degli aspetti universali del linguaggio. Ma l’orientamento universalistico non può prescindere dalla considerazione

5 Per fare un esempio, le frasi Mario ha comprato un libro molto interessante e Il libro che ha comprato Mario è molto interessante, sono strutture superficiali assai differenti, derivabili dalle stesse strutture profonde.

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della variazione linguistica: le lingue differiscono tra di loro, e anche in maniera sostanziale.

La teoria linguistica di Chomsky si trova perciò a dover spiegare, non solo gli aspetti universali del linguaggio, ma anche la variazione linguistica. In un primo momento, la differenza fra le lingue veniva attribuita all’esistenza, accanto alle regole universali, di regole peculiari a ciascun sistema linguistico, ma a partire dalla fine degli anni ’70, gli studi condotti su lingue diverse dall’inglese, hanno condotto a una concezione innovativa della grammatica universale che viene a configurarsi come un sistema di “principi” (che rappresentano quanto di invariante vi è tra le lingue e che sono perciò universali) e “parametri” (che sono responsabili della variazione linguistica).

Si tratta del modello Government and Binding, o teoria della reggenza e del legamento, presentato da Chomsky nel 1981. Il modello GB, si caratterizza per il livello di astrattezza e generalità attribuito ai principi, che non facendo più riferimento a costruzioni o regole particolari, possono essere applicati a un numero elevato di strutture.

Per fare un esempio, il passaggio da una forma attiva a una forma passiva non si realizzerà tramite l’applicazione di una regola precisa, ma attraverso l’applicazione di principi distinti appartenenti a diversi moduli della grammatica (la teoria tematica, la teoria del caso, la regola trasformazionale del movimento sintattico, ecc.) che operano nelle frasi passive, ma non solo. Una frase sarà ‘ben formata’ se non viola nessuno dei vari principi della grammatica che dettano le condizioni di buona formazione delle frasi.

Per tornare all’esempio, la ‘regola’ del passivo cesserà di essere un concetto primitivo per essere semplicemente considerata tra le strutture che non violano nessun principio della grammatica.

Un livello così spinto di astrazione fa sì che anche piccole differenze nel modo in cui i principi vengono applicati alle varie lingue producano variazioni linguistiche sostanziali.

I principi della grammatica, in quanto universali, sono innati, ma giacché anche i parametri si configurano nella grammatica universale, anche l’ambito di variazione delle lingue può essere spiegato come la conseguenza di una necessità biologica. Posto il modello GB, l’acquisizione linguistica da parte del bambino non consisterà più nella selezione di una tra le infinite grammatiche possibili ma nel fissare i parametri, ossia i fattori di variazione compatibili con una data esperienza di lingua.

Movendo dal modello GB, si sono sviluppati, in parallelo, altri modelli generativi, quali la grammatica lessico-funzionale (LFG: Lexical Functional Grammar); la grammatica relazionale (RG: Relational Grammar); la grammatica a struttura sintagmatica generalizzata (GPSG: Generalized Phrase Structure Grammar).

A partire dagli anni ‘50, assistiamo allo sviluppo di altri indirizzi di analisi linguistica:

- linguistica cibernetica o teoria dell’informazione: teoria quantitativa della trasmissione dell’informazione che applica la cibernetica alla comunicazione, partendo dall’ipotesi che il passaggio da uno stato di ignoranza a quello di conoscenza completa avviene progressivamente, attraverso una serie di passi discreti che riducono il grado di

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approssimazione e di indeterminazione. La teoria dell’informazione trasforma la misura dell’entropia e dell’informazione in funzioni logaritmiche della probabilità e della frequenza.

- linguistica statistica o linguistica quantitativa: sorta in ambito strutturale, estende i metodi della statistica alla manipolazione, valutazione e verifica di ipotesi relative alle qualità quantitative della lingua. La distinzione tra ‘popolazione’ (che indica la totalità dell’universo fenomenico) e ‘campione’ (che è un sottoinsieme osservabile), consente di estrapolare le proprietà della popolazione dalle proprietà di uno o più campioni. All’interno del campione, la distribuzione degli eventi si discosta dal valore totale della probabilità e la misurazione statistica di tali scarti (calcolo della dispersione, ecc.) può rivelare la correlazione tra il dato quantitativo e una data proprietà del linguaggio).

Alla linguistica statistica si affianca la Linguistica computazionale che studia il linguaggio con l’ausilio dei calcolatori.

Negli anni ’70, si delineano nuovi approcci all’analisi del linguaggio: tra questi, hanno acquistato un’importanza speciale la Pragmatica e la Sociolinguistica.

La Pragmatica, avviata da Wunderlich e Mass, studia “i rapporti dei segni coi loro utenti” (secondo una definizione già elaborata da Morris nel 1946) e assume per oggetto le modalità dell’interazione comunicativa e le condizioni di buona riuscita degli atti linguistici. Dal punto di vista metodologico, la pragmatica si serve della teoria degli atti linguistici (Austin 1962 e Searle 1969), dell’analisi del discorso (in particolare quella di scuola francese rivolta all’esame dei rapporti tra il parlante e il processo di produzione del testo, e fra il discorso e i suoi destinatari), dell’analisi conversazionale (Grice 1975, Sperber e Wilson 1986), della linguistica scopistica (evoluzione delle teorie di filosofi come Davidson, Putnam, Grice, che affronta, con una impostazione storica e pragmatica, lo studio dei valori di verità e del significato) e della linguistica cognitiva.

La linguistica cognitiva è volta alla ricostruzione della rete di conoscenze che fa da presupposto a ogni enunciato e alla canalizzazione delle modalità con cui le reti di conoscenze si modificano, nel corso dell’interazione comunicativa, in seguito alla mutue manipolazione degli interlocutori. La disciplina risale alle teorizzazioni di Miller, Galanter e Pribram (1960) e, negli anni ’80, perviene alla formalizzazione degli scopi intesi come rappresentazioni mentali (Castelfranchi e Parisi 1980). A differenza dei precedenti approcci pragmatici, pur interessandosi agli stessi fenomeni, la linguistica cognitiva si prefissa un obiettivo diverso, che è quello di elaborare un modello della mente umana. Essa assume come strumento di verifica della teoria, la simulazione dell’attività cognitiva mediante computer (intelligenza artificiale e reti neurali).

Sempre negli anni ’70, nell’ambito della linguistica tedesca, nasce la Textlinguistik, in Italia Linguistica testuale, che attende allo studio dei tipi di testo, scritti e orali, e delle operazioni cui vengono sottoposti.

In quegli stessi anni, nasce la Sociolinguistica. Essa supera due postulati dominanti nelle ultime teorie della linguistica: la visione monolitica della lingua intesa come meccanismo regolato da un sistema compatto di relazioni logico-grammaticali indipendenti

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da ogni fattore esterno, e l’assunto chomskiano del parlante ‘ideale’, che conosce e impiega perfettamente la propria lingua madre, senza variazioni e senza ‘intoppi’, nei vari contesti internazionali, e che sua volta è inserito in una comunità linguistica omogenea.

La sociolinguistica non si occupa del sistema astratto, in altre parole della langue (compito affidato alla Sociologia del linguaggio), ma della parole, e di come essa varia nelle effettive realizzazioni linguistiche, ad opera di parlanti ‘reali’, condizionati da molteplici fattori, quali il background socio-culturale, il contesto sociale attuale, la situazione comunicativa, ecc.. Lo studio delle cause sottese alla variazione linguistica all’interno di una comunità, di un gruppo, o di ciascun parlante è abbinato all’analisi della co-varianza tra lingua e fattori sociali. La sociolinguistica introduce perciò tra i parametri classici della variazione linguistica – lo spazio e il tempo – la dimensione sociale nei suoi principali aspetti: la variabile diastratica (status, istruzione, età, sesso, social network, ecc.) e la variabile diafasica, legata ai vari contesti situazionali nei quali, di volta in volta, avviene l’interazione linguistica.

Sotto questo aspetto è evidente il debito nei confronti di quanti, nel passato, avevano già superato la “finzione dell’omogeneità” linguistica: i dialettologi, i geolinguisti, il movimento Wörter und Sachen, Terracini e lo stesso Saussure che, nel definire il concetto dell’arbitrarietà del segno’, aveva fatto ricorso alle teorie sociologiche di Durkheim.

In conclusione, rivolgendo uno sguardo sinottico alla storia delle teorie linguistiche, queste ci appaiono disposte lungo un continuum epistemologico, all’interno del quale ogni teoria costituisce una reazione, sia essa di sviluppo o di rottura, rispetto alle precedenti. In altre parole, un insieme di principi dove, come accade nella lingua, tout se tient.

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