domande di psicologia educazione

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  • 8/17/2019 Domande Di Psicologia Educazione

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    Domande di psicologia dell’Educazione 

    1 – Approcci Teorici alla psicologia dell’Educazione 

    A (cardini) – L’approccio comportamentista all’apprendimento, rifiuta radicalmente – tenendo fede alpensiero della psicologia comportamentista stessa – ogni tentativo di allacciarsi a concetti come

    introspezione, mente e coscienza, scegliendo piuttosto un metodo improntato all’analisi, lo studio e

    l’utilizzo degli stimoli ambientali che possono causare nel soggetto una risposta attuata tramite un

    comportamento manifesto ed osservabile scientificamente.

    In questo, stabilisce che poiché ogni forma di apprendimento può essere ricondotta ad una lunga catena di

    stimoli e risposte consecutivi, è possibile predisponendo l’ambiente adatto, generare ogni forma possibile

    di comportamento, creando quindi le adeguate risposte agli adeguati stimoli e, viceversa, creando

    attraverso stimoli ben precisi, le risposte comportamentali auspicate da apprendere nella persona. Si può

    dire in questo che sia un metodo fortemente improntato a dinamiche di causa ed effetto, dove ogni fattore

    ha il suo posto preciso nell’equazione, e dove ogni possibile spazio lasciato ad una forma di intuitività, o

    inventività, viene a venire negato a favore di questa – apparentemente perfetta – schematicità.

    Il comportamentismo in questo riprende le scoperte che Pavlov fece studiando i meccanismi di risposta

    canini a stimoli sonori, e tramite Watson comprende la sua applicabilità anche nel comparto umano,

    arrivando a dire addirittura di poter essere in grado di rendere un bambino opportunamente condizionato

    qualsiasi cosa l’adulto condizionatore voglia, permettendogli di acquisire qualsiasi carriera, da quelle più

    scientifiche, a quelle più artistiche.

    Skinner, di seguito, riprende le idee di Watson ampliandone il pensiero: pur rifiutando anche lui ogni idea di

    mente (considerata una scatola nera inaccessibile), considera la possibilità che la dinamica Stimolo-Risposta

    possa venire ulteriormente perfezionata tramite rinforzi. La sua prospettiva, definita “Condizionamento

    Operante”, definisce quindi il rinforzo come un evento che attuato immediatamente dopo un

    comportamento, può aumentarne aumentarne la verificabilità, contrapposto alla punizione, un evento che

    al contrario tenderà a diminuire la verificabilità di un comportamento, fino alla sua possibile estinzione.

    A (metodo) – I principi del comportamentismo (condizionamento, rinforzo, punizione, e dinamica stimolo-

    risposta) trovano la loro applicazione nell’educazione e nell’apprendimento in due contesti:

    nell’addestramento militare, ed in quella che viene definita educazione programmata. 

    L’istruzione militare comprendere una serie di fattori che bene si sposano con la psicologia

    comportamentista: la necessità di una precisione elevata nella risposta ad eventi che è richiesta ad un

    militare difatti, richiede una altrettanto elevata analisi della prestazione, e dunque analisi di quali stimoli

    adottare – fra rinforzi e punizioni – affinché il comportamento venga perfettamente integrato. In questo,

    l’istruzione militare offre un apporto notevole alla psicologia dell’educazione, tramite i suoi studi sulla Task -

    analysis (analisi del compito), ovvero dei requisiti comportamenti necessari allo svolgimento di un compito,

    quanto nel concetto di feedback, ovvero dell’informazione di ritorno a seguito di un determinato stimolo,

    da analizzare e valutare per comprendere al meglio quale sia non solo lo stimolo seguente da utilizzare, ma

    anche quale sia il migliore comportamento da utilizzare nell’esecuzione di un determinato compito. Tutto

    ciò, è fondamentale non solo per il singolo individuo, quanto anche per l’interazione uomo-macchina,

    ovvero per l’utilizzo ottimale di macchinari complessi (nello specifico, ancor di più nell’utilizzo di macchinari

    bellici che richiedono alto grado di precisione e di attenzione) ai fini di ottenere la prestazione migliore, con

    il minimo dispendio di energie.

    Nell’istruzione programmata invece il condizionamento operante viene applicato sia a metodi individuali di

    autoistruzione, sia alla strutturazione di corsi didattici programmati, tramite un utilizzo focale del rinforzo

    secondo l’antico adagio “sbagliando s’impara”. 

    In questa difatti tramite la definizione di obiettivi che gradualmente vengano aumentati di difficoltà e di

    impegno, presentando ad ogni step di passaggio da un gradino all’altro una serie di item di verifica, sia

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    sotto forma di questionari valutativi, che di semplici domande a cui rispondere, e tramite l’utilizzo del

    rinforzo positivo o negativo a seguito della correzione di questi item, è possibile accertare quali prerequisiti

    lo studente ha soddisfatto relativi allo step in cui si trovava, quali deve nuovamente verificare per

    raggiungere il livello richiesto, e creare una sorta di griglia in cui ogni progresso ed ogni fallimento vengono

    monitorati, verificati, analizzati, e risolti secondo il metodo comportamentista.

    L’apprendimento quindi avverrà osservando il proprio comportamento, e tale comportamento sarà via viamodificato dalla presenza di rinforzi positivi o dall’assenza di essi, creando un apprendimento complesso

    formato dalla frammentazione dello stesso in unità didattiche semplici, che possono garantire anche una

    maggiore facilità e fruibilità da parte dello studente, e tramite la difficoltà gradualmente aumentata, una

    maggiore spinta motivazionale al proseguire nel percorso. Si può dire che l’apprendimento di tipo

    comportamentista, per quanto esteriormente possa sembrare un apprendimento orientato alla prestazione

    (intesa come capacità di eseguire al meglio un compito affidato), in realtà nonostante non voglia implicare

    l’interiorità dei soggetti, arrivi nonostante tutto a permettere una forte interiorizzazione dei contenuti

    appresi, diventando (come nel caso del Mastery Learning di Carroll), un apprendimento orientato alla

    padronanza.

    B – L’apprendimento di sociale di Bandura amplia i cardini del comportamentismo (dinamica stimolo-

    risposta, concetto di rinforzo e punizione, entrambe negative e positive, e di condizionamento operante ai

    fini di raggiungere il comportamento desiderato), con l’idea di voler spiegare le motivazioni dietro

    l’attuazione di comportamenti complessi, senza necessariamente arrivare – come fecero in passato Skinner

    e gli altri comportamentisti – a doverli scomporre in serie di comportamenti minori in sequenza.

    Secondo i teorici dell’apprendimento sociale difatti, l’individuo adotta determinati comportamenti secondo

    l’analisi di quelle che possono essere le conseguenze di tali comportamenti, sulla base di quali azioni

    possano determinare il successo in un compito, e quali invece possano portare al fallimento.

    Per fare ciò, rispetto al comportamentismo danno un maggiore risalto a quelli che sono i processi cognitivi

    della persona, il suo pensiero coscienze, il suo sistema di credenze e di aspettative; ovvero, dando rilievo a

    ciò che il comportamentismo aveva definito non scientificamente misurabile, e dunque non in grado di

    fornire un supporto adeguato allo studio dell’individuo. 

    L’apprendimento dunque, diventa una conoscenza acquisita mediante l’utilizzo di strategie cognitive di

    elaborazione d’informazioni, tale da poter portare – tramite l’utilizzo del rinforzo vicariante (osservando

    che altri soggetti sono rinforzati per un particolare comportamento, il soggetto può dedurre che quel

    comportamento risulta desiderabile in quella situazione e, di conseguenza, può sentirsi incoraggiato

    nell’imitarlo) – all’adozione di comportamenti che non erano mai stati rinforzati prima.

    Questo fa sì che si abbandoni la passata dicitura di comportamentismo, improntata solo sull’analisi di ciò

    che è osservabile, propendendo verso una dicitura di teoria socio-cognitiva, ovvero derivata

    dall’osservazione del mutare di un comportamento all’interno di un gruppo sociale, e di come esso muti

    tramite strutture non puramente relegate a stimolo-risposta diretti, ma anche a processi cognitivi di ordinesuperiore.

    Grazie a Bandura dobbiamo la creazione del costrutto di autoefficacia, fondamentale nello studio della

    motivazione, e definita come la capacità di reputarsi validi nell’esecuzione di un determinato compito

    (diversa dall’autostima in quanto più compito-relata, e meno individuo-relata), e dell’apprendimento

    osservativo, consistente nell’attivazione di determinate risorse attentive nell’analisi di un modello,

    nell’attivazione di determinati processi rappresentazionali per acquisirlo e memorizzarlo, e di processi

    riproduttivi per eseguirlo in seguito.

    D – Dove comportamentismo, cognitivismo e comportamentismo portano l’attenzione sulle capacità insite

    nel singolo individuo a prescindere dalle differenze individuali e della prospettive storico-culturali e sociali,

    l’approccio negli USA della psicologia culturale (Cole, 1982, 1983) si riaffaccia con uno sguardo nuovo e

    moderno alle idee postulate già in passato da Vygotsky, portando una nuova concezione dell’istruzione

    collegata all’apprendimento. 

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    L’opera di Vygotsky “pensiero e linguaggio”, è un’opera fondamentale per comprendere le implicazioni

    della lingua e del linguaggio nell’apprendimento culturale e sociale, portando tramite una rielaborazione

    delle dinamiche dello sviluppo cognitivo e del linguaggio (specie nel campo del bilinguismo), ad una

    maggiore comprensione di quelli che possono essere i suoi utilizzi in campo psicopedagogico e riabilitativo.

    Lo sviluppo per Vygotsky difatti è dato dalla mediazione della cultura nella relazione individuo-ambiente,

    attraverso la definizione di una doppia matrice nello sviluppo (biologica e culturale), e dalla definizione deiprocessi psichici relativi ad ognuna di queste: dove per la biologica difatti abbiamo a che fare con processi

    psichici elementari (percezione e memoria semplice, non autoregolati), necessari in ogni caso alla

    maturazione organica degli esseri viventi, i processi psichici complessi e superiori fanno parte della matrice

    culturale, in quanto autoregolati consapevolmente.

    In questa matrice quindi avremo situati processi come la manipolazione e la creazione di simboli (verbali e

    non), il ragionamento verbale e forme metacognitive ed elaborate di percezione, memoria, ed

    apprendimento.

    Dove le funzioni psichiche inferiore quindi vengono a svilupparsi con una maturazione organica, le funzioni

    psichiche superiori necessitano di veri e propri step graduali di sviluppo, relativi a differenti fasi della

    crescita del bambino e del contatto con la società, che porteranno ad una maturazione prima interpsichica,e poi intrapsichica: interiorizzando quelli che sono i segni che gli adulti usano per rappresentare e

    comunicare a vicenda la realtà, il bambino imparerà prima a comprenderli, e poi ad esteriorizzarli ed a

    modificarli egli stesso, giungendo quindi ad una completa elaborazione e maturazione.

    Tramite dunque lo studio della psicologia Vygotskiana, Cole arriverà a definire la sua corrente, definita

    appunto “Psicologia Culturale”, con sede nell’università di San Diego, in California. 

    Cardine del pensiero della psicologia culturale, è il costrutto degli “Artefatti Culturali”, simboli materiali e

    non che gli attori sociali usano nelle attività quotidiane (dunque nella cultura), definiti artefatti in quanto

    creazioni dell’uomo, e non spontaneamente trovati in natura, nati in sede di attività sociali condivise

    (laboratori artigiani o scientifici, salotti, arene). Questi artefatti presentano determinate qualità: sono

    innanzitutto dinamici e non statici, dunque soggetti ad evoluzione storica e presentano una forma di

    riflessività, ovvero la possibilità di attuare contenuti meta relativi alla propria struttura; altro fattore

    importante nella loro comprensione, è la loro suddivisione in tre livelli, via via sempre più meta: un primo

    livello è formato dagli artefatti propriamente detti, fisici e tangibili, fruibili direttamente dall’attore sociale

    (oggetti di uso comune come elettrodomestici, macchine, telefoni, computer). Successivamente vi sono gli

    artefatti culturali di secondo livello, che sono le rappresentazioni degli artefatti di primo livello, ovvero le

    spiegazioni relative a quegli artefatti (le classiche “istruzioni per l’uso”, i bugiardini interni ad un farmaco,

    un manuale d’assemblaggio, un sito che descrive un luogo fisico. In questo è possibile considerare le

    pubblicità una forma di artefatto culturale di secondo livello, “illustrando” l’utilizzo di artefatti di primo

    livello). Infine, nel gradino più teorico, abbiamo gli artefatti culturali di terzo livello, che sono i sistemi

    filosofici, scientifici, cosmologici e di credenze, che formano il fondamento dei due sistemi precedenti, di

    cui è difficile fare un’effettiva esemplificazione (possiamo supporre che lo studio teorico dei fenomeni

    elettrici e delle onde in fisica abbia potuto portare alla trasmissione degli impulsi elettrici da un capo

    all’altro del mondo, e dunque questo abbia dato il fondamento teorico – come artefatto di terzo livello – 

    alla strutturazione del primo progetto di una radio – artefatto di secondo livello – e dunque alla creazione

    stessa della radio – artefatto di primo livello – per fare un esempio).

    Lo studio dei comportamenti umani diviene quindi lo studio dello sviluppo delle abilità sociali degli

    individui, mediate dall’uso degli artefatti culturali, determinate inoltre – negli studi di Cole e successivi a lui

    sempre nel campo della psicologia culturale – in tre possibili concezioni di attività cognitive, determinate

    dalle differenze culturali, da un livello più universalista, ad un livello più individualista.

    Sul versante puramente universalista, privo dunque di effettive differenze individuali nello sviluppo deiprocessi cognitivi internamente ai diversi gruppi umani, si collocano gli studi di Piaget; questo versante

    postula differenze puramente culturali che accelerano o rallentano lo sviluppo di determinati processi, a

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    seguito dell’accesso o della difficoltà dello stesso a particolari stimoli culturali; viene dunque in questo

    versante postulata l’esistenza di un elaboratore centrale che agisce – su matrice piagetiana – su stadi e

    livelli.

    Sul versante intermedio abbiamo una prospettiva ecoculturale, presentante quindi una forma di

    universalità ristretta relativa ad una medesima cultura, risultando omogenea al suo interno nello sviluppo

    delle tappe cognitive, ma eterogenea contrapposta a culture differenti (un esempio può essere lo svilupponelle civiltà occidentali di alcune abilità metalinguistiche, evolute a partire da manifestazioni maggiormente

    frammentarie).

    L’ultimo versante è quello contestualista, propugnata da Cole e dal suo laboratorio di cognizione umana

    comparativa, nega l’esistenza di qualsiasi forma di universalità nello sviluppo dei processi cognitivi in

    qualsiasi contesto: tutto è specifico, ed esiste una forma di elaboratore distribuito – contrapposto

    all’elaboratore centrale di matrice piagetiana – relativo ai singoli contesti. In quest’ottica contesto diviene

    non tanto una definizione di luogo, o cornice, ma una sede di attività strutturate a cui partecipano individui.

    Questa differenza quindi andrebbe a esplicarsi nella presenza di schemi di conoscenza forniti dalla cultura – 

    o microcultura – di riferimento. Gli studi di Cole in merito alle differenze individuali vengono dunque a

    strutturarsi in rapporto alle situazioni specifiche in cui i compiti sono richiesti ed eseguiti.

    Sempre in ottica della psicologia culturale, è importante definire cosa sia l’apprendistato cognitivo (definito

    anche da Brown Collins e Newman come cognizione situata), in rapporto all’apprendimento stabilito come

    partecipazione alle pratiche di una comunità.

    L’apprendistato cognitivo è basato su forme di pensiero cognitivo e metacognitivo, divisi in sei differenti

    steps: Modellamento, Allenamento, Supporto, Articolazione di conoscenza, Riflessione, Esplorazione.

    Tramite questi steps è possibile dunque apprendere un determinato argomento fino ad essere in grado

    autonomamente di fruirlo e di trasmetterlo ad altri.

    La sintesi di questi passaggi può essere descritta come la presentazione di un modello di esecuzione di un

    compito da parte di un esperto, con la possibilità di rappresentare tale modello da parte dello studente

    (Modellamento), seguita da suggerimenti, feedback, ed orientamento su aspetti non ancora padroneggiati

    e coscienti di tale compito nelle fasi iniziali (Allenamento), accompagnata dallo scaffolding di matrice

    vygotskiana con l’esecuzione da parte del maestro di parti sempre minori del compito per lasciare sempre

    più spazio allo studente, fino ad essere del tutto assente nell’esecuzione (Supporto), portando lo stesso

    studente ad un momento metacognitivo relativo all’acquisizione delle prestazioni ed ai procedimenti

    adottati per acquisirle, relative ad un modello interno di competenza (Articolazione di conoscenza e

    Riflessione), che si conclude con la formulazione autonoma di interrogativi che possono portare a

    successive direzioni di studio, pe ripetere il processo da capo (Esplorazione).

    Gardner (1991), riprendendo il Reciprocal teaching di Palincsar e Brown (1984), propone l’inserimento

    dell’apprendistato cognitivo come metodo d’insegnamento a scuola. 

    2 – Intelligenza e differenze individuali

    L’intelligenza è da sempre stata uno dei costrutti più difficilmente interpretabili nel campo della psicologia:

    è qualcosa di stabile nel tempo o è dinamico? Come si definisce una persona intelligente da una che non lo

    è? In quale maniera possiamo attivamente determinarla? Ci sono campi o compiti che richiedono

    un’intelligenza maggiore o minore?

    Ognuna di queste domande ha portato nel corso del tempo gli studiosi, sin dai tempi di Binet e di Galton, a

    stabilire canoni su cui poter lavorare, specificatamente nel campo dell’istruzione scolastica (la famosa scala

    Binet-Simon nacque come esigenza per determinare gli alunni con problemi particolari a cui somministrare

    interventi educativi differenti rispetto a quelli comuni), ma nello stesso ha portato a moltissime

    misconcezioni riguardo a “cosa” sia l’intelligenza, e quali caratteristiche abbia. 

    Le principali si riassumono in quattro punti, e sono tutte collegate a definizioni di senso comune

    dell’intelligenza: che sia un’abilità cognitiva unitaria, generale, innata e statica.

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    Sul primo punto, basti dire che il dibattito è stato uno dei più proficui di tutto il 900 nel campo della

    psicometria, con gli studi di Spearman sul fattore g (1927), definito come energia mentale trasferibile da un

    compito all’altro, con la scoperta di Thurstone (1938) di sette diverse componenti dell’intelligenza

    (comprensione e fluenza verbale, calcolo e soluzione di problemi matematici, velocità percettiva induzione

    e memoria), fino ad arrivare alla postulazione di centoventi componenti da parte di Guilford (1959). Questo

    studi psicometrici, accurati, statisticamente validi, non hanno comunque portato a risultati conclusivi; ènegli anni ’80 con Sternberg ed il cognitivismo, che vengono messi in luce i processi cognitivi di codifica

    recupero e manipolazione delle informazioni, come esempio di non unitarietà dell’intelligenza, ma di

    divisione della stessa in una moltitudine di processi cognitivi e metacognitivi.

    Sul piano della generalità dell’intelligenza, e della sua applicabilità indiscriminata ad una moltitudine di

    compiti differenti fra loro (chi riesce in un campo secondo questa misconcezione riuscirà anche in altri

    campi), è contrastato dalle ricerche della psicologia dell’educazione, che trattano invece l’intelligenza come

    una capacità dominio-specifica, arrivando a determinare come sebbene ci siano funzioni – principalmente

    meta – comuni a molti campi di pianificazione, monitoraggio e valutazione, i modelli di pensiero adottati

    variano fortemente a seconda del compito o della materia trattata (interessanti in questo gli studi

    sull’expertise in fisica di Chi Glaser e Farr del 1988).Sulla derivazione innata e genetica dell’intelligenza, i primi studi furono di Galton stesso (cugino di Darwin

    del resto), che cercò di determinare per primo che molte abilità mentali presentavano – al pari delle

    caratteristiche fisiche – una distribuzione normale nella popolazione (ovvero una distribuzione gaussiana o

    “a campana”, con una forte concentrazione attorno a valori medi, ed una sempre minore concentrazione a

    livello delle code, ovverosia degli estremi): la presenza di una tale distribuzione all’interno dei test

    d’intelligenza è la prova secondo Galton – e secondo il senso comune – di questa derivante genetica.

    Gli stessi studi però di Palincsar e Brown sull’apprendistato cognitivo, di Schoenfield in matematica e di altri

    però, identifica come sia perfettamente possibile insegnare queste abilità mentali, dando quindi modo alle

    persone di sviluppare ed ampliare quello che veniva considerato un patrimonio innato, e dunque una

    dotazione o in possesso o non in possesso dlel’individuo. 

    Infine, sulla staticità dell’intelligenza, intesa quindi come puro prodotto a prescindere dalla processualità,

    possiamo considerare come primo elemento che sconfessa questa misconcezione anche solo lo ZOPED

    vygotskiano, lo studio sulla zona di sviluppo prossimale, determinante per poter garantire un

    apprendimento ottimale, che è confluito nello studio della valutazione dinamica di Feuerstein (1980), dove

    bambini immigrati diagnosticati con ritardo mentale, potevano migliorare i loro punteggi nei test in una

    sola seduta, raggiungendo risultati pari a quelli degli altri (confermando quindi che l’intelligenza è

    identificabile come capacità di apprendimento, e che quei punteggi erano derivati da una differente visione

    culturale riguardo ai problemi presentati nei test; non quindi un fattore statico, ma un fattore dinamico di

    mancanza di schemi mentali relativi alla risoluzione di test in quel determinato contesto).

    A seguito dell’allontanamento da queste misconcezioni, lo studio sull’intelligenza ha portato alla creazionedi molteplici modelli via via sempre più complessi, basati non solo sull’analisi della sua non staticità, non

    unicità, non generalità e non derivazione direttamente genetica, ma improntati ad un sempre maggiore

    dinamismo. I modelli più accreditati al momento sono la teoria triarchica di Sternberg, e la teoria delle

    intelligenze multiple di Gardner.

    Nella teoria triarchica di Sternberg (1985), definita tale dal greco (Tria – Archè, “Tre principi”), abbiamo tre

    aspetti interagenti fra di loro nell’elaborazione e dell’esecuzione di compiti semplici e complessi: un’abilità

    di elaborazione dell’informazione, un’applicazione dell’informazione in contesti reali, ed un riferimento

    pertinente alle proprie esperienze.

    Il primo aspetto elaborativo è attuato tramite la presenza di metacomponenti (processi di ordine superiore

    comuni a tutti i tipi di compiti, attuabili dagli individui intelligenti per la loro risoluzione) concernentil’identificazione della presenza di un problema, la definizione della situazione iniziale con obiettivi e vincoli,

    la scelta dei processi e della strategia necessari alla risoluzione del problema stesso, l’investimento, il

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    monitoraggio, e la valutazione delle risorse attentive e mentali, per verificare che tutto proceda secondo il

    verso giusto; a seguito, processi di ordine inferiore relativi a componenti di prestazione e di acquisizione,

    ovvero di recupero delle informazioni necessari per attuare i processi superiori, di codificazione

    combinazione e confronto selettivo delle informazioni per determinare le migliori, e funzioni esecutive

    relative alla risoluzione del compito stesso. In questa fase la maggiore intelligenza degli individui

    dipenderebbe dalla maggiore attenzione e tempo investiti nei processi di pianificazione codifica e controllo.Il secondo passaggio dell’intelligenza triarchica è il piano maggiormente pratico della stessa, relativo

    all’applicazione della stessa in situazioni di ambito comune (cosa portare in valigia relativamente alle

    differenti condizioni climatiche, o che tipo di spesa fare in rapporto a quello che ho interesse a cucinare e

    quello che ho interesse a conservare per il futuro, o come disporre gli oggetti relativi al mio studio in modo

    tale da avere subito accessibili quelli che mi serviranno più frequentemente); anche le invenzioni che

    l’uomo ha creato per modificare l’ambiente e per controllarlo, sono un esempio di quest’applicazione

    pratica dell’intelligenza nei contesti reali. 

    L’ultimo passaggio infine è una rielaborazione delle proprie conoscenze per applicarle a contesti nuovi,

    dunque una forma di transfert di abilità da contesti conosciuti a contesti non noti, sulla base di similitudini

    e di estrazione di informazioni rilevanti nei nuovi ambienti: questa alternanza fra modalità di utilizzoconsapevole ed automatica di processi cognitivi verrebbe effettuata senza particolare sforzo da individui

    intelligenti, risultanti in grado di codificare nuove strategie sulla base delle passate esperienze.

    Una differente applicazione di questo passaggio, e delle capacità precedenti, determina anche diverse

    tipologie di intelligenza: dove un utilizzo simultaneo di tutti e tre i processi per creare nuove scoperte e

    nuovi prodotti determina un’intelligenza di tipo creativo, un utilizzo selettivo dei processi metacognitivi, di

    prestazione e di acquisizione, determina un’intelligenza più analitica. 

    Contrapposta alla teoria di Sternberg, che tratta una diversità di componenti, ma una sostanziale unicità di

    prodotti, la teoria di Gardner (1983) definita delle intelligenze multiple, considera i prodotti diversi come

    una risultante di distinte forme di intelligenza (formae mentis, dal latino “forme, tipologie, di mente”), in

    numero di otto: linguistica, logico-matematica, spaziale, musicale, corporeo-cinestetica, intrapersonale,

    interpersonale, naturale, che hanno avuto un riscontro pratico nell’analisi neuropsicologica (danni ad

    alcune zone del cervello danneggiavano alcune tipologie di intelligenza, ma non altre), e la prestazione di

    bambini autistici, considerati geniali in determinati tipi di intelligenza, ma incapaci in altre.

    Analizzandole nel dettaglio, l’intelligenza linguistica è relativa alla comprensione ed alla produzione del

    linguaggio in ogni sua forma, dalla fonetica alla sintassi, dalla semantica alla grammatica; è l’utilizzo del

    linguaggio a fini informativi, poetici, argomentativi, dialogici, e si può considerare presente – anche in

    minima parte – in gran parte delle altre tipologie di intelligenza. L’intelligenza logico-matematica è ideativa

    e quantitativa, è estrapolata dal riferimento concreto, e si dedica alla risoluzione astratta di problemi su

    sistemi di simboli; è fortemente immaginativa. L’intelligenza spaziale è relativa alle proporzioni ed alle

    relazioni spaziali; è percettiva e trasformativa, collegata alla memoria iconica e dedicata alla trasformazionedella struttura dell’immagine (è importante considerare che la geometria non fa parte tanto

    dell’intelligenza logico matematica, quanto maggiormente dell’intelligenza spaziale). L’intelligenza musicale

    è relativa alla memoria ecoica, è percettiva anch’essa ma collegata ai canali uditivi, e tratta degli aspetti

    strutturali di ritmi durate ed intensità dei suoni. La capacità di determinare alla perfezione un suono

    (denominata “orecchio perfetto”) è una delle più alte manifestazioni di questa forma d’intelligenza. E’

    importante notare che – in presenza di notazione musicale sotto forma di spartito – lo studio dell’armonia

    dello stesso e della giusta esecuzione, affronta anche il campo relativo all’intelligenza logico-matematica (la

    prima forma di notazione musicale vera e propria la dobbiamo agli studi sulle frazioni di Pitagora).

    L’intelligenza corporeo-cinestetica è forse quella più complessa da accettare per l’opinione comune, ma

    nello stesso tempo una delle più facilmente visibili, in quanto è relativa ad ogni tipologia di sport e diattività fisica propriamente detta: dal tennis al calcio, al ballo ed alla ginnastica, la capacità di gestire,

    disegnare, e conoscere i proprio movimenti nello spazio è tipica di questa forma d’intelligenza. Chi possiede

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    una buona capacità propriocettiva (ovvero chi è capace di determinare ad occhi chiusi anche la posizione

    del proprio corpo nello spazio) possiede un’alta forma di questa intelligenza. E’ importante anche in questo

    considerare come l’intelligenza corporeo-cinetica entri in gioco anche in congiunzione con altre: un pilota di

    formula uno deve infatti avere un’ottima intelligenza di questo tipo per sapere quanta pressione mettere

    nei delicati comandi del suo volante, e nello stesso un’alta forma di memoria spaziale per comprendere

    come sarà strutturata la curva in arrivo e come visualizzarla nella sua mente, con l’aggiunta di una buonaelaborazione logico-matematica relativa ad eventuali modifiche da attuare in corso di gara nei box

    (schumacher, in questo, ne era un ottimo esempio, come in italia per la moto valentino rossi). Intelligenza

    Intra ed Interpersonale sono invece necessarie per una buona professione psicoterapeutica: la capacità di

    comprendere i propri stati mentali, desideri, e bisogni (intrapersonale), e la capacità di comprendere gli

    stessi stati bisogni e desideri negli altri (interpersonali) saranno ciò che in seguito Fonagy e Stern

    definiranno nel costrutto della Mentalizzazione, e della Funzione riflessiva. L’ultima forma, e forse la più

    discussa e recente, è l’intelligenza naturalistica, definita come la capacità di riconoscimento e

    classificazione di specie naturali e vegetali. Dove questa può sembrare un insieme delle prime tre forme d’

    intelligenza (linguistica per la definizione, spaziale per l’identificazione delle forme, logico-matematica per

    la categorizzazione astratta), nello stesso tempo è possibile considerarla una differente visione di quelle cheerano un patrimonio di conoscenze popolari possedute sin dall’antichità: il riconoscere quali piante

    avessero proprietà medicinali e quali invece siano velenose, quali animali aspettarsi in una determinata

    stagione, la capacità di discriminare dalle tracce una specie, o dalla tipologia di foglia una pianta, entrano

    tutte nel campo di questa intelligenza.

    Per poter definire le differenze individuali come stili di pensiero inoltre, è utile poter comprendere e

    chiarire cosa siano stili, abilità, e strategie, e come possano essere identificati in una sorta di prospettiva

    gerarchica.

    L’Abilità difatti è relativa più al quanto, che al come, a differenza dello stile: quantifica difatti il livello di

    capacità e di cognizione relativa ad un compito, piuttosto che la modalità di risoluzione del compito stesso;

    è riferita inoltre ad un dominio specifico del sapere (pensando alle intelligenze multiple di Gardner, l’abilità

    musicale non è l’abilità logico-matematica), mentre lo stile è pervasivo (uno stile visualizzatore sarà

    visualizzatore in ogni campo, da quello logico-matematico a quello corporeo-cinestetico); l’abilità è

    misurabile secondo una scala di valori, e secondo accuratezza ed efficienza, presentando quindi una

    precisione di giudizio maggiore rispetto allo stile, che è invece misurabile da alcuni parametri e dal suo

    valore adattivo, ma senza una valida realizzazione dei primi, e sempre relativa alla molteplicità di richieste

    nel caso del secondo. Proprio per questo le abilità si possono misurare con una molteplicità di strumenti

    basati su scale di prestazione, mentre gli stili possono essere misurati in maniera più labile con questionari

    che esprimono preferenze; è vero in ogni caso che stile ed abilità vanno in congiunzione, dove un’abilità

    alta porta alla propensione per lo stile ad essa collegato (buone abilità visuo-spaziali portano ad uno stile

    visualizzatore, e viceversa).

    Stili e strategie invece sono ancora più collegati, nella misura in cui si può definire la strategia come una

    procedura messa in atto per risolvere un compito (simile al funzionamento dell’intelligenza triarchica di

    sternberg con i componenti metacognitivi, di acquisizione, e di processazione), basata sull’utilizzo

    dell’abilità migliore per attuare tale procedura, e lo stile come l’utilizzo congiunto e particolare di un

    determinato tipo di strategie, per esempio verbali o visive.

    Si può dunque dire che dalla maggiore alla minore specificità (e dalla minore alla maggiore pervasività),

    abbiamo una struttura di elaborazione dei problemi che passa dal determinare l’abilità migliore per

    risolverlo (o le abilità), la disposizione di tali abilità sotto forma di particolari strategie, e l’unione di queste

    strategie in uno stile di preferenza per tale risoluzione.

    I principali stili di pensiero (descritti di seguito secondo coppie dicotomiche per maggiore completezza e

    chiarificazione degli esempi) seguono la distinzione iniziale data da Witkins, partendo dalla sua prima

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    formulazione del 1977 ed ampliandosi via via in ulteriori differenziazioni, fino ad arrivare alle metafore

    politiche di Sternberg (come forme di autogoverno mentale). La prima distinzione è relativa a quelli che

    sono concetti poi di seguito ripresi dalla psicologia sociale e dalla gestalt, relativi al concetto di campo, e

    dunque denominati campo-dipendenti, e campo-indipendenti. La differenza fra questi due stili difatti, va

    riscontrata nel diverso utilizzo che fanno delle informazioni e del contesto in cui tali informazioni vanno a

    trovarsi, e nello stesso momento nella maniera in cui questi individui si affermano sul piano intellettuale esociale. Dove un campo indipendente non si fa influenzare dal contesto, riuscendo dunque ad isolare

    elementi nascosti in contesti complessi, ma risultando proprio per questo più in difficoltà sul piano della

    socializzazione a causa della sua tendenza ad isolare sé stesso e gli altri per una maggiore analisi, un campo

    dipendente riuscirà ad avere una maggiore capacità di discernere le dinamiche sociali in atto in un gruppo – 

    vedendolo quindi sotto una prospettiva olistica e gestaltica – risultando però maggiormente in difficoltà

    all’atto della differenziazione dei singoli dettagli. A seguito di questa prima distinzione di stile cognitivo,

    possiamo affrontare l’argomento riprendendo la teoria delle intelligenze di Gardner con gli stili

    visualizzatore e verbalizzatore, uno collegato maggiormente ad un’abilità – ed intelligenza – visuo-spaziale,

    e l’altro ad un’abilità verbale, con la correlativa intelligenza linguistica. Incarnano la tendenza ad elaborare

    le informazioni sotto forma di immagini, o sotto forma di concetti; nella memorizzazione un visualizzatoreutilizzerà grafici, mappe mentali, e schemi, mentre un verbalizzatore lavorerà con parole chiave,

    associazioni di significato, ed analisi di concetti.

    Tornando un momento a ragionare su un’altra visione dell’utilizzo della Gestalt, abbiamo gli stili globale

    contrapposto a quello analitico, chiamati anche olistico e sequenziale (in questo risulta evidente un

    possibile collegamento con il lavoro diverso che fanno gli emisferi del cervello, dove il destro è definito

    appunto sede del ragionamento olistico, ed il sinistro sede del ragionamento sequenziale); sono stili che si

    occupano dell’elaborazione dell’informazione basata su più aspetti in contemporanea (globale), o

    sull’analisi delle singole forme e dei singoli particolari (analitico). 

    Simile ma non uguale e soprattutto non sovrapponibile, è la distinzione fra lo stile sistematico e lo stile

    intuitivo; dove il primo ha una forte consapevolezza del procedimento metodico adottato per la

    comprensione e l’acquisizione delle informazioni, il secondo è quasi inconsapevole, risultando

    apparentemente più facile come elaborazione, ma non dotata della medesima sedimentazione. Come detto

    prima, un analitico può essere sistematico, ma nulla impedisce che sia intuitivo, ed un globale non è detto

    che non possa essere sia intuitivo, sia sistematico.

    Convergente e divergente sono parole che si sentono spesso dire nelle discussioni di ambito sociale e

    politico di questi ultimi tempi, con il secondo termine considerato per alcune persone “migliore” come

    forma di ragionamento, rispetto al primo, visto quasi come una forma di “passività”. La realtà è che dove lo

    stile convergente tende in effetti a produrre risposte canoniche, mentre lo stile divergente tende a

    produrre risposte creative, è anche vero considerare la necessità per una buona strutturazione del

    pensiero, di una sorta di canone da utilizzare come base, attraverso il quale elaborare la creatività: se in

    musica per esempio non si possedesse una sorta di comprensione di quale sia il canone classico, come il

    canone jazz, come il canone rock, difficilmente si potrebbe creare un brano di musica classica, un brano di

    musica jazz, od un brano di musica rock. La creatività di un divergente quindi deve essere accompagnata

    dalla stabilità di un convergente, e viceversa la stabilità di un convergente deve poter essere ampliata

    dall’innovazione data da un divergente. 

    Nella stessa maniera, gli stili impulsivo e riflessivo hanno spesso subito il medesimo assalto da parte

    dell’opinione comune, considerando il primo, volto alla rapidità di decisione al limite dell’inconsapevolezza,

    meno valido del secondo, caratterizzato da una più lenta e consapevole decisionalità. Anche qui ci si

    dimentica di tutte le possibili occasioni in cui una decisione rapida  – impulsiva appunto – possa determinare

    la differenza fra riuscita e fallimento, specie in caso di tempi stretti o di rischio di non fare in tempo (molte

    decisioni di ambito medico su come eseguire un’operazione di pronto soccorso, hanno in loro una fortesistematicità dell’informazione assimilata – le procedure di pronto soccorso – ma nello stesso tempo una

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    rapidità di esecuzione delle stesse quasi inconsapevole, in quanto una più lenta riflessività potrebbe

    determinare la morte del paziente).

    Dobbiamo in ogni caso a Sternberg (1998), la definizione più completa e lo studio più accurato degli stili di

    pensiero, a seguito anche degli studi della psicologia cognitivista degli anni ’90. 

    Sintetizzando varie teorie diverse, da quella piagietiana a quella delle intelligenze multiple di gardner, finoalle modalità di elaborazione delle informazioni, Sternberg cerca di superare il concetto di quoziente

    intellettivo, definendo lo stile di pensiero una modalità di pensiero che tendiamo a mettere

    spontaneamente in atto nell’esecuzione di vari compiti di varia natura, da quelli di tipo più accademico, a

    quelli di ordine pratico nella vita quotidiana, risultando quindi in una serie di processi con i quali

    approcciamo affrontiamo e risolviamo in maniera più o meno positiva un determinato compito.

    Rispetto alle strategie, con cui hanno in comune l’essere una modalità di affrontare qualcosa, gli stili di

    pensiero hanno una maggiore tipicità (dove una strategia può essere utilizzata indipendentemente da

    diversi individui, uno stile di pensiero sarà considerato preferenziale rispetto ad altri, poiché tipico di una

    categoria di individui rispetto ad un’altra categoria diversa), risultando quindi una sorta di modo di

    funzionare dell’individuo. Tali stili di pensiero inoltre possono essere o non essere congruenti con quello

    che un determinato compito o che la società chiede ad un determinato individuo (un esempio può essere

    visto quando una persona con uno stile di pensiero più creativo viene obbligata a compiere lavori routinari,

    e viceversa dove una persona più stabile e dogmatica è obbligata a scrivere un racconto basato sulla pura

    fantasia): anche per questo è auspicabile che, notando la presenza di un particolare stile di pensiero,

    l’individuo cerchi di rafforzare anche lo stile complementare, per poter essere in grado di affrontare in una

    maniera quanto più ampia possibile la varietà di situazioni che la vita gli potrà portare all’attenzione. 

    Secondo Sternberg, le nostre menti tendono ad organizzarsi in forme e strutture basate sulle priorità poste

    dal vivere in comunità, in una sottospecie di autogoverno mentale, risultando quindi propense a stabilire

    delle tipologie caratteriali e di stili di pensiero relative a questa forma di autogoverno: legislative, esecutive,

    e giudiziarie (basate cioè sulla struttura tipica dei governi di emanare leggi tramite il ramo legislativo,

    metterle in pratica tramite il ramo esecutivo, e valutare l’effetto delle stesse tramite il ramo giudiziario);

    questi stili di pensiero particolari, possono essere considerati trasversali a moltissime parti della vita

    quotidiana: si può essere legislativi, esecutivi, o giudiziari difatti nella maniera in cui si affronta una

    conversazione, nella scelta dei vestiti, nei consigli da dare, nei compiti da eseguire, nell’organizzazione di un

    viaggio o nel semplice atto di scrivere una lettera.

    Riassumendoli, uno stile di pensiero legislativo appartiene alle persone che cercano di crearsi da sole le

    proprie regole, insofferenti all’autorità altrui, ma dotate di estrema creatività e capacità di ricerca e di

    creazione di nuove opere, risultando in grado di assurgere ad importanti e prestigiosi incarichi, ma nello

    stesso tempo accusate di eccessivo individualismo e di sabotaggio dell’autorità costituita. Uno stile di

    pensiero esecutivo invece è come vuole il nome il perfetto esecutore del dogma e delle norme approvate e

    comprovate della società, divenendo quindi il perfetto strumento della comunità. Privilegia la regola el’ordine, ed è portato per natura a seguirle. Quello però che guadagnano in approvazione sociale ed in

    consolidamento istituzionale, perdono in individualità ed in creatività, risultando ottimi amministratori,

    burocrati, e membri delle forze di polizia ed armate, ma mai del tutto innovatori. Per ultimo lo stile

    giudiziario è il critico, colui che fa della valutazione la sua arte e la sua forma mentale, senza mai esporsi in

    prima persona e senza mai creare se non per esporre il suo punto di vista sulle cose, valutando esaminando

    e giudicando – come vuole il nome – i comportamenti e le azioni altrui. L’intrinseco vantaggio è nella

    professione prestigiosa legata all’atto di valutare: giudizi, valutatori, alcuni psichiatri, membri di comitati

    scientifici, sono tutte persone con stile di pensiero giudiziario; nello stesso tempo, perdono in simpatia

    umana, capacità innovativa, e poiché incentrati a valutare e non creare, o eseguire, sempre sottoposti ad

    una forma indiretta di soddisfazione.

    Fra i molti stili di pensiero, uno particolarmente complesso da definire è lo Stile anarchico. Questo, il cui

    nome evoca una forma di caoticità indiscriminata e priva di raziocinio, sembra estremizzare lo stile

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    oligarchico nella difficoltà a stabilire priorità, aggiungendo ad esso però una esasperata casualità, ed

    un’assoluta modalità di sfida all’autorità costituita, risultando quasi uno stile di aperta critica e contrasto

    verso tutto e tutti. Definite antisistematiche piuttosto che asistematiche (quindi non tanto prive di un

    sistema di riferimento, ma del tutto avverse a qualsiasi forma di sistema), le persone con uno stile di

    pensiero anarchico rifuggono ogni forma di catalogazione e categorizzazione, preferendo nella risoluzione

    di compiti di qualsiasi natura ripartire direttamente da zero.Sono persone che tendono nei test di valutazione a scegliere risposte relative alla casualità, alla libertà, ed

    alla mancanza di schematicità, con esempi del tipo: “quando devo affrontare una serie di compiti, scelgo il

    primo che mi capita sotto mano”, “posso passare con facilità da un compito all’altro, perché tutti mi

    sembrano egualmente importanti”, “mi piace affrontare ogni genere di problemi, anche quelli

    apparentemente banali”, “considero tutti i punti di vista quando devo prendere una decisione”. 

    Apparentemente può sembrare che uno stile di pensiero di questo tipo possa solamente causare – con il

    suo atteggiamento di sfida continua, e la sua modalità di risoluzione dei compiti caotica e contraddittoria,

    tale da creare continua tensione fra i gruppi – contrasti e svantaggi, sia negli altri che in chi lo utilizza, ma la

    realtà è che la capacità di visione di ogni campo a 360°, e la sua incapacità di considerare qualcosa banale,

    può essere convogliata, da parte di chi ha stili di pensiero più sistemici e più elaborativi, verso forme dicreatività eccelse. L’anarchico, pur sfidando l’autorità e la società, può essere considerato se

    opportunamente canalizzato e direzionato, una delle sue mente più creative e proficue.

    Contrapposto a questo c’è difatti lo stile gerarchico, che rappresenta il perfetto contraltare allo stile

    anarchico. Dove il secondo incarna la sfida all’autorità, il gerarchico si può quasi dire che è l’amante

    dell’autorità stessa. Egli difatti tenderà a vedere ogni cosa sotto forma di scale, di ordini, di livelli, di punti,

    di frammentazioni possibili: nessun compito è tale da essere considerabile con ogni sua parte egualmente

    importante, ed egualmente allo stesso livello, ma tutti possono essere scomposti, gerarchicizzati appunto, e

    messi in un ordine d’importanza tale da poter essere più facilmente elaborati e risolti. Vive di causa ed

    effetto lo stile di pensiero gerarchico, dove per ogni cosa c’è una serie di step da fare, una serie di passi da

    compiere, una determinata strategia da adottare, e tutto tende ad andare – effettuati questi passi – al

    giusto posto e soprattutto nel giusto ordine. Nei testi di valutazione, risposte tipiche sono: “quando ci sono

    cose da fare, ho chiaro il senso dell’ordine in cui farle”, “mi piace stabilire la priorità delle cose da fare

    prima di farle”, “prima di dare l’avvio ad un progetto, mi piace sapere le cose da fare e l’ordine in cui esse

    vanno fatte”, “quando discuto o scrivo, sottolineo l’idea principale ed il modo in cui essa si sviluppa e si

    combina nei suoi vari aspetti”. L’evidente vantaggio di uno stile di pensiero gerarchico si vede

    nell’insegnamento, dove la capacità di sapere dare ad ogni cosa il giusto ordine e la giusta importanza

    garantisce una maggiore capacità di spiegazione agli altri, e l’appianamento di problemi di comprensione;

    inoltre gli insegnanti stessi vedono le persone con uno stile gerarchico dotate di quella che viene definita

    elaborazione intelligente. Lo svantaggio è chiaro quando il compito non può essere scomposto in parti, e

    quando – a causa dell’eccessiva pianificazione e frammentazione – vengono a trovarsi sottratte altre

    energie necessarie per la flessibilità e la creatività.

    3 – Motivazione e apprendimento

    La motivazione può essere intesa come un uso più efficace e costruttivo delle strategie cognitive messe in

    atto nella risoluzione di problemi e nell’apprendimento di nuove informazioni, unita ad un maggiore

    desiderio di imparare nuove abilità e di mettersi alla prova in compiti via via più impegnativi, comprensivo il

    tutto della costante misurazione dei propri successi e dei propri insuccessi al fine non di esaltarsi o

    scoraggiarsi, ma di proseguire lungo un cammino continuo di miglioramento personale. In questo quindi la

    motivazione si configura come un insieme organizzato di esperienze soggettive che definiscono e spiegano

    l’inizio la direzione la persistenza e l’intensità di un comportamento diretto ad uno scopo. Considerando la

    possibilità che essa sia estrinseca (attribuibile cioè a cause esterne al soggetto), o intrinseca (attribuibile

    cioè a cause interne al soggetto), e associando maggiormente la motivazione estrinseca alla struttura di

    condizionamento operante di Skinner, ed alla sua formazione tramite rinforzi positivi e negativi, in questo

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    punto ci si concentrerà su tre forme diverse di motivazione intrinseca: l’esperienza di flusso di

    Csikszentmilyi (1993), la curiosità epistemica di Berlyne (1960), e la motivazione di Effectance di White

    (1959) e Harter (1978).

    Lo studio sulla motivazione intrinseca di Csikszentmilyi è forse uno dei più singolari in merito, e la sua

    modulazione continua nel tempo può essere associato come forma mentis al concetto di slancio vitale

    riscontrato nella fenomenologia di Minkowski, come un continuo alternarsi di momenti di calo e dimomenti di estremo interesse e gioia nella motivazione alla riuscita in un compito. Questa difatti incarna

    una visione della motivazione improntata in un feedback immediato (relativo al qui ed ora), tale da

    convogliare ogni risorsa attentiva nel compito attualmente svolto, al punto che chi è soggetto a questa

    esperienza di flusso è in grado di perdere il senso del tempo e dello spazio (proprio questo di musicisti che

    in piena esperienza di flusso possono suonare per ore senza avvertire la stanchezza, o di studenti che in

    pieno ripasso da esami non si accorgono di aver saltato l’orario del pranzo e della cena, catturati

    dall’interesse per la materia che stanno al momento rivedendo). Questa esperienza di flusso può essere

    vista come l’intreccio fra due variabili binomiali: una definita di “facilità – difficoltà” relativa al compito, e

    l’altra relativa alla “bassa – alta” percezione dell’abilità di chi esegue tale compito. Dalla griglia 2x2

    risultante avremo quattro possibili combinazioni: una combinazione di “facilità del compito – bassapercezione dell’abilità”, risultante nell’apatia (mancanza di stimolo verso il compito, visto come facile ma

    nello stesso tempo non dotati della necessaria capacità per svolgerlo come tale), una di “facilità del

    compito – alta percezione dell’abilità” risultante nella noia (mancanza di interesse verso il compito, visto

    come troppo facile rispetto alle proprie capacità personali), una di “difficoltà del compito – bassa

    percezione dell’abilità”, risultante nell’ansia (interesse estremo nel compito ma visto come troppo difficile

    per essere eseguito correttamente), ed infine una di “difficoltà del compito – alta percezione dell’abilità”,

    risultante nella ricercata esperienza di flusso (interesse estremo nel compito, visto come capace di mettere

    alla propria la propria abilità personale in maniera ottimale). E’ chiaro che l’esperienza di flusso non può

    essere statica, ondeggiando una volta raggiunta fra uno stato d’ansia (quando si affronta un nuovo livello di

    difficoltà in una qualche attività), e noia (quando si è oramai padroneggiata totalmente quella parte del

    compito).

    Nella curiosità epistemica di Berlyne invece abbiamo una visione diversa della motivazione: questa viene

    vista come il bisogno universale di conoscere ed apprendere che porta all’esplorazione dell’ambiente

    attorno a sé motivata solo dal desiderio di sapere; dove nell’esperienza di flusso è un passaggio quasi

    obbligato nell’apprendimento di un compito, qui diventa uno stimolo che spinge ad esplorare nuovi

    argomenti e campi del sapere. E’ importante sottolineare come nonostante questo costrutto faccia parte

    della motivazione intrinseca, essa pone un grande rilievo nell’importanza dell’ambiente esterno: un

    ambiente stimolante e favorevole all’esplorazione genererà una forte curiosità epistemica nel soggetto,

    mentre un ambiente non stimolante tenderà dopo un po’ ad azzerare questa forma di motivazione

    intrinseca. L’ambiente deve essere nuovo, complesso, ed incongruenze rispetto al sistema di credenze e

    conoscenze, tanto da spingere l’individuo ad innescare il desiderio di cercare nuove soluzioni per risolvere il

    conflitto. Deve essere di livello medio – né troppo basso né eccessivamente alto – questo conflitto per

    poter generare una risposta ottimale e creativa, riscontrabile peraltro proprio nel primo stadio senso-

    motorio dello sviluppo dei bambini, dove la presenza del sistema esplorativo-assertivo sembra proprio

    ricalcare ed evidenziare la presenza di tale curiosità epistemica. Se c’è però un punto debole di questa

    visione, è il suo non spiegare adeguatamente il proseguire con tenacia e costanza nonostante la presenza di

    ostacoli.

    Considerabile quasi un ampliamento della curiosità epistemica è la motivazione di effectance studiata da

    White e successivamente da Harter, dove il bisogno di esplorare l’ambiente non è parte solamente

    dell’estrema curiosità di un bambino, ma anche del suo bisogno di control lare e padroneggiare questo

    stesso ambiente che lo circonda, al fine di sentirsi competenti ed efficaci. Questa motivazione è stata ancheosservata nelle osservazioni dell’ambiente – specialmente in quelle giocose – anche da Piaget negli stadi

    molto precoci dello sviluppo. Harter di seguito ha ampliato gli studi sulla motivazione di effectance

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    considerato i successi e gli insuccessi nelle aree cognitive sociali e fisiche, dove un bambino adeguatamente

    sostenuto ed incoraggiato in questi suoi primi sforzi tenderà ad assumere atteggiamenti di autoricompensa

    portando ad una sempre meno necessaria presenza del sostegno e dell’approvazione dell’adulto (caso

    limite è l’indifferenza alla punizione, dove l’autoricompensa è più alta della punizione proveniente

    dall’altro, in apparente contrasto con la concezione di rinforzo di Skinner). L’alternanza quindi fra obiettivi

    di padronanza (ovvero le sfide che la persona cerca di superare per acquisire competenza e controllonell’ambiente che lo circonda ed in sé stessi) e la bassa di percezione di competenza (ovvero la risultante di

    atteggiamenti scoraggianti e sfiducianti attuati nei confronti della persona che cerca di esplorare e

    controllare l’ambiente attorno a sé), possono essere considerati le tappe attraverso cui questa motivazione

    di effectance si può sviluppare pienamente.

    La motivazione alla riuscita di Atkinson deve molto alle teorie della Gestalt, e specialmente alle principali

    idee di Lewin (che afferma che la motivazione è l’energia che deriva da un conflitto, nel momento in cui

    esso viene risolto; conflitto nato dalla risultante di energie di senso opposto e di analoga intensità che

    agiscono sull’individuo nel momento in cui cerca di compiere un’azione), aggiungendovi la fondamentale

    presenza delle componenti emotive, giungendo a postulare la presenza di due tendenze uguali e contrarie

    che portano alla motivazione alla riuscita: la Tendenza al successo (Ts), e l’Evitamento del fallimento (Ef).

    Ognuna di queste due tendenze è data da un prodotto risultante dalla relazione fra una componente di

    personalità (M, per mood), considerata abbastanza stabile, e divisa fra la voglia di impegnarsi nella riuscita

    di un compito con spirito positivo, o nella tendenza ad evitare le responsabilità relative, e da un fattore

    cognitivo dato dalla probabilità di successo in un compito (definito come P), che è inversamente

    proporzionale alla difficoltà del compito stesso (bassa difficoltà determinerà alta percentuale di successo).

    Aggiungendo a questi fattori un incentivo (definito come I) positivo (orgoglio) od un incentivo negativo

    (vergogna) relativi al successo ed insuccesso nel compito, avremo due equazioni differenti, definibili come

    TS = Ms x Ps x Is, e come EF = Mf x Pf x Is, dove la speranza netta S sarà data dalla risultante della

    sottrazione fra la Tendenza al Successo e l’Evitamento del Fallimento. Sarà possibile quindi aspettarsi una

    speranza negativa dove la paura di fallire sarà più forte dello stimolo a riuscire.

    Dove quindi Ef > Ts si avrà un ritiro dal compito, senza l’investimento quindi di energie necessarie alla sua

    risoluzione.

    La motivazione quindi nel modello di Atkinson è la somma algebrica di Tendenza al successo e Evitamento

    del fallimento, dove l’estremo di segno negativo deriva nella demotivazione, che è un atteggiamento

    diverso dalla mancanza di motivazione: questa difatti rappresenta la mancanza di voglia nell’impegnarsi in

    un compito per cause differenti dalla paura di fallire o da una visione non positiva delle proprie capacità,

    relativa a motivi principalmente relativi all’interesse nel compito stesso, mentre la demotivazione è una

    forma di motivazione anch’essa, ma spinta verso l’evitamento selettivo nell’investimento di energie

    necessarie alla risoluzione del compito per paura di fallire e di subire la relativa vergogna che si pensa

    accompagni detto fallimento.Questo tipo motivazione genera quello che si può definire modello delle scelte a rischio, visibile in un

    grafico (in ordinata l’incentivo al successo, in ascissa la difficoltà del compito) dove una retta di regressione

    negativa (ovvero dove i valori sull’ordinata decrescono al crescere dei valori dell’ascissa) rappresentante la

    probabilità di successo (che difatti decresce all’aumentare la difficoltà del compito), ed una retta di

    regressione positiva (i valori sull’ordinata ed i valori dell’ascissa sono direttamente proporzionali)

    rappresenta l’incentivo al successo (che aumenta di pari passo con la difficoltà del compito) s’intersecano

    determinando i tre principali quadranti della parabola motivazionale: il suo punto più alto si avrà dove la

    probabilità di successo e l’incentivo al successo saranno di livello medio, trovandosi a calare via via che la

    probabilità calerà e l’incentivo salirà. 

    In base al modello di Atkinson possiamo identificare quattro differenti stili motivazionali riscontrabili nelle

    persone, associabili due a due in virtù della stessa equazione algebrica vista poco fa, data dai fattori di Ts

    (Tendenza al successo) e di Ef (Evitamento del fallimento), riferiti a segni di uguaglianza, maggioranza, e

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    minoranza.

    In un estremo abbiamo gli Over-Strivers, che si impegnano fino allo spasimo, rappresentati dall’uguaglianza

    di Ts e Ef, entrambe con un valore molto elevato, dove quindi la tendenza al successo elevata si

    accompagna ad un altrettanto elevato evitamento del fallimento, portando ad un continuo conflitto. Se dal

    punto di vista dell’apprendimento gli Over-strivers sono molto brillanti e competitivi, il livello di ansia che si

    accompagna al loro costante bisogno di riuscire è tale da rendere difficoltoso per loro apprezzare i lorosuccessi, al punto che è quasi possibile affermare che la paura di fallire in loro sia comunque maggiore del

    loro desiderio di riuscire, risultando in un rischio di costante sensazione sottopelle di vergogna anticipata ad

    ogni minimo passo falso.

    All’estremo opposto abbiamo i Failure acceptors, rassegnati all’insuccesso, dove questa stessa uguaglianza

    di Ts ed Ef è causata dall’estremamente basso valore di entrambe. Difficilmente stimolabili, vivono nella

    stessa maniera successo e fallimento, considerabili da loro non dotati di adeguato interesse.

    Apparentemente nell’apatia, la loro può essere una forma di difesa estrema dal fallimento o dall’impegno,

    risultando quindi con un apprendimento ben al di sotto delle loro reali possibilità, che porta ad un circolo

    vizioso di mancanza d’impegno e di continuo insuccesso o di minimo successo, che non è in grado quindi di

    portare fuori da questa situazione gli individui dotati di questo stile motivazionale.Dove la Tendenza al successo è maggiore dell’evitamento del fallimento abbiamo i Success Oriented, le

    persone orientate al successo, dotate di atteggiamento ottimista e di una forte tendenza al gusto di

    imparare come motivazione intrinseca; pieni di fiducia di sé, le persone con questo stile motivazionale

    hanno una buona tolleranza del fallimento, visto come un momento fisiologico necessario

    all’apprendimento ed al miglioramento di sé, tendendo quindi ad attribuire il successo alla capacità ed

    all’impegno, e l’insuccesso alla sfortuna o all’insufficiente impegno. 

    Sul versante opposto, dove la tendenza al successo è inferiore all’evitamento del fallimento, si trovano i

    Failure Avoiders, persone che vivono con il perenne spettro della vergogna susseguente al fallimento nei

    compiti che gli sono stati assegnati, tanto da arrivare ad adottare strategie di self-handicapping (assunzione

    di cibi o bevande tali da incapacitare nella corretta esecuzione di un compito) di estrema procrastinazione

    (ritardare fino all’ultimo l’esecuzione di un compito per usare i tempi ristretti come giustificazione del

    fallimento), e di disinvestimento cognitivo ed emotivo con funzione difensiva, risultando apparentemente

    annoiati e disinteressati.

    Weiner (1985) studia il sistema delle attribuzioni di successo e fallimento inserendole in una griglia molto

    complessa , relativa a tre variabili dimensionali principali, ognuna di esse binomiale: una definita Locus of

    Control, che tratta delle cause del successo o del fallimento dividendole in interne o esterne all’individuo;

    una di Stabilità delle cause stesse, che identifica se esse siano contingenti o strutturali, ed una infine di

    Controllabilità di queste cause, se cioè siano in qualche maniera personalmente controllabili o non

    controllabili dall’individuo soggetto ad esse.

    Questa griglia porta quindi ad otto possibili uscite che determinato successo ed insuccesso, riassunte qui:Tenacia (locus interno, stabile, controllabile); Abilità innata (locus interno, stabile, non controllabile);

    Impegno (locus interno, instabile, controllabile); Tono umore (locus interno, instabile, non controllabile;

    Pregiudizio (locus esterno, stabile, controllabile); Facilità del compito (locus esterno, stabile, non

    controllabile); Aiuto (locus esterno, instabile, controllabile); Fortuna (locus esterno, instabile, non

    controllabile).

    Queste otto possibili uscite possono facilmente essere integrate con i vari sistemi motivazioni, fra qui quello

    dello stesso Atkinson: una persona con una tendenza al successo avrà una forte tendenza ad orientarsi

    verso cause interne e controllabili (il successo è dato da impegno, l’insuccesso dalla mancanza dello stesso),

    mentre una persona che mira ad evitare il fallimento sarà più spinta a cause non controllabili o fattori

    esterni (successo ed insuccesso dati da fortuna o facilità – difficoltà nel compito).

    Dweck e colleghi (1988, 1995, 1999) hanno studiato gli effetti a cascata in moltissimi aspetti emotivi e

    strategici di due diversi e complementari orientamenti al successo, riscontrabili specialmente negli

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    studenti.

    Vi sono difatti due principali motivazioni che guidano gli studenti nella riuscita dei loro compiti, che

    possono essere parzialmente sovrascritte alle teorie intrinseche ed estrinseche: sul piano estrinseco, una

    motivazione di ordine sociale, di riconoscimento dell’impegno attuata tramite la ricerca del voto, del

    diploma, del certificato (quello che viene volgarmente chiamato spesso “il pezzo di carta”) che dia una

    qualche forma di valore sociale allo sforzo fatto, ed una motivazione intrinseca di desiderio di acquisireconoscenze, di migliorare sé stessi, e di spingersi sempre oltre nella scoperta delle proprie capacità.

    Questi due orientamenti possono essere definiti di prestazione (incentrati quindi sul qui ed ora, sul risultato

    immediato, sul riconoscimento subitaneo della propria capacità), e di padronanza (incentrati sul là ed

    allora, sulla visione del futuro di sedimentazione e di acquisizione di talenti che possano essere pervasivi e

    perduranti, anche senza un immediato riconoscimento), tali da poter permettere di distinguere due diverse

    tipologie di alunno: un alunno – prestazione, dove il timore del rifiuto sociale (dato da un voto negativo)

    può portare sempre a rischio di depressione, e dove l’eccessivo timore di vedersi confermata una presunta

    incapacità può portare al caso limite dell’impotenza appresa, ed un alunno – padronanza, improntato

    invece all’acquisizione di talenti e capacità, con una visione ottimistica del sapere e dell’apprendimento,

    volta al miglioramento di sé. Come le persone orientate al successo, gli alunni con obiettivi di padronanzatendono ad accettare con maggiore facilità i fallimenti, visti come personali occasioni di miglioramento.

    E’ comunque importante da capire che anche gli obiettivi di prestazione hanno il loro diritto di esistenza: in

    moltissimi casi è utile porsi degli obiettivi di prestazioni (il conseguimento di una laurea, di titoli necessari

    ad un concorso, di un buon curriculum) per poter avere una base di partenza su cui sviluppare la propria

    padronanza, necessaria in futuro per acquisire nuovi e migliori obiettivi di prestazione. Come in ogni cosa,

    anche qui bisogna considerare l’utilità di una buona alternanza fra visioni motivazionali complementari, ma

    che non si escludono a vicenda.

    Sempre a Dweck dobbiamo anche studi importanti nel campo dell’intelligenza, connessi al campo

    dell’attribuzione di motivazioni ed obiettivi, definendo due principali teorie dell’intelligenza: una che la

    vede come un’entità (dotazione fissa, stabile, non incrementabile), ed una che la vede come intrementale

    (dinamica, non statica, multiforme ed in grado di potersi potenziare tramite l’allenamento e

    l’apprendimento). 

    Queste due teorie hanno le loro implicazioni anche nel campo degli obiettivi di prestazione e padronanza,

    al punto che una teoria incrementale dell’intelligenza avrà anche riguardo ad obiettivi di prestazione

    (improntati come detto al successo ed al riconoscimento immediato) una visione non monolitica del suo

    sapere, osservando quali campi di abilità mettere in gioco, e vedendo il fallimento non come un fallimento

    della sua intelligenza come unica entità, ma di determinati fattori di essa, risultando più facile da

    sopportare e da arginare l’eventuale depressione seguente. Una teoria entitaria dell’intelligenza invece

    tenderà a vedere quegli stessi obiettivi di prestazione come identificativi della propria capacità come

    comparto chiuso, indicatori dunque dell’essenza stessa della sua intelligenza.

    Tramite la percezione della propria abilità, e la visione di successi e fallimenti, l’adottare determinati stili di

    pensiero e porsi determinati traguardi, è possibile rimodellare la propria teoria implica dell’intelligenza,

    potendo modulare una teoria entitaria (tendenzialmente fallimentare) verso una teoria incrementale

    (maggiormente in grado di portare successo e miglioramento); proprio delle persone con una teoria

    entitaria – similmente ai failure avoiders - è la ricerca di compiti che non le obblighino a mettere in

    discussione le proprie capacità, per poter tenere sotto controllo il successo delle stesse, e poter così

    riconfermare il proprio conclamato talento naturale.

    4 – Metacognizione e modelli

    La metacognizione e gli studi ad essa relativi nascono in seno al cognitivismo, come una risultante

    dell’analisi di quelli che possono essere definiti processi di secondo ordine e dunque di livello meta

    (ricordiamo la definizione della psicologia sociale di artefatti di secondo ordine, ovvero di artefatti che

    trattano della definizione e della spiegazione degli artefatti di primo ordine; meta artefatti quindi), relativi

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    al pensiero sul pensiero, alla cognizione sulla cognizione, inteso come archivio stabile di conoscenze

    cognitive sui campi della memoria, dell’apprendimento, della motivazione, del linguaggio della percezione

    ed altri. La metacognizione quindi diventa una sorta di modalità di controllo dell’esecuzione dei processi

    cognitivi stessi.

    Flavell, (1979), parla di regolazione cognitiva come un modello basato su quattro diversi aspetti relati fra

    loro: conoscenza metacognitiva, esperienze metacognitive, obiettivi ed azioni, rispettivamente i compitiche ci si prefissa e le strategie scelte per risolverli; dove però i compiti e le strategie applicabili sono parti

    secondarie, conoscenza ed esperienze metacognitive meritano un approfondimento maggiore

    La prima, è ascrivibile a caratteristiche diverse: della persona, con intuizioni sulle differenze inter ed

    intraindividuali della stessa, relative agli stili di pensiero che il soggetto possiede, e le sue abilità; a

    caratteristiche del compito, i suoi requisiti cognitivi, il suo carico di impegno e di stress, le conoscenze e le

    competenze relative ad affrontarlo al meglio; ed infine alle caratteristiche delle strategie scelte per

    affrontarlo al meglio, che possono essere la scelta del luogo di studio, del tipo di studio, se sottolineatura o

    lettura ad alta voce, se in un luogo isolato od in compagnia di colleghi, se in silenzio o con

    accompagnamento musicale, e così via.

    La seconda invece, è definita come una esperienza consapevole, di natura cognitiva e affettiva, che attienead una impresa intellettiva a cui porta la conoscenza metacognitiva; essa può verificarsi in seguito a questi

    diversi fattori: se viene esplicitamente richiesta in una determinata situazione, quando ovvero viene chiesto

    di ragionare attivamente su quali processi mettere in gioco per risolvere un determinato compito; se la

    situazione da affrontare è insolita o nuova, e dunque necessitante di una rielaborazione dei dati in possesso

    per poter scegliere la migliore strategia da adottare; quando inoltre è necessario formulare inferenze o

    giudizi, specie ma non solo quando bisogna valutare il proprio operato (nella valutazione difatti viene ad

    inserirsi la propria conoscenza metacognitiva dei processi adottati, ma anche l’esperienza che si è avuta

    rispetto agli stessi: sono stati efficaci? Cosa posso migliorare degli stessi? Come posso ampliare il mio

    bagaglio di esperienze? Che altre strategie avrei potuto adottare?). L’unione di questi parametri, porta

    dunque secondo Flavell ad un ampliamento della propria capacità metacognitiva, come un sistema di

    continua verifica ed autovalutazione della propria esperienza cosciente relativa ai fenomeni osservati ed i

    compiti eseguiti.

    Brown e colleghi (1978, 1982, 1987) parlano di processi di controllo, segnando quindi la distinzione  – non

    affrontata da Flavell – fra conoscenze metacognitive, e processi di controllo relativi a queste stesse

    conoscenze, studiati principalmente nel campo della lettura; si possono dividere in predizione,

    pianificazione, monitoraggio e valutazione (ricollegabile questa forma di metacognizione all’intelligenza

    triarchica di Sternberg con le metacomponenti di acquisizione pianificazione e controllo).

    La predizionee è il primo passo fondamentale: permette di stimare la difficoltà di un compito e di predirne

    la riuscita o la mancata riuscita dello stesso; anticipare il risultato di una strategia fa parte di questa

    modalità predittiva. Si articola su vari sottolivelli: Ease of learning, il giudizio sulla facilità del compito primadella sua esecuzione; il Judgement of learning, ovvero il parere su quanto si è acquisito durante

    l’esecuzione del compito stesso; il Feeling of Knowing, la sensazione che si ha di conoscenza di informazioni

    non ancora assimilata, spesso anche relativa alla predittività relativa al compito (comprendere passaggi

    prima può dare una sensazione di facilitata comprensione dei passaggi dopo); Tip-of-the-tongue, la

    sensazione di conoscenza sulla punta della lingua, pronta in un qualsiasi momento a risalire alla memoria.

    La pianificazione è, in parole povere, la messa in atto organizzativa di tutte le possibili strategie relative alla

    risoluzione del compito, risultando una fase di passaggio fra la predizione (vedere se le strategie pianificate

    porteranno al successo) ed il monitoraggio (monitorare che le strategie pianificate siano efficaci nella

    risoluzione del compito).

    Il monitoraggio può essere sottodiviso in monitoraggio attivo, fatto da modulazione dell’attenzione, diregolazione dell’attività, e di continuo controllo e correzione dell’attività stessa, dunque adottando un

    processo cognitivo parallelo a quello necessario alla risoluzione del compito, necessario ad avere chiaro il

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    appropriate per il raggiungimento dello scopo, e della regolazione come controllo continuo dell’attività

    cognitiva nel suo svolgimento. In questo i processi individuati da loro e da Brown corrispondano ai

    medesimi passi compiuti nell’autogestione delle risorse in un compito di lettura.

    Studi successivi verificati da Cornoldi (1995) hanno dimostrato che nel caso di bambini di seconda e quinta

    classe di scuola primaria, presentando a questi testi plausibili e non plausibili (presentanti quindi o assenza

    di incongruenze o forti incongruenze), questi erano in grado di differenziare la comprensibilità dei due tipidi brani, ma non erano in grado necessariamente di dedicare diverse risorse attentive a quelli più difficili. La

    facilità di elaborazione del materiale quindi sembra determinare la stima di comprensibilità in questo

    frangente.

    Successive ricerche sull’individuazione di errori ed incongruenze (Garner e Reis 1981, Baker 1985), ha

    evidenziato come l’elaborazione frammentaria id un brano sia una delle cause della difficoltà a notare

    errori ed incongruenze. Chi non è in grado di formarsi un’immagine mentale globale di un testo nella sua

    interezza, difficilmente potrà riconoscere la presenza di incongruenze nelle sue singole parti. Questa

    difficoltà di riconoscimento però può essere inserita in una più generale difficoltà di comprensione del

    testo, portando a dire che la ricerca metacognitiva di errori e incongruenze in un testo, basata sulla

    conoscenza che il testo possa di fatto contenerli, sia di fatto una forma di riflessione metacognitiva e dicontrollo sull’attività di comprensione, come affermato da Cornoldi (1995) 

    6 – Metacognizione e matematica

    Le prime pioneristiche ricerche sul rapporto fra metacognizione e matematica le dobbiamo a Schoenfield

    (1983), hanno dimostrato la presenza di molteplici credenze di senso comune (miscredenze dunque) nel

    campo della matematica, tali da portare ad una differenza rappresentazione dell’approccio ai vari aspetti

    della stessa (calcolo, geometria, dimostrazioni, rapporti numerici, e simili), rispetto alla performance con

    cui viene eseguito il compito; un esempio si può considerare quello effettuato su studenti brillanti di

    università americane, che messi di fronte a problemi di dimostrazione geometrica e di costruzione

    geometrica, tendevano a risolvere in maniera rapida e canonica i primi, ma a violare i principi adottati nellarisoluzione dei secondi, adottando soluzione puramente empiriche.

    Questo studio, ed uno successivo (Schoenfield 1988), ha portato a mostrare come si tenda a differenziare

    fra via empirica e via deduttiva (fra costruzione di un teorema e dimostrazione dello stesso), dare eguale

    importanza a contenuto ed argomentazione, senza distinguere quindi la via che va verso il particolare dalla

    via che va verso il generale, considerare la memorizzazione di intere formule e dimostrazioni, la rapidità

    temporale di risoluzione, e l’intuizione sul ragionamento, come fattori determinanti nella risoluzione di

    problemi matematici (se ci si mette più di dieci minuti, se non si capisce tutto al volo, se non si può

    applicare una formula imparata a memoria, allora non è possibile risolvere il problema).

    Inoltre studi ulteriori (Schoenfield 1994) hanno portato a verificare la presenza di ulteriori credenze, fra cui

    l’idea che esista per ogni problema una ed un’unica soluzione, ed un solo modo corretto per risolvere i

    problemi, corrispondente alla formula imparata a memoria e dimostrata in classe recentemente

    dall’insegnante, che chi non è particolarmente dotato non può capire la matematica, ma deve limitarsi a

    memorizzare pedissequamente le formule, che la matematica sia un’attività solitaria ed individuale,

    corrispondente a talento ed intuizione, e che non abbia alcun collegamento effettivo con la realtà che gli

    individui affrontano quotidianamente.

    Gli studi di Mason (2003) dimostrano inoltre una grandissima varietà di opinioni riguardo alla matematica: a

    fianco questa tendenza a vedere la matematica come un esercizio mentale che non ha alcun collegamento

    con la realtà, ci sono risposte che mostrano come la matematica abbia un alto riscontro nella vita pratica di

    tutti giorni, e dove si discrimina la presenza o l’assenza di un cervello matematico, si attesta anche la

    possibilità che si possa imparare a ragionare in maniera matematica, fino ad arrivare a distinzioni di genere

    riguardo la tendenza ad affidarsi più all’intuizione, od al voler comprendere con più attenzione i singoli

    concetti.

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    A causa di questa estrema variabilità di credenze diverse e contrastanti fra di loro, un filone di ricerche

    (Lester e Garofalo, 1982, Zan e Poli, 1996, Lucangeli, Coi e Bosco, 1997, Schoenfield, 1988, Hofer 1999,

    Mason 2003), si è focalizzato nel verificare se ci fosse una correlazione fra credenze e rendimento in

    matematica, trovandolo.

    Gli studi di Lester e Garofalo sugli studenti di scuola media hanno mostrato che credenze poco costruttive

    sulla matematica portano a soluzioni poco articolate dei problemi matematici, portando quindi ad unamodalità di risoluzione empirica e computazionale, piuttosto che adeguatamente ragionata (arrivavano a

    tentare tutte e quattro le tipologie di operazione matematica, scegliendo alla fine quella che appariva più

    sensata), dedicandosi a controllare la correttezza del calcolo piuttosto che la sensatezza della soluzione.

    Zan e Poli hanno studiato le differenze fra buoni e cattivi solutori, presentando quattro diverse tipologie di

    problemi, di cui tre evidentemente impossibili: uno con dati insensati (dato il numero di banchi in classe ed

    la presenza di una finestra rotta, quanti ha il preside della scuola?) e due con dati insufficienti, ed uno solo

    con dati giusti, ma distraenti (riferiti ad elementi reali impossibili, sebbene calcolabili in maniera coerente e

    corretta).

    Messi di fronte alla necessità di scegliere un problema rappresentativo di quelli impossibili, i buoni solutori

    sceglievano quello con i dati insensati, mostrando una buona capacità di giudizio sulla possibilità dirisoluzione del problema stessa, mentre i cattivi solutori tendevano a scegliere quello con dati impossibili

    ma corretti dal punto di vista matematico (se ho dodicimila dita e me ne rompo duemila, quante dita sane

    avrò?) in quanto considerato impossibile dal punto di vista reale.

    Un ulteriore studio di Poli e Zan ha messo in luce la presenza di quattro tipologie diverse di solutori di

    problemi matematici: Formalisti (il problema di matematica è “come si presenta”, ovvero dotato di numeri

    e domande); Strutturali (il problema di matematica è “con che strutture di pensiero si risolve” quindi è

    affrontabile con strutture matematiche); Operativi (il problema di matematica “è tale perché usa

    operazioni matematiche”, quindi è fatto da operazioni aritmetiche); Pragmatici (il problema di matematica

    “si fa durante le ore di matematica”, quindi è relativo al contesto entro il quale viene svolto).  

    I buoni solutori erano identificati con gli strutturali, consapevoli che i problemi di matematica non avessero

    sempre la presenza di operazioni matematiche, che un maggior numero di domande non corrispondesse

    immediatamente ad una maggiore difficoltà nella risoluzione, che è più importante una corretta scelta delle

    operazioni da applicare rispetto ad un errore di calcolo, e che bisogna dare priorità ad un buon

    ragionamento rispetto che ad una risposta intuitiva.

    Per concludere, gli studi degli altri autori hanno evidenziato come credenze più adattive e flessibili avessero

    una forte correlazione con un maggiore rendimento matematico, e che una preferenza di ragionamento

    rispetto a memorizzazione e di una buona autoefficacia ed autoregolazione determinassero una maggiore

    capacità di affrontare i problemi matematici con l’utilizzo delle corrette strategie.  

    Nel quadro delle ricerche metacognitive in matematica e della loro applicazione nel campo dello studio, è

    importante l’apporto dato dal programma di studio di Cornoldi e Colleghi (1995), basato sull’analisi dellecredenze matematiche, delle conoscenze metacognitivi e dei processi di controllo metacognitivi ad esse

    applicabili, per l’analisi delle stesse e delle eventuali psicopatologie collegabili alla matematica.  

    Agendo in contemporanea sui processi di controllo e sulla conoscenza metacognitiva è possibile difatti

    migliorare la memoria, ed il metodo di studio relativi alla storia, la lettura, e la geografia; su questi

    presupposti Cornoldi e colleghi hanno creato le basi di un programma che potesse essere egualmente utile

    per migliorare l’apprendimento in matematica. 

    In questo quadro, la Conoscenza metacognitiva si riferisce a idee vissuti ed emozioni relativi ad una

    determinata area di funzionamento cognitivo, distinguendo quindi un atteggiamento metacognitivo

    relativo all’individuo ed al suo rapporto personale costruito con una determinata area di sapere cognitivo

    (le cosiddette credenze riguardo alla matematica nello specifico, che sia dura, che sia da memorizzare, checontino di più i calcoli rigorosi rispetto al ragionamento preciso), e le conoscenze metacognitive, riguardanti

    contenuti oggettivi (i problemi lunghi sono tendenzialmente più difficili), focalizzandosi sull’analisi e lo

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    studio degli atteggiamenti rispetto alle conoscenze.

    Dando quindi una maggiore importanza ai vissuti emotivi, le attribuzioni e le idee sulla matematica e sul

    suo funzionamento mentale da adottare per affrontarla, il gruppo di Cornoldi ha creato un programma che

    possa essere rivolto al secondo ciclo elementare ed alle prime due classi delle medie (quarta e quinta

    elementare, prima e seconda media), utilizzabile sia singolarmente che in ogni sua parte, come strumento

    di rinforzo o di recupero, formato da cinque aree didattiche che affrontano cinque diversi campi diconoscenza metacognitiva e di processi di controllo metacognitivi.

    Il programma è diviso in due parti: un questionario metacognitivo, ed una serie di unità didattiche

    (raggruppate in dieci diversi aree: riconoscimento abilità cognitive, abilità mentali, stili di pensiero e

    strategie cognitive, utilizzo di atteggiamento positivo, gestire le situazioni di ansia, riconoscere importanza

    di comprensione del testo per la risoluzione dei problemi matematici, prevedere le difficoltà di un compito

    è proprie possibilità di riuscita, pianificazione, monitoraggio, e valutazione della prestazione), formulate per

    far prendere consapevolezza del compito da eseguire e delle sue richieste, su come intervenire e sulle

    strutture della mente da utilizzare nell’intervento, su quali strategie siano da utilizzare, come imparare a

    trovarle ed utilizzarle, attraverso anche la loro formulazione ed applicazione; e nello svolgimento concreto

    su come attuare una riflessione dialogata fra insegnante ed alunno, chiamato via via ad esporre i propriragionamenti effettuati via via che il compito verrà eseguito.

    In questo programma l’insegnante svolge il ruolo di guida esperta ed il gruppo dei pari svolg