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DOMENICA DELLE PALME PASSIONE DEL SIGNORE Lc 22,14-23,56; Is 50,4-7; Sal 21; Fil 2,6-11 ANNO C Colletta Dio onnipotente ed eterno, che hai dato come modello agli uomini il Cristo tuo Figlio, nostro Salvatore, fatto uomo e umiliato fino alla morte di croce, fa' che abbiamo sempre presente il grande insegnamento della sua passione, per partecipare alla gloria della risurrezione. Egli è Dio e vive e regna con te... Con questa Domenica inizia la Settimana Santa, un momento di grande spiritualità che la tradizione cristiana chiama la “grande Settimana” (Hebdomada maior), e questo perché, come afferma san Giovanni Crisostomo, in tale periodo sono stati donati all’umanità i beni più grandi: il Signore si è riconciliato con la sua creatura più cara, il cielo si è fatto più vicino, la morte è stata sconfitta per sempre, la schiavitù del demonio annullata, e il Dio della pace ha reso “buona” ogni cosa, sia in cielo sia in terra. Per questo è bello che un avvenimento tanto espressivo, sia preceduto dalla benedizione delle “palme” e dalla processione in onore di Cristo-Re, a ricordo del suo ingresso trionfale in Gerusalemme; una scena di grande esultanza, che ben presto si muterà nella spietata congiura contro Gesù e terminerà con la sua morte sulla Croce. Se la Liturgia della “Parola” non proponesse come seconda lettura il meraviglioso inno di Paolo, sembrerebbe veramente che l’ora delle tenebre avesse il potere di annullare per sempre ogni speranza di salvezza; infatti, il lamento del servo sofferente (prima lettura) pone una struggente nota di dolore su una vicenda, che rimane incomprensibile se non alla luce del “dopo”, e il corpo che cala nella tomba, la pietra che la richiude inesorabilmente, i soldati armati che la sorvegliano, non possono che lasciare una profonda sensazione di gelo (pagina evangelica). È la storia del dramma della follia di un popolo, della perversità umana, e della violenza gratuita contro l’unico innocente apparso sulla terra, sulla quale, però, emerge sovrana la figura del Cristo che sulla Croce celebra il suo vero trionfo.

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DOMENICA DELLE PALME PASSIONE DEL SIGNORE

Lc 22,14-23,56; Is 50,4-7; Sal 21; Fil 2,6-11

ANNO C

Colletta Dio onnipotente ed eterno, che hai dato come modello agli uomini il Cristo tuo Figlio, nostro Salvatore, fatto uomo e umiliato fino alla morte di croce, fa' che abbiamo sempre presente il grande insegnamento della sua passione, per partecipare alla gloria della risurrezione. Egli è Dio e vive e regna con te...

Con questa Domenica inizia la Settimana Santa, un momento di grande spiritualità che

la tradizione cristiana chiama la “grande Settimana” (Hebdomada maior), e questo

perché, come afferma san Giovanni Crisostomo, in tale periodo sono stati donati all’umanità i beni più grandi: il Signore si è riconciliato con la sua creatura più cara, il

cielo si è fatto più vicino, la morte è stata sconfitta per sempre, la schiavitù del demonio

annullata, e il Dio della pace ha reso “buona” ogni cosa, sia in cielo sia in terra. Per

questo è bello che un avvenimento tanto espressivo, sia preceduto dalla benedizione delle “palme” e dalla processione in onore di Cristo-Re, a ricordo del suo ingresso

trionfale in Gerusalemme; una scena di grande esultanza, che ben presto si muterà

nella spietata congiura contro Gesù e terminerà con la sua morte sulla Croce. Se la Liturgia della “Parola” non proponesse come seconda lettura il meraviglioso inno

di Paolo, sembrerebbe veramente che l’ora delle tenebre avesse il potere di annullare

per sempre ogni speranza di salvezza; infatti, il lamento del servo sofferente (prima lettura) pone una struggente nota di dolore su una vicenda, che rimane incomprensibile

se non alla luce del “dopo”, e il corpo che cala nella tomba, la pietra che la richiude

inesorabilmente, i soldati armati che la sorvegliano, non possono che lasciare una

profonda sensazione di gelo (pagina evangelica). È la storia del dramma della follia di un popolo, della perversità umana, e della violenza gratuita contro l’unico innocente

apparso sulla terra, sulla quale, però, emerge sovrana la figura del Cristo che sulla

Croce celebra il suo vero trionfo.

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Alla commemorazione

dell’ingresso del Signore

in Gerusalemme Orazione Dio Onnipotente ed eterno, benedici + questi rami [di ulivo], e concedi a noi, tuoi fedeli, che accompagniamo esultanti il Cristo, nostro Re e Signore, di giungere con lui alla Gerusalemme del cielo. Egli vive e regna nei secoli dei secoli.

Dal Vangelo secondo Luca (19,28-40)

In quel tempo, Gesù camminava davanti a tutti salendo verso

Gerusalemme. Quando fu vicino a Bètfage e a Betània, presso il

monte detto degli Ulivi, inviò due discepoli dicendo: «Andate nel

villaggio di fronte; entrando, troverete un puledro legato, sul quale

non è mai salito nessuno. Slegatelo e conducetelo qui. E se qualcuno

vi domanda: “Perché lo slegate?”, risponderete così: “Il Signore ne

ha bisogno”».

Gli inviati andarono e trovarono come aveva loro detto. Mentre

slegavano il puledro, i proprietari dissero loro: «Perché slegate il

puledro?». Essi risposero: «Il Signore ne ha bisogno».

Lo condussero allora da Gesù; e gettati i loro mantelli sul puledro, vi fecero salire Gesù. Mentre egli avanzava, stendevano i loro mantelli

sulla strada. Era ormai vicino alla discesa del monte degli Ulivi,

quando tutta la folla dei discepoli, pieni di gioia, cominciò a lodare

Dio a gran voce per tutti i prodigi che avevano veduto, dicendo:

«Benedetto colui che viene,

il re, nel nome del Signore.

Pace in cielo

e gloria nel più alto dei cieli!».

Alcuni farisei tra la folla gli dissero: «Maestro, rimprovera i tuoi discepoli». Ma egli rispose: «Io vi dico che, se questi taceranno,

grideranno le pietre».

Parola del Signore.

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Lc 19,28-40

L’ingresso di Gesù in Gerusalemme

L’ingresso di Gesù nella città santa segna in Luca, come negli altri sinottici, l’inizio della

sezione dedicata al ministero di Gesù a Gerusalemme. Ma per il terzo evangelista questo episodio riveste un’importanza particolare in quanto rappresenta anche la conclusione

della lunga sezione in cui, sullo sfondo del viaggio di Gesù verso Gerusalemme, ha

riportato una quantità di materiale narrativo inedito riguardante la predicazione di Gesù. L’evangelista introduce il racconto con questa frase: «Gesù camminava davanti a tutti

salendo verso Gerusalemme» (v. 28). Con questo versetto egli vuol sottolineare che,

entrando a Gerusalemme, Gesù porta a compimento l’insegnamento impartito precedentemente; al tempo stesso mette in luce il carattere estremamente determinato

della scelta di Gesù che, proprio come aveva iniziato il suo viaggio, così ora avanza

sicuro, precedendo tutti gli altri, verso la città santa. Il racconto che segue si articola in

due scene: invio dei due discepoli per prelevare il puledro (vv. 29-34); ingresso messianico (vv. 35-40).

Invio dei discepoli (vv. 29-34)

La prima scena del racconto ha come protagonisti i discepoli: «Quando fu vicino a

Bètfage e a Betània, presso il monte detto degli Ulivi, inviò due discepoli dicendo:

Andate nel villaggio di fronte; entrando, troverete un puledro legato, sul quale non è mai salito nessuno. Slegatelo e conducetelo qui. E se qualcuno vi domanda: Perché lo

slegate?, risponderete così: Il Signore ne ha bisogno» (vv. 29-31). Luca racconta che

Gesù raggiunge due località ormai vicine a Gerusalemme, chiamate Bètfage e Betania, presso il monte chiamato degli Ulivi. In realtà, venendo da Gerico, giunge prima a

Betania e poi a Betfage. Luca osserva che esse si trovano presso il monte degli Ulivi,

che aveva una chiara connotazione escatologica (cfr. Zc 14,4). Manca qualsiasi indicazione di tempo. Solo dal confronto con gli altri sinottici appare che il fatto è

avvenuto nel primo giorno della settimana (domenica). L’evangelista non dice il nome

dei due discepoli inviati da Gesù. Seguendo Marco, riporta le istruzioni date loro da

Gesù, ma rende più perentoria la sua richiesta tralasciando l’assicurazione che egli rimanderà subito il puledro.

L’evangelista descrive poi come sono andate le cose: «Gli inviati andarono e trovarono

come aveva loro detto. Mentre slegavano il puledro, i proprietari dissero loro: Perché slegate il puledro? Essi risposero: Il Signore ne ha bisogno» (vv. 32-34). La

realizzazione puntuale di quanto aveva previsto mette in luce la conoscenza

soprannaturale di Gesù, che non subisce passivamente gli eventi ma li affronta e li dirige secondo un piano prestabilito. Il fatto che Gesù scelga intenzionalmente di entrare in

Gerusalemme cavalcando un puledro costituisce un riferimento, anche se implicito, alla

profezia che annuncia l’ingresso del Messia nella città santa (Zc 9,9; cfr. 14,3-4).

Ingresso messianico (vv. 35-40)

Il racconto prosegue con la descrizione di quanto i discepoli hanno fatto con il puledro: «Lo condussero allora da Gesù; e gettati i loro mantelli sul puledro, vi fecero salire

Gesù. Mentre egli avanzava, stendevano i loro mantelli sulla strada» (vv. 35-36). Il

soggetto delle azioni qui descritte sono sempre i discepoli. Il fatto che, diversamente da quanto riferisce Marco, siano essi a «far salire» Gesù sul puledro potrebbe essere

un’allusione alla consacrazione regale di Salomone (cfr.1Re 1,33). Il particolare dei

mantelli ricorda la proclamazione di Ieu come re di Israele (2Re 9,13); Luca non

menziona, come Marco, l’uso delle fronde che richiamavano invece la festa delle capanne (Lv 23,40) e la dedicazione del tempio (2Mac 10,7).

Nel seguito del racconto Luca osserva: «Era ormai vicino alla discesa del monte degli

Ulivi, quando tutta la folla dei discepoli, pieni di gioia, cominciò a lodare Dio a gran voce,

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per tutti i prodigi che avevano veduto, dicendo: Benedetto colui che viene, il re, nel

nome del Signore. Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli!» (vv. 37-38). Nell’accenno esplicito alla discesa di Gesù dal monte degli Ulivi si può intuire un’allusione a Zc 14,14

(«In quel giorno i suoi piedi si poseranno sul monte degli Ulivi...»). I temi della gioia e

della lode a Dio per i suoi prodigi, che nel terzo vangelo accompagnano la manifestazione del Messia, servono qui ad accentuare il tono messianico del racconto.

Luca riferisce le parole non dei presenti in genere (come fa Marco), ma quelle dei

discepoli. Tralasciando la parole «Osanna», riporta anch’egli la frase: «Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore». È questa una citazione del Sal 118,26, nella

quale però egli ha aggiunto il termine «re», rendendo così esplicito il carattere

messianico dell’ingresso in Gerusalemme. Omette poi la frase successiva di Marco

(«Benedetto il regno che viene del nostro padre Davide! Osanna nel più alto dei cieli») e ad essa sostituisce l’acclamazione: «Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli». Queste

parole riecheggiano l’inno pronunciato dagli angeli sulla grotta di Betlemme, con la

differenza però che sia la gloria che la pace si situano in cielo: le promesse messianiche si stanno realizzando mediante la comunicazione della gloria e della pace, le quali però

si trovano per il momento ancora in cielo.

Luca prosegue: «Alcuni farisei tra la folla gli dissero: Maestro, rimprovera i tuoi

discepoli. Ma egli rispose: Io vi dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre» (vv. 39-40). Con questa frase l’evangelista mette in risalto il rifiuto della regalità di Gesù da

parte degli esponenti ufficiali del giudaismo; la risposta di Gesù si richiama a una frase

di Abacuc, secondo il quale sono le pietre stesse della casa a pronunziare la condanna di coloro che l’hanno costruita con guadagni illeciti. In realtà i discepoli saranno messi

a tacere, ma le pietre della città di Gerusalemme, ormai distrutta, pronunceranno la

condanna di coloro che hanno rifiutato il loro messia.

Anche per Luca l’ingresso di Gesù in Gerusalemme, pochi giorni prima della Pasqua,

assume un carattere drammatico e provocatorio. Gesù sta per confrontarsi in modo cruciale con i supremi rappresentati della religione giudaica, che egli stesso aveva più

volte sottoposto a dura critica. Egli sa che è giunto il momento di dare ai suoi discepoli

un segno inequivocabile delle sue scelte, accettandone fino in fondo le conseguenze. Non è come un fuscello in balia di un mare tempestoso, ma come un regista che mette

in atto una scena lungamente meditata, dimostrando così un coraggio e una

determinazione senza confronto. Luca vuole sottolineare il carattere messianico dell’ingresso di Gesù in Gerusalemme. A

prescindere dalla profezia di Zc 9,9 il semplice entrare cavalcando un asinello, accolto

con manifestazioni di stima e di affetto, poteva corrispondere all’immagine di uno

stimato maestro che si reca alle feste pasquali accompagnato da una piccola folla di seguaci. Ma Luca offre numerosi indizi che dovrebbero dare pieno valore a quella

profezia, quali il fatto che siano i discepoli a far salire Gesù sul puledro, l’esplosione

della gioia e della lode di Dio, l’accenno ai suoi prodigi, l’appellativo di re attribuito a Gesù, l’accenno alla pace e alla gloria. In tal modo l’evangelista aiuta i lettori a

identificare in Gesù il Messia che prende possesso della sua città.

Nel terzo vangelo Gesù inizia dunque la settimana della sua passione come il re messianico, portatore di pace, che entra nella sua città acclamato dai suoi discepoli,

circondato da un alone di gioia messianica che esplode nella lode a Dio per quanto ha

fatto e sta per compiere in favore del suo popolo. I rappresentanti ufficiali del giudaismo

esprimono fin d’ora il loro rifiuto e pertanto si attirano un terribile giudizio. I discepoli invece lo accompagnano con fede e con gioia. Ciò rappresenta un invito alla comunità

per la quale Luca scrive il suo vangelo e a tutti i lettori perché non si lascino spaventare

dalle sofferenze che aspettano Gesù nella città santa, ma si dispongano a seguirlo con la stessa fede e la stessa gioia.

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PRIMA LETTURA

Dal libro del profeta Isaìa (50,4-7)

Il signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo,

perché io sappia indirizzare

una parola allo sfiduciato.

Ogni mattina fa attento il mio orecchio

perché io ascolti come i discepoli.

Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio

e io non ho opposto resistenza,

non mi sono tirato indietro.

Ho presentato il mio dorso ai flagellatori,

le mie guance a coloro che mi strappavano la barba;

non ho sottratto la faccia

agli insulti e agli sputi.

Il Signore Dio mi assiste,

per questo non resto svergognato,

per questo rendo la mia faccia dura come pietra,

sapendo di non restare confuso.

Parola di Dio.

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Is 50,4-7

Il Servo perseguitato (3° carme)

La seconda parte del libro di Isaia (Is 40-55), chiamata anche Deuteroisaia, si distacca

nettamente dalla precedente in quanto non si situa nel periodo storico in cui è vissuto il profeta, ma contiene una serie di oracoli rivolti ai giudei esuli in Mesopotamia per

annunziare loro la fine dell’esilio. Il libro si apre con il lieto annunzio del ritorno nella

terra dei padri (Is 40,1-11) e termina con un poema sulla parola di Dio (55,1-13). Il corpo del libro contiene una serie di oracoli che possono dividersi in due blocchi, quelli

composti prima della conquista di Babilonia da parte di Ciro (Is 41,12 - 48,22) e quelli

che invece hanno visto la luce dopo questo evento (Is 49,1 - 54,17). Nel libretto del Deuteroisaia emerge con insistenza la figura e l’opera di un personaggio misterioso,

chiamato «Servo di JHWH», di cui trattano quattro composizioni poetiche a cui è stato

dato l’appellativo di «Carmi del Servo di JHWH» (42,1-7; 49,1-6; 50,4-9; 52,13-53,12).

Mentre nei primi due carmi si tratta rispettivamente della chiamata del Servo e dell’insuccesso che lo attende, nel terzo (Is 50,4-9) si descrive la persecuzione di cui è

fatto oggetto. Esso è molto simile ai salmi di lamentazione individuale, in cui un giusto

perseguitato si lamenta delle sue sofferenze e si abbandona alla protezione divina: solo dalle parole conclusive, non riportate dalla liturgia, appare che si tratta ancora una volta

del servo di JHWH. Nel brano liturgico il Servo ricorda anzitutto la sua chiamata (vv. 4-

5), poi passa alla descrizione delle sofferenze che gli sono inflitte (v. 6) e termina con

una dichiarazione di fiducia in Dio (v. 7).

La composizione si apre con un soliloquio: «Il Signore Dio mi ha dato una lingua da

discepolo, perché io sappia indirizzare una parola allo sfiduciato. Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come i discepoli. Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio

e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro» (vv. 4-5). Il servo è una

figura profetica, il cui compito è quello di parlare a nome di Dio. Questo concetto viene formulato mediante l’immagine della lingua, cioè della capacità di parlare, che gli è stata

data direttamente da Dio, al quale egli d’altra parte ha volto ogni giorno il suo orecchio

esattamente come fa un vero discepolo. Il rapporto del Servo con JHWH è dunque simile

a quello del discepolo nei confronti del maestro. Quando egli parla lo fa a nome di colui che lo ha istruito. Per questo può parlare con autorevolezza soprattutto a chi è

sfiduciato. Proprio perché ha ricevuto lui stesso per primo un’istruzione interiore, il

Servo può toccare il cuore dei suoi ascoltatori. Nel contesto del Deuteroisaia gli sfiduciati sono gli esuli deportati in una terra straniera, ai quali il Servo dà la speranza di poter

ritornare finalmente nella loro patria.

Bruscamente il Servo soggiunge che il suo abbandono all’iniziativa divina comporta una dolorosa persecuzione: «Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro

che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi» (v. 6).

Il fatto di annunziare quello che JHWH gli aveva suggerito comporta nei confronti del

Servo non un atteggiamento di apertura e di fiducia, ma un’opposizione rabbiosa e violenta. Si parla di flagellazione, di strappare la barba, di insulti e di sputi. È difficile

dire in che contesto queste vessazioni gli sono state inflitte e se sono reali o metaforiche.

Ma certo si tratta di sofferenze gravissime. Non si dice neppure chi ne è l’autore. Si potrebbe pensare all’autorità civile che vede in lui un sobillatore. Dal contesto però

sembra piuttosto che si tratti di coloro a cui è stato mandato, i quali non solo non

accettano il suo messaggio, ma cercano di eliminare l’incomodo messaggero: è questa la sorte dei profeti, di cui l’esempio più significativo è Geremia.

Il Servo passa poi a descrivere la sua reazione personale: «Il Signore Dio mi assiste,

per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra,

sapendo di non restare confuso» (v. 7). Nella difficile situazione in cui si trova, il Servo non si difende con la forza, e neppure fa ricorso, come aveva fatto Geremia, alla violenza

verbale contro i suoi avversari; al contrario, fortificato dalla sua fiducia in Dio, resta

fermo come una roccia senza venir meno alla sua missione. La sua forza d’animo gli

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deriva dalla certezza che Dio porterà a termine il suo progetto nonostante tutte le

opposizioni. Egli dimostra così di non cercare il proprio successo personale ma la realizzazione di quanto va annunziando, anche se ciò dovesse costargli la vita.

Nella conclusione, omessa dalla liturgia, il Servo riafferma la sua fiducia in Dio e lancia

una sfida ai suoi avversari (vv. 8-9). Alla fiducia in Dio corrisponde la certezza che i suoi avversari non avranno il sopravvento. La previsione della loro distruzione non deriva da

una volontà di vendetta ma dal desiderio che la vittoria di Dio sia completa.

In questo carme il Servo è descritto come una figura di profeta che annunzia il piano di

Dio per Israele. Egli si presenta come un uomo totalmente immerso in Dio, dal quale

riceve il messaggio che egli comunica al popolo. Nel suo comportamento è assente tutto quello che potrebbe anche solo sembrare un progetto umano, perseguito a scopi di

successo personale o nazionale. Al primo posto il Servo mette Dio e la sua decisione di

liberare Israele. Così facendo egli si oppone a ogni tentativo di considerare il ritorno nella terra promessa come occasione per una ricerca di potere da parte di un individuo

o di un gruppo nei confronti del popolo, o anche come una rivalsa del popolo nei

confronto dei propri oppressori.

Il servo ha dovuto pagare di persona perché il primato di Dio apparisse veramente convincente. Egli non è andato semplicemente incontro all’insuccesso, come appare nei

carmi precedenti, ma ha suscitato un’inspiegabile persecuzione; di fronte ad essa però

è rimasto fedele al compito ricevuto e ha continuato ad annunziare con fermezza il decreto divino senza abbandonare il metodo non violento adottato fin dall’inizio. Il rifiuto

della violenza appare così come l’unico mezzo capace di assicurare non solo il successo,

ma anche una piena partecipazione di tutti alla libertà acquistata. Se la libertà fosse acquistata per mezzo della violenza facilmente lascerebbe il posto a una nuova violenza

nei confronti degli stati più poveri e indifesi della popolazione. Forse è proprio il fatto di

essersi rivolto a tutto il popolo che ha suscitato l’opposizione delle classi dirigenti, le

quali avrebbero voluto gestire il ritorno nella terra promessa a proprio vantaggio.

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SALMO RESPONSORIALE (Sal 21,8-9.17-20.23-24) (22)

Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?

Si fanno beffe di me quelli che mi vedono,

storcono le labbra, scuotono il capo:

«Si rivolga al Signore; lui lo liberi,

lo porti in salvo, se davvero lo ama!». R.

Un branco di cani mi circonda,

mi accerchia una banda di malfattori;

hanno scavato le mie mani e i miei piedi.

Posso contare tutte le mie ossa. R.

Si dividono le mie vesti,

sulla mia tunica gettano la sorte.

Ma tu, Signore, non stare lontano,

mia forza, vieni presto in mio aiuto. R.

Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli,

ti loderò in mezzo all’assemblea. Lodate il Signore, voi suoi fedeli,

gli dia gloria tutta la discendenza di Giacobbe,

lo tema tutta la discendenza d’Israele. R.

SALMO 21 (22)

Esaudimento del giusto provato dalla sofferenza Anche se nell’antica Israele questo stupendo Salmo è stato un’invocazione di aiuto

rivolta al Signore dal giusto afflitto e perseguitato, per la ricchezza delle immagini e per

l’intensità della preghiera, si presta anche a una lettura simbolica che lo rende sempre

attuale (per questo gli Evangelisti, nei racconti della passione, lo hanno utilizzato per sottolineare con le sue parole i momenti decisivi della vicenda dolorosa di Gesù); esso

è una delle suppliche più celebri di tutto il Salterio, ed è particolarmente caro alla

tradizione cristiana perché, nella sua parte iniziale, ricorda le parole che Cristo in Croce (secondo Matteo) pronunziò nella versione aramaica (Elì, Elì, lemà sabactàni? “Dio mio,

Dio mio, perché mi hai abbandonato?”). Il Salmo, pur essendo dominato da un grande

senso di tristezza, e inizialmente segnato dal silenzio di Dio, contiene anche un gioioso ringraziamento al Signore per il suo aiuto, la sua giustizia e il suo amore.

Il canto amaro dell’orante è indirizzato a un Dio simile a un imperatore indifferente alla

sofferenza e alle lacrime di chi soffre; la lamentazione si completa con la descrizione

dello sfacelo fisico e degli incubi in cui è immerso l’orante, e di come la sua dignità sia completamente calpestata. I nemici sono raffigurati con immagini “bestiali” in una scena

di caccia dove la preda è raggiunta e assalita. Il quadro finale descrive il fedele ormai

in fin di vita, umiliato e spogliato anche delle vesti che sono divise tra i persecutori. Ma ecco improvvisamente la nuova realtà, un’immagine di gioia che vede la passione

del giusto finalmente premiata; egli è rappresentato nel tempio mentre scioglie i suoi

voti per la liberazione e l’aiuto concessi da Dio. Iniziato come un grido di desolazione, il Salmo si conclude con un inno di gioia.

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SECONDA LETTURA

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippési (2,6-11)

Cristo Gesù,

pur essendo nella condizione di Dio,

non ritenne un privilegio

l’essere come Dio,

ma svuotò se stesso

assumendo una condizione di servo,

diventando simile agli uomini.

Dall’aspetto riconosciuto come uomo,

umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte

e a una morte di croce.

Per questo Dio lo esaltò

e gli donò il nome

che è al di sopra di ogni nome,

perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi

nei cieli, sulla terra e sotto terra,

e ogni lingua proclami:

«Gesù Cristo è Signore!»,

a gloria di Dio Padre.

Parola di Dio.

CANTO AL VANGELO (Fil 2,8-9)

Lode e onore a te, Signore Gesù!

Per noi Cristo si è fatto obbediente fino alla morte

e a una morte di croce.

Per questo Dio lo esaltò

e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome.

Lode e onore a te, Signore Gesù!

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Fil 2,6-11

Inno cristologico

Questo testo si presenta come una composizione abbastanza autonoma all’interno della

lettera ai Filippesi a motivo sia del suo contenuto cristologico, sia della sua forma letteraria poetica: queste due caratteristiche fanno sì che esso venga comunemente

chiamato “inno cristologico”. Il contesto del brano è il seguente: dopo aver incoraggiato

i fedeli a lottare concordemente per la causa del vangelo contro gli avversari provenienti dall’esterno, l’apostolo si rivolge a loro nel c. 2 con un lungo periodo nel quale li invita

ad «avere i medesimi sentimenti» e inculca l’umiltà e la rinuncia a se stessi per il bene

comune. A tal fine li esorta a «sentire in se stessi» ciò che ha sentito Gesù, il quale viene poi presentato nell’inno cristologico come modello di una rinuncia di sé portata

fino all’estremo delle proprie possibilità (vv. 6-11). La parenesi si conclude poi con una

rinnovata esortazione a lottare per la salvezza, che si attua in mezzo a un mondo

perverso ed è fonte per Paolo e per i suoi lettori di una gioia comune.

Attualmente è diffusa l’opinione secondo cui Paolo non sarebbe direttamente l’autore

dell’inno, in quanto questo rivela uno stile e soprattutto una visione teologica che non sono quelli tipici dell’apostolo. Esso sarebbe perciò una di quelle composizioni

preesistenti, originariamente autonome, utilizzate successivamente in funzione di un

contesto diverso. L’inno di Filippesi avrebbe avuto origine nell’ambito del culto e sarebbe

stato qui inserito da Paolo per scopi parenentici. Paolo non se ne è servito per fare una sintesi o un’esposizione teologico-dottrinale sulla persona di Cristo (la sua preesistenza,

l’incarnazione, le due nature), ma per proporre ai cristiani l’umile atteggiamento di Gesù

come esempio del loro comportamento comunitario.

L’inno cristologico si divide in due parti (vv. 6-8 e 9-11), di cui la prima a sua volta si

divide in due unità (vv. 6-7b e 7c-8). Da ciò risulta la seguente divisione: dalla condizione di Dio a quella di servo (vv. 6-7b), la sua umiliazione (vv. 7c-8) ed

esaltazione (vv. 9-11).

Dalla condizione di Dio a quella di schiavo (vv. 6-7b) La prima cosa che viene affermata di Gesù Cristo è che egli era «nella condizione di

Dio» (v. 6a). Sullo sfondo si può intuire il racconto della creazione, nel quale si dice che

il primo uomo fu creato a immagine di Dio. Siccome la «condizione di Dio», in contrapposizione alla condizione dello schiavo, comporta essenzialmente dominio,

autorità e dignità, si può ritenere che Gesù Cristo fosse in condizione di Dio in quanto

queste prerogative divine gli appartenevano pienamente come suo privilegio originario. L’esistenza di Cristo nella condizione di Dio viene espressa con una proposizione

concessiva («pur essendo»), con la quale si sottolinea come il suo essere in condizione

di Dio non sia stato rimosso, ma è continuato anche dopo che egli «si svuotò».

L’inno continua con una frase in cui si spiega in che modo Gesù ha gestito il suo essere in condizione di Dio: «non ritenne un privilegio l’essere come Dio» (v 6b). L’oggetto di

cui Cristo avrebbe potuto approfittarsi consiste nell’«essere alla pari di Dio». Questa

espressione è stata comunemente tradotta «l’essere come Dio», con riferimento alla natura o essenza divina di Cristo. Dal punto di vista filologico però essa indica

semplicemente l’esercizio attivo del suo «essere nella forma di Dio», cioè dei poteri

propri di Dio, e di riflesso la pretesa che gli altri li riconoscano e li rispettino con un atteggiamento di obbedienza e di culto. Ciò che Gesù Cristo non volle sfruttare a proprio

vantaggio sono dunque le conseguenze esterne del suo rapporto privilegiato con Dio.

Anche qui sullo sfondo si intuisce l’esperienza di Adamo, il quale si è ribellato proprio

perché ha voluto essere «come Dio», acquistando la conoscenza del bene e del male. In contrasto con lui, Cristo non ha voluto gestire in termini di potere il suo privilegio di

essere «in forma di Dio»: per questo ha iniziato un cammino che lo ha portato a

immergersi negli strati più bassi dell’umanità, non come castigo ma per libera scelta.

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L’autore dell’inno prosegue affermando che Cristo non solo non volle approfittare di ciò

che gli competeva, ma addirittura vi rinunciò, «svuotò se stesso» (v. 7a). L’oggetto di cui svuotarsi è il diritto nativo di essere alla pari di Dio. L’espressione «svuotò se stesso»

significa quindi che Cristo ha rinunciato in modo totale, e al tempo stesso libero e

volontario, a tutto ciò che il suo status divino comportava dal punto di vista della dignità e del trattamento. L’autore stesso spiega che cosa significa «svuotò se stesso» mediante

l’inciso «assumendo una condizione di servo» (v. 7b). Cristo durante la sua vita terrena

non volle comportarsi come Dio e Signore degli uomini, ma come servo, privo di ogni dignità, autorità e potere, completamente dedito all’umile servizio degli altri. Il termine

«servo» si rifà ancora una volta al personaggio deutero-isaiano e alla sua esperienza: il

servizio consiste nell’accettazione della sofferenza in funzione della riaggregazione del

popolo, della sua conversione a Dio e del ritorno nella terra dei padri.

L’umiliazione del servo (vv. 7c-8)

Viene poi delineata l’inquadratura storica in cui si è svolta la rinunzia volontaria di Gesù: «diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo» (v. 7cd). Colui

che era nella condizione di Dio è ora sullo stesso piano degli uomini. L’autore dell’inno

intende sottolineare come la totale somiglianza di Gesù con gli uomini si situi nel tempo

e nello spazio, sia cioè la conseguenza di un evento che si situa all’interno della storia umana. Non si tratta però di una semplice somiglianza: durante la sua esistenza terrena

egli fu percepito, riconosciuto da quelli che l’hanno incontrato, nel suo modo di essere

e di agire, come veramente uomo, alla pari di tutti gli altri. Viene così sottolineata a tutti gli effetti la sua piena solidarietà con il genere umano.

L’autore afferma che Gesù «umiliò se stesso» (v. 8a). Questa espressione viene usata

nel NT in contrapposizione ai sentimenti di vanità, ambizione e autoesaltazione propri dell’uomo. L’autoumiliazione di Gesù consiste dunque nel radicale rifiuto dell’ambizione

e dell’orgoglio, e di riflesso nell’adozione di quella ferma e risoluta mitezza, aliena da

qualsiasi violenza, che è stata propria del Servo di JHWH.

Gesù ha portato a termine la sua umiliazione «facendosi obbediente fino alla morte» (v. 8b). L’aggettivo «obbediente» è unito a facendosi, che indica un atteggiamento abituale

e costante, che si caratterizza come fedeltà totale alla volontà di Dio. L’espressione

«fino alla morte» non ha un senso temporale, ma un senso qualitativo: un’obbedienza che non cede davanti al sacrificio personale, compreso anche quello supremo della

propria vita.

L’autore infine commenta: «e a una morte di croce» (v. 8c). Questa espressione, che rappresenta il climax dell’inno, può considerarsi come una ripetizione retorica che mette

in rilievo l’estremo grado di umiliazione a cui Gesù è andato incontro. Nel contesto

esortativo in cui l’inno è inserito l’espressione «morte di croce» assume un significato

speciale, in quanto la pena capitale della crocifissione richiamava alla mente dei filippesi, che vivevano in una città romana, l’umiliazione più degradante e più ignominiosa, il

colmo dell’abiezione: essi potevano così rendersi conto che Gesù aveva raggiunto il

limite estremo dell’umiliazione.

Il Cristo esaltato (vv. 9-11)

Il movimento dell’umiliazione di Cristo, che ha toccato il suo punto più profondo nella morte sulla croce, subisce un arresto inopinato e decisivo all’inizio del v. 9, dove si apre

uno spiraglio sulla sua esaltazione. Il linguaggio, che nei vv. 6-8 era conciso e lapidario,

diventa ora elaborato. Cambia anche il soggetto dell’azione: mentre finora chi agiva era

Gesù, a partire dal v. 9 è Dio che esalta colui che si è abbassato e gli conferisce la dignità di Kyrios, mentre il cosmo intero dà lode a colui che aveva preso la condizione

umile di servo.

Il nuovo brano inizia con la descrizione degli effetti che ha avuto l’umiliazione di Cristo: «Per questo Dio lo esaltò» (v. 9a). L’espressione «per questo» sottolinea come la

radicalità della svolta che interessa la persona di Gesù ha uno stretto collegamento con

ciò che è capitato precedentemente. Proprio in forza della sua morte egli ha conseguito

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un modo di essere immensamente superiore a quello dei semplici mortali. L’esaltazione

che gli è conferita appare come un esempio del modo di agire di Dio, enunciato da Gesù stesso nei vangeli.

L’intervento divino viene ulteriormente precisato con questa affermazione: Egli «gli

donò il nome che è al di sopra di ogni nome» (v. 9b). Questo è l’unico passo nel NT in cui si parla di un atto di grazia concesso a Cristo. Dal contesto (cfr. v. 11b) si ricava che

«il nome» attribuito a Gesù è il nome stesso di Dio, JHWH, che in greco è stato tradotto

Kyrios. Il nome significa, alla luce del linguaggio biblico, non un appellativo o un attributo specifico (in questo caso la divinità), ma piuttosto un ufficio, status, o dignità.

Per iniziativa gratuita di Dio Gesù riceve quindi lo status di Kyrios, che comporta la

suprema dignità e la sovranità assoluta su tutto quello che esiste in cielo e in terra.

Proprio quel Gesù, che durante la sua esistenza terrena non aveva voluto avvalersi a proprio vantaggio del suo «essere come Dio», viene ora esaltato in sommo grado,

ricevendo in dono da Dio la dignità suprema propria di Dio stesso: ciò a cui aveva

liberamente e volontariamente rinunciato come diritto lo ottiene ora come dono gratuito.

Lo scopo dell’esaltazione di Cristo viene poi descritto in questi termini: «perché nel

nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua

proclami» (v. 10). Il «nome di Gesù» è quello che gli appartiene perché gli è stato dato da Dio, e indica la sua signoria universale. Perciò in esso, cioè in segno di profonda

adorazione nei suoi confronti, «si pieghi ogni ginocchio... e ogni lingua proclami».

L’autore dell’inno aggiunge «nei cieli, sulla terra e sotto terra» per esplicitare il carattere universale di tale adorazione.

L’inno cristologico raggiunge la sua conclusione quando rivela che tutto il cosmo

proclama che «Gesù Cristo è Signore» (v. 11b). Con questa formula carica di profondo significato teologico l’autore vuole affermare che Gesù Cristo non è un signore

qualunque, ma il KYRIOS per antonomasia. Gesù, che durante la sua esistenza terrena

ha voluto toccare il fondo dello svuotamento e dell’umiliazione, è stato innalzato alla

suprema dignità. L’inno termina con l’espressione «a gloria di Dio Padre» (v. 11c). Si afferma che Gesù

non è il sostituto né il concorrente di Dio, in quanto la confessione della sua signoria

torna in ultima analisi a gloria di Dio Padre. A rigore di termini questa frase si riferisce dunque direttamente all’esaltazione di Gesù. Tuttavia a giudizio di vari studiosi essa

serve come conclusione dossologica per tutto l’inno, in quanto sottolinea che anche

come esaltato egli non fa altro che prolungare quell’atteggiamento di umiltà che lo ha portato a non usare per il proprio vantaggio personale il suo essere alla pari di Dio.

Nel corso dei secoli l’inno cristologico è stato interpretato in due modi sostanzialmente diversi. I Padri Greci e quelli Latini fino ad Ambrogio e all’Abrosiaster hanno visto come

soggetto del brano il Verbo nella sua realtà umana concreta, cioè Gesù nella sua vita

terrena. Questa interpretazione è quella a cui si è ispirato Paolo stesso quando l’ha utilizzato nel contesto della parenesi, e di riflesso non può essere che quella che gli

hanno dato i filippesi. Per combattere l’arianesimo Ambrogio, l’Abrosiaster e i Padri

Latini posteriori hanno invece adottato un’altra interpretazione che vede come protagonista dell’inno il Verbo preesistente nella sua esistenza presso il Padre e nel

processo che lo ha portato a scendere in questo mondo e a prendere la natura umana.

Questa lettura del brano è diventata tradizionale, in quanto domina tutta l’esegesi

cattolica fino ai tempi moderni. È oggi convinzione abbastanza diffusa che lo schema teologico alla base di questa interpretazione non possa essere utilizzato per la

comprensione dell’inno e si sta ritornando progressivamente all’interpretazione

originaria. Appare così che nell’inno la vicenda di Gesù viene letta sulla falsariga dell’esperienza di

Adamo e del Servo di JHWH. Adamo, creato a immagine di Dio, ha preteso di essere

come Dio, e così ha perso la dignità che gli era stata conferita. Gesù invece, pur essendo

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in senso pieno «nella condizione di Dio», non ha fatto valere il suo privilegio in termini

di prestigio e di potere, ma ha assunto la condizione propria del Servo sofferente, dando la sua vita come espressione della sua fedeltà totale e Dio. Sullo sfondo di questa

profonda umiliazione non bisogna dunque vedere un processo ascetico di

automortificazione, ma un impegno personale e costante per la liberazione di un popolo ancora lacerato da profonde divisioni e impregnato di violenza. Come il Servo anche

Gesù ha mostrato in tutti i modi l’amore di Dio per i piccoli e gli emarginati, mettendo

in questione i privilegi dei ricchi e dei potenti. E proprio costoro non glielo hanno perdonato, provocando la sua morte violenta.

Su questa linea si scorge nell’inno una percezione profonda dei rapporti unici e

irripetibili che Gesù ha con Dio, al punto di essere fin dall’inizio della sua vita

terrena nella stessa «condizione di Dio». Egli è dunque il nuovo Adamo, il quale dà origine a un’umanità nuova, liberata dalla sopraffazione e dalla violenza. Ma

ciò appare chiaramente solo alla fine di un lungo itinerario umano in cui egli ha

manifestato il suo progetto come esigenza di fedeltà radicale a Dio e di

solidarietà attiva con l’umanità. In altre parole proprio perché egli, sulla linea del

cammino percorso dal Servo di JHWH, ha rinunziato a interpretare il suo rapporto con Dio in termini di potere e di gloria, appare al credente come colui che, fin

dall’inizio, ha dato origine a un cammino di liberazione. Il suo abbassamento

significa quindi non la perdita ma la piena affermazione del suo essere nella

«condizione di Dio», nella quale coinvolge coloro che credono in lui, dando così inizio a una nuova umanità. Proprio in forza di questo abbassamento riceve già

fin d’ora l’omaggio escatologico di tutto il cosmo e gli sono riconosciuti i titoli

cristologici di Signore, Cristo, Servo e nuovo Adamo.

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PASSIONE DI NOSTRO SIGNORE GESÙ CRISTO SECONDO LUCA

(22,14-23,56) Indicazioni per la lettura dialogata: = Gesù; C = Cronista; D = Discepoli e amici, F =Folla, A =Altri personaggi

Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione

C Quando venne l’ora, [Gesù] prese posto a tavola e gli apostoli con

lui, e disse loro: «Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con

voi, prima della mia passione, perché io vi dico: non la mangerò più,

finché essa non si compia nel regno di Dio». C E, ricevuto un calice,

rese grazie e disse: «Prendetelo e fatelo passare tra voi, perché io

vi dico: da questo momento non berrò più del frutto della vite, finché

non verrà il regno di Dio».

Fate questo in memoria di me

C Poi prese il pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo:

«Questo è il mio corpo, che è dato per voi; fate questo in memoria

di me». C E, dopo aver cenato, fece lo stesso con il calice dicendo:

«Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che è versato per

voi».

Guai a quell’uomo dal quale il Figlio dell’uomo viene tradito!

«Ma ecco, la mano di colui che mi tradisce è con me, sulla tavola. Il

Figlio dell’uomo se ne va, secondo quanto è stabilito, ma guai a

quell’uomo dal quale egli viene tradito!». C Allora essi cominciarono

a domandarsi l’un l’altro chi di loro avrebbe fatto questo.

Io sto in mezzo a voi come colui che serve

E nacque tra loro anche una discussione: chi di loro fosse da

considerare più grande. Egli disse: «I re delle nazioni le governano,

e coloro che hanno potere su di esse sono chiamati benefattori. Voi

però non fate così; ma chi tra voi è più grande diventi come il più

giovane, e chi governa come colui che serve. Infatti chi è più grande,

chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure

io sto in mezzo a voi come colui che serve. Voi siete quelli che avete

perseverato con me nelle mie prove e io preparo per voi un regno,

come il Padre mio l’ha preparato per me, perché mangiate e beviate

alla mia mensa nel mio regno. E siederete in trono a giudicare le

dodici tribù di Israele.

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Tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli

Simone, Simone, ecco: Satana vi ha cercati per vagliarvi come il

grano; ma io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno.

E tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli». C E Pietro gli

disse: D «Signore, con te sono pronto ad andare anche in prigione e

alla morte». C Gli rispose: «Pietro, io ti dico: oggi il gallo non

canterà prima che tu, per tre volte, abbia negato di conoscermi».

Deve compiersi in me questa parola della Scrittura

C Poi disse loro: Quando vi ho mandato senza borsa, né sacca, né

sandali, vi è forse mancato qualcosa?». C Risposero: D «Nulla». C Ed

egli soggiunse: «Ma ora, chi ha una borsa la prenda, e così chi ha

una sacca; chi non ha spada, venda il mantello e ne compri una.

Perché io vi dico: deve compiersi in me questa parola della Scrittura:

“E fu annoverato tra gli empi”. Infatti tutto quello che mi riguarda

volge al suo compimento». C Ed essi dissero: D «Signore, ecco qui

due spade». C Ma egli disse: «Basta!».

Entrato nella lotta, pregava più intensamente

C Uscì e andò, come al solito, al monte degli Ulivi; anche i discepoli

lo seguirono. Giunto sul luogo, disse loro: «Pregate, per non entrare

in tentazione». C Poi si allontanò da loro circa un tiro di sasso, cadde

in ginocchio e pregava dicendo: «Padre, se vuoi, allontana da me

questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà». C Gli

apparve allora un angelo dal cielo per confortarlo. Entrato nella lotta,

pregava più intensamente, e il suo sudore diventò come gocce di

sangue che cadono a terra. Poi, rialzatosi dalla preghiera, andò dai

discepoli e li trovò che dormivano per la tristezza. E disse loro:

«Perché dormite? Alzatevi e pregate, per non entrare in tentazione».

Giuda, con un bacio tu tradisci il Figlio dell’uomo?

C Mentre ancora egli parlava, ecco giungere una folla; colui che si

chiamava Giuda, uno dei Dodici, li precedeva e si avvicinò a Gesù per

baciarlo. Gesù gli disse: «Giuda, con un bacio tu tradisci il Figlio

dell’uomo?». C Allora quelli che erano con lui, vedendo ciò che stava

per accadere, dissero: D «Signore, dobbiamo colpire con la spada?».

C E uno di loro colpì il servo del sommo sacerdote e gli staccò

l’orecchio destro. Ma Gesù intervenne dicendo: «Lasciate! Basta

così!». C E, toccandogli l’orecchio, lo guarì. Poi Gesù disse a coloro

che erano venuti contro di lui, capi dei sacerdoti, capi delle guardie

del tempio e anziani: «Come se fossi un ladro siete venuti con

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spade e bastoni. Ogni giorno ero con voi nel tempio e non avete mai

messo le mani su di me; ma questa è l’ora vostra e il potere delle

tenebre».

Uscito fuori, Pietro pianse amaramente

C Dopo averlo catturato, lo condussero via e lo fecero entrare nella

casa del sommo sacerdote. Pietro lo seguiva da lontano. Avevano

acceso un fuoco in mezzo al cortile e si erano seduti attorno; anche

Pietro sedette in mezzo a loro. Una giovane serva lo vide seduto

vicino al fuoco e, guardandolo attentamente, disse: A «Anche questi

era con lui». C Ma egli negò dicendo: D «O donna, non lo conosco!».

C Poco dopo un altro lo vide e disse: A «Anche tu sei uno di loro!». C

Ma Pietro rispose: D «O uomo, non lo sono!». C Passata circa un’ora,

un altro insisteva: A «In verità, anche questi era con lui; infatti è

Galileo». C Ma Pietro disse: D «O uomo, non so quello che dici». C E

in quell’istante, mentre ancora parlava, un gallo cantò. Allora il

Signore si voltò e fissò lo sguardo su Pietro, e Pietro si ricordò della

parola che il Signore gli aveva detto: «Prima che il gallo canti, oggi

mi rinnegherai tre volte». E, uscito fuori, pianse amaramente.

Fa’ il profeta! Chi è che ti ha colpito?

E intanto gli uomini che avevano in custodia Gesù lo deridevano e lo

picchiavano, gli bendavano gli occhi e gli dicevano: A «Fa’ il profeta!

Chi è che ti ha colpito?». C E molte altre cose dicevano contro di lui,

insultandolo.

Lo condussero davanti al loro Sinedrio

Appena fu giorno, si riunì il consiglio degli anziani del popolo, con i

capi dei sacerdoti e gli scribi; lo condussero davanti al loro Sinedrio

e gli dissero: A «Se tu sei il Cristo, dillo a noi». C Rispose loro:

«Anche se ve lo dico, non mi crederete; se vi interrogo, non mi

risponderete. Ma d’ora in poi il Figlio dell’uomo siederà alla destra

della potenza di Dio». C Allora tutti dissero: A «Tu dunque sei il Figlio

di Dio?». C Ed egli rispose loro: «Voi stessi dite che io lo sono». C

E quelli dissero: A «Che bisogno abbiamo ancora di testimonianza?

L’abbiamo udito noi stessi dalla sua bocca».

Non trovo in quest’uomo alcun motivo di condanna

C [Tutta l’assemblea si alzò; lo condussero da Pilato e cominciarono

ad accusarlo: A «Abbiamo trovato costui che metteva in agitazione il

nostro popolo, impediva di pagare tributi a Cesare e affermava di

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essere Cristo re». C Pilato allora lo interrogò: A «Sei tu il re dei

Giudei?». C Ed egli rispose: «Tu lo dici». C Pilato disse ai capi dei

sacerdoti e alla folla: A «Non trovo in quest’uomo alcun motivo di

condanna». C Ma essi insistevano dicendo: A «Costui solleva il

popolo, insegnando per tutta la Giudea, dopo aver cominciato dalla

Galilea, fino a qui». C Udito ciò, Pilato domandò se quell’uomo era

Galileo e, saputo che stava sotto l’autorità di Erode, lo rinviò a Erode,

che in quei giorni si trovava anch’egli a Gerusalemme.

Erode con i suoi soldati insulta Gesù

Vedendo Gesù, Erode si rallegrò molto. Da molto tempo infatti

desiderava vederlo, per averne sentito parlare, e sperava di vedere

qualche miracolo fatto da lui. Lo interrogò, facendogli molte

domande, ma egli non gli rispose nulla. Erano presenti anche i capi

dei sacerdoti e gli scribi, e insistevano nell’accusarlo. Allora anche

Erode, con i suoi soldati, lo insultò, si fece beffe di lui, gli mise

addosso una splendida veste e lo rimandò a Pilato. In quel giorno

Erode e Pilato diventarono amici tra loro; prima infatti tra loro vi era

stata inimicizia.

Pilato abbandona Gesù alla loro volontà

Pilato, riuniti i capi dei sacerdoti, le autorità e il popolo, disse loro: A

«Mi avete portato quest’uomo come agitatore del popolo. Ecco, io

l’ho esaminato davanti a voi, ma non ho trovato in quest’uomo

nessuna delle colpe di cui lo accusate; e neanche Erode: infatti ce

l’ha rimandato. Ecco, egli non ha fatto nulla che meriti la morte.

Perciò, dopo averlo punito, lo rimetterò in libertà». C Ma essi si

misero a gridare tutti insieme: F «Togli di mezzo costui! Rimettici in

libertà Barabba!». C Questi era stato messo in prigione per una

rivolta, scoppiata in città, e per omicidio. Pilato parlò loro di nuovo,

perché voleva rimettere in libertà Gesù. Ma essi urlavano: F

«Crocifiggilo! Crocifiggilo!». C Ed egli, per la terza volta, disse loro:

A «Ma che male ha fatto costui? Non ho trovato in lui nulla che meriti

la morte. Dunque, lo punirò e lo rimetterò in libertà». C Essi però

insistevano a gran voce, chiedendo che venisse crocifisso, e le loro

grida crescevano. Pilato allora decise che la loro richiesta venisse

eseguita. Rimise in libertà colui che era stato messo in prigione per

rivolta e omicidio, e che essi richiedevano, e consegnò Gesù al loro

volere.

Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me

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Mentre lo conducevano via, fermarono un certo Simone di Cirene,

che tornava dai campi, e gli misero addosso la croce, da portare

dietro a Gesù. Lo seguiva una grande moltitudine di popolo e di

donne, che si battevano il petto e facevano lamenti su di lui. Ma Gesù,

voltandosi verso di loro, disse: «Figlie di Gerusalemme, non

piangete su di me, ma piangete su voi stesse e sui vostri figli. Ecco,

verranno giorni nei quali si dirà: “Beate le sterili, i grembi che non

hanno generato e i seni che non hanno allattato”. Allora

cominceranno a dire ai monti: “Cadete su di noi!”, e alle colline:

“Copriteci!”. Perché, se si tratta così il legno verde, che avverrà del

legno secco?».

C Insieme con lui venivano condotti a morte anche altri due, che

erano malfattori.

Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno

Quando giunsero sul luogo chiamato Cranio, vi crocifissero lui e i

malfattori, uno a destra e l’altro a sinistra. Gesù diceva: «Padre,

perdona loro perché non sanno quello che fanno». C Poi dividendo le

sue vesti, le tirarono a sorte.

Costui è il re dei Giudei

Il popolo stava a vedere; i capi invece lo deridevano dicendo: A «Ha

salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto». C Anche

i soldati lo deridevano, gli si accostavano per porgergli dell’aceto e

dicevano: A «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso». C Sopra di lui

c’era anche una scritta: «Costui è il re dei Giudei».

Oggi con me sarai nel paradiso

Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: A «Non sei tu il

Cristo? Salva te stesso e noi!». C L’altro invece lo rimproverava

dicendo: A «Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla

stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo

meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male».

C E disse: A «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno».

C Gli rispose: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso».

Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito

C Era già verso mezzogiorno e si fece buio su tutta la terra fino alle

tre del pomeriggio, perché il sole si era eclissato. Il velo del tempio

si squarciò a metà. Gesù, gridando a gran voce, disse: «Padre, nelle

tue mani consegno il mio spirito». Detto questo, spirò.

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(Qui si genuflette e si fa una breve pausa)

C Visto ciò che era accaduto, il centurione dava gloria a Dio dicendo:

A «Veramente quest’uomo era giusto». C Così pure tutta la folla che

era venuta a vedere questo spettacolo, ripensando a quanto era

accaduto, se ne tornava battendosi il petto. Tutti i suoi conoscenti, e

le donne che lo avevano seguito fin dalla Galilea, stavano da lontano

a guardare tutto questo.]

Giuseppe pone il corpo di Gesù in un sepolcro scavato nella roccia

Ed ecco, vi era un uomo di nome Giuseppe, membro del Sinedrio,

buono e giusto. Egli non aveva aderito alla decisione e all’operato

degli altri. Era di Arimatèa, una città della Giudea, e aspettava il

regno di Dio. Egli si presentò a Pilato e chiese il corpo di Gesù. Lo

depose dalla croce, lo avvolse con un lenzuolo e lo mise in un

sepolcro scavato nella roccia, nel quale nessuno era stato ancora

sepolto. Era il giorno della Parascève e già splendevano le luci del sabato. Le donne che erano venute con Gesù dalla Galilea seguivano

Giuseppe; esse osservarono il sepolcro e come era stato posto il

corpo di Gesù, poi tornarono indietro e prepararono aromi e oli

profumati. Il giorno di sabato osservarono il riposo come era

prescritto.

Parola del Signore.

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Lc 22,14-23,56

La Passione di Gesù

Nel suo racconto della passione Luca segue normalmente la trama di Marco, pur con

diversi ritocchi, omissioni e aggiunte. Egli omette l’episodio dell’unzione di Betania, forse perché aveva narrato precedentemente un episodio analogo e apre la sua esposizione

con il tradimento di Giuda: in esso egli vede all’opera satana, il quale porta a

compimento la tentazione che aveva inflitto a Gesù nel deserto, prima che iniziasse il suo ministero pubblico. L’evangelista racconta poi i preparativi per la cena. A questo

episodio fanno seguito, come in Marco, cinque scene, di cui la prima è quella della cena,

con la quale inizia il testo liturgico.

Le scene che compongono il racconto lucano della passione sono le seguenti:

1. La Cena del Signore (Lc 22,14-38; cfr. Mc 14,22-31; Mt 26,26-35)

2. Gesù al Getsemani (Lc 22,39-53; cfr. Mc 14,32-52; Mt 26,36-56) 3. Il processo giudaico (Lc 22,54-71; cfr. Mc 14,53-72; Mt 26,57-75)

4. Il processo romano (Lc 23,1-25; cfr. Mc 15,1-20a; Mt 27,1-31a)

5. La morte in croce (Lc 23,26-56; cfr. Mc 15,20b-47; Mt 27,31b-66)

1. LA CENA DEL SIGNORE

Secondo la versione di Luca il racconto della Cena comprende due parti: istituzione dell’eucaristia (vv. 14-20) e raccomandazioni ai discepoli (vv. 21-39).

Nel racconto della cena Luca ha visto, come gli altri due sinottici, la prefigurazione della morte di Gesù, nella quale hanno trovato compimento i grandi segni religiosi e le attese

del popolo ebraico: l’esodo dall’Egitto e la Pasqua, l’alleanza escatologica promessa dai

profeti; il banchetto di alleanza, i sacrifici di comunione e il banchetto escatologico. Diversamente dagli altri sinottici Luca sottolinea che l’effetto della morte di Gesù trova

la sua piena manifestazione nella comunità radunata che egli guida verso il compimento

finale. Sullo sfondo della cena, che rappresenterà il momento culminante della

comunione ecclesiale, le raccomandazioni di Gesù mettono in luce la necessità che, proprio in forza del suo “ricordo”, si instaurino tra i discepoli rapporti nuovi, improntati

al rifiuto del potere e al servizio vicendevole.

Anche Luca collega la cena con la triste realtà del tradimento di Giuda, in concomitanza con il rinnegamento e l’abbandono da parte dei discepoli; ma per lui questo aspetto

doloroso affiora solo dopo che Gesù ha compiuto il suo gesto di amore: ciò lo rende più

grave, ma al tempo stesso lo relativizza, poiché proprio in forza del suo dono spinto fino alla morte Gesù ha ottenuto dal Padre il ravvedimento di Pietro, il quale potrà quindi

confermare i suoi fratelli. Anche nella vita della comunità la cena sarà l’ambito in cui

emergeranno tensioni e tradimenti: ciò non toglierà però valore al gesto di Gesù, dal

quale i discepoli attingeranno il coraggio per essere fedeli allo spirito del Maestro, anche a costo della propria vita.

2 GESÙ NEL GETSEMANI

La seconda scena della passione lucana si svolge nella tarda serata del giovedì in un

podere chiamato Getsèmani, sulle pendici del monte degli Ulivi. Essa comprende due momenti: la preghiera di Gesù (vv. 39-46) e il suo arresto (vv. 47-53).

Nel racconto della preghiera di Gesù Marco ha messo in luce la sua paura e angoscia,

sottolineando però la sua fiducia totale nel Dio dei padri. Il resoconto di Luca invece elimina tutto ciò che suppone in Gesù paura e angoscia. Egli appare in questa occasione

come il giusto che, nella preghiera, lotta contro il potere del male, e va fino in fondo

sulla strada intrapresa, anche quando questa sfocia in un apparente insuccesso e in un

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violento tradimento. La terribile tentazione di Gesù, consiste essenzialmente nel dover

affrontare da solo l’apparente inefficacia di un progetto che, venendo da Dio, dovrebbe compiersi infallibilmente. Questa dimensione di lotta, insita nella preghiera di Gesù,

viene messa fortemente in luce da Luca, il quale mostra però come Dio non abbandoni

il Giusto nella sua prova. Proprio la preghiera gli procura un conforto dall’alto, con il quale egli può affrontare la dura prova che lo aspetta. Questa tentazione sarà propria

anche dei suoi discepoli, ai quali egli dà un modello che possono vedere e imitare:

anch’essi troveranno nella preghiera la forza per resistere alle tentazioni alla quali saranno sottoposti.

L’adesione alla volontà di Dio espressa nella preghiera rappresenta la preparazione più

immediata all’arresto: in essa infatti Gesù trova il coraggio per fare quella scelta di non

violenza che caratterizza il suo comportamento nei confronti dei suoi avversari. Dalle sue parole alla folla appare che la violenza è inutile verso chi della violenza non vuole

avvalersi. Luca attenua tutto ciò che costituisce un attentato alla dignità umana di Gesù,

mettendo in luce al tempo stesso la sua grandezza morale nei confronti di Giuda; inoltre egli sottolinea con le parole stesse di Gesù come la passione non sia altro che un

tentativo estremo fatto dal potere diabolico per sopraffarlo. La portata della non violenza

da lui adottata appare soprattutto nel gesto di Gesù che risana il servo del sommo

sacerdote: ciò mostra infatti che non è sufficiente astenersi dall’uso della violenza, ma è necessario amare anche i propri nemici.

3 IL PROCESSO GIUDAICO

Luca ricorda, come Marco e Matteo, il comportamento riprovevole di Pietro che rinnega

tre volte Gesù. Ma per lui il fatto avviene precedentemente, nella notte, quando domina il potere delle tenebre. Il racconto lucano cerca di attenuare i dettagli più imbarazzanti,

come quello di aver ceduto di fronte a una schiava che lo aveva interpellato

personalmente. All’origine del ripensamento di Pietro c’è lo sguardo di Gesù, che

rappresenta quasi una nuova chiamata, a cui corrisponde il pentimento dell’apostolo. Quindi durante il processo di Gesù Pietro è già perdonato e può partecipare come amico

alla passione del suo Maestro.

Secondo Marco è proprio di fronte al supremo tribunale giudaico che Gesù rivela la sua altissima dignità e la sua gloria futura e per questo viene condannato. Luca invece non

parla di un processo vero e proprio, ma solo di un’audizione dell’imputato avvenuta al

mattino, senza una condanna esplicita. Pur riconoscendo la responsabilità dei giudei nella condanna di Gesù, il terzo evangelista ha voluto evitare l’impressione di un

coinvolgimento troppo diretto delle autorità giudaiche nel procedimento che lo ha

portato alla morte. A tal fine ha eliminato anche il dettaglio dei falsi testimoni, i quali

da una parte rivelavano un malanimo preconcetto nei riguardi di Gesù e dall’altra sottolineavano in modo indebito la sua ostilità nei confronti del tempio.

4. IL PROCESSO ROMANO

La nuova scena si svolge il mattino del venerdì santo. Essa fa da ponte tra la condanna

di Gesù da parte del sinedrio e la sua esecuzione, spiegando come mai sia stata portata a termine dai romani. Dopo una breve introduzione, in cui si informa il lettore circa la

consegna di Gesù al procuratore romano, Luca riporta, in sintonia con gli altri due

sinottici, l’interrogatorio di Gesù da parte di Pilato (vv. 1-5), a cui aggiunge il racconto

del trasferimento a Erode (vv. 6-12). Infine come gli altri due narra il tentativo fallito di amnistiare Gesù, la sua condanna e le derisioni dei soldati (vv. 13-25).

Nei tre sinottici il processo di fronte a Pilato ha lo scopo di spiegare come mai, sebbene la responsabilità della condanna di Gesù ricada sui giudei, egli sia stato sottoposto a

una pena tipicamente romana. Inoltre è importante dimostrare che Gesù è stato

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condannato per un crimine politico che non ha commesso e che le romane non sono

riuscite a dimostrare. La comparsa dinnanzi a Erode è difficilmente valutabile dal punto di vista storico. Lo

scopo per cui l’evangelista riferisce questo episodio è invece abbastanza chiaro. Da una

parte egli vuole mettere in luce che Gesù per primo ha dovuto subire gli attacchi dei governanti sia giudei che gentili, come capiterà poi ai suoi discepoli. Ma soprattutto

vuole dimostrare che egli è stato riconosciuto innocente sia dal governatore romano che

dal re di una parte del popolo giudaico. Contro di lui hanno preso posizione solo i rappresentanti del sinedrio. Ciò era molto importante perché i primi predicatori cristiani,

che si rivolgevano sia ai giudei che ai gentili, dovevano poter dimostrare che Gesù era

stato riconosciuto come innocente dalle autorità riconosciute sia dagli uni che dagli altri.

È probabile che questo taglio di lettura rifletta non tanto la realtà dei fatti, quanto piuttosto la polemica che si è sviluppata nel primo secolo tra cristiani e giudei, quando

ancora i romani, garanti dell’ordine sociale e politico, apparivano sostanzialmente aperti

al cristianesimo. Il processo di fronte a Pilato è un’ottima occasione per sottolineare come Gesù abbia affermato la sua messianicità anche di fronte a un tribunale civile,

senza con ciò riceverne una condanna formale.

5. LA MORTE DI GESÙ

Tralasciando la flagellazione, che secondo gli altri sinottici è stata inflitta a Gesù dopo il

giudizio romano, Luca descrive immediatamente l’esecuzione della pena. Esso si distingue nei seguenti quadri: la via crucis (vv. 26-32), la crocifissione (vv. 33-43), la

morte di Gesù (vv. 44-49) e la sua sepoltura (vv. 50-56).

Nel racconto degli ultimi momenti della vita terrena di Gesù i sinottici cercano di dare

una risposta allo scandalo della morte violenta del Messia. Secondo Luca essa è

soprattutto il segno e al tempo stesso l’inizio di un perdono che riguarda l’intera

umanità, ma in primo piano i suoi crocifissori e tutto il popolo giudaico. La presenza della folla che seguiva Gesù verso il luogo della crocifissione e il gesto delle donne che

si battono il petto mettono in risalto come questo popolo, pur avendo chiesto la

crocifissione di Gesù, non l’ha abbandonato del tutto, ma gli è stato vicino dissociandosi così dai suoi capi. Pur non escludendo la colpa dei giudei, Luca fa dunque un’importante

distinzione, che mette in luce il suo sentimento di apertura e di comprensione verso il

popolo giudaico. Nelle parole che Gesù rivolge alle figlie di Gerusalemme non si legge una condanna, ma solo una messa in guardia nei confronti delle imminenti tribolazioni.

Sullo sfondo di questa profonda interpretazione della morte di Gesù emerge molto vivido

il tema della sequela. Luca presenta con caratteri originali le figure che già nella

tradizione sinottica erano simbolo e modello di sequela e ne aggiunge di nuove: il Cireneo che diventa simbolo del discepolo che porta la croce dietro Gesù, il buon

ladrone, che entra con Gesù in paradiso, il centurione che riconosce in Gesù un uomo

giusto, le donne che attestano il permanere accanto alla croce di persone affezionate e fedeli, Giuseppe di Arimatea, un discepolo occulto che si prende cura del corpo di Gesù.

Tutti costoro sono di estrazione giudaica: essi attestano che proprio dal giudaismo ha

origine un movimento di persone che, superando lo scandalo della croce, si mettono in cammino con Gesù verso il regno di Dio. Il racconto della morte di Gesù si salda così

con quello della cena, al termine della quale Luca ha raccolto le ammonizioni di Gesù

riguardanti la sequela, mostrando che essa è l’unica strada aperta al discepolo anche

dopo il trauma del tradimento.