domenico de feo - la giusta causa di licenziamento

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Domenico De Feo - La giusta causa di licenziamento

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da

copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e

per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).

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Indice

1. LA GIUSTA CAUSA .............................................................................................................................. 3

2. GIUSTA CAUSA E CONTRATTO COLLETTIVO ...................................................................................... 9

BIBLIOGRAFIA ........................................................................................................................................... 11

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1. La giusta causa

L’art. 2119, c.c., regolamenta il recesso per giusta causa, una delle più importanti

fattispecie di estinzione del rapporto di lavoro insieme al giustificato motivo soggettivo ed

oggettivo.

Ludovico Barassi, fondatore del diritto del lavoro italiano1, non solo individuò nella

subordinazione il tratto distintivo della locatio operarum rispetto alla locatio operis, ma si occupò di

qualificare la giusta causa come una grave violazione della fiducia posta a fondamento del

rapporto di lavoro, da ricondursi anche a fatti extracontrattuali perciò non necessariamente

collegati all’inadempimento contrattuale2.

La giusta causa configura una fattispecie talmente grave da non permettere neppure

provvisoriamente la prosecuzione del rapporto di lavoro, essendo stato inficiato il rapporto

fiduciario che è al contempo elemento essenziale di un contratto fondato sull’intuitu personae.

L’art. 2119 c.c. autorizza ciascuna delle parti a recedere per giusta causa dal contratto

qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto

di lavoro. In tale ipotesi la parte recedente non è tenuta a dare il preavviso.

Sulla nozione di giusta causa la giurisprudenza e la dottrina hanno proposto tesi differenti3.

La prima, considera rientrante nella giusta causa solo ed esclusivamente un

inadempimento del lavoratore.

La seconda, considera rientrante nella giusta causa non solo un inadempimento del

lavoratore, ma anche qualsiasi altro fatto o atto che, pur non essendo attinente all’esecuzione

della prestazione lavorativa è idoneo a far venir meno la fiducia tra le parti (ad es., il lavoratore

che abbia compiuto un furto o una rapina, anche al di fuori del luogo di lavoro).

1 Espressione utilizzata da VENEZIANI B., Contratto di lavoro, potere di controllo e subordinazione nell’opera di

Ludovico Barassi, in Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, fasc. 96/2002. 2 MASSARA G.S., Il recesso per giusta causa, in Codice commentato del lavoro BONILINI G., et al., 2011; BARASSI L.,

Dritto del lavoro, 1901. 3 Sul punto si veda SANTORO – PASSARELLI G., Diritto dei lavori e dell’occupazione, 2017.

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Sul punto è molto chiara la posizione della Corte di Cassazione con la sentenza n. 2168 del

2013 “I comportamenti tenuti dal lavoratore nella vita privata ed estranei perciò all'esecuzione

della prestazione lavorativa, se, in genere, sono irrilevanti, possono tuttavia costituire giusta causa

di licenziamento allorché siano di natura tale da compromettere la fiducia del datore di lavoro nel

corretto espletamento del rapporto, in relazione alle modalità concrete del fatto e ad ogni altra

circostanza rilevante in relazione alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle

specifiche mansioni del dipendente, nonché alla portata soggettiva del fatto stesso”.

Nella specie il giudice di merito, con la sentenza confermata dalla S.C., aveva ritenuto

legittimo il licenziamento per giusta causa intimato a un dipendente postale che aveva

patteggiato una pena per il reato di violenza, attribuendo rilevanza al "forte disvalore sociale" dei

fatti e all'eco avutane nella stampa, nonché alla posizione del dipendente, quale coordinatore di

circa trenta unità addette al recapito, in ragione della responsabilità e preminenza rispetto ai

componenti della squadra, attribuendo rilievo al fatto che le condotte poste in essere fossero

connotate da un "abuso delle funzioni di guida e responsabilità connesse alla veste di capo della

comunità religiosa".

Sicchè, questa seconda tesi, è stata accolta dalla giurisprudenza prevalente della

Cassazione ed ha portato, inevitabilmente, all’ampliamento delle ipotesi di licenziamento.

Ed ancora, la Suprema Corte con la sentenza n. 8367 del 2014 ha chiarito che “La giusta

causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del

rapporto e, in particolare, dell'elemento fiduciario, dovendo il giudice valutare, da un lato, la

gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei

medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all'intensità del profilo intenzionale,

dall'altro, la proporzionalità fra tali fatti la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell'elemento

fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia tale, in concreto, da

giustificare la massima sanzione disciplinare; a tal fine, quale comportamento che, per la sua

gravità, è suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro, può assumere rilevanza

disciplinare anche una condotta che, seppure compiuta al di fuori della prestazione lavorativa, sia

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idonea, per le modalità concrete con cui essa si manifesta, ad arrecare un pregiudizio, non

necessariamente di ordine economico, agli scopi aziendali”.

Ne segue che il licenziamento per giusta causa si distingue dagli altri motivi di licenziamento

in base a due profili, uno quantitativo, in quanto il comportamento deve essere gravissimo ed un

altro qualitativo, in quanto la condotta può costituire un inadempimento contrattuale, così come

un fatto estraneo al rapporto di lavoro, ma che può incidere sul medesimo tanto da impedirne la

prosecuzione.

Basti pensare alla guardia giurata che viene sorpresa a rubare al di fuori del rapporto di

lavoro o alla lavoratrice di un supermercato condannata per furto commesso in un altro

supermercato. Ne segue pertanto che il fatto o comportamento esterno hanno rilievo nella misura

in cui incidono sull’aspettativa e sulla probabilità di un esatto adempimento, per il futuro,

dell’obbligazione lavorativa.

Si segnala, a titolo esemplificativo, la sentenza n. 17739 del 29 agosto 2011, con cui la

Cassazione ha ritenuto sproporzionata la sanzione di licenziamento per giusta causa per un

piccolo furto commesso da un dipendente (si parla di 5 euro), soprattutto nel caso in cui il

dipendente vanta, al suo attivo, numerosi anni di carriera irreprensibile.

Il principio di diritto è il seguente:

“In caso di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità fra fatto addebitato e

recesso, viene in considerazione ogni comportamento che, per la sua gravità, sia suscettibile di

scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la continuazione del rapporto si risolva

in un pregiudizio per gli scopi aziendali, essendo determinante, ai fini del giudizio di proporzionalità,

l'influenza che sul rapporto di lavoro sia in grado di esercitare il comportamento del lavoratore che,

per le sue concrete modalità e per il contesto di riferimento, appaia suscettibile di porre in dubbio

la futura correttezza dell'adempimento e denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente

gli obblighi assunti, conformando il proprio comportamento ai canoni di buona fede e correttezza.

Spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva non sulla base di una

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valutazione astratta del fatto addebitato, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto della

vicenda processuale che, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico, risulti sintomatico

della sua gravità rispetto ad un'utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi a tal fine

preminente rilievo alla configurazione che delle mancanze addebitate faccia la contrattazione

collettiva, ma pure all'intensità dell'elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle

mansioni svolte dal dipendente, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto (ed alla sua

durata ed all'assenza di precedenti sanzioni), alla sua particolare natura e tipologia”.

Impostazione, peraltro, confermata dalla giurisprudenza più recente secondo la quale “Nel

licenziamento disciplinare la gravità dell'inadempimento deve essere valutata secondo il

parametro dell'inadempimento notevole degli obblighi contrattuali (L. n. 604/66, art. 3) ovvero tale

da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto (art. 2119 c.c.) in senso

accentuativo rispetto alla regola generale della non scarsa importanza. In tale valutazione, la

tenuità del danno e la mancanza di precedenti disciplinari non sono circostanze in sé decisive,

dovendo piuttosto verificarsi se l'inadempimento, complessivamente valutato, sia idoneo ad

incidere sulla prognosi di futura correttezza dell'adempimento dell'obbligazione lavorativa” (Cass.

n. 18184 del 2017).

Recenti orientamenti giurisprudenziali sulla nozione di giusta causa

- La Corte di Cassazione, con sentenza n. 13534 del 20 maggio 2019, ha statuito la

legittimità del licenziamento per giusta causa intimato dall’azienda ad una propria dipendente

che aveva reagito, in presenza di altre dipendenti e di un cliente, allo schiaffo ricevuto da una

collega di lavoro. Secondo i giudici di legittimità, anche qualora vi sia la corrispondenza tra i l

comportamento del lavoratore e la fattispecie tipizzata contrattualmente come giusta causa di

licenziamento disciplinare, il giudice di merito deve comunque effettuare un accertamento della

reale entità e gravità del comportamento addebitato al dipendente, anche sotto il profilo della

colpa o del dolo nonché del rapporto di proporzionalità tra sanzione e infrazione, essendo

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necessario che la condotta sanzionata sia riconducibile alla nozione legale di giusta causa anche

sotto il profilo soggettivo. Ad avviso della Corte, che ha confermato la legittimità del licenziamento

intimato, i Giudici di secondo grado avevano correttamente effettuato una valutazione in

concreto degli elementi di fatto, atteso che la lavoratrice non si era limitata a reagire all’altru i

aggressione, ma conoscendo il carattere violento ed aggressivo della collega, aveva

volontariamente creato una situazione di pericolo, provocandola ed intimandole, alla presenza di

altri colleghi e clienti, di comportarsi in un determinato modo. La Corte ha anche precisato in

generale che, qualora la condotta addebitata quale causa del licenziamento sia prevista come

infrazione sanzionabile con misura conservativa, il giudice non può ritenere legittimo il recesso,

“dovendosi attribuire prevalenza alla valutazione di minore gravità di quel peculiare

comportamento, come illecito disciplinare di grado inferiore, compiuta dall’autonomia collettiva

nella graduazione delle mancanze disciplinari”.

- Corte di Cassazione, 4 giugno 2019, n. 15168: La giusta causa di recesso costituisce una

nozione che la legge configura con una disposizione, ascrivibile alla tipologia delle cosiddette

clausole generali, che richiede di essere specificata in sede interpretativa, mediante la

valorizzazione sia di fattori esterni, relativi alla coscienza generale, sia di principi che la disposizione

codicistica tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura

giuridica e la loro disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge,

mentre l'accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che

integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire

giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice

di merito al quale è anche riservata la scelta dei mezzi istruttori utilizzabili ai fini dell'accertamento

dei fatti rilevanti per la decisione, scelta censurabile in sede di legittimità sotto il profilo del vizio di

motivazione, nei limiti consentiti dall'art. 360 n. 5 cod. proc. civ., e non della violazione di legge. Nel

caso in esame, la Corte di Cassazione, riformando la sentenza di secondo grado, ha ritenuto

legittimo il licenziamento per giusta causa intimato ad un dipendente con qualifica di quadro

direttivo, per non aver vigilato sulle condotte fraudolente – nella specie sottrazione di un’elevata

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somma di denaro - poste in essere da un suo sottoposto. Una simile omissione, infatti, anche in

considerazione della delicatezza delle funzioni di responsabilità affidate al quadro direttivo, integra

una violazione del dovere di diligenza professionale di cui all’art. 2104, comma 1, c.c., tale da

ledere in maniera irreparabile il peculiare vincolo fiduciario con il datore di lavoro che si fonda

sull’interesse all’esatto e puntuale adempimento futuro della prestazione da parte del lavoratore.

Giusta causa e licenziamento disciplinare

Al licenziamento per giusta causa, dopo una lunga e controversa vicenda giurisprudenziale

conclusasi con la sentenza della Corte costituzionale 30 novembre 1982, n. 204, è stato

riconosciuto il carattere proprio della sanzione disciplinare con la conseguente applicazione della

disciplina prevista all’art. 7 della l. n. 300/1970.

Infatti, ad avviso della Consulta “Sono illegittimi, per violazione dell'art. 3 cost., il 1° comma

(pubblicità del codice disciplinare), 2° (preventiva contestazione dell'addebito e facoltà

dell'incolpato di essere sentito prima dell'adozione del provvedimento disciplinare) e 3° (facoltà

dell'incolpato di farsi assistere da un rappresentante sindacale) dell'art. 7 l. 20 maggio 1970, n. 300,

interpretati nel senso che siano inapplicabili ai licenziamenti disciplinari, per i quali detti comma

non siano espressamente richiamati dalla normativa legislativa, collettiva o validamente posta dal

datore di lavoro”.

1.1 Ne segue che il licenziamento disciplinare è sindacabile anche sotto il profilo della

proporzionalità rispetto all’inadempimento (art. 2106 c.c.), dall’altro sono applicabili entro

determinati limiti di compatibilità con la particolare natura del licenziamento, i vincoli

procedurali previsti dall’art. 7 della l. n. 300/1970 tra cui non ultima la valorizzazione della

contrattazione collettiva nella tipizzazione e graduazione delle sanzioni.

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2. Giusta causa e contratto collettivo

1.2 A tal proposito, la contrattazione collettiva è solita indicare i fatti costitutivi della giusta

causa di licenziamento (codici disciplinari).

1.3 Dottrina e giurisprudenza sono però orientate nel ritenere non vincolante l’elencazione

prevista nella contrattazione collettiva, potendo pertanto considerarsi giusta causa di

licenziamento anche quei comportanti non contemplati nel contratto collettivo, ma in ogni

caso ontologicamente vietati dall’ordinamento (tesi c.d. ontologica).

1.4 Deve, inoltre, ricordarsi che, indipendentemente dalla qualificazione ad opera dei contratti

collettivi del comportamento contestato, il Giudice chiamato a verificare la legittimità di un

licenziamento disciplinare, è tenuto a valutare l’esistenza di una giusta proporzione tra

addebito e sanzione adottata.

1.5 Il dibattito intorno al ruolo della contrattazione collettiva nella definizione della giusta causa

è stato di recente rinnovato per via delle modifiche apportate all’art. 18 della l. n. 300/1970

con la l.n. 92/2012.

1.6 L’art. 18 comma 4, così come riformato dalla l. n. 92/2012 attribuisce infatti alle

classificazioni contenute nella contrattazione collettiva la funzione di parametro vincolante

per il giudice nell’individuazione del tipo di sanzionale applicabile ad un licenziamento a

cui sia stata comunque accertata l’illegittimità. Ciò vuol dire che la tutela reintegratoria

“attenuata” si applicherà non soltanto quanto il fatto contestato non sussiste, ma anche

quando pur esistendo, quel fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione

conservativa sulla base di quanto prescritto dalla contrattazione collettiva.

1.7 Si evidenzia che tale disposizione si riferisce tuttavia esclusivamente ai soggetti assunti prima

dell’entrata in vigore del d. lgs 23/2015 il 7 marzo 2015.

1.8 Si ricorda altresì che già l’art. 30 terzo comma della l. n.183/2010 prevedeva che «nel

valutare le motivazioni poste a base del licenziamento, il giudice tiene conto delle

tipizzazioni di giusta causa (…) presenti nei contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati

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comparativamente più rappresentativi ovvero nei contratti individuali di lavoro ove stipulati

con l’assistenza e la consulenza delle commissioni di certificazione di cui al titolo VIII

del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, e successive modificazioni».

La Corte di Cassazione, con una recente sentenza del 16 luglio 2019, n. 19023, ha chiarito

che “La giusta causa di licenziamento è nozione legale rispetto alla quale non sono vincolanti - al

contrario che per le sanzioni disciplinari con effetto conservativo - le previsioni dei contratti

collettivi, che hanno valenza esemplificativa e non precludono l'autonoma valutazione del giudice

di merito in ordine alla idoneità delle specifiche condotte a compromettere il vincolo fiduciario tra

datore e lavoratore, con il solo limite che non può essere irrogato un licenziamento per giusta

causa quando questo costituisca una sanzione più grave di quella prevista dal contratto collettivo

in relazione ad una determinata infrazione”.

Nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza di merito che, a fronte del contratto

collettivo che prevedeva il licenziamento solo per condotte dolose, si era limitato ad accertare la

natura colposa della violazione senza, peraltro, verificare se la stessa fosse punita con sanzione

conservativa.

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Bibliografia

Del Punta R., Diritto del lavoro, Giuffré, 2015.

Magnani M., Diritto del lavoro, 2019.

Persiani M. [et al.], Fondamenti di diritto del lavoro, Cedam, 2015.

Santoro – Passarelli G., Diritto dei lavori e dell’occupazione, edz. VI, 2017.

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Riferimenti normativi

Art. 2118 c.c.

Art. 2119 c.c.

L. n. 300/1970

L. n.183/2010

L. n. 92/2012

D.lgs. 23 del 2015

Riferimenti giurisprudenziali

Corte costituzionale 30 novembre 1982, n. 204

Cass. n. 2168 del 2013

Cass. n. 8367 del 2014

Cass. n. 11739 del 2014

Cass. n. 19023 del 2019

Cass. n. 15168 del 2019

Cass. n. 13534 del 2019