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Douglas Adams - Il Salmone Del Dubbio

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Il salmone del dubbio Douglas Adams

Traduzione di Laura Serra

Titolo originale: The Salmon of Doubt © Completely Unespected Productions, Ltd. 2002

Introduction © Stephen Fry 2002 © 2004 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano

Prima edizione Strade blu: settembre 2002 Prima edizione Urania: maggio 2004

Supplemento ad Urania n° 1486

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Nota del curatore

Conobbi Douglas Adams nel 1990. Mi avevano appena nominato suo editor alla Harmony Books e volai a Londra per sollecitare la consegna - da tempo attesa di Praticamente innocuo, il quinto romanzo della saga nata con la Guida galattica per gli autostoppisti. Appena citofonai a casa sua a Islington, lo scrittore, un omone alto, grosso ed esuberante, scese la lunga scala, mi accolse con gran cordialità e mi consegnò un mazzetto di fogli. «Guardi un po' come le sembrano questi» disse; poi girò le spalle e tornò al piano di sopra. Un'ora dopo scese giù con nuove pagine e mi chiese ansiosamente un parere sulle prime. Così passò il pomeriggio: io leggevo in silenzio un certo numero di cartelle, lui scendeva pesantemente i gradini, faceva due chiacchiere con me e mi consegnava altro materiale. Come seppi in seguito, quello era il suo metodo preferito di lavoro.

Nel settembre del 2001, quattro mesi dopo la morte improvvisa e prematura di Douglas, Ed Victor, il suo agente, mi telefonò per dirmi che il contenuto dei molti computer Macintosh utilizzati da Douglas nel corso del tempo era stato conservato da un buon amico dello scrittore, e mi chiese se fossi disposto a vagliare i file per vedere se se ne poteva trarre il materiale per un libro. Pochi giorni dopo arrivò il pacco, che aprii con grande curiosità.

Mi resi subito conto che Chris Ogle, l'amico di Douglas, si era sobbarcato un'impresa titanica, perché il CD-ROM in cui aveva raccolto gli scritti era composto da 2579 "mattoni": si andava da grandi file in cui era archiviato il testo completo dei libri pubblicati alle lettere scritte per conto di Save the Rhino, l'istituzione senza scopo di lucro a cui Adams dava il suo contributo. A questo andavano aggiunte numerose idee e scalette solo parzialmente sviluppate - alcune di poche righe, altre di cinque o sei pagine - relative a libri, film e programmi televisivi; articoli apparsi sul sito web ufficiale; bozze di discorsi; introduzioni a vari libri; commenti a fatti di attualità; riflessioni su argomenti che gli stavano a cuore, come, per nominarne solo alcuni, la musica, la tecnologia, la scienza, i viaggi, le specie a rischio di estinzione e il whisky di puro malto. Trovai infine molte versioni del romanzo che, nell'ultimo decennio, Douglas aveva faticosamente cercato di scrivere. Scegliere il meglio delle varie versioni per arrivare al canovaccio proposto nella terza sezione del presente volume ha rappresentato un'impresa assai gratificante. È vero che il termine "impresa" include il concetto di difficoltà, ma la difficoltà, di fatto, non è stata così grande, perché con la stessa rapidità con cui sorgevano le domande giungevano, quasi da sole, le risposte.

Il romanzo che Douglas aveva in cantiere, e che doveva essere il terzo della serie Dirk Gently, all'inizio era intitolato A Spoon Too Short (Un cucchiaio troppo corto) e con quel titolo apparve nei file fino all'agosto del 1993. Poi fu ribattezzato The

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Salmon of Doubt (Il salmone del dubbio) e fu diviso in tre sezioni "cronologiche" che raccoglievano il materiale più vecchio (The Old Salmon), quello abbastanza recente (The Salmon of Doubt) e quello recentissimo (LA/Rhino/Ranting Manor). Leggendo le varie stesure e considerando gli scopi di questo libro, decisi che avrei reso il miglior servizio a Douglas mettendo insieme il materiale migliore indipendentemente dall'epoca in cui era stato scritto, come del resto avrei proposto allo scrittore di fare se fosse stato vivo. Così ho tratto l'attuale primo capitolo, incentrato su Davelandia, da The Old Salmon, e i successivi sei da The Salmon of Doubt, seconda e più lunga versione del romanzo, priva di interruzioni. Cercando di conservare la chiarezza e la fisionomia dell'intreccio, ho inserito due dei tre capitoli più recenti di LA/Rhino/Ranting Manor, che sono divenuti i capitoli ottavo e nono, poi ho trasformato l'ultimo di The Salmon of Doubt nel decimo e l'ultimo di LA/Rhino/Ranting Manor nell'undicesimo. Per dare al lettore un'idea delle intenzioni dell'autore, ho fatto precedere la storia dalla generica scaletta che Douglas inviò per fax a Sue Freestone, l'editor di Londra che aveva lavorato a stretto contatto con lui fin dall'epoca della Guida.

Stimolato dalla lettura del ricco materiale d'archivio in CD-ROM, ricorsi al prezioso aiuto di Sophie Astin, assistente personale di Douglas, per ampliare la raccolta. C'erano altre "chicche" da inserire in un volume che rappresentasse un omaggio allo scrittore? Scoprimmo che nei periodi di inattività tra un romanzo e l'altro, Douglas si era dedicato a grandi progetti multimediali e aveva pubblicato articoli su quotidiani e periodici. All'originario materiale su CD-ROM aggiungemmo quindi questi altri testi e cominciammo a preparare l'antologia.

Prepararla significava naturalmente operare una selezione arbitraria, legata al gusto personale. Sophie Astin, Ed Victor e Jane Belson, la moglie di Douglas, hanno proposto i loro pezzi preferiti, e altrettanto ho fatto io. Quando Robbie Stamp, amico e socio in affari dello scrittore, ha avuto l'idea di riprodurre nel libro la struttura del sito web di Douglas, che è diviso in tre sezioni (LA VITA, L'UNIVERSO e TUTTO

QUANTO), il quadro è stato completo. Ho constatato con piacere che l'insieme dei testi rispecchiava in pieno un percorso creativo troppo breve, ma senza dubbio straordinariamente ricco.

Ho visto Douglas per l'ultima volta in California, un pomeriggio d'inverno in cui passeggiammo lungo la spiaggia di Santa Barbara. Ogni tanto si staccava da me per correre con la figlia Polly, che aveva allora sei anni, e appariva molto felice. Non sospettavo certo che non lo avrei più rivisto. Da quando è morto, penso spessissimo a lui e altrettanto capita a molti di coloro che gli sono stati vicini. A un anno dalla scomparsa è ancora vivissimo nel nostro cuore e non posso fare a meno di pensare che ci abbia in certo modo reso più facile la stesura del volume. So che ci teneva molto che i lettori lo apprezzassero e spero che essi apprezzino anche questo suo libro postumo.

Peter Guzzardi

Chapel Hill, North Carolina 12 febbraio 2002

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Prologo

di Nicholas Wroe "The Guardian"

Sabato 3 giugno 2000

Nel 1979, poco tempo dopo avere pubblicato la Guida galattica per gli autostoppisti, Douglas Adams fu invitato a firmare copie del romanzo in una piccola libreria di fantascienza di Soho. Mentre vi si dirigeva in macchina, incontrò una grande folla che lo costrinse a rallentare. «Fui bloccato da un ingorgo provocato da una moltitudine di persone che sembravano partecipare a una manifestazione» ricorda. Solo quando ebbe percorso un certo tratto a passo d'uomo si rese conto che la folla era lì per lui. Il giorno dopo il suo editore gli telefonò per dirgli che era al primo posto nella lista dei bestseller pubblicata nell'edizione del sabato del "Times" di Londra e da quel momento la sua vita cambiò. «Fu» dice «come essere trasportati in elicottero in cima all'Everest o come avere un orgasmo senza preliminari.»

La Guida galattica, nata come trasmissione radio cult, ebbe poi una versione televisiva e una versione teatrale. All'iniziale romanzo se ne sono aggiunti altri quattro, che hanno venduto in tutto il mondo oltre quattordici milioni di copie. Ai libri sono seguiti dischi e videogame e adesso, dopo vent'anni di traccheggiamenti hollywoodiani, si parla con insistenza di un film.

Nel primo romanzo, Guida galattica per gli autostoppisti, il mite londinese Arthur Dent cerca di impedire al consiglio comunale di demolire la sua casa per fare spazio a una tangenziale. Poi viene a sapere dall'amico Ford Prefect (c'è chi ha visto in Ford Virgilio che fa da guida a Dent-Dante), all'apparenza umano ma in realtà proveniente da un pianeta vicino a Betelgeuse, che la Terra verrà distrutta per consentire la costruzione di un'autostrada iperspaziale. I due riescono a mettersi in salvo salendo come clandestini a bordo di un'astronave vogon e cominciano a usare la Guida galattica per gli autostoppisti, una miniera (abbastanza attendibile) di informazioni sulla vita, l'universo e tutto quanto.

L'inventiva e il peculiare humour intergalattico di Adams hanno esercitato non poca influenza culturale. L'espressione "guida autostoppistica a…" è entrata presto nell'uso comune e sono stati parecchi i romanzi e le serie televisive di chiaro stampo imitativo. Il pesce babele, un pesciolino che, infilato in un orecchio, traduce qualunque lingua del cosmo, è diventato il nome del traduttore automatico di un motore di ricerca del Web. Ai cinque romanzi ispirati alla Guida sono poi seguiti un libro e un CD-ROM sulle specie a rischio di estinzione. Adams ha inoltre fondato una

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dot-com, h2g2, che di recente ha cercato di tradurre in pratica l'idea della guida promuovendo un servizio con cui, tramite cellulare, si ottengono informazioni sulla "vita, l'universo e tutto quanto".

Pur avendo speso gran parte delle sue ricchezze nei computer che tanto ama, Adams non è mai stato il classico, sfigato appassionato di fantascienza. Robusto gigante di quasi due metri, ha un temperamento mite e socievole e, più che i fan di fantascienza, ricorda i ragazzi delle public schools inglesi divenuti negli anni Settanta delle rock star (del resto una volta suonò la chitarra sul palcoscenico di Earls Court con i suoi amici Pink Floyd). A un certo punto, durante il nostro incontro, anziché tirare fuori dal portafogli una foto tessera della figlia Polly apre il potentissimo computer portatile, vi smanetta un poco e mi mostra un video parodistico in cui Polly appare per un attimo accanto a un altro suo vecchio amico, John Cleese dei Monty Python.

La Guida galattica diede allo scrittore il successo economico, che gli permise di conoscere persone straordinarie e comprarsi giocattoli meravigliosi; e forse, guardando il suo curriculum fatto di collegio, Cambridge Footlights1 e Bbc, si sarebbe tentati di dire: "Per forza"; ma il suo in realtà non è stato un viaggio rettilineo lungo le vie dell'establishment.

Douglas Noel Adams è nato a Cambridge nel 1952 («Sono stato DNA a Cambridge nove mesi prima che Crick e Watson scoprissero il DNA in quei laboratori») da Janet, un'infermiera dell'Addenbrooke's Hospital, e Christopher, un uomo dai molti mestieri: prima insegnante, poi teologo, poi ufficiale giudiziario addetto alla sorveglianza dei vigilati e infine consulente di direzione aziendale, un epilogo, dice il figlio, «molto, molto strano», perché chiunque conoscesse Christopher «si rendeva perfettamente conto che di direzione aziendale non sapeva un'acca».

A causa di "notevoli difficoltà economiche", la famiglia lasciò Cambridge sei mesi dopo la nascita di Douglas e andò a vivere nella periferia orientale di Londra, cambiando spesso casa. Douglas aveva cinque anni quando i genitori divorziarono. «È incredibile vedere come i bambini ritengano normale la propria vita anche quando è disastrosa» dice lo scrittore. «Pure io la ritenevo normale, mentre era difficile, anche perché all'epoca il divorzio non era affatto comune come oggi. A dir la verità non ricordo quasi nulla degli anni precedenti la separazione dei miei, ma credo non sia stato un periodo divertente.»

Dopo il divorzio, lui e la sorella minore andarono a vivere a Brentwood, nell'Essex, dove la loro madre gestiva un ostello per animali malati. Nei weekend Douglas vedeva il padre, nel frattempo divenuto benestante, ma queste visite gli causavano ansia e tensione. Il quadro si complicò ulteriormente quando il padre e la madre si sposarono con nuovi partner e alla famiglia si aggiunsero diversi fratellastri e sorellastre. All'apparenza Douglas accettò la situazione, ma sotto sotto la visse male, sicché "si comportava in maniera strana" ed era un bambino irrequieto e un po' bizzarro. All'inizio gli insegnanti lo giudicarono subnormale dal punto di vista 1 I Cambridge Footlights sono un celebre club di attori comici formato da studenti dell'omonima università. Fu fondato nel 1983 e ha avuto tra i suoi membri Graham Chapman, John Cleese ed Eric Idle dei Montv Python, ma anche un'attrice come Emma Thompson. [N.d.T.]

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scolastico, ma quando andò alla Brentwood Prep School, una scuola secondaria privata sovvenzionata dallo stato, il giudizio cambiò e i nuovi maestri e professori lo ritennero assai intelligente.

Dal dopoguerra in poi, la Brentwood ha visto parecchi suoi alunni diventare famosi: lo stilista Hardy Amies, lo storico (oggi in disgrazia) David Irving, il conduttore televisivo Noel Edmonds, il ministro degli Interni Jack Straw e il direttore del "Times" Peter Stothard frequentarono la scuola prima di Adams; i comici Griff Rhys Jones e Keith Allen la frequentarono dopo di lui. Nel parlamento britannico siedono oggi quattro ex allievi della Brentwood, due laburisti e due conservatori. E benché Keith Allen ami descriversi come uno che ha fatto una dura gavetta, almeno da qualcuno venne aiutato quando aveva sette anni: fu proprio Douglas Adams a dargli, all'epoca, lezioni di piano.

Nel 1965 la signora Janet Adams si risposò e si trasferì nel Dorset e il figlio tredicenne, che in precedenza era un esterno, divenne un allievo interno della scuola. Fu, pare, un'esperienza assai positiva. «Prima, quando alle quattro del pomeriggio me ne andavo da scuola, guardavo gli interni con invidia, perché pensavo che si divertissero» dice lo scrittore «dopo, quando diventai interno anch'io, in effetti mi divertii molto. Da un lato mi piace sentirmi un ribelle e un cane sciolto, ma dall'altro mi piace (forse ancora di più) avere una bella, confortante istituzione contro cui strusciarmi. Non c'è niente di meglio che avere davanti un divieto a cui ribellarsi.»

Adams afferma di dovere la sua solida cultura ad alcuni insegnanti «molto bravi, molto seri, molto carismatici e interamente consacrati al lavoro». A un recente party tenutosi a Londra ha criticato Jack Straw, che, come gli altri esponenti del New Labour, è contrario alle scuole private sovvenzionate dallo stato; la Brentwood, ha ricordato al ministro, non sembra abbia impartito una cattiva educazione a loro due.

Frank Halford, ex insegnante della scuola, ricorda che Adams era «anche allora molto alto, e molto simpatico agli altri ragazzi. Scrisse una commedia di fine anno scolastico e, siccome era iniziata da poco la serie televisiva Doctor Who, la intitolò Doctor Which.» Adams, che molti anni dopo scrisse davvero delle sceneggiature per Doctor Who, definisce Halford un insegnante stimolante che tuttora rappresenta per lui un punto di riferimento. «Una volta mi diede dieci in un tema e fu l'unica volta nella sua lunga carriera scolastica in cui assegnò il voto massimo. Ancora oggi, quando ho una buia notte dell'anima e dubito di poter continuare a fare lo scrittore, non penso che ho pubblicato dei bestseller o che ricevo grossi anticipi dagli editori, ma che una volta Frank Halford mi diede dieci e che quindi, evidentemente, so scrivere.»

L'arte della scrittura gli procurò compensi economici fin dalla più tenera età. Da ragazzo vendette alcuni racconti brevissimi, "quasi come haiku", alla rivista di fumetti "Eagle" e ricevette in pagamento dieci scellini. «All'epoca con dieci scellini si comprava quasi uno yacht» scherza. Ma il suo vero interesse è sempre stato la musica. Imparò a suonare la chitarra copiando nota per nota il complesso schema del finger-picking2 di uno dei primi album di Paul Simon. Ora possiede una vastissima 2 Il finger-picking è una tecnica di arpeggio alla base della musica angloamericana per chitarra acustica. Fu messo a punto negli anni Venti dai chitarristi neri blues e rappresenta una trasposizione su chitarra del ragtime per pianoforte. [N.d.T.]

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collezione di chitarre elettriche per mancini, ma ammette di avere "un cuore piuttosto folk". «Anche quando ho suonato la chitarra con i Pink Floyd sul palcoscenico» dice «ho eseguito un motivo molto semplice da Brain Damage in stile finger-picking.»

Come successe a tutti i ragazzi cresciuti negli anni Sessanta, ricorda, «i Beatles mi piantarono nella testa un seme che la fece esplodere. Ogni nove mesi pubblicavano un nuovo ellepì che rappresentava un rivoluzionario sviluppo della loro musica precedente. Eravamo così ossessionati dai Beatles che, quando uscì Penny Lane, rompemmo le palle a un ragazzo che l'aveva già sentita alla radio finché non ce la fischiettò. Ora la gente si chiede se gli Oasis non siano bravi come i Beatles. Macché bravi come ì Beatles. Non valgono neanche i Rutles».

L'altra grande influenza fu quella dei Monty Python. Dopo avere ascoltato le tradizionali commedie radiofoniche degli anni Cinquanta, per Adams fu "un'epifania" scoprire che persone intelligentissime potevano esprimersi con una comicità molto divertente "e insieme demenziale".

L'inevitabile passo successivo fu l'iscrizione all'università di Cambridge, dove gli premeva soprattutto "entrare a far parte dei Footlights". «Volevo diventare un autore-attore come i Python. Anzi, volevo essere John Cleese e impiegai un certo tempo a capire che la parte era già stata assegnata.»

All'università rinunciò presto a recitare («non ero credibile») e cominciò a scrivere sketch in chiaro stile pythoniano. Ne ricorda uno in cui un tecnico delle ferrovie veniva redarguito perché, nel Sud del paese, aveva lasciato tutti gli scambi aperti per dimostrare la tesi esistenzialistica della vita come possibilità, e un altro sulla difficoltà dì organizzare il congresso generale annuo dell'Associazione Paranoici.

Mary Allen, che è stata direttrice artistica dell'Aris Council e della Royal Opera, studiò a Cambridge all'epoca di Douglas e mise in scena i suoi testi. Da allora è rimasta sua amica e ricorda che Douglas «si distingueva sempre, anche in mezzo a persone piene di talento. Scriveva cose molto originali e personali, che non erano per tutti i palati e che bisognava adattare a un pubblico più vasto. Anche negli sketch brevi creava un mondo alquanto bizzarro».

«Mi sentivo un po' in colpa per essermi iscritto a lettere» confessa lo scrittore. «Pensavo che avrei dovuto studiare qualcosa di più utile e impegnativo della letteratura inglese. Ma, se da un lato mi lamentavo, dall'altro ero contento di avere poco da fare.» Anche in temi e tesine riusciva a infilare le sue battute. «Se avessi saputo allora quello che so adesso, mi sarei iscritto a biologia o zoologia. All'epoca non provavo interesse per quelle materie, ma oggi le ritengo le più interessanti di tutte.»

Tra gli altri studenti della sua generazione c'era il futuro avvocato e conduttore televisivo Clive Anderson. Chris Smith, che sarebbe diventato ministro della Cultura, presiedeva la Student's Union e Adams ravvivava l'atmosfera durante i dibattiti, non perché si interessasse alla politica, ma perché cercava "ogni occasione per fare delle gag". «E molto strano» dice «vedere oggi quelle persone animare la scena politica e pubblica. I giovani che studiavano a Cambridge con me stanno ricevendo riconoscimenti alla carriera e questo naturalmente mi fa sentire nervoso per il tempo che passa.»

Dopo l'università, ebbe occasione di lavorare con uno dei suoi eroi: il Python

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Graham Chapman, che era stato colpito da alcuni suoi sketch per i Footlights e si era messo in contatto con loro per avere il suo recapito. Quando andò a trovarlo, il giovane Douglas ebbe una lieta sorpresa: Chapman gli chiese se se la sentiva di aiutarlo a terminare una sceneggiatura da consegnare in giornata. «Finimmo per lavorare insieme un anno intero, perlopiù al progetto di una serie televisiva che poi non andò mai oltre il numero zero» ricorda lo scrittore. Chapman «si scolava due bottiglie di gin al giorno, il che ovviamente era di leggero ostacolo al lavoro», ma aveva un talento enorme. «Era per natura adatto al lavoro di squadra e per ottenere il massimo da se stesso aveva bisogno che gli altri gli imponessero una disciplina. La sua specialità, nella sceneggiatura, era trovare l'elemento capace di rovesciare completamente la prospettiva.»

Quando smise di collaborare con lui, Adams si trovò a un punto morto. Continuava a scrivere sketch, ma non guadagnava abbastanza per vivere. «Mi resi conto di non essere molto bravo in quel lavoro. Non sono mai riuscito a scrivere su ordinazione e non riuscivo assolutamente a parlare di attualità. Ogni tanto, però, producevo qualcosa di ottimo in maniera estemporanea.»

Geoffrey Perkins, che dirigeva il settore commedia della Bbc e produsse l'originale versione radiofonica della Guida, ricorda di avere incontrato per la prima volta Adams quando questi curò la regia di uno spettacolo dei Footlights. «Veniva continuamente tormentato dalle domande di un membro del cast, tanto che alla fine si lasciò cadere scoraggiato su una sedia. La seconda volta in cui lo vidi si arrabattava a scrivere degli sketch per il programma televisivo Weekending, considerato allora il terreno di prova ideale per gli autori. Douglas fu tra quelli che, pur con buone doti, non arrivarono da nessuna parte con quella trasmissione. Weekending favoriva gli sceneggiatori capaci di scrivere sketch della durata di trenta secondi, mentre Douglas non sapeva formulare una sola frase che durasse meno di trenta secondi.»

Visto il crollo delle proprie aspirazioni letterarie, Adams ripiegò su lavori strani, come pulire pollai e fare la guardia del corpo dei reali del Qatar. «Ottenni l'incarico leggendo un annuncio sull'"Evening Standard"» ricorda. «Evidentemente l'agenzia di vigilanza era disperata. In seguito raccomandò Griff Rhys Jones per lo stesso lavoro. Ma, più sedeva per notti intere davanti alle camere da letto degli alberghi, più si sentiva depresso. «Continuavo a pensare che la mia vita avesse preso una brutta piega.» Per Natale andò a trovare sua madre e rimase da lei per tutto l'anno successivo.

I familiari erano molto preoccupati per il suo futuro e, pur continuando a inviare ogni tanto sceneggiature di sketch a trasmissioni radiofoniche, Douglas si sentiva molto scoraggiato. Benché in seguito abbia ottenuto il successo economico e letterario, ha continuato a soffrire di una certa mancanza di fiducia. «Ho terribili periodi di pessimismo durante i quali non credo di potercela fare e, anche se mille elementi dimostrano che non c'è motivo di disperare, non posso fare a meno di vedere nero» confessa. «In passato andai per breve tempo da un terapeuta, ma presto mi resi conto che ero come un contadino che si lamentasse del tempo. Non si può porre rimedio al clima: si può solo sopportarlo e conviverci.» Quando però gli si chiede se questa filosofia lo ha aiutato, risponde scrollando le spalle: «Non sempre».

La Guida galattica per gli autostoppisti fu il suo ultimo tiro di dadi, ma, con il

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senno di poi, si può dire che arrivò nel momento migliore. Guerre stellari aveva trasformato la fantascienza in un genere alla moda e, per quanto i Monty Python non fossero ormai più proponibili, la loro comicità demenziale aveva lasciato un segno durevole.

Il Python Terry Jones sentì i nastri della trasmissione prima che questa andasse in onda e rimase colpito dalla "solida intelligenza" e dalla "notevole preparazione culturale" di Adams. «Si capiva che sotto sotto la sua era, come avrebbe detto Matthew Arnold, una critica della vita. Il suo testo aveva un'impostazione lucida e morale, innestata su una grande intelligenza. Anche John Cleese è molto intelligente, ma privilegia la logica e l'analisi. Douglas è a sua volta analitico, ma tende a essere originale.» Pur dichiarandosi d'accordo, Geoffrey Perkins avverte che Adams non ebbe mai un piano preciso dell'opera.

«Quando iniziò la Guida, aveva un sacco di idee in testa, ma non sapeva assolutamente come sarebbe andata a finire la storia. Aveva una tecnica quasi dickensiana: scriveva puntate settimanali senza curarsi degli sviluppi futuri.»

La serie andò in onda nel 1978, dopo nove mesi di un assiduo lavoro che fu pagato mille sterline. Poiché aveva l'impressione di dover fare "ancora molta strada prima di pareggiare entrate e uscite", Adams accettò di curare una produzione per la Bbc, ma abbandonò sei mesi dopo, quando si trovò a dovere scrivere una seconda serie radiofonica, il romanzo, la sceneggiatura del serial televisivo e alcuni episodi di Doctor Who. Nonostante il ragguardevole carico di lavoro, si stava già facendo la leggendaria fama di scrittore che non scrive. «Amo le scadenze» dice. «Amo il loro sibilo quando mi sfrecciano accanto.»

Il successo acuì in lui la tendenza a tergiversare. Rendendosi presto conto che Adams considerava l'arte della narrazione alla stessa stregua dell'arte della recitazione, Sue Freestone, la sua editor, trasferì il proprio ufficio nella sua sala da pranzo. «Ha bisogno di avere un pubblico davanti e di vedere subito come vengono accolte le cose» racconta «però questo a volte ha conseguenze curiose. Per esempio all'inizio di uno dei romanzi si parlava di pietanze contenenti ciascuna una banana. Saltava agli occhi quell'ingrediente che ricorreva più volte e allora gli chiesi di spiegarne la presenza. Ma Douglas, cui piace stuzzicare il pubblico, rispose che mi avrebbe chiarito il motivo in seguito. Quando arrivammo alla fine del romanzo tornai a domandargli: "Allora, com'è la storia delle banane?". Mi guardò con aria vacua. Si era completamente dimenticato la ragione per cui aveva inserito le banane. Ancora oggi ogni tanto gli chiedo se se l'è ricordata, ma pare di no, che sia scomparsa nel nulla.»

Lo scrittore e produttore John Lloyd, amico e collaboratore di Adams fin da prima della Guida, ricorda che, quando scriveva, Douglas era "in preda al panico e tormentato dall'indecisione". «All'epoca in cui stava finendo uno dei romanzi eravamo in vacanza a Corfù con tre amici. Finì per occupare l'intera casa che avevamo preso in affitto: in una stanza scriveva, in una seconda dormiva, in una terza si rifugiava quando non riusciva a dormire, e così via. Non gli veniva affatto in mente che anche gli altri desiderassero farsi una buona notte di sonno. Analizza la vita con un cervello grande come un pianeta, ma spesso sembra vivere su un altro pianeta. E una persona del tutto aliena da cattiverie, ma quando non riesce a finire un libro e si

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fa prendere dal panico e dal terrore, tutto il resto gli sembra insignificante.» Anche se scrivere gli costa così tanto, i romanzi hanno avuto molto successo e

sono diventati tutti dei bestseller, tanto che Adams ha finito per ricevere un anticipo di oltre due milioni di dollari dall'editore americano. Nel 1979 pubblicò con John Lloyd The Meaning of Liff, un dizionario umoristico nel quale sensazioni note a tutti, come quella che si prova quando, alle quattro del pomeriggio, ci si rende conto di avere fatto solo metà del lavoro che si sarebbe dovuto fare, vengono definite con nomi di città: Farnham, per esempio, designa una lieve depressione. A fine anni Ottanta risalgono invece i due polizieschi surreali incentrati sul detective olistico Dirk Gently.

Benché Adams abbia sostanzialmente scritto opere comiche, Sue Freestone fa notare che i romanzi della Guida sono stati presi fin troppo sul serio da una parte del pubblico. Nella Guida si legge che l'asciugamano è "l'oggetto più utile per l'autostoppista", capace di soccorrerlo nelle più svariate circostanze. «Ebbene, in punto di morte una vecchietta di un ospizio si è tenuta stretta al petto l'asciugamano nell'illusione di farcela. Aveva completamente interiorizzato l'universo di Arthur Dent. Quando l'ha saputo, Douglas ha provato profondo imbarazzo. Io invece mi sono commossa pensando che, al momento di compiere un viaggio verso l'ignoto, la povera donna si sia aggrappata a quel simbolo di sopravvivenza.»

Nelle opere di Adams non mancano certo i temi seri, 11 secondo romanzo di Dirk Gently, per esempio, è in fondo la storia di persone senza casa, senza patria, senza appartenenza sociale. «Douglas non si limita al mestiere, ma scava in profondità» afferma la Freestone. «Sotto i toni comici, il lettore avvertito coglie una critica alla società.»

Dopo un lungo periodo di crisi, lo scrittore ha lavorato con costanza fino a metà degli anni Novanta, quando ha deciso di tirare i remi in barca. «Mi ero arenato nel bel mezzo di un romanzo e, per quanto possa sembrare ingrato da parte mia, dover firmare i libri in questo o quel posto mi procurava un misto di rabbia e depressione.»

In fondo, dice, lui è uno sceneggiatore che si è ritrovato solo per caso romanziere. «Parrà assurdo, ma sotto un certo profilo sentivo di essere stato ingannato e di avere a mia volta ingannato. Inoltre diventi schiavo del circolo vizioso dei quattrini. Siccome ti pagano molto e non sei felice, corri a comprare roba di cui non hai né voglia né bisogno e questo ti costringe a procurarti altri soldi.»

Negli anni Ottanta si ritrovò in difficoltà finanziarie proprio a causa di questo circolo vizioso. Non vuole parlarne in dettaglio, ma, spiega, cominciò a spendere troppo, tanto che la gente lo riteneva più ricco di quanto non fosse realmente. Già tra la prima e la seconda serie radiofonica si notano nel testo cambiamenti che sono un sintomo di mutate condizioni sociali. Nella prima si facevano molte battute sui pub e la mancanza di soldi; nella seconda si lanciavano frecciate ai ristoranti e ai commercialisti esosi.

«Mi sentivo come un topo sulla ruota» confessa. «In qualunque punto della ruota mi trovassi, non provavo alcun piacere. Quando scrivi il tuo primo libro a venticinque anni, hai venticinque anni di esperienza, sia pure di esperienza giovanile. Ma il secondo libro lo scrivi dopo che sei stato per un anno seduto nelle librerie a firmare libri e così presto cominci a girare sulla ruota senza aver più niente da dire.»

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Reagì alla sensazione di avere esaurito il carburante provando una "rotazione creativa delle colture". In altre parole, si dedicò sempre più ad altri settori, come l'informatica e l'ecologia. Nel 1990 pubblicò con Mark Carwardine L'ultima occasione. «Come spesso succede, fu il mio libro di minor successo, ma è quello di cui sono tuttora più fiero.»

Cominciò a scriverlo quando una rivista lo mandò nel Madagascar a cercare una rara specie di lemure. Era convinto, partendo, di fare un'esperienza interessante, ma non credeva che sarebbe stata una vera e propria rivelazione. Fu talmente affascinato dall'ecologia che cominciò a interessarsi di evoluzione. «Mi avevano messo in mano un filo e, seguendo quel filo, scoprii un mondo che mi conquistò.» Adesso un link annesso al suo indirizzo elettronico invita il pubblico a rivolgersi al Dian Fossey Trust, l'associazione per la protezione dei gorilla, e a Save the Rhino International, l'organizzazione votata alla salvaguardia dei rinoceronti. Adams è stato anche uno dei firmatari del Great Ape Project, il progetto che mira a estendere alle grandi scimmie i diritti umani fondamentali, in particolare il diritto "alla vita, alla libertà e all'affrancamento dalla tortura".

È stato, con altri, membro fondatore dell'istituzione filantropica britannica Comic Relief, ma non è certo il tipo dell'attivista masochista che gira con il cilicio. Sono famose le feste che dava nella sua casa di Islington, dove si sono esibite diverse, leggendarie rock star (una volta Gary Brooker, dei Procol Harum, cantò A Whiter Shade of Pale nella prima versione contenente i famosi versi poi abbandonati nella versione definitiva) davanti a un pubblico di tycoon dei media e miliardari dell'high-tech. Forse era un poco più strano, per un ateo duro e puro come lui, ospitare ogni Natale il classico carol service a base di canti natalizi e letture di passi della Bibbia.

«Da bambino ero un fervente cristiano» si giustifica. «Amavo il coro della scuola e ricordo che il carol service mi emozionava sempre molto.» Nel pantheon delle maggiori influenze culturali include, oltre ai Beatles e ai Python, Johann Sebastian Bach e, se gli si chiede come concili un musicista così "sacro" con la sua anima iconoclasta, risponde: «La vita è piena di cose che ci commuovono e ci toccano profondamente. Il fatto che io non condivida la fede di Bach in Dio non mi impedisce certo di pensare che la Messa in si minore sia una delle massime vette raggiunte dall'arte umana. Ancora oggi ascoltarla mi commuove fino alle lacrime. Trovo assai interessante la religione, ma continuo a chiedermi come facciano persone per altri versi intelligenti a prenderla sul serio».

Se non al credo tradizionale, Adams è attaccato al costume che lo accompagna, perché per esempio sua figlia Polly, nata nel 1994, ha quattro "non padrini" e "non madrine". Mary Allen, una delle "non madrine", è stata colei che ha presentato lo scrittore alla sua futura moglie, l'avvocato Jane Belson. «Nei primi anni Ottanta Douglas soffriva del blocco dello scrittore e mi telefonava ogni giorno» ricorda. «Alla fine gli chiesi se non si sentisse solo. Mi parve di capire che era effettivamente solo e che aveva bisogno di qualcuno con cui dividere il suo grande appartamento. Così Jane andò a vivere con lui.» Dopo vari tentennamenti, nel 1991 i due si sono sposati e hanno vissuto a Islington fino all'anno scorso, quando hanno spostato la residenza a Santa Barbara.

Adams confessa che non è stato facile decidere di andare ad abitare in California.

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«Solo di recente ho capito quanto mia moglie fosse contraria al trasferimento» dice. Ma, aggiunge, raccomanderebbe a chiunque «si trovi nel cuore della mezz'età di prendere il largo e andare da qualche altra parte. È corroborante ricominciare da capo e reinventarsi la vita».

Il suo ruolo nella dot-com che ha creato ben si accorda con questa "reinvenzione": è infatti il principale fantasista. «Non mi sono mai visto nel ruolo dello scrittore di fantascienza che prevede a tavolino le cose» afferma. «Non ho mai aspirato a essere un Arthur C. Clarke. La Guida era un espediente narrativo destinato a catalizzare idee stimolanti, ma si è rivelata essa stessa un'idea stimolante. La dot-com tuttavia è ancora all'inizio. Siamo in piscina mentre là fuori si stende l'intero oceano.»

Altre iniziative in cantiere sono (con oltre otto anni di ritardo) un film tratto da Dirk Gently, il sito web h2g2 e un romanzo elettronico. «Quante volte ho detto che un giorno ci sarebbero stati i romanzi elettronici e che avrebbero avuto grande importanza; poi d'un tratto Stephen King ne ha pubblicato uno e io, che avrei dovuto essere il primo a produrlo, mi sono sentito un completo idiota.»

Il progetto di adattamento cinematografico della Guida gli ha fruttato "vent'anni di costipazione", in quanto fare un film a Hollywood «è come cercare di cuocere ai ferri una braciola chiedendo a una schiera di persone di soffiarvi sopra». Eppure, soggiunge, «in fondo è entusiasmante questa antiquata espressione artistica fatta a spizzichi e bocconi».

«Con le nuove tecniche meno collaudate si corre il rischio di lasciarsi conquistare dalla forma e di trascurare il contenuto. È quindi piacevole lavorare con un mezzo di espressione che, in quanto maturo, non pone questo problema.»

Dato il lungo periodo di inattività da cui proviene, è convinto che molti dei suoi nuovi progetti e idee falliranno. Ma osserva con saggezza: «Da molti anni ormai sono fuori dal ciclo produttivo imposto ai romanzieri e avevo un gran bisogno di questa interruzione. Ho riflettuto molto e, credo, creativamente su tante cose che con i romanzi non hanno nulla a che fare. Mentre prima mi sembrava di avere esaurito il carburante, ora ho l'impressione di avere rifatto il pieno».

Ritratto di Douglas Noel Adams

NATO A Cambridge, 11 marzo 1952.

STUDI Brentwood School, Essex; St John's College, Cambridge.

STATO CIVILE Ha sposato nel 1991 Jane Betson e ha una figlia, Polly, nata nel 1994.

CURRICULUM INIZIALE Sceneggiatore radiofonico e televisivo tra il 1974 e il 1978; produttore radiofonico

della Bbc nel 1978.

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ALCUNE SCENEGGIATURE The Hitchhiker's Guide to the Galaxy, 1978 e 1980 (radio) e The Hitchhiker's

Guide to the Galaxy, 1981 (televisione).

VIDEOGAME The Hitchhiker's Guide to the Galaxy, 1984; Bureaucracy, 1987; Starship Titanic,

1997.

LIBRI The Hitchhiker's Guide to the Galaxy, 1979; The Restaurant at the End of the

Universe, 1980; Life, the Universe and Everything, 1982; The Meaning of Liff (con John Lloyd), 1983; So Long, and Thanks for All the Fish, 1984; Dirk Gently's Holistic Agency, 1987; The Long Dark Tea-Time of the Soul, 1988; Last Chance to See, 1990; The Deeper Meaning of Liff (con John Lloyd), 1990; Mostly Harmless, 1992.

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Introduzione

Questo è un momento molto douglasiano per me. In genere i momenti douglasiani riguardano:

i computer Macintosh della Apple; le scadenze impossibili; Ed Victor, agente letterario di Douglas; le specie a rischio di estinzione; gli alberghi esclusivi a cinque stelle.

Sto digitando su una tastiera di computer (Macintosh) per rispettare (spero) la scadenza impostami da Ed Victor, il quale mi ha chiesto di scrivere entro martedì un'introduzione a Il salmone del dubbio.

Mi trovo al Miraflores Park Hotel di Lima, l'hotel più sfacciatamente lussuoso del Perù, dove, circondato da cesti di frutta incellofanati, sorseggio champagne Louis Roederer in attesa di partire per l'interno alla ricerca dell'orso dagli occhiali, uno dei mammiferi meno conosciuti e più minacciati della Terra.

Poiché l'albergo è molto caro, ogni stanza è dotata della connessione veloce a banda larga con Internet e ho appena visto, al computer, un filmato di due ore al culmine del quale Steve Jobs, l'amministratore delegato della Apple, ha pronunciato un discorso davanti al pubblico del Macintosh Expo di San Francisco. L'Imperatore del Computer Più Figo ha appena presentato il nuovo i-Mac e io non ho potuto telefonare o spedire un'e-mail a Douglas per parlargliene. Presto verrà commercializzato un nuovo, rivoluzionario prodotto del meraviglioso, inimitabile hardware Apple e Douglas non lo vedrà mai. Non giocheremo con un i-Pod né smanetteremo intorno a un'i-Photo. Questo è molto, molto triste non solo per chiunque abbia conosciuto direttamente Douglas, ma anche per i milioni di lettori che lo hanno conosciuto attraverso i libri. È terribile che lui, da ora in poi, si perda tutti i Nuovi Aggeggi ed è terribile che noi non vediamo più celebrare i Nuovi Aggeggi da colui che era da tutti riconosciuto come il loro Poeta.

È vero che, per giudicare i prodotti appena usciti, posso usare i miei occhi e i miei criteri di valutazione, ma mi ero abituato a contare sull'intuizione eccezionale di Douglas. Lui trovava gli appellativi più giusti, le metafore più adatte, le similitudini più calzanti, e non solo sul tema dei Nuovi Aggeggi, naturalmente. Sarebbe riuscito a correlare il singolare carattere e il singolare comportamento dell'orso dagli occhiali sia con comuni esperienze umane sia con astratti concetti scientifici. Tanta parte del mondo in cui viviamo è divenuta più chiara dopo che Douglas l'ha filtrata con i suoi

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occhi. In altre parole, la tremenda confusione e l'assurdo caos del mondo si sono fatti, grazie a lui, più evidenti. Abbiamo capito quanto fosse folle e conflittuale l'universo e quanto fosse stupido e stravagante il genere umano solo quando Douglas ce lo ha spiegato con il suo stile inimitabile, quello stile che, coniugando bonomia, paradosso e spontaneità, lo rendeva così grande. Sono appena stato in bagno e ho notato che qui le saponette (completamente sigillate in quell'involucro di plastica indistruttibile che non si riesce ad aprire e che gli alberghi ordinano alle case produttrici per aumentare il comfort dei clienti) non sono chiamate saponette, ma "pastiglie facciali alla mandorla". E ho pensato che, se fosse stato ancora vivo, avrei mandato subito una email a Douglas sull'argomento e lui mi avrebbe risposto subito - come non avverrà mai più - infarcendo la lettera di battute fulminanti che mi avrebbero fatto ridere e ballare per la stanza per mezz'ora.

Nelle tristi settimane seguite a quella morte tanto ingiusta e scioccante, si è detto che Douglas era uno straordinario scrittore umoristico, che aveva interessi vasti e profondi, che ha avuto un'influenza notevole sulla letteratura e il costume. Questo libro dimostra che grande maestro sia stato. Come siamo stati indotti dall'occhio evocativo e poetico di Turner a vedere in un altro modo il tramonto, così siamo stati indotti dall'occhio scanzonato e satirico di Douglas a vedere in un altro modo i lemuri e le tazze di tè.

È assai improprio che a me e ad altri venga chiesto di scrivere l'introduzione a un libro contenente una brillantissima introduzione che parla - ironicamente delle introduzioni. E ancora più improprio che ci venga chiesto di scrivere l'introduzione all'opera postuma di uno dei maggiori scrittori umoristici della nostra epoca quando quest'opera postuma contiene la bellissima introduzione all'opera postuma del maggiore autore umoristico di tutti i tempi; come ha osservato Ed Victor alla cerimonia funebre tenutasi a Londra, l'introduzione a Sunset at Blandings di P.G. Wodehouse è infatti la fedele, ancorché inconsapevole, descrizione dei talenti dello stesso Douglas.

Douglas non aveva l'antipaticissima modestia degli inglesi, ma ciò non significa che fosse presuntuoso o vanaglorioso. Si faceva però prendere dalla foga di comunicare le proprie idee e le proprie passioni, sicché tendeva a monopolizzare l'attenzione del suo interlocutore al telefono, al tavolo da pranzo o in bagno, escludendo tutti gli altri presenti e tutti gli altri argomenti. Così - e non credo di mancargli di rispetto dicendolo - la conversazione diventava a poco a poco un tète-à-tète confuso ed estenuante per chi non riusciva a seguire il suo euforico saltabeccare da un pensiero all'altro. Ma, se da un lato era incapace di eseguire una piroetta senza essere così goffo da distruggere tutto il mobilio e danneggiare gli innocenti astanti, Douglas era, dall'altro, incapace di scrivere una riga senza essere totalmente lucido e chiaro.

Era infatti un vero scrittore. Ci sono persone che scrivono ogni tanto e lo fanno magari bene, e poi ci sono gli scrittori. È inutile tentare di spiegare qui il perché e il percome, ma Douglas è nato, cresciuto e rimasto scrittore fino al giorno della sua morte prematura. Negli ultimi dieci anni di vita ha smesso di essere un romanziere, ma non ha mai smesso neanche un attimo di essere uno scrittore; ed è per questa semplice constatazione che gli si è voluto rendere omaggio con Il salmone del

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dubbio. Che preparasse il testo di una conferenza o stendesse un articolo per una rivista scientifica o tecnica, ha sempre conservato l'innata capacità di mettere insieme parole atte a stimolare, allietare, stupire, corroborare, informare o divertire il lettore. E il suo è uno stile in cui l'io non è mai preponderante, in cui, cioè, tutti i tropi e i trucchi della scrittura sono usati solo quando servono all'economia del racconto. Credo che, quando leggeranno questo libro, i lettori si stupiranno dell'apparente (e assai ingannevole) semplicità dello stile. A volte si ha quasi l'impressione che Adams parli a braccio; ma in lui, come in Wodehouse, la fluidità e la scorrevolezza del motore è il risultato di un numero infinito di calibrature, oliature e accurate torsioni di dadi e guarnizioni.

Come alcuni, rari artisti (tra cui appunto Wodehouse), egli dà al lettore la sensazione di rivolgersi a lui e soltanto a lui e credo che questo spieghi, almeno in parte, il grande vigore e il grande ardore dello "zoccolo duro dei fan", se posso usare quest'espressione abominevole. Quando guardiamo i quadri di Velásquez, ascoltiamo la musica di Mozart, leggiamo un romanzo di Dickens o ridiamo di una battuta del comico Billy Connolly, per fare quattro nomi a caso (ci vogliono molto tempo e molta riflessione per fare nomi a caso), ci rendiamo conto che essi parlano al mondo intero, con risultati senza dubbio magnifici. Quando guardiamo i quadri di William Blake, ascoltiamo la musica di Bach, leggiamo un romanzo di Douglas Adams o ridiamo di una battuta del comico Eddie Izzard, ci sentiamo gli unici al mondo ad avere capito ciò che volevano dire. Tante persone li ammirano, ma nessuna (pensiamo) li comprende come li comprendiamo noi. Intendiamoci, è una mia personale teoria questa che mi azzardo a proporre. Superfluo dire che Douglas non ha composto i capolavori di Bach o creato l'intenso universo personale di Blake, ma sono convinto che il discorso valga lo stesso. È un fenomeno abbastanza simile all'innamoramento. Quando un'espressione o un appellativo particolarmente felici escono dalla penna di Adams per entrarci nell'occhio e nel cervello, ci verrebbe voglia di battere una mano sulla spalla del primo sconosciuto che passa e di riferirglieli. Ma se per caso anche lui li apprezzasse, continueremmo segretamente a pensare di averli compresi meglio noi, di averne colto l'intima essenza; proprio come siamo convinti di comprendere l'intima essenza della persona che amiamo, persona di cui parliamo agli amici, ma di cui - per fortuna - essi non si innamorano a loro volta.

State per entrare nell'universo saggio, benevolo, spiritoso e provocatorio di Douglas Adams e vi metto in guardia, perché crea assuefazione. Non trangugiatelo tutto in una volta: come i piatti giapponesi che egli prediligeva, bocconi all'apparenza leggeri e facilmente digeribili sono in realtà molto più elaborati e nutrienti di quanto non sembrino a prima vista.

In genere è meglio tenere ermeticamente chiuso l'ultimo cassetto della scrivania degli scrittori morti di recente; in questo caso, invece, sono sicuro che è stato un bene forzare il cassetto (o meglio le sottocartelle delle sottocartelle del disco rigido). Chris Ogle, Peter Guzzardi, Jane Belson - la moglie di Douglas - e Sophie Astin la sua assistente - hanno fatto un magnifico lavoro. Un mondo senza Douglas è molto meno bello di un mondo con Douglas, ma i guizzi del Salmone del dubbio aiutano a dimenticare la grande tristezza che questa morte prematura ci ha recato.

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Stephen Fry

Lima, Perù gennaio 2002

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La vita

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Caro direttore, il sudore mi cola dal viso in grembo, inzuppandomi e appiccicandomi i vestiti.

Siedo, cammino, guardo. Quando mi siedo tremo forte, sbirciando in ansiosa attesa la piccola fessura. Stringo i pugni scavando con le unghie nella carne. Mi passo una mano sulla faccia accaldata e bagnata dal sudore che scende a rivoli. Che intollerabile suspense. Mi mordo un labbro nel tentativo di dominare il tremito che mi procura il terribile peso dell'ansia. D'un tratto la fessura si apre e il postino vi infila dentro la posta. Afferro il mio "Eagle" e strappo la carta che lo avvolge.

Il mio calvario è finito. Alla prossima settimana!

D.N. Adams (12 anni) Brentwood,

Essex 23 gennaio 1965 "Eagle and Boy's World"

[Nota del curatore: negli anni Sessanta "The Eagle" era una popolarissima rivista di fumetti britannica.3 Questa lettera è il primo testo pubblicato dall'allora dodicenne Douglas Adams.]

Le voci di tutti i nostri ieri4

Ricordo vagamente i tempi della scuola. So che erano lo sfondo al mio ascolto dei Beatles. Avevo dodici anni quando uscì Can't Buy Me Love; durante l'intervallo del mattino, in cui si beveva il latte, mi allontanai dall'edificio, comprai il disco e corsi nella stanza della direttrice dell'infermeria, dove c'era un giradischi. Misi su il disco a basso volume, ascoltandolo con un orecchio premuto contro l'altoparlante, lo misi su di nuovo per farlo udire all'altro orecchio, e infine lo girai e ascoltai nello stesso modo You Can't Do That. Fu allora che il preside mi colse in flagrante e mi assegnò una punizione. Lo avevo previsto, ma mi pareva un piccolo prezzo da pagare per quella che ora so essere arte.

Allora non sapevo che era arte; sapevo solo che í Beatles erano quanto di più bello ci fosse nell'universo. Non era un'opinione indiscussa, intendiamoci. Innanzitutto

3 Il finger-picking è una tecnica di arpeggio alla base della musica angloamericana per chitarra acustica. Fu messo a punto negli anni Venti dai chitarristi neri blues e rappresenta una trasposizione su chitarra del ragtime per pianoforte. [N.d.T.] 4 "Tutti i nostri ieri" è una citazione shakespeariana (Macbeth, atto V, scena V), ma Yesterday (Ieri) è anche il titolo di una celebre canzone dei Bealles. [N.d.T.]

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bisognava lottare con i fan degli Stones, il che non era facile, perché menavano colpi bassi ed erano tipi tosti rispetto a noi. Poi bisognava lottare con gli adulti, ossia con genitori e insegnanti che ci chiedevano perché sprecassimo il nostro tempo e il nostro spillatico per quella spazzatura che avremmo dimenticato la settimana dopo.

Non capivo perché mi dicessero questo. Poiché cantavo nel coro della scuola, conoscevo bene l'armonia e il contrappunto e mi era chiaro che la musica dei Beatles era raffinatissima. Trovavo sconcertante che nessun altro cogliesse le meravigliose armonie e il meraviglioso contrappunto che prima d'allora non si erano mai uditi nella musica leggera. Era chiaro che i Beatles introducevano quelle raffinatezze nelle loro canzoni per proprio intimo divertimento, e mi deliziava l'idea che ci si potesse divertire in quel modo.

Poi mi deliziava che continuassero a confondermi. Quando pubblicavano un nuovo ellepì, le prime volte che lo sentivo restavo freddo e interdetto. Solo a poco a poco le note mi si chiarivano nella mente. Il motivo per cui restavo interdetto era che, in realtà, ascoltavo una musica diversa da quella di chiunque altro. Another Girl, Good Day Sunshine, la straordinaria Drive My Car sono canzoni diventate ormai così familiari che solo con un preciso sforzo della volontà riesco a ricordare quanto strane mi siano parse all'inizio. Il fatto è che con il passare del tempo i Beatles non si limitarono più a scrivere canzoni, ma inventarono il medium stesso con cui operavano.

Non sono mai riuscito a vederli. So che è difficile a credersi, perché ero vivo all'epoca in cui si esibivano sul palco, ma non sono mai riuscito a vederli. Spesso me ne lamento. Mi raccomando, non venite a San Francisco con me, perché se lo faceste vi indicherei più volte Candlestick Park e piagnucolerei che proprio là i Beatles tennero il loro ultimo concerto nel 1966, un attimo prima che mi rendessi conto di come anche un abitante di Brentwood, Essex, potesse andare a un concerto rock in un'altra parte del mondo.

Una volta un mio compagno di scuola ricevette dei biglietti di ingresso per lo spettacolo televisivo di David Frost, ma alla fine decidemmo di restare a casa. La sera guardai la trasmissione, durante la quale i Beatles suonarono Hey Jude. Sono stato ammalato un anno intero. Un'altra volta rinunciai ad andare a Londra per vederli e si esibirono nel famoso concerto sul tetto di Savile Row. Il dolore è tale che non riesco neanche a parlarne.

Passarono dunque gli anni e passarono i Beatles. Ma Paul McCartney ha continuato a comporre. Pochi mesi la il chitarrista Robbie Mcintosh mi ha telefonato Per dirmi: «Suoniamo al Mean Fiddler tra qualche giorno, vuoi venire?».

È certo una delle domande più stupide che mi siano state fatte e credo di aver impiegato qualche istante a realizzare che cosa intendesse dire. Per chi non lo sapesse, il Mean Fiddler è un pub di un quartiere poco bello di Londra, che ha sul retro lo spazio per una band e per un pubblico di circa duecento persone.

È stato quel "suoniamo" a confondermi; sapevo infatti che al momento Robbie faceva parte della band di Paul McCartney e non pensavo che Paul McCartney suonasse nei pub. Se Paul McCartney suonava davvero nei pub, sarei stato un idiota a non segarmi una gamba pur di andarci. E ci sono andato.

Davanti alle duecento persone del pub, Paul McCartney è salito sul palco e ha

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eseguito canzoni che, credo, non aveva mai eseguito in pubblico prima d'allora. Here, There and Everywhere e Blackbird, per nominarne solo due. Dio, se penso che pure io ho suonato Blackbird nei pub! Impiegai settimane a imparare la parte per chitarra mentre avrei dovuto studiare per l'esame di ammissione all'università. Lì, al Mean Fiddler, ho avuto quasi l'impressione di avere le allucinazioni.

Due momenti, in particolare, sono stati assolutamente magici: l'ultimo bis, un'impeccabile e fragorosa (non dimentichiamo che eravamo in un pub) Sgt Pepper's Lonely Hearts Club Band e un altro pezzo forte, Can't Buy Me Love, uno dei più grandi esempi di rock'n'roll, che avevo sentito la prima volta con l'orecchio premuto contro il giradischi Dansette nella stanza della direttrice dell'infermeria della scuola.

C'è un gioco abbastanza diffuso tra la gente, che consiste nel chiedere: «Dove avresti voluto vivere e perché?». Nell'Italia del Rinascimento? Nella Vienna di Mozart? Nell'Inghilterra di Shakespeare? Personalmente avrei voluto vedere e ascoltare Bach. Ma è un gioco assai difficile, perché vivere in qualsiasi altra epoca della storia avrebbe significato per me perdermi i Beatles, e francamente il sacrificio sarebbe stato troppo grande. Mozart e Bach e Shakespeare sono sempre con noi, ma io sono cresciuto con i Beatles e credo che poche cose abbiano avuto su di me l'influenza profonda che hanno avuto loro.

Ed ecco che Paul McCartney domani compie cinquant'anni. Auguri, Paul. Per nulla al mondo avrei voluto perdermi questo tuo compleanno.

"The Sunday Times" (Londra) 17 giugno 1992

La Brentwood School

Ho frequentato la Brentwood School per ben dodici anni e tutto sommato, sia pur con alti e bassi, sono stati anni piuttosto buoni: abbastanza felici, discretamente rigogliosi, un poco più sportivi di quanto avrei voluto all'epoca, ma confortati da bravi (e a volte molto eccentrici) insegnanti. In realtà mi resi conto solo più tardi, e gradualmente, di che ottima istruzione avessi ricevuto alla Brentwood, in particolare in inglese e in fisica. (Strano, in fisica.) Eppure quei dodici, lunghi anni positivi sono stati completamente offuscati dal ricordo di un'unica esperienza terribile e traumatizzante: l'Esperienza dei Pantaloni. Ve la racconterò.

Sono sempre stato assurdamente, ridicolmente alto, tanto che, quando andavamo a fare le escursioni scolastiche in Posti Interessanti e Istruttivi, l'insegnante responsabile non diceva: «Troviamoci sotto la torre dell'orologio» o: «Troviamoci sotto il monumento ai caduti», ma: «Troviamoci sotto Adams». Ero più visibile di qualsiasi altro oggetto sotto il cielo e potevo essere spostato a piacere. Quando, durante le lezioni di fisica, dovevamo ripetere l'esperimento con cui Galileo dimostrò che due corpi di peso diverso cadono al suolo alla stessa velocità, affidavano a me il compito di lasciar cadere un pisello e una palla da cricket, in quanto era più pratico che salire sino alla finestra del piano di sopra. Ho sempre sovrastato tutti dall'alto della mia statura. Quando avevo sette anni ed ero all'inizio della carriera scolastica,

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mi presentai a un nuovo bambino (Robert Neary) avvicinandomi alle sue spalle, facendogli cadere in testa una palla da cricket e dicendo: «Ciao, io mi chiamo Adams, e tu?». Sono sicuro che per Robert Neary quello sia stato il ricordo più terribile e traumatizzante dell'infanzia.

Alla scuola preparatoria, che frequentai per cinque dei dodici anni complessivi, portavamo tutti i pantaloncini corti: calzoncini grigi e giacca dai bottoni dorati d'estate; calzoncini e giacca di tweed pepe e sale d'inverno. Vi è naturalmente un'ottima ragione per stare, da ragazzini, a gambe nude anche nel cuore di un inverno inglese (allora molto più freddo di oggi, se vi ricordate). Secondo la rivista "Wired", prima del 2020 non vedremo stoffe che si rammendano da sole, ma, da quando siamo scesi dagli alberi ed emersi dalle paludi in cui vivevamo cinque milioni di anni fa, possediamo ginocchia che si riparano da sole.

Perciò i calzoncini corti erano giustificati. Benché tutti quanti fossimo tenuti a indossarli, su di me facevano un effetto piuttosto ridicolo. Ero imbarazzato non tanto perché sovrastassi di parecchio i miei compagni di scuola, quanto perché sovrastavo di qualcosa i miei insegnanti. E avevo le gambone scoperte. Mia madre si decise ad andare dal preside e a supplicarlo di fare un'eccezione per me e lasciarmi portare i pantaloni lunghi. Tuttavia Jack Higgs, persona sempre molto equa ma ferma, disse di no: di lì a soli sei mesi sarei andato alle superiori, dove, con tutti gli altri, avrei potuto indossare pantaloni lunghi. Bastava aspettare quella data.

Alla fine mi congedai dalla preparatoria. Due settimane prima che iniziasse il trimestre autunnale, mia madre mi portò al negozio della scuola per comprarmi - finalmente - la divisa con i pantaloni lunghi. E sapete che cosa dissero i commessi? Che non c'era una taglia abbastanza grande per me. Lasciate che lo ripeta, affinché l'inaudito orrore della situazione si faccia strada nella mente di voi lettori come si fece strada nella mia quel giorno d'estate del 1964 in cui, impalato davanti al banco del negozio, accoglievo la notizia. Son avevano nessuna divisa scolastica con calzoni abbastanza lunghi per me. Avrebbero dovuto confezionarmi un capo apposta e sarebbero occorse sei settimane. Sei settimane. Sei meno due faceva, come ci avevano con tanta cura e meticolosità insegnato a scuola, quattro. Ciò significava che per quattro intere settimane del trimestre autunnale sarei stato l'unico ragazzo della scuola a indossare i calzoncini corti. Nei quindici giorni successivi giocai in mezzo al traffico, maneggiai incautamente coltelli da cucina, mi avvicinai molto al treno sulle banchine della stazione, ma purtroppo ebbi una fortuna sfacciata e mi toccò affrontare il mio destino. Quattro settimane dell'imbarazzo e dell'umiliazione più grandi che abbia conosciuto un uomo, o meglio che abbia conosciuto la creatura vivente in assoluto più incline a sentirsi imbarazzata e umiliata: il dodicenne cresciuto troppo in fretta. Tutti abbiamo fatto quei sogni angoscianti in cui scopriamo all'improvviso di essere nudi come vermi in mezzo a una strada affollata. Credetemi: l'esperienza dei pantaloncini fu peggio, e non fu un sogno.

La storia finì bene, nel senso che un mese dopo ebbi naturalmente i pantaloni lunghi e fui riammesso nel consorzio civile. Ma, vi assicuro, porto ancora le stigmate dentro. E benché cerchi di starmene a cavalcioni del mondo come un Colosso, scrivendo bestseller e… (e basta: scrivere bestseller è l'unica cosa che tento di fare), se a volte appaio, emotivamente parlando, un povero storpio ingobbito, disadattato,

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isolato e sfigato (penso qui soprattutto alle domeniche mattina di febbraio), la colpa è tutta di quelle quattro settimane di settembre del 1964 in cui indossai pantaloni corti tra gente che li aveva lunghi.

Y

"Perché" è l'unica parola così perturbante da averci indotto a dedicarle una lettera dell'alfabeto.5

L'alfabeto non dice "A B C D Che cosa? Quando? Co* me?", ma "V W X Perché? Z".

"Perché?" è sempre la domanda cui è più difficile rispondere. Sappiamo che cosa dire quando qualcuno ci chiede: «Che ora è?» o: «Quando avvenne la battaglia del 1066?» o: «Come mai le cinture di sicurezza diventano così strette quando freni, babbo?». Le risposte sono facili e sono, rispettivamente: «Le sette e mezza di sera», «Alle dieci e un quarto di mattina» e «Non fare domande stupide».

Ma quando sentiamo quella parola, "Perché?", capiamo di trovarci davanti ad alcune delle principali domande senza risposta, come: «Perché siamo nati?», «Perché moriamo?», «Perché passiamo tanta parte del tempo che intercorre tra una cosa e l'altra a ricevere stampe pubblicitarie?».

O come: «Vieni a letto con me?» «Perché?» C'è sempre stata un'unica buona risposta alla domanda "Perché?" e forse, visto che

Io spazio c'è, dovremmo infilare anche quella nell'alfabeto. Non è detto che "Perché?" sia l'ultima parola, tanto più che non è nemmeno l'ultima lettera. Come sarebbe un alfabeto che non finisse con "V W X Perché? Z", ma con "V W X Perché no?"

Non facciamo domande stupide.

Da Hackney's Alphabet (Faber & Faber)

All'inizio The Meaning of Life6 fu un compito di inglese che dovevo fare per la scuola; poi, quindici anni dopo, John Lloyd e io lo trasformammo in un gioco. Per un intero pomeriggio eravamo rimasti seduti con alcuni amici in una taverna greca a bere vino resinato e giocare a sciarada e, alla fine, sentimmo il bisogno di trovare un gioco che si potesse fare senza doversi muovere tanto.

Il gioco era semplice (doveva esserlo, in quanto il pomeriggio era troppo avanzato per reggere a regole complicate): qualcuno doveva dire il nome di una città e qualcun altro doveva spiegare che cosa significasse. Insomma che impressione si collegasse a quel nome.

Presto scoprimmo che c'erano infinite esperienze, sensazioni e situazioni che tutti vivevamo e riconoscevamo, ma che non erano propriamente definite in quanto non 5 In inglese, la lettera "y" si pronuncia nello stesso modo (uai) di why, "perché". [N.d.T.] 6 Il libro The Meaning of Liff il suo seguito, The Deeper Meaning of Liff, sono stati scritti da Douglas Adams e John Lloyd. [N.d.C.]

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c'era una parola che le definisse. Quando diciamo: «Ti è mai capitato di trovarti in una situazione in cui…» o: «Hai presente quello che si prova quando…» o ancora: «Credevo di essere il solo a sentire che…», diamo voce a quel tipo di vissuto senza nome. Situazioni del genere hanno bisogno solo di un vocabolo per essere chiaramente definite e riconosciute.

Per esempio: l'emozione vagamente spiacevole che si prova quando ci si siede su una sedia che è stata scaldata dal sedere di qualcun altro è altrettanto concreta di quella che ci assale quando un grande elefante solitario sbuca all'improvviso dalla boscaglia e ci carica, ma finora solo la seconda era stata definita da una parola. Ora invece esistono per tutte e due i termini giusti: il primo è "straniaculosità", il secondo è, naturalmente, "paura".

A mano a mano che raccoglievamo sempre più vocaboli e concetti, ci rendemmo conto di quanto arbitrariamente selettiva sia un'opera come l'Oxford English Dictionary. Non riconosce intere carrettate di esperienze umane, come quella di ritrovarsi in cucina a chiedersi per qual motivo si è andati in cucina. Tutti la conoscono, ma poiché non c'è - o non c'era - un vocabolo per descriverla, tutti pensano di essere i soli a viverla e si sentono quindi più stupidi degli altri. Dà sicurezza constatare che gli altri sono stupidi come noi e che, quando ci ritroviamo in cucina a chiederci cosa ci siamo venuti a fare, semplicemente "automatonzoliamo".

A poco a poco, pile di schede che riportavano questi vocaboli si accumularono nell'ultimo cassetto della scrivania di John Lloyd e chiunque avesse sentito parlare della cosa aggiungeva concetti propri.

Le definizioni riemersero dal buio del cassetto quando John Lloyd cominciò a lavorare a Not 19827. Non sapendo che cosa mettere in fondo alle pagine (e spesso nemmeno in cima o al centro), inserì i vocaboli nel volume spiegando che facevano parte dell'Oxtail English Dictionary. Le definizioni sono diventate presto il pezzo forte di Not 1982 e il successo dell'idea su piccola scala ci ha indotti a dedicare un intero libro all'argomento. Ecco qui dunque The Meaning of Liff, prodotto di un'intera vita passata a studiare e analizzare puntigliosamente il comportamento umano.

"Pan Promotion News 54" ottobre 1983

Il mio naso

Mia madre ha il naso lungo, mio padre ha il naso grosso e io, che ho preso da entrambi, ho il naso lungo e grosso. Ho conosciuto un'unica persona con il naso molto più grande del mio: un insegnante della scuola preparatoria che aveva anche due occhi piccolissimi, un mento quasi inesistente e un corpo scheletrico. Sembrava un incrocio tra un fenicottero e un vecchio attrezzo agricolo e camminava malfermo

7 Not 1982 (1981) e Not 1983 (1982) furono due dei libri usciti sull'onda del successo del serial televisivo satirico della Bbc Not The 9 O'clock News (1979-1982), ai cui testi Douglas Adams contribuì e il cui cast era composto da Griff Rhys Jones, Pamela Stephenson, Mel Smith e Rowan Atkinson, il futuro Mr Bean. Atkinson vinse il British Academy Award per la sua recitazione e il programma vinse l'International Emmy Award e il British Academy Award per il 1980. [N.d.T.]

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quando il vento tirava di traverso. Cercava, inoltre, di farsi vedere meno che poteva. Anch'io avrei voluto farmi vedere poco. Quando ero bambino, mi sfotterono senza

pietà per anni a causa del mio naso, finché un giorno ebbi occasione di guardarmi di profilo in una specchiera ad angolo e pensai che in effetti il mio naso faceva ridere. Da quel momento la gente smise di sfottermi senza pietà per il naso e cominciò a sfottermi senza pietà perché usavo espressioni come "in effetti"; e questo tipo di sfottò non è mai cessato.

Una delle caratteristiche più curiose del mio naso è di non far entrare l'aria. È un fenomeno difficile da capire o perfino da credere. Il problema risale a molto tempo fa, a quando ero piccolo e vivevo in casa di mia nonna. La nonna era la rappresentante locale della Reale società per la protezione degli animali e così dava costantemente asilo a un sacco di cani e gatti malconci e feriti, e a volte anche a tassi, ermellini e piccioni.

Le bestie, che in alcuni casi avevano subito danni fisici, in altri danni psicologici, procurarono a me un grave danno psicofisico, riducendomi l'arco dell'attenzione. Poiché l'aria era satura di polvere e peli animali, avevo il naso continuamente infiammato e gocciolante e ogni quindici secondi starnutivo. Qualunque pensiero non riuscissi a sviluppare, analizzare e condurre a conclusione logica nel giro di quindici secondi mi veniva espulso a viva forza dalla testa assieme a un'ingente quantità di muco.

Qualcuno ha osservato che tendo a pensare e scrivere con frasi di una sola riga e, se la critica risultasse vera, l'origine della tendenza risalirebbe all'epoca in cui vivevo da mia nonna.

Fuggii da casa della nonna andando in collegio, dove, per la prima volta nella vita, riuscii a respirare. Quell'inedita, beata libertà continuò per due intere settimane, fino a quando non mi costrinsero a imparare a giocare a rugby. Nei primi cinque minuti della mia prima partita riuscii a rompermi il naso sbattendo contro il mio stesso ginocchio, un'impresa che certo non a tutti è dato compiere, ma che ebbe su di me lo stesso effetto che hanno su intere civiltà i grandi sommovimenti geologici nei romanzi di Rider Haggard: mi isolò per sempre dal mondo esterno.

Nel corso della vita ho consentito a diversi otorinolaringoiatri di effettuare importanti spedizioni speleologiche nelle mie cavità nasali, ma in genere li ho visti tornare indietro sconcertati. Quelli che non sono tornati indietro sconcertati non sono tornati indietro del tutto e ora, quindi, fanno parte del problema anziché della sua soluzione.

L'unica cosa che mi abbia mai interessato della cocaina era il suo più temuto effetto collaterale: corrodere l'intero setto nasale. L'idea che la polvere bianca potesse realmente scavarsi un passaggio nel mio setto mi faceva venire la tentazione di infilarmela a secchiate su per il naso e di lasciarle corrodere tutto quello che voleva. Ma fui dissuaso dal tentare quando vidi che gli amici abituati a infilarsela davvero a secchiate su per il naso avevano finito per avere un arco dell'attenzione inferiore al mio.

Sono quindi ormai quasi rassegnato a portarmi in giro un naso decorativo anziché funzionale. Come lo Hubble Space Telescope, rappresenta un grande successo dell'ingegneria, ma in pratica non serve a nulla, se non a suscitare in chi lo guarda

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qualche facile risata.

"Esquire" estate 1991

Il libro che mi ha cambiato

1. Titolo: L'orologiaio cieco

2. Autore: Richard Dawkins

3. Quando l'ha letto la prima volta? Quando uscì, se non sbaglio nel 1990.

4. Perché l'ha colpita tanto? È stato come se avessero aperto porta e finestre di una stanza buia e soffocante.

Dawkins fa capire ai lettori, soprattutto a quelli di formazione umanistica, con che guazzabuglio di idee predigerite siano abituati a convivere. Noi umanisti comprendiamo "abbastanza " l'evoluzione, però in cuor nostro siamo convinti vi sia qualcosa che va oltre gli assunti dei libri di biologia. Alcuni di noi pensano addirittura che vi sia "un qualche dio" responsabile dei particolari che suonano più improbabili. Dawkins inonda la stanza di tanta luce e tanta aria fresca, dimostrando che nella struttura dell'evoluzione vi è abbagliante chiarezza; una chiarezza che, nel momento in cui di colpo la vediamo, ci lascia senza fiato. Se abbiamo la sfortuna di non vederla, non avremo mai la benché minima idea di chi siamo e da dove veniamo.

5. Lo ha riletto e, se sì, quante volte? L'ho riletto una o due volte. Ma spesso lo prendo in mano e lo consulto.

6. Ne ricava la stessa impressione che ne ricavò alla prima lettura? Sì. Il funzionamento dell'evoluzione è talmente contrario alle ipotesi sul mondo

suggeriteci in genere dall'intuizione, che ogni volta riprovo lo stupore della comprensione.

7. Consiglia anche agli altri di leggerlo o lo considera una sua passione privata? Lo raccomando a tutti, di cuore.

Maggie e Trudie

Premetto subito che non intrattengo alcuna relazione formale con un cane. Non do né da mangiare né da dormire a un cane; non lo coccolo, non gli trovo una pensione quando sono in viaggio, non lo spulcio e, quando mi salta il ticchio, non prendo appuntamento con il veterinario perché gli asporti organi interni che non mi vanno più a genio. In breve, non possiedo un cane.

Ho però una relazione clandestina e illecita con un cane, o meglio due cagne, e

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questa relazione mi ha indotto a capire abbastanza bene cosa significhi essere l'amante dì un uomo sposato.

Le cagne non vivono nella casa accanto. Non vivono nemmeno nella stessa… stavo per dire "strada" per scherzare ancora un po', ma sarà meglio che dica subito la verità: vivono a Santa Fé, nel New Mexico, un posto splendido per un cane e, anzi, per chiunque. Se non siete mai stati o non avete mai passato un periodo a Santa Fé, New Mexico, lasciatevi dire che siete dei completi idioti. Anch'io ero un completo idiota fino a un anno fa, quando, per una serie di circostanze che non sto qui a spiegare, presi in prestito una casa nel deserto a nord di Santa Fé per potere scrivere in santa pace una sceneggiatura. Per darvi un'idea di che tipo di posto sia Santa Fé, potrei menarla con la bellezza del deserto, dell'altitudine, dei gioielli d'argento e turchesi che vendono gli indiani, ma preferisco di gran lunga descrivere un segnale stradale che si incontra sull'autostrada proveniente da Albuquerque. 11 segnale dice a grandi lettere: RAFFICHE DI VENTO e sotto, a lettere più piccole: A VOLTE

ESISTONO. Non conoscevo i miei vicini. Abitavano a mezzo miglio di distanza sopra la

successiva cresta sabbiosa, ma appena presi l'abitudine di uscire la mattina per la mia corsa, il mio jogging o la mia passeggiata quotidiani, conobbi le loro cagne, le quali si mostrarono subito così incredibilmente felici di vedermi che mi chiesi se non ritenessero di avermi conosciuto in una vita precedente (Shirley MacLaine abitava nei pressi e forse, grazie alla mera vicinanza, avevano assorbito da lei idee strambe).

Si chiamavano Maggie e Truche. Trudie era una cagna dall'aria molto stupida, un grosso barbone nero che pareva animato da Walt Disney, perché procedeva a balzellone con le grandi orecchie flosce ciondolanti ai lati del muso e la coda "potata" ad arte. Il manto di fitti riccioli neri accresceva l'effetto Disney, dando l'impressione che fosse del tutto priva di malizia. Ogni mattina mi dimostrava di essere infinitamente felice di vedermi muovendosi in un modo che avevo sempre definito "prillare" e che ho poi scoperto chiamarsi "ruzzare". (Mi sono accolto da poco del mio errore e ora dovrò riproiettarmi nella mente intere sezioni del film della mia vita per verificare quali collusioni e collisioni abbia provocato il qui pro quo.) "Ruzzare" è il gioco che fanno gli animali quando saltano in alto con le quattro zampe. Il mio consiglio: non morite prima di avere visto un grosso barbone nero ruzzare nella neve.

Maggie, invece, esprimeva ogni mattina la folle gioia di vedermi mordendo sul collo Trudie. In quello stesso modo esprimeva la grande euforia per la prospettiva di fare una passeggiata, la contentezza di stare facendo una passeggiata, il desiderio di entrare in casa e la voglia di uscire di casa. In poche parole, mordere continuamente e giocosamente Trudie sul collo era il suo modo di vivere.

Maggie era un bell'animale. Non era un barbone; avevo sulla punta della lingua la sua razza, ma il nome continuava a sfuggirmi. Non sono molto bravo a riconoscere le razze canine, ma Maggie apparteneva a una delle più comuni e apprezzate: era un grande - beagle? - forse da riporto, con un lucido manto nero e fulvo e un nome classico… Quale? Labrador? Spaniel? Cane da alce? Samoiedo? Quando ritenni di conoscerlo abbastanza bene da ammettere con lui di ignorare la razza comunissima e classicissima di Maggie, chiesi al mio amico Michael, produttore cinematografico, di svelarmi il mistero.

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«Maggie» disse con la parlata lenta e strascicata del texano «è un bastardo.» Così ogni mattina ci incamminavamo insieme, noi tre: il corpulento scrittore

inglese, Trudie la barboncina e Maggie la bastardina. Che facessi corsa, jogging o passeggiata lungo l'ampia strada di terra battuta che si stendeva tra aride dune rosse, Trudie ruzzava felice con le orecchie flosce e Maggie le zompava allegra alle spalle mordendola sul collo. Trudie sopportava con infinita pazienza e longanimità i continui morsi, ma ogni tanto, quando meno te lo aspettavi, si stancava e, compiuto un repentino dietrofront a mezz'aria, atterrava con le quattro zampe in faccia a Maggie e la fulminava con un'occhiata. Allora Maggie si accoccolava di colpo e cominciava a mordicchiarsi piano la zampa posteriore destra come se avesse perso ogni interesse per la compagna.

Dopo poco ricominciavano a guizzare e piroettare e saltare rincorrendosi e mordendosi tra le dune, l'erba e gli arbusti stentati. Ogni tanto si fermavano all'improvviso senza un motivo apparente, quasi avessero entrambe esaurito le mosse, e per qualche tempo fissavano un punto a media distanza con aria perplessa; poi riprendevano a ruzzare.

Che ruolo svolgevo io in tutto questo? A dir la verità, nessuno. Per l'intera durata della passeggiata - venti o trenta minuti - le cagne mi ignoravano del tutto. Mi andava benissimo, naturalmente, non m'importava; però mi lasciava alquanto interdetto quell'atteggiamento, visto che ogni mattina venivano a guaire e a grattare alla porta e alle finestre di casa finché non mi alzavo e non le portavo a fare una passeggiata. Se qualcosa impediva lo svolgersi di quel rituale, se per esempio dovevo andare in città, vedere qualcuno o volare in Inghilterra, si sentivano perse e tristissime. Benché non mi degnassero di un'occhiata passeggiando con me, non potevano passeggiare senza di me. Ciò dimostrava che quelle cagne non mie avevano un temperamento profondamente filosofico: avevano infatti capito che dovevo essere presente perché mi potessero trattare da assente. Non si può ignorare qualcuno che non c'è, perché non è questo il significato del verbo "ignorare".

Altre profondità del loro pensiero mi si rivelarono quando Victoria, la ragazza di Michael, raccontò un episodio successo durante una sua visita da me. Aveva provato a tirare una palla a Maggie e Trudie perché la andassero a prendere, ma le due cagne avevano guardato impassibili e immobili la palla salire in cielo, cadere, rotolare sul terreno e infine fermarsi. Il messaggio che le avevano lanciato con quel comportamento, disse Victoria, era: "Noi non facciamo queste cose. Noi ci trastulliamo con gli scrittori".

Ed era vero. Si trastullavano con me ogni giorno per tutto il giorno. Ma, come gli scrittori, i cani che si trastullano con gli scrittori non amano la scrittura vera e propria. Così, durante la giornata, ciondolavano ai miei piedi e, appena digitavo sulla tastiera, mi spostavano il gomito con il muso, mi appoggiavano il mento sul grembo e mi guardavano con infinita tristezza nella speranza che, colto da illuminazione, le portassi a fare la passeggiata durante la quale mi ignoravano.

Poi, la sera, trottavano a casa, la vera casa dove andavano a mangiare, bere e dormire. Mi sembrava un ottimo ménage, perché io avevo il piacere - notevole della loro compagnia senza essere minimamente responsabile della loro cura. E continuò a esserlo, un ottimo ménage, fino al giorno in cui, di prima mattina, Maggie si presentò

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arzilla, pimpante e ansiosa di ignorarmi durante l'imminente passeggiata, ma senza Trudie accanto. Trudie non c'era, non era con lei. Sbalordito, mi chiesi che cosa le fosse accaduto, ma non avevo modo di scoprirlo, perché la cagna non era mia. Era forse stata investita da un camion? Giaceva sanguinante in qualche punto della strada? Maggie d'un tratto mi pareva inquieta e preoccupata. Sapeva di sicuro dove fosse Trudie e che cosa le era successo; avrei fatto bene a seguirla come fosse stata Lassie. Misi le scarpe da ginnastica e corsi fuori. Percorremmo parecchi chilometri di deserto alla ricerca di Trudie, compiendo vari giri tortuosi. Alla fine mi resi conto che Maggie non stava affatto cercando Trudie, ma, come sempre, mi ignorava, anche se, seguendola per tutto il tempo invece di camminare per conto mio, le avevo reso la strategia più difficile. Così alla fine tornai a casa e lei si accovacciò imbronciata ai miei piedi. Non potevo fare niente: non potevo telefonare a nessuno per chiedere spiegazioni, perché Trudie non era mia. Potevo solo, come un amante, sedere angosciato in silenzio. Mi passò perfino la voglia di mangiare e quando, verso sera, Maggie si fu dileguata, dormii male.

La mattina successiva tornarono. Tutte e due. Solo che era successa una cosa terribile: Trudie era stata portata dal tosatore. Era rasata quasi a zero dappertutto tranne che in testa, sulle orecchie e sulla coda, dove restavano tre ciuffi. Ero furioso, perché aveva un'aria estremamente ridicola. Quando uscimmo a passeggiare ero francamente imbarazzato; non avrebbe avuto quell'aspetto se fosse stata la mia cagna.

Qualche giorno dopo dovetti recarmi in Inghilterra. Cercai di spiegarlo a Trudie e Maggie, di prepararle all'evento, ma si mostrarono refrattarie. La mattina in cui partii e mi videro infilare le valigie nel portabagagli del fuoristrada, girarono alla larga, ignorandomi completamente e mostrandosi interessatissime a un altro cane. Volai a casa con in cuore un senso di perplessità.

Sei settimane dopo tornai per lavorare a una seconda stesura. Non potevo andare a prendere Maggie e Trudie a casa loro, ma gironzolai per il mio cortile emettendo i suoni acuti che i cani sono soliti notare. Recepirono subito il messaggio e attraversarono di corsa il deserto innevato (eravamo adesso a metà gennaio) per vedermi. Quando arrivarono erano così entusiaste che si lanciarono non so quante volte contro il muro; poi però non potemmo festeggiare in altro modo che andando a fare un sano, frizzante ignoramus in mezzo alla neve. Trudie ruzzava, Maggie la mordeva sul collo, io camminavo. Tre settimane dopo partii di nuovo. Prima o poi, nel corso dell'anno, le rivedrò, ma mi rendo conto di essere solo l'Altro Padrone. Prima o poi dovrò avere il coraggio di intrecciare una relazione con un cane tutto mio.

Animal Passions, a cura di Alan Coren Robson Books, settembre 1994

Le regole

Nella vecchia Unione Sovietica la gente diceva che qualunque cosa non fosse proibita era obbligatoria: il problema era ricordarsi quali cose appartenessero alla

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prima e quali alla seconda categoria. In Occidente ci siamo sempre vantati di avere una visione del mondo più rilassata e più ispirata al buon senso, ma abbiamo dimenticato che anche il buon senso è spesso arbitrario. Per questo è necessario imparare le regole, specie se si viaggia.

Qualche anno fa, per l'esattezza all'inizio del 1994, ebbi un piccolo "diverbio" con la polizia. Ero in macchina con mia moglie, che era incinta di sei mesi, e stavo percorrendo la Westway in direzione Londra centro, quando superai un'auto spostandomi nella corsia più interna. Devo dire che in quel contesto non fu un atto folle e sconsiderato, perché il traffico fluiva così, con veicoli che facevano la stessa cosa che avevo fatto io; ma all'improvviso sbucò un'auto della polizia che mi segnalò di fermarmi. Gli agenti mi invitarono a seguirli lungo l'autostrada e - inorridisco ancora al ricordo - mi fecero fermare per discutere del mio crimine efferato in curva su un raccordo. Non credevo ai miei occhi; per giunta, furgoni bianchi sfrecciavano lungo il raccordo, certo senza immaginare di trovarsi un paio di auto parcheggiate in curva. Mia moglie incinta e io rischiavamo di venire tamponati da un momento all'altro. Era una situazione folle e terrificante e lo feci notare all'agente della polizia stradale, il quale, come succede spesso ai poliziotti, la pensava in tutt'altro modo.

Egli pensava che il sorpasso dal lato interno fosse di per sé pericoloso. Perché? Perché la legge diceva che lo era. Essere parcheggiati sulla curva cieca di un raccordo autostradale non era invece pericoloso, perché era stata la polizia stessa a farmi fermare e quindi la nostra condizione era legittima nonché (qui il ragionamento si faceva nebuloso) sicura.

Per parte mia, ammisi di avere compiuto (senza veri pericoli) una manovra che era vietata dalle leggi d'Inghilterra, ma sottolineai che stare parcheggiati sulla curva cieca di un raccordo autostradale era molto rischioso a causa delle incontrovertibili leggi fisiche dell'universo reale.

L'agente di polizia replicò che non mi trovavo nell'universo, ma in Inghilterra, un'osservazione che mi era già stata fatta altre volte. Rinunciai a cercare di illustrargli il mio punto di vista e accondiscesi a tutto quanto diceva per potermi cavare di lì.

Si dà il caso che avessi superato con tanta souplesse sulla corsia interna perché mi ero abituato a guidare negli Stati Uniti, dove tutti, per proprio diritto costituzionale, guidano quotidianamente su qualunque dannata corsia preferiscono. Per la legge americana, sorpassare dalla parte interna (ove lo permettano le condizioni del traffico) è perfettamente legittimo, perfettamente normale e, quindi, perfettamente sicuro.

Vi dirò invece che cosa, negli Stati Uniti, non è sicuro. Una volta che mi trovavo a San Francisco parcheggiai nell'unico spazio

disponibile, situato dall'altro lato della strada. E la legge mi piombò addosso come un falco.

Mi rendevo conto di quanto fosse pericolosa la manovra che avevo fatto?, mi apostrofò. Io la guardai con aria vacua e chiesi che cos'avessi fatto di male.

Avevo, disse la legge, parcheggiato nel senso contrario al flusso del traffico. Perplesso, guardai a destra e sinistra la strada vuota. Quale traffico?, domandai. Il traffico che ci sarebbe stato se ci fosse stato un traffico, rispose. Poiché era una risposta troppo metafisica perfino per uno come me, spiegai un po'

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goffamente che in Inghilterra parcheggiamo ovunque troviamo un parcheggio libero e non siamo così pignoli in merito al lato della strada. Mi guardò sbigottito, come fossi fortunato a essere uscito vivo da un paese di parcheggiatori così folli e dissennati, e mi appioppò seduta stante una multa per divieto di sosta. Era chiaro che avrebbe preferito deportarmi prima che le mie idee sovversive provocassero caos e anarchia in strade tranquille dove al massimo si assisteva ogni tanto a qualche sparatoria con fucili da assalto, fucili che, come sappiamo, negli Stati Uniti sono perfettamente legali e senza i quali il paese sarebbe infestato da branchi di cervi, arroganti funzionari di governo e furfanteschi importatori di tè britannici.

Il mio defunto amico Graham Chapman, che anche nei momenti migliori era un guidatore piuttosto eccentrico, sfruttava l'incompatibilità dei codici dì guida inglese e americano portandosi sempre dietro sia la patente britannica sia la patente californiana. Ogni volta che veniva fermato negli Stati Uniti tirava fuori la patente britannica e ogni volta che veniva fermato in Gran Bretagna tirava fuori quella americana. Inoltre diceva che stava andando all'aeroporto a prendere l'aereo per tornare nel suo paese, perché si era accorto che, sentendo quella notizia, la polizia tirava un sospiro di sollievo e lo lasciava proseguire senza fargli la multa.

Ma benché i qui pro quo tra europei e americani siano frequenti, decenni di film e telefilm in comune hanno fatto sì che a poco a poco ci abituassimo gli uni agli altri. Al di fuori del mondo occidentale è difficile intuire le regole. In Cina, per esempio, il poeta James Fenton fu fermato perché aveva il fanale della bicicletta acceso. «Che cosa succederebbe se tutti facessero come lei?» gli chiese severamente l'agente della polizia stradale.

A proposito di cose assolutamente proibite in un Paese e del tutto lecite in un altro, l'esempio sommo, cui faccio ancora fatica a credere (sebbene mia cugina mi abbia giurato che è vero) riguarda il Giappone. Mia cugina, che ha vissuto parecchi anni a Tokio, mi ha raccontato che a un uomo incriminato per avere invaso con la macchina il marciapiedi, distrutto la vetrina di un negozio e investito e ucciso due pedoni, era stato concesso di presentare come attenuante lo stato di completa ubriachezza.

Quali regole bisogna conoscere quando ci si trasferisce da un paese all'altro? Quali sono le cose obbligatorie nell'uno e proibite nell'altro? Non ce lo dice il buon senso: ce le dobbiamo raccontare a vicenda.

"The Independent on Sunday" gennaio 2000

I Procol Harum al Barbican Presentazione

Signore e signori, chi mi conosce sa che è per me un immenso piacere trovarmi qui stasera a

presentare questa band. Sono un accanito fan di Gary Brooker e dei Procol Harum da trent'anni; da quando, cioè, stupirono il mondo sbucando fuori dal nulla per deliziarci con uno dei più grandi successi della storia della musica. Stupirono una seconda volta il mondo quando si seppe che, diversamente da come tutti credevano, non venivano

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da Detroit, ma dal Southend. E lo stupirono una terza affermando, a quattro mesi dall'uscita del 45 giri, di non avere ancora scritto la musica dell'attesissimo ellepì. Non parliamo poi della furbizia e dell'inarrivabile abilità commerciale che li indusse a escludere dal loro primo album, Procol Harum, proprio A Whiter Shade of Pale. Non fecero mai assolutamente nulla di facile, come sa chiunque abbia provato a seguire gli accordi di A Rum Tale.

Ebbene, i Procol Harum hanno avuto un effetto molto, molto particolare sulla mia vita e lo hanno avuto attraverso una canzone che penso alcuni di voi, qui, conoscano: Grand Hotel, Quando scrivo tengo di solito una musica di sottofondo e in una specifica occasione misi su Grand Hotel. È un pezzo che mi ha sempre affascinato, perché il testo di Keith Reid parla di un bell'albergo pieno di argenti e sontuosi lampadari, e tuttavia in quel contesto, proprio nel cuore della melodia, si sente all'improvviso un grande climax orchestrale che arriva repentino dal nulla e sembra non riguardare nulla. Mi chiedevo che cosa fosse quell'imponente evento strumentale e alla fine mi dissi: "Pare quasi che stiano dando un fantastico spettacolo di varietà, qualcosa di colossale e straordinario, come per celebrare, che so, la fine dell'universo". E da lì nacque l'idea del Ristorante al termine dell'Universo. L'idea mi è venuta da Grand Hotel.

Ma adesso basta chiacchiere: ci aspetta una bellissima serata. Non c'è nessuna band come i Procol Harum e stasera sono lieto di annunciare che saranno accompagnati dalla London Symphony Orchestra. Vi prego quindi di dare il benvenuto alla London Symphony Orchestra, al Chameleon Arts Chorus, ai Procol Harum, al direttore d'orchestra, il grande Nicholas Dodds, e al gentiluomo-letterato-musicista e tuttora contrammiraglio Gary Brooker8. Grazie infinite.

Dal concerto "Procol Harum and London Svmphony Orchestra" 9 febbraio 1996

Cure per il doposbronza

Che cosa faremo tutti sabato prossimo? Non i Buoni Propositi per l'Anno Nuovo, se ci resta un briciolo di cervello: di solito falliscono già ai primissimi giorni dell'anno nuovo e non credo che la gente vorrà accentuare la propria aura di inanità facendo dei Buoni Propositi per il Nuovo Millennio, destinati a fallire, relativamente parlando, mille volte prima del solito.

In realtà, se mi è consentito fare una piccola digressione (e se non volete che la faccia forse vi accorgerete di stare leggendo l'articolo sbagliato), è probabile che non riusciamo a mantenere questi Propositi per un preciso motivo, a parte quello - evidente - dell'abietta debolezza della volontà: non ci ricordiamo quali siano. Semplice. E se per caso li abbiamo scritti nero su bianco, non ci ricordiamo dove abbiamo messo il foglietto. Curiosamente, capita che il foglietto salti fuori proprio un anno dopo, quando cerchiamo in giro un pezzo di carta su cui appuntare la vana

8 In origine Gary Brooker, che si presentava sul palco definendosi "contrammiraglio con il suo equipaggio", indossava la divisa da ufficiale di marina; ma al Barbican era in borghese. [N.d.T.]

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volontà di dare alla nostra vita una nuova impostazione per l'anno successivo; e non risulta essere una coincidenza.

A proposito, immagino di non essere l'unico a trovare il verbo "risultare" incredibilmente utile. Ci permette di collegare in maniera rapida, concisa e autorevole frasi che altrimenti non avrebbero la minima correlazione, e di farlo senza disturbarci a citare fonti documentali. È un verbo fantastico, molto migliore di vecchie espressioni come "Ho letto da qualche parte che…" o come la vile "Dicono che…", perché fa capire non solo che l'esile leggenda metropolitana che stiamo divulgando si basa su una recentissima, rivoluzionaria ricerca, ma anche che in tale ricerca siamo attivamente coinvolti. E questo, ripeto, senza alcun bisogno di tirar fuori la fonte. Ma torniamo a bomba.

Il cervello, pare, è influenzato dall'alcol. Questo lo sappiamo e chi non lo sa ancora sta per scoprirlo. Ma vi sono vari gradi di influenza e qui sta il problema. Il cervello (risulta) organizza i ricordi (risulta) come fossero ologrammi. Per recuperare un'immagine, bisogna ricreare le stesse esatte condizioni in cui fu fissata. Nel caso dell'ologramma è la luce laser a recuperare l'immagine; nel caso del cervello (risulta) è o può essere la quantità di alcol che sciaguatta al suo interno. Le cose che ci accadono o che, fatto abbastanza inquietante, noi stessi diciamo o facciamo sotto l'influsso dell'alcol sono riportate alla memoria solo quando ci troviamo di nuovo sotto l'influsso di quella stessa, esatta quantità di alcol. Tali ricordi non sono assolutamente alla portata della normale mente sobria. Ecco perché, dopo qualche sera passata sconsideratamente a bere in un locale, siamo gli unici a non renderci conto di avere rivolto un'osservazione stupida e offensiva a una persona al cui affetto teniamo molto o anche solo un poco. Soltanto a distanza di settimane, mesi o, nel caso della sera di San Silvestro, un anno il ricordo riaffiora alla coscienza con un'antiepifania che ci fa star male e soltanto allora capiamo perché da tanto tempo la gente ci eviti o ci guardi con l'occhio vitreo. Spesso, quando questo accade, esclamiamo tra noi: "Cristodiddio!" e cerchiamo una bevanda molto alcolica, la quale ci conduce al successivo stadio di ubriachezza, dove nuovi shock stanno in agguato tra i piaceri della bevuta.

Lo stesso vale in senso opposto: vi sono ricordi che si possono recuperare solo tornando nello stesso esatto stato di disidratazione in cui si era al momento in cui si verificò l'episodio originario. Da qui il problema dei Buoni Propositi per l'Anno Nuovo; non rammentiamo quali fossero né su quale foglietto li abbiamo scritti, finché non arriviamo allo stesso esatto momento dell'anno dopo e ci ricordiamo con orrore di non essere riusciti a mantenerli per più di sette minuti.

Come risolvere dunque questo dilemma che si ripropone ogni volta? Con una rigorosa autodisciplina e un regime monastico, naturalmente: mangiare verdure cotte, bere acqua e niente bevande alcoliche, fare lunghe camminate e ginnastica quotidiana, andare a letto presto, alzarsi presto la mattina, usare qualche olio essenziale o cose del genere. Ma, parlando seriamente, la vigilia dell'anno nuovo vorremmo soprattutto una cosa: una ricetta o un rimedio per il mal di testa del doposbronza che non consista nel tuffarsi nella Serpentina ghiacciata.9 Purtroppo non

9 Il laghetto di Hyde Park, a Londra. [N.d.T.]

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riusciamo mai a ricordare la cura giusta (né il luogo in cui cercarla) nel momento in cui ne abbiamo bisogno. E il motivo per cui non la ricordiamo quando ne abbiamo bisogno è che ce ne hanno parlato quando non ne avevamo bisogno, il che, per i motivi sopra riportati, non serve a nulla. Nauseanti immagini di rossi d'uovo e tabasco ci sciaguattano nel cervello, ma non siamo assolutamente in grado di organizzare le idee. Ecco perché è necessario che le organizziamo, con urgenza, adesso, finché siamo in tempo. Questo è quindi un appello a chiunque conosca metodi sani ed efficaci (che non comportino la rimozione chirurgica della materia grigia) per snebbiare il cervello il primo dell'anno. Chi sa, è pregato di comunicare la ricetta a www.h2g2.com. E auguri di un ottimo millennio a voi e ai vostri discendenti.

"The Independent on Sunday" dicembre 1999

I miei liquori preferiti

Amo tutto del whisky. Amo la sua estetica: il ricco colore dorato che ha nella bottiglia. Amo le etichette sullo scaffale: quei kilt e quelle spade scozzesi e quelle pecore un po' sfocate. Amo l'idea che, diversamente da bevande come la vodka di Warrington,10 trasudi la storia e la cultura del luogo in cui è distillato. Amo, soprattutto, l'aroma affumicato e torboso del puro malto. In sintesi, c'è un'unica cosa che non amo del whisky: se ne prendo anche solo un goccio, mi viene una fitta tremenda che parte dal retro del bulbo oculare sinistro e arriva alla punta del gomito destro, e mi metto a camminare in maniera strana, sbattendo contro la gente e imprecando contro i mobili. Ho quindi imparato a rivolgere la mia attenzione ad altre bevande.

Mi piacerebbero molto i margarita, ma mi spingono a fare acquisti idioti. Ogni volta che bevo un margarita mi sveglio la mattina paventando ciò che troverò al piano di sotto, davanti all'entrata. L'esperienza più terribile la vissi quando mi arrivarono a casa una matita lunga due metri e una gomma larga mezzo metro che mi ero spedito a casa da New York mentre ero in preda ai fumi dei margarita. Il guaio fu che la posta consegnò gli oggetti molte settimane dopo il mio ritorno e la mattina in cui me li trovai nell'andito ero piuttosto sobrio, avendo preso la sera prima un solo bicchiere di Chianti assieme alla pizza che è la mia classica cena.

Così adesso, quando vado a New York, bevo vodka Martini preparati con vodka Stolichnaya, perché sono molto sofisticati e di classe e fanno tanto New York, ma soprattutto non mi inducono a compiere atti stupidi e, anzi, non mi inducono a compiere un bel niente, anche se ogni tanto, quando sono sotto il loro influsso, converso con grande competenza di cromodinamica quantistica e allevamento di maiali.

Mi piace il bloody mary, però lo bevo solo in aeroporto. Non so spiegare perché, ma non mi viene mai in mente di prenderlo nel normale corso degli eventi. Se invece mi piazzate nella sala d'aspetto di un aeroporto, subito, come un topo sulla nave che 10 Warrington è la città dove l'azienda inglese Greenall produce vodka e gin. [N.d. T.]

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affonda, corro a spararmi una Stoli con succo di pomodoro e arrivo qualche ora dopo a destinazione intontito dal jet lag.

A casa in genere bevo tutto quanto trovo in frigorifero, che di solito è molto poco. Il mio frigo ha una caratteristica peculiare: se ci metti dentro una bottiglia di ottimo champagne, quando vai a prenderla trovi al suo posto uno schifoso vinaccio bianco da quattro soldi. Non ho ancora capito come accada, ma di solito mi consolo concedendomi la bevanda più noiosa del mondo, l'unica che posso bere senza subire alcun effetto negativo: un gin tonic.

"The Independent on Sunday" dicembre 1990

Introduzione alle sceneggiature radiofoniche

Mi piacciono queste piccole chiacchierate all'inizio dei libri. Anzi no, non è vero: è una spudorata bugia. È un incubo che, mentre ti arrabatti per cercare di finire o almeno cominciare un libro che ti eri impegnato a consegnare sette mesi fa, ti arrivi un fax che ti sollecita a scrivere una breve nota di presentazione per un libro a cui ricordi di avere posto la parola "fine" nel lontano 1981. Non ti ci vorranno più di due minuti, ti assicurano i mittenti del fax. Infatti è vero, accidenti; non mi ci vorranno due minuti, ma tredici ore, e mi perderò un altro dinner party e mia moglie non mi parlerà e sarò così in ritardo con il libro attualmente in cantiere che salterà l'intera vacanza in campeggio nei Pirenei e mia moglie non mi parlerà, soprattutto perché l'idea della vacanza in campeggio è stata mia e non sua e lei aveva accettato solo per farmi un piacere e adesso è costretta ad andarci da sola quando io so benissimo che odia il campeggio. (Per inciso, anch'io lo odio. Che mi piace me lo sono inventato.)

Poi arrivano altri fax che chiedono altre introduzioni, stavolta per edizioni comprendenti il ciclo completo dei miei romanzi, per ciascuno dei quali ho già scritto a suo tempo un'introduzione. Dopo un poco il numero di mie introduzioni diventa tale che qualcuno le raccoglie in un volume e mi prega di scrivere un'introduzione al volume. Così mi perdo un altro dinner party e anche un viaggio nelle Azzorre durante il quale avrei dovuto fare immersioni subacquee e scopro che il motivo per cui mia moglie non mi parla è che, in verità, ora è sposata con qualcun altro. (Anche questa notizia è, a quanto mi consta, inventata.)

Ai tempi in cui riuscivo ad andare ai party, cioè ai tempi in cui avevo pubblicato in tutto un paio di libri e lo scrivere introduzioni non era ancora un'attività a tempo pieno, mi accorsi che risparmiavo un sacco di tempo quando, invece di presentare due miei amici che non si conoscevano, dicevo loro: «Questo è Peter e questa è Paula. Perché non vi presentate da soli?». Dì solito tutto filava liscio e in un batter d'occhio Peter e Paula diventavano una coppia felice che faceva vacanze sciistiche nelle Alpi francesi assieme a mia moglie e al suo secondo marito.

Dunque, caro lettore, questa è la ristampa delle sceneggiature radiofoniche della Guida galattica per gli autostoppisti, pubblicata in occasione del decimo

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anniversario. Perché non vi presentate da soli?11 Mi è piaciuta questa piccola chiacchierata.

Introduzione a The Original Hitchhiker Scripts edizione del decimo anniversario Harmony Books, maggio 1995

Consigli all'aspirante scrittore

Innanzitutto renditi conto che, oltre a essere alquanto difficile, scrivere è un lavoro faticoso e solitario e, se non si è straordinariamente fortunati, anche molto mal pagato. Devi essere determinato, assai determinato a farlo. Poi devi scrivere qualcosa. A meno che tu non intenda dedicarti esclusivamente ai romanzi, ti suggerisco di cominciare a lavorare per la radio, un mezzo di comunicazione cui è ancora relativamente facile accedere, visti i magri compensi che dà. Ma è quello ideale per gli scrittori, in quanto lascia molto spazio all'immaginazione.

I problemi irrisolti del secolo

Mancano ormai pochi giorni e credo sia importante non lasciarsi alle spalle un secolo - e ancor più un millennio - senza risolvere i problemi lasciati a metà. Vi sono senza dubbio parecchie cose irrisolte da sistemare. Propongo al popolo della Rete di identificare il lavoro incompiuto e di vedere se, con un'azione concertata, si possa portare a compimento ciò che è rimasto inconcluso, affinché tutti possiamo festeggiare l'anno nuovo con la coscienza di avere alle spalle un secolo senza punti in sospeso.

Ma prima voglio dire una parola ai pedanti. Sì, lo so che pensate che il millennio cambi solo alla fine del 2000 ed è una vera

noia sentirvelo ripetere sempre. Sapete una cosa? Siete così ansiosi di rimproverare al resto del mondo il presunto errore di aritmetica, che non capite il punto più significativo, ossia che la faccenda NON HA ALCUN significato, salvo quello di trovare l'occasione per dire: «Wovv, guardate là le cifre del secolo che cambiano!».

Non c'è, ribadisco, vero significato in questa storia. Dieci (assieme ai suoi multipli) è un numero arbitrario. Il primo gennaio è una data arbitraria. E se pensate che quella della nascita di Gesù Cristo sia una data importante, abbiamo un'unica certezza al riguardo: tale nascita non avvenne né nell'1 d.C. né nello 0 d.C, se l'anno precedente l'1 fu chiamato davvero 0 (e sappiamo che non lo fu, in quanto i pedanti continuano a ripetercelo).

In realtà, come ci informano gli storici (persone molto più interessanti dei pedanti), si è manipolato così tante volte il calendario negli anni che ci separano da quell'epoca, che l'intera questione ha doppiamente perso di significato.

Pensate: solo di recente siamo riusciti a trovare parametri e criteri precisi per

11 L'italiano non può rendere perfettamente il gioco di parole, perché in inglese per "introdurre" un libro e "presentare" una persona a un'altra si usa lo stesso verbo, to introduce. [N.d.T.]

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misurare tempi e date con l'ausilio degli orologi atomici e di analoghi strumenti, e il 1° gennaio 2000 (se gli apocalittici avranno ragione) tutti i nostri sistemi informatici andranno in tilt e ci riporteranno all'età della pietra (oppure, come ritengo più probabile, non faranno proprio niente). Non vi pare allora che la mezzanotte del 31 dicembre sia l'unico punto di riferimento solido e affidabile in questo triste caos e che convenga festeggiarla un poco? E invece di dire che ci siamo sbagliati a calcolare la fine del millennio (o bimillennio), dovremmo dire che i nostri antenati sbagliarono a calcolare l'inizio e che noi abbiamo solo rimesso un poco d'ordine nel casino prima di crearne uno nuovo tutto nostro. Che cavolo importa, comunque? È solo una scusa per fare baldoria.

Ma veniamo ai problemi irrisolti. Un Piccolo Problema Irrisolto che mi è venuto in mente l'altro giorno mentre

cantavo con mia figlia di cinque anni, è rappresentato dai versi di Do-Re-Mi, una delle canzoni di Tutti insieme appassionatamente. Non è certo importante come una crisi globale, ma ogni volta che sento quelle parole penso: "Non dovrebbe essere un problema così difficile da risolvere".

Riflettiamoci sopra. Ogni verso del testo riporta una nota della scala diatonica, associandovi un

concetto che in inglese è definito dal medesimo suono; per esempio "do" è doe, una cerva, "re" è ray, un raggio di sole. Fin qui tutto bene. "Mi" è me, chi parla, "fa" è far, una lunga strada da percorrere, e va ancora tutto bene. Non dirò che sia Keats, certo, ma le immagini sono plausibilissime, funzionano, filano lisce. Siamo quasi in dirittura d'arrivo. "Sol" è sew, un ago con il filo per cucire. Accettabile. Ma "la" è a note to follow so, la nota che segue sol… Cosa, come? "La, la nota che segue sol…". Quale pietosa scusa potrà mai giustificare l'esistenza di un verso del genere?12

Be', è chiaro che razza di verso è questo: è un tieniposto. Un tieniposto è ciò che un autore infila nel testo quando, pur non riuscendo a trovare il verso giusto o l'idea giusta, non vuole lasciare lo spazio vuoto. Egli piazza lì il tieniposto e si riserva di tornarci sopra per correggerlo in un secondo tempo. Dunque immagino che Oscar Hammerstein abbia buttato lì "la nota che segue sol" pensando che avrebbe rifatto il verso la mattina dopo.

Solo che, quando ha dato un'occhiata al testo la mattina dopo, non gli è venuto in mente niente di meglio. E nemmeno due mattine dopo. "Forza, è semplice" deve aver pensato. "La è una cosa… una cosa… che cosa?"

Sarà stato troppo indaffarato con le prove e ossessionato dalle scadenze dell'incisione, o avrà pensato di risolvere il problema durante le riprese, quando magari qualcuno del cast poteva dargli una mano. Ma non è successo. Nessuno è riuscito a migliorare quel verso. E a poco a poco il povero verso tieniposto è diventato definitivo e ora fa formalmente parte della canzone, del film, del musical.

Ma è proprio così difficile scriverne uno migliore? Che ne dite di "La, una… una…"? No, al momento non mi viene in mente nulla, ma credo che se il mondo intero unisse gli sforzi, ci si potrebbe riuscire. E credo che non dovremmo far finire il 12 Nell'edizione italiana del film le canzoni sono doppiate e le strofe suonano: "Do se do qualcosa a te / re è il re che c'era un dì / mi è il mi per dire a me / fa la nota dopo il mi / sol è il sole in fronte a me / la se proprio non è qua / si se non ti dico no / e così ritorno a do". Nell'edizione italiana, quindi, è "fa" la nota "tieniposto". [N.d.T.]

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secolo lasciando una canzone tanto popolare in un così triste stato di incuria. Quanto agli altri problemi irrisolti, voi che ne pensate? Quali sono le cose cui

trovare una soluzione nel prossimo mese e mezzo, prima che le cifre girino nel datario e che tutti noi siamo costretti ad affrontare i tanti nuovi, luccicanti problemi del Ventunesimo secolo? La fame nel mondo? Lord Lucan?13 Jimmy Hoffa? Un posto dove buttare i vecchi nastri magnetici a otto piste in modo che nessuno nel Ventunesimo secolo li veda più? Si prega di inviare ogni suggerimento e risposta all'indirizzo wvvw.h2g2.com.

"The Independent on Sunday" novembre 1999

La squadra ideale

CAST CINEMATOGRAFICO IDEALE: Sean Connery nel ruolo di Dio, John Cleese in quello dell'arcangelo Gabriele, Goldie Hawn in quello di Trudie, la sorella minore di Madre Teresa di Calcutta. Con la partecipazione straordinaria di Bob Hoskins nel ruolo dell'ispettore Phil Makepiece.

ROCK BAND IDEALE: La rock band veramente ideale per me non esiste più, perché hanno sparato alla sua chitarra ritmica (John Lennon). Ma prenderò il suo basso, perché è indiscutibilmente il migliore. Ci saranno bassisti più pirotecnici, ma in musicalità, spirito e inventiva nessuno supera Paul McCartney. Quanto ai vocalist, a lui affiancherei Gary Brooker, maggior voce soul del rock and roll britannico, nonché straordinario pianista. Come lead guitarists potrebbero alternarsi Dave Gilmour, che ho sempre desiderato sentir suonare con Gary Brooker perché hanno entrambi un forte temperamento drammatico e linee melodiche sublimi, e Robbie Mcintosh, che è sia un grande blues rocker sia un eccelso chitarrista acustico. Batterista Steve Gadd (vi ricordate 50 Ways to Leave Your Lover?14). Se si è arrivati ad avere una band di così tanto rispetto, bisogna infilarci dentro anche il maestro Ray Cooper alle percussioni; ma sarei anche molto tentato di includere l'incredibile batterista donna della band di Van Morrison, di cui ignoro il nome. Per gli archi, gli ottoni, la Royal Philarmonic o la New Orleans jazz band scritturerei un mago della tastiera come Paul "Wix" Wickens. E un grande camion.

AMANTE IDEALE: La Dagenham Girl Pipers15. Con tutto il rispetto e l'amore che devo alla mia cara moglie, ci sono cose che, per quanto affettuosa e tenera possa essere una consorte, solo una grande banda di cornamuse può darti.

PROGETTO IDEALE: Se fossi infinitamente ricco, mi piacerebbe finanziare un grande 13 Lord Lucan, latitante dal 1974, è l'uomo accusato di avere ucciso la tata dei suoi figli, Sandra Rivett, e di avere tentato di assassinare la moglie Veronica. [N.d.T.] 14 Canzone di Paul Simon. Gilmour, Mcintosh, Cooper e Wickens appartengono rispettivamente ai Pink Floyd e alle band di McCartney, Elton John e di nuovo McCartney. [N.d.T.] 15 La banda femminile di cornamuse Dagenham fu fondata nel 1930 dal reverendo Graves. [N.d.T.]

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progetto di ricerca sulle origini della nostra specie e il passaggio dalla scimmia all'uomo. Due anni fa rimasi affascinato dalla "ipotesi della scimmia acquatica", secondo la quale gli ominidi che rappresentarono l'anello di congiunzione sarebbero vissuti per un periodo in ambiente semiacquatico. Ho sentito spesso deridere la teoria, ma mai confutarla con argomenti solidi e vorrei tanto scoprire la verità, qualunque sia.

CARRIERA ALTERNATIVA IDEALE: Zoologo, musicista rock, progettista di software.

VACANZA IDEALE: Fitto programma di immersioni subacquee in Australia, oltre la Grande barriera corallina, nel magnifico, limpidissimo Mar dei Coralli. Al Cod Hole farei shark diving per guardare gli squali e wreck diving per guardare i relitti; poi mi sposterei in Australia occidentale per immergermi con gli enormi squali balena, e infine a Shark Bay per immergermi con i delfini. Infine, sulla via del ritorno, mi fermerei a cenare a Hong Kong.

CASA IDEALE: Una grande costruzione irregolare in riva al mare, magari nell'estremo nord del Queensland, dove sarei circondato dalla natura selvaggia e mi terrei in contatto con il resto del mondo attraverso il collegamento a banda larga con Internet. Avrei naturalmente anche una barca e un pickup.

CUCINA IDEALE: Se mi dicessero di scegliere la cucina di un unico paese e di mangiare solo i suoi piatti per il resto della vita, sceglierei quella giapponese.

GIORNO LIBERO IDEALE: Per la verità l'ho già vissuto. Fu nel 1968: marinando la scuola, un mio amico e io andammo a Londra e vedemmo 2001 in cinerama al pomeriggio e un concerto live di Simon e Garfunkel all'Albert Hall la sera.

"The Observer" 10 marzo 1995

Dove trova ispirazione per ì suoi libri? Dico a me stesso che non mi concederò un'altra tazza di caffè prima di essermi

fatto venire un'idea.

Introduzione all'edizione a fumetti della Guida, volume I

La gente spesso mi chiede da dove traggo ispirazione e capita che me lo chieda fino a ottantasette volte al giorno. È un rischio che gli scrittori sanno di correre e, quando vi si trovano davanti, dovranno cercare di respirare a fondo, regolarizzare la frequenza cardiaca, riempire la mente di placide, idilliache immagini di uccellini che cantano su prati primaverili punteggiati di ranuncoli, e sforzarsi di rispondere: "Sa, è

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molto interessante la sua domanda…" prima di accasciarsi e piangere senza ritegno. Il fatto è che né io né gli altri scrittori sappiamo da dove ci vengano le idee e dove

cercarle. 0 meglio, forse è il caso di puntualizzare. Se uno sta scrivendo un libro sulle abitudini sessuali dei maiali, probabilmente troverà più di uno spunto ciondolando per un'aia con un impermeabile di plastica addosso, ma se il suo settore è la narrativa, potrà solo bere una quantità industriale di caffè e comprarsi una scrivania che non si sfasci quando vi sbatterà la testa contro.

Esagero, naturalmente. Esagerare è il mio mestiere. Vi sono alcune idee di cui ricordo l'esatta origine, o almeno così credo: non escludo di stare inventandomelo, perché inventare è - ancora una volta - il mio mestiere. Spesso, quando devo scrivere qualcosa di impegnativo, ascolto più volte la stessa musica. Non la ascolto mentre compio il vero e proprio atto di scrivere, perché per quello ho bisogno di una certa quiete, ma mentre mi verso l'ennesima tazza di caffè o mi preparo un toast o mi pulisco gli occhiali o cerco in giro un toner di riserva per la stampante o cambio le corde della chitarra o tolgo le tazze di caffè e le briciole del toast dalla scrivania o vado in bagno a farmi una riflessiva seduta di mezz'ora; in altre parole, la ascolto per la maggior parte della giornata. Conseguenza: molte mie idee derivano dalla musica. O meglio, almeno una o due. A voler essere proprio precisi, c'è un'unica idea che mi è venuta da una canzone, ma ho mantenuto l'abitudine di sentire musica giusto in caso funzionasse di nuovo e, anche se questo non succederà, non importa.

Ora dunque sapete come funziona l'ispirazione. Semplice, vero?

Da The Hitchhiker's Guide to the Galaxy (il ciclo completo) DC Comics, maggio 1997

Intervista a D.N.A di Virgin.net

Se c'è un uomo che dovrebbe intendersene di viaggi, è senz'altro colui che ha mangiato hamburger e patatine fritte nel ristorante al termine dell'universo. Così abbiamo parlato dell'argomento con lo scrittore Douglas Adams nella sua nuova casa negli Stati Uniti, dove si è da poco trasferito per partecipare alla lavorazione del film tratto da Guida galattica per gli autostoppisti.

Quale stata la più bella vacanza della sua infanzia?

Le vacanze della mia infanzia sono state molto modeste; il massimo che abbia fatto l'ho fatto a sei anni, quando passai quindici giorni nell'Isola di Wight. Ricordo che pescai un affare che pensavo fosse una platessa, ma che era grande quanto un francobollo e morì appena cercai di tenerlo in casa come animale domestico.

Da allora è tornato nell'Isola di Wight?

Una sola volta. Ho pernottato in un albergo in cui l'unico divertimento, la sera, consisteva nello spegnere le luci del ristorante e guardare una famiglia di tassi giocare

Page 42: Douglas Adams - Il Salmone Del Dubbio

sul prato.

Dove andò alla sua prima vacanza senza i genitori?

In giro per l'Europa in autostop. Avevo diciott'anni.

Che paesi visitò?

Austria, Italia, Iugoslavia e Turchia. Dormivo nei campeggi e negli ostelli della gioventù e integravo la dieta partecipando ai giri turistici gratuiti delle fabbriche di birra, dove mi offrivano sia da bere sia da mangiare. Istanbul era bellissima, ma lì mi presi una tremenda intossicazione alimentare e fui costretto a tornare in Inghilterra in treno, dormendo nel corridoio attaccato al cesso. Ah, che magici tempi…

È tornato a Istanbul da allora?

Una sola volta. Stavo tornando dall'Australia e decisi d'impulso di far tappa a Istanbul. Ma prendere il taxi all'aeroporto e pernottare in un bell'albergo anziché viaggiare in autostop sul pianale di un camion e dormire in una stanza sul retro di una pensione pulciosa privò in certo modo l'esperienza della sua magia. Girovagai per un paio di giorni cercando di evitare i venditori di tappeti, poi me ne andai.

Qual è il luogo più remoto o più strano che abbia visto?

L'Isola dì Pasqua è senza dubbio il luogo più remoto del mondo, essendo più lontana di qualsiasi altra terra da qualsiasi altra terra. Per questo è singolare che sia capitato là del tutto casualmente e per un'ora soltanto. Ho appreso una lezione molto importante quella volta, ossia che conviene leggere bene il proprio biglietto.

Quando ci andò e perché?

Stavo volando da Santiago a Sydney ed ero piuttosto stanco, perché avevo passato le precedenti due settimane a cercare lontre marine, così mi resi conto di quale fosse l'itinerario dell'aereo solo quando il pilota annunciò che stavamo per fare la prevista sosta di un'ora nell'Isola di Pasqua.

All'aeroporto ci attendevano alcuni minibus che ci trasportarono di corsa alla più vicina statua, cui demmo una rapida occhiata mentre l'aereo faceva rifornimento. Fu molto frustrante, perché, se avessi letto bene l'itinerario il giorno prima, avrei potuto facilmente cambiare il biglietto e trattenermi sull'isola un paio di giorni.

Qual è la sua città preferita e quale sua caratteristica l'affascina di più?

Nella mia immaginazione è Firenze, ma solo per il ricordo di un viaggio che vi feci da studente: passai molti giorni paradisiaci bevendo vino poco caro, crogiolandomi al sole e contemplando opere d'arte. Durante visite recenti a quei ricordi giovanili si sono sovrapposte esperienze di smog e ingorghi stradali.

Ora forse direi che la mia città preferita è un posto piccolo come Santa Fé, nel New Mexico. Mi piacciono l'aria secca del deserto, i margarita, il guacamole, le fibbie

Page 43: Douglas Adams - Il Salmone Del Dubbio

d'argento degli indiani e la sensazione che le persone sedute a due passi da me nella cafeteria siano magari dei premi Nobel.

Qual è l'ultima volta in cui ha fatto l'autostop?

Una decina d'anni fa sull'isola di Rodrigues, nell'oceano Indiano. Si poteva girare solo in autostop. Non c'erano mezzi di trasporto pubblici, ma alcune rare persone possedevano una Land Rover e così ti mettevi a lato della strada sperando che ti passassero davanti e si fermassero. Un giorno, al crepuscolo, finii in una foresta con indosso i calzoncini corti; avevo dimenticato di portarmi dietro lo stick contro le zanzare e passai la notte più tormentosa della mia vita.

Quale terra l'affascinò di più durante il viaggio che le ispirò L'ultima occasione?

Il Madagascar, anche se quel viaggio fu più propriamente un preludio al libro. Mi innamorai della foresta, dei lemuri, del calore della gente.

Qual è, secondo lei, il manufatto più interessante della galassia?

La diga che stanno costruendo nelle Tre Gole dello Yangtze. Anche se forse il termine giusto sarebbe "sconcertante". Invece di produrre i vantaggi sperati, le dighe provocano quasi sempre spaventose devastazioni; tuttavia continuiamo a costruirle e io non posso fare a meno di chiedermi perché. Sono convinto che se andassimo molto indietro nella storia della specie umana, scopriremmo che a un certo punto nel nostro genoma si sono introdotti dei geni di castoro. È l'unica spiegazione sensata.

È mai stato nelle tre gole di QuTang, WuXia e Xiling?

Da quando è iniziata la costruzione della diga, no. Non voglio vederla mai.

Qual è secondo lei la struttura naturale più interessante della galassia?

Un gigantesco pesce lungo tremila chilometri che, secondo un rapporto attendibile di "Weekly World News", orbita intorno a Giove. La fotografia era molto convincente e mi stupisce che riviste più autorevoli come "New Scientist" o anche solo "The Sun" non abbiano fornito altri particolari. Ci dovrebbero informare.

Se dovesse nominare un posto che sembrasse "piovuto dallo spazio cosmico" a quale penserebbe?

A Fjordland nell'isola del Sud della Nuova Zelanda. È un incredibile miscuglio di montagne, cascate, laghi e ghiacci: forse il posto più straordinario che abbia mai visto.

Se in questo momento potesse raggiungere qualunque punto dell'universo, dove andrebbe? E come, con chi e con che cosa ci andrebbe?

Di tutti i corpi celesti del nostro sistema sceglierei Europa, uno dei sedici satelliti

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di Giove. È uno degli oggetti più misteriosi del sistema solare ed è molto amato dagli scrittori di fantascienza, perché è uno dei pochissimi in cui si potrebbe trovare qualche forma di vita. Inoltre certe peculiarità della sua struttura hanno indotto a formulare l'audace ipotesi che sia artificiale. Senza contare che nelle notti di giusto allineamento orbitale, si avrebbe di là una splendida vista panoramica del pesce.

Intervista condotta da Claire Smith, Virgin.net, Ltd., 22 settembre 1999

A cavallo di una manta

Ogni paese somiglia a un tipo di persona. L'America è un adolescente bellicoso. Il Canada è un'intelligente signora di trentacinque anni. L'Australia è Jack Nicholson. Ti si avvicina e ti ride sgangheratamente in faccia con aria minacciosissima, ma anche accattivante. In realtà l'Australia non è tanto un paese, quanto una sottile crosta di civiltà semidemente a ridosso di un vasto, impervio deserto battuto dal caldo, dalla polvere e da affari che saltano.

Se diciamo agli australiani che ci piace il loro paese, in genere replicano con una risata sarcastica: «Be', ormai è l'unico posto rimasto, no?». Questo è un tipico discorso inquietante da australiani; noi non capiamo bene che cosa vogliano dire, ma ci inquieta l'idea che abbiano ragione.

Il solo fatto di sapere che quel posto si nasconde laggiù agli antipodi, dove non lo si può vedere, è piuttosto perturbante e io cerco sempre di andarci con qualche scusa, se non altro per tenerlo d'occhio. Si dà il caso, inoltre, che mi piaccia. Ne ho visto finora solo una parte, ma c'era una località che da tempo anelavo rivedere, perché vi avevo lasciato in sospeso un progetto che desideravo portare a termine.

E poche settimane fa, d'un tratto, ho trovato la scusa che mi occorreva. Mi trovavo al momento in Inghilterra. Ero sicuro di trovarmi in Inghilterra, perché,

avvolto in una coperta bagnata, stavo seduto sotto la pioggia in un campo fangoso ad ascoltare una fottuta orchestra che, in una specie di tenda rossa, suonava famose musiche da film americane. In nessun altro posto al mondo la gente farebbe una cosa del genere. La farebbero forse in Italia? La farebbero nella Tierra del Fuego? La farebbero sull'Isola di Baffin? No. Nemmeno in Giappone, dove uno dei passatempi nazionali consiste nell'estrarsi l'intestino dalla pancia con un coltello, accetterebbero mai di fare una cosa del genere.

Tra una raffica di pioggia e una raffica di tromba mi capitò di parlare con un tizio affascinante che, come seppi poi, era il vicino di casa di mia sorella nel Warwickshire, la regione in cui si trovava il campo alluvionato in cui ero seduto. Si chiamava Martin Pemberton e di mestiere faceva l'inventore e il progettista. Fra le tante cose che aveva inventato o progettato c'erano, disse, componenti fondamentali di metropolitana, un nuovo, meraviglioso tostapane intelligente e un Sub Bug.

Che cos'era, chiesi educatamente, il Sub Bug? Il Sub Bug, spiegò, era un aggeggio dotato di motore a reazione che si usava per le

immersioni sottomarine. Poteva avere forma di cimice o di muso di delfino e

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chiunque vi si attaccasse veniva trascinato a una decina di metri di profondità. Ricordava un poco i marchingegni che si vedevano nel film Agente 007 Thunderball ed era adattissimo a esplorare le barriere coralline.

Non sono sicuro che si sia espresso in questo esatto modo. Forse parlò di "mare azzurro" o "limpidi abissi" o forse non disse proprio niente del genere, ma quello era il quadro che avevo nella mente mentre, seduto sotto la pioggia torrenziale, contemplavo un ombrello sfuggito di mano a qualcuno rimbalzare oltre il palco.

Dovevo assolutamente provare il Sub Bug, e lo dissi a Martin. Forse, anzi, per convincerlo lo inchiodai a terra e gli premetti un ginocchio sulla trachea - ho ricordi vaghi - ma certo non oppose resistenza e si disse lieto di farmelo provare. Il problema era: dove? Da qualsiasi parte, rispose: anche nella locale piscina. Ma non intendevo proprio usarlo in piscina. Il bello, secondo me, sarebbe stato immergersi con quello nella Grande barriera corallina australiana. Con quale scusa, però, avrei potuto indurre una sventurata rivista a finanziarmi il viaggio di collaudo del Sub Bug (perché, credetemi, trovare un finanziatore è l'unico modo di viaggiare)?

Mi ricordai allora del progetto che non avevo portato a termine in Australia. Dieci anni prima avevo visitato per breve tempo un'isola dell'arcipelago

Whitsundays, al confine meridionale della barriera: Hayman Island, un posto abbastanza terrificante. Di per sé la località era bella, ma il centro turistico che vi avevano impiantato non lo era e io, che, esausto, vi ero finito al termine di un lungo giro, lo odiai subito. Il dépliant era infarcito di aggettivi come "internazionale", "sofisticato", "esclusivo", e questo significava che ti sparavano musica di sottofondo da ogni palma e che ti sciroppavi ogni sera una festa mascherata a tema. Di giorno sedevo a un tavolo presso la piscina, sbronzandomi pian piano con tequila sunrise e origliando le conversazioni ai tavoli vicini, perlopiù incentrate sugli incidenti stradali in cui erano coinvolti dei camion. La sera mi ritiravo intontito nella mia stanza per non vedere australiani ubriachi fradici imperversare tutta la notte travestiti da hawaiani o da cow-boy o da qualunque cosa la festa imponesse come maschera, e guardavo in tivù i film di Mad Max. Anche nei film di Mad Max c'erano molti incidenti stradali in cui erano coinvolti dei camion. Non riuscii nemmeno a trovare niente da leggere, perché il negozio dell'albergo aveva due soli libri decenti e li avevo scritti entrambi io.

Un giorno parlai con una coppia di australiani in spiaggia. «Salve, mi chiamo Adams, non è odiosa questa musichetta di sottofondo?» dissi. No, risposero, non era odiosa, ma anzi stupenda e internazionale e sofisticata. Allevavano pecore in una fattoria milletrecento chilometri a ovest di Brisbane e lì, spiegarono, non sentivano mai niente di niente. Osservai che quel silenzio doveva essere bellissimo; replicarono che dopo un po' diventava noiosissimo e che la musichetta di sottofondo pareva loro paradisiaca. Quando dissi che ascoltare quella musica era come infilarsi nelle orecchie due polpette di carne in scatola e tenercele tutto il giorno, non furono d'accordo e dopo poco la conversazione languì.

Fuggii da Hayman Island e salii su una barca di subacquei a Hook Reef, dove trascorsi la più bella settimana della mia vita guardando coralli, un'infinita varietà di pesci, nonché delfini, squali e una balenottera rostrata.

Solo dopo aver lasciato Hayman Island seppi che mi ero perso una cosa molto

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interessante. Sull'altro lato dell'isola c'era un'insenatura poco visibile, la Baia delle Mante, che,

come si capiva dal nome, brulicava di mante, gli eleganti pesci simili a tappeti volanti marini. Oltre a essere tra gli animali più belli del mondo, le mante erano così buone e tranquille che, mi disse l'uomo da cui ebbi l'informazione, permettevano alla gente di cavalcare sul loro dorso sott'acqua.

E io me le ero perse; e me ne ero crucciato per dieci anni. Nel frattempo avevo anche sentito dire che Hayman era molto cambiata, tanto da

diventare quasi irriconoscibile. Era stata acquistata dall'aerolinea australiana Ansett, che aveva speso uno squilione di dollari per togliere la musichetta dalle palme e trasformare il villaggio turistico in un centro non solo internazionale, sofisticato ed esclusivo, ma anche paradisiaco e caro come il fuoco.

Ecco quindi qual era il pretesto, pensai: avrei portato il Sub Bug a Hayman Island, trovato una simpatica manta da cavalcare, paragonato l'immersione con il Sub Bug all'immersione con la manta, e ci avrei scritto sopra un articolo.

Qualsiasi persona razionale ed equilibrata avrebbe detto che era un'idea assolutamente idiota e, in effetti, un sacco di persone razionali lo dissero. Ugualmente, decisi che quello sarebbe stato l'argomento dell'articolo: il confronto tra un viaggio sottomarino con il Sub Bug motorizzato monoposto blu e giallo e un viaggio a cavallo di una manta gigante.

Funzionò? Provate a indovinare. Capii di colpo quanto fosse sciocca e astrusa l'idea appena vidi il grande scatolone

argentato del Sub Bug, pesante una quarantina di chili, venire trasportato su ruote sulla pista dell'aeroporto di Hamilton Island. Mi resi conto che era molto diverso dire agli inglesi che stavo andando in Australia a fare un collaudo comparato tra il Sub Bug e la manta, e dire agli australiani che ero venuto a fare un collaudo comparato eccetera. D'un tratto mi sentii uno stupido inglese che tutti avrebbero odiato e disprezzato e deriso e schernito e indicato col dito.

Mia moglie Jane mi spiegò pacatamente che il jet lag mi procurava sempre attacchi di paranoia acuta e mi invitò a bere un bicchiere e rilassarmi.

Hamilton Island è un perfetto esempio di che cosa non si debba fare a una bella isola subtropicale a due passi da una delle più grandi meraviglie della natura; vi hanno infatti costruito orrendi palazzacci e negozi che vendono lattine di birra, T-shirt e cartoline illustrate raffiguranti l'isola quando era bella e non ancora infestala dai negozi di cartoline. Per fortuna ci trattenemmo lì solo pochi minuti. Nel molo vicino al piccolo aeroporto ci aspettava la Sun Goddess, una sciccosa e luccicante imbarcazione bianca tale e quale agli yacht su cui James Bond passava molto più tempo di quello che a un dipendente statale come lui sarebbe stato lecito passare. Già il fatto che una barca del genere fosse stata mandata ad accogliere gli ospiti diretti a Hayman era il primo segno del cambiamento avvenuto nell'isola.

Fummo accompagnati cortesemente a bordo. Una persona di servizio ci offrì bicchieri di champagne, mentre un'altra si pose di guardia davanti alla porta a vetri scorrevole che dava accesso alla sala interna dotata di aria condizionata.

L'uomo davanti alla porta disse che la sua mansione era di aprire. La mansione,

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spiegò, si era rivelata necessaria perché la porta non aveva l'apertura automatica e spesso i visitatori giapponesi vi si piazzavano davanti, aspettavano parecchi minuti, vedendo che non si apriva si stupivano e allarmavano, e solo quando qualcuno gliela apriva con le mani ritrovavano la serenità.

Per un'ora solcammo veloci il mare scuro e luccicante sotto il sole vivido. Isolotti di un verde lussureggiante ci scivolavano accanto in lontananza. Contemplai la lunga scia di spuma che si ricomponeva alle nostre spalle e, sorseggiando champagne, pensai a un vecchio ponte di Sturminster Newton, nel Dorset, cui è rimasto attaccato un antico cartello di ghisa. Sul cartello è scritto che chiunque rompa o danneggi il ponte subirà la pena della deportazione; la deportazione in Australia. Ebbene, Sturminster Newton sarà anche una bella cittadina, ma trovo incredibile che il ponte sia ancora in piedi.

Jane, che è assai più brava di me a leggere le guide (io le leggo sempre sulla via del ritorno per vedere che cosa mi sono perso e spesso rimango malissimo), trovò una notizia godibilissima nel libretto che stava scorrendo. Lo sapevo, chiese, che Brisbane fu fondata come colonia penale destinata a chi commetteva nuovi reati dopo essere arrivato in Australia?

Passai una buona mezz'ora a gustarmi quella rivelazione fantastica. Noi britannici, povere creature grigie sempre bagnate fino al midollo, sedevamo tutti pigiati sotto il plumbeo cielo nordico che gocciolava come uno strofinaccio lurido, e mandavamo quelli che volevamo punire più duramente a crogiolarsi sotto un sole vivido e magari anche a fare un po' di surf sulla costa del Mar di Tasman, a sud della Grande barriera corallina? Non c'è da stupirsi se gli australiani riservano a noi britannici un sorriso tutto particolare.

Dal mare Hayman Island appare deserta: una grande collina verdeggiante contornata da pallide spiagge incastonate nel mare blu. Solo quando ci si avvicina parecchio si scorge l'albergo lungo e basso annidato tra le palme. Non lo si vede bene da nessuna angolazione, perché è nascosto da quelle che sembrano gigantesche piante da vaso inselvatichite. Protetto dalla vegetazione, ha una struttura sinuosa che si compone di colonne, fontane, piazzette ombrose, solarium, piccole boutique discrete - dove vendono abitini con un prezzo da cardiopalmo e griffe da deselezionare accuratamente - e piscine indiscrete capaci di accogliere un elevatissimo numero di bagnanti.

Era favoloso e ci conquistò subito. Era proprio il tipo di posto i cui frequentatori vent'anni prima avrei disprezzato. Quando invecchi e ottieni cose come le vacanze in omaggio, hai la grande soddisfazione di fare tutto ciò che un tempo rimproveravi agli altri di fare: sedere nel solarium con occhiali da sole che costano quanto una borsa di studio annuale; ordinare in camera lussuosissimi generi di conforto; lasciarti viziare e servire di barba e capelli; ricevere tale sontuoso trattamento (questa è una parte cruciale e fondamentale del centro di soggiorno di Hayman Island) da uno staff che non si limita a dire, quando lo ringrazi di averti riempito il bicchiere di champagne: «Non c'è di che», ma dice: «Non c'è di che, si figuri». Desiderano sinceramente, con tutto il cuore, di averti come ospite. E vogliono te, proprio te, non un qualsiasi vecchio ciccione spaparanzato al sole con il cappello in testa, ma te personalmente: vogliono farti capire, palpare con mano, che in questo che è il migliore dei mondi

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possibili tu non hai nulla di cui preoccuparti. Nulla. Assolutamente nulla. Non ti disprezzano neppure. Grazie che non mi disprezzate. Non c'è di che, si figuri.

Se solo avessi potuto davvero non preoccuparmi. In realtà ero in ansia per il mio Sub Bug, per quel grosso aggeggio che mi ero trascinato dieci volte più lontano di quanto Mosè avesse trascinato i figli di Israele, solo per vedere se come sottomarino era meglio o peggio di una manta. Lo avevano scaricato dallo yacht nel suo grande scatolone color argento e deposto al centro immersioni subacquee, dove era lontano dagli occhi indiscreti della gente e nessuno poteva indovinarne la funzione.

Il telefono squillò nella nostra camera, che, sia detto per inciso, era bellissima. Non dubito che ci teniate molto a sapere com'era, visto che ci soggiornavamo a vostre spese. Non era grandissima, ma era assai confortevole e soleggiata e ben arredata e ravvivata da pastelli californiani alle pareti. Il nostro angolo preferito diventò subito il terrazzino affacciato sul mare, perché aveva una tenda che si abbassava premendo un pulsante. Erano previste due posizioni per il pulsante: se si sceglieva AUTO la tenda si abbassava da sola appena entrava la luce del sole; se si sceglieva MANUEL (sic), un piccolo, incompetente cameriere spagnolo sarebbe venuto (immaginammo) ad abbassarcela. La storia di "Manuel" ci parve molto buffa e ridemmo a crepapelle e poi bevemmo un altro bicchiere di champagne e ridemmo di nuovo a crepapelle; e fu a quel punto che il telefono squillò.

«Abbiamo il suo Sub Bug» disse una voce. «Ah, sì» dissi. «Sì, ehm, il Sub Bug. Grazie mille. C'è qualche problema?» «Nessun problema, si figuri» disse la voce. «Ah, bene.» «Allora, se vuole, potrebbe venire al centro immersioni in mattinata. Daremo una

controllata al Sub Bug, guarderemo come funziona, vedremo di che cosa lei potrebbe aver bisogno, quindi, se vuole, ci farà un giro. Siamo a sua completa disposizione.»

«Oh, grazie. Grazie mille.» «Non ce di che, si figuri.» La voce era cordiale e rassicurante. La mia paranoia da jet lag scemò fin quasi a

scomparire. Andammo a cena.

Il centro alberghiero comprendeva quattro ristoranti e scegliemmo l'Oriental Seafood Restaurant. In Australia i piatti di pesce paiono consistere soprattutto di barramundi e di "insetti di Morton Bay"; il resto viene dopo.

«Gli insetti di Morton Bay sono come aragoste, solo grandi così» disse la nostra sorridente cameriera cinese mostrandoci con gli indici una lunghezza di sei o sette centimetri. «Gli sfondiamo la testa. Sono molto gustosi, vi piaceranno.»

Invece non ci piacquero molto. Il ristorante era elegantemente arredato in uno stile giapponese tutto bianco e nero, ma i piatti erano più belli che buoni e c'era la musica di sottofondo. Per un attimo sentii spuntare da sotto la crosta di raffinatezza lo spettro della vecchia Hayman Island cafona. Gli altri ristoranti erano uno polinesiano, uno italiano e uno francese. Quest'ultimo, il La Fontaine, era il più reclamizzato di tutti e, pur con tormentosi dubbi, decidemmo di riservarcelo per l'ultima delle quattro notti di vacanza. A meno che non mi trovi nel Galles, io amo la cucina locale e il pensiero dell'haute cuisine francese trasportata in Australia non mi convinceva del tutto. Non

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volevo però farmi condizionare dai pregiudizi, perché in fondo uno dei migliori pasti che abbia mai consumato fu un pranzo a base di granchio cotto a vapore e chateaubriand di zebù preparato da un cuoco di scuola francese nel sud del Madagascar. Bisogna però dire che i francesi hanno infestato il Madagascar per settantacinque anni e hanno avuto il tempo di trasmettergli la loro abilità culinaria e la loro odiosa burocrazia. Jane e io decidemmo di dare un occhiata furtiva al La Fontaine quella sera e ci ritrovammo in mezzo a ettari di moquette perfettamente incollata, pianoforti a coda, lampadari a molti bracci e copie di mobili Luigi XVI. Cercai di ricordare se per caso qualche corte francese scismatica del Settecento non si fosse trasferita, anche se per breve tempo, nella Grande barriera corallina e lo domandai a Jane, che è una storica; ma lei mi diede dello sciocco e ce ne andammo a letto.

Fummo svegliati alle sette e mezza in punto, come d'altronde accadde anche tutte le altre mattine, da un gabbiano che, appollaiatosi sul nostro terrazzino, emise il suo verso stridulo. Dopo colazione ci recammo al centro immersioni, che si trovava a circa ottocento metri dall'albergo, e conoscemmo Ian Green.

Era stato Ian a chiamare, la sera prima. Responsabile di tutte le immersioni di Hayman Island, era la persona più cordiale e disponibile che si potesse immaginare, Facemmo disimballare il Sub Bug e lo esaminammo alla luce del sole.

Come ho detto, sembra un delfino tagliato a metà. Il corpo è blu e il muso ha, ai lati, due piccole pinne gialle che, ruotando di qualche grado, lo dirigono verso l'alto o verso il basso. Sul retro due grandi maniglie permettono di tenersi stretti mentre ci si sposta in acqua. Chi si immerge non ha che da premere dei pratici pulsanti per salire, scendere e correre qua e là. All'interno del Sub Bug vi è un cilindro di aria compressa, una normale bombola da subacqueo che, oltre a fornire l'energia necessaria a far girare le eliche da cui l'attrezzo è propulso, spedisce l'aria a un erogatore attraverso un tubo flessibile. L'erogatore è l'affare che ci ficchiamo in bocca per respirare quando ci immergiamo. Il Sub Bug provvede a tutto, tranne che alla maschera e alle pinne; una volta indossate queste, non si è costretti a portare in spalla la bombola, perché si prende l'aria direttamente dal Bug. Inoltre è possibile regolare l'attrezzo in maniera che non vada oltre una certa profondità (in ogni caso non può scendere a più di nove metri).

Ian aveva ricevuto innumerevoli fax da Martin Pemberton con le istruzioni per montare la macchina e ormai sapeva quasi tutto.

«Nessun problema, si figuri» disse, chiedendomi che programma avessi. Risposi che mi pareva opportuno fare un piccolo giro in acque poco profonde

prima di provare l'aggeggio in profondità. «Nessun problema» disse. Aggiunsi che potevamo portarcelo dietro durante la spedizione subacquea prevista

per la mattina dopo. «Nessun problema» ripeté. «Così domattina lo provo intorno alle scogliere coralline e mi impratichisco.» «Nessun problema.» «E poi» dissi «siccome devo scrivere un articolo incentrato sul confronto tra un

viaggio sottomarino in Sub Bug e un viaggio sottomarino a dorso di pesce, vorrei

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provare a fare lo stesso giro a cavallo di una manta.» «Nessuna speranza» disse. «Nessunissima.»

… Forse avrei dovuto prevederlo. Ma forse era meglio che non lo avessi previsto. Se l'avessi previsto, non sarei stato

lì con la muta addosso a guardare lo scintillante Mar di Tasman e pensare: "Oh, cazzo". Sarei stato a gingillarmi nel mio studio di Islington chiedendomi se avessi "lavorato" abbastanza da meritare di uscire a comprarmi una focaccina.

Il problema era semplicissimo. Poiché negli ultimi due anni mi ero attivamente occupato di progetti ecologici, avrei dovuto capire che il primo imperativo è sempre quello di non disturbare gli animali. Nessuno avrebbe detto niente se avessi cavalcato una manta dieci anni addietro, la prima volta in cui ne avevo sentito parlare, ma adesso le cose erano cambiate e l'impresa era assolutamente impossibile. La barriera corallina non andava toccata. Non bisognava portare via niente: né conchiglie né coralli. Non si dovevano toccare i pesci, salvo forse alcuni di cui era lecito cibarsi, E certo non si cazzeggiava in mare a cavallo delle mante.

«In ogni caso» disse Ian «non sarebbe neppure riuscito ad avvicinarne una. Le mante sono creature timide. Qualcuno in passato le ha cavalcate, ma nemmeno allora era facile. Adesso però non possiamo proprio permetterlo.»

«No, certo» ammisi, imbarazzato. «Capisco benissimo, mi creda. Non mi ero reso conto, non ci avevo pensato.»

«Ma possiamo andare a divertirci con il Sub Bug» mi consolò. «Nessun problema. Possiamo anche fare qualche foto. Ha una splendida macchina fotografica, vedo.»

Ed ecco che veniamo a una parte penosa della storia sulla quale finora ho taciuto. In Inghilterra alcune ottime persone della Nikon mi avevano prestato per il viaggio una fotocamera autofocus anfibia Nikonos AF SR nuova di pacca, vale a dire una favolosa, ambitissima, fichissima attrezzatura per fotografia subacquea da quindicimila sterline. È uno stupendo prodotto della più perfetta tecnologia. Per chiunque voglia fare foto sott'acqua, è l'ideale. È uno schianto, un vero schianto. Perché continuo a tessere queste lodi sperticate? Perché passo un sacco di tempo davanti al computer e siccome sono abituato a usare un Macintosh, non mi disturbo mai a leggere i manuali; né mi disturbai a leggere quello della Nikonos AF SR.

Capii di avere fatto male solo quando riportai indietro i rullini. Mi sia consentito dire una sola, unica cosa: grazie infinite, signori della Nikon. La

Nikonos è una macchina inarrivabile e spero tanto che un giorno mi lascerete di nuovo prenderla in prestito. E qui chiudo l'argomento.

Prendemmo un piccolo dinghy, raggiungemmo un isolotto deserto a dieci minuti di distanza e per un'ora Ian e io ci divertimmo a farci scarrozzare in giro dal Sub Bug. Risolvemmo un paio di problemi, come un granello di sabbia finito in una valvola, e ci accorgemmo che il Bug non funzionava molto bene nell'acqua bassa quando doveva avanzare controcorrente. L'indomani l'avremmo portato in acque più profonde. Jane, sdraiata al sole sulla spiaggia, leggeva un libro. Dopo qualche tempo risalimmo a bordo del dinghy e tornammo a Hayman Island. Vi state chiedendo perché parlo di una gita così banale? Ne parlo perché ne ho un ricordo molto vivido e

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a volte penso che uno dei difetti di posti come Islington sia di non avere vicino un isolotto dove si possa passare il pomeriggio facendosi scarrozzare dal Sub Bug. Eh sì, è un gran peccato, vero? Tra l'altro a Islington non abbiamo nemmeno qualche bel ponte da danneggiare per farci deportare.

La mattina dopo eravamo in una decina sulla barca che doveva portarci nell'area delle immersioni. L'albergo è così grande ed esteso che non è facile incontrare gli altri ospiti, ma mi incuriosì vedere che molti erano giapponesi. Non solo: erano giapponesi che si tenevano per mano e si guardavano a lungo negli occhi. Hayman, scoprimmo, era una delle principali mete scelte dalle coppie del Sol Levante per il viaggio di nozze.

Il Sub Bug era collocato a poppa e io, seduto lì accanto, lo sorvegliavo mentre compivamo il viaggio di un'ora che ci avrebbe portato alla scogliera corallina. A parte Heron, nessuna isola della Grande barriera si trova davvero sulla Grande barriera, che è raggiungibile solo in barca. Ero euforico. In tempi recenti mi ero immerso un paio di volte in piscina per il corso di aggiornamento, ma da anni non lo facevo in mare. Adoro immergermi. Sono una di quelle persone che hanno coltivato per anni il sogno di volare e l'immersione subacquea è quanto di più simile al volo esista. Inoltre, per uno che è alto un metro e novantacinque e non ha, Per dire, la silhouette della principessa di Galles, la sensazione di assenza di peso è meravigliosa. Poi io di solito vomito sulla via del ritorno e questo è un buon sistema per farsi venire l'appetito.

Raggiungemmo la barriera, buttammo l'ancora, ci infilammo le mute e ci preparammo all'immersione. Quando la marea è bassa, la scogliera affiora ed è perfino possibile camminarci sopra, anche se adesso scoraggiano dal farlo per scongiurare il rischio che si danneggi. Ma anche quando la marea è alta, l'immersione non è di profondità. La maggior parte delle cose da vedere si trova nella prima decina di metri e non vi è quasi mai motivo di scendere più giù di diciotto. La massima profondità sarebbe ventisette metri, ma non ha molto senso spingersi fin laggiù, dove si vedono rocce nude anziché coralli e, per la legge di Boyle, si consuma molta più aria. Inoltre, quando si scende in abissi del genere, si è costretti, in superficie, a far passare molto più tempo tra un'immersione e l'altra, per evitare di essere colpiti dalla sindrome da decompressione. Se ci si mantiene alla profondità massima di nove metri, il Sub Bug non dà problemi.

Prima di tutto volevo fare un'immersione normale per cominciare a orientarmi. Due alla volta, applicammo al viso maschera ed erogatore, compimmo il Grande Salto dal trampolino di poppa e ci tuffammo in mare tra un'esplosione di bolle. La barca ancorata dei subacquei attira sempre l'attenzione di molti pesci, che si aspettano, a ragione, di essere nutriti a pezzetti di pane. Se si è fortunati si vedono i labri Maori, straordinarie creature verde oliva grandi come valigie Samsonite. Hanno bocca grande con labbra spesse e fronte molto grossa e sporgente, ma, assicurano con aria contrita gli australiani, sono stati chiamati "Maori" solo perché hanno sulla fronte dei segni che sembrano dipinti. Gli australiani non sono razzisti, perlomeno non lo sono più.

Intorno alla barca circolavano parecchi labri e io commisi l'errore di mettermi tra due di essi e i pezzetti di pane che qualcuno aveva gettato dalla barca. I pescioni sì

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tuffarono sul cibo con tutta la loro mole e per poco non fui travolto. Raggiunsi la scogliera nel grande, luminoso tratto d'acqua sotto la barca e per un

po' esplorai la zona per riabituarmi agli abissi; poi risalii in superficie per togliermi la bombola e prendere il Sub Bug. Dopo che Ian e io lo avemmo trascinato insieme in acqua, mi attaccai alle maniglie posteriori e avviai il motore. Una delle caratteristiche curiose delle immersioni è che, mentre la muta e le attrezzature sembrano ingombranti, pesantissime e poco maneggevoli in superficie (è in genere una delle cose che spaventano i principianti), una volta sott'acqua la pesantezza scompare, tutto fila liscio e l'unica preoccupazione è fare meno sforzi possibile per non consumare troppo ossigeno. È, quasi per definizione, lo sport meno aerobico che esista: non migliora la forma fisica.

In un primo tempo rimasi deluso, perché il Sub Bug" scendeva piano piano e non mi muovevo più in fretta che nuotando. Tuttavia, appena mi riabituai alla lentezza con cui accadono le cose sott'acqua, cominciai a godermi le lunghe, pigre curve che l'attrezzo, come un ballerino classico, descriveva, e che nuotando con le braccia lungo i fianchi o all'altezza del petto non avrei potuto compiere. Seguire i contorni della scogliera fu come sciare al rallentatore: un'idea quasi zen. Ci presi parecchio gusto, anche se dopo un quarto d'ora di giri avevo esaurito tutto il repertorio del Bug e non vedevo l'ora di nuotare di nuovo con le mie braccia e le mie gambe. Mi pare sia una macchina particolarmente adatta a persone che vogliono provare a immergersi, ma non hanno voglia di imparare a usare il giubbotto ad assetto variabile e le altre attrezzature.

Tornai alla barca, dove tirammo su il congegno e lo ricollocammo a poppa. Ora la prova l'avevo fatta, ma poiché ero preoccupato per il completo fallimento del mio assurdo piano di collaudo comparato, durante il pranzo ne parlai con Ian e Jane.

«Immagino di dover operare un confronto solo teorico tra i due viaggi sottomarini, valutando i pro e i contro» dissi. «Il Sub Bug ha l'indubbio vantaggio di essere in certa misura portatile. Lo si può trasportare in aereo, cosa che non potremmo fare con una manta, perlomeno non con una manta a cui volessimo bene e credo che, in linea di principio, tutti vogliamo bene alle mante, no? La manta ha il vantaggio della velocità e della manovrabilità; senza contare che non saremmo costretti a cambiarle la bombola ogni venti minuti. Certo, il Sub Bug può essere trasferito da un continente all'altro e questa è senz'altro la sua prerogativa più apprezzabile. Se lo si considera come un mezzo di trasporto, la mobilità ha un'importanza fondamentale. Ma proviamo a fare il ragionamento contrario. Il motivo per cui non possiamo cavalcare una manta è un sensato motivo di natura ecologica e, sotto il profilo ecologico, la manta vince facilmente il confronto. Anzi, qualsiasi mezzo di trasporto non si possa realmente usare giova moltissimo all'ambiente, non vi pare?

Ian annuì, solidale. «Posso riprendere a leggere il mio libro?» disse Jane. «Grazie.»

Nel pomeriggio Ian disse che voleva portarmi da un'altra parte. Gli chiesi perché,

ma non mi rispose. Lo seguii in acqua e piano piano, a colpi di pinne, ci dirigemmo verso una zona in cui non ero stato. Quando arrivammo dove diceva lui, la cima appiattita della barriera si trovava ad appena un metro dalla superficie e la luce del

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sole rendeva screziati i meravigliosi contorni e colori del corallo cervello, del corallo ramificato, delle felci e degli anemoni di mare. Spesso le cose che si vedono sott'acqua sembrano una bizzarra parodia delle cose che si vedono sulla terra. Ricordo che anni fa, quando mi immersi per la prima volta nella Grande barriera corallina, pensai che conchiglie, spugne eccetera erano proprio gli oggetti che la gente teneva sulla mensola del caminetto negli anni Cinquanta. Impiegai qualche tempo a liberarmi dell'idea che la barriera corallina fosse un ammasso di ninnoli kitsch.

Non sono mai riuscito a imparare i nomi dei pesci. Sulla barca li studio sempre con gran buona volontà, poi una settimana dopo me li sono già dimenticati. Ma rimango incantato a guardare per ore l'incredibile varietà di forme e movimenti o rimarrei incantato a guardarli per ore se me lo permettesse l'ossigeno. Se non fossi ateo, credo che vorrei essere cattolico, perché se non è stata la selezione naturale a ideare i pesci, è stato sicuramente un italiano.

Nuotai lento nell'acqua bassa. A circa un metro da me la scogliera digradava dolcemente in un'ampia valle dal fondo ampio, piatto e scuro. Ian mi invitò a guardarlo meglio e non capii perché: mi pareva che l'unica cosa degna di nota fosse la mancanza di coralli interessanti. Poi, mentre guardavo, l'intero pavimento nero della valle si sollevò piano, si allontanò a poco a poco da noi e, nel farlo, mostrò lembi di ventre candido. Rimasi esterrefatto quando mi resi conto che non stavo contemplando un fondale, ma una grande manta di due metri e mezzo.

Compì un'ampia, maestosa virata, scostandosi maggiormente da noi e dirigendosi verso le acque profonde. Poiché sembrava spostarsi con estrema lentezza, decisi di seguirne i movimenti e scesi lungo la parete della scogliera. Ian mi fece segno di procedere piano, per non spaventarla. Presto mi resi conto che le sue dimensioni mi avevano tratto in inganno e che viaggiava molto più rapida di quanto avessi creduto. Vicino al profilo della barriera virò di nuovo e così ne vidi meglio la forma romboidale, da diamante. La coda, simile a quella della pastinaca, non è lunga. La cosa che più colpisce è la testa: dove si penserebbe di trovarla, c'è una sorta di ex testa mutilata da un morso. Dalle due estremità sporgenti del "morso", se capite che cosa intendo dire, pendono due rostri piegati all'ingiù. E su ciascun rostro c'è un grande occhio nero.

Mentre si muoveva incurvandosi nell'acqua, con le gigantesche pinne ondeggianti come ali, mi parve la creatura più bella e misteriosa che avessi mai visto. Qualcuno l'ha paragonata a un bombardiere Stealth vivente, ma è una similitudine infelice per una creatura così mite, elegante e maestosa.

La guardai girare attorno alla parete esterna della scogliera. Non riuscivo a seguirla da vicino, ma compiva virate così ampie che mi bastava percorrere distanze relativamente brevi per continuare a vederla. Volteggiò intorno alla barriera due o tre volte, poi scomparve e pensai di averla definitivamente persa. Allora mi fermai e mi gettai un'occhiata intorno: no, non c'era più, se n'era andata. Mi dispiacque, ma ero anche euforico per la meraviglia appena vista. A quel punto scorsi un'ombra che si muoveva sul fondo marino alla periferia del mio campo visivo e, guardando in alto, rimasi sbalordito.

La manta galleggiava lassù, in cima alla scogliera, solo che stavolta era seguita da due compagne. Procedendo in fila perfetta e muovendo le pinne quasi all'unisono,

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come seguissero il binario invisibile di un ottovolante, le tre grandi creature si tuffarono insieme a tutta velocità, perdendosi nelle scure profondità marine.

Fui molto taciturno quella sera, quando imballammo il Sub Bug nello scatolone argentato. Ringraziai Ian per avere trovato le mante e gli dissi che avevano ragione gli australiani a vietarci di disturbarle.

«Ah, nessun problema, amico» disse. «Nessun problema, si figuri.»

1992

Quali sono i suoi scrittori preferiti? Charles Dickens, Jane Austen, Kurt Vonnegut, P.G. Wodehouse, Ruth Rendell.

Sunset at Blandings16

È l'ultimo romanzo - incompiuto - di P.G. Wodehouse. È incompiuto non solo nel senso che si interrompe a metà (un vero strazio per chi ami questo scrittore e la sua opera), ma anche nel senso, più grave, che pure quella metà è incompiuta. Nella prima stesura Wodehouse introduceva e organizzava gli elementi essenziali della storia: l'intreccio, i personaggi e i loro movimenti; le montagne su cui salivano e le rupi da cui cadevano. Ma era il secondo stadio della scrittura, quando rivedeva, limava e correggeva il testo con autocritica implacabile e perfezionismo instancabile, a trasformare le sue opere nei piccoli capolavori linguistici che conosciamo e amiamo. Quando scriveva un libro, egli attaccava con le puntine i fogli alle pareti dello studio, lasciandoli ondeggiare. Appuntava in alto le pagine che riteneva a posto e in basso quelle cui sentiva di dover ancora lavorare. L'obiettivo era portare l'intero manoscritto all'altezza della sbarra per appendere i quadri, prima di consegnarlo all'editore. Credo che gran parte di Sunset at Blandings non abbia mai superalo l'altezza dello schienale delle sedie. Era un work in progress. Molte delle parole da cui è composto sono solo dei tieniposto in attesa delle successive revisioni, ovvero dei fini concetti e delle vive immagini che avrebbero promosso le pagine al livello superiore.

Si trovano lo stesso nel romanzo abbondanti prove del grande genio di Wodehouse? Francamente no. Non solo perché è un work in progress interrotto, ma anche perché, all'epoca in cui lo scrisse, Pelham Grenville aveva novantatré anni e a quell'età credo si abbia pieno diritto di essersi lasciati le opere migliori alle spalle. In certo modo, Wodehouse fu condannato dalla straordinaria longevità (nacque l'anno prima che morisse Darwin ed era ancora attivo vari anni dopo che i Beatles si erano divisi) a diventare il Pierre Menard del Cervantes che lui stesso era stato. (Non spiegherò che cosa intendo dire. Se non avete capito la citazione, leggete il racconto di Jorge Luis Borges Pierre Menard, autore del Chisciotte.17 È lungo cinque o sei pagine e sentirete il bisogno di mandarmi una cartolina per ringraziarmi di avervelo segnalato.) Ma sentirete anche il bisogno di leggere Sunset at Blandings, sia per avere 16 Il romanzo, essendo incompiuto, non è stato pubblicalo in Italia. [N.d.T.] 17 In Finzioni, Einaudi, Torino, 1995. [N.d.T.]

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una visione completa della produzione dell'autore, sia perché dalla stessa incompiutezza del romanzo ricaverete l'inattesa sensazione di trovarvi davanti a un Maestro al lavoro; di trovarvi, per così dire, davanti alle impalcature e ai barattoli di colore durante l'esecuzione degli affreschi alla Cappella Sistina.

Maestro? Grande genio? Sì, certo. La lingua inglese ha un enorme, incomparabile pregio: avere permesso che uno dei suoi maggiori virtuosi, un professionista al vertice dei vertici, fosse un umorista. Ma forse, dopotutto, non è così strano. Quale altro autore al vertice dei vertici era maestro di arguzie? Jane Austen, naturalmente; e poi Dickens e Chaucer. L'unico che non riusciva manco morto a fare una battuta divertente era Shakespeare.

Insomma, sì, siamo franchi e abbiamo una volta tanto il coraggio di dire la verità. Non c'è niente di peggio che guardare certi attori inglesi affannarsi a gigioneggiare nel ruolo, poniamo, di Dogberry in Molto rumore per nulla. Per quanto si sforzino di essere brillanti, non ci sono santi: non si ride. In genere cerchiamo di nascondere il fatto che le commedie shakespeariane facciano cagare definendo l'espediente comico usato dall'autore "malapropismo", dal personaggio di Mrs Malaprop, la quale usa quell'espediente nei Rivali di Sheridan, con la differenza che Sheridan fa ridere.18 E piantiamola di dire che con Shakespeare non si ride perché Shakespeare scriveva nel Sedicesimo secolo. Che cosa c'entra? Chaucer non trovava difficile essere spiritosissimo nel Quattordicesimo secolo, quando lo spelling era ancor peggiore.

Forse è perché il nostro più grande scrittore non sapeva far ridere che abbiamo deciso di giudicare irrilevante la capacità di far ridere. Ma la decisione è ingenerosa nei confronti di Wodehouse (al quale comunque non sarebbe potuto fregare meno), un autore che aveva il dono di divertire in maniera così sublime da fare invidia al più puro dei poeti. Davanti alla precisione con cui egli gioca simultaneamente con tutte le proprietà di una parola - significato, timbro, ritmo, gamma di correlazioni e sapori idiomatici - Keats si inchinerebbe. Keats sarebbe stato fiero di scrivere che "il sorriso gli svanì dal viso come il respiro dalla lama del rasoio", o che la risata di Honoria Glossop sembrava "la cavalleria su un ponte di latta". Credo che in fondo lo stesso Shakespeare, quando scrisse: "Un uomo può sorridere, sempre sorridere ed essere un mostro"19 avrebbe apprezzato una frase come: "Molti degli uomini che hanno un'apparenza rispettabile sono fin troppo inclini a nascondersi dietro una scala a chiocciola".

Quella di Wodehouse è pura musica in parole. Non importa affatto che scriva infinite variazioni su argomenti come maiali rapiti, maggiordomi altezzosi o imbrogli assurdi. Egli è il grande musicista della lingua inglese ed eseguire variazioni su un tema noto è ciò che fanno quotidianamente i musicisti. Anzi, l'argomento trattato mi pare mirabilmente irrilevante. La bellezza non tratta di qualcosa. Di che tratta un vaso? Di che trattano un tramonto o un fiore? Di che tratta il Ventitreesimo concerto per pianoforte di Mozart? Qualcuno dice che tutta 1 arte aspira alla condizione di musica20 e la musica - a meno che sia cattiva - non tratta di qualcosa. La musica da film, sì, tratta di qualcosa. La marcetta del film I guastatori delle dighe tratta di 18 Il "malapropism" è l'uso errato delle parole difficili o lo scambio di parole dal suono simile. [N.d.T.] 19 Amleto, atto I, scena V. [N.d.T.] 20 Walter Pater in Il Rinascimento: "Ogni arte aspira costantemente alla condizione di musica". [N.d.T.]

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qualcosa. Una fuga di Bach, invece, è pura forma, pura bellezza, pura giocosità e credo che, sotto il profilo dell'arte e delle realizzazioni umane, ben poche cose raggiungano le vette di una fuga di Bach. Forse la teoria delle interazioni del fotone nell'elettrodinamica quantistica, forse un racconto wodehousiano come Uncle Fred Flits By.

Se non sbaglio, Evelyn Waugh ha definito il mondo di Wodehouse un Eden prima della caduta, ed è vero che nel ciclo di Blandings Plum, se così posso chiamarlo,21 è riuscito a creare e mantenere in vita un Paradiso infinitamente buono e innocente, un'impresa che, vale la pena ricordarlo, fu impari perfino per John Milton, il quale forse si pose un obiettivo superiore alle sue forze. Come Milton, Wodehouse cerca all'esterno del Paradiso le metafore con cui rendere credibile a chi legge il Paradiso stesso. Ma mentre Milton, piuttosto confusamente, le pesca nel mondo degli dèi e degli eroi classici (come gli sceneggiatori televisivi che rimandano sempre e soltanto ad altri spettacoli televisivi), Wodehouse ricorre a un vivido realismo. "Studiò con cura la cassaforte, ansimando piano come formaggio che, fondendosi, si avvicinasse al culmine del bollore." "I baffi del duca si alzavano e abbassavano come alghe nel flusso e riflusso della marea." Quando si tratta di trovare metafore efficaci (sì, d'accordo, non sono metafore ma similitudini, se proprio insistete), il Maestro non è secondo a nessuno. Anche se, certo, non si è mai assunto l'onere di spiegare le vie del Signore all'Uomo, ma solo di regalare all'Uomo qualche ora di immensa felicità.

Wodehouse meglio di Milton? Va bene, il paragone è assurdo, però io so quale dei due mi porterei dietro nell'isola deserta, e non solo per la compagnia, ma anche per l'arte.

Noi fan di Wodehouse siamo soliti telefonarci per comunicarci nuove scoperte, ma renderemmo al grande autore un cattivo servizio se citassimo in pubblico le nostre frasi preferite, come: "Si formò del ghiaccio sulle pendici più alte del maggiordomo" o: "… come molti americani veraci, si era sposato da giovane e aveva continuato a farlo, saltando di bionda in bionda come un camoscio alpino salta di picco in picco" o (permettetemi di riportarne una terza, al momento attuale la mia preferita): "Si girò con un guizzo colpevole, come un ballerino che, durante un adagio, fosse stato sorpreso a versare acqua nel latte del gatto"; gli renderemmo un cattivo servizio, dicevo, perché, per quanto indiscutibilmente stupende, tali frasi, estrapolate dal contesto, sono un po' come pesci imbalsamati sulla mensola del caminetto. Bisogna vederle in azione perché siano veramente incisive. Presa da sola, l'affermazione di Freddie Threepwood, "Ho qui nel sacco solo qualche ratto", non lascia intuire che, inserita nel proprio contesto, rappresenti uno dei momenti più sublimi di tutta la letteratura inglese.

Shakespeare? Milton? Keats? Come mi permetto di menzionare l'autore de / gioielli di Monty Bodkin e / porci hanno le ali accanto a questi grandi geni? Wodehouse non è serio!

Non ha bisogno di essere serio, perché è al dì sopra di queste distinzioni. È nella stratosfera delle grandi creazioni umane, al di sopra della tragedia e del pensiero forte; è là dove troviamo Bach, Mozart, Einstein, Feynman e Louis Armstrong: nel

21 "Plum" era il soprannome di P.G. Wodehouse. [N.d.T.]

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regno del puro gioco creativo.

Dall'Introduzione a Sunset at Blandings (Penguin Books)

Il tè

Alcuni americani mi hanno chiesto perché gli inglesi amino tanto il tè, che a loro, come bevanda, non sembra niente di speciale. Per capire come mai ci piaccia il tè, bisogna prepararlo come si deve.

Vi è un principio semplicissimo da seguire nella preparazione del tè: perché si ottenga il giusto sapore, l'acqua deve stare bollendo (non essere bollita) quando si mischia alle foglie. Se è solo molto calda, il tè non sa di niente. Per questo noi inglesi seguiamo lo strano rituale di scaldare prima la teiera (così l'acqua bollente non si raffredda troppo quando vi viene versata). E per questo l'abitudine americana di portare al tavolo una tazza da tè, una bustina di tè e una cuccuma di acqua calda rappresenta il sistema migliore per produrre una tazza di pallido, scipito, brodoso tè che nessuna persona sana di mente vorrebbe mai bere. Tutti gli americani si chiedono stupiti come mai gli inglesi vadano matti per il tè perché la maggior parte degli americani NON HA MAI BEVUTO UNA BUONA TAZZA DI TÈ. Ecco il motivo per cui non capiscono questa bevanda. Anzi, per dirla tutta, ormai nemmeno gli inglesi sanno più preparare il tè come si deve e la maggior parte di loro beve al suo posto uno schifoso caffè liofilizzato; ed è un peccato, perché così gli americani hanno l'impressione che gli inglesi siano dei cretini quanto alla scelta di bevande calde stimolanti.

Perciò il miglior consiglio che possa dare a un americano appena sbarcato in Inghilterra è: vai da Marks and Spencer, compra un pacchetto di tè Earl Grey, torna al tuo alloggio e metti a bollire una cuccuma d'acqua. Quando l'acqua sta per bollire, apri il pacchetto sigillato e odoralo, tenendo conto che è perfettamente normale provare un lieve capogiro. Appena l'acqua bolle, versane un poco nella teiera, agita quest'ultima in modo che le pareti si scaldino e ributta fuori l'acqua. Infila due (o tre, secondo le dimensioni del recipiente) bustine nella teiera. (Se volessi davvero condurti sui sentieri della virtù ti direi di usare il tè in foglia anziché in bustine, ma vediamo di scegliere la strada più facile.) Riporta la cuccuma a bollore e versa l'acqua bollente nella teiera più in fretta che puoi. Lascia il tè in infusione per due o tre minuti, quindi versalo nella tazza. Alcuni ti diranno che l'Earl Grey non va servito con il latte, ma con una fetta di limone. Mandali a fare in culo. A me piace con il latte. Se pensi possa piacere anche a te, versa un goccio di latte sul fondo della tazza prima di versare il tè.22 Versando il latte dopo, nella tazza di tè bollente, lo porteresti quasi a ebollizione. Se pensi invece che ti piaccia di più con una fetta di limone, aggiungi una fetta di limone. 22 L'atto è socialmente scorretto. Il modo socialmente corretto di versare il tè è aggiungere il latte dopo. È noto che la correttezza sociale non ha mai avuto nulla a che spartire con la logica, la ragione e la fisica. Anzi, in Inghilterra è in genere considerato socialmente scorretto sapere molte cose o riflettere sulle cose. È opportuno tenere questo concetto bene a mente quando si va in visita. [N.d.A.]

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Bevi. Dopo qualche istante comincerai a pensare che il paese in cui sei arrivato non è poi forse così strambo e folle come credevi.

12 maggio 1999

La Scalata del Rinoceronte

Dall'asfalto arrivano grandi zaffate di caldo equatoriale. In Kenya è la breve stagione delle piogge, ma in pochi minuti il sole ha eliminato l'umidità mattutina. Tutto coperto di crema solare a protezione 100, cammino a un buon ritmo di marcia lungo la strada che si perde in lontananza nella foschia da calura. Davanti e dietro a me vi sono altri viandanti: alcuni camminano lenti, altri procedono rapidi, altri ancora paiono arrancare, ma in pratica tutti vanno alla stessa velocità. Uno di loro indossa un grande costume con l'anima di metallo ricoperta di fibre sintetiche intrecciate e tinte di grigio. Alla maschera è applicato un grande corno, perché il costume, grottesco e caricaturale ma non privo di un certo fascino, rappresenta un rinoceronte che va per la sua strada. Il sole picchia forte. Camion sbilenchi ci superano con sprint pericoloso, divorando il terreno, e gli autisti urlano e ridono vedendo il rinoceronte. Quando, come accade sovente, passiamo accanto a un camion che si è rovesciato ed è fermo sulla banchina con le viscere all'aria, ci chiediamo se non abbia sbandato perché guardava noi.

I miei compagni sono in marcia da parecchi giorni, ormai; da Mombasa, sulla costa, sono arrivati attraverso l'arteria principale fino alla fermata dei camion a Voi, il locale centro dell'universo. Io mi sono unito al gruppo ieri sera: sono giunto da Nairobi con una Land Rover cigolante in compagnia di mia sorella Jane, che da tempo lavora per Save the Rhino International, e ci troviamo qui proprio per sostenere questa associazione per la salvaguardia dei rinoceronti. Seguiremo la strada finché, verso il confine con la Tanzania, l'asfalto non finirà.

Laggiù al confine sorge il monte Kilimangiaro, la più alta vetta del mondo. Ed è il Kilimangiaro che scaleremo noi. Noi, un gruppetto di inglesi decisi a percorrere molte miglia al giorno sotto il sole cocente indossando a turno un pesante costume da rinoceronte. Roba che i matti non se la sognano neanche.

Che cos'è questa storia della "vetta più alta del mondo"?, immagino direte. Non è l'Everest a meritare l'onorevole appellativo? Dipende solo dal punto di vista. Certo, l'Everest è 8848 metri sopra il livello del mare: un'altezza ragguardevole. Ma se decidessimo di scalarlo seguendo una guida esperta, molto probabilmente inizieremmo a salire da un punto dell'Himalaia. E cominciare a salire da qualsiasi punto dell'Himalaia significa essere già molto in alto, sicché, come racconta chi l'ha fatto, l'ultimo tratto fino alla vera e propria vetta dell'Everest si risolve in poco più di una bella corsetta. Oggi, per continuare a rendere interessante l'arrampicata, si evita di portarsi dietro l'ossigeno o si scala in mutande o cose del genere.

Il Kilimangiaro, invece, non fa parte di una vasta catena montuosa come l'Everest. Occorse parecchio tempo per calcolare quale cima dell'Himalaya fosse la più alta e, se ben ricordo, il calcolo alla fine fu fatto su una scrivania di Londra. Lo stesso non si

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può dire del Kilimangiaro, che è di origine vulcanica e sorge solitario in mezzo a poche, insignificanti collinette. Quando si riesce finalmente a scorgerlo tra le nubi che rendono i contorni confusi all'orizzonte, d'un tratto ci si sente gelare il sangue e si esclama: «Ah, intendevate sopra le nubi!». Per guardarlo si è costretti a rovesciare la testa così indietro che più indietro non si può. «Dio mio…» Dalla base alla cima è la montagna più alta del mondo ed è senza dubbio un'impresa notevole scalarla con un costume da rinoceronte addosso. Di quest'idea balzana mi hanno parlato per la prima volta, mesi fa, David Stirling e Johnny Roberts, fondatori di Save the Rhino International, e all'inizio ho creduto che scherzassero. Mi hanno spiegato di avere comprato un intero stock di costumi da rinoceronte disegnati da Ralph Steadman per un'opera, e hanno detto che sarebbe stato fantastico indossarli per compiere la scalata del Kilimangiaro. Per tranquillizzarmi Dave ha precisato che erano già stati collaudati da alcuni marciatori della maratona di New York. «Avrà un'eco grandissima, credimi» ha sentenziato. «Non sto scherzando: davvero.»

Comincio a capire che aveva ragione quando arriviamo nei pressi del primo villaggio; e forse a questo punto converrà spiegare quale sia lo scopo della spedizione, che non è direttamente quello di raccogliere fondi per preservare la specie. I rinoceronti, che un tempo popolavano in gran numero le pianure dell'Africa orientale, ora sono pochissimi, ma in Kenya sono più salvaguardati che in tutti gli altri paesi africani. Il Kenya Wildlife Service di Richard Leakey, composto da ottomila soldati ben addestrati, ben equipaggiati, ben armati e molto motivati, rappresenta una formidabile forza di difesa; troppo formidabile, pensa qualcuno dei suoi critici. Ufficialmente, in Kenya la caccia di frodo "non costituisce più un problema", ma l'impegno a preservare le specie è in continua evoluzione e oggi abbiamo cominciato a capire che andare in Africa a dire con sicumera agli africani che non devono fare ai loro animali selvaggi quello che noi abbiamo fatto ai nostri e che noi siamo lì per impedire che lo facciano, non è il migliore degli atteggiamenti e va, a dir poco, corretto.

Le comunità che vivono lungo i confini dei grandi parchi nazionali hanno vita dura. Povere e malnutrite, hanno visto le loro terre ridursi a causa dei parchi e quando, ogni tanto, un leone o un elefante solitari fuggono dal recinto, sono le prime a subire danni. L'esigenza di preservare la biodiversità del pianeta non può non sembrare un'idea astratta a chi si è visto rovinare da un elefante il raccolto necessario a sfamare la famiglia o, peggio ancora, da chi abbia appena perso un familiare. Nel lungo periodo, non potranno più essere elementi esterni che non tengono in nessun conto i bisogni della popolazione locale a imporre la conservazione delle specie. Un giorno dovrà essere la stessa gente del luogo, consapevole delle proprie esigenze, a incaricarsi di preservare la fauna e la flora del suo territorio.

Il nostro itinerario ci conduce a lato e, in alcuni casi, in mezzo ai grandi parchi nazionali di Tsavo est e Tsavo ovest, e sono proprio gli abitanti di queste aree che siamo venuti a trovare e aiutare. Le centomila sterline che speriamo di raccogliere con la nostra marcia serviranno a costruire aule, rifornire biblioteche e finanziare altri progetti per la comunità. Vogliamo indurre la popolazione a capire che, se da un lato la fauna selvatica causa problemi, dall'altro è anche fonte di benefici.

Quando ci avviciniamo al primo villaggio, in testa al gruppo c'è Todd Jones con il

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costume da rinoceronte. Tutti portiamo la maschera a turno per un'ora e presto impariamo a capire dal modo di camminare chi la stia indossando in quel momento. Se il rinoceronte bighellona, dentro c'è Giles. Giles è un tipo alla Hugh Grant, un ex allievo della Gordonstoun School che da qualche anno si diverte a fare l'autostop in Africa con il paracadute. Si presenta nei campi d'aviazione, trova qualcuno che si accinge a volare nella direzione in cui grosso modo vuole andare lui, gli chiede un passaggio e poi, quando gli garba, si butta dall'aereo con il paracadute. La sua ragazza è una super top model che ogni due o tre mesi lo rintraccia, lo raggiunge in volo e poi (qui sono io a ipotizzare) lo fa lavare e spedire nella sua stanza d'albergo.

Se il rinoceronte arranca simpaticamente c'è dentro Tom. Tom è uno spilungone alla Wodehouse, con la carnagione poco adatta al sole africano. Ha l'aria affabile di un proprietario terriero e quando gli ho chiesto dove viveva mi ha risposto, in maniera piuttosto vaga: «Nello Shropshire».

Se il rinoceronte procede in fretta, con determinazione, c'è dentro Todd. Todd non è un matto inglese, perché è gallese. Ha in consegna i costumi da rinoceronte e li ha indossati in origine nell'opera per la quale erano stati disegnati, un'opera in cui gli è toccato portare sul groppone pesantissimi soprani. Mi ha confidato che avrebbe voluto fare il veterinario e invece ha finito per fare l'animale. In molti dei film, programmi o spot televisivi in cui qualcuno è travestito da animale, dietro la maschera c'è Todd. «Ho partecipato a Il leone, la strega e l'armadio» dice. «Indovina chi ero.» Una sera mi mostra le foto della sua famiglia: una bella istantanea di sua moglie, un'altra della sua bambina, una terza del maschietto nato da poco; e poi una in cui campeggia lui, travestito in maniera molto credibile da centauro azzurro.

Mentre il rinoceronte Todd procede veloce, comincia a venirci incontro un foltissimo gruppo di bambini che corrono, cantano, ballano e salmodiano: «Rino, rino, rino!». Presto ci circondano e ci accompagnano per due o trecento metri, finché raggiungiamo la piazza del villaggio, dove è stato preparato un ricevimento in nostro onore. Tutti gli abitanti ci accolgono con immenso entusiasmo. Ansimanti per il caldo, ci rovesciamo addosso bottiglie d'acqua e ci sediamo a guardare i ragazzini mettere in scena uno straordinario spettacolo di danze e canti corali. Quando dico "ragazzini" non parlo solo di settenni, ma anche di diciassettenni. È curioso come non abbiamo più un termine che descriva in maniera adeguata l'intera gamma infantile-adolescenziale. "Marmocchi"? Troppo supponente. "Fanciulli"? Obsoleto. "Minori"? Sembra che abbiano appena fatto irruzione in un magazzino e rubato qualcosa. Allora ragazzini. I ragazzini hanno scritto una canzone sul rinoceronte e ce la cantano. Intanto, quatto quatto, Giles prende il costume di Todd, se lo infila e poco dopo si unisce ai balli, ai salti e ai dondolamenti, giocando con i bambini, rincorrendoli e infine nascondendosi dietro un albero a fumarsi una sigaretta. Con un po' meno entusiasmo ci sediamo poi ad ascoltare i discorsi che alcuni dignitari del luogo hanno deciso di pronunciare. Ovunque andiamo, ci sono dignitari locali ansiosi di mostrarsi animati da spinto collaborativo.

A poco a poco capisco tutto il senso della mascherata. L'arrivo del rinoceronte e del gruppo di scalatori del Kilimangiaro è un evento che il villaggio attendeva da tempo e cui si stava preparando da mesi. È il più grande avvenimento dell'anno: un carnevale, una festa, una vacanza. La visita del "rinoceronte" sarà ricordata per anni

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dagli abitanti del villaggio, in particolare dai bambini, mentre la mera visita di un gruppo di fighetti inglesi con il cappello in testa non avrebbe avuto lo stesso forte impatto emotivo.

Ci accompagnano a vedere la scuola del villaggio. Come gli altri edifici, è fatta con blocchi di calcestruzzo di scorie ed è costruita solo per metà. Le porte e le finestre sono buchi vuoti; il mobilio è costituito da pochi banchi sgangherati e da due o tre tavoli da disegno su cui sono state stese dozzine di disegni di animali del luogo che i ragazzini hanno eseguito e che noi dobbiamo giudicare e premiare. I premi consistono in berretti da baseball con la scritta "Scalata del Rinoceronte" e l'accordo è che, chiunque sia il vincitore del premio, tutti gli abitanti del villaggio ricevano un berretto. Se riusciremo davvero a raccogliere con gli sponsor centomila sterline, la scuola del villaggio potrà essere portata a termine.

Quando alla fine ce ne andiamo, i ragazzini ci seguono per parecchi chilometri, ridendo, ballando e cantando canzoni improvvisate: comincia uno e subito gli altri, ricevuto il la, si uniscono al canto.

Come appaiono datate le parole, vero? Sembra patetico e melenso parlare di ragazzini che ridono e ballano e cantano insieme mentre sappiamo tutti benissimo che nella vita reale i ragazzini pensano solo a dare in escandescenze e drogarsi. Ma, come tutti quelli che incontriamo durante il nostro viaggio, i ragazzini/fanciulli/minori del villaggio sono felici in una maniera che a noi, in Occidente, mette quasi in imbarazzo.

L'ultimo bambino si allontana. La Land Rover di sostegno procede lenta, distribuendo Coca-Cola e Fanta. Jim, il nostro fotografo, è seduto sulla sponda posteriore e ci fotografa con la sua Canon EOS I, che gli ho concupito fin da quando l'ho vista. Con la sua leggera Sony 3CCD, Keis, il nostro cameraman olandese, riprende la fila di marciatori. Mi chiedo in quale paese occidentale troveremmo mai un centinaio di ragazzini che cantano e ballano così.

Il giorno dopo tocca a me infilare il costume da rinoceronte, ma sono troppo alto e le gambe mi fuoriescono ridicolmente dall'estremità inferiore, sicché sembro un gigantesco tempura di gamberetti. All'interno, il caldo e il puzzo di sudore e di disinfettante rancidi sono insopportabili finché non mi rassegno all'idea. Todd mi cammina a fianco, tenendomi impegnato nella conversazione. Dopo un poco capisco che mi sta controllando per paura che svenga. Todd è una brava persona e mi è molto simpatico. Si prende grande cura della gente e si prende ancor più cura del suo amato costume da rinoceronte.

Mi fermo per versarmi acqua in faccia e in gola e, per un istante, mi vedo nello specchietto della Land Rover. Ho un'aria incredibilmente stupida e d'un tratto penso vi sia qualcosa di molto strano in questa storia della scalata sponsorizzata. Queste maratone sono sempre fatte per buone cause: la ricerca sul cancro, soccorsi alle popolazioni colpite da carestia, preservazione di fauna e flora selvatiche ecc., però in fondo che cosa dice lo sponsor? Dice: «Va bene, state cercando di raccogliere fondi per una degnissima causa e capisco che la questione è importante, anzi cruciale, visto che alcune vite o addirittura intere specie sono a rischio e che occorre intervenire subito. Ma, ecco, non so… Insomma, se farete qualcosa di assolutamente stupido e insensato e magari anche un po' pericoloso, vi finanzio, altrimenti niente».

Partecipo alla maratona solo per una settimana. Non arrivo a scalare il

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Kilimangiaro, anche se arrivo a vederlo. Mi dispiace molto non riuscire a scalarlo, anche se, dopo averlo visto, devo dire che non mi dispiace moltissimo. Per un attimo vedo anche un rinoceronte vero, un rappresentante delle molte migliaia di rinoceronti che un tempo popolavano la zona, e mi chiedo se sia vero che le cose gli sono andate così male. In fondo, noi esseri umani siamo su questo pianeta da un milione di anni e in questo breve lasso di tempo abbiamo affrontato infinite minacce alla nostra sopravvivenza: carestie, epidemie, guerre, Aids. I rinoceronti sono qui da quaranta milioni di anni e soltanto un nemico li ha minacciati e portati sull'orlo dell'estinzione: l'uomo. Noi non siamo l'unica specie che ha provocato devastazione nel mondo e bisogna dire, a nostra difesa, che siamo l'unica che sia divenuta consapevole dell'effetto del proprio comportamento e che abbia cercato di rimediarvi. Mentre, sistemato il costume in maniera che non mi dia fastidio, guardo la strada attraverso le fessure degli occhi sopra il corno di plastica ballonzolante, rifletto che, nonostante tutte le avversità cui ci siamo trovati di fronte, in qualche strano modo siamo sempre riusciti a cavarcela.

"Esquire" marzo 1995

Riservato ai bambini

Dovete imparare la differenza tra sabato e sarago. È una differenza molto semplice, ma importante. Il sabato viene alla fine della settimana, mentre il sarago viene dal mare. Come molti concetti, bisogna ammettere che non è un concetto facile da capire. Il sarago non lo vediamo finché non lo peschiamo, lo mettiamo in padella e lo mangiamo. Questa è una cosa che naturalmente non faremmo a un sabato, anche se potremmo farla di sabato. Possiamo, volendo, cuocere il sarago anche di venerdì o di giovedì.23 La faccenda è un po' complicata, ma se ci si riflette un attimo su se ne viene a capo.

È bene che conosciate anche la differenza tra bufera e balera. È una differenza semplicissima. Anche se suonano simili, le troviamo in zone così diverse del mondo che è facile distinguerle. Se siamo da qualche parte del circolo polare artico, probabilmente stiamo vedendo una bufera, mentre se ci troviamo in un posto caldo e asciutto tra gente che balla all'aria aperta, stiamo più probabilmente vedendo una balera.

A proposito di posti caldi e asciutti, guardate quest'animale: è un lemure che vive nel caldo e asciutto Madagascar. I lemuri sono di molti tipi e vivono tutti lì. 11 Madagascar è un'isola, un'isola grandissima, assai più grande di un cappello, ma non grande come la luna.

La luna è molto più grande di quanto non appaia. Vale la pena ricordarlo, perché la prossima volta che la guarderemo potremo dire con voce profonda e misteriosa: «La

23 Nel testo, "on Thursday or on a cooker" (di giovedì o su un fornello): il gioco di parole è dovuto al diverso significato di on. Ma naturalmente si è dovuta adattare anche l'assonanza tra le coppie di parole (Friday/fried egg, blizzard/lizard, road/woad, startling/starling). [N.d.T.]

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luna è molto più grande di quanto non appaia» e la gente capirà che siamo persone sagge che hanno riflettuto a lungo sulla cosa.

Questo particolare lemure è chiamato lemure dalla coda ad anelli. Nessuno sa perché si chiami così e generazioni di scienziati vi hanno strologato sopra inutilmente. Un giorno una persona molto saggia capirà forse il motivo per cui questo animale è chiamato lemure dalla coda ad anelli. Se la persona saggia sarà straordinariamente saggia, confiderà il segreto solo ad amici molto intimi e lontano dagli orecchi altrui, perché altrimenti tutti verranno a sapere la cosa e nessuno si renderà più conto di quanto sia stata saggia lei a capirlo per prima.

Ecco altre due cose dal suono molto simile, anzi identico, che dovreste imparare a distinguere: il guado e il guado. Uno consiste nell'attraversare a piedi o a cavallo un fiume o un torrente, l'altro è un colorante azzurro, estratto da una pianta dello stesso nome, che migliaia d'anni fa gli antichi Britanni portavano addosso al posto dei vestiti. Di solito è facilissimo distinguere queste due cose, anche se hanno il suono uguale, perché il resto della frase ci fa capire a quale delle due ci si riferisce; ma se non ci sono elementi che ci aiutano a capire, succede una gran confusione: immaginate che problema dover strappare cento piante di guado per attraversare un fiume o guadare cento fiumi per avere qualcosa da indossare la sera all'appuntamento con un druido.

I druidi vivevano migliaia di anni fa. Portavano lunghi abiti bianchi e avevano strane convinzioni in merito al sole e alla sua bellezza. Sapete che cos'è una convinzione? Suppongo che qualcuno nella vostra famiglia ne abbia qualcuna, perciò chiedetegli di parlarvene. Domandare alle persone che convinzioni hanno è un ottimo sistema per farsi degli amici. Anche dire alle persone quali convinzioni abbiamo noi può funzionare, ma non sempre altrettanto bene.

Oggigiorno quasi tutti sanno che il sole è molto bello, per cui non ci sono più in giro molti druidi; alcuni, però, esistono ancora, e ci ricordano la bellezza della nostra stella quando, ogni tanto, ce ne dimentichiamo. Se vedete qualcuno che indossa una lunga veste bianca e parla molto del sole, forse è un druido. Se scoprite che ha duemila anni, allora lo è di sicuro.

Se invece questa persona che avete trovato ha una veste bianca un poco più corta, con i bottoni sul davanti, forse non è un druido, ma un astronomo. Se è un astronomo, potreste chiedergli per esempio quanto è lontano il sole. La risposta forse vi frastornerà. Se non vi frastorna, ditegli da parte mia che non vi ha saputo illustrare il concetto. Dopo che vi ha spiegato quanto è lontano il sole chiedetegli quanto sono lontane certe stelle. Questo vi frastornerà ancora di più. Se non riuscite a trovare un astronomo, domandate ai vostri genitori di trovarvelo. Non tutti gli astronomi indossano camici bianchi ed è per questo che a volte sono difficili da individuare. Alcuni portano jeans o giacca e cravatta.

Quando diciamo che una cosa ci frastorna, intendiamo dire che ci provoca confusione mentale. Quando diciamo che una cosa è uno storno, ci riferiamo a un uccello migratore. "Uccello" è una parola che usiamo molto spesso e questo è il motivo per cui è così facile da dire. La maggior parte delle parole che usiamo più spesso, come "casa" o "albero", sono facili da dire. "Migratore" è una parola che non

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usiamo tanto spesso e a volte, quando la pronunciamo, abbiamo l'impressione di avere in bocca una caramella mou. Se gli uccelli si chiamassero "migratori" anziché "uccelli", forse non parleremmo quasi mai di loro, ma diremmo: "Guarda, un cane!" o: "Guarda, un gatto!"; e se passasse in cielo un migratore probabilmente diremmo: "Sbaglio o si è fatta l'ora del tè?" e non lo nomineremmo neanche se fosse bellissimo.

Ma "migratore" non significa che i denti sono appiccicati come quando mastichiamo una caramella mou, anche se abbiamo quell'impressione: significa che l'animale passa una parte dell'anno in un paese e un'altra in un altro.

Il Quinto concerto brandeburghese

Quali che siano i nuovi, grandi progressi che compiamo nella scoperta e nella comprensione delle cose, Bach, constatiamo, ci ha sempre preceduto. Quando vediamo le immagini delle strane bestie matematiche che si nascondono al centro del mondo naturale - dai paesaggi frattali alle spirali di disegni paisley dell'insieme di Mandelbrot, dall'insieme di Fibonacci, che descrive la configurazione delle foglie sul gambo di una pianta, agli attrattori strani che battono nel cuore del caos sono sempre le vertiginose, complesse spirali di Bach a venirci in mente.

C'è chi dice che la complessità matematica della sua musica renda Bach un compositore freddo. Credo sia vero proprio il contrario. Quando ascolto l'interazione delle melodie in un pezzo polifonico di Bach, ogni singolo valore armonico detta un diverso sentimento alla mia anima e guida questi sentimenti lungo un intreccio di ottovolanti emotivi. Una parte canta quieta fra sé, un'altra è esilarata, una terza singhiozza in un angolo, una quarta danza. Scoppiano liti, risate, scontri rabbiosi, poi si ristabilisce la pace. Le parti sono magari diversissime, eppure appartengono a un insieme non meno indivisibile ed emotivamente complesso di una famiglia.

Ora che stiamo scoprendo come ogni mente sia una famiglia di diversi elementi che operano separatamente, ma che, integrandosi, creano i fugaci baluginii denominati coscienza, dobbiamo riconoscere che, ancora una volta, Bach ci ha preceduto.

Quando ascoltiamo il Quinto concerto brandeburghese, non occorre un musicologo per spiegarci quanto sia originale e innovativo. Anche due secoli e tre quarti dopo, intuiamo che il maestro, al culmine della creatività e pervaso da un'inconfondibile, pulsante energia, ha fatto con totale fiducia e sicurezza di sé qualcosa di straordinariamente audace. Quando Bach lo scrisse, si mise al clavicembalo anziché alla viola che di solito suonava in orchestra. Attraversava un periodo felice e produttivo della vita, in cui era finalmente circondato da bravi musicisti. Per tradizione il clavicembalo svolgeva solo un ruolo di sostegno nelle composizioni per orchestra, ma non fu così questa volta: Bach ebbe l'incredibile coraggio di assegnargli una funzione portante.

Nel primo movimento si ha l'impressione di sentire qualcosa di nuovo, strano e inquietante generarsi da solo. Forse è un gigantesco motore oppure un grande cavallo che, mentre si prepara a un'impresa erculea (non possiamo fare a meno di azzardare

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metafore quando tentiamo di descrivere la musica con le parole), ha intorno un folto gruppo di aiutanti indaffarati. Cammina, trotta, si concede ogni tanto al piccolo galoppo e infine galoppa senza freni in una corsa di prova cui gli aiutanti lo incoraggiano trattenendo il fiato. Poi torna indietro, ripercorre rapido la pista e appena gli altri strumenti si azzittiscono, libero e solo scalpita, ansima, scatta gagliardo avanti…

E si lancia: corre, strepita, sale, si arrampica, scavalca, s'affanna, si contorce, si dibatte, pesta, pesta e ripesta il terreno, vola avanti con disperata furia e poi, con un'ultima, imprevista zampata nelle note basse, arriva libero al traguardo della melodia principale che entra trionfalmente in scena; e tutto finisce, salvo il pianto e la danza (ovvero il secondo e il terzo movimento).

Il fatto che i Brandeburghesi siano tanto famosi non dovrebbe impedirci di coglierne ogni volta la straordinaria bellezza. Sono convinto che Bach sia il più grande genio mai comparso sulla faccia della Terra e che i Brandeburghesi siano la musica che scrisse quando era felice.

Penguin Classics, vol. 27 Johann Sebastian Bach, Concerti brandeburghesi 5 & 6; Concerto per violino in la minore English Chamber Orchestra diretta da Benjamin Britten

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L'universo

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Frank il Vandalo

Il Macintosh è uscito cinque anni fa e da cinque anni ho gli operai in casa. L'altro giorno qualcuno mi ha chiesto che cosa stessero facendo e ho spiegato che nemmeno io avevo trovato il coraggio di chiederglielo.

Le cose sono complicate dal fatto che uno di loro è un elettricista di nome Frank il Vandalo. 0 meglio, i suoi amici, se ve ne sono che non si trovino all'ospedale, lo chiamano Frank, e io lo chiamo Frank il Vandalo perché ogniqualvolta deve raggiungere un filo spacca qualunque cosa si trovi tra lui e il filo: intonaco, pannelli di legno, tubature, cavi del telefono, mobili, pezzi di filo che lui stesso ha installato in precedenti incursioni. Mi assicurano che è un ottimo elettricista, però credo non sia un ottimo essere umano. Ma torniamo al discorso che avevo iniziato e che ho interrotto perché, un attimo dopo che avevo salvato il file per l'ultima volta, Frank mi ha tolto la corrente. Dov'ero arrivato? Ah, sì.

La casa era un vero e proprio rudere quando l'ho comprata. Non uno sconquasso come quando viene Frank, ma un guscio vuoto in cui bisognava mettere pareti, pavimenti, tubature e così via. Quando si devono tirare su i muri, arriva a casa un muratore esperto (perlomeno dovrebbe esserlo, anche se non sono sicuro che lo sia davvero) e costruisce i muri. Se c'è bisogno di parquet, scale, armadi e così via, si chiama un falegname che, fischiettando un'allegra canzoncina da falegname, viene a fare il suo mestiere. Poi arriva l'idraulico che la a sua volta il suo mestiere. Infine arriva Frank il Vandalo a sistemare qualche filo, ed ecco che il falegname e l'idraulico e tutti gli altri devono tornare per provvedere a sostanziose riparazioni. Bisognerà adesso che abbandoni l'argomento Frank, perché non c'entra con l'elegante similitudine che sto cercando di elaborare, ma il fatto è che Frank in questo momento mi rode l'animo e finché armeggia in casa mia mi è difficile mantenere la calma. Insomma cerchiamo di dimenticare Frank. Beati voi che potete farlo.

Bene, il succo della faccenda è questo: la mia casa è qui, a Islington. Ho bisogno di ristrutturarla e, se voglio ristrutturarla, devo prendere in mano il telefono (sempre che Frank non abbia ravanato con il cavo telefonico mentre cercava di raggiungere un interruttore della luce), chiamare qualcuno, farlo venire qui e fargli fare quello che desidero sia fatto.

Se voglio montare degli armadi, non sono costretto a demolire tutta la casa, spedirla a Birmingham dove abita il falegname, ricostruirla quel minimo da consentire al falegname di capirci qualcosa, dirgli di lavorarci e poi demolire di nuovo tutto, mandarlo a Islington e rimettere insieme i cocci per dare all'insieme un'aria presentabile.

Allora perché sono costretto a fare questo con il mio computer? Lasciate che mi spieghi meglio. Perché, quando lavoro a un documento con un certo word processor, scopro che se voglio fare una certa cosa devo praticamente demolire il documento e spedirlo a un secondo word processor che ha una caratteristica di cui ho bisogno e di cui il primo word è privo? (Perché non uso il secondo word processor, dite? Perché non possiede altre caratteristiche che il primo possiede, naturalmente.) Oppure

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perché, se voglio introdurre un'immagine nel documento, sono costretto a passare a un programma completamente diverso, costruire l'immagine lì e poi seguire la successiva, stupida trafila durante la quale scopro che, per qualche motivo, il mio word non sa gestire la grafica in quel particolare formato oppure afferma di saperla gestire, ma appena gli do l'ordine di gestirla mi guarda male, diventa tutto nero o fa andare in tilt la macchina? Alla fine sono costretto a incollare tutti i vari pezzi in PageMaker, il quale poi, chissà perché, si rifiuta di stampare. Lo so che MultiFinder ha reso tutto questo un poco più facile, ma è come rendere più facile andare a Birmingham, se capite cosa intendo.

Non voglio saperne nulla dei file PICT. Non voglio saperne nulla dei file TIFF. (NO, non voglio saperne: mi fanno accapponare la pelle.) Non voglio prendermi la briga di chiedere a MacWrite II in quale tipo di file devo salvare il mio lavoro perché Nisus lo possa leggere ed eseguirci sopra una delle sue interminabili macroistruzioni. Sono un utente Mac, Cristo santo. Usare il Mac dovrebbe essere facile.

Il Mac iniziò come un software meravigliosamente semplice ed elegante (dotiamo le idee belle e semplici di così poca memoria, che non riescono a funzionare nonostante la loro eccellenza), ed è ora che quella semplicità cominci a mostrarla oggi che è diventato un sistema molto, molto più potente e complesso.

In sostanza, vorrei poter fare le seguenti cose:

1. Accendere il computer 2. Lavorare 3. Divertirmi un po' se ho adempiuto al dovere di cui al punto 2, il che succede di

rado (ma questo è un altro discorso)

Quando dico "lavorare", intendo che vorrei poter digitare - e anche disegnare - sul monitor. O portare qualcosa dallo scanner al monitor o mandare qualcosa dal mio monitor a qualcun altro. O ordinare al Mac di suonarmi alla tastiera la canzone che ho scritto sullo schermo. O… La lista è ovviamente infinita. E se occorre un particolare strumento per fare qualcosa di complicato, chiedo semplicemente che mi venga dato. E con semplicemente intendo semplicemente. Non mi si dovrebbe mai costringere a interrompere il lavoro che sto facendo, a meno che non l'abbia realmente finito (un'eventualità, dicono i miei editori, assai remota) o a meno che non voglia fare qualcosa di completamente diverso.

Sto parlando in sostanza della morte della "applicazione". Non mi riferisco al fatto che ogni tanto l'applicazione defunge "inaspettatamente", ma al fatto che è ora di eliminarla definitivamente. In altre parole, trovare gli strumenti che ci sono necessari deve diventare semplice come incollare un bottone in HyperCard.

Ah, HyperCard! Lo so che farò arricciare molti nasi dicendo questo, perché in genere si ritiene

HyperCard troppo poco potente perché vi si possa fare del lavoro utile: in fondo è solo un primo tentativo di realizzare un'idea ancora allo stadio iniziale. La lista delle cose che non si possono fare con HyperCard è lunga quasi come la lista delle macro di Nisus. (Che cosa sono quelle interminabili robe? Basta scaricare il menu delle macro per far spegnere tutte le luci di Londra nord.) Ma è un'idea eccellente e mi

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piacerebbe tanto che fosse estesa all'intero funzionamento del Mac. Vuoi Excel, capace di eseguire tutti quei calcoli complessi? Glielo incolli sopra. Vuoi l'animazione? Incolli Director. E se non ti piace come funziona Director (devi essere pazzo, perché è brillante), incolli le parti che ti piacciono di qualunque strumento di animazione ti capiti di trovare.

O addirittura lo riscrivi. Se è correttamente scritto in object-oriented code, dovrebbe essere facile come

scrivere HyperTalk. (Ho capito, non sapete scrivere HyperTalk. Allora dovrebbe essere più facile che scrivere HyperTalk, così facile da permetterci di puntare direttamente il mouse sulle cose che ci interessano e di cliccare.) Perché essere tiranneggiati da progettisti di applicazioni che non hanno idea di come la gente reale lavori realmente? Non è giusto; dovremmo poter scegliere ciò che ci interessa e incollarlo.

Prima ho parlato di elettricisti. Ora vorrei parlare di stipi, anzi di un particolare stipo. Lo stipo si trova in un angolo del mio studio e non oso ficcarci il naso, perché so che se ce lo ficcassi ne uscirei solo a fine pomeriggio con la tristezza e l'amarezza di chi ha lottato contro un orrendo mostro nero serpentiforme ed è stato sconfitto. L'orrendo mostro nero serpentiforme è un groviglio di fili alti un metro che mi tormenta e ossessiona. Mi tormenta perché mi sussurra che, di qualunque filo io abbia bisogno in un dato momento per collegare un arcano congegno a un altro arcano congegno, quel filo non si troverà in nessuna delle sue viscere aggrovigliate; mi ossessiona perché so che ha ragione.

Odio i fili. Anche loro odiano me, perché intuiscono che un giorno entrerò finalmente in quello stipo con il lanciafiamme e li eliminerò tutti. Nel frattempo sono decisi a procurarmi tutta la rabbia e la frustrazione che possono. Non abbiamo bisogno di quei bastardi. Non dovremmo aver bisogno di quei bastardi.

Prendiamo la mia attuale situazione. Per salvarmi da Frank il Vandalo, ho trasferito questo articolo sul mio Mac portatile (lo so, lo so che mi odiate, ma prima o poi lo avremo tutti, il portatile, perché i prezzi, credetemi, caleranno. 0 meglio, anziché credere a me credete alla Apple. Sì, certo, capisco il vostro punto di vista, ma… posso riprendere il discorso?) e per precauzione supplementare mi sono trasferito con il portatile da un amico il cui impianto elettrico è al sicuro dai perfidi disegni - quali che siano - di Frank.

Quando torno a casa con l'articolo finito, posso copiarlo su floppy disk (sempre che ne trovi uno fra i detriti di capitoli incompiuti sparsi sulla mia scrivania), infilarlo nel Mac da tavolo e stamparlo (sempre che Frank non si sia avvicinato con la motosega portatile alla mia rete AppleTalk). O posso lottare contro il mostro nello stipo per cercare tra le sue viscere un altro filo per collegarmi ad AppleTalk. O posso strisciare carponi sotto la scrivania e scollegare AppleTalk dal computer da tavolo e collegarlo al portatile. O… Il quadro ormai è chiaro agli occhi di chiunque, ed è assurdo. Dickens non era costretto a strisciare carponi sotto la scrivania per staccare e attaccare spine; basta guardare la lunghezza in metri della sua produzione su uno scaffale per capire che non dovette mai staccare e attaccare spine.

Voglio solo una cosa: stampare dal mio portatile (povero piccolo). Anzi, voglio di più: voglio poter trasferire continuamente il mio indirizzario e la mia agenda dal

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portatile al IIx e viceversa. E tutti i miei capitoli non finiti. E tutte le altre cose con cui mi sto gingillando e che rappresentano il motivo per cui i miei capitoli non sono finiti. In altre parole, desidero che il mio portatile appaia sulla stessa scrivania del Macintosh IIx. E, per vederlo approdare alla scrivania, non voglio essere costretto ogni volta a combattere con i mostri dello stipo e poi arrabattarmi con tutte quelle configurazioni. Vi dirò che cosa vorrei fare perché il mio portatile apparisse sulla scrivania del Macintosh IIx.

Vorrei portarlo nella stessa stanza. Tac! Ecco là, il portatile è sul tavolo. Queste sono chiacchiere agli infrarossi o forse alle microonde, non so, non me ne

frega niente, come non me ne frega niente dei vari PICT e TIFF e RTF e SYLK e acronimi vari che significano solo: "Ecco una soluzione complicata a un problema complicato".

Sia chiara una cosa: adoro il mio Macintosh, o meglio la famiglia di tutti i Macintosh che ho sconsideratamente accumulato nel corso degli anni. L'ho adorato fin da quando, nel 1983, ne vidi uno negli uffici della Infocom di Boston. A catturarmi e incantarmi in tutti questi anni è stata l'idea alla base della sua progettazione, ossia: "Non c'è problema così complesso che non se ne possa trovare una soluzione semplice partendo dall'ottica giusta". 0, per dirla in altro modo: "La potenza del computer, in futuro, starà nella pura semplicità". Perciò ho due fondamentali desideri per gli anni Novanta: che i progettisti dei sistemi Macintosh tornino a quel futuro e che Frank il Vandalo se ne vada da casa mia.

"Mac User" 1989

Costruitelo e verremo

Ricordo la prima volta che vidi un personal computer. Fu da Lasky's, in Tottenham Court Road, e si chiamava Commodore PET. A forma di grande piramide, aveva uno schermo delle dimensioni di una tavoletta di cioccolata. Vi girai intorno con aria furtiva, affascinato. Ma era un oggetto inutile; non vedevo a che potesse servire un computer nella vita o nel lavoro di uno scrittore. Tuttavia avvertii i primi, timidi accenni di un sentimento che avrebbe finito per dare un significato radicalmente nuovo all'espressione "reddito disponibile".

Il motivo per cui ritenevo il computer del tutto inutile era che - come tutti - non sapevo bene cosa fosse: lo ritenevo un'addizionatrice un po' più complessa di quelle esistite fino ad allora. E proprio come addizionatrici con una lunga lista di caratteristiche furono concepiti gli iniziali "personal" computer (un'espressione che non si adatta a quasi nessuna delle macchine che abbiamo visto finora).

Quando perfezionammo la nostra capacità di gestire i numeri con queste macchine, ci chiedemmo che cosa sarebbe successo se avessimo fatto in modo che i numeri rappresentassero qualcos'altro, per esempio le lettere dell'alfabeto.

E a quel punto - eureka! - registrammo un progresso eccezionale, rivoluzionario.

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Ci rendemmo conto che solo per incredibile miopia avevamo ritenuto quel congegno una semplice addizionatrice. Era qualcosa di assai più interessante. Era una macchina per scrivere!

Così cominciammo a trasformarlo in una super macchina per scrivere con una lista sempre più lunga e incomprensibile di caratteristiche. Gli utenti di Microsoft Word sanno di cosa sto parlando.

Registrammo il progresso successivo quando facemmo in modo che quei numeri, i quali ormai correvano a velocità folle all'interno delle macchine, rappresentassero unità di informazione visiva sullo schermo, ossia pixel.

Ah, questo aggeggio adesso è ancora più interessante di una macchina per scrivere, pensammo. È una televisione con una macchina per scrivere piazzata davanti allo schermo!

E ora abbiamo il World Wide Web o www (ch'io sappia, l'unica sigla per pronunciare la quale - dablju dablju dablju - si impiega il triplo del tempo necessario a pronunciare le tre parole per esteso): un nuovo, entusiasmante modello. Un dépliant. Un grande dépliant tutto canti, danze, salti, bip bip e lampi.

Naturalmente il computer non è nessuna di queste cose. Queste cose le conoscevamo in precedenza nel mondo reale e abbiamo inserito il loro modello nel computer per poter usare quest'ultimo al meglio.

Finiamo così per capire un concetto interessante: il computer è in realtà un sistema di elaborazione di modelli.

Una volta compreso questo, comprenderemo che possiamo introdurvi qualsivoglia modello: non solo le cose che facciamo nel mondo reale, ma anche quelle che il mondo reale ci impedisce di fare.

Il dépliant che cosa non ci permette di fare? Il dépliant si propone innanzitutto di indurre la gente a comprare la sua merce e, a

questo scopo, si presenta più patinato e allettante che può e dice solo ciò che vuole che i consumatori sappiano. Non si può interrogare un dépliant. La maggior parte dei siti web aziendali sono così. Prendiamo quello della Bmw. Ha uno splendido, magnifico sito web che non risponde alle nostre domande. Non ci permette di sapere che esperienza hanno avuto gli altri acquirenti di Bmw, quali pregi e difetti ha un dato modello, quanto è affidabile, quanto costa mantenerlo, che tenuta ha sul bagnato e via dicendo. In altre parole, non ci dice nessuna delle cose che vorremmo sapere. Possiamo mandare un'e-mail alla casa automobilistica, ma la nostra domanda e la sua risposta - o la risposta di chiunque altro - non compariranno nel sito. Certo, a distanza di pochi clic di mouse vi sono molti siti web in cui le persone si scambiano quel tipo di informazioni, ma di tali indirizzi non troviamo parola nel sito della Bmw. In sostanza, se vogliamo informazioni adeguate e obiettive sulla Bmw, l'ultimo posto in cui cercarle è www.bmw.com, che è solo un dépliant.

Lo stesso discorso vale per la British Airways, la quale ci dice tutto quanto c'è da sapere sui voli British Airways, ma non rivela quali altre compagnie coprano quelle rotte. Quindi, volendo scegliere tra le varie possibilità, preferiremo guardare i molti altri siti che riportano le alternative. Questo non giova alla British Airways, la quale così non saprà mai che cosa cercavamo e se le sue offerte reggevano il confronto con quelle della concorrenza. Poiché tali informazioni sono indispensabili, l'azienda dovrà

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mandare squadre di intervistatori con il taccuino a scoprirlo, benché sia noto che la gente mente agli intervistatori con il taccuino.

Finora questo concetto lo hanno capito molto bene a www.amazon.com. Si visita il sito perché è pieno di informazioni condivise; ma più informazioni ci sono più gente ci va e più gente ci va più informazioni genera, con la conseguenza che Amazon vende sempre più libri. Certo, quelli di Amazon non temono l'aperto dibattito perché, diversamente dalla Bmw, non sono responsabili del prodotto che vendono. La Bmw e la British Airways impiegheranno molto tempo e dovranno tirare un respiro lungo e profondo per arrivare a capire che della comunità a cui vendono i loro prodotti fanno parte anche loro.

Ma pure ad Amazon vedono solo una parte del quadro generale, perché, come i negozi del mondo reale, registrano soltanto le vendite che fanno davvero. E le vendite che non fanno e che non sanno di non avere fatto perché non le hanno fatte? L'altro giorno sono andato sul loro sito perché volevo ordinare il DVD di un film del 1968, Romeo e Giulietta di Zeffirelli, e ho scoperto che non esisteva. Potevo comprarlo in VHS, ma non lo volevo in VHS, per cui l'affare è andato a monte. Non c'era però modo di far sapere ad Amazon che avevo cercato di comprare una cosa e che la cosa che volevo comprare non era disponibile. Potevo solo scegliere (o non scegliere) dall'elenco dei prodotti offerti: mi era vietato dire che cosa volevo in concreto. Così ho scritto ad Amazon per spiegare la faccenda e, pensate, ora la funzione è stata aggiunta. Sono molto in gamba, molto intelligenti, i signori di Amazon. Adesso forniscono agli studios informazioni sulla domanda di prodotti da parte della gente. E sulla base di un altro mio suggerimento - non del tutto disinteressato - condurranno un sondaggio sui libri di cui il pubblico amerebbe vedere la trasposizione cinematografica. Sono dati che finora nessuno era riuscito a raccogliere.

Ma spingiamoci un gradino più su. Quante volte abbiamo sfogliato un dépliant o un catalogo e pensato: "Vorrei che qualcuno scrivesse un libro su…" o: "Se solo qualcuno facesse una bici con…" o: "Perché qualcuno non fa un cacciavite che…" o: "Perché non lo fanno azzurro?" Un dépliant non può rispondere, la Rete invece sì.

Qua! è la cosa che vi piacerebbe tanto avere, se solo qualcuno avesse il buon senso di produrla? Chiunque abbia proposte, è pregato di visitare www.h2g2.com.

"The Independent on Sunday" novembre 1999

Ho trovato tre regole che descrivono le nostre reazioni alla tecnologia: 1. Qualunque cosa esista nel mondo quando nasciamo, ci pare normale e usuale e

riteniamo che faccia per natura parte del funzionamento dell'universo. 2. Qualunque cosa sia stata inventata nel ventennio intercorso tra i nostri quindici e

i nostri trentacinque anni è nuova ed entusiasmante e rivoluzionaria e forse rappresenta un campo in cui possiamo far carriera.

3. Qualunque cosa sia stata inventata dopo che abbiamo compiuto trentacinque anni va contro l'ordine naturale delle cose.

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Intervista a D.N.A. di "The American Atheist"

AMERICAN ATHEIST. È vero che, come dicono, lei si autodefinisce "ateo radicale", Mr Adams?

D.N.A. Sì. Uso il termine "radicale" con una certa libertà, solo per enfatizzare il sostantivo. Se mi definisco solo "ateo", c'è sempre qualcuno che dice: «Non intenderà piuttosto "agnostico"?» e sono costretto a rispondere che no, intendo proprio ateo. Non credo assolutamente che esista un dio, o meglio sono convinto che non esista un dio (una sottile differenza). Non c'è uno straccio di prova che suffraghi l'ipotesi dì un dio. Quando mi dichiaro ateo radicale, faccio capire al mio interlocutore che intendo proprio "ateo", che ho riflettuto a lungo sull'argomento e che nutro al riguardo una ferma convinzione. È strano, ma molti si stupiscano di sentir esprimere questo concetto con tanto vigore. Evidentemente in Inghilterra siamo passati da un vago, insulso anglicanesimo a un vago, insulso agnosticismo, due visioni che mi pare denotino lo scarso desiderio di riflettere sulle cose.

Tanti dicono: «Ma non è meglio essere agnostici, così, se c'è per caso un dio…?». Per me questa domanda rivela una stoltezza e una stupidità così abissali che preferisco estraniarmi dalla conversazione. (Se risultasse che mi sono sbagliato e che c'è davvero un dio e se per giunta questo dio si facesse impressionare da un simile ragionamento capzioso, degno di chi incrocia le dita dietro la schiena o di chi indulge a cavilli legali clintoniani, sceglierei comunque di non adorarlo.)

Altri obiettano che non posso sapere che non c'è un dio. Credere che non ci sia un dio, dicono, non è altrettanto irrazionale e arrogante che credere che ci sia? No, rispondo, e per varie ragioni. Prima di tutto non è vero che "credo che non ci sia un dio". Non vedo che cosa c'entri la credenza. Credo o non credo alla mia bambina di quattro anni quando mi dice che non è stata lei a buttare i giocattoli alla rinfusa sul pavimento. Credo nella giustizia e nella correttezza, anche se non so bene come possiamo ottenerle: forse solo facendo ogni sforzo in quella direzione nonostante le scarse probabilità di successo. Credo anche che l'Inghilterra farebbe bene a entrare nell'Unione monetaria europea. Non ho abbastanza cultura economica per discuterne in maniera convincente con chi di economia si intende, ma quel poco che so, corroborato da una buona dose di intuizione, mi induce a credere fermamente che quella sia la strada giusta (anche se, beninteso, posso sbagliarmi). Questi mi sembrano usi legittimi del verbo "credere". Come carapace volto a difendere concetti irrazionali dall'assalto di domande legittime, penso invece che il medesimo verbo abbia provocato un sacco di danni. Perciò anziché dire: "Credo che non ci sia un dio" dirò: "Sono convinto che non ci sia un dio", una distinzione importante che mi porta alla seconda ragione per cui contesto chi sostiene che credere è arrogante quanto non credere.

Non accetto l'attuale moda, secondo la quale un'idea varrebbe automaticamente quanto qualsiasi altra idea uguale o opposta. La mia idea è che la luna sia composta di roccia. Se qualcuno mi dice: «Ma mica ci sei stato, no? Non l'hai vista con i tuoi

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occhi, per cui la mia idea che sia composta di formaggio di castoro24, è altrettanto valida», non mi disturbo nemmeno a discutere. Esiste l'onere della prova e, nel caso di dio come nel caso della composizione della luna, tale onere si è da tempo trasferito da un settore a un altro settore assai diverso. Un tempo dio rappresentava la spiegazione migliore della realtà, mentre oggi ne abbiamo di molto più convincenti. Dio non è più una spiegazione di niente, ma anzi è diventato un concetto per spiegare il quale occorre una quantità infinita di spiegazioni. Non credo quindi che chi è convinto che non esista un dio sia irrazionale e arrogante quanto chi è convinto che esista. Non c'è equipollenza tra le due convinzioni.

AMERICAN ATHEIST. Da quanto tempo non crede e che cosa l'ha indotta all'ateismo?

D.N.A. Oh, è una storia alquanto banale. Da adolescente ero un bravo cristiano. Ero stato educato così e lavoravo addirittura per la cappella della scuola. Poi un giorno, a diciott'anni, stavo camminando per la strada quando sentii un predicatore ambulante e, ligio, mi fermai ad ascoltarlo. Mentre ascoltavo cominciai a pensare che stava dicendo un mucchio di sciocchezze e che avrei fatto bene a riflettere sull'assurdità della religione. Be', devo dire che l'ho fatta un po' troppo facile. In realtà, quando mi resi conto che il predicatore diceva sciocchezze, avevo già anni di critica alle spalle: a scuola avevo studiato storia, fisica, latino, matematica e avevo imparato (sudandoci sopra) i parametri della discussione, della dimostrazione, della logica e via dicendo; da poco avevamo imparato a riconoscere i diversi tipi di paralogismo. Così d'un tratto mi divenne chiaro che quei rigorosi parametri non venivano mai utilizzati in ambito religioso. L'istruzione religiosa imponeva di ascoltare con deferenza argomenti che, se fossero stati usati per spiegare, non so, il motivo per cui a un certo punto erano state abolite le leggi protezionistiche sul grano, sarebbero stati accolti con una bella risata e definiti puerili e ridicoli, nonché, sotto il profilo logico-dimostrativo, del tutto errati. Come mai?

Per quanto, nell'ambito delle discipline storiche, la comprensione di cause, effetti ed eventi sia legata all'interpretazione, e per quanto l'interpretazione sia, sotto molto profili, legata all'opinione, le opinioni e le interpretazioni in questo campo sono messe alla prova dal micidiale tiro incrociato delle argomentazioni e delle controargomentazioni, e quelle che restano in piedi dopo il fuoco di sbarramento sono sottoposte dagli storici della successiva generazione a una nuova serie di analisi basate su fatti e ragionamenti; e così via. Le opinioni non sono tutte uguali. Alcune sono infinitamente più solide, ponderate e fondate sulla logica e il raziocinio di altre.

Tornando a me, conoscevo bene e (temo) accettavo l'idea che non si potesse applicare la logica della fisica alla religione, che l'una e l'altra trattassero tipi diversi di "verità". (Ora penso che siano balle, però non mi soffermerò sul concetto.) Ma ciò che mi sbalordiva era vedere che gli argomenti a favore della religione erano molto deboli e stupidi anche rispetto ai robusti ragionamenti di una disciplina pur sempre interpretativa e soggettiva come la storia. Erano, ahimè, di una puerilità

24 Riferimento a uno sketch dei Monty Python in cui un cliente entrava in un negozio di formaggi e chiedeva (senza trovarli) diversi formaggi veri e finti, tra cui il "formaggio di castoro venezuelano". [N.d.T.]

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imbarazzante; e non venivano mai sottoposti alle scrupolose analisi considerate i normali ferri del mestiere di qualsiasi altra attività culturale e intellettuale. Perché? Perché non avrebbero retto al vaglio. Così diventai agnostico. E riflettei, riflettei, riflettei. Ma non avevo abbastanza elementi per giudicare, sicché non giunsi a nessuna soluzione. L'idea di dio mi lasciava alquanto scettico, ma non avevo abbastanza nozioni per elaborare un buon modello alternativo, per trovare un'altra teoria che spiegasse la vita, l'universo e tutto quanto sostituendo adeguatamente l'idea di dio. Ma perseverai, continuando a leggere e riflettere. Un giorno, poco dopo avere compiuto trent'anni, mi imbattei nella biologia evoluzionìstica, in particolare in due libri di Richard Dawkins: Il gene egoista e L'orologiaio cieco. E d'un tratto (credo alla seconda lettura del Gene egoista) tutto mi diventò chiaro. L'evoluzione, come concetto, è incredibilmente semplice, ma ha dato origine all'infinita, sconcertante complessità della vita. Ciò che scoprii con la biologia evoluzionistica suscitò in me un senso di reverenza al cui confronto la reverenza che la religione suscita nella gente mi sembra francamente stupida. Preferirò sempre la reverenza indotta dalla conoscenza alla reverenza indotta dall'ignoranza.

AMERICAN ATHEIST. Lei ha alluso al proprio ateismo in un discorso rivolto ai fan («… quella fu una delle pochissime volte in cui credetti in Dio»). I suoi amici, colleghi e lettori sanno che è ateo? Vi sono molti atei nella sua cerchia di conoscenze?

D.N.A. La domanda mi spiazza un po', perché mi sembra riveli l'esistenza di un certo divario culturale tra Stati Uniti e Gran Bretagna. In Inghilterra non è affatto strano essere atei. Gli inglesi provano un lieve disagio quando qualcuno esprime un'opinione "forte"; prediligono le opinioni più moderate e distaccate, in quanto socialmente più appropriate, ed è per questo che tendono a preferire l'agnosticismo all'ateismo. Passare dall'agnosticismo all'ateismo richiede uno sforzo intellettuale assai maggiore di quello che la maggior Parte della gente è disposta a fare. Ma essere atei non è niente di che. Conosco e frequento molti scienziati e nella loro cerchia l'ateismo è la norma. Se escludo gli scienziati, quasi tutte le persone che conosco sono agnostiche e parecchie sono atee. Se cerco tra gli amici, i familiari e i colleghi qualcuno che creda in un dio, lo trovo tra i più anziani e (per dirla franca) i meno istruiti. Vi sono una o due eccezioni. (Per abitudine avrei detto "significative eccezioni", ma in questo caso non mi paiono affatto significative.)

AMERICAN ATHEIST. Le è capitato spesso che amici, colleghi o fan tentassero di "redimerla" dall'ateismo?

D.N.A. No, mai, nel modo più assoluto. Non abbiamo quel genere di fondamentalismo, in Inghilterra. Oddio, forse non è del tutto vero, ma (e qui peccherò di grande arroganza) tendo a non frequentare quel genere di persone, come tendo a non frequentare chi passa la giornata a guardare telenovelas o chi legge il "National Enquirer". In ogni caso, anche se qualcuno cercasse di "redimermi", non gli presterei la minima attenzione.

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AMERICAN ATHEIST. L'ateismo, o meglio l'intolleranza nei confronti degli atei, l'ha ostacolata nella vita professionale e, se sì, quante volte si è trovato in simili situazioni e come ha reagito?

D.N.A. No, nessuno mi ha mai minimamente ostacolato per il mio ateismo. È un'idea inconcepibile.

AMERICAN ATHEIST. Nei suoi libri vi sono parecchi riferimenti salaci a Dio e alla religione ("… duemila anni dopo che un tizio era stato inchiodato a un palo"). L'ateismo ha influenzato la sua arte? Quali personaggi o situazioni riflettono meglio le sue convinzioni personali in materia religiosa?

D.N.A. Sono affascinato dalla religione (il che è ben diverso dal credervi), perché la religione ha avuto un potentissimo effetto sulle vicende umane. Che cos'è, che cosa rappresenta, perché l'abbiamo inventata, come riesce a resistere e come diventerà? Continuo a pormi queste domande e a indagare con piacere sull'argomento. Vi ho riflettuto sopra così a lungo nel corso degli anni, che il mio interesse non può non trapelare dalle opere.

AMERICAN ATHEIST. Che messaggio desidera inviare ai suoi fan atei?

D.N.A. Ciao, come state?

"The American Atheist" 37, n° 1 (intervista condotta da David Silverman)

Che vantaggi reca parlare con i fan per e-mail?

È più rapido, più facile e comporta meno leccate.

Prevedere il futuro

Cercare di prevedere il futuro è fatica sprecata. Ma una fatica cui tutti dobbiamo sottoporci, in quanto oggi il mondo cambia così in fretta che il futuro può esse re già la settimana prossima e conviene avere un'idea di come sarà.

Curiosamente, l'industria informatica, che rappresenta il motore primario del vertiginoso ritmo di cambiamento, si è rivelata quasi incapace di prevedere il futuro. Due cose, in particolare, non è riuscita a prevedere: l'avvento di Internet, che in un arco di tempo brevissimo è diventata il perno dell'intero settore, e il fatto che il secolo sarebbe finito.

Così, mentre sta per iniziare un nuovo millennio e, come le scimmie di Kubrick che farfugliano davanti al grande monolito nero, guardiamo di fronte a noi la scintillante rupe del cambiamento, come possiamo sperare di indovinare che cosa accadrà? Computer molecolari, computer quantistici: come azzardarsi a fare predizioni? Ci siamo sbagliati sui treni, sugli aerei, sulla radio, sul telefono, su… insomma, se vogliamo consultare una lunga lista delle cose su cui ci siamo sbagliati,

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conviene leggere The Experts Speak, un saggio di Christopher Cerf e Victor Navasky. Il libro elenca le numerose previsioni che in passato personaggi autorevoli fecero

su questo o quell'argomento e che ben presto si rivelarono completamente errate. Come vadano queste cose ci è noto. Per esempio il 17 ottobre 1929 Irving Fisher, professore di economia all'università di Yale, disse che «le quotazioni alte raggiunte dai titoli sarebbero durate nel tempo». Nel 1962 un dirigente della casa discografica Decca disse dei Beatles: «Non ci piace il loro sound. Le band di chitarre usciranno presto dal mercato». E così via. Nel 1995, il "Wall Street Journal" scrisse: "Bill Clinton perderà con qualunque repubblicano sappia spiccicare appena qualche parola sul palco". È un libro molto grosso che si può leggere per ore al cesso con piacere.

La cosa strana è che non c'è verso di migliorare la capacità di prevedere. Sorridiamo con aria di sufficienza quando sentiamo che nel 1897 Lord Kelvin disse: «La radio non ha futuro». Ma sorridiamo meno quando scopriamo che nel 1977 Ken Olsen, direttore generale della Digital Equipment Corporation, dichiarò: «Non c'è motivo per cui un individuo debba avere un computer a casa sua». Perfino Bill Gates, il quale si propose di dimostrare che Olsen aveva torto marcio, disse - com'è noto - che un computer non aveva bisogno di più di 640K di memoria. Provate a far funzionare Word anche solo con venti volte quei kilobyte.

Sarebbe interessante annotare tutte le previsioni e riconoscere le "perle" quando sono ancora piccoli, impudenti boccioli. Ne ho trovata una di recente, una dichiarazione fatta in febbraio da Mr Wayne Leuck, vicedirettore generale della progettazione presso la compagnia telefonica americana USWest. Criticando l'ipotesi di sviluppo dell'Internet senza fili ad alta velocità, ha dichiarato: «Certo, si potrebbe usare l'Internet mobile mentre si corre in macchina a cento all'ora, ma credo che interesserebbe a ben poca gente». Stiamo a vedere. È una previsione che si dimostrerà sicuramente sbagliata. Navigazione satellitare. Internet senza fili. Appena cominceremo a coniugare la localizzazione tramite satellite allo spazio informativo condiviso, provocheremo un'altra esplosiva crescita delle applicazioni di Internet.

Almeno così prevedo io, anche se certo potrei sbagliarmi clamorosamente. Nel suo eccellente libro, The Clock of the Long Now, Stewart Brand propone di annotare le previsioni e le argomentazioni delle aziende e di tenerle in archivio per diecimila anni; ma sarebbe interessante anche vedere come funzioni la faccenda a breve termine. All'inizio di ogni nuovo anno i media abbondano di previsioni su ciò che avverrà nei dodici mesi successivi. Due giorni dopo, naturalmente, le previsioni sono già dimenticate e nessuno si prende la briga di andare a controllarle. Vorrei quindi invitare ì lettori a fare proprie previsioni - o a riportare quelle lette sulla carta stampata - in merito agli eventi dei prossimi cinque anni e alla loro cronologia. Andremo su Marte? Ci sarà la pace in Irlanda e nel Medio Oriente? La bolla del commercio elettronico scoppierà?

Metteremo le previsioni in Rete, dove resteranno per tutti e cinque gli anni e dove si potranno confrontare con gli avvenimenti reali. Prevedere il futuro è una fatica sprecata, ma qualsiasi fatica riesce meno pesante se si ottiene qualche piccolo successo.

"The Independent on Sunday"

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novembre 1999

È in commercio una nuova poltrona intelligente per ufficio, che ha il merito di aver eliminato leve e manopole. È ancora dotata di tutti i molleggi e i rinforzi necessari, ma si adatta automaticamente alla nostra postura e ai nostri movimenti, senza bisogno che le diciamo cosa fare. Bene, azzardo qui con voi una previsione: quando avremo un software che funzionerà così, il mondo sarà molto più bello e felice.

Il computerino che ce la fece25

La mia notizia preferita è che Branvvell Bronte, fratello di Emily e Charlotte, morì appoggiato alla mensola del caminetto per dimostrare che si poteva morire in piedi.

No, non è del tutto vero. La mia notizia in assoluto preferita è che i cuccioli di bradipo sono così inetti che spesso afferrano la propria zampa anteriore o posteriore al posto del ramo e cadono dall'albero. I bradipi però non c'entrano con quanto ho in mente al momento, mentre la storia di Branvvell Brontë, che riguarda gli scrittori e il sentirsi morire e il fare una cosa per dimostrare che si può fare, è talmente pertinente alla mia attuale situazione da apparire quasi sinistra.

Sono uno scrittore e mi sento morire, come si sentirebbe morire chiunque fosse volato a Grand Rapids, Michigan, a un'ora impossibile del mattino solo per scoprire di non poter entrare nella sua camera d'albergo prima di tre ore. In realtà per sentirsi morire basterebbe essere volati a Grand Rapids, Michigan. Se siete nati a Grand Rapids, Michigan, vi prego di prenderla per una battuta. Chiunque altro si renderà certo conto che non lo è.

Non potendo andare da nessun'altra parte, me ne sto qui, appoggiato a una mensola del caminetto. Cioè a una specie di mensola del caminetto. In realtà non so cose. E di ottone e plastica e fu probabilmente disegnata da un architetto che aveva passato un'orrenda notte in città. Questo mi fa venire in mente un'altra mia notizia preferita: c'è una grande deviazione ingiustificata nella ferrovia transiberiana, perché quando lo zar (non ricordo quale, in quanto non sono nello studio di casa mia, ma sono appoggiato a un oggetto orripilante nel Michigan e non ho libri da consultare) decretò che bisognava costruire la ferrovia transiberiana, tracciò una linea sulla carta geografica con la riga e la riga aveva un'intaccatura.

Sto scrivendo questo articolo appoggiato a un osceno aborto architettonico, ma non lo sto scrivendo su un Mac. Lo farei se il mio PowerBook non avesse esaurito la sua power, cioè le pile (non è curioso dare a un oggetto il nome del suo unico grave difetto? È lo stesso errore che si è commesso chiamando Groenlandia, terra verde, una terra di ghiacci bianchi). Ho con me il filo, ma non posso attaccarlo a niente. Anche se, molto intelligentemente, ha un alimentatore universale, il filo elettrico non ha una spina universale, bensì una grossa, sifilitica spina britannica a tre elettrodi; il che significa che se si dimentica di comprare un adattatore prima di lasciare

25 Nel testo, The Little Computer that Could, parafrasi di The Little Train that Could (pubblicato anche con il titolo The Little Engine that Could), una favola del 1930 di Platt e Munk divenuta un classico e incentrata sui miracoli che la forza di volontà riesce a compiere. [N.d.T.]

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l'aeroporto di Heathrow, si è completamente, irrimediabilmente fottuti. Non si può acquistare un adattatore per spine britanniche fuori della Gran Bretagna. Lo so. L'ho imparato quando mi sono trovato davanti a un problema analogo con il vecchio Mac Portable. (Non farò dell'ironia sui Mac Portable. La Apple ne produsse parecchi, ma non così tanti da non poterseli cavare di torno. Oh cacchio, avevo detto che non avrei fatto dell'ironia.) Alla fine mi toccò comprare un filo americano; o meglio tentai di comprarlo, ma non ci riuscii, perché lo vendevano solo con i nuovi Mac Portable. Così per dieci giorni mi portai faticosamente dietro un Mac Portable scarico, mangiandoci ogni tanto sopra dei panini, perché, quanto a peso, era poco meno che trasportare un tavolo. (Oh accidenti, mi è scappata un'altra battuta.)

Non ho però lo stesso problema con il PowerBook; non sono del tutto idiota. Stavolta mi sono portato dietro un adattatore. Tuttavia sono parzialmente idiota, perché l'adattatore è nella valigia che ho consegnato al ragazzo d'albergo un attimo prima di mettermi ad aspettare le tre ore necessarie a trovarmi una stanza.

Allora che cosa sto facendo, scrivo a mano? No, avete voglia di scherzare? Dopo dieci anni di word processing non sono neanche più capace di scrivere a mano. So che dovrei esserlo, perché scrivere a mano è, in teoria, come usare i bastoncini dei cinesi: una volta che impari a farlo, non disimpari più. Il guaio è che ho molta più pratica di bastoncini che di penne, per cui no, non sto scrivendo a mano. Né sto parlando a uno di quegli orribili dittafoni che continuano sconsideratamente a registrare mentre noi cerchiamo disperatamente le parole da dire (e solo quando premiamo il pulsante "off" il cervello ci torna nel cranio).

No. In realtà sono seduto su una sedia e scrivo questo articolo su un nuovo palmare Psion Serie 3a. Ne ho comprato uno al duty-free di Heathrow solo per il mero, cazzuto gusto di comprarlo, e devo dire che va bene. Funziona.

Posso dire una cosa sul duty-free prima di tornare a parlare dello Psion? Non è vero che i prodotti non siano più convenienti al duty-free. Lo sono. Lo sono giusto di un pelo: si risparmia una somma minima. Naturalmente poi si può perdere una somma enorme in multe se, quando si torna nel proprio paese, non si sa di dover dichiarare alla dogana ciò che si è comprato al duty-free. La merce sarebbe davvero duty-free, cioè esente da dazio, solo se si passasse il resto della vita su un aereo. Che cosa succede dunque se si compra della roba al duty-free per una cifra di pochissimo inferiore a quella che si spenderebbe in centro città? Succede che quasi tutti i soldi che risparmiamo vanno nelle casse del dutyfree e così non contribuiamo a pagare il servizio sanitario nazionale (e i sottomarini nucleari Trident). Allora perché ho comprato il mio Psion al duty-free? Perché sono un completo idiota, ecco perché.

Comunque sia, ora vi aggiorno sulle mie condizioni: mi hanno trovato una stanza. Ho tirato fuori l'adattatore e il PowerBook si sta caricando. Non lo sto ancora usando, però, perché adesso sono sdraiato nella vasca, sicché uso ancora lo Psion. Non avevo mai scritto niente in bagno. La carta diventa umida e fumigante, le biro non scrivono quando si è distesi, le macchine per scrivere pesano troppo sulla pancia, e se siamo disposti a usare un PowerBook nel bagno è chiaro che il PowerBook non è di nostra proprietà.

Dicevo dunque che si può fare, si può davvero scrivere su un palmare, cosa di cui non mi ero reso conto prima d'ora. Avevo provato a farlo su uno Sharp Wizard, ma

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non ci ero riuscito, perché i tasti della tastiera erano disposti in ordine alfabetico, il che rende assolutamente impossibile scrivere. Si è deciso di produrre una tastiera alfabetica in base a un ragionamento vizioso. Credo che si siano detti: non tutti conoscono qwerty (fa uno strano effetto digitare "qwerty" come parola: provate a digitarlo anche voi e capirete che cosa intendo dire), mentre tutti conoscono l'alfabeto. Questo è vero, ma irrilevante. Tutti conosciamo l'alfabeto come stringa unidimensionale, non come struttura bidimensionale, per cui, se anche la tastiera iniziasse con le lettere dell'alfabeto anziché con q, w, e, r, t e y, dovremmo andarci a cercare lo stesso le lettere. Allora perché non usare qwerty e lasciare che chi si è abituato a tale disposizione continui a goderne i vantaggi?

Ho provato anche lo Sharp Wizard più grande, l'8200, il quale però, pur avendo la tastiera qwerty, non ha l'a capo automatico. Incredibile, vero? Perfino Etcha-Sketch, la lavagna magica, ha l'a capo automatico oggigiorno.

L'altro problema di tutti i palmari è quello più ovvio, ossia che la tastiera è troppo piccola per le dita. È un problema difficile da risolvere. Voi magari la conoscete già e io magari sono l'ultima persona al mondo a scoprirla, ma dirò lo stesso la soluzione: basta stringere il palmare con entrambe le mani e digitare con i pollici. Funziona. Funziona benissimo. All'inizio ci si sente un po' goffi e le mani si indolenziscono perché si usano muscoli non abituati a quel movimento, ma presto ci si abitua. Ho macinato ormai un migliaio di parole.

Bene, questo solleva alcuni interessanti interrogativi (interessanti per me, s'intende; forse non lo sono altrettanto per voi). Che dire dell'input vocale? Io sono naturalmente gasatissimo all'idea di dare ordini vocalmente o di scrivere con la penna sullo schermo, ma sia voi sia io sappiamo che chiunque si sia gingillato con Caere Typist o con analoghi programmi di riconoscimento calligrafico ha verificato che in pratica le cose - almeno fino a questo momento - non funzionano bene come in teoria. Il tempo passato ad armeggiare con tecnologie che non funzionano ancora a dovere è tempo sprecato per l'utente finale, anche se magari diverte dei babbei come noi. È ancora molto lontano il giorno in cui potremo dire: "Apri il portello della capsula, Hal" ed essere sicuri che Hal capirà che vogliamo essere lasciati alla periferia di Giove. E credo passerà molto tempo prima che io riesca a dettare un articolo come questo ottenendo un risultato non meramente decifrabile, ma preciso. Molti di noi ricordano i vecchi sketch in cui la segretaria annotava per filo e per segno tutto ciò che diceva il capufficio, anche: "Non scriva questo" o: "Cancelli l'ultima frase". Temo ci toccherà sopportare molti problemi del tipo segretaria stupida prima di arrivare a risultati apprezzabili. Quanto all'input di penna e al riconoscimento calligrafico, come ho già detto sopra dieci anni di word processing hanno peggiorato a tal punto la mia scrittura che nemmeno io riesco a leggerla, per cui non so che probabilità avrebbe di leggerla un computer. È necessario che sottolinei l'implicita ironia della situazione? Non credo.

Per il momento, dunque, torniamo all'input della tastiera, input che al momento significa qwerty. Come sappiamo, però, la tastiera qwerty fu concepita in origine per rallentare le dattilografe e impedire loro di far inceppare i tasti. È un sistema per produrre ad arte un'inefficienza, ma tutti i tentativi di sostituirlo con qualcosa di più razionale, come la tastiera Dvorak, sono falliti. La gente ormai conosce bene qwerty e

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non è particolarmente motivata a cambiare. Dvorak e altre potrebbero essere meglio, ma qwerty è, o è stata finora, abbastanza buona. "Se non è rotto, non ripararlo" è un principio molto saggio che resta tale anche se io l'ho accuratamente ignorato per tutta la vita.

Forse però, al punto in cui siamo, è forte l'incentivo a reinventare la tastiera. I palmari sono i protagonisti dell'attuale scenario. La Apple e la Microsoft e le altre aziende sono tutte entusiaste dei personal digital assistant e di altre apparecchiature del genere e io, avendo usato ormai per ore il palmare Psion Serie 3a, sono a mia volta entusiasta. È una splendida tecnologia e siamo solo agli inizi, ancora lontani dal momento cruciale in cui il nuovo strumento cessa di essere un giocattolo divertente e diventa una cosa che si può usare seriamente in bagno. Sappiamo da anni che qwerty non è il massimo. Forse oggi possiamo tranquillamente dire che è molto meno del massimo. Possiamo tranquillamente dire che è molto meno del massimo. (Sì, la stessa frase, ripetuta tale e quale.) Spero che i progettisti di sistemi non si siano scoraggiati per il fallimento della tastiera Dvorak. Spero che, dopo avere studiato come la gente tiene il palmare e dove mette inevitabilmente le dita, rivedano integralmente la struttura della tastiera. Vorrei tanto non sentirmi le articolazioni del pollice così rigide e dolenti. Ho dimostrato che il computerino ce la può fare, ma, come Branwell Bronte, non credo che ripeterò l'esperienza domani.

Notiamo le cose che non funzionano e non notiamo quelle che funzionano. Notiamo i computer, non notiamo le penne. Notiamo i lettori di e-book, non notiamo i libri.

Piccoli ciaffi cazzuti

È ora dì dichiarare guerra ai piccoli ciaffi cazzuti. Ne ho trovato altri nella posta di stamattina. Avevo ordinato un nuovo lettore CD-ROM a un'azienda americana che prende ordinazioni per corrispondenza e, siccome vivo in quello strano e remoto luogo che rientra alla voce "Estero", e siccome poi viaggio come un piccione, prima di ordinare avevo chiesto ansiosamente se avesse un alimentatore universale.

L'alimentatore universale fa sì che, in qualunque paese ci si trovi e anche se non si sa in quale paese ci si trovi (una condizione penosa assai più frequente di quanto non si creda), si possa attaccare il proprio Mac e lasciarlo arrangiare per conto suo. Chiamiamo questa caratteristica "plug and play", che significa "attacca la spina e fa' quel che ti pare". Perlomeno la chiama così la Microsoft, perché non ce l'ha ancora. Nel mondo di Mac la abbiamo da così tanto tempo che non avevamo neppure pensato di darle un nome. Oggi anche molte periferiche hanno l'alimentatore universale, ma non tutte; per questo avevo fatto quella particolare domanda al mio fornitore.

«Sì, ce l'ha» mi aveva detto Scott, l'assistente alle vendite. «È sicuro che ha un alimentatore universale?» «Sì, ha un alimentatore universale.» «Ne è assolutamente sicuro?» «Sì.»

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Stamattina è arrivato il lettore CD-ROM e la prima cosa che ho notato è che non aveva un alimentatore universale, ma un piccolo ciaffo cazzuto. Ho stanze piene di piccoli ciaffi cazzuti e non ne desidero altri. Metà dei piccoli ciaffi cazzuti che ho non so nemmeno a che ordigno appartengano. Particolare più importante, di metà dei miei ordigni non so nemmeno dove ho messo il piccolo ciaffo cazzuto. Particolare più seccante di tutti, un'enorme quantità di piccoli ciaffi cazzuti, tra cui quello che è arrivato stamattina, sono piccoli ciaffi cazzuti che vanno a 120 volt ca (corrente alternata), il voltaggio americano, e questo significa che non posso usarli qui all'Estero (codice di stato ET), ma devo conservarli per il giorno in cui mi capiterà eventualmente di comprare negli Stati Uniti l'ordigno al quale si adattano (ammesso ch'io sappia quale sia l'ordigno a cui si adattano).

Vi state per caso chiedendo di che cavolo parlo? Ebbene, i piccoli ciaffi cazzuti di cui sto parlando (e non sono certo gli unici ciaffi

cazzuti da cui è infestato il mondo della microelettronica) sono gli adattatori elettrici di cui hanno bisogno i portatili, i palmari, le unità esterne, i registratori a cassette, le segreterie telefoniche, le casse acustiche e altri ordigni preziosi per passare da una corrente alternata di 120 o 240 volt a una corrente continua di 6, 4, 5, 9 o 12 volt. A 500 milliampere, 300 milliampere, 1200 milliampere. Hanno spine positive e prese negative, a meno che non siano del tipo che ha spine negative e prese positive. Se si moltiplicano tutte queste variabili, si ottiene un'industria abbastanza grande che esiste, a quanto ne so, per riempire i miei stipi di piccoli ciaffi cazzuti, nessuno dei quali potrò mai identificare senza prima avere calcolato la radice cubica degli ordigni. Il sistema più comune per trovare un piccolo ciaffo cazzuto che si adatta all'ordigno che voglio usare è di andare a comprare un altro piccolo ciaffo cazzuto a un prezzo che può togliermi dal corpo ogni alito d'aria contenutovi.

Come mai accade questo? Un'ipotesi possibile è che, come la Xerox vive soprattutto della vendita di toner, così la Sony viva soprattutto della vendita di piccoli ciaffi cazzuti.

Un'altra ipotesi possibile è che si tratti di pura, cieca idiozia, ma non può essere, vero? O sì? E difficile credere che alcune delle menti più brillanti del pianeta, abituate a nutrirsi delle migliori pizze sulla piazza, non abbiano pensato a un certo punto: "Non sarebbe più semplice standardizzare l'alimentazione orientandosi su un unico tipo di corrente continua?". Certo, io non sono un ingegnere elettrotecnico e forse sto chiedendo l'impossibile. Forse la mancata standardizzazione è una condicio sine qua non, perché per esempio un lettore CD-ROM o un walkman CD devono andare a 600 milliampere anziché a 500 o avere la spina anziché la presa negativa, perché se si trovano davanti qualcosa di leggermente diverso piangono o si friggono da soli. Ma ho il forte sospetto che se, per un paio di giorni, si inchiodasse un progettista di hardware al muro di una stanza chiusa a chiave e lo si stuzzicasse cucinando profumati peperoni, forse troverebbe il modo di indurre l'ordigno in via di progettazione (forse perfino il nuovo ordigno Pro di cui ho sentito parlare tanto bene) a funzionare con la corrente continua dì basso voltaggio.

In realtà c'è già un rozzo standard, che è però piuttosto strano. Di questi tempi non sono in molti a fumare in macchina e la cavità nel cruscotto in cui stava un tempo l'accendisigari adesso è più facile alimenti un cellulare, un lettore CD, un fax o,

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secondo un improbabilissimo recente spot televisivo, un ordigno che fa il caffè istantaneo. Poiché in origine aveva uno scopo diverso, la presa di corrente ha dimensioni e collocazione sbagliate rispetto alla funzione che ha assunto, sicché forse è ora di adattarla ai nuovi compiti.

Questo preadattamento frutto di mera serendipità forse ci fornisce un bene importante: una possibile corrente continua standard. Arbitraria, certo, ma dovremmo essere contenti che sia stata ideata da un meccanico di automobili nell'arco di un pomeriggio anziché dalla commissione sugli standard di un'industria informatica nell'arco di una vita. Se si mantenesse lo stesso voltaggio e si progettasse un nuovo tipo di spina di piccole dimensioni, si avrebbe il nuovo standard.

Se si adottasse un simile standard, si avrebbe l'immediato vantaggio di un unico adattatore per corrente continua. Ci pensate? Be', forse non uno solo, ma una dozzina, però sarebbero tutti esattamente gli stessi e potremmo comprarne subito una scatola. Diventerebbero un oggetto quotidiano come le lampadine, anzi no, sarebbero meglio delle lampadine, che hanno vari wattaggi e attacchi di varia larghezza. Sì, la corrente continua standard sarebbe fantastica, molto meglio delle lampadine.

Il nuovo standard eliminerebbe non solo tanta confusione e tante seccature, ma favorirebbe l'offerta di nuovi servizi. Prese di corrente continua in punti strategici delle automobili; prese di corrente continua in case e uffici; soprattutto prese di corrente continua nei braccioli dei sedili degli aerei…

Devo ammettere che, per quanto ami il mio PowerBook, che adesso fa il 97,8 per cento di quello che facevano i miei vecchi, ingombranti dinosauri da tavolo, ho rinunciato a usarlo in aereo. Sì, sì, conosco i molti metodi per cercare di allungare la vita alla batteria - modalità di risparmio energetico, RAM disk, spegnimento del processore quando non viene utilizzato - ma il fatto è che non ho nessuna voglia di disturbarmi ad applicarli. Se proprio sento il bisogno di irritarmi, mi basta leggere la rivista che mi passano le hostess. Se però ci fosse una presa di corrente continua nel bracciolo, credo che lavorerei o mi gingillerei un po' con il portatile. Lo so che le compagnie aeree direbbero probabilmente: «Se mettessimo le prese di corrente nei braccioli i nostri aerei precipiterebbero», ma non dimentichiamo che dicono sempre così. È vero che a volte i loro aerei precipitano, però - e questo è il punto - non lo fanno certo con la frequenza con cui le compagnie aeree affermano che lo farebbero se venissero offerti servizi che esse non offrono. Personalmente sarei pronto a rischiare. Nella grande guerra contro i piccoli ciaffi cazzuti nessun sacrificio, credo, è troppo grande.

"MacUser" settembre 1996

Siamo infognati con la tecnologia, quando in realtà avremmo solo bisogno di cose che funzionassero. Come si riconosce se un oggetto è ancora e sempre tecnologia e non una cosa che funziona? Il fatto che sia accompagnato da un manuale di istruzioni rappresenta, credo, un buon indizio.

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Che cos'abbiamo da perdere?

Si è arrivati alle idee innovative e rivoluzionarie più intuendo quali cose vecchie bisognava scartare che quali cose nuove conveniva elaborare. Il walkman Sony, per esempio, non ha aggiunto nulla di nuovo al registratore a cassette: ha solo eliminato l'amplificatore e gli altoparlanti, dando vita a un'intera industria e a un modo completamente nuovo di ascoltare la musica. Nella nuova handycam Sony è stata eliminata abbastanza brillantemente la funzione zoom, perché lo zoom, si è ragionato, serve solo ad aumentare i costi, diminuire la manovrabilità e rendere tutti i video amatoriali praticamente inguardabili. (Sul filo di questo ragionamento, perché non mettere in commercio videoriproduttori capaci solo di registrare e videocassette di film registrati in avanti veloce?) Il computer con set di istruzioni ridotto funziona in base al brillante, corroborante principio che è meglio occuparsi delle cose facili e lasciare che con quelle difficili se la sbrogli qualcun altro. (So che la questione è un poco più complicata di così, ma, ammettiamolo, il criterio è molto allettante.) Un dry Martini ben fatto funziona in base al brillante, corroborante principio di non mettere il Martini.

Si compiono grandi progressi anche quando si capisce che, anziché affrontare un problema, conviene eluderlo. L'algebra, per esempio (e quindi l'intera programmazione dei computer) è nata quando ci si è resi conto che si potevano omettere tutti i numeri ostici e intrattabili. Proviamo a pensare anche al nuovo, migliorato servizio informazioni elenco abbonati del Regno Unito. Un paio d'anni fa ci fu la svolta: appena composto il 192, si cominciò a sentire una risposta puntuale data con molta cortesia da una persona - e qui stava l'indizio - dall'accento scozzese. L'intero servizio informazioni era stato smistato su Aberdeen, dove c'era tanta gente cortese e disponibile che non sentiva il bisogno di sfogare sugli altri la frustrazione di vivere a Londra. Un brillante dirigente della British Telecom aveva capito che non importava affatto da dove partisse il servizio e che il problema della distanza si poteva eliminare dal paradigma (un concetto che non è stato ancora afferrato nel campo della determinazione dei prezzi). Se avessero esteso ancora un poco i cavi, avrebbero potuto trasferire il servizio informazioni abbonati del Regno Unito a Sant'Elena o alle Falkland, offrendo così nuovi posti di lavoro a popolazioni che in precedenza, si erano occupate solo di pecore. Durante la gestione del servizio, le Falkland avrebbero potuto prendere in appalto l'informazione abbonati dell'Argentina, il che avrebbe dato motivo di riflettere ai ministeri degli Esteri argentino e britannico.

Quasi tutto quanto concerne la Rete ha a che fare con l'individuazione di cose che si possono eliminare dal paradigma, come la posizione geografica o la distanza. Vagare per il Web è come vivere in un mondo in cui ogni porta dà accesso a un congegno fantascientifico che ci trasporta agli antipodi. Anzi, non è "come vivere", ma è, di fatto, vivere in un simile mondo. Calcolare tutte le conseguenze del fenomeno è difficile quanto fu difficile per i primi registi della storia calcolare tutte le conseguenze della possibilità di spostare una macchina da presa fino ad allora inamovibile. Quali altri fattori riusciremo a eliminare dal paradigma?

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Negli ultimi anni editori, dirigenti radiotelevisivi, giornalisti e registi mi hanno ripetutamente e ansiosamente chiesto quanta influenza, a mio avviso, avrebbe avuto il computer sui loro settori di attività. Per un pezzo hanno ardentemente sperato che rispondessi, in sostanza, "non molta" ("La gente ama l'odore dei libri, ama il popcorn, ama vedere i programmi televisivi alla stessa esatta ora dei vicini, ama avere intorno tanti articoli anche se non è interessata a leggere" ecc.); ma è una domanda a cui è difficile rispondere, perché è mal posta. È come se ci chiedessero di spiegare in che modo l'arrivo dell'oceano Atlantico influenzerà il Rio delle Amazzoni, il Mississippi, il Congo e il Nilo. Innanzitutto bisogna capire che le regole del fiume non varranno più.

Proviamo a pensare a che cosa potrà succedere quando la pubblicazione di riviste non sarà più un vero e proprio fiume, ma solo una corrente nell'oceano digitale. Le riviste hanno cominciato ad apparire sul Web, ma poiché sono soltanto alcune pagine interconnesse in un mondo di pagine interconnesse, il confine tra "rivista" e "non rivista" o addirittura tra "rivista A" e "rivista B" è, dal punto di vista del browser, abbastanza vago. Quando avremo eliminato dal paradigma l'idea di vendere fasci incollati di pagine patinate ricavate dalla polpa di legno, che cosa rimarrà? E sarà utile ciò che rimarrà?

Dal punto di vista dei lettori, la rivista elettronica è utile quanto la rivista di carta: raccoglie gli argomenti cui sono interessati in un mezzo di comunicazione facilmente accessibile e ha in più il vantaggio di fornire, senza soluzione di continuità, infiniti rimandi che la rivista di carta non è in grado di dare. Fin qui tutto bene.

Ma che cosa faranno gli editori delle riviste? Che cosa dovranno vendere? Come si comporteranno quando la gente non sborserà più soldoni per acquistare cataste di carta patinata? La risposta dipende dalla loro attività reale, che è ben diversa dalla loro attività apparente. Un sacco di gente non si occupa della cosa di cui crede di occuparsi. La Xerox, per esempio, è un'industria che vende toner. Quando se la tira dicendo che produce stampanti e fotocopiatrici high-tech, in realtà cerca solo un pretesto per creare il suo vero mercato, che è quello dei toner. Le reti televisive non gestiscono il business di offrire programmi alla loro audience, ma di offrire audience ai loro inserzionisti. (Ecco perché la Bbc vive una condizione di schizofrenia: gestisce un business diverso da quello di tutte le sue concorrenti.) Per i periodici vale in gran parte lo stesso discorso: ogni singola vendita in edicola rappresenta, sì, un tentativo di pagare il vertiginoso costo di produzione del fottuto prodotto, ma rappresenta anche e soprattutto un solidissimo caposaldo trigonometrico. L'intera rete di caposaldi trigonometrici va a costituire le dimensioni del pubblico che l'editore può offrire ai suoi inserzionisti.

Bene, io considero la pubblicità delle riviste un grosso problema. La detesto cordialmente. Sommerge il testo, riducendolo a un triste rivoletto grigio stretto tra enormi pagine che sfolgorano come cartelloni pubblicitari e schiamazzano per indirizzarci verso cose prive di interesse; e quando compriamo una nuova rivista ci tocca anzitutto scrollarla sopra un cestino della spazzatura per sgravarla di tutti i buoni, i CD, i sacchettini profumati, i pacchettini, i cagnolini Labrador di peluche gratuiti che la rendono grassa e ingombrante come l'album di fotografie della nonna. Poi, quando ci interesserebbe davvero comprare un prodotto, non troviamo le

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informazioni desiderate nelle pagine del periodico, in quanto sono state pubblicate nel numero del mese precedente che abbiamo da tempo buttato via. Il mese scorso ho comprato una nuova macchina fotografica e ho dovuto acquistare una carrettata di riviste fotografiche per trovare la pubblicità e la scheda critica dei modelli verso i quali ero orientato. In poche parole, il 99 per cento della pubblicità che vedo mi infastidisce orribilmente, ma ogni tanto mi interesserebbe abbastanza da indurmi a comprare la rivista in cui appare. È un matrimonio vistosamente infelice, quello tra periodico e pubblicità: siamo maturi per escluderlo dal paradigma.

Se navighiamo tra le riviste on line (lì per lì mi salta per esempio in mente "HotWired"), troviamo qui e là qualche piccola, discreta icona pubblicitaria su cui, se vogliamo, clicchiamo. Nel Web, insomma, guardiamo la pubblicità solo se ci interessa davvero e se ci dà informazioni utili, concrete e dirette sul prodotto. Agli inserzionisti giova ovviamente molto di più raggiungere un potenziale cliente interessato che rompere orribilmente le scatole al 99 per cento dei non interessati. Inoltre in questo modo ottengono un feedback molto preciso: sanno esattamente quanti utenti hanno guardato il loro spazio e per quanto tempo, con il risultato che la pubblicità sgradita di un prodotto di cui non frega niente a nessuno si esaurisce presto da sé, mentre una che cattura l'attenzione è destinata a prosperare. Gli inserzionisti pagano perché la rivista conceda loro lo spazio pubblicitario sulle pagine più lette e si sa come funziona la faccenda: funziona a meraviglia, mi dice gente che in genere ha da ridire su tutto. In questo caso a venire eliminata dal paradigma è l'idea che la pubblicità debba essere per forza di cose invadente e irritante.

Quello della rivista on line completamente gratuita è uno dei possibili modelli. Ve n'è un altro che forse diventerà operativo appena si potrà far circolare denaro virtuale per tutta Internet: imporre ai lettori una piccola tariffa in cambio dell'opportunità di leggere le pagine più popolari del Web. Sarebbe una cifra molto inferiore a quella che di norma spendiamo per acquistare quotidiani e riviste, perché non saremmo costretti a pagare tutti gli alberi che si devono ridurre in polpa, i furgoni che trasportano la carta consumando benzina e i tizi del marketing che passano la loro giornata a decantare la propria bravura e intelligenza. I soldi dei lettori andrebbero per la maggior parte all'autore e per una piccola percentuale all'editore del sito web, e il legno resterebbe nelle foreste, il petrolio resterebbe sottoterra e i tizi del marketing resterebbero fuori del Groucho Club, con gran vantaggio della gente decente, che sarebbe libera di andare al bar.26

Vi state chiedendo perché non dare all'autore l'intero importo? Me lo chiedo anch'io. E rispondo: forse l'autore potrebbe ricevere l'intero importo se si limitasse a introdurre le proprie parole nell'oceano digitale e a sperare che le trovasse qualcuno. Ma, come qualsiasi oceano, quello digitale ha correnti, vortici e gorghi e gli editori avranno il compito di trovare materiale buono da immettere nelle correnti più frequentate dai naviganti, come del resto già adesso succede. La differenza in futuro starà nella reattività del mercato, nella velocità con cui le correnti si sposteranno e gonfieranno, nel fatto che il potere e il controllo andranno a chi fornirà un contributo utile e concreto anziché a chi si limita a sbafare pranzi.

26 Il Groucho Club di Soho (Londra) è frequentato dai professionisti dei media. [N.d.T.]

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E quando tutto questo sarà la norma avremo escluso dal paradigma un mucchio di legna secca.

"Wired", edizione britannica n.l, 1995

Il viaggio nel tempo

Il viaggio nel tempo? Credo vi siano persone che vanno avanti e indietro nel tempo continuamente, interferendo nella nostra vita su base quotidiana. Intorno a noi abbondano le prove delle visite. Non vi siete accorti di come, ogniqualvolta chiediamo all'assicurazione di risarcirci un danno subito, scopriamo che, per qualche misterioso motivo, proprio quel particolare danno è escluso dal contratto?

Voltagabbana

Spesso mi chiedono: «Ma lei non è un po' un voltagabbana?». Dopotutto, venti (gulp!) anni fa, nella Guida galattica per gli autostoppisti, diventai famoso facendomi beffe della scienza e della tecnologia: robot depressi, ascensori poco collaborativi, porte con interfacce utente ridicolmente loquaci (ah, le vecchie, sane porte che bastava spingere…) e così via. Ora invece sembro essere diventato uno dei più accesi fautori della tecnologia, almeno a giudicare dalla recente serie di trasmissioni da me curate per Radio 4, The Hitchhiker's Guide to the Future. (A proposito, mi sono pentito di avere scelto quel titolo, ma a volte ci si lascia trascinare dagli eventi.)

Due cose vorrei sottolineare. Primo, mi chiedo se oggi non stiamo esagerando con la comicità. Da bambino mi

nascondevo sotto le coperte con una vecchia radio comprata a una vendita di beneficenza e ascoltavo estasiato Beyond Our Ken, Hancock the Navy Lark, perfino Clitheroe Kid, qualunque trasmissione mi facesse ridere; e avevano l'effetto di una doccia o un arcobaleno nel deserto. Poi arrivarono I'm Sorry I'll Read That Again27 e, qualche anno dopo, l'imperitura gloria di Monty Python's. I Python mi folgorarono (e non me ne frega niente se questa dichiarazione finirà su Pseud's Corner28) perché erano persone estremamente intelligenti che usavano la comicità per esprimere cose che non avrebbero potuto essere espresse in nessun altro modo. Dallo scranno in cui sedevo nel mio collegio del profondo Essex, li considerai un faro luminoso, elettrizzante. È curioso che siano apparsi proprio nel momento in cui i Beatles, altri grandi artisti capaci di accendere l'immaginazione dei giovani, stavano declinando. Pareva quasi che i Beatles stessero passando il testimone e, se non sbaglio, George Harrison una volta ha detto proprio qualcosa del genere. 27 Trasmissione radiofonica (1964-1972) dall'umorismo innovativo che aveva nel cast John Cleese, poi membro fondatore del Monty Python's Flying Circus. [N.d.T.] 28 Pseud's Corner è la rubrica della rivista britannica "Private Eye" in cui vengono riportate frasi di scrittori, giornalisti ecc. considerate involontariamente comiche per fumosità, stupidità e retorica. [N.d.T.]

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Ma oggi tutti fanno i comici, anche le annunciatrici e le ragazzotte che leggono le previsioni meteorologiche. Ridiamo di tutto. Non più in maniera intelligente, non più per lo shock improvviso della battuta illuminante che induce stupore e comprensione, ma in maniera stupida, implacabilmente stupida. Niente più docce nel deserto: solo fango e pioviggine dappertutto, illuminati ogni tanto dal flash dei paparazzi.

Il fermento creativo si è trasferito altrove, in ambito scientifico e tecnologico, dove vi sono nuove concezioni, nuovi modelli dell'universo, nuove, continue scoperte in merito al funzionamento della vita, del pensiero, delle percezioni e delle comunicazioni. È questa la seconda cosa che volevo sottolineare.

Mentre trent'anni fa mettevamo su una band, oggi avviamo una start-up, sperimentiamo nuovi modi di comunicare tra noi e giochiamo con le informazioni che ci scambiamo. E quando un'idea fallisce, ce n'è subito un'altra migliore, poi un'altra e un'altra ancora, e tutte quante piovono a cascata come piovevano a cascata gli ellepì rock negli anni Sessanta.

Che siamo innamorati di una persona, un'idea o una causa, c'è sempre il momento in cui ci disinnamoriamo, anche se magari lo ammettiamo in cuor nostro solo anni dopo; un piccolo particolare, come una parola sbagliata o una nota falsa, ci fanno d'un tratto vedere le cose in un altro modo e le cose da quell'istante non sono più le stesse. Io mi disinnamorai quando sentii un cabarettista dire: «Eh, questi scienziati, come sono stupidi! Avete presente la scatola nera che mettono a bordo degli aerei? Sapete, no, che è indistruttibile, che è l'unica cosa che non finisce in mille pezzi quando l'aereo precipita? Ma allora, dico io, perché questi scienziati non fanno gli aerei dello stesso materiale?».

Il pubblico rise a crepapelle della stupidità degli scienziati, queste tremende mezzeseghe, ma io mi sentii a disagio. Sarò forse stato pedante, ma la gag mi parve inefficace, in quanto i registratori di volo sono composti di titanio e se gli aerei fossero fatti di titanio sarebbero così pesanti che non potrebbero nemmeno decollare. Provai a decostruire la battuta. Se l'avesse fatta un comico come Eric Morecambe, mi chiesi, sarebbe stata spiritosa? No, perché la comicità di Morecambe consiste nel recitare la parte dell'idiota e quindi il pubblico, per ridere della sua stupidità, avrebbe dovuto conoscere i pesi relativi del titanio e dell'alluminio. Comunque tentassi di decostruire la freddura (se pensate che sia un comportamento ossessivo, provate a convivere con il comportamento ossessivo), arrivavo sempre alla stessa conclusione: per strappare la risata bisognava che il comico e il pubblico fossero complici nello sfottere chi ne sapeva più di loro. Sentii un brivido corrermi lungo la schiena e lo sento ancora. Quella battuta mi parve un tradimento della comicità come il gangsta rap mi pare un tradimento della musica rock. Cominciai anche a chiedermi quante delle battute che facevo io stesso fossero solo dettate da - diciamola tutta - ignoranza.

Il mio interesse per la scienza diventò acceso un giorno del 1985 in cui camminavo in una foresta del Madagascar. Chiesi al mio compagno di passeggiata, lo zoologo Mark Carwardine (con il quale in seguito scrissi il libro L'ultima occasione): «Senti, che cos'ha la foresta pluviale di così speciale da meritare che se ne parli tanto?».

Me lo disse in due minuti. Mi illustrò la differenza tra foresta temperata e foresta pluviale e spiegò che la seconda produceva un'incredibile biodiversità, ma era

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terribilmente fragile. Dopo essere rimasto qualche istante in silenzio, mi resi conto che era una notizia molto importante, così importante da mutare radicalmente la mia visione del mondo. Mark mi aveva consegnato un filo che ora intendevo seguire per mettere insieme l'intricato gomitolo di una realtà estremamente complessa. Negli anni successivi divorai avidamente tutti i libri di biologia evoluzionistica che potei e mi resi conto che quanto avevo appreso a scuola sull'argomento non mi aveva affatto preparato al nuovo quadro che mi si presentava agli occhi. La teoria evoluzionistica ha una caratteristica: se non ha completamente rivoluzionato il nostro modo di vedere, vuol dire che non l'abbiamo capita.

Scoprii poi con stupore che alla passione per la biologia si accompagnava in me un crescente amore per il computer. Non era una motivazione profonda a spingermi verso questa macchina: non mi vergogno a dire che, semplicemente, mi divertivo da matti a giocarci. C'è, tra i due interessi, una correlazione non intuitiva; sia in biologia sia in informatica cause semplici iterate molte volte generano risultati complessi. È facilissimo vedere la progressione dal semplice al complesso in un computer. Di qualunque cosa ci si stia occupando - modelli di turbolenza dei venti, modelli finanziari o modelli dei giochi di luce negli occhi di un dinosauro immaginario - all'inizio vi sono semplici linee di codice che addizionano uno a uno, verificano il risultato e poi rifanno l'operazione. Vedere la complessità sbocciare da tanta semplicità è una delle grandi meraviglie della nostra epoca, una meraviglia ancora più grande che guardare l'uomo camminare sulla luna.

E assai più difficile vedere compiersi il processo nel caso dell'evoluzione della vita. La scala temporale è immensa e la nostra prospettiva è complicata dal fatto che l'oggetto osservato siamo noi stessi; tuttavia, come l'invenzione della pompa idraulica ci permise per la prima volta di capire in che modo funzionassero il cuore e la circolazione sanguigna, così l'invenzione del computer ci ha permesso per la prima volta di vedere in che modo si è sviluppata ed evoluta la vita.

Ecco perché la scienza pura e la tecnologia non si possono separare: esse si alimentano e si stimolano a vicenda. Così, analizzare l'interno dell'ultimo, ingegnoso software per trasferire un file audio mp3 da un computer a un altro computer situato in un altro continente ed esaminare l'infrastruttura che lo ha generato, e che a sua volta diventa parte di esso, suscita un interesse non meno grande di quello che procura indagare su come si replichi una cellula, come si formi un'idea nel cervello o come un insetto che vive nel cuore della foresta pluviale amazzonica digerisca la sua preda. Tutte queste cose fanno parte dello stesso fondamentale processo di cui noi a nostra volta facciamo parte e in cui riversiamo le nostre energie creative; e sono ben felice di preferirle a tutti i comici, le televisioni e il calcio del mondo.

Ottobre 2000

Se ci si presenta alla gente con un questionario e un taccuino, la gente mentirà. Una volta un mio amico ha preparato questionari da far compilare agli utenti del Web per conto di un centro sondaggi. Le informazioni ottenute, mi ha detto, hanno fornito un quadro molto incoraggiante della situazione mondiale. Sapevate per esempio che quasi il 90 per cento della popolazione è composta da amministratori delegati di

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aziende di loro proprietà e che questi amministratori guadagnano oltre un milione di dollari all'anno?

Esiste un Dio artificiale?

In un primo momento questo è stato annunciato come un dibattito perché, venendo qui, ero piuttosto in ansia. Pensavo che non avrei avuto il tempo di preparare un discorso e all'idea di trovarmi in una sala gremita di cervelloni mi chiedevo: "Che cosa potrò mai dire io, un semplice dilettante?". Così ho riflettuto che forse conveniva limitarsi a un dibattito. Adesso però che sono qui da due giorni, mi sono reso conto che siete solo una compagnia di persone! Il clima è intellettualmente molto stimolante e, parlando con la gente e ascoltandola, sono venute anche a me così tante idee che ho deciso di argomentare innanzitutto con me stesso. Farò quindi un discorso, e spero di provocarvi e infiammarvi a tal punto da indurvi a tirarmi le sedie.

Prima di iniziare, vorrei avvertirvi che forse a volte perderò il filo, perché qui oggi sono state dette così tante cose che se ogni tanto il bandolo si smarrirà… Poco fa parlavo con qualcuno della mia bambina di quattro anni e spiegavo che un giorno, quando aveva due o tre settimane di vita, guardandola in faccia mi resi conto di una cosa di cui nessuno si era mai reso conto nelle epoche precedenti: stava riavviando il programma!

Desidero ricordarvi una cosa, che è del tutto irrilevante, ma di cui sono orgogliosissimo: sono nato a Cambridge nel 1952 e le mie iniziali sono D.N.A.!

L'argomento di cui vorrei parlarvi questa sera, ovvero il tema del dibattito che alla fine non faremo, è un argomento apparentemente frivolo che vi stupirà, ma che ci porterà lontano: "Esiste un Dio artificiale?". Senza dubbio le persone convenute in questa sala sono quasi tutte scettiche in tema di divinità, ma anche se si è atei convinti non si può fare a meno di osservare che il concetto di dio ha avuto un'influenza profondissima su secoli e secoli di storia umana. Credo sia importante cercare di capire da che cosa tragga origine tale concetto e che significato possa assumere nel mondo scientifico in cui, spesso e volentieri, ci illudiamo di vivere.

Ho riflettuto su questo oggi pomeriggio, quando Larry Yaeger ha parlato sul tema: "Che cos'è la vita?" e ha accennato alla fine ad alcuni aspetti dei sistemi di riconoscimento calligrafico di cui non sapevo nulla.29

Lo strano pensiero che mi è venuto subito dopo è stato: cercare di capire che cosa sia o non sia la vita e dove stia il confine tra organico e inorganico ha un'interessante correlazione con il sistema di riconoscimento della scrittura. Tutti noi, davanti a una particolare entità, sappiamo se si tratta di un grumo di muffa del nostro frigo o di un'altra cosa: distinguiamo istintivamente ciò che è vivo da ciò che non lo è. Ma è assai difficile definire esattamente ciò che è vivo. Ricordo che una volta, tanto tempo fa, avevo bisogno di una definizione della vita per un discorso che dovevo fare e, supponendo vi fosse una definizione semplice, la cercai in Internet. Rimasi sbalordito vedendo la grande diversità delle definizioni e l'esasperata meticolosità con cui 29 Larry Yaeger è un ingegnere aerospaziale e progettista di software che si occupa di sistemi di riconoscimento calligrafico per conto della Apple. [N.d.T.]

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ciascuna includeva "questo" e non "quello". A pensarci bene, una serie di esseri viventi composta da un moscerino della frutta, Richard Dawkins e la Grande barriera corallina renderebbe piuttosto ostico il confronto tra gli oggetti. Quando cerchiamo di capire ciò che caratterizza la vita, risulta molto, molto difficile trovare una regola che sia indiscutibilmente valida.

Se confrontiamo questa difficoltà con la difficoltà di distinguere A da B e B da C, vediamo che si tratta di un processo, sì, analogo, ma anche molto diverso. Nel caso della vita, infatti, tutto è più sfumato. Di una cosa possiamo dire che "non sappiamo bene se sia viva o no, è giusto al confine tra le due sponde, forse è un esempio inferiore di quella che potremmo definire vita, in poche parole sembra a malapena viva e, anzi, a pensarci bene forse non è affatto viva". Guardando un esempio di vita digitale, potremmo chiederci: "Si può reputare vivo?". Per citare uno dei precedenti oratori, è una cosa che si schiaccia se la calpestiamo? Pensiamo alla controversa ipotesi di Gaia. La gente si chiede: "Il pianeta è vivo?"; "L'ecosfera è viva?". La risposta dipende naturalmente dalla definizione di "vita".

Prendiamo invece il problema di riconoscere la scrittura, che consiste in pratica nel domandarsi: "Questa è una a o una b?" La gente scrive le a e le b in modi diversi: con svolazzi, ghirigori e così via. Non diremmo mai: "Parrebbe una a, ma ha anche qualcosa della b", perché non si può scrivere la parola "arancia" con la b. 0 è una a o è una b. Come facciamo a scegliere? Quando cerchiamo di riconoscere una scrittura, non valutiamo i gradi relativi di "qualità a" o "qualità b" della lettera, ma definiamo l'intenzione di chi l'ha scritta. La risposta alla domanda: "È una a o una b?" è chiarissima, perché chi ha scritto ha scritto la parola "arancia" e dunque è evidente che voleva usare una a e non una b. In mancanza di un creatore intenzionale, quindi, non possiamo realmente stabilire che cosa sia la vita, perché che cosa sia dipende solo da quale serie di definizioni includiamo nella definizione generale. Senza un dio, la vita è solo questione di opinione.

Vorrei concentrare l'attenzione su altre due o tre cose a cui mi è capitato di pensare oggi. Mi ha affascinato (ancora una volta) Larry quando ha parlato della tautologia, la quale rappresenta un problema che mi lasciò interdetto in passato e che non seppi risolvere proprio in quanto ero interdetto. Qualcuno mi disse: «Sì, ma l'intera teoria evoluzionistica si basa su una tautologia: "Tutto ciò che sopravvive, sopravvive"». "Tutto ciò che sopravvive, sopravvive" è una proposizione tautologica e quindi non significa niente. Riflettei un poco sulla faccenda e alla fine mi dissi che la tautologia è priva di significato in quanto non solo non ha informazioni in ingresso, ma non ne ha neppure in uscita. La tautologia della vita, invece, è unica e consente di avvicinarsi alla risposta definitiva: questa tautologia è l'unica cosa, l'unica forza - forse la più potente tra tutte quelle di cui abbiamo cognizione - che non richieda altro input, altro supporto esterno e che, pur essendo lampante e quindi tautologica, ha effetti straordinari. È difficile trovare una forza altrettanto importante ed è per questo che le ho dedicato l'epigrafe in uno dei miei libri. L'ho ridotta all'essenza pura, che è molto simile al concetto esposto da Larry poche ore fa, e cioè: "Qualunque cosa accada, accade, qualunque cosa, accadendo, ne faccia accadere un altra, ne fa accadere un'altra e qualunque cosa, accadendo, si faccia riaccadere, riaccade". In realtà non ci sarebbe neppure bisogno della seconda e della terza frase, che sono ovvi corollari

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della prima, la quale è lampante e autoconclusiva: tutto il resto deriva da essa. Siamo dunque davanti a una verità fondamentale e definitiva, che non può essere confutata. Tale verità fu sottolineata dal tizio che disse che la teoria evoluzionistica era una tautologia. Sì, lo è, ma è una tautologia unica, in quanto non ha bisogno di dati in ingresso, mentre produce una quantità infinita di dati in uscita. Personalmente la giudico la causa prima di tutto quanto esiste nell'universo. Mi rendo conto che è un'affermazione impegnativa, ma ritengo di stare parlando a un pubblico avvertito.

Come nasce l'idea di dio? È indubbio che abbiamo convinzioni balorde su innumerevoli cose, ma proviamo a vedere da che cosa derivino. Immaginiamo l'uomo primitivo. Come tutti gli altri organismi, è una creatura evoluta che vive in un mondo di cui si fa sempre più carico: ha cominciato a fabbricare arnesi, ha modificato l'ambiente con gli arnesi che si è fabbricato e ha finito per fabbricarli con il preciso intento di modificare l'ambiente. Confrontiamo il suo modus operandi con quello di altri animali. Prendiamo per esempio la speciazione, che, come sappiamo, si verifica quando un gruppo di animali si separa dal resto del branco a causa di sconvolgimenti geologici, pressione della popolazione, carenza di cibo e altri fattori e si ritrova in un nuovo ambiente in cui è esposto a influenze diverse. Facciamo la semplice ipotesi che un branco di animali finisca all'improvviso in una terra in cui il clima è assai più rigido. Nel giro di alcune generazioni i geni che favoriscono un manto più fitto prenderanno il sopravvento e tutti gli individui avranno pellicce più spesse. L'uomo primitivo, che è un fabbricante di utensili, non è costretto a questo lungo adattamento: può avere una gamma vastissima di habitat terrestri, dalla tundra al deserto del Gobi - riesce a vivere perfino a New York, Dio santo! - e la può avere perché, quando si ritrova in un ambiente nuovo, non è obbligato ad aspettare per molte generazioni la mutazione genetica. Se arriva in un ambiente più freddo e vede un animale che ha i geni responsabili della pelliccia fitta, dice: «Mi prendo la sua pelliccia». Gli utensili ci hanno consentito di pensare intenzionalmente, di creare e fare cose che hanno reso il mondo più adatto a noi. Immaginiamo adesso un uomo primitivo che, dopo avere passato felicemente la giornata a fabbricare arnesi, esplori il suo ambiente. Si guarda intorno e vede un paesaggio gradevolissimo: ha alle spalle delle montagne alte e piene di grotte, che sono appunto alte e piene di grotte perché lui possa trovare rifugio dalla pioggia e dagli orsi; ha davanti la foresta, ricca di noci e bacche e piante deliziose; ha alla sua destra un torrente gonfio d'acqua buonissima, sul quale oltretutto si può viaggiare con la barca e fare altre cose utili; e ha infine alla sua sinistra il cugino Ug, che ha catturato un mammut, una bestia fantastica, perché la si può mangiare, se ne può usare la pelle per vestirsi e se ne possono usare le ossa per fabbricare armi con cui catturare altri mammut. Ah, sì, è un gran bel mondo, un mondo stupendo. Ma in un momento di riflessione il nostro uomo primitivo, dopo aver pensato: "Che mondo interessante ho intorno a me!" si pone una domanda molto insidiosa, una domanda del tutto insensata e ingannevole, che però gli sorge spontanea proprio perché egli ha quella certa natura ed è stato trasformato dall'evoluzione in un individuo di quella natura, un individuo che prospera perché pensa in quel certo modo. "Chi ha fatto tutto questo?" si chiede. Ed è facile capire perché la domanda sia insidiosa. L'uomo primitivo pensa: "Poiché mi risulta ci sia una sola creatura che fabbrica utensili, chiunque abbia creato tutto questo deve essere

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molto più grande e potente di me e deve essere invisibile, perché se fosse visibile lo vedrei; e siccome io sono più forte della femmina e fabbrico arnesi e vado a caccia eccetera, è probabilmente un maschio". Ecco dunque come nasce l'idea di dio. Poiché inoltre, quando crea cose, le crea con l'intenzione di usarle a qualche scopo, l'uomo primitivo si domanda: "Se questo tizio ha creato il mondo, per quale scopo lo ha creato?". E a questo punto scatta una vera e propria trappola che lo induce a pensare: "Questo mondo mi si adatta perfettamente. Mi offre tante possibilità di nutrirmi e sostentarmi e ripararmi, per cui è evidente che è fatto apposta per me". E arriva all'inevitabile conclusione che, chiunque lo abbia creato, lo ha creato per lui.

È come se una pozzanghera una mattina si svegliasse e dicesse: "Che mondo interessante, quello in cui mi trovo: uno splendido buco perfettamente adatto a me. Anzi, mi si confà a tal punto che dev'essere stato creato apposta per me!". L'idea è così allettante che quando il sole diventa alto nel cielo e l'aria si riscalda e a poco a poco l'acqua evapora, la pozzanghera continua a pensare pervicacemente che tutto andrà bene, perché quel mondo è stato costruito per lei ed è destinato a lei; e nel momento in cui scompare si sbalordisce. Evitiamo di fare come la pozzanghera. Sappiamo tutti che a un certo punto l'universo finirà e che molto prima di allora - benché in un futuro ancora lontano - il sole esploderà. Quel momento ci pare così remoto che non ce ne preoccupiamo, ma è un grosso rischio affermare che non vale la pena curarsene. Guardate quante paure abbiamo adesso per ciò che succederà ai nostri computer il 1 ° gennaio 2000: eppure sapevamo bene che il secolo sarebbe terminato! Credo che, se vorremo sopravvivere nel lungo periodo, dovremo considerare secondo un'ottica più ampia il problema di chi siamo e che cosa ci facciamo su questo pianeta.

Certo, la nostra ottica è viziata dalla bizzarria della nostra condizione. Pensare che sia normale vivere in fondo a un pozzo gravitazionale sulla superficie di un pianeta che, avvolto nei gas, gira attorno a una palla di fuoco nucleare lontana centoquarantanove milioni di chilometri significa chiaramente avere una prospettiva abnorme; ma durante la storia della civiltà ci siamo spesso sforzati di correggere alcuni nostri errori di comprensione. Curiosamente, molte delle correzioni sono legate alla sabbia, sicché parlerò ora delle quattro età della sabbia.

Con la sabbia facciamo il vetro, con il vetro facciamo le lenti e con le lenti facciamo i telescopi. Quando, puntando il telescopio contro il cielo, grandi astronomi del passato come Copernico e Galileo scoprirono che l'universo era diversissimo da come si credeva fosse, che la Terra non era il centro dell'universo attorno a cui ruotava qualche corpo celeste, ma, al contrario (e ci volle tantissimo tempo perché il concetto attecchisse), un sassolino orbitante intorno a una piccola palla di fuoco nucleare, che questa palla era solo una delle miriadi di palle costituenti la nostra galassia, che la nostra galassia era una delle miriadi di galassie costituenti l'universo e che infine non era escluso vi fossero miriadi di universi, dovemmo leggermente modificare la convinzione che il cosmo fosse di nostra proprietà. Mi piace l'ipotesi dei molti universi e, come dicevo oggi con qualcuno, da poco ho letto sull'argomento La trama della realtà, di David Deutsch, un bellissimo saggio in cui l'autore analizza il concetto di universo multiplo o "multiverso" previsto dalla teoria quantistica. L'idea del multiverso si basa sulla dualità onda-particella tipica della radiazione

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elettromagnetica, cioè sul fatto che i quanti di luce si comportano ora come onde ora come particelle e non si possono misurare come onde quando si comportano come onde o come particelle quando si comportano come particelle. A che è dovuto il fenomeno? Se si immagina che l'universo sia uno strato e che dall'uno all'altro capo dello strato vi sia un'infinita molteplicità di universi, non solo si dà una risposta all'interrogativo, ma l'interrogativo, dice Deutsch, cessa di avere senso. Se infatti le condizioni fossero quelle sopra descritte, la luce si comporterebbe esattamente come si comporta. La meccanica quantistica ha buoni motivi per sostenere che l'universo è un multiverso, ma come esseri umani facciamo molta fatica a credere che esistano davvero infiniti universi.

Questo ci riporta a Galileo e al Vaticano. Perché il Vaticano disse in sostanza a Galileo: «Noi non mettiamo in discussione la tua analisi, ma solo la visione che elabori in base a essa. Di' pure che i pianeti girano in tondo, che è come se la Terra fosse un pianeta, che tutti questi pianeti ruotano intorno al sole; di' pure che è come se accadesse questo, ma non dire che accade davvero questo, perché siamo noi gli esclusivi detentori della verità universale e perché, francamente, le tue idee ci sembrano molto poco credibili». Ecco, ho l'impressione che l'ipotesi degli universi multipli sia ritenuta oggi altrettanto improbabile di quella galileiana nel Seicento; e invece potrebbe essere giusta e rappresentare l'ennesimo ridimensionamento che, dopo tutti i ridimensionamenti passati, dobbiamo imparare ad accettare.

Una delle caratteristiche di questo modello è che - fatto piuttosto inquietante - l'universo risulta composto praticamente di nulla. Ovunque si guardi non vi è nulla: solo, ogni tanto, un piccolo, piccolissimo frammento di roccia o luce. Eppure, osservando il comportamento di questi puntolini nel grande nulla, si individuano determinate leggi e determinati principi, come la legge della gravitazione universale e così via. Questa è dunque la visione macroscopica dell'universo cui si è pervenuti nella prima età della sabbia.

L'età successiva ha visto l'esplorazione spostarsi nel mondo microscopico. Dotammo i microscopi di lenti di vetro e cominciammo ad analizzare l'infinitamente piccolo. Capimmo così che, se si scendeva a livello subatomico, anche il mondo solido in cui vivevamo era composto - fatto piuttosto inquietante - praticamente di nulla e, ovunque si trovasse qualcosa, questo qualcosa non risultava essere realmente qualcosa, ma solo la probabilità che ci fosse qualcosa.

Sia l'uno sia l'altro sono universi estremamente ingannevoli. È davvero preoccupante e diciamo pure sconvolgente tutto questo nulla per il senso di identità di esseri umani grandi, grossi e importanti che sono convinti di vivere in un universo fatto apposta per loro. Perché tutto questo nulla inficia l'idea che l'universo sia fatto per loro. Certo, continuiamo a individuare nel nulla che ci circonda vari principi e leggi fondamentali e abbiamo scoperto che cosa sono la gravità, l'interazione nucleare forte, l'interazione nucleare debole, la natura della materia e delle particelle e così via; ma pur avendo compreso questi fondamenti, continuiamo a non capire bene come funziona la faccenda, perché la matematica è ostica. E allora tendiamo a elaborare una visione sostanzialmente meccanicistica del funzionamento delle cose, perché più in là di così la nostra matematica non ci porta. Non intendo certo sminuire Newton, che è stato il primo a riconoscere che la natura è governata da principi nient'affatto

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evidenti. La prima legge del moto, che dice che un oggetto permane nel suo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme finché una forza esterna non modifica il suo stato, è una legge di cui noi, immersi in un pozzo gravitazionale e circondati da un involucro di gas, non ci eravamo resi conto, perché tutto ciò che muoviamo prima o poi si ferma. Solo studiando, osservando, misurando con cura le cose e ragionandoci sopra Newton riuscì a elaborare le leggi del moto che oggi tutti conosciamo; ma, in base ai parametri moderni, la sua visione dell'universo è piuttosto meccanicistica. Ripeto, lungi da me l'idea di sminuirlo, perché, come sappiamo tutti, conseguì risultati eccezionali, tuttavia non si può negare che il suo modello sia insoddisfacente.

Oltre a conoscere particelle, forze, tavoli, sedie, rocce e via dicendo, conosciamo innumerevoli entità quasi invisibili alla scienza; quasi invisibili perché la scienza non ha assolutamente nulla da dire al loro riguardo. Mi riferisco ai cani, ai gatti, alle mucche e a noi stessi. Noi esseri viventi siamo al di là del raggio d'azione della scienza e perfino al di là della nostra capacità di riconoscerci come possibili oggetti di studio della scienza.

Mi immagino Newton seduto a elaborare le leggi del moto e a cercare dì capire la natura dell'universo e mi immagino, accanto a lui, un gatto che gironzola per casa. Come mai non sapevamo come funzionasse un gatto? Perché dall'epoca di Newton ci eravamo convinti che per vedere come funzionavano le cose bisognasse smontarle. Se si cerca di smontare un gatto per vedere come funziona, si ottiene per prima cosa un gatto non funzionante. La vita è così complessa che va oltre la nostra comprensione; va talmente oltre la nostra comprensione che decidemmo di considerare gli esseri viventi una diversa classe di oggetti, una diversa classe di materia: la "vita" era per noi dotata di un'essenza misteriosa ed era donata da Dio, unica spiegazione del mistero. La bomba scoppiò nel 1859, quando Darwin pubblicò L'origine delle specie. Impiegammo molto tempo a comprendere e accettare fino in fondo la sua teoria, perché ci appariva improbabile e avvilente: rappresentava infatti un altro duro colpo per noi esseri umani scoprire che non solo eravamo un puntolino insignificante in un universo composto di nulla, ma, ai primordi, costituivamo una misera fanghiglia che era giunta allo stadio umano passando per lo stadio scimmiesco. Non suonava bene. Per giunta, non era possibile verificare con i propri occhi l'attendibilità dell'assunto. In un certo senso Darwin fu come Newton: fu, cioè, il primo a rilevare nel mondo in cui viveva principi fondamentali che non erano affatto evidenti. Bisognava spremersi parecchio le meningi per comprendere la natura dell'evoluzione, visto che non c'erano in giro prove evidenti e affidabili del fenomeno. Ancora oggi, questa mancanza di indizi costituisce un problema piuttosto insidioso quando ci troviamo in presenza di uno scettico che mette in discussione la teoria evoluzionistica e pretende da noi una dimostrazione concreta: è difficile trovare un esempio lampante nella realtà quotidiana.

Arriviamo così alla terza età della sabbia, nella quale scopriamo un altro derivato della sabbia: il silicio. Creiamo i chip di silicio e d'un tratto ci si schiude davanti un universo che non è fatto di forze e di particelle fondamentali, ma di ciò che mancava nel quadro da noi elaborato dell'interazione tra forze e particelle: il processo. Il chip di silicio ci consente di eseguire operazioni matematiche a una velocità incredibile e di elaborare il modello di processi molto semplici (come risultano essere) analoghi al

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processo vitale: iterazione, looping, branching. L'anello di retroazione che sta al cuore di tutto quanto si fa con il computer è al cuore di tutta l'evoluzione biologica. In pratica, lo stadio di uscita di una generazione diventa lo stadio di ingresso della successiva. Di colpo abbiamo trovato un modello funzionante; non l'abbiamo trovato all'inizio, perché le prime macchine erano lentissime e ingombranti, ma con il passare del tempo, quando il computer è stato perfezionato. Se prima l'evoluzione si poteva solo immaginare o dedurre e bisognava avere un cervello finissimo e lucidissimo anche solo per intuirne l'esistenza, visto che era un fenomeno tutt'altro che evidente e anzi antintuitivo (soprattutto per una specie orgogliosa come quella umana), con la simulazione al computer è diventata palese.

L'elaboratore rappresenta il terzo stadio della nostra rappresentazione della realtà, perché ci permette finalmente di vedere come funziona la vita. E uno sviluppo cruciale, questo, perché dimostra che la vita e tutte le forme di complessità non procedono dall'alto verso il basso, ma dal basso verso l'alto, e che il processo ha una sua grammatica nota a chiunque sia abituato a usare il computer. L'evoluzione non è più una cosa strana per chi abbia studiato il funzionamento di un programma di computer e sappia che semplici pezzetti di codice iterativi, composti da semplici linee, danno origine a fenomeni enormemente complessi; e con fenomeni enormemente complessi intendo un programma di word processing oppure un software come Tierra o Creatures.

Ricordo quando, tanti anni fa, lessi per la prima volta un manuale di programmazione. Avevo imparato a conoscere il computer nel 1983 e, siccome volevo saperne di più, decisi di imparare qualcosa sulla programmazione. Comprai appunto un manuale e impiegai una settimana solo a leggere i primi due o tre capitoli. Alla fine della settimana mi trovai di fronte la frase: "Complimenti, adesso avete scritto la lettera a sullo schermo!". Pensai: "Avrò capito male qualcosa, perché c'è voluto un lavoro enorme, immenso per compiere un passo così piccolo. Cosa dovrò mai fare adesso per scrivere una b?". All'epoca il processo di programmazione, il mezzo attraverso il quale una grande semplicità genera in poco tempo risultati di enorme complessità, non rientrava nella mia grammatica mentale. Vi rientra invece adesso, come rientra nella grammatica mentale di noi tutti, che siamo ormai abituati al computer.

D'un tratto, quindi, l'evoluzione ha smesso di essere un problema di difficile comprensione. Consentitemi una similitudine. Un martedì un uomo viene visto commettere un atto criminoso in una strada di Londra. A indagare sul delitto sono due detective, uno del Ventesimo secolo e l'altro - grazie alle meraviglie della fantascienza - del Diciannovesimo. Il problema è questo: l'uomo che il martedì è stato visto da testimoni sulla strada di Londra è stato notato quello stesso martedì da testimoni altrettanto degni di fede su una strada di Santa Fé. Com'è possibile? Il detective dell'Ottocento può pensare soltanto a una magia; il detective del Novecento magari non riuscirà ad appurare se il criminale abbia preso un certo volo della British Airways e poi un certo altro volo della United Airlines, e a capire in che modo abbia agito e quale rotta abbia scelto per trasferirsi in America, ma non avrà certo bisogno di ipotizzare una magia. Dirà semplicemente: «E andato a Santa Fé in aereo. Non so con quale aereo e forse non sarà facile scoprirlo, ma non c'è nessun mistero». Nel

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Novecento tutti sono abituati all'idea del viaggio in jet. Non si sa se l'omicida abbia volato con il BA 178 o con TUA 270, ma è chiaro come ha proceduto. Ebbene, più acquisiremo familiarità con il funzionamento del computer e con il processo attraverso cui la semplicità genera complessità, più, credo, diventerà facile accettare l'idea della vita come fenomeno evolutivo. Forse non sapremo mai quali esatti passi siano stati compiuti in origine, ma conosciamo in sostanza la natura del processo.

Arriviamo così a un interrogativo fondamentale, che per quanto fosse già stato sollevato quando, nel 1859, vi fu il primo shock dell'Origine delle specie, ci siamo potuti porre con ben altra consapevolezza dopo l'avvento del computer: "Davvero l'universo non è strutturato dall'alto verso il basso, ma dal basso verso l'alto? Davvero la complessità può emergere da livelli di estrema semplicità?". Mi è sempre parso molto strano che si ritenesse un Dio creatore sufficiente a spiegare la grande complessità che vediamo intorno a noi, perché l'idea di dio non spiega da dove sia venuto Dio stesso. Se c'è un progettista, dev'esserci un progetto e ogni cosa da lui progettata o fatta progettare dev'essere, quanto a complessità, sotto il suo livello. Perciò bisognerà chiedersi: "Qual è il livello sopra il progettista?". Esiste un modello dell'universo con tartarughe che scendono, ma qui abbiamo dèi che salgono: non è un granché, come soluzione. Una soluzione dal basso verso l'alto basata sulla tautologia incredibilmente potente "Qualunque cosa accada, accade", fornisce invece una soluzione semplicissima ed efficacissima che non ha bisogno di altre spiegazioni.

Ma veniamo al fulcro del mio discorso, ossia alla domanda: "Esiste un Dio artificiale?" e al problema del perché il concetto di dio abbia convinto tanta gente. Ho già spiegato che tale concetto illusorio ha tratto origine da un'ottica fallace; nel maturarla, non abbiamo tenuto conto del fatto che siamo frutto di un'evoluzione, che ci siamo evoluti in un particolare paesaggio e in un particolare ambiente, e che siamo dotati di capacità e strategie grazie a cui siamo riusciti a sopravvivere e prosperare. Ma forse - ed ecco che vengo al punto - vi è un'idea ancora più potente di quella evolutiva, e cioè che il vertice della piramide da cui un tempo credevamo che tutto discendesse non sia vacante, anche se, come abbiamo visto, il flusso non andrebbe dall'alto verso il basso ma dal basso verso l'alto.

Mi spiegherò meglio. Nella realtà in cui viviamo abbiamo creato infinite cose e cambiato il mondo in infiniti modi: è un fatto evidente. Abbiamo edificato la sala in cui siamo attualmente riuniti, abbiamo fabbricato oggetti complessi come i computer e tanti altri congegni, ma abbiamo costruito anche innumerevoli entità immaginarie di eccezionale potenza. Se per caso a un certo punto diciamo di una certa entità immaginaria: «È pessima e assurda e bisogna liberarsene», subito dopo ne creiamo un'altra, come il denaro. Il denaro è un'entità del tutto immaginaria, ma ha un grande potere nel nostro mondo. Tutti possediamo portafogli contenenti banconote, ma che utilità hanno quelle banconote? Non possiamo procrearle, non possiamo saltarle in padella, non possiamo conviverci, non possiamo farci assolutamente nulla di utile, a parte scambiarcele; e appena ce le scambiamo accadono tante cose incredibili, perché è una finzione cui tutti partecipiamo. Non ci chiediamo se tutto ciò sia giusto o sbagliato, buono o cattivo; però è un fatto che, se il denaro svanisse, la nostra intera struttura sociale imploderebbe, mentre se svanissimo noi il denaro si limiterebbe a svanire con noi. Il denaro, insomma, non ha significato al di fuori di noi: è una cosa

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che abbiamo creato e che ha un forte effetto plasmante sul mondo solo perché è parte integrante di una finzione condivisa da tutti.

Vorrei che qualcuno scrivesse una storia della religione dal punto di vista evoluzionistico, in quanto ho l'impressione che, nel suo svilupparsi nel tempo, la religione abbia messo in atto numerose strategie evolutive. Proviamo a pensare alla corsa agli armamenti che si verifica tra due esseri che vivono nello stesso ambiente, per esempio quella tra il lamantino dell'Amazzonia e una canna di cui esso si nutre. Più il lamantino la mangia, più la canna sviluppa nelle proprie cellule il silice che mette a dura prova i denti del lamantino e più silice c'è nella canna, più forti e grossi diventano i denti del lamantino. Una creatura fa una cosa e l'altra vi oppone resistenza. Come sappiamo, sia nella storia umana sia nella storia dell'evoluzione la corsa agli armamenti ha stimolato nella maniera più potente i meccanismi evolutivi, e anche nel mondo delle idee si vedono accadere cose analoghe.

Senza dubbio tutti conveniamo che la scienza e il metodo scientifico sono lo strumento intellettuale più efficace, il paradigma più potente per indagare, analizzare e comprendere il mondo intorno a noi e tutti conveniamo che questo paradigma parte da un preciso assunto: qualsiasi idea è soggetta all'attacco della critica e, se vi resiste, sopravvive per combattere ancora, mentre se non vi resiste viene sconfitta. Invece la religione non funziona così: si basa su dottrine che vengono definite sacre o sante. Indipendentemente dal fatto che la approviamo o no, l'aura di sacralità ci appare così scontata che ci siamo dimenticati di come l'assunto da cui deriva dica, in sostanza: "Questa è un'idea che non si può minimamente criticare; non è permesso e basta. Perché non è permesso? Perché non lo è!". Se qualcuno vota per un partito le cui idee non approviamo, siamo liberi di discuterne quanto ci pare; tutti quanti dibatteranno l'argomento senza che nessuno si offenda. Se qualcuno pensa che le tasse debbano aumentare o diminuire, ne parliamo tranquillamente, mentre se qualcuno afferma: «La mia religione mi vieta di girare un interruttore il sabato» diciamo: «Benissimo, rispetto la tua credenza». Lo strano è che, nel dire questo, penso: "Non ci sarà mica tra il pubblico un ebreo ortodosso che si offenderà per la mia frase?", mentre non avrei mai pensato, parlando per esempio di politica: "Non ci sarà mica un laburista o un conservatore o un rappresentante di questa o quella teoria economica che si sentirà offeso per la mia frase?". Avrei pensato semplicemente: "È perfettamente lecito avere opinioni diverse". Invece, nel momento in cui qualcuno fa una minima osservazione riguardo alle credenze - qui rischio forte definendole irrazionali - di qualcun altro, ecco che tutti diventano terribilmente protettivi e, lancia in resta, si precipitano a dire: «No, quella credenza non si può criticare; è irrazionale, però la rispettiamo».

Considerando il fenomeno in termini evoluzionistici, vengono in mente gli animali che sviluppano, come le tartarughe, un durissimo carapace: è un'ottima strategia di sopravvivenza, perché niente può penetrare lo scudo. Oppure viene in mente un pesce velenoso cui niente e nessuno si avvicina e che prospera tenendo lontano ogni possibile concorrente. Nel caso della civiltà umana, perché diciamo: «Quest'idea è protetta dalla santità o sacralità»? Perché è perfettamente lecito sostenere il partito laburista o il partito conservatore, i repubblicani o i democratici, una scuola di economia piuttosto che un'altra, Macintosh piuttosto che Windows, ma non è lecito avere Un'opinione sull'origine dell'universo e sul suo eventuale creatore, in quanto

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l'argomento è considerato "sacro"? Che senso ha un simile atteggiamento? Perché riteniamo certe cose intoccabili? Per un unico motivo: l'abitudine. Non c'è altra ragione. Semplicemente, si è instaurato un ciclo che, ' una volta avviatosi, si è rivelato potentissimo. E ci siamo abituati a non mettere mai in discussione le dottrine religiose. Infatti, è molto interessante vedere quanto furore suscita Richard quando le mette in discussione!30 Tutti diventano isterici, perché non è permesso dire certe cose. Eppure, se si riflette razionalmente, si capisce che non c'è motivo di non sottoporre le idee religiose alla stessa disamina cui sono sottoposte tutte le altre: l'unico motivo è che abbiamo in qualche modo convenuto di non farlo.

C'è un libro molto interessante che forse qualcuno dei presenti ha letto e che si intitola Man on Earth. Lo ha scritto John Reader, un antropologo che insegnava a Cambridge, e descrive il modo in cui… No, permettetemi di fare un passo indietro e di parlarvi dell'interosaggio, dove si analizzano diverse civiltà che, essendosi sviluppate in località abbastanza isolate, come isole, valli montane o altri luoghi poco accessibili, rappresentano esempi "da laboratorio" in cui è possibile vagliare con precisione l'influenza dell'ambiente e delle circostanze sull'evoluzione della cultura. I casi presi in esame sono numerosi e affascinanti. In particolare, mi vengono in mente la civiltà e l'economia di Bali, una piccola isola molto popolosa che vive di riso. Bene, il riso è un alimento dal rendimento straordinario, perché se ne può coltivare una gran quantità in uno spazio relativamente ristretto; tuttavia, perché la coltivazione vada a buon fine, occorrono moka manodopera e molta, assidua cooperazione tra le persone, specie in una piccola isola fittamente popolata che dipende dal raccolto per il suo sostentamento. La società di Bali è capillarmente permeata di religiosità e al suo interno ogni persona ha un'identità, un ruolo e uno status sociale ben definiti. L'intera esistenza fa capo alla religione: vi sono calendari basati sulle credenze religiose e costumi e rituali derivanti da norme religiose; e seguendo tutte le varie prescrizioni i balinesi sono sempre stati molto produttivi nella coltivazione del riso. Negli anni Settanta arrivarono delle persone che, notando che si coltivava e raccoglieva il riso in base al calendario del tempio e giudicando la prassi insensata, dissero: «Bando a queste sciocchezze. Noi vi aiuteremo ad aumentare in misura notevole la produzione, che è già ottima. Basta che usiate gli antiparassitari, vi basiate sul nostro calendario, facciate questo e quell'altro». Gli abitanti di Bali seguirono il consiglio e per due o tre anni la produzione di riso crebbe moltissimo, ma l'intero equilibrio predatore/preda/parassita saltò e presto il raccolto diminuì sensibilmente. Allora i balinesi dissero: «Fanculo, torniamo al calendario del tempio!», ripristinarono le vecchie usanze e tutto riprese a funzionare benissimo. Certo, noi potremmo dire che basare la coltivazione del riso su una cosa assurda e irrazionale come la religione è stupido e che bisognerebbe utilizzare criteri più razionali, ma loro potrebbero benissimo ribattere: «Visto che la vostra civiltà e la vostra società si basano sul denaro, che è una finzione, perché non la piantate con questa finzione e non vi mettete a collaborare gli uni con gli altri?». E noi sappiamo che non funzionerebbe…

Dunque, in un certo senso, costruiamo metasistemi che ci trascendono per riempire 30 Richard Dawkins, che è stato attaccato, soprattutto dal pubblico americano, per il suo dichiarato ateismo. [N.d.T.]

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il vuoto creatosi quando abbiamo smesso di credere in un ente che (per quanto non reale) si supponeva essere il progettista, l'architetto, il creatore; e lo facciamo perché quando noi - non intendo necessariamente noi in questa stanza, ma noi come specie - progettiamo e creiamo un creatore, ci comportiamo poi come se ve ne fosse davvero uno e allora accadono varie cose che altrimenti non accadrebbero.

Proverò a illustrare meglio il concetto. Premetto che la mia è pura speculazione teorica, un mero azzardare ipotesi, perché non conosco bene l'argomento e conviene forse considerare il discorso che sto per fare più un esperimento ideale che una vera disamina. Vorrei accennare al feng shui, di cui so molto poco, ma del cui ruolo in progettazione, costruzione, disposizione e arredamento delle case si è parlato parecchio negli ultimi tempi. Il feng shui ci invita a immaginare che la nostra casa sia abitata da un drago e a guardarla chiedendoci in che modo esso si muoverebbe al suo interno. Se un drago non fosse felice in questa casa, dovremmo mettere un vaso di pesci rossi lì e una finestra là. Sembra una completa, colossale fesseria, perché tutto quanto concerne i draghi non può che essere una fesseria; visto che i draghi non esistono, qualunque teoria si basi sul loro comportamento dev'essere stupida. Che cosa pensano queste stupide persone, che i draghi possano dirci come costruire una casa? Eppure credo che, se lasciassimo per un attimo da parte le interpretazioni letterali, troveremmo nel ragionamento qualcosa di interessante. Voglio dire, tutti noi, avendo vissuto e lavorato in certi edifici e frequentato o visitato altri edifici, sappiamo che è più piacevole, confortante, gradevole vivere in alcuni che in altri. Non siamo riusciti a quantificare questa sensazione, ma nel corso del Novecento diversi architetti hanno proclamato di sapere come rendere i palazzi confortevoli, sicché è nata l'orribile idea della casa come "macchina per abitare", e Mies van der Rohe e altri hanno innalzato ceppi di vetro e costruito aggeggi dalla forma strana che erano espressione di una qualche teoria. Saranno anche case e palazzi tecnicamente ben progettati, ma non sono posti in cui sia bello vivere. Sono state avanzate infinite teorie sull'argomento, ma se ci si siede a lavorare con un architetto (e io ho vissuto questa ordalia, come senza dubbio l'hanno vissuta tanti altri), si scopre che, per organizzare nella maniera migliore una stanza, bisogna tenere conto dell'illuminazione, degli angoli, delle abitudini e delle esigenze delle persone che dovranno viverci e di tanti altri fattori che non conosciamo e che quindi vengono trascurati. Non sappiamo che importanza assegnare all'uno e all'altro elemento e, mentre cerchiamo timidamente di capire come funziona la faccenda, siamo in difficoltà, in quanto più che indizi concreti abbiamo a disposizione teorie o tecniche ingegneristiche e architettoniche tra le quali facciamo fatica a districarci. Confrontiamo questa situazione con quella in cui ci troveremmo se qualcuno ci tirasse una palla da cricket. Potremmo starcene seduti a guardare, dire: «Forma un angolo di proiezione di diciassette gradi», fare calcoli sulla carta e, una settimana dopo che la palla ci fosse passata accanto, elaborare il grafico della traiettoria e del punto in cui andare a prenderla. Oppure potremmo allungare la mano e afferrarla, perché, subito sotto il livello conscio, abbiamo molte facoltà che ci permettono di integrare in tanti modi complessi tanti fenomeni complessi e di dire, alla fine di tali complesse ma veloci integrazioni: «Oh, guarda, c'è una palla che arriva: la prendo!».

In sostanza, la mia ipotesi è che il feng shui e infinite altre cose rientrino nel

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novero delle operazioni che si eseguono al di sotto del livello conscio. Sappiamo fare innumerevoli cose senza necessariamente calcolare in che modo farle: le facciamo e basta. Torniamo al problema della progettazione di una stanza o una casa. E, invece di perder tempo a calcolare gli angoli e a cercare di capire quali validi principi estrapolare da una teoria architettonica che magari è solo una moda passeggera, proviamo a chiederci: «Come ci vivrebbe qui un drago?». Siamo abituati a immedesimarci nelle creature organiche; le creature organiche consistono di infinite variabili diverse che non potremo mai capire, però, in pratica, sappiamo come vivono. Non abbiamo mai visto un drago, ma tutti abbiamo presente il suo aspetto, per cui siamo in grado di dire: «Se un drago passasse di qui, rimarrebbe incastrato in questo punto e si incazzerebbe in quest'altro punto, perché non vedrebbe il tale oggetto e con un colpo di coda rovescerebbe il vaso». Immaginando una disposizione dell'ambiente in cui il drago si sentisse felice, immagineremmo automaticamente un posto in cui vivrebbero bene anche altre creature organiche, noi compresi.

Voglio dire insomma che, più a fondo conosciamo la scienza, più dovremmo ricordarci che le finzioni con cui in precedenza popolavamo il nostro mondo avevano uno scopo di cui è opportuno sia comprendere la natura sia conservare le componenti essenziali, se si vuole evitare di buttare via il bambino con l'acqua sporca; perché, anche se non consideriamo più serio il motivo per cui quelle finzioni furono create, esse - come altre analoghe - probabilmente esistono per una valida funzione pratica. Ho idea che, quando progrediremo nello studio della vita artificiale e digitale, vedremo emergere dal mondo digitale sempre più proprietà impreviste e scopriremo che queste proprietà hanno una netta somiglianza con le entità che ci siamo creati intorno per dare forma e significato alla vita e per vivere e lavorare gli uni con gli altri. Tendo quindi a pensare che non vi sia un Dio reale, ma un Dio artificiale la cui importanza non andrebbe sottovalutata. Ecco, era questo il concetto a cui volevo arrivare e adesso siete liberi di tirarmi le sedie.

DOMANDA. Qual è la quarta età della sabbia?

Farò un attimo un passo indietro per accennare al nostro modo di comunicare. Da sempre abbiamo vari modi di comunicare. C'è per esempio il rapporto tra singolo individuo e singolo individuo, il dialogo uno/uno. Poi c'è il rapporto uno/molti, che è quello in cui mi trovo coinvolto al momento, ma che si esprime anche in altri modi: qualcuno potrebbe per esempio alzarsi e intonare una canzone o annunciare che dobbiamo andare alla guerra. C'è quindi la comunicazione molti/uno, una cui versione piuttosto abborracciata, goffa e inefficiente si chiama democrazia. Ma a uno stadio più primitivo di tale tipo di comunicazione io mi alzerei in piedi e direi: «Va bene, andiamo alla guerra» e qualcun altro replicherebbe: «No, non ci andiamo»: e infine la comunicazione molti/molti troverebbe espressione nel litigio che seguirebbe.

Nel Novecento (e anche nell'Ottocento) la comunicazione uno/uno si è estrinsecata nel telefono, che tutti conosciamo. Abbiamo molte forme - quante, ragazzi! - di comunicazione uno/molti: editoria, giornalismo, radiotelevisione ecc. Riceviamo dati da ogni parte del mondo ed è difficile assegnare importanza a tutte queste informazioni in arrivo. È curioso, ma non occorre risalire a un'epoca lontana per

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scoprire che invece, in passato, giudicavamo importanti tutte le notizie che ci pervenivano. Qualunque cosa accadeva - fosse un fatto riguardante l'intero paese o il nostro quartiere, noi stessi o il vicino di casa o di villaggio - accadeva nel nostro mondo e, se vi reagivamo, il mondo reagiva a sua volta. Tutto ci pareva rilevante, per cui, se per esempio qualcuno aveva un terribile incidente, gli ci radunavamo intorno e gli prestavamo soccorso. Oggi, a causa della pletora di comunicazioni uno/molti, se un aereo precipita in India proviamo certo grande ansia, ma quest'ansia non ha alcun effetto. Non siamo in grado di distinguere tra un evento terribile accaduto a qualcuno all'altro capo della Terra e un evento accaduto a qualcuno all'angolo della nostra strada. È proprio perché non distinguiamo più tra le due cose che ci turbiamo molto per un fatto successo al personaggio di una soap opera prodotta a Hollywood e magari ci turbiamo meno per un fatto successo a nostra sorella. Siamo ormai tutti confusi e disorientati e poiché il mondo ha grande influenza su di noi, mentre noi non abbiamo alcuna influenza sul mondo, ci sentiamo alquanto stressati e alienati. Poi c'è la comunicazione molti/uno; esiste, ma è men che perfetta e non ce n'è molta in giro. I nostri sistemi democratici sono un concreto esempio di tale tipo di comunicazione e, benché non siano molto efficienti, sono sicuramente destinati a migliorare parecchio.

Il quarto tipo, la comunicazione molti/molti, è nato invece solo con Internet e Internet, come sappiamo, esiste grazie alle fibre ottiche. La quarta età della sabbia è rappresentata dunque dalla comunicazione tra di noi. Torniamo un attimo a quello che ho detto poco fa, cioè che il mondo influisce su di noi mentre noi non influiamo sul mondo. Ricordo, qualche anno fa, il momento in cui cominciai a prendere sul serio Internet. L'episodio in sé è irrilevante o addirittura sciocco. Uno studente di informatica della Carnegie Mellon prediligeva, come bibita, la Dr Pepper Light e andava regolarmente ad attingere, due piani sotto, a un distributore automatico; ma la macchina esauriva spesso il prodotto e gli toccava fare viaggi a vuoto. Alla fine pensò: "Vediamo un po', là c'è un chip, qui ci sono un computer e una rete locale; perché non mettere il distributore automatico in rete e poi vedere attraverso il terminale se la Dr Pepper c'è o non c'è, così mi risparmio tutti quei giri inutili?". Collegò allora la macchina alla rete locale, ma la rete locale faceva parte di Internet, sicché d'un tratto chiunque al mondo poté vedere quante bibite aveva o non aveva quel particolare distributore. Non saranno state informazioni vitali, però erano interessanti: non solo tutti seppero se il distributore automatico era rifornito, ma ebbero anche altre e più articolate notizie, perché il chip della macchina non si limitava a dire: "La Dr Pepper Light è esaurita", ma snocciolava dati come: "Ci sono sette Coca-Cola e tre Diet Cola, la temperatura a cui i prodotti sono tenuti è tot gradi e l'ultimo rifornimento è avvenuto alle ore tali". Tra le numerose informazioni ce n'era una straordinaria: se qualcuno aveva infilato nella fessura cinquanta centesimi e non aveva premuto il bottone, cioè se la macchina era incinta, dal terminale di qualsiasi punto del mondo qualcun altro poteva, collegandosi, farle espellere la lattina. Una persona che si fosse trovata a camminare per il corridoio, avrebbe potuto vedere all'improvviso una Coca-Cola uscire – tac! dal distributore. E se quella persona si fosse chiesta come mai era successa una cosa del genere, la risposta sarebbe stata che un cliente aveva azionato il distributore a ottomila chilometri di distanza. Come ho detto, la storia di per sé ha valore solo aneddotico, ma sotto un

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certo profilo è molto interessante; quando me la raccontarono capii infatti che, per la prima volta nella storia, si poteva allungare una mano da un capo all'altro del mondo. Non sarà così importante che, da ottomila chilometri di distanza, una mano invisibile raggiunga il distributore di un corridoio d'università e gli faccia sganciare una lattina di Coca-Cola, ma è la prima mossa nella guerra per la conquista di un metodo di comunicazione completamente nuovo. Perciò, ripeto, credo sia questa la quarta età della sabbia.

Discorso estemporaneo tenuto al convegno "Digital Biota 2" Cambridge, settembre 1998

Biscotti

Questo fatto è successo a una persona in carne e ossa e la persona in carne e ossa sono io. Nell'aprile del 1976 mi recai alla stazione di Cambridge, Gran Bretagna, per prendere il treno. Ero un po' in anticipo, perché avevo sbagliato a leggere l'orario, così, dopo aver comprato un quotidiano per fare le parole incrociate, andai al bar, presi un caffè e un pacchetto di biscotti e mi sedetti a un tavolino. Voglio che vi figuriate la scena, perché è molto importante che l'abbiate ben chiara in testa. C'è il tavolo, c'è il giornale, ci sono la tazza di caffè e il pacchetto di biscotti. Davanti a me, seduto a una certa distanza, c'era un tizio dall'aria comunissima che indossava giacca e cravatta e aveva con sé una ventiquattrore. Niente lasciava supporre che stesse per fare qualcosa di strano. E ciò che fece fu questo: d'un tratto si avvicinò al mio tavolino, prese il pacchetto di biscotti, lo aprì, tirò fuori un biscotto e se lo mangiò.

Ecco, devo dire che questo è il tipo di situazione che noi britannici facciamo una gran fatica a gestire. Niente nella nostra educazione, istruzione e cultura ci insegna ad affrontare una persona che in piena luce del giorno ci ruba un biscotto. Sapete che cosa sarebbe successo se un atto del genere fosse stato compiuto a South Central Los Angeles? Sarebbe subito scoppiata una sparatoria e sarebbero accorsi gli elicotteri della polizia, la Cnn e compagnia bella… Ma alla fine mi comportai come si sarebbe comportato qualsiasi gagliardo inglese: feci finta di niente. Fissai il quotidiano, presi un sorso di caffè, cercai di scrivere una definizione del cruciverba senza riuscirci e intanto pensai: "E ora che faccio?".

Alla fine mi dissi: "Visto che non risichi, tanto vale che rosichi" e, facendo finta di non notare che il pacchetto era già misteriosamente aperto, presi un biscotto. "Con questo lo sistemo" pensai. Invece non io sistemai affatto, perché dopo uno o due secondi ci riprovò. Mi rubò un altro biscotto. Poiché non avevo sollevato la minima protesta la prima volta, era in certo senso ancora più difficile sollevarla la seconda. Che cosa dovevo dire: "Scusi, non ho potuto fare a meno di notare che…?". No, non avrebbe funzionato.

Mangiammo l'intero pacchetto a quel modo. Quando dico l'intero pacchetto intendo dire che c'erano in tutto otto biscotti; ma sembrò una vita. Ne prese uno lui, ne presi uno io; ne prese uno lui, ne presi uno io. Poi, quando li avemmo finiti, si alzò

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e si allontanò. O meglio, ci scambiammo un'occhiata eloquente, quindi lui si allontanò e io, traendo un respiro di sollievo, mi appoggiai allo schienale.

Pochi secondi dopo arrivò il treno, sicché ingollai l'ultimo goccio di caffè, mi alzai e presi il giornale. E sotto il giornale vidi i miei biscotti. Quello che più mi affascina di questa storia è l'idea che nell'ultimo quarto di secolo abbia girato per l'Inghilterra un uomo comunissimo che ha vissuto la mia stessa avventura, senza però conoscerne la battuta finale.

Da un discorso tenuto all'Embedded Systems, 2001

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Tutto quanto

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Intervista a Douglas Adams di The Onion A.V. Club

Credo che l'idea di arte uccida la creatività. D.N.A..

THE ONION. Di quale delle molte cose di cui si sta occupando preferisce parlare per prima?

DOUGLAS ADAMS. Sono due le cose principali di cui mi sto occupando. La prima, che stiamo per finire e a cui ho lavorato per quasi due anni, è il CD-ROM Starship Titanic, che uscirà tra un paio di mesi. L'altra è all'inizio: ho appena accettato di vendere i diritti della Guida galattica per gli autostoppisti alla Disney, per cui suppongo che nei prossimi due anni farò questo film.

O. Ci parli di Starship Titanic.

D.A. Be', è un CD-ROM e quel che conta è che è nato come un CD-ROM. La gente voleva che facessi un CD-ROM della Guida e io ho pensato: no, per carità. Non volevo compiere l'ennesima operazione di ingegneria inversa su un libro già scritto. I media digitali sono abbastanza interessanti da meritare che vi si lavori direttamente sopra. Un attimo dopo che si è avuta un'idea, si pensa subito: "Che cosa ne facciamo? Ne facciamo un libro, un film, un racconto, un questo, un quello, un cornflake?". Da quel momento, la nostra decisione in merito al mezzo di espressione determina il modo di svilupparsi dell'idea. Una cosa che nasce e si sviluppa come CD-ROM sarà molto, molto diversa da una cosa che nasce e si sviluppa come libro. Oddio, dico una piccola bugia, perché l'idea nuda e cruda, sotto forma di paragrafo di una decina di righe, era contenuta in La vita, l'universo e tutto quanto, uno dei romanzi della serie. Ogni volta che mi incagliavo nell'intreccio di un libro della saga, inventavo un paio di altri brevi intrecci che facevo raccontare alla Guida. Lo spunto dunque c'era già e parecchie persone mi avevano esortato a svilupparlo in un romanzo. Sembrava un'idea molto buona e io tendo a resistere alle idee molto buone. Scoprii comunque che c'era un ottimo motivo per non trasformare Starship Titanic in un libro: la storia era imperniata su un oggetto e non c'erano personaggi intorno a questo oggetto. Invece in un libro si possono raccontare solo storie imperniate su persone. Quando in seguito pensai: "Bene, ora voglio fare un CD-ROM per giustificare il fatto di passare tutto il tempo a gingillarmi con i computer" e mi chiesi quale potesse essere una buona idea per un pubblico adulto, mi resi conto di come l'irreparabile svantaggio di avere, in un romanzo, una nave per protagonista diventasse un vantaggio nella versione CD-ROM, perché creare un CD-ROM significa in sostanza creare un luogo, un ambiente.

O. E l'utente diventa il personaggio.

D.A. Esattamente. Una volta che si è iniziato a delineare il luogo, si introducono i personaggi, ma il CD-ROM non è incentrato sui personaggi, bensì appunto

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sull'ambiente, in questo caso la nave. Volevo fare una cosa… una cosa che, secondo i punti di vista, poteva sembrare molto datata o molto nuova: incorporare nel videogioco un motore di conversazione. Parecchi anni fa creai un gioco ispirato alla Guida galattica per la Infocom, un'azienda straordinaria che produceva videogiochi intelligenti, colti, spiritosi, basati più sul testo che sulle immagini. Dopotutto, molte migliaia di anni di civiltà umana ci dicono che possiamo fare un sacco di cose con il testo e introdurre l'elemento supplementare dell'interattività dovrebbe accrescere la rosa delle opzioni. Si trasforma il computer in narratore e l'utente in pubblico, come ai vecchi tempi in cui era il narratore a reagire al pubblico, anziché, com'è successo in seguito, il pubblico a reagire al narratore. All'epoca mi ero divertito molto, moltissimo a lavorare al CD. Mi aveva deliziato elaborare i dialoghi virtuali tra l'utente e la macchina, per cui mi è venuta voglia di tentare altre esperienze del genere e di cimentarmi con i videogame moderni. In sostanza desideravo vedere se era possibile usare la vecchia tecnica di conversazione e indurre i personaggi a parlare: inserirli in un ambiente e stare a guardare che cosa succedeva. Così abbiamo affrontato innanzitutto il problema del dialogo con i personaggi. È chiaro che tutto quanto riguarda il linguaggio accresce enormemente le difficoltà. All'inizio volevamo creare un CD-ROM con tecnologia text-to-speech, che ti dà il vantaggio di una flessibilità molto maggiore nel costruire frasi all'impronta. In questo modo, però, ottenemmo che i personaggi suonassero come norvegesi decerebrati, e questo mi pareva uno svantaggio. Quando, alla fine, abbiamo capito che bisognava preregistrare i discorsi, ho pensato: "Che onore! Si ha solo un numero limitato di risposte e sarà uno… Ma in fondo, siamo poi così sicuri che venga uno schifo?". In breve abbiamo risolto il problema, o meglio lo abbiamo risolto a poco a poco, aumentando molto, molto, molto la gamma dei dialoghi preregistrati. È di stamattina un'ennesima registrazione di due ore. Adesso abbiamo sedici ore di frammenti di conversazione: brevi (Vasi, locuzioni, mezze frasi, e tutte le cose che la macchina mette insieme istantaneamente in risposta a ciò che si digita. Per un pezzo la faccenda non ha funzionato molto bene. Adesso invece, nelle ultime due o tre settimane, ha cominciato a quagliare, anzi a dare risultati eccellenti. La gente arriva e dice: «Credi davvero che funzioni? Mah, io ho i miei dubbi. Adesso lo chiedo al computer». Glielo chiedono e rimangono a bocca aperta. È meraviglioso. La gente finisce per passare un sacco di tempo seduta a conversare con i personaggi. Mi affretto ad aggiungere che delle sedici ore di conversazione è autrice una piccola équipe, lo ho scritto una parte dei dialoghi, altri ne hanno scritto un'altra, poi abbiamo messo insieme il tutto e il risultato è notevole. Ti trovi davanti un mondo bizzarro popolato da creature bizzarre. Robot danneggiati che strisciano in giro, individui che hanno una nutrita gamma di opinioni, atteggiamenti, idee e strane storie, e che sono a conoscenza di cose assolutamente imprevedibili. Li si può impegnare tutti in una conversazione.

O. Le dispiace L'idea che, dopo tanto lavoro, il pubblico non mostri verso il CD-ROM la considerazione che mostra verso un libro o un film? Che non lo trattino come una forma d'arte?

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D.A. Spero che non lo trattino come una forma d'arte. Mi disturba molto questa storia dell'arte. Io, laureato in letteratura inglese, rifuggo dall'idea di fare arte fin dall'epoca dell'università. Credo che l'idea di arte uccida la creatività. È uno dei motivi per cui mi è venuta voglia di creare un CD-ROM: nessuno lo prende sul serio e quindi vi si può infilare dentro, quatti quatti, un sacco di ottimo materiale. È curioso vedere quanto spesso si verifichi questo fenomeno. All'epoca in cui nacque il romanzo come genere letterario, credo che le prime opere fossero perlopiù pornografiche; pare anzi che quasi tutti i media all'inizio siano stati veicolo di pornografia e che solo in seguito abbiano abbracciato un più ampio orizzonte. Beninteso, tengo a precisare che Starship Titanic non è un CD-ROM pornografico. Prima del 1962 tutti pensavano che la musica pop fosse… A nessuno sarebbe mai venuto neanche lontanamente in mente di definirla arte, poi sono arrivati autori incredibilmente creativi che amavano profondamente quel tipo di musica e la ritenevano la più bella al mondo, e nel giro di pochi anni abbiamo avuto Sgt Pepper's e le altre. E tutti l'hanno chiamata arte. Credo che i media esprimano il meglio di sé prima che a qualcuno venga in mente di chiamare la loro produzione arte, cioè quando la gente la giudica ancora spazzatura.

O. Ma tra, poniamo, vent'anni le piacerebbe essere riconosciuto come uno dei primi autori a essersi compiutamente espressi nell'arte del CD-ROM?

D.A. Be', mi piacerebbe che molta gente avesse comprato il CD. Cioè mi piacerebbe il successo di pubblico per un motivo molto concreto. Ma sarei contento anche per un'altra ragione: se il tuo prodotto è popolare e la gente mostra di apprezzarlo parecchio e divertircisi, significa che hai fatto un buon lavoro. Se poi a qualcuno salta il ticchio di dire: «Questa è arte», sia pure, non importa molto. Ma credo tocchi agli altri giudicare, dopo che il prodotto è uscito. Mentre si lavora alla cosa, non bisogna mirare all'arte. Quando ci si mette a scrivere un romanzo, non c'è niente di peggio che dire: «Oh, adesso faccio un'opera di alto valore artistico». È ridicolo. L'altro giorno, per pura curiosità, ho letto 007 Thunderball, uno dei romanzi di Fleming che avrei tanto voluto leggere a quattordici anni, quando avrei cercato avidamente i punti in cui James Bond palpa le tette alle ragazze ed esclama: «Dio, com'è eccitante!». L'ho letto per curiosità, dicevo, perché, considerato che James Bond è diventato una straordinaria icona della cultura popolare degli ultimi quarant'anni, desideravo vedere com'era sulla carta stampata. Ho fatto la verifica non solo perché mi era capitato di trovare una copia del libro, ma anche perché avevo letto il giudizio di qualcuno su Fleming. Fleming, aveva detto questo qualcuno, non si proponeva di scrivere letterariamente, ma di scrivere dignitosamente. Una differenza enorme; una differenza cruciale. Allora mi sono detto: vediamo se è riuscito a farlo. E sono stato piuttosto soddisfatto, perché, sotto il profilo artigianale, il libro è molto ben confezionato. Fleming ha padronanza della lingua, sa mettere insieme le parole e farle funzionare bene. Ma naturalmente nessuno definirebbe la sua letteratura. Credo però che quasi tutte le opere più interessanti siano quelle prodotte da persone che non pensano di fare arte, ma artigianato, di fare un buon lavoro artigianale. Scrivere dignitosamente significa fare buon artigianato, conoscere il proprio mestiere, saper

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usare gli strumenti nel modo giusto e non danneggiarli mentre li si usa. Quando leggo i romanzi scritti letterariamente, quelli che appartengono alla cultura "alta", spesso mi paiono un concentrato di sciocchezze. Se voglio sapere qualcosa di interessante su come funzionano gli esseri umani, che relazioni hanno tra loro e come si comportano, leggo le gialliste donne, molte delle quali se la sbrogliano molto meglio dei Sapientoni; valga per tutte il nome di Ruth Rendell. Se voglio leggere qualcosa di serio e profondo sulla condizione umana, sul perché ci troviamo in questo mondo e che cosa succede in questo mondo, preferisco leggere il libro di un biologo come Richard Dawkins. Credo che oggi non siano più i romanzieri, ma gli scienziati a fare osservazioni importanti sui temi fondamentali della vita, perché ne sanno di più. Tendo a diffidare parecchio di qualunque cosa si autodefinisca "arte" mentre viene creata. Per quanto riguarda il CD-ROM, ho cercato solo di fare il prodotto migliore che potevo e, facendolo, mi sono divertito più che potevo. Mi pare piuttosto buono. Certo, restano sempre i particolari che giudichi imperfetti e per i quali ti crucci, ma di certi particolari puoi anche continuare a crucciarti per sempre. Il prodotto è buono, molto buono.

O. Veniamo al secondo argomento. Sono decenni che sento parlare di un film tratto dalla Guida galattica.

D.A. Sì, già. Benché sia acqua passata, vi furono altre due occasioni in cui se ne parlò. La prima fu quando, una quindicina d'anni fa, vendetti i diritti a Ivan Reitman, che allora non era famoso come adesso. Tutto finì in una bolla di sapone perché, appena ci mettemmo al lavoro, Ivan e io scoprimmo di non essere d'accordo su niente. Anzi, mi accorsi che, prima di comprare i diritti, non aveva nemmeno letto il libro, ma solo le cifre delle vendite. Siccome credo che il romanzo non fosse di suo gusto, voleva farne qualcosa di completamente diverso. Alla fine prendemmo atto della nostra divergenza di opinioni e andammo ciascuno per la sua strada. A quel punto ormai la proprietà era passata alla Columbia e lui girò un film intitolato Ghostbusters, per cui può immaginare la mia irritazione. La Guida rimase per molti anni in mano alla Columbia. In seguito Reitman fece scrivere a qualcun altro una sceneggiatura ispirata alla Guida: la peggiore sceneggiatura che abbia mai letto. Purtroppo sopra, oltre al nome dell'autore, c'è scritto anche il mio, mentre io non ci ho messo neanche una virgola. Ho scoperto da poco che quel copione è rimasto per un pezzo a Sceneggiopoli, o comunque si chiami, e che tutti pensavano l'avessi scritto io e mi ritenevano quindi un cane di sceneggiatore. Questo mi ha addolorato molto. Poi, alcuni anni fa, mi presentarono Michael Nesmith, che è diventato mio grande amico e che nel corso della vita ha fatto parecchi mestieri; adesso è produttore cinematografico, ma in origine era uno dei Monkees. Mi fa effetto pensare che fosse di quella band, perché è un tipo così serio, tranquillo e riflessivo, anche se ha le sue riserve di allegra malizia. Michael mi propose di diventare suo socio nella realizzazione del film: lui l'avrebbe prodotto, io avrei scritto la sceneggiatura eccetera. Ci divertimmo parecchio a lavorare al progetto, al quale dedicammo non poco tempo, ma a quel punto Hollywood pareva considerarlo troppo invecchiato, troppo datato. Poi mi ripetevano in continuazione: «La fantascienza comica non

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funziona al cinema. E sai perché? Perché se funzionasse, l'avrebbero già fatta».

O. Mi pare un ragionamento vizioso.

D.A. E che cosa succede a quel punto? Succede che l'anno scorso esce Men in Black e all'improvviso ecco che qualcuno l'ha fatta, la fantascienza comica. Men in Black è… come posso dirlo senza offendere nessuno? Mi è permesso osservare che conteneva elementi che mi suonavano alquanto familiari? Insomma un film di fantascienza demenziale con una vena molto simile a quella della Guida galattica è diventato d'un tratto uno dei maggiori successi cinematografici della storia, Questo ha modificato un po' il quadro e la gente ha assunto un altro atteggiamento. Quanto al progetto con Michael… alla fine non siamo riusciti a farlo decollare e così ciascuno è andato per la sua strada; però siamo rimasti ottimi amici. Spero solo che in futuro abbiamo modo di lavorare insieme ad altre cose, perché è una persona che mi piace molto e con cui sono andato molto d'accordo. Inoltre più tempo passo a Santa Fé, meglio sto. E adesso c'è in ballo questo film con la Disney, o meglio con la Caravan Pictures, che è una grande casa di produzione indipendente, ma legata alla Disney. Per me è stato molto frustrante che in questi quindici anni non sia stato realizzato il film tratto dalla Guida, però mi consolo al pensiero che oggi si possa girare un film molto, molto, molto migliore di quello che si sarebbe potuto girare quindici anni fa. Naturalmente mi riferisco al profilo tecnico, agli effetti visivi e speciali. Va da sé che la vera qualità del film è data da sceneggiatura, recitazione, regia e via dicendo, e che queste non sono né migliorate né peggiorate negli ultimi quindici anni. Ma se non altro un settore molto importante, quello della qualità visiva, ha fatto passi da gigante.

O. Il film sarà diretto da Jay Roach Austin Powers, vero?

D.A. Sì. Roach è un tipo molto interessante, con cui ormai ho avuto modo di parlare a lungo. Sotto molti profili è stato risolutivo conoscerlo, perché sono andato subito perfettamente d'accordo con lui. Mi sembra una persona molto brillante e intelligente; tanto più brillante e intelligente in quanto intende farmi lavorare parecchio al film. È una cosa, questa, che rende il regista sempre molto caro allo scrittore. Sa, quando scrissi la serie radiofonica originale feci una cosa che nessuno faceva mai; non mi limitai a sceneggiare, ma mi inserii nell'intero processo di produzione. Il produttore-regista si stupì non poco, ma alla fine la prese con filosofia. Così ebbi un ruolo non indifferente nella struttura finale del programma, e Jay vuole che ne abbia uno altrettanto importante nella realizzazione del film. Quando l'ho saputo, ho pensato: "Fantastico, ecco la persona ideale con cui lavorare". Naturalmente dico questo all'inizio di un processo che durerà due anni e chissà cos'accadrà in questo lasso di tempo… Posso solo dire che adesso le cose promettono molto bene, per cui mi sento ottimista e guardo al progetto con un senso di euforia.

O. Sono passati quasi vent'anni dal programma radiofonico, vero?

D.A. Sì, vent'anni quasi esatti. Saranno venti esatti il mese prossimo.

O. Che cos'è che continua a piacere nella Guida galattica per gli autostoppisti?

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D.A. Non lo so. So solo che lavorai come un matto a quel testo e gli dedicai un sacco di attenzioni e mi resi anche la vita difficile scrivendolo; d'altronde, se ci fosse stato un modo facile di fare qualcosa, io ne avrei trovato uno assai più difficile. Credo che il fatto che alla gente sia piaciuto tanto abbia qualche correlazione con il fatto che ci abbia lavorato tanto. Forse è semplicistica, come teoria, ma in sostanza è questo che penso.

O. Il film sarà tratto solo dal primo romanzo?

D.A. Sì. È curioso, perché, guardando nel Web, ho visto che la gente diceva: "Sarà la trasposizione cinematografica di tutti e cinque i libri". La gente non capisce in che modo un'opera letteraria venga adattata per il cinema. Qualcuno ha detto, credo a ragione, che la migliore fonte d'ispirazione per un film non è il romanzo, ma il racconto. E questo significa che, certo, il film sarà tratto solo dal primo libro. Ciò premesso, devo ammettere che ogniqualvolta mi siedo a scrivere una nuova versione della Guida, questa versione contraddice in pieno tutte quelle precedenti. Perciò posso soltanto assicurare che il film contraddirà solo il primo romanzo e non gli altri.

O. Qual è la versione della Guida che più l'ha convinta

D.A. Non certo quella televisiva. Secondo l'umore, preferisco la versione radiofonica o il romanzo, che sono le due rimanenti. Scegliere tra queste non è facile, perché nutro per esse sentimenti diversi. La serie radiofonica fu all'origine di tutto: fu lì che la storia si sviluppò e la pianta mise foglie. Inoltre, all'epoca, avevo l'impressione che io e gli altri che lavoravano alla trasmissione - il produttore, i tecnici del suono, gli attori ecc. - stessimo creando qualcosa di realmente nuovo. Oddio, per la verità sembravamo matti da legare. Ricordo che una volta rimasi seduto nello studio sotterraneo ad ascoltare per ore di fila il suono di una balena che precipitava al suolo alla velocità di cinquecento chilometri all'ora, solo per trovare il modo di calibrarlo meglio. Dopo ore e giorni di questo delirio cominci a dubitare della tua salute mentale. Chiaro che non sapevamo nemmeno se qualcuno avrebbe ascoltato la trasmissione, però avevamo la netta sensazione di essere dei pionieri. Ed era una bella sensazione, che ci dava una grande carica. Il bello dei romanzi, invece, è stato averli firmati. Per qualsiasi scrittore, il maggior fascino del libro sta proprio in quella firma. C'è solo l'autore: nessun altro è coinvolto nell'operazione. Naturalmente nel mio caso questo non è del tutto vero, perché il romanzo era ispirato alla serie radiofonica e alla serie radiofonica avevano collaborato varie persone, ma chi scrive un libro ha comunque sempre la sensazione della "farina del suo sacco". Tra l'altro sono contento del modo in cui è scritto; mi pare che scorra bene. Leggendolo si può avere l'impressione che sia stato facile scriverlo, invece è stato difficilissimo.

o. Si stanca mai della Guida galattica per gli autostoppisti?

D.A. C'è stato un periodo in cui mi dava una vera e propria nausea: non volevo più sentirne parlare e zittivo con un urlo chiunque la nominasse. Da allora però ho fatto tante altre cose. Ho scritto i libri di Dirk Gently e, dieci anni fa, ho vissuto

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l'esperienza più interessante della mia vita: sono andato in giro per il mondo con un amico zoologo per cercare specie rare e a rischio di estinzione, e ho scritto sull'argomento L'ultima occasione, un saggio che considero il mio miglior libro. Adesso per me la Guida galattica è una cosa del passato a cui sono profondamente affezionato: è stata fantastica, è stata splendida e ha fatto la mia fortuna. Qualche tempo fa, parlando con Pete Townshend degli Who, ho detto a un certo punto: «Mio Dio, spero di non essere ricordato come l'autore della Guida galattica per gli autostoppisti». E lui, sgridandomi, ha replicato: «Senti, io ho avuto lo stesso problema con Tommy, e per un po' l'ho pensata come te. Ma bisogna capire che quando ti capita una cosa del genere nella vita, questa cosa ti apre un sacco di porte e ti permette di fare un sacco di altre cose. La gente ricorda quella particolare cosa. E noi dovremmo essere grati». Credo avesse perfettamente ragione.

O. Ha accantonato il personaggio di Dirk Gently?

D.A. Avevo iniziato a scrivere un altro romanzo di Dirk Gently, poi però ho lasciato perdere. Per qualche motivo non riuscivo a procedere con la storia e così ho dovuto abbandonarla. Non sapevo che cosa fare del materiale, ma quando l'ho riletto un anno dopo, d'un tratto ho pensato: "Il motivo per cui non funziona è che le idee non si sposano con il personaggio. Ho cercato delle idee sbagliate, che sarebbero state molto più adatte a un romanzo della Guida. Però al momento non ho voglia di scrivere un altro romanzo della Guida". E così ho lasciato tutto lì. Chissà, forse un giorno scriverò un altro romanzo della Guida, perché ho già parecchio materiale adatto. Tornando al mio detective, quindi, sì, l'ho accantonato. Due o tre mesi fa gli studenti di Oxford hanno messo in scena L'investigatore olistico Dirk Gently e sono andato a vedere lo spettacolo. L'intreccio è terribilmente ingarbugliato e il garbuglio serve in parte a mascherare il fatto che la trama non funziona… È stato divertente guardarlo a teatro, perché sono tornato a riflettervi sopra. "La messa in scena è buona," mi sono detto "ma i ragazzi avrebbero dovuto fare questo e quest'altro." E il bello è che mentre mi si rimetteva in moto il meccanismo mentale da cui era scaturito il romanzo e me ne stavo lì seduto a criticare ogni particolare della rappresentazione, il pubblico, con mio sbalordimento, rideva e si divertiva. Una situazione alquanto bizzarra. E d'un tratto ho pensato: "Mi piacerebbe molto che fosse adattato per il grande schermo, perché, vedendolo in questo contesto teatrale, con la gente che ride, mi rendo conto del film che potrebbe venirne fuori e credo che sarebbe un successo". Così forse, quando con il film tratto dalla Guida sarò così a buon punto da poter rivolgere l'attenzione ad altre cose, penserò a un film tratto da Dirk Gently. Ora che si sta lavorando concretamente al progetto cinematografico della Guida, spero mi si apriranno altre porte in questo settore. Mi piacerebbe molto girare film, ma lo dico in tutta innocenza, come uno che non ne ha girati mai.

Intervista condotta da Keith Phipps, 1998

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14 aprile 1999

David Vogel Walt Disney Pictures

Caro David, ho cercato inutilmente di raggiungerti un paio dì volte per telefono. Avrei voluto

avere l'opportunità di spiegarti perché ti chiamavo: mi trovavo negli Stati Uniti per alcuni giorni e pensavo sarebbe stato forse utile che venissi a Los Angeles e che ci vedessimo. Non ho ricevuto notizie di sorta da te, per cui ora sono a bordo dell'aereo che mi riporta in Inghilterra e sto digitando al computer questa lettera.

Sembra che, a questo punto, siano più i problemi delle opportunità. Non so se è giusto o errato vederla in questo modo, ma posso basarmi solo sul silenzio, che è sempre una scarsissima fonte di informazioni.

Se non vogliamo cadere nei classici stereotipi - tu in quello del dirigente di studio che ha un milione di problemi concreti da gestire e io in quello dello scrittore che vuole solo vedere realizzata la propria idea e se ne frega di costi e conseguenze - credo ci convenga riconoscere che abbiamo tutti e due lo stesso obiettivo: fare un film il più possibile di successo. Il fatto che abbiamo opinioni diverse sul modo di raggiungere l'obiettivo dovrebbe essere una fertile fonte di discussione e di problem solving iterativo. Non penso che un traffico a senso unico di mie "note", cui corrispondono lunghi, terribili silenzi tuoi, sia un buon sostituto delle fertili discussioni.

Tu sai molto bene come creare e far prosperare major, lo so molto bene come creare e far prosperare la Guida galattica per gli autostoppisti in tutti i media tranne che il cinema. Senza dubbio a te dispiace che io non sembri capire l'entità dei problemi di cui ti devi occupare, così come a me dispiace non avere ancora avuto un dialogo creativamente proficuo con la Disney in merito al progetto. Avanzo una proposta: perché non ci vediamo e non facciamo due chiacchiere?

Potrei venire a Los Angeles lunedì prossimo (19 aprile) o all'inizio della settimana seguente. Pregherei la Disney di sostenere le spese del viaggio extra. Qui di seguito troverai un elenco di numeri telefonici ai quali mi potrai reperire. Se riuscirai a non comunicare con me, saprò che avrai fatto ogni sforzo per non farlo.

Cordiali saluti Douglas Adams

Email [email protected] Assistente (Sophie Astin) (posta vocale): 555 171 555 1700 (tra le 10 e le 18,30, ora legale britannica) Fax ufficio: 555 171 555 1701 Casa (no posta vocale): 555 171 555 3632 Fax casa: 555 171 555 5601 cellulare in Inghilterra (e posta vocale): 555 410 555 098 cellulare negli Usa (e posta vocale): (310) 555 555 6769 Seconda casa (Francia): 555 4 90 72 39 23

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Jane Belson (moglie) (ufficio): 555 171 555 4715 Agente cinematografico (Usa) Bob Bookman:

(310)555 4545 Agente letterario (GB) Ed Victor (ufficio): 555 171 555 4100

(ore ufficio Gran Bretagna) Agente letterario (GB) Ed Victor (ufficio): 555 171 555 4112 Agente letterario (GB) Ed Victor (casa): 555 171 555 3030 Produttore, Roger Birnbaum: (818) 555 2637 Regista, Jay Roach (Everyman Pictures): (323) 555 3585 Jay Roach (casa): (310) 555 5903 Jay Roach (cellulare): (310) 555 0279 Shauna Robertson (Everyman Pictures): (323) 555 3585 Shauna Robertson, casa: (310) 555 7352 Shauna Robertson, cellulare: (310) 555 8357 Robbie Stamp, produttore esecutivo (GB) (ufficio): 555 171 555 1707 Robbie Stamp, produttore esecutivo (GB) (casa): 555 181 555 1672 Robbie Stamp, produttore esecutivo (CB) (cellulare): 555 7885 55 8397 Janet Thrift (mamma) (GB): 555 19555 62527 Jane Gamier (sorella) (CB) (ufficio): 555 1300 555 684 Jane Gamier (sorella) (GB) (casa): 555 1305 555 034 Jakki Kelloway (tata di mia figlia) (GB): 555 171 555 5602 Angus Deayton & Lise Meyer (vicini di casa a cui si possono lasciare messaggi) (CB)

(ufficio): 555(145)555 0464 (casa): 555 (171) 555 0855

Ristoranti in cui è più probabile trovarmi: The Ivy (GB): 555 171 555 4751 The Groucho Club (GB): 555 171 555 4685 Granita (CB): 555 171 555 3222

Sainsbury's (supermarket dove faccio la spesa e dove mi possono chiamare all'altoparlante):

555 171 555 1789 website forum www.douglasadams.com/forum

[Nota del curatore: La lettera ebbe l'effetto desiderato. David Vogel rispose e seguì un incontro proficuo che sbloccò il film.]

Sicuro, sicurissimo, perfettamente sicuro

Un grande apparecchio volante sfrecciò sullo specchio d'un mare di straordinaria bellezza. Da metà mattina in poi viaggiò avanti e indietro descrivendo archi sempre più ampi, finché attrasse l'attenzione degli isolani, gente pacifica ghiotta di crostacei. Gli indigeni si radunarono sulla spiaggia e, con gli occhi socchiusi per il sole accecante, guardarono il cielo cercando di capire cosa fosse quell'affare lassù.

Qualsiasi persona istruita e informata fosse capitata da quelle parti, osservando

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alcuni particolari avrebbe forse notato che l'apparecchio somigliava molto a un casellario: un grande casellario che qualcuno aveva forzato e che, volando, giaceva riverso con i cassetti per aria.

Gli isolani, forniti di un diverso tipo d'istruzione, constatarono invece che l'aggeggio somigliava pochissimo a un'aragosta.

Parlando concitatamente, rilevarono la totale assenza di chele, il dorso rigido privo di curve e l'evidente difficoltà ad ancorarsi al terreno, una caratteristica, questa, che parve loro assai curiosa. Per un pezzo saltellarono sul suolo della loro isola per far vedere a quello stupido congegno che tenere í piedi in terra era la cosa più facile del mondo.

Ma presto finirono per trovare noioso il diversivo. In fondo, poiché era chiarissimo che l'oggetto non era un'aragosta e poiché il loro mondo era benedetto da un'abbondante messe di aragoste (cinque o sei delle quali - visione celestiale - marciavano in quel momento dalla battigia verso di loro), non vedevano motivo di perdere altro tempo a guardare e decisero di concedersi subito un bel pranzo a base di aragoste.

Proprio in quella l'apparecchio si fermò di colpo a mezz'aria, poi si raddrizzò e si lanciò a capofitto nell'oceano, provocando una tale esplosione di spruzzi, che gli isolani corsero urlando a nascondersi tra gli alberi.

Quando, pochi minuti dopo, lasciarono con cautela il loro nascondiglio, essi videro solo quieti cerchi concentrici sull'acqua e qualche bolla di risucchio.

"È strano" si dissero mangiando le migliori aragoste di tutta la Galassia occidentale: era la seconda volta che un fenomeno simile capitava nel giro di un anno.

L'apparecchio che non era un'aragosta scese subito alla profondità di sessanta metri e si fermò in un cupo ambiente azzurro sospeso tra vaste masse d'acqua fluttuanti. In alto, dove il mare era cristallino, guizzò un luccicante banco di pesci. In basso, dove la luce faticava ad arrivare, il colore sfumava in un blu fosco e inquietante.

Alla profondità di sessanta metri il sole filtrava poco. Un grande mammifero acquatico dalla pelle serica passò pigro accanto all'oggetto, lo ispezionò con tiepido interesse, come si fosse aspettato di trovare lì qualcosa del genere, poi si diresse in su, verso le strie di luce.

L'apparecchio rimase immobile uno o due minuti per registrare dati, quindi scese di altri trenta metri. A quel punto il buio si fece ancor più fitto. Dopo pochi secondi le luci interne si spensero e prima che si accendessero quelle esterne, l'unico, debole bagliore visibile giunse per un istante da una targhetta rosa fluorescente su cui era scritto: Azienda Beeblebrox di recupero materiali e reperti impossibili.

I potenti raggi dei fari, rivolti in basso, illuminarono un grande banco di tarponi che fuggì via in agghiacciato silenzio.

Nella buia sala di controllo che occupava l'intero arco della prua smussata, quattro teste erano radunate davanti allo schermo del computer che analizzava i deboli segnali discontinui provenienti dagli abissi sottostanti.

«Eccolo» disse infine il proprietario di una delle teste. «Possiamo affermarlo con sicurezza?» chiese il proprietario di un'altra testa. «È matematicamente sicuro» replicò il proprietario della prima testa.

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«È matematicamente sicuro che la nave naufragata sul fondo di questo oceano sia proprio la nave che voi vi eravate detti matematicamente sicuri che non potesse matematicamente naufragare?» domandò il proprietario delle due teste rimanenti, aggiungendo, con un gesto conciliante delle mani: «Beninteso, è una domanda innocente, la mia».

I due funzionari dell'Amministrazione Sicurezza e Protezione Civile gli lanciarono un'occhiata gelida, ma l'uomo con l'impari, o meglio il pari numero di teste non se ne accorse. Tornò di corsa al suo sedile di pilota, aprì un paio di birre, una per sé e l'altra sempre per sé, poggiò i piedi sulla console e, attraverso l'ultravetro della nave, disse: «Ciao, piccolo» a un pesce che passava.

«Signor Beeblebrox…» mormorò il funzionario più basso e meno rassicurante. «Sì?» fece Zaphod, sbattendo la lattina appena vuotata su alcuni degli strumenti

più sensibili. «Siete pronti all'immersione? Forza.» «Signor Beeblebrox, mettiamo bene in chiaro una cosa…» «Ma certo» convenne Zaphod. «Prima di tutto perché non mi dite che cosa c'è

realmente su quella nave?» «Glielo abbiamo già detto» rispose il funzionario. «Sottoprodotti.» «Sottoprodotti. Sottoprodotti di che?» «Di processi.» «Quali processi?» «Processi sicuri al cento per cento.» «Santa Zarquana Budella!» esclamarono in coro le due teste di Zaphod. «Così

sicuri che avete dovuto costruire una zarquta nave-fortezza per portarli al più vicino buco nero e scaricarceli dentro? Ma non ci sono finiti dentro, vero? Perché il pilota ha compiuto una deviazione per andare a pesca di aragoste, vero? Ah, è stato un vero ganzo, quell'uomo, ma insomma, ammettetelo, questa è pura buantropia, è pura ebelrenia, è pura schizo-aberro-anomalia, è… è… assoluta mancanza di vocaboli adatti!»

«Chiudi il becco!» gridò la testa destra alla sinistra. «Stiamo straorzando!» Zaphod strinse forte la rimanente lattina di birra per calmarsi. I due funzionari rimasero zitti. Sentivano di non poter aspirare a quel livello di

confabulazione. «Sentite, signori» riprese Zaphod dopo un attimo di quieta riflessione «voglio solo

sapere in che razza di pasticcio mi state ficcando.» Puntò l'indice contro i segnali intermittenti che scorrevano sullo schermo del

computer. Non gli dicevano assolutamente nulla, ma non gli piaceva il loro aspetto. Erano pieni di strani svolazzi e numerazzi e altre brutte cose.

«Sta per disintegrarsi, vero?» gridò. «Ha la stiva zeppa di barre d'aoristo che emanano radiazioni ipsilon o schifezze del genere capaci di abbrustolire questo settore dello spazio per zilioni di anni. E sta per disintegrarsi, eh? È a questo che stiamo andando incontro? Uscirò da quel relitto di nave naufragata con ancora più teste?»

«Non può essere naufragata, signor Beeblebrox» replicò il funzionario. «La nave è sicura al cento per cento, glielo garantisco. Non può disintegrarsi, nel modo più assoluto.»

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«Allora come mai siete così ansiosi di darle un'occhiata?» «Ci piace dare un'occhiata alle cose perfettamente sicure.» «Aaargh-uuurgh-buuurp!» «Signor Beeblebrox» fece paziente uno dei funzionari «posso ricordarle che ha un

lavoro da fare?» «Ah, sì. Be', ho l'impressione che all'improvviso mi sia passata la voglia di farlo.

Cosa mi credete, del tutto privo d'ogni cacchio di coso morale, di… come si chiamano quelle cose morali?»

«Scrupoli?» «Bravo, scrupoli. Eh, mi credete privo di qualsiasi scrupolo morale?» I due funzionari attesero con calma, tossicchiando per ingannare il tempo. Zaphod emise uno di quei sospiri che significano "come andremo a finire" e che

avevano lo scopo di assolverlo da tutte le colpe, poi, nel suo sedile di pilota, si girò verso lo schermo.

«Nave!» chiamò. «Seee» disse la nave. «Fa' quel che faccio io.» La nave rifletté per qualche millisecondo sulla cosa e, dopo aver controllato due

volte tutte le guarnizioni per servizio pesante, nel fioco bagliore delle sue luci cominciò a scendere piano e inesorabilmente verso i più cupi abissi marini.

Centocinquanta metri. Trecento. Seicento. Laggiù, a una pressione di quasi settanta atmosfere, nelle gelide profondità

inaccessibili alla luce, la natura coltiva le sue fantasie più folli. Incubi lunghi mezzo metro mostrarono le loro orride sembianze nel bagliore dei fari, e dopo un lungo sbadiglio si reimmersero nella fitta oscurità.

Settecentocinquanta metri. Colpevoli segreti con occhi innestati su peduncoli guizzarono accanto ai vaghi

contorni delle luci della nave. A poco a poco sugli schermi del computer comparve sempre più chiara la

topografia del fondo oceanico, finché a un certo punto si riuscì a individuare una forma ben distinta da tutto il resto. Simile a un'enorme fortezza cilindrica inclinata su un fianco, a metà della sua estensione si allargava sensibilmente per accogliere il massiccio ultrafasciame che rivestiva le cruciali stive e che, a detta dei progettisti, avrebbe dovuto renderla la più sicura e inespugnabile di tutte le navi mai costruite. Prima del varo lo speciale rivestimento era stato sottoposto a un collaudo spietato: badilate, bastonate, esplosioni e tutti i colpi che i progettisti sapevano sopportabili e che gli avevano fatto assestare per dimostrare che li avrebbe sopportati.

Nella cabina il silenzio carico di tensione si caricò di ulteriore tensione quando diventò chiaro che era proprio quella sezione a essersi spaccata nettamente in due.

«Di fatto la nave è sicurissima» dichiarò uno dei funzionari. «E costruita in maniera che se anche si squarciasse, il carico della stiva non potrebbe assolutamente essere intaccato.»

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Millecentosessantaquattro metri. Quattro pressurmute intelligenti uscirono pian piano dal boccaporto aperto della

scialuppa di salvataggio e, rischiarate dal fascio luminoso delle sue luci, si diressero verso la mostruosa sagoma che spiccava cupa nella notte marina. Si muovevano con goffa grazia, come fossero prive di peso nonostante gravasse su di loro un intero mondo d'acqua.

Con la testa destra Zaphod scrutò la nera immensità sopra di sé e per un attimo la sua mente cacciò un muto urlo d'orrore. Buttò un'occhiata a sinistra e fu lieto di vedere che l'altra testa guardava tranquilla la partita di ultracricket brockiano in onda sul monitor del casco. Dietro di lui, alla sua sinistra, procedevano i due funzionari dell'Amministrazione Sicurezza e Protezione Civile; davanti a lui, alla sua destra, camminava la muta vuota, che trasportava gli strumenti e li guidava sondando il terreno.

Giunsero accanto all'enorme squarcio prodottosi nell'astronave, la Bunker Duretema, e illuminarono la voragine con le torce. Tra le paratie spesse una sessantina di centimetri e orribilmente accartocciate, si intravedevano macchinari a pezzi. Si era accasata lì una famiglia di grandi anguille trasparenti, che pareva gradire la nuova abitazione.

La muta vuota li precedette, esaminando tutta l'estensione dell'immensa carena scura della nave e cercando di aprire le camere stagne. La terza che provò si schiuse piano, a poco a poco. I tre si radunarono lì, aspettando lunghi minuti che i meccanismi di pompaggio se la vedessero con la spaventosa pressione esercitata dall'oceano e la sostituissero gradualmente con l'altrettanto spaventosa pressione dell'aria e dei gas inerti. Alla fine il portello interno si aprì ed entrarono nella buia stiva della Bunker Duretema.

Bisognò oltrepassare molte altre porte ermetiche Tiene-duro-sicuro, ognuna delle quali venne aperta dai funzionari con una serie di chiavi quarchiche. Si ritrovarono presto così all'interno dei forti campi di sicurezza, che la partita di ultracricket si vide sempre meno e Zaphod dovette cambiar canale e sintonizzarsi sui videoclip rock, le cui onde non conoscevano barriera di pianeta o dimensione.

Varcata l'ultima porta, emersero in un vasto ambiente dall'aria sepolcrale. Zaphod diresse la torcia verso la parete di fronte e illuminò in pieno una faccia che urlava con gli occhi sbarrati.

Cacciando un urlo poco meno agghiacciante, lasciò cadere la torcia e crollò sul pavimento, o meglio su un corpo che giaceva lì indisturbato da sei mesi e che reagì all'imprevisto urto esplodendo con grande violenza. Zaphod si chiese quale fosse la reazione più opportuna, e dopo una breve ma animata discussione interna decise che la soluzione migliore era senza dubbio svenire.

Quando rinvenne, pochi minuti dopo, finse di essersi dimenticato chi era, dov'era e come fosse finito lì, ma non convinse nessuno. Allora finse che la memoria gli fosse tornata così repentinamente da procurargli uno shock e farlo svenire di nuovo, ma la muta vuota (per la quale cominciava a nutrire viva antipatia) lo aiutò, contro la sua volontà, a tirarsi su e lo costrinse a venire a patti con la situazione.

L'ambiente, illuminato in maniera fioca e intermittente, era sgradevole sotto molti

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aspetti, il più cospicuo dei quali era rappresentato dalla pittoresca collocazione delle membra del defunto e compianto ufficiale di rotta, sparpagliate sul pavimento, le pareti, il soffitto e soprattutto la parte inferiore della muta di Zaphod. La scena era talmente orrida che non vi accenneremo più per il resto della storia: ci limiteremo qui a riferire che Zaphod vomitò dentro la sua muta, poi se la tolse e, dopo opportune modifiche al casco, la scambiò con quella vuota. Purtroppo, sentendo il disgustoso fetore che aleggiava per la nave e vedendo la sua ex muta girare tranquilla con ghirlande d'intestini putrefatti addosso, vomitò di nuovo nella muta appena indossata, provocando un problema con cui dovettero convivere sia lui sia la sua bardatura.

Be', ormai il peggio era passato. Ormai niente più orrori. Per lo meno, niente più orrori di quel tipo. Il proprietario della faccia urlante si era calmato un po' ed emetteva borborigmi

incoerenti dentro il grande serbatoio a sospensione di emergenza pieno di liquido giallo.

«Che cosa folle» balbettò. «Folle! Gli avevo detto che avremmo potuto benissimo pescare l'aragosta sulla strada del ritorno, ma lui non voleva sentir ragioni. Una vera ossessione, la sua! Vi fate mai prendere da una simile foia per le aragoste? Io no, mai. Hanno una carne gommosa e stopposa, e poi non sono nemmeno tanto saporite, vi pare? Preferisco di gran lunga le capesante, e gliel'avevo pure detto. Oh, se gliel'avevo detto, per Zarquon!

Zaphod contemplò quell'incredibile essere che, attaccato a innumerevoli cannule di sostentamento, agitava le braccia nella vasca borbottando parole che gli altoparlanti trasmettevano per tutta la nave, facendola rimbombare sinistramente di suoni minacciosi, simili a echi provenienti da lontani corridoi.

«È stato lì che ho sbagliato!» urlò l'uomo fuori di sé. «Ho detto che preferivo le capesante e lui ha replicato che le preferivo perché non avevo mai assaggiato le vere aragoste, le aragoste del paese da cui provenivano i suoi avi, che era proprio questo qui. E me l'avrebbe dimostrato quant'erano buone, ha detto: l'aragosta delle sue parti valeva un intero viaggio, figuriamoci se non valeva la piccola deviazione che bisognava fare nel nostro caso. La nave? Oh, quella la sapeva governare benissimo nell'atmosfera. Per Zarquon, che follia, che follia!» L'uomo si interruppe e roteò gli occhi come se il mondo gli avesse fatto rintoccare una campana nella mente. «La nave uscì dal controllo» riprese. «Che bufala, che buscherata, che castroneria! E solo per dimostrare che erano buone le aragoste, un crostaceo molto sopravvalutato! Scusate se continuo a parlare di aragoste, poi cercherò di smettere; ma sempre alle maledette ho pensato per tutto il mio soggiorno in questa vasca. Vi rendete conto di cosa significhi stare confinati in una nave con le stesse persone per mesi e mesi, essere costretti a mangiare schifezze e sentire per tutto il tempo uno dei compagni blaterare di aragoste? E vi rendete conto di cosa significhi poi galleggiare in una vasca per sei mesi pensando alle aragoste? Prometto che dopo non parlerò mai più di aragoste, anzi lo giuro. Aragoste, aragoste, aragoste, basta! Credo di essere l'unico sopravvissuto. Sono l'unico che è riuscito ad arrivare al serbatoio di emergenza prima che ci inabissassimo. Ho inviato l'SOS, poi c'è stato l'impatto. Che disastro, eh? Un vero disastro. E tutto perché quel cretino era ghiotto di aragoste. Vi sembrano sensati i miei discorsi? Faccio molta fatica a capire se lo sono.»

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Fissò i tre con aria supplichevole, mentre la sua mente pareva tomaie lentamente sulla terra ondeggiando come una foglia d'autunno. Poi batté le palpebre e gettò loro un'occhiata obliqua, come una scimmia che osservasse un insolito pesce. Con le dita raggrinzite dal liquido grattò la parete di vetro del serbatoio in un gesto strano. Dense bollicine gli uscivano dalla bocca e dal naso, si fermavano tra i capelli simili a stracci e procedevano in su.

«Oh, Zarquon, oh, cielo» mormorò pietosamente «sono stato trovato, sono stato salvato!»

«Sì» fece secco uno dei funzionari «è stato trovato, finalmente.» Si avvicinò al computer principale al centro della stanza e diede una rapida occhiata ai maggiori circuiti di controllo della nave per vedere i rapporti sui danni.

«Le camere delle barre di aoristo sono intatte» disse. «Cacchio di can che fugge!» ringhiò Zaphod. «Allora ci sono davvero delle barre

di aoristo a bordo!» Le barre di aoristo erano macchinari utilizzati da un'industria energetica ormai

fortunatamente obsoleta. Quando la caccia a nuove fonti di energia era divenuta spasmodica, un giovane brillante aveva compreso d'un tratto che uno dei luoghi in cui l'energia disponibile non era stata tutta consumata era… il passato. E, pieno di quell'entusiasmo che simili intuizioni tendono a suscitare, la sera stessa aveva inventato il metodo di produzione. Nel giro di un anno enormi tratti di passato erano stati prosciugati di tutta l'energia, finendo per dissolversi. Chi affermava che il tempo andato non doveva essere sfruttato a quel modo era stato accusato di crogiolarsi in un sentimentalismo rovinosamente costoso. Le epoche trascorse erano divenute una fonte energetica assai ricca, pulita ed economica: si poteva sempre creare qualche Riserva Naturale del Passato se qualcuno era disposto a pagarne la manutenzione, e quanto all'idea che prosciugare il passato impoverisse il presente, poteva anche essere vera in minima parte, ma gli effetti non erano quantificabili e non bisognava perdere il senso delle proporzioni.

Solo quando si comprese che il presente veniva davvero impoverito perché i bastardi egoisti, saccheggiatori e dissipatori del futuro procedevano allo stesso identico sfruttamento, ci si rese conto che ogni singola barra di aoristo e il terribile segreto della loro struttura andavano distrutti per sempre. Tutti proclamarono che bisognava eliminarli per il bene dei nonni e dei nipoti, ma naturalmente li eliminarono per amore dei nipoti dei nonni e dei nonni dei nipoti.

Il funzionario dell'Amministrazione Sicurezza e Protezione Civile scrollò le spalle, minimizzando.

«Sono sicurissime» dichiarò. Poi, buttando un'occhiata a Zaphod, di colpo aggiunse con insolita franchezza: «C'è di peggio, a bordo. O almeno» aggiunse battendo l'indice su un monitor «spero che sia a bordo».

«Cosa diavolo ti salta in testa di dire?» lo investì il collega. L'altro scrollò di nuovo le spalle. «Non ti preoccupare» replicò. «Può raccontare

quello che vuole: nessuno gli crederà mai. Ecco perché abbiamo deciso di usare lui invece di procedere in maniera ufficiale, no? Più assurda sarà la sua storia, più farà la figura dell'avventuriero hippy che s'è inventato tutto. Se anche riferisse questa stessa frase, apparirebbe un paranoico.» Sorrise amabile a Zaphod, che ribolliva di rabbia

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dentro la sua muta piena di vomito. «Può accompagnarci, se vuole» concluse.

«Vede?» fece il funzionario, esaminando le guarnizioni esterne di ultratitanio della stiva contenente le barre di aoristo. «Perfettamente sicure, perfettamente a posto.»

Disse Io stesso quando arrivarono alla stiva in cui erano immagazzinate spaventose armi chimiche, un solo cucchiaino delle quali bastava a infettare fatalmente un intero pianeta.

Disse lo stesso quando controllarono la stiva dei micidiali composti zeta-attivi, un solo cucchiaino dei quali poteva far saltare in aria un intero pianeta.

Disse lo stesso quando esaminarono la stiva dei terribili composti teta-attivi, un solo cucchiaino dei quali avrebbe riempito di radiazioni un intero pianeta.

«Sono contento di non essere un pianeta» mormorò Zaphod. «Se anche lo fosse non avrebbe nulla da temere» proclamò il funzionario

dell'Amministrazione Sicurezza e Protezione Civile. «í pianeti sono sicurissimi. A meno che…» S'interruppe di colpo. Si stavano avvicinando alla stiva più vicina al punto in cui la poppa della Bunker Dureterna era squarciata. Il corridoio, lì, appariva contorto e deformato, e il pavimento era pieno di macchie umide e appiccicose.

«Ehm ehm» disse. «Ehm ehm e doppio ehm ehm.» «Che cosa c'è in questa stiva?» domandò Zaphod. «Sottoprodotti» fu la risposta, seguita da silenzio. «Sottoprodotti… di che?» mormorò Zaphod. I due funzionari rimasero zitti. Esaminarono con cura la porta della stiva e videro

che le guarnizioni erano state divelte dalle stesse forze che avevano deformato l'intero corridoio. Uno di loro toccò piano la porta, che si aprì al suo tocco. Dentro era buio: si scorgevano solo due fioche luci gialle abbastanza all'interno.

«Di che?» sibilò Zaphod. Il primo funzionario si girò verso il secondo. «C'è una capsula di salvataggio che l'equipaggio avrebbe dovuto usare per

abbandonare la nave prima del tuffo nel buco nero» disse. «Credo sia bene verificare se c'è ancora.» Il collega annuì e se ne andò senza proferir verbo.

Il primo funzionario fece segno a Zaphod di entrare. Le grandi, fioche luci gialle brillavano a circa sei metri da loro.

«Il motivo per cui tutte le altre cose della nave sono, come ho detto, sicure, è che nessuno è abbastanza pazzo da usarle» osservò pacato. «Nessuno. Per lo meno, nessuna persona così pazza riuscirebbe mai ad avvicinarsi a esse. Qualunque individuo fosse così matto o pericoloso farebbe subito scattare un campanello d'allarme negli altri. La gente sarà pure stupida, ma non tanto stupida.»

«Sottoprodotti» sibilò di nuovo Zaphod (era costretto a sibilare per non far sentire il tremito della voce). «Sottoprodotti di che?»

«Ehm, degli Stilisti.» «Dei che?» «La Sirius Cybernetic Corporation ricevette enormi finanziamenti per progettare e

produrre personalità sintetiche da vendere su ordinazione. I risultati furono uniformemente disastrosi. Tutte le "persone" e le "personalità" consistevano in un miscuglio di caratteristiche che non potevano proprio coesistere nelle forme di vita

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presenti in natura. Per lo più i sintetici erano solo Poveri, patetici disadattati, ma alcuni erano molto, molto pericolosi. Pericolosi perché non facevano scattare il campanello d'allarme negli altri. Attraversavano le situazioni come gli spettri attraversano i muri, perché nessuno individuava il pericolo.

"I più pericolosi di tutti risultarono tre soggetti identici, che furono messi in questa stiva perché saltassero in aria con la nave fuori di questo universo. Non sono cattivi, anzi sono tipi piuttosto simpatici e alla mano. Ma sono le creature più pericolose che siano mai vissute, perché non c'è niente che non facciano di quanto è loro permesso di fare e non c'è niente che non venga loro permesso di fare…"

Zaphod guardò le fioche luci gialle, le due fioche luci gialle. Quando i suoi occhi si furono abituati al bagliore, vide che le due luci illuminavano una terza area, dove c'era qualcosa di rotto. Macchie umide e appiccicose luccicavano qui e là sul pavimento.

Zaphod e il funzionario s'incamminarono con cautela verso le luci. In quella, quattro parole crepitarono forte nell'auricolare dei loro caschi.

«La capsula è scomparsa» comunicò in cuffia l'altro funzionario. «Rintracciala!» ringhiò quello che stava con Zaphod. «Scopri dove si è diretta.

Dobbiamo assolutamente sapere dov'è andata!» Zaphod si avvicinò a una grande porta di vetro smerigliato. Di là da essa si vedeva

un serbatoio pieno di denso liquido giallo nel quale galleggiava un uomo dall'aria amabile. Un uomo con il volto solcato da piacevoli rughe d'espressione, che pareva fluttuare felice e sorridere fra sé.

Un altro conciso messaggio giunse d'un tratto negli auricolari. Il secondo funzionario aveva identificato il pianeta verso il quale la capsula di salvataggio era diretta: si trovava nel Settore galattico ZZ9 Plurale Z Alfa.

L'uomo cordiale che galleggiava nel serbatoio pareva borbottare piano fra sé, come già aveva fatto il copilota nella sua vasca. Bollicine gialle gli imperlavano le labbra. Zaphod trovò un piccolo altoparlante vicino al serbatoio e lo accese. Sentì l'uomo mormorare di una città scintillante che sorgeva su una collina.

E sentì il funzionario della Protezione Civile ordinare che il pianeta dello ZZ9 Plurale Z Alfa fosse reso "perfettamente sicuro".

Da The Utterly Utterly Merry Comic Relief Christmas Book 1986

Da un'intervista di Matt Newsome

D.N.A. Dopo avere iniziato un nuovo romanzo di Dirk Gently, mi sono accorto di avere perso i contatti con il personaggio e di non riuscire a portare avanti la storia, così mi sono detto: "Pazienza, lasciamo perdere e facciamo qualcos'altro". Un anno dopo ho riguardato il materiale del Salmone del dubbio e d'un tratto mi sono reso conto di qual era l'errore: le idee erano molto più adatte alla Guida galattica che a Dirk Gently.

Forse quindi in futuro verrà il momento in cui scriverò un sesto libro della Guida.

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Vorrei scriverlo soprattutto per un motivo singolare: perché la gente ha detto, e non a torto, che Praticamente innocuo è un libro molto triste. È vero che è un libro triste e il motivo per cui lo è è molto semplice: stavo vivendo un anno pessimo per motivi personali di cui non intendo parlare, avevo appena vissuto un anno orribile e cercavo di scrivere un romanzo in quello stato d'animo. Strano, vero, che sia venuto fuori triste?

Vorrei che la saga della Guida finisse su una nota più allegra, sicché cinque è forse il numero sbagliato e sei è meglio. Un sacco di materiale che fa parte del Salmone del dubbio ed era stato concepito per il Salmone del dubbio, ma non funzionava nel contesto di Dirk Gently, potrebbe essere utilizzato nel sesto libro della Guida con l'aggiunta di nuove idee.

MN In effetti si è sentito dire da più parti che Il salmone del dubbio sarebbe diventato il nuovo romanzo della serie Guida galattica.

D.N.A. In un certo senso è vero, perché, con opportune modifiche, trasferirò nel contesto della Guida alcune idee che non hanno funzionato nel contesto di Dirk Gently. E, in ricordo del lavoro già fatto, potrei lasciare lo stesso titolo, Il salmone del dubbio. Potrei, dico. Chissà.

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Il salmone del dubbio

[Nota del curatore: La versione del Salmone del dubbio che qui presentiamo è stata messa insieme a partire da varie stesure di questo work in progress. Per la descrizione dettagliata di come si è proceduto, si prega di leggere la Nota del curatore all'inizio del volume. Al testo ho fatto precedere il fax che Douglas inviò a Londra alla sua editor di antica data, e nel quale abbozza l'intreccio del romanzo lasciandone intravedere lo sviluppo.]

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Fax A Sue Freestone Da Douglas Adams Re: Il salmone del dubbio

Dirk Gently, assunto da un cliente che non incontrerà mai per una missione che non verrà mai specificata, si mette a pedinare la gente a caso. Le sue indagini lo conducono a Los Angeles, dove entrerà nelle membrane nasali di un rinoceronte per uscire in un lontano futuro dominato da agenti immobiliari e canguri armati fino ai denti. Situazioni comiche, pesci cotti in bianco e proprietà emergenti dei sistemi complessi fanno da sfondo al caso più intricato e sconcertante che Dirk Gently si sia trovato ad affrontare.

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1

Ogni mattina, di buon'ora, Dave saliva sul colle isolato e deponeva piccole offerte nel santuario di San Clive, il santo patrono degli agenti immobiliari. Quella particolare mattina aveva portato un grosso aggeggio di plastica che pareva un incrocio tra un'aragosta e un aspiratore e che forse proveniva dall'impianto di pulizia di una piscina.

Depose con cura l'oggetto e indietreggiò di qualche passo per controllare che effetto faceva.

Il santuario era in realtà solo un mucchietto di pietre in mezzo alle quali erano state poste piccole cose riportate alla luce scavando: un telecomando per garage, un frammento (forse) di spremilimoni, un ranocchio Kermit fosforescente. Il mezzo metro di tubo di plastica rotto e scanalato che pareva un incrocio tra un'aragosta e un aspiratore faceva la sua figura e David lo sistemò sopra Kermit, in maniera che gli pendesse addosso come una proboscide d'elefante.

Faceva quelle passeggiate mattutine al santuario in parte perché le trovava piacevoli, in parte perché gli davano occasione di riflettere da solo sulle cose. All'inizio era salito lì al colle solo per gingillarsi, ma presto aveva finito per considerarlo un luogo importante, un'oasi di pace che gli permetteva di fuggire da tutto, meditare su tutto e magari anche preoccuparsi per tutto. Quando era preoccupato fischiettava vecchie canzoni dei Carpenters, finché l'ansia scompariva.

Adesso, però, non intendeva preoccuparsi, ma divertirsi. Si tolse dalle spalle il bagaglio che si era portato dietro e lo depose in terra.

Da lassù la vista era stupenda. Una foresta lussureggiante circondava da ogni parte Davelandia: una foresta straordinariamente ricca e varia, brulicante di vita e colori. La attraversava il sinuoso fiume Dave, che procedeva serpeggiando tra le colline finché, ottocento chilometri più in là, sfociava nell'immenso oceano, l'Oceano di Dave, o meglio, come lui l'aveva ribattezzato di recente in un attacco di modestia, l'Oceano di Karen. Aveva sempre pensato che "Pacifico" fosse un nome molto stupido. Ci aveva navigato sopra e non era affatto Pacifico. Così aveva ovviato al problema.

Anche Davelandia, adesso, aveva un'estensione mica da ridere. Sì, a pensarci bene, era bella grande. Dave si passò una mano tra i capelli flosci e la guardò soffocando una risata.

Davelandia copriva ben trentasei ettari di terreno collinare, e sulla vicina collina già si scorgevano nuovi affioramenti. Belle case. Molto più belle di tutte quelle che il suo immaginario San Give avrebbe potuto vendere o anche solo comprendere. Altro che quelle bruite merde su due livelli sfalsati, tipo ranch, che includevano saloni di conversazione in cui chiunque non fosse stato completamente decerebrato si sarebbe ucciso pur di non conversare. Le case di Dave erano di tutt'altro genere.

Per prima cosa erano molto intelligenti, Case semplici e ben orientate, con il vetro al posto giusto, la pietra al posto giusto, l'acqua al posto giusto, le piante al posto giusto, sicché l'aria vi entrava nel modo giusto ed era tiepida dove la si voleva tiepida

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e fresca dove la si voleva fresca. Erano case per costruire le quali si erano seguiti i principi della fisica. In genere invece gli architetti non sapevano nulla di fisica; sapevano solo cose stupide. Nelle case di Dave i prismi e le fibre indirizzavano la luce del sole là dove si desiderava andasse. Scambiatori di calore traevano calore dalle vivande in frigo per trasmetterlo alle vivande nel forno. Semplice. La gente entrava nelle case di Dave e diceva: «Oh, che bella! Come mai gli altri non comprano case così belle?». Risposta: perché sono stupidi.

E i telefoni? Dave aveva fornito ai suoi clienti i telefoni più intelligenti, eleganti, sfiziosi del mondo. Ora la gente voleva anche la televisione, che secondo Dave era sempre stata abbastanza stupida e nelle circostanze attuali era inconcepibilmente stupida; ma anche quel problema si era rivelato piuttosto interessante e lui, naturalmente, l'aveva risolto. Dave aveva ormai risolto così tanti problemi che, senza volere, ne aveva creato uno nuovo: poiché Davelandia era diventata una comunità di quasi mille persone, egli si sentiva in certo modo responsabile e quel senso di responsabilità lo aveva preso completamente in contropiede.

Afferrò un ciuffo di erba lunga e lo sradicò con rabbia. La luce dell'alba illuminava la Dimora di Dave. La Dimora di Dave era senza dubbio la più grande e bella di tutte le residenze del… mondo. Ornava la cima della collina che gli stava di fronte con i suoi ampi, eleganti muri di pietra bianchi alternati a pareti di vetro. Il tetto era strutturato a giardino giapponese, con ruscelli che scendevano a cascata dentro casa.

Poco sotto la Dimora di Dave, sullo stesso colle e nello stesso complesso residenziale blindato (gli pareva incredibile di dover avere dei complessi residenziali blindati; gli pareva incredibile che ormai quaranta quaranta! - degli oltre novecento abitanti di Davelandia fossero avvocati) c'era la Via della Narice.

La Via della Narice era forse la cosa più intelligente che Dave avesse concepito. La riteneva molto intelligente perfino lui, che di solito giudicava molto stupide tutte le cose che la maggior parte della gente giudicava molto intelligenti. La Via della Narice era il motivo per cui esisteva tutto ciò che esisteva lì ed era diventata l'unica cosa (eccetto forse gli avvocati) che lo inducesse a fischiettare le vecchie melodie dei Carpenters.

Il sole ora splendeva vivido su tutta Davelandia. Dave doveva ammettere che il panorama era splendido, ma non aveva difficoltà ad ammettere di averlo amato anche quando era solo uno strano, stupido posto dove andava soltanto lui perché soltanto lui era abbastanza intelligente da andarci. Una cosa aveva tirato l'altra e alla fine si era sviluppato quel complesso residenziale. E lui ora, a soli venticinque anni, già cominciava a sentirsi come se ne avesse quasi trenta.

Bah, e che cazzo gliene fregava? Adesso voleva pensare solo a divertirsi. Raccolse da terra il grosso pacco avvolto nella tela. Gli avvocati avrebbero dato fuori di matto. Se lo rimise in spalla. Sam avrebbe avuto un attacco isterico. Magnifico. Si girò e si arrampicò più su. La collina era chiamata Cima del Mondo, dal titolo di una delle canzoni dei Carpenters. Uno dei vantaggi maggiori dell'avere un proprio mondo consisteva nel poter continuare ad amarvi i Carpenters.

Più in alto il colle si faceva più aspro e roccioso e, per arrivare dove voleva, Dave dovette in certi punti arrampicarsi con le mani e con i piedi.

Dopo una ventina di minuti gli venne un caldo tremendo e cominciò a sudare, ma

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ormai era in vetta, o meglio nell'ultimo tratto piano, costituito da una solida lastra di pietra scanalata su cui si sedette e depose il pacco. Riprese fiato, poi tolse l'involucro e tirò fuori i montanti di alluminio, le corde arancione e i foglietti viola di kevlar.

Dopo una decina di minuti di montaggio, l'oggetto era pronto: un grande marchingegno che sembrava un insetto con le ali di garza. I foglietti di kevlar posti tra i montanti erano minuscoli e avevano una forma strana. Dav e aveva calcolato che gran parte della tela utilizzata dai deltaplani tradizionali fosse superflua e quindi l'aveva eliminata.

Esaminò con cura l'apparecchio e fu contento di vedere che tutto era esattamente al suo posto, che l'insieme era Degno di Dave.

Per una frazione di secondo si guardò intorno con aria nervosa. Intendeva volare comunque, per cui non aveva senso essere nervosi. Così, sollevandolo con delicatezza, portò il deltaplano fino all'orlo del burrone, su una cornice da cui si vedeva l'intera estensione di Davelandia. Notò con soddisfazione che, pur sembrando solo uno stenditoio per bikini di seta, l'apparecchio era molto rigido e dovette faticare per spostarlo.

Da lì alla Dimora di Dave c'erano un chilometro e mezzo in linea orizzontale e una sessantina di metri in linea verticale. Vedeva scintillare al sole la grande piscina azzurra, che spiccava all'interno del giardino giapponese in cima al Colle di Dave. La distanza e la direzione dei raggi del sole impedivano di scorgere bene i dettagli, ma era sicuro che Sam lo stesse aspettando accanto alla piscina e calcolò di lasciarsi cadere proprio al suo centro. Guardò l'orologio: erano passate da poco le otto e l'appuntamento era per le otto. Senza dubbio Sam era già lì.

Sam riteneva quasi tutti i piani e i progetti di Dave assurdi, sconsiderati e folli, ma alcuni li giudicava soltanto stupidi. Lasciarsi cadere dall'alto nella piscina era un atto un po' meno stupido degli atti che compiono di solito gli stupidi. Quanto sarebbe stato difficile compierlo per uno come Dave?

Dave controllò la direzione del vento, mise la leggera imbragatura, la chiuse, la agganciò al deltaplano, infilò le mani nelle due staffe, strinse i montanti principali e fu pronto.

Non restava che gettarsi nel vuoto. Wow! Perfetto. Bando agli stupidi nervosismi. Forza, un bel salto! A cuor leggero, Dave si buttò nel vuoto e fu subito sostenuto

dall'aria, sia pur con qualche piccola, brusca oscillazione. Tenendosi forte alla struttura, cercò di rilassarsi un minimo, si rilassò un altro poco e si sforzò di trovare un buon equilibrio tra rilassamento e vigilanza. Lo trovò. Ora veleggiava nell'aria. Volava come un uccello.

Che fantastica sensazione. Il vuoto scioccava, ma era uno shock salutare, come tuffarsi di primo mattino nell'acqua fredda della piscina. E poi non era vero vuoto: era come cadere su immensi cuscini invisibili da cui uscissero dita che ti tiravano, strattonavano, scompigliavano i capelli e strapazzavano la T-shirt. Quando riuscì mentalmente ad abituarsi allo spazio infinito che lo circondava, si sentì un giocattolo appeso a una gigantesca massa che vorticava piano sopra Davelandia. Veleggiò verso destra descrivendo un fluido arco, poi spostò leggermente il corpo a sinistra e descrisse un arco più piccolo all'interno dell'altro, come una ruota dentro una ruota. Il

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mondo, il suo mondo, si muoveva lento sotto di lui, verde, vivido, ricco e lussureggiante.

Erano passati un miliardo e duecento milioni di anni da quando il genere umano si era di colpo estinto e il mondo aveva avuto tutto il tempo di riprendersi. Certo, in termini geologici non era che un breve attimo, ma d'un tratto le forze dell'evoluzione si erano trovate di fronte tonnellate di spazio in cui agire e immensi abissi da colmare; e tutto aveva cominciato a prosperare a un ritmo incredibile. Un tempo tutti parlavano di salvare il mondo; ebbene, Dave l'aveva fatto. Adesso il mondo era stupendo, fantastico. Davelandia, certo.

Ora stava veleggiando liscio come l'olio, perché invece di opporre resistenza assecondava il flusso. Cominciava a pensare che lasciarsi cadere sopra la piscina di casa fosse un po' più difficile del previsto, ma gli piaceva che le cose fossero così, un po' più difficili del previsto.

Forse, si disse, sarebbe stato molto più difficile del previsto. Un conto era volare placidi seguendo le correnti e scendendo a poco a poco, un altro eseguire manovre precise. Quando tentò di compiere una virata secca, la delicata massa dell'aria intorno a lui lo sbatacchiò e strapazzò in maniera molto inquietante.

2

«Non tratto i gatti» disse Dirk Gently. Era stato brusco, ma d'altra parte sentiva di essere salito nella scala sociale. Non

aveva prove che suffragassero la sensazione, ma era ormai sicuro di poter mostrare a quel punto della vita una certa supponenza. Inoltre non aveva digerito; però questo non c'entrava.

In piedi di fronte a lui, la donna (come si chiamava? Melinda nonsoché, se lo era appuntato su un foglietto, ma chissà dove aveva messo il foglietto, forse sotto la pila di lettere della banca che non aveva mai aperto e che stavano nell'angolo più lontano della scrivania) alzò indignata un sopracciglio.

«La pubblicità diceva che…» «La pubblicità non è aggiornata» ringhiò Dirk. «Non tratto i gatti.» La invitò con

un cenno ad andarsene e si chinò sulle sue scartoffie fingendo di dover lavorare. «Allora che cosa tratta?» domandò lei. Dirk alzò gli occhi seccato. Aveva preso in antipatia quella donna come l'aveva

vista entrare nell'ufficio. Non solo lo aveva colto alla sprovvista, ma lo aveva anche infastidito con la sua bellezza. Non gli piacevano le belle donne: lo turbavano con la loro grazia, il loro fascino, la loro immensa leggiadria e il loro totale rifiuto di andare a cena con lui. Appena aveva visto entrare Melinda, aveva capito che non sarebbe andata a cena con lui neanche se fosse stato l'ultimo uomo sulla Terra e avesse avuto una Cadillac rosa decappottabile, per cui aveva optato per un attacco preventivo. Se non fosse andata a cena con lui, perlomeno non ci sarebbe andata perché lo aveva deciso lui.

«Non è affar suo» sibilò, mentre un doloroso borborigmo gli attanagliava la pancia. Melinda alzò l'altro sopracciglio.

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«L'ho forse colta in un brutto momento?» "Sì" pensò Dirk, ma non lo disse. Era uno dei mesi peggiori che ricordasse: gli

affari erano andati a rilento, ma "a rilento" era un eufemismo. Quello che già di norma era un rivoletto si era trasformato in un gocciolio, per poi seccarsi del tutto. Niente. Nessuno. Neanche l'ombra di un caso, a meno che non si includesse tra i casi la vecchia stramba che era entrata nel suo ufficio con un cane di cui non ricordava il nome. La vecchia aveva raccontato di avere ricevuto una piccola botta in testa e di avere dimenticato il nome dell'animale, sicché questo non accorreva quando lo chiamava. Poteva Dirk scoprire quale nome avesse? Di norma la donna lo avrebbe chiesto a suo marito, solo che poco tempo prima suo marito era morto facendo bunjee jumping, uno sport che alla sua età non avrebbe dovuto praticare, ma al quale aveva voluto dedicarsi il giorno del suo settantesimo compleanno, giorno in cui, aveva detto, voleva fare quel che gli pareva anche a costo di crepare; e naturalmente era crepato. Lei aveva tentato di comunicare con il defunto attraverso un medium, ma aveva ricevuto da lui un unico messaggio, e cioè che lo spiritismo era una gran cazzata, un fottuto imbroglio, e si era sentita in imbarazzo, perché erano parole molto sgarbate da dire davanti a un medium. E via discorrendo.

E a che cos'aveva portato tutta quella pappardella? Al fatto che Dirk aveva accettato il lavoro.

Naturalmente non raccontò niente di tutto ciò a Melinda. Si limitò a scoccarle un'occhiata gelida e a dire: «Questa è un'agenzia investigativa rispettabile. Io…».

«Rispettabile o rispettata?» fece lei. «Che cosa intende dire?» Di solito Dirk era molto più aspro nelle repliche, ma,

come la cliente stessa aveva intuito, per lui era un brutto momento. Dopo un weekend in cui si era affannato a identificare il cane, aveva passato una giornata durante la quale non era successo assolutamente nulla, se si escludeva una cosa che lo aveva messo di pessimo umore e lo aveva indotto a chiedersi se non stesse impazzendo.

«Intendo dire che la differenza è grande» rispose Melinda. «È la stessa differenza che c'è tra una cosa Presumibilmente gonfiabile e una cosa realmente gonfiabile, tra una cosa presumibilmente infrangibile e una cosa realmente infrangibile, che non si rompe neanche se viene sbattuta contro il muro.»

«Ma cosa dice?» fece Dirk. «Dico che per quanto la sua agenzia sia presumibilmente rispettabile, se fosse

realmente rispettata lei si potrebbe permettere un tappeto, qualche quadro alle pareti e magari anche una seconda sedia su cui far sedere i clienti.»

Dirk non sapeva che cosa ne fosse stato della seconda sedia del suo ufficio, ma non voleva ammettere di non saperlo.

«Lei non ha bisogno di una sedia» replicò. «È venuta qui solo per un malinteso e non abbiamo niente da dirci. Buona giornata, cara signora. Non intendo cercare il suo gatto smarrito.»

«Non ho detto che fosse un gatto smarrito.» «Eppure l'ho sentita distintamente affermare che…» «Ho detto che era un gatto in certo modo smarrito. È mezzo smarrito.» Dirk la guardò con aria vacua. Oltre a essere una donna bellissima del tipo biondo

flessuoso, era vestita con la finta nonchalance di quelle che dicono: «Oh, io metto

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qualunque vecchio straccio trovi in giro», ma stanno molto attente a lasciare in giro le cose giuste. Era senza dubbio molto intelligente e, anche se non dimostrava più di trentadue anni, aveva con tutta probabilità un ottimo lavoro, tipo direttore generale di una grande azienda tessile o delle telecomunicazioni. In altre parole, era proprio il tipo di persona che non smarriva i gatti e che, se li avesse smarriti, non sarebbe corsa in una misera agenzia investigativa. Dirk si sentì a disagio.

«La prego di fare discorsi sensati, perché il mio tempo è prezioso» disse brusco. «Ah sì? Quanto prezioso?» fece Melinda guardandosi intorno con aria sprezzante. Dirk doveva ammettere che l'ufficio era squallido, ma non aveva nessuna

intenzione di stare lì a farsi mettere sotto. Avere bisogno di lavorare, essere a corto di quattrini e non sapere come meglio impiegare il tempo non erano buoni motivi per obbedire agli ordini di tutte le belle donne che entravano nel suo ufficio offrendosi di pagare i suoi servigi. Si sentiva umiliato.

«Non mi riferivo al mio onorario, che, le assicuro, è molto, molto alto, ma soltanto al tempo che passa. Al tempo passato che non ripasserà.»

Si protese in avanti e le scoccò un'occhiata penetrante. «Il tempo è un'entità finita, sa? Tra soli quattro miliardi di anni il sole esploderà.

Lo so che adesso sembrano tanti, ma il tempo volerà se lo sprechiamo in ciarle e frivolezze.»

«Ciarle? Stiamo parlando del fatto che mi è scomparso metà gatto!» «Signora, non so perché stia usando la prima persona plurale, ma…» «Senta, quando avrà saputo tutti i particolari, potrà rifiutare di occuparsi del caso,

perché, devo ammetterlo, è piuttosto strano, ma ho preso appuntamento con lei dopo avere letto la sua pubblicità, che diceva che lei trova i gatti smarriti, e se lei mi manda via affermando di non trattare i gatti smarriti, le rammento che esiste la legge contro la descrizione falsa di beni e servizi. Non ricordo esattamente che cosa dica, ma scommetto cinque sterline che le vieta di farmi scherzetti del genere.»

Con un sospiro, Dirk prese una matita e un blocchetto di carta. «Va bene» disse. «Prenderò nota dei particolari.» «Grazie.» «E poi rifiuterò il caso.» «Sono affari suoi.» «Invece sto proprio cercando di farle capire che non sono miei. Come si chiama il

gatto?» «Raffiche.» «Raffiche?» «Sì. Abbreviazione di Raffiche di Vento.» Dirk la guardò. «Non le chiedo spiegazioni» disse. «Si pentirà di non avermele chieste.» «Lo lasci giudicare a me.» Melinda alzò le spalle. «Maschio o femmina?» chiese Dirk. «Maschio.» «Età?» «Quattro anni.»

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«Me lo può descrivere?» «Be', ecco, è un po' difficile.» «Perché difficile? Com'è, bianco, nero, rosso o soriano?» «Siamese.» «Bene» disse Dirk, scrivendo "siamese". «Quando l'ha visto l'ultima volta?» «Tre minuti fa.» Dirk posò la matita e la fissò. «No, forse quattro» si corresse lei. «Mi faccia capire» fece Dirk. «Afferma di avere smarrito il gatto Raffiche mentre

stava qui a parlare con me?» «No, l'ho smarrito, o mezzo smarrito, due settimane fa, ma lei mi ha chiesto

quando l'ho visto l'ultima volta e le rispondo che l'ho visto un attimo prima di entrare nel suo ufficio. Ho controllato se stesse bene e stava bene. Insomma, benino, se si può usare questo avverbio per descrivere la sua condizione.»

«E… dove si trovava per la precisione il gatto quando ha controllato se stava bene?»

«Nella sua cesta. La porto dentro? È qui fuori della porta.» Uscì dall'ufficio e tornò con una cesta di vimini di medie dimensioni. La depose

sulla scrivania di Dirk e, mentre il suo contenuto miagolava debolmente, andò a chiudere la porta.

Dirk aggrottò la fronte. «Scusi se sono un po' stupido» disse guardandola al di sopra della cesta. «Mi dica

se ho capito male qualche particolare. Lei mi sta chiedendo di usare le mie competenze professionali per cercare, possibilmente trovare e quindi restituire alla padrona un gatto…»

«Sì.» «… che porta tranquillamente con sé dentro una cesta per gatti?» «Ecco che siamo arrivati al punto.» «Quale punto?» «Guardi di persona.» Sfilò la barretta di metallo che teneva chiuso il coperchio, infilò una mano nella

cesta, tirò fuori il gatto e lo depose sulla scrivania. Dirk lo guardò. Raffiche guardò lui. C'è un profondo disprezzo nello sguardo dei gatti siamesi. Chiunque abbia avuto la

ventura di sorprendere la Regina mentre si lavava i denti, conoscerà quello sguardo. Raffiche guardò Dirk e senza dubbio lo trovò in qualche modo biasimevole. Si

voltò dall'altra parte, sbadigliò, si stirò, si lisciò un poco i baffi, si leccò un ciuffo di pelo arruffato, poi saltò agilmente a terra ed esaminò un frammento di asse del pavimento con l'aria di trovarlo molto più interessante di Dirk.

Dirk fissò ammutolito l'animale. Fino a un certo punto Raffiche era uguale a qualsiasi altro siamese; fino a un certo

punto. Il punto fino al quale sembrava un normale siamese era la sottile striscia grigio opaco della vita.

«La prima metà è perfettamente a posto» mormorò Melinda Nonsoché. «Il pelo è

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lucido e sano.» «E la seconda metà?» domandò Dirk. «Dove sia è proprio ciò che vorrei che lei scoprisse.» Dopo la striscia grigio opaco non c'era niente; il corpo del gatto si fermava a

mezz'aria e la parte al di sotto della nona costola (circa) mancava. Lo strano era che l'animale pareva del tutto indifferente alla propria condizione.

Non è che avesse imparato a sopportare quella sventura o vi si fosse in qualche modo adattato: no, era proprio indifferente, non sembrava accorgersene. Non contento di ignorare le fondamentali leggi della biologia, violava anche, chiaramente, le leggi della fisica. Camminava, saltava, passeggiava, si acciambellava nello stesso modo in cui l'avrebbe fatto se avesse ancora avuto la metà posteriore del corpo.

«La metà non è invisibile: non c'è proprio» disse Melinda. Raccolse goffamente Raffiche, passò una mano là dove avrebbe dovuto trovarsi il posteriore, e la mano fendette l'aria. Il gatto si girò, sgusciò dalle sue braccia miagolando irato, saltò agilmente a terra e camminò in su e in giù con aria offesa.

«Incredibile!» fece Dirk, appoggiando il mento sulle mani giunte. «Veramente incredibile.»

«Accetta di occuparsene?» «No» disse Dirk, allontanando il blocco di carta. «Mi spiace, ma non posso

occuparmi di casi del genere. Se c'è una cosa che mi interessa meno che trovare un gatto è trovare un mezzo gatto. Poniamo che fossi così sfortunato da trovarlo. E allora? Come farei a incollarlo all'altra metà? Mi spiace, ma ho chiuso con i gatti e ho chiuso con qualunque cosa puzzi di soprannaturale o paranormale. Sono un essere razionale e… mi scusi.» Il telefono stava squillando e Dirk rispose. Sospirò: era Thor, l'antico dio scandinavo del tuono. Capì subito che era lui dal lungo, funesto silenzio e dal cupo brontolio di irritazione seguito da lontane urla. Thor non capiva il funzionamento del telefono. Stava a tre metri di distanza dall'apparecchio e gridava ordini da dio a tutti. Curiosamente, questo rendeva ottimo il collegamento telefonico, ma pressoché impossibile la conversazione.

Thor si era messo a convivere con una ragazza americana che Dirk conosceva e Dirk capì dalle strane grida islandesi all'altro capo del filo che Thor gli stava chiedendo se si ricordava di aver promesso di andare da loro per il tè del pomeriggio.

Dirk rispose che sì, se ne ricordava, non vedeva l'ora di prendere il tè con loro e sarebbe arrivato verso le cinque, per cui si sarebbero visti di lì a poco; ma naturalmente Thor, stando a tre metri di distanza dal telefono, non sentì nulla e si arrabbiò e si mise a urlare a squarciagola.

Alla fine Dirk rinunciò a farsi capire e, titubante, riattaccò, augurandosi che Thor non mettesse a ferro e fuoco il piccolo appartamento di Kate. Kate aveva convinto il grande dio che, quando gli prendeva il fottone, era meglio fracassasse pacchetti di patatine che divani e motociclette, ma a volte, se Thor non capiva niente di quanto gli accadeva intorno, la situazione si faceva estremamente delicata.

Piuttosto giù di corda, Dirk alzò gli occhi. Ah, sì. «No» disse. «Se ne vada. Non posso più trattare casi del genere.» «Ma signor Gently, lei ha fama di risolvere proprio questo genere di casi.» «Ed è il motivo per cui non voglio più saperne. La prego quindi di uscire da questo

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ufficio con il suo felino biforcuto.» «Be', se la mette così…» Melinda prese la cesta del gatto e uscì senza fretta. Anche il mezzo gatto riuscì a

uscire bene di scena, senza fretta. Seduto alla scrivania, Dirk fremette per qualche minuto. Perché quel giorno era

così di cattivo umore? Dalla finestra vide l'affascinante, stupenda cliente che aveva cacciato in malo modo dall'ufficio per mera scontrosità. Gli parve particolarmente bella e sexy mentre attraversava di corsa la strada per salire sul classico taxi nero londinese.

Corse alla finestra, l'aprì e si sporse fuori. «Immagino non voglia uscire a cena con me, vero?» gridò.

3

«Temo che non vedrai Thor» disse Kate Schechter. «È uscito or ora di casa in preda a un attacco di angoscia nordica che gli è preso per non so cosa.»

Indicò con un gesto svogliato l'enorme squarcio frastagliato apertosi nella finestra che dava su Primrose Hill. «Forse è tornato allo zoo a guardare le renne. Si rifarà vivo tra qualche ora zeppo di birra e di rimorsi, reggendo un grande vetro che non si adatterà al telaio della finestra. Allora si incazzerà per questo e spaccherà qualcos'altro.»

«Ho paura che non ci siamo capiti bene al telefono» disse Dirk «ma non so proprio come evitare questi equivoci.»

«Non puoi evitarli» disse Kate. «Non è un dio felice. Questo non è il suo mondo e non lo sarà mai.»

«Allora tu che cosa pensi di fare?» «Oh, c'è un sacco di cose da fare. Riparare la roba rotta mi tiene occupata.» Non era a quello che Dirk intendeva riferirsi, ma capì che Kate l'aveva capito e non

fece altre domande, anche perché lei andò in cucina a prendere il tè. Sprofondò in una vecchia poltrona e si guardò intorno nel piccolo appartamento. Notò che sulla scrivania di Kate erano ammucchiati parecchi libri di mitologia nordica pieni di schede e segnalibri. Era evidente che Kate si sforzava di tenere la situazione sotto controllo, ma un libro conficcato nel muro alla profondità di dieci centimetri (senza dubbio scagliatovi da una forza sovrumana) dava l'idea del tipo di difficoltà che le toccava affrontare.

«Non stare neanche a chiedermi come me la cavo io» disse Kate quando tornò dalla cucina con il tè. «Dimmi piuttosto come te la cavi tu.»

«Oggi ho fatto una cosa terribilmente stupida» confessò Dirk, mescolando il tè pallido e scipito e ricordandosi di colpo che gli americani erano del tutto incapaci di prepararlo.

«In effetti sei piuttosto scuro in viso.» «Forse quella è la causa, non la conseguenza. Ho avuto una settimana orribile, non

ho digerito la colazione e immagino che questo mi abbia indotto a…» «Fammi indovinare. Hai conosciuto una donna molto bella e molto desiderabile e

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sei stato molto sgarbato e molto supponente con lei.» Dirk la fissò incredulo. «Come hai fatto a indovinarlo?» «Ti comporti sempre così. Ti sei comportato così anche con me.» «Non è vero!» protestò Dirk. «Sì che è vero!» «No, no, no!» «Ti assicuro che…» «Ah sì, sì, adesso mi ricordo» la interruppe Dirk, «Uhm, interessante. Dici che mi

comporto sempre così?» «Sempre sempre forse no. Forse ogni tanto sei costretto a dormire.» «Ma ti pare che in genere sia sgarbato e supponente con le belle donne?» Si tirò su dal fondo della poltrona e si frugò in tasca alla ricerca del notes. «Ehi, non prenderla così sul serio, dopotutto non è un grosso… be', in effetti a

pensarci bene è un grosso difetto del carattere. Che cosa stai facendo?» «Prendo appunti. È una condizione curiosa, quella del detective privato: passi il

tempo a cercare di scoprire piccole cose degli altri di cui nessuno sa niente, e poi scopri che ci sono molte cose di te che tutti gli altri conoscono ma che tu ignori. Per esempio, sai che cammino in maniera strana? Come un papero tronfio, mi ha detto qualcuno.»

«Sì, certo. Chiunque ti conosca sa che cammini come un papero tronfio.» «Tranne me, capisci?» disse Dirk. «Ora che lo so ho provato a guardarmi

camminare nelle vetrine dei negozi, ma naturalmente non ci sono riuscito. Non mi vedo camminare, mi vedo solo bloccato con un piede a mezz'aria e con la bocca aperta come un pesce. Comunque sto stendendo un piccolo elenco al quale adesso ho aggiunto: "Sono sempre molto sgarbato e supponente con le belle donne".»

Contemplò per qualche istante l'appunto appena scritto. «Sai che questo potrebbe spiegare tantissime cose?» aggiunse pensieroso. «Ma dai, non prendere tutto così alla lettera» replicò Kate. «Io volevo solo dire che

quando non sei di buon umore o hai qualche problema, tendi a metterti sulla difensiva e allora succede che… Ma cosa fai, scrivi ogni parola che dico?»

«Certo. Sono tutte informazioni utili. Penso che finirò per avviare un'indagine in grande stile su me stesso. E al diavolo tutto il resto.»

«Sei senza lavoro?» «Già» rispose Dirk con aria sconsolata. Kate tentò di scoccargli un'occhiata pungente, ma lui stava guardando fuori della

finestra. «Il fatto di non avere lavoro è forse collegato in qualche modo al fatto di essere

stato molto sgarbato con una bella donna?» gli chiese. «Piombarmi in ufficio a quel modo…» borbottò fra sé Dirk. «Non mi dire» fece Kate. «Voleva che tu le ritrovassi un gatto smarrito?» «Oh no, niente di così impegnativo. Bei tempi quelli in cui dovevo trovare gatti

interi.» «Che cosa vuoi dire?» Dirk descrisse il gatto. «Capisci che razza di casi mi capitano?» «Stai scherzando» disse Kate, fissandolo.

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«Sono serissimo» replicò lui. «Mezzo gatto?» «Sì. La metà posteriore.» «Non avevi detto la metà anteriore?» «No, quella ce l'ha, bella lucida, senza problemi. La donna voleva che cercassi la

metà posteriore» rispose, contemplando pensieroso Londra da sopra l'orlo della tazza di porcellana.

Kate gli lanciò un'occhiata diffidente. «Ma non è una cosa… molto, molto, molto strana?» Dirk si girò a guardarla. «Direi che è il fenomeno più strano e straordinario che abbia visto in vita in cui ho

visto un sacco di cose strane e straordinarie. Purtroppo» concluse distogliendo di nuovo gli occhi «non ero dell'umore giusto per interessarmene.»

«Che cosa intendi dire?» «Avevo fatto indigestione. Sono sempre di cattivo umore quando non digerisco

bene.» «E solo per questo hai…» «Non solo per questo. Avevo anche perso il foglietto.» «Che foglietto?» «Quello in cui avevo scritto la data e l'ora dell'appuntamento. Era sepolto sotto una

pila di lettere contenenti gli estratti conto della banca.» «Lettere che tu non hai mai aperto e letto.» Dirk aggrottò la fronte e riaprì il notes. «"Non… apro… mai… le lettere… contenenti gli estratti conto… della banca"»

scrisse pensieroso. Poi rinfilò il notes in tasca e disse: «Così, quando lei è arrivata, non mi aspettavo che arrivasse e sono stato colto alla sprovvista. Allora…»

Tirò di nuovo fuori il notes e buttò giù un altro appunto. «Che cos'hai scritto?» chiese Kate. «"Subnormale nel controllo delle situazioni"» rispose Dirk. «Il mio primo istinto

sarebbe stato quello di farla accomodare e poi cercare di riavermi dallo shock fingendo di finire un lavoro.»

«E hai seguito l'istinto?» «Ho dato un'occhiata in giro e ho visto che non c'era una sedia. Dio solo sa dove

sia finita. Così la donna era costretta a stare in piedi e quindi a starmi addosso, un'altra cosa che detesto. È stato a quel punto che mi sono profondamente irritato.» Tornò a guardare il notes e lo sfogliò. «Strana convergenza dì piccoli particolari, non credi?»

«Che cosa intendi dire?» «Insomma, mi capita un caso veramente straordinario: una donna bella, intelligente

e senza dubbio ricca arriva nel mio ufficio, si offre di pagarmi perché indaghi su un fenomeno che sfida i principi fisici e biologici fondamentali e io… rifiuto. Incredibile, no? Di norma uno dovrebbe inchiodarmi al suolo per impedirmi di occuparmi di un caso del genere. A meno che» concluse pensieroso, agitando il notes in aria «a meno che quell'uno non mi conosca fin troppo bene…»

«Che cosa intendi dire?»

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«Mah, non so. Non mi sarei accorto dell'intera sequenza di piccoli ostacoli se non fosse stato per un particolare. Quando alla fine ho trovato il foglietto su cui avevo scritto i dati relativi alla cliente, mancava il numero di telefono. L'orlo inferiore del biglietto era stato strappato, per cui non mi è possibile rintracciarla.»

«Potresti chiamare il servizio informazioni abbonati. Come si chiama la cliente?» «Smith. Un ago in un pagliaio. Ma non ti pare strano che la parte di foglio in cui

era segnato il numero di telefono sia stata strappata?» «A dire la verità no, per niente. La gente non fa che strappare pezzetti di carta.

Magari starai già ipotizzando un grande complotto per incurvare lo spazio-tempo, ma io ho il sospetto che tu abbia strappato il foglietto per pulirti le orecchie.»

«Il pensiero della curvatura dello spazio-tempo ti sarebbe venuto se avessi visto il gatto.»

«Forse hai solo bisogno di farti pulire le lenti a contatto.» «Non porto le lenti a contatto.» «Forse è ora che le porti.» Dirk sospirò. «E va bene, forse ogni tanto mi lascio trascinare troppo dalla fantasia.

E che negli ultimi tempi ho avuto troppo poco lavoro. Gli affari vanno male. Pensa che mi sono ridotto a controllare nelle Pagine gialle se il mio numero fosse esatto e a telefonarmi da solo per vedere se il telefono funzionava. Kate…»

«Sì, Dirk?» «Tu me lo diresti se ritenessi che stessi ammattendo, vero?» «Gli amici servono proprio a questo.» «Quindi me Io diresti, eh? Me lo diresti? Sai, è una domanda che mi sono rivolto

spesso. E il motivo per cui adesso la rivolgo a te è che quando mi sono telefonato da solo…»

«Sì?» «Ho risposto.» «Dirk, amico mio, tu hai bisogno di un po' di riposo» disse Kate. «Non ho fatto altro che riposarmi» brontolò Dirk. «Se è così, allora hai bisogno di fare qualcosa.» «Sì, ma cosa?» Kate sospirò. «Non posso dirtelo io, Dirk. Nessuno può mai dirti niente. Tu non

credi mai a niente se non ci hai prima riflettuto su da solo.» «Uhm» fece Dirk, riaprendo il notes. «Questa è una caratteristica interessante da

aggiungere.»

4

«Josh» disse una voce dall'accento mezzo svedese e mezzo irlandese. Dirk fece finta di niente e sistemò nella cucina disastrata il contenuto del sacchetto

della spesa. La spesa era costituita quasi esclusivamente da pizza surgelata, per cui finì nel piccolo freezer del frigo, che era pieno di vecchi grumi biancastri e incarogniti la cui identità Dirk aveva ormai paura di verificare.

«Jude» disse la voce svedese-irlandese.

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«Non essere pessimista» fischiettò Dirk fra sé.31 Accese la radio e ascoltò il notiziario delle sei, che parlava quasi solo di cose deprimenti: inquinamento, calamità, guerre civili, carestie e, come una ciliegina sulla torta, l'eventualità che una cometa gigante stesse per abbattersi sulla Terra.

«Julian» disse metallica la voce svedese-irlandese. Dirk scosse la testa. Julian no di certo.

Alla radio vari esperti dissero la loro sul pericolo che proveniva dallo spazio. Alcuni sostenevano che la cometa avrebbe colpito Sheridan, nel Wyoming, il 17 giugno. Gli scienziati della Nasa affermavano che si sarebbe disintegrata nell'attrito con l'atmosfera superiore e non avrebbe mai raggiunto la superficie terrestre. Un'equipe di astronomi indiani diceva che, lungi dal colpire la Terra, sarebbe passata a molti milioni di chilometri di distanza prima di andare a schiantarsi contro il sole. Le autorità britanniche dichiaravano che avrebbe fatto qualunque cosa gli americani dicessero che avrebbe fatto.

«Julio» disse la voce. Nessuna risposta. Dirk si perse la successiva notizia del radiogiornale a causa del rumore prodotto

dalla facciata anteriore della casa, che sbatteva. Al momento la facciata anteriore era costituita da uno spesso telone di polietilene, perché qualche settimana prima si era verificato un incidente che i vicini di casa avevano giudicato assai increscioso e indice di una maleducazione intollerabile: un caccia a reazione Tornado era partito dal suo appartamento ed era sfrecciato ruggendo in direzione di Finsbury.

Naturalmente c'era una spiegazione perfettamente logica del fenomeno e Dirk era stufo di ripeterla: il motivo per cui aveva tenuto nell'atrio un Tornado era che non sapeva che fosse un Tornado. Era evidente che non sapeva si trattasse di un Tornado: fino a poco tempo prima era stato una grande aquila incazzosa che lui, come avrebbe fatto chiunque, aveva relegato nell'atrio per evitare che gli scendesse continuamente in picchiata addosso. Che un grande caccia Tornado avesse per breve tempo assunto le sembianze di un'aquila era dovuto a uno sfortunato incontro avuto in volo con Thor, il mitico dio del tuono e…

Di solito, a quel punto della storia, Dirk faceva un po' fatica a mantenere viva l'attenzione di chi lo ascoltava, ma, se l'interlocutore non si distraeva, lo stressava ulteriormente spiegandogli che Thor, il dio del tuono, si era pentito del suo accesso d'ira e aveva deciso di rimettere le cose a posto restituendo al Tornado la sua forma originaria. Purtroppo, essendo un dio, era assorbito da pensieri più elevati o comunque da altri pensieri e, diversamente da quanto avrebbe fatto un comune mortale, non aveva telefonato per controllare se fosse il momento giusto per quel tipo di metamorfosi: aveva semplicemente decretato che l'aquila tornasse Tornado e così, bum!

Era successo un casino. Poi era sorto il terribile problema delle assicurazioni. Le compagnie di

assicurazioni interessate avevano sostenuto che, in base a tutti i parametri razionali conosciuti, si trattava di un atto di dio.32 Ma, aveva replicato Dirk, quale dio? 31 Nel testo, "Don't make it bad". "Hey Jude, don't make it bad" è il primo verso della canzone dei Beatles Hey Jude. [N.d.T.] 32 Si è lasciata la traduzione letterale per dare un senso al resto del discorso, ma la traduzione italiana di "act of

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Secondo la costituzione, la Gran Bretagna era uno stato monoteista cristiano e quindi qualsiasi "atto di dio" contemplato da un documento legale doveva riferirsi per forza di cose al tizio anglicano delle vetrate istoriate e non al delinquente politeista proveniente dalla Norvegia. E così via.

Nel frattempo si era puntellata la casa di Dirk (che già prima non era una reggia) con delle impalcature e sopra queste si era steso un telo di polietilene; e Dirk non sapeva quando sarebbe riuscito a far riparare i danni. Se la compagnia di assicurazioni non avesse pagato (il che appariva molto probabile, visto che negli ultimi anni le assicurazioni avevano adottato la strategia di pubblicizzare i servizi anziché fornirli davvero), Dirk avrebbe dovuto sborsare… chissà quale cifra. E non aveva soldi. Non suoi, perlomeno. Aveva un po' di soldi della banca, ma non sapeva bene quanti.

«Justin» recitò la vocina. Non ci fu risposta. Dirk rovesciò sul tavolo le lettere contenenti gli estratti conto e le guardò con

disgusto. Per un attimo gli parve addirittura che le buste vibrassero e che l'intero spazio-tempo avesse preso a girare lentamente intorno a esse e a venire risucchiato nel loro orizzonte degli eventi; ma forse se lo stava immaginando.

«Karl.» Niente. «Karel. Keir.» Niente. Niente. Decise di farsi un caffè e andò al fornello compiendo un giro vizioso per non

avvicinarsi troppo agli estratti conto sul tavolo. Sotto un certo profilo, l'intera organizzazione della sua vita adulta si poteva considerare un sistema per evitare di aprire le lettere della banca. Gli estratti conto degli altri gli suscitavano ben diversi sentimenti. Poche volte aveva provato la felicità che provava quando leggeva i rendiconti bancari altrui: li trovava sempre pittoreschi e narrativamente vivaci, specie se aveva aperto le lettere con il vapore. Invece la prospettiva di aprire le proprie gli faceva venire gli stranguglioni.

«Keith» disse speranzosa la voce, con accento nasale. Nessuna risposta. «Kelvin.» Nemmeno. Dirk si versò il caffè più lentamente che potè, conscio del fatto che era giunto alla

resa dei conti. Doveva aprire le lettere della banca e apprendere la triste verità sul suo saldo. Scelse il coltello più grande che trovò e si avvicinò alla pila con aria minacciosa.

«Kendall» disse la voce. Silenzio. Alla fine fu quasi con indifferenza che aprì per il lungo le buste con un colpetto

sadico; anzi, ci godette a tagliarle e provò un brivido perverso molto alla moda. Dopo pochi istanti le lettere - la sua storia finanziaria degli ultimi quattro mesi - erano aperte e i loro fogli erano stesi sul tavolo.

«Kendrick.» Nessuna risposta. «Kennedy.» La sottile voce metallica cominciava a dargli ai nervi. Dirk buttò

un'occhiata a un angolo della stanza, dove due occhi tristi lo guardavano con muto sconcerto.

Quando si decise finalmente a leggere le cifre in fondo all'ultimo foglio, si sentì come sommergere da un'ondata e restò senza fiato: il tavolo gli ondeggiò e oscillò

God" è causa di forza maggiore". [N.d.T.]

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davanti e le mani del fato gli scrollarono le spalle come se le stessero impastando. Aveva paventato una brutta situazione, anzi aveva passato le ultime settimane quasi esclusivamente a paventare l'entità di quella bruttezza, ma nemmeno nelle peggiori fantasie aveva pensato che potesse essere così catastrofica.

Eventi vischiosi si verificarono nella sua gola. No, non poteva, non poteva assolutamente essere in rosso di oltre ventiduemila sterline. Scostò la sedia dal tavolo della cucina e per qualche istante rimase lì a fremere e tremare. Ventiduemila sterline…

La parola "Kenneth" aleggiò beffarda nella stanza. Quando elencò mentalmente le spese delle ultime settimane (una T-shirt comprata

avventatamente, una ciambella mangiata sconsideratamente, un weekend selvaggio nell'Isola di Wight) capì di avere ragione: non poteva, nel modo più assoluto, essere in rosso di ventiduemila sterline.

Trasse un respiro profondo e guardò ancora una volta la cifra. Ventiduemilatrecentoquarantasette sterline e quarantatré centesimi. Doveva esserci un errore. Un deplorevole, terribile errore. Era naturalmente

possibile che lo avesse commesso lui e, mentre fissava tremante il foglio, capì d'un tratto di averlo effettivamente commesso lui.

Aveva cercato subito una cifra a debito con il "meno" davanti e aveva quindi supposto di stare guardando quella; invece il suo saldo era di ventiduemilatrecentoquarantasette sterline e quarantatré centesimi a credito.

A credito! Non aveva mai visto una cosa del genere e non sapeva nemmeno che aspetto

avesse: per questo non l'aveva riconosciuta. Pian piano, quasi che le cifre potessero cadere dal foglio e smarrirsi sul pavimento, scrutò con cura i fogli a uno a uno per scoprire da dove arrivasse tutto quel denaro. "Kenny", "Kentigem" e "Kermit" aleggiarono nella stanza senza che se ne accorgesse.

Presto constatò che gli erano state versate delle somme con regolare cadenza settimanale. Fino a quel momento i versamenti erano stati sette, il più recente dei quali risaliva al venerdì di due settimane prima, la data dell'ultimo rendiconto. Lo strano era che, sebbene la cadenza fosse regolare, le cifre non erano sempre identiche: simili, sì, ma non identiche. Il venerdì di due settimane prima gli erano state versate 3267,34 sterline; il giovedì precedente (le somme erano arrivate tutte a fine settimana, tre di giovedì e quattro di venerdì) 3232,57 sterline, la settimana ancora precedente 3319,14 sterline. E così via.

Dirk si alzò e respirò a fondo. Che cavolo stava succedendo? Aveva l'impressione che il mondo gli girasse piano intorno in senso antiorario. Si ricordò vagamente che l'ultima volta in cui aveva bevuto una tequila il mondo gli era girato piano intorno in senso orario e capì che, se voleva riflettere con lucidità sulla situazione, di quello aveva bisogno. Così frugò ansiosamente in una credenza piena di bottiglie di rum e whisky per nove decimi vuote e dimenticate e trovò mezza bottiglia di mezcal. Se ne versò un dito nel fondo di una tazza da tè e corse di nuovo a controllare le cifre degli estratti conto per paura che, mentre non le guardava, fossero svanite.

C'erano ancora. Somme non sempre identiche pagate con identica cadenza. La testa gli girò di nuovo. Che pagamenti erano? Interessi che erano stati accreditati per

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errore sul conto sbagliato? Se fossero state corresponsioni di interessi, si sarebbe spiegato il fatto che le somme non fossero sempre uguali. Ma non era una spiegazione plausibile, perché oltre tremila sterline la settimana rappresentavano l'interesse di due o tre milioni di sterline e uno che possedeva un simile patrimonio non era certo il tipo che permetteva alla banca di mettere i suoi soldi sul conto sbagliato, per giunta per sette settimane di fila. Bevve un sorso di mezcal, che gii marciò nella bocca agitando i pugni e dopo qualche secondo salì a picchiargli in testa.

Si rese conto che non stava riflettendo razionalmente sulla faccenda. Il guaio era che si trattava dei suoi conti, mentre era abituato a leggere i conti degli altri. Tuttavia, siccome gli estratti erano i suoi, poteva telefonare alla banca e chiedere delucidazioni. Solo che adesso, naturalmente, la banca era chiusa. Inoltre aveva l'orribile timore di sentirsi rispondere al telefono: "Oh, scusi, abbiamo sbagliato conto corrente. La ringraziamo di avere sottoposto alla nostra attenzione questo errore. Come siamo stati stupidi a pensare che quel denaro potesse appartenere a lei!". No, prima di chiedere alla banca doveva cercare di capire da dove venissero i soldi. Anzi, prima di chiedere qualunque cosa doveva ritirarli dalla banca e magari andare alle Figi o da qualche altra parte. A meno che… E se il denaro avesse continuato ad affluire?

Tornò a concentrarsi sui rendiconti e capì un'altra cosa che se non fosse stato così nervoso avrebbe capito subito: vicino a ciascuna voce c'era un codice il cui scopo era fargli capire di che voce si trattasse. Controllò il codice. Semplice: ciascuna somma gli era stata versata tramite bonifico internazionale.

Mah. Ecco che cosa poteva spiegare le fluttuazioni: i tassi di cambio. Se ogni settimana

gli fosse stata versata sul conto la stessa somma in divisa estera, le variazioni del tasso avrebbero prodotto piccole variazioni nella cifra. Questo avrebbe anche spiegato perché i soldi non arrivavano sempre lo stesso giorno della settimana: benché con il computer occorresse meno di un secondo per fare un bonifico internazionale, le banche cercavano di complicare il più possibile l'operazione affinché i tondi indugiassero proficuamente nel loro sistema prilla di involarsi.

Ma da quale paese arrivavano i pagamenti, e perché? «Kevin» disse la voce irlandese-svedese. «Kieran.» «Oh, piantala!» sbottò d'un tratto Dirk. Il suo rimbrotto provocò una reazione. Il piccolo border terrier che stava accucciato

mogio nella cesta posta in un angolo della stanza alzò gli occhi eccitato e uggiolò di gioia. Non aveva reagito a nessuno dei nomi che il vecchio computer da tavolo di Dirk aveva snocciolato da un file di testo con nomi di neonati, ma era chiaro che era ben felice che gli si gridasse di piantarla ed era ansioso di sentirsi di nuovo zittire.

«Kimberley» disse il computer. Deluso, il cane senza nome non reagì. «Kirby.» Niente. «Kirk.» Il cane si accovacciò di nuovo nella cesta foderata di vecchi quotidiani e

tornò mogio e confuso come prima. Vecchi quotidiani. Ecco di che cosa aveva bisogno Dirk.

Due ore dopo aveva la risposta o se non altro una parvenza di risposta. Niente che

avesse davvero un senso compiuto, ma abbastanza per fargli sentire un'ondata di

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entusiasmo: era riuscito a risolvere una parte del rompicapo. Se poi fosse una parte rilevante o no, non lo sapeva, perché non sapeva ancora quanto fosse grande il rompicapo: non ne aveva la più pallida idea.

Aveva raccolto un campione rappresentativo di quotidiani delle settimane precedenti da sotto il cane, da sotto il divano e da sotto il Ietto, vi aveva aggiunto quelli seminati in bagno e, soprattutto, era riuscito a farsi dare due copie inumidite ma vitali del "Financial Times" da un barbone in cambio di una coperta, un goccio di sidro e una copia di Il crollo della mente bicamerale e le origini della coscienza. Strana richiesta, aveva pensato tornando dall'angolo di parco in cui viveva il barbone; ma forse non più strana della sua. I casi della vita gli rammentavano in continuazione quanto profondamente diverso fosse il mondo se lo si guardava spostandosi anche solo di un metro a sinistra.

In base alle cifre riportate sui quotidiani, elaborò un grafico delle fluttuazioni registrate da ciascuna delle principali divise del mondo nelle ultime settimane e lo confrontò con le fluttuazioni nelle somme versate ogni settimana sul suo conto. La risposta fu subito evidente: erano dollari americani. Cinquemila dollari, per la precisione. Se cinquemila dollari fossero stati trasferiti ogni settimana dagli Stati Uniti in Gran Bretagna, sarebbero arrivate sul suo conto le stesse esatte somme che risultavano dai rendiconti. Eureka! Era ora di celebrare l'avvenimento con un'incursione nel frigo.

Dirk accese la radio, mise su un CD degli ZZ Top e si spaparanzò davanti alla tivù con tre fette di pizza fredda e una lattina di birra. Aveva bisogno di riflettere.

Qualcuno gli stava versando cinquemila dollari alla settimana e lo faceva ormai da sette settimane. Che notizia incredibile, pensò mangiando la pizza; non solo, ma chi pagava stava in America. Mangiò un altro boccone farcito con mozzarella, peperoni, acciughe, uova e manzo tritato piccante. Aveva passato solo brevi periodi in America e né là né in altro luogo della Terra conosceva nessuno che potesse spedirgli senza motivo simili somme non richieste.

Gli venne da fare un'altra considerazione, che però non riguardava i soldi. Sentendo gli ZZ Top parlare in una canzone delle cene davanti alla tivù, pensò alla propria pizza e la guardò con improvvisa perplessità. Mozzarella, peperoni, acciughe, uova e manzo tritato piccante. Non c'era da stupirsi se non aveva digerito quando, a colazione, aveva mangiato le altre tre fette. Era un tipo di pizza da cui lui, forse unico al mondo, era diventato dipendente e a cui qualche mese prima aveva rinunciato, accorgendosi di non riuscire più a digerirla. Quella mattina, quando l'aveva trovata nel frigo, non ci aveva pensato due volte a mangiarsela, perché era proprio il tipo di cosa che uno desidera trovare nel frigo; ma non si era chiesto chi l'avesse messa lì. Perché non era stato lui.

Lentamente, con aria disgustata, si tolse di bocca un pezzo mezzo masticato. Non credeva nel folletto della pizza.

Sputò gli altri morsi semimasticati e appiccicaticci, esaminò le due restanti fette e non vide niente di insolito o sospetto: era proprio la pizza che aveva sempre mangiato finché non aveva deciso di rinunciarvi. Telefonò alla vicina pizzeria e chiese ai gestori se qualcun altro avesse comprato da loro quella particolare pizza al manzo,

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uova e peperoni. «Ah, lei è il tipo che prende sempre la gastrittiana, vero?» disse il pizzaiolo. «La cosa?» «La gastrittiana: si chiama così. No, amico, stia pur certo che nessun altro ha mai

scelto quella meravigliosa combinazione.» Dirk si sentì deluso da alcuni aspetti della conversazione, ma lasciò correre e

riattaccò. Era perplesso e aveva la sensazione che stesse succedendo qualcosa di molto strano; ma non sapeva cosa.

«Nessuno sa niente.» Quelle parole attrassero la sua attenzione e rivolse lo sguardo alla tivù. Un allegro

californiano con indosso una camicia hawaiana che in caso di necessità avrebbe potuto usare come segnale di soccorso, rispondeva sotto un sole cocente a domande che, capì subito Dirk, riguardavano il meteorite in avvicinamento. L'uomo chiamò il meteorite Marameo.

«Marameo?» fece l'intervistatore, che era il corrispondente della Bbc in California. «Sì» rispose con un sorriso il californiano. «Lo chiamiamo Marameo perché

qualunque cosa colpisca, si può stare certi che la saluterà - e la saluteremo - per sempre.»

«Allora secondo lei colpirà la Terra?» «Non lo so. Non lo sa nessuno.» «Veramente gli scienziati della Nasa hanno detto…» «La Nasa dice cagate» lo interruppe allegramente il californiano. «Nemmeno la

Nasa sa nulla. Se non sappiamo niente noi, non sanno niente neanche loro, cazzo. Qui alla Similarity Engines abbiamo i computer paralleli più potenti della Terra, per cui quando dico che non sappiamo niente, so quello che dico. Sappiamo di non sapere e sappiamo perché non sappiamo. La Nasa non sa neppure questo.»

Anche la seconda notizia del telegiornale proveniva dalla California e riguardava un gruppo lobbistico chiamato i Germogli Verdi, che stava conquistando sempre più sostegno. 1 Germogli Verdi, le cui idee facevano assai presa sulla psiche sfasciata di molti americani, sostenevano che il mondo se la cavava benissimo da solo senza l'intervento umano, per cui non aveva senso preoccuparsene o cercare di moderare il proprio comportamento innato. "Non preoccupatevi, siate felici" diceva il loro slogan, che si ispirava al titolo di una canzone popolare.33

"Grandi balle di fuoco" pensò Dirk, citando il titolo di un'altra canzone popolare.34 «In Australia gli scienziati stanno cercando di insegnare ai canguri a parlare» disse

qualcuno alla radio. Dirk decise che la cosa di cui aveva più bisogno al momento era una bella notte di sonno.

La mattina dopo, tutto gli parve meravigliosamente chiaro e semplice. Non conosceva nessuna risposta, ma sapeva che cosa fare. Telefonando alla banca aveva appreso che risalire alle origini dei bonifici era difficilissimo, in parte perché chiunque gli stesse pagando le somme si era premurato di cancellare le tracce, ma soprattutto perché l'impiegato dello sportello estero della sua banca aveva il palato 33 Don't Worry, Be Happy, di Bobby McFerrin. [N.d.T.] 34 Great Balls of Fire, di Otis Blackwell, era uno dei pezzi forti di Jerry Lee Lewis. [N.d.T.]

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fesso. La vita era troppo breve, il tempo troppo bello e il mondo troppo pieno di trappole

interessanti ed eccitanti perché non gli venisse voglia di andare a vela. La vita, amava ripetersi, era come un oceano. La si poteva solcare sferragliando

con una barca a motore o veleggiando silenziosi dietro venti e correnti. Il vento lo aveva: veniva pagato da qualcuno. Molto probabilmente quel qualcuno lo pagava perché facesse qualcosa, però si era dimenticato di dirgli che cosa; d'altronde era suo privilegio di cliente non dirglielo. In ogni caso, Dirk sentiva la necessità di corrispondere al generoso impulso di chi lo foraggiava e di dover fare qualcosa. Ma che cosa? Be', in fondo era un detective privato e di solito i detective privati vengono pagati per seguire la gente.

Era quindi semplice: avrebbe seguito qualcuno. Perciò adesso bisognava trovare la corrente giusta: qualcuno da pedinare. Bene,

l'ufficio aveva una finestra dalla quale si vedeva passare un intero mondo o, se non altro, alcune persone. Avrebbe scelto una persona. Fremette d'eccitazione pensando che aveva iniziato l'indagine o che l'avrebbe iniziata appena la prima persona… no, non la prima, ma la… quinta, appena la quinta persona avesse svoltato l'angolo dal lato opposto della strada.

Era molto contento di avere rimandato l'inizio dell'indagine facendolo precedere da un breve periodo di preparazione mentale. Presto il numero uno, una donna cicciuta come un piumone, svoltò l'angolo trascinandosi dietro gli svogliati numeri due e tre: i suoi figli, che a ogni passo redarguiva e sgridava. Dirk tirò un respiro di sollievo all'idea di non dover pedinare lei.

Rimase accanto alla finestra aspettando in silenzio gli sviluppi. Per qualche minuto nessuno girò più l'angolo. La grassona costrinse in malo modo i figli ad andare all'edicola dalla parte opposta della strada, anche se loro frignavano che volevano tornare a casa a guardare la tivù, e qualche minuto dopo li costrinse a tornare al sole anche se loro frignavano che volevano il gelato e i fumetti del Giudice Dredd.

Dopo che la madre li ebbe trascinati lontano dall'edicola, calò il silenzio. Dalla finestra Dirk vedeva una sorta di triangolo formato da due strade che

convergevano. Si era trasferito da poco in quel nuovo ufficio - nuovo per lui, s'intende, perché il palazzo era vecchio e fatiscente e rimaneva in piedi più per abitudine che per vera solidità strutturale - e lo preferiva di gran lunga al più periferico ufficio precedente, dove avrebbe aspettato un'intera settimana prima che cinque persone girassero l'angolo.

Apparve il numero quattro. Il numero quattro era un postino con un carrello pieno di posta. Capendo quanto

potesse essere svantaggioso il suo piano, Dirk sentì una goccia di sudore formarsi sulla fronte.

Finalmente il numero cinque. Il numero cinque entrò in scena con passo incerto. Capelli rossi, sotto i trent'anni,

piuttosto alto, portava un bomber nero di pelle e, dopo avere svoltato l'angolo, si fermò un attimo e si guardò intorno come aspettandosi di vedere qualcuno. Dirk fece per muoversi, quando vide arrivare da dietro l'angolo il numero sei.

Il numero sei era ben diverso dal cinque: una donna molto avvenente, con i capelli

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neri corti e un paio di jeans. Dirk imprecò, chiedendosi se non avesse segretamente inteso dire "sei" anziché "cinque". Ma no: un impegno era un impegno, tanto più che lo stavano pagando profumatamente. Chiunque fosse il munifico cliente, era dovere del detective attenersi all'accordo che non avevano stipulato. Il numero cinque indugiava ancora all'angolo della strada e Dirk scese di corsa le scale per mettersi a pedinarlo.

Quando aprì il portone screpolato, si trovò davanti il numero quattro - il postino con il carrello - che gli consegnò un pacchetto di lettere. Si infilò in tasca le lettere e corse in strada sotto il sole primaverile.

Da tempo non seguiva nessuno e si accorse di avere perso un po' la mano. Partì con tale entusiasmo all'inseguimento della preda, che camminò troppo in fretta e presto la superò. Allora si fermò, confuso, poi si girò per tornare indietro e così facendo andò a sbattere proprio contro il giovane dai capelli rossi. Lo imbarazzò a tal punto sbattere frontalmente contro la persona da pedinare furtivamente, che per allontanare ogni sospetto saltò su un autobus di passaggio in Rosebery Avenue.

L'inizio era poco promettente, pensò, mentre sedeva in autobus sbalordito della propria inettitudine. Lo pagavano cinquemila dollari alla settimana perché fosse così inetto? Mah, forse, in un certo senso, era proprio così. Si accorse che le persone lo guardavano in maniera strana, ma non nella maniera strana in cui lo avrebbero guardato se avessero avuto anche il più vago sentore della sua inettitudine.

Buttò un'occhiata alla strada, chiedendosi quale mossa fosse più opportuno fare adesso. Di norma, durante il pedinamento, era un problema se l'inseguito saltava all'improvviso su un autobus, ma il problema era ancora più spinoso se a saltare su un autobus era l'inseguitore. Forse avrebbe fatto meglio a scendere e a cercare di ritrovare la strada, però a quel punto era piuttosto difficile per lui non dare nell'occhio. Alla fermata successiva saltò giù e tornò sui suoi passi in Rosebery Avenue. Presto vide il giovane in bomber camminare nella sua direzione. Aveva scelto un soggetto molto disponibile e collaborativo, pensò; un soggetto migliore di quello che si meritava. Era ora di assumere il controllo e di usare maggior circospezione. Alla sua destra vide un piccolo bar e decise di entrarvi. Rimase al banco qualche attimo, fingendo di essere incerto sul panino da scegliere, e intanto aspettò che passasse il numero cinque.

Il numero cinque non passò. Entrò nel bar, si avvicinò al banco e volse le spalle a Dirk. In preda al panico, Dirk ordinò un tramezzino al tonno e granturco, che detestava, e un cappuccino, che era particolarmente inadatto al pesce; poi corse a sedersi a un tavolino. Avrebbe voluto seppellire il viso in un quotidiano, ma non l'aveva con sé, sicché dovette supplire con le lettere consegnategli dal postino, sulle quali si concentrò compunto. Erano i soliti dépliant assurdi, trasudanti un ottimismo demente. I soliti, strani opuscoli che i detective privati ricevono sempre: cataloghi di piccoli gadget elettronici studiati per neutralizzarsi l'un l'altro, pubblicità di particolari qualità di pellicola o di nuovi, rivoluzionari pezzetti di plastica. Dirk non aveva nessuna voglia di guardare quella roba; si soffermò un attimo sul volantino che reclamizzava un nuovo libro sulle tecniche di sorveglianza avanzate e, dopo averlo letto, lo accartocciò con rabbia, gettandolo in terra.

L'ultima busta conteneva l'ennesimo estratto conto della banca. Da tempo la sua

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banca aveva preso l'abitudine di inviargli i rendiconti settimanalmente, giusto per mettere le cose in chiaro. Forse non si era ancora abituata alla sua nuova, brillante situazione finanziaria, forse temeva che non durasse o forse non si era neppure accorta che era tanto migliorata. Dirk aprì la busta e, non del tutto sicuro di ciò che avrebbe visto, guardò l'estratto conto.

Sì. Altre 3253,29 sterline, versate il venerdì precedente. Sempre inspiegabili, ma

c'erano. C'era però anche un altro particolare strano. Gli ci volle qualche secondo per

notarlo, perché, essendo un esperto detective, continuava a tenere d'occhio la sua preda, che per pagare il caffè e una brioche aveva preso una banconota da un ventaglio di biglietti da venti.

L'ultima voce dell'estratto conto indicava, alla data del giorno prima, il prelievo di cinquecento sterline in contanti. Il rendiconto era stato spedito alla fine della giornata precedente e riportava i movimenti fino al momento dell'invio. Era certo tutto molto funzionale e mollo ben organizzato, una perfetta dimostrazione dell'efficacia della moderna tecnologia informatica, però un dettaglio non quadrava: Dirk non aveva ritirato cinquecento sterline né il giorno prima né in alcun altro giorno. Cazzo! Evidentemente gli avevano rubato il bancomat o la carta di credito. Si frugò ansiosamente in tasca e guardò nel portafogli.

No. Le carte c'erano tutte, per fortuna. Rifletté sulla faccenda. Non vedeva in che modo un truffatore avesse potuto ritirare

dei contanti dal suo conto senza una carta bancomat o di credito. Provò d'un tratto un orribile senso di chiusura alla bocca dello stomaco. Erano i suoi estratti conto o quelli di qualcun altro? Controllò allarmato: sì, il nome, l'indirizzo e il numero di conto erano i suoi. Anche gli altri rendiconti li aveva controllati più volte la sera prima ed erano chiaramente i suoi; solo che le operazioni finanziarie non sembravano le sue.

Era ora di concentrarsi sul lavoro. Alzò gli occhi e vide che il giovane in bomber era seduto a due tavolini di distanza e mangiava lentamente la brioche guardando nel vuoto.

Dopo qualche istante si alzò, spazzò via le briciole dal giubbotto di pelle, girò le spalle e uscì. Indugiò un attimo, come riflettendo sulla strada da prendere, poi s'incamminò piano nella direzione da cui era venuto. Dirk infilò le lettere in tasca e lo seguì furtivo.

Per la seconda volta pensò che aveva scelto un buon soggetto. Aveva i capelli rossi che brillavano come un faro nel sole primaverile, sicché, se per caso veniva inghiottito dalla folla, dopo pochi istanti Dirk lo vedeva di nuovo bighellonare.

Dirk si chiese che cosa facesse per guadagnarsi da vivere. Non molto, a quanto pareva; almeno, non quel giorno. Una bella passeggiata per Holborn fino al West End; una mezz'ora passata a cincischiare in un paio di librerie (Dirk si segnò i titoli che sfogliò); una puntatina in un bar italiano per prendere un (altro) caffè e dare un'occhiata a "The Stage" (il che forse spiegava perché avesse il tempo di gingillarsi nelle librerie e nei caffè italiani); poi una lunga, piacevole passeggiata per Regent's Park e, da lì, a Camden e indietro verso Islington. Dirk pensò che pedinare le persone era proprio il lavoro adatto a lui: aria fresca ed esercizio fisico. A fine giornata si

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sentiva talmente su di giri che, appena arrivò davanti alla porta di casa sua, o meglio, davanti al telone di polietilene, capì d'un tratto che il nome del cane era Kierkegaard.

5

Le soluzioni arrivano quasi sempre dalla direzione più imprevista, per cui non ha senso guardare in quella direzione, in quanto se vi si guardasse non sarebbe più imprevista e quindi la soluzione non verrebbe di là.

Era una riflessione che Dirk aveva fatto con molte persone e che quella sera fece di nuovo telefonando a Kate.

«Ehi, ehi, ehi, aspetta un attimo» lo interruppe lei, cercando di introdurre una frase nel monologo di Dirk e di conquistare un minimo di spazio. «Vuoi dire che…»

«Voglio dire che il defunto marito della donna che aveva dimenticato il nome del proprio cane era un biografo.»

«Ma…» «E immagino tu sappia che spesso i biografi danno ai loro cani il nome dei soggetti

di cui stanno scrivendo la biografia.» «No, non lo…» «Lo fanno perché così hanno qualcuno con cui prendersela quando ne hanno le

tasche piene. Siccome passi ore a studiare e sviscerare le opere di un tizio che blatera di sospensione teleologica dell'etica o cose del genere, a volte hai un matto bisogno di gridare: "Oh, cristo, piantala, Kierkegaard!". Da qui il nome del cane.»

«Dir…» «Alcuni biografi si accontentano di un ninnolo di legno o un vaso di fiori, ma la

maggior parte preferisce qualcosa che faccia un bel guaito. Questione di feedback, capisci? E, a proposito di feedback, sbaglio o volevi dire qualcosa?»

«Dirk, non avrai passato tutta la giornata a seguire un completo estraneo?» «Certo. E intendo farlo anche domani. Mi apposterò vicino alla sua porta

d'ingresso di buona voglia e di buon'ora. Be', di buona voglia sì, ma di buon'ora non occorre, perché è un attore.»

«Potrebbero arrestarti per una cosa del genere!» «Rischio professionale. Kate, mi pagano cinquemila! dollari alla settimana:

bisognerà pure che sia disposto a…» «Non a seguire un completo estraneo!» «Chiunque mi abbia assunto conosce i miei metodi e io li sto applicando.» «Non sai niente di chi ti ha assunto.» «Invece so moltissimo.» «Se è così, come si chiama?» «Frank.» «Frank come?» «Non ne ho idea. Senti, non so se si chiami Frank e non so nemmeno se sia un

uomo o una donna. Il suo nome non è importante, l'importante è che ha un problema, un problema serio, altrimenti non mi pagherebbe una cospicua somma per risolverlo. E il problema è ineffabile, altrimenti me lo avrebbe detto. Chiunque mi abbia assunto

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sa chi sono, dove abito e qual è il modo migliore per mettersi in contatto con me.» «Oppure la banca ha semplicemente commesso un errore. Lo so che è difficile a

credersi, ma…» «Kate, tu pensi che dica sciocchezze, ma non è così. Senti, un tempo le persone,

quando volevano riflettere, guardavano per ore il fuoco del caminetto o le onde del mare. Le forme e le linee che danzavano con costanza davanti ai loro occhi raggiungevano una regione dell'anima più profonda di quella abitata dalla ragione e dalla logica. La logica parte da premesse e assunti già formulati, per cui ci la girare in tondo in piccoli cerchi come macchinine a molla. Abbiamo bisogno che forme danzanti ci elevino e ci conducano nella regione profonda, solo che oggi è più difficile trovarle. Non puoi contemplare un radiatore. Non puoi contemplare il mare. Cioè, sì, puoi farlo, ma è coperto di bottiglie di plastica e preservativi usati, per cui se te ne stai seduto lì ti incazzi e basta. Abbiamo soltanto il rumore bianco da contemplare: quelle che a volte chiamiamo informazioni, ma che in realtà sono solo ciance che salgono al cielo.»

«Ma senza logica non…» «La logica viene dopo. Serve a ritrovare i propri passi. Permette di essere saggi

dopo l'evento. Ma prima dell'evento bisogna essere molto stupidi.» «Ah, allora è questo che stai facendo?» «Sì. E mi ha risolto già un problema. Chissà quanto tempo mi sarebbe occorso per

capire che quel povero cane si chiamava Kierkegaard. Solo per un caso fortunatissimo il soggetto da me pedinato ha preso in mano una biografia di Kierkegaard, io a mia volta l'ho guardata e, guardandola, ho visto che era stata scritta dall'uomo che in seguito si è gettato da una gru con un elastico legato alle caviglie.»

«Ma il caso del cane non c'entra niente con l'altro.» «Non ti ho detto che credo nella fondamentale interconnessione di tutte le cose? Mi

pareva di avertelo detto.» «Sì, me l'avevi detto.» «Ecco perché adesso, prima di prepararmi alla spedizione di domani, voglio

indagare su alcuni degli altri libri a cui il tizio si è mostrato interessato.» «…» «Sento che stai scuotendo la testa addolorata e sconcertata. Non ti preoccupare:

tutto sta uscendo perfettamente dal controllo.» «Se lo dici tu, Dirk. A proposito, che cosa significa "ineffabile"?» «Non lo so, ma intendo scoprirlo» rispose lapidario Dirk.

6

La mattina dopo il tempo era così brutto che non meritava nemmeno di essere chiamato tempo, per cui Dirk decise di chiamarlo Stanley.

Stanley non era un bell'acquazzone. Non c'è niente di male in un bell'acquazzone che ripulisce l'aria. Stanley era il tipo di cosa per ripulire l'aria dalla quale ci vuole un bell'acquazzone. Stanley era afoso, opprimente e soffocante, come un ciccione sudato che ci premesse contro in metropolitana. Stanley non pioveva, ma ogni tanto ti

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gocciolava addosso. Dirk era fuori nello Stanley. Stava aspettando da oltre un'ora l'attore e cominciava a rimpiangere di non avere

dato per scontato che gli attori si alzino molto tardi la mattina. Per l'impazienza si era presentato davanti a quella casa già alle otto e mezzo e da oltre un'ora se ne stava rimpiattato dietro un albero.

Sì, da quasi un'ora e mezzo, ormai, stava nascosto a una ventina di metri dalla porta dell'attore. Ebbe un breve momento di eccitazione quando arrivò in motocicletta un pony che consegnò un pacchetto, ma l'eccitazione finì lì.

Lo meravigliò veder arrivare un pony della Motorcycle Messenger Arrival Incident. L'attore non sembrava un tipo danaroso; quanto a carriera, pareva più nella fase busso-a-tutte-le-porte che nella fase mandatemi-i-copioni-per-pony-prego.

Il tempo passava lento. Dirk aveva già letto e riletto i quattro o cinque quotidiani che si era portato dietro e aveva controllato molte volte il contenuto del portafoglio e delle tasche: carte di credito, libretto degli assegni, la solita collezione di biglietti da visita di persone che non si ricordava di avere mai incontrato, il passaporto (si era d'un tratto ricordato di averlo lasciato in un'altra giacca quando, il giorno prima, l'attore aveva indugiato a lungo davanti alla vetrina di un'agenzia viaggi), lo spazzolino da denti (non girava mai senza spazzolino da denti, con il risultato che lo spazzolino era completamente inservibile) e il notes.

In un quotidiano lesse perfino l'oroscopo, che sapeva essere scritto da un suo losco amico avvezzo a prendere per i fondelli la gente con il nome di "il Grande Zaganza". Prima diede un'occhiata ad altri oroscopi di altri segni zodiacali per vedere di che umore fosse GZ e, a prima vista, gli parve fosse di umore buono. "La vostra lungimiranza vi aiuterà a superare le piccole difficoltà che insorgeranno quando Mercurio…"; "Le ultime settimane hanno messo a dura prova la vostra pazienza, ma potrete cogliere nuove occasioni appena il Sole…"; "Non lasciate che gli altri si approfittino del vostro buon cuore. Ci vorrà grande fermezza quando…" Che noia, che banalità. Lesse il suo oroscopo: "Oggi incontrerete un rinoceronte di tre tonnellate di nome Desmond".

Dirk richiuse irritato il giornale e, proprio in quel momento, la porta si aprì e l'attore uscì in strada con aria decisa. Aveva una borsa a tracolla e teneva in mano una valigetta e il soprabito. Stava succedendo qualcosa. Dirk guardò l'orologio: le dieci e dieci. Scrisse in fretta l'ora sul taccuino mentre il cuore gli batteva più forte.

In strada comparve un taxi e l'attore lo chiamò. Cristo, e adesso così, in quattro e quattr'otto, se ne andava. L'attore salì sul taxi e partì sotto il suo naso. Dirk si girò a guardare e lo vide per un attimo buttare un'occhiata indietro attraverso lo specchietto retrovisore. Con un senso di impotenza, scrutò la strada nella vana speranza che…

Quasi per miracolo comparve un altro taxi che veniva proprio nella sua direzione, e lo chiamò.

«Segua quel taxi!» disse, sistemandosi nel sedile posteriore. «Da oltre vent'anni faccio il tassista e nessuno mi aveva mai detto sul serio una

frase del genere» disse il tassista ripartendo. Seduto sull'orlo del sedile, Dirk guardava il taxi che avevano davanti e che

procedeva piano nel tormentoso ingorgo del traffico londinese.

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«Potrà sembrare una sciocchezza, ma in fondo è interessante, no?» «Che cosa?» domandò Dirk. «Ogni volta che alla tele saltano su un taxi, dicono sempre "Segua quel taxi"

vero?» «Ah sì? Non me n'ero accorto» disse Dirk. «Non può essersene accorto, perché non fa il tassista. Si notano certe cose piuttosto

che certe altre secondo il mestiere che si fa. Se uno è un tassista, quando guarda la tele nota soprattutto i tassisti. Nota che cosa fanno i tassisti, capisce?»

«Ah, sì» disse Dirk. «Ma alla tele non fanno mai vedere il tassista, si è accorto? Fanno vedere solo í

passeggeri sul sedile posteriore del taxi. Il tassista sembra non interessare a nessuno.» «Ah, sì, può darsi» disse Dirk. «Senta, lo vede ancora, il taxi che dobbiamo

seguire?» «Oh sì, lo sto seguendo, certo. Insomma fanno vedere il tassista solo quando il

cliente gli dice qualcosa. E quando il cliente dice qualcosa a un tassista in un film, sa che cosa dice immancabilmente?»

«Mi lasci indovinare: "Segua quel taxi"?» «Proprio. Così, se dobbiamo credere a quello che si vede alla tele, i tassisti fanno

un'unica cosa: seguono altri tassisti.» «Uhm» fece Dirk, dubbioso. «E questo mi mette in una posizione molto strana; siccome sono l'unico tassista a

cui sia mai stato chiesto di seguire un altro tassista, inevitabilmente devo essere il tassista che tutti gli altri seguono…»

Dirk sbirciò fuori del finestrino per vedere se non ci fosse in giro un altro taxi su cui salire.

«Intendiamoci, non sto dicendo che succeda davvero questo, ma capirà che uno può essere anche tentato di pensarlo, no? E il potere dei media, no?»

«C'era addirittura un serial televisivo dedicato ai tassisti» disse Dirk. «Se ben ricordo, si intitolava Taxi.»

«Sì, va be', mica sto parlando di quello, no?» fece imperterrito il tassista. «Sto parlando del potere dei media di distorcere selettivamente la realtà. Di questo sto parlando. Voglio dire, alla fine della fiera viviamo tutti nel nostro piccolo mondo, no? Cioè, alla fine della fiera, non è così?»

«Be', ecco, sì, credo che lei abbia sostanzialmente ragione» rispose imbarazzato Dirk.

«Voglio dire, prendiamo questi canguri a cui cercano di insegnare a parlare. Di che cosa pensano che possiamo parlare con loro? Che cosa dovremmo dirgli, eh? "Siete contenti di saltare tutto il giorno?" E loro che cosa dovrebbero risponderci? "Ma sì, non ci lamentiamo. Questa borsa che abbiamo qui nella pancia, però, ci fa un po' male, perché è sempre piena di lanugine e fermagli da carta." Mica andrebbe così, no. Questi canguri hanno un cervello piccolo come una noce e vivono in un mondo diverso, le pare? Sarebbe come cercare di parlare con John Selwyn Gummer, non so se mi spiego.»35 35 Nel 1990, quando in Inghilterra scoppiò il caso della mucca pazza, John Selwyn Gummer, ministro dell'Agricoltura nel governo di John Major, cercò di tranquillizzare il popolo britannico facendosi riprendere dai media

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«Lo vede ancora il taxi che stiamo seguendo?» «Chiaro come se fosse fosforescente. Forse ci arriveremo prima di lui.» «Dove arriveremo prima di lui?» chiese Dirk, aggrottando la fronte. «A Heathrow.» «Come cavolo fa a sapere che sta andando a Heathrow?» «Qualsiasi tassista capisce se un altro tassista sta andando a Heathrow.» «Ahi sì? E in che modo lo capisce?» «Guardando gli indizi, no? Prima di tutto ci sono gli indizi più evidenti, come il

fatto che il cliente abbia con sé il bagaglio. Poi, altro dettaglio ovvio, c'è la strada che prende. Certo, lei potrà obiettare che forse sta andando da degli amici a Hammersmith, ma le garantisco che questo cliente qua non è salito sul taxi nella maniera in cui ci sale uno che va a passare qualche giorno da amici a Hammersmith. Quanto agli altri indizi, be', gli altri solo un tassista può vederli. La vita di un tassista consiste perlopiù di tanti piccoli viaggi qui e là. Che cosa succederà di minuto in minuto, che lavoro ti capiterà, come andrà la giornata non lo sai mai e così giri qui e là col cuore inquieto. Se invece ti arriva un cliente diretto a Heathrow, il cuore si rasserena. Bel viaggio sicuro, bel cliente sicuro, poi all'aeroporto aspetti in fila con gli altri taxi per un'ora e ti riporti in città un altro bel cliente sicuro. Ti sei garantito il lavoro di un'intera mattina. E guidi in maniera completamente diversa. Tieni la strada come un gran signore e prendi meglio le curve, perché sai dove stai andando, hai una meta. Noi lo chiamiamo "il volo di Heathrow". Qualsiasi tassista riconosce il tassista che va a Heathrow.»

«Ah» disse Dirk «fantastico.» «Si notano certe cose piuttosto che certe altre, secondo il mestiere che si fa.» «Non saprebbe per caso dirmi anche quale aereo sta per prendere il tizio sul taxi

davanti a noi?» domandò Dirk. «Per chi mi ha preso, amico, per un fottuto detective privato?» replicò il tassista. Dirk si appoggiò allo schienale del sedile e guardò pensieroso fuori del finestrino.

7

Dev'esserci una malattia che induce la gente a parlare a quel modo e la malattia deve avere un nome come "stress sillabico da aerolinea". Il morbo insorge a tremila metri d'altezza e diventa sempre più pronunciato - se è lecito usare tale termine per uno stress sillabico con l'aumentare della quota, finché raggiunge un plateau di totale demenza a circa diecimila metri. Quando sono in preda allo stress sillabico, persone per il resto razionali dicono frasi come: «Il comandante adesso ha spento il segnale delle cinture di sicurezza», come se qualcuno, in cabina, si fosse provato a negare che il comandante ha spento quel segnale, che il comandante è davvero il comandante e non un impostore e che, in quanto comandante, può armeggiare con volgari segnali di seconda categoria come quello che dice: "Allacciare le cinture di sicurezza".

Quando si accomodò sul sedile, Dirk rifletté anche su una singolare coincidenza:

mentre mangiava un hamburger assieme a sua figlia. [N.d.T.]

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non solo l'esterno degli aerei ha la stessa forma dell'esterno degli aspirapolvere, ma l'interno degli aerei ha lo stesso puzzo dell'interno degli aspirapolvere.

Prese il bicchiere di champagne che gli porse lo steward. Le parole che usava lo staff delle aerolinee, o meglio le frasi formate da quelle parole, gli parevano così usurate da avere tirato le cuoia. Quando gli steward le costringevano a risuonare di nuovo nella bocca, era come applicare scosse elettriche agli infartuati nel tentativo di riportarli in vita.

Bene. Che strana ora e mezza, quella appena trascorsa. Dirk non era per niente sicuro che

non fosse accaduto qualcosa di disastroso da qualche parte e, ora che il comandante aveva spento il segnale delle cinture di sicurezza, era tentato di perlustrare l'aereo per controllare dove fosse l'attore. Ma poiché per un po' nessuno sarebbe salito a bordo o sceso dall'aereo, forse gli sarebbe convenuto restare seduto un'oretta o anche più. Dopotutto, era un volo di undici ore per Los Angeles.

Tutto pensava tranne che di partire per Chicago quel giorno e, quando aveva visto l'attore andare dritto al check-in del volo 1330 per Chicago, si era sentito mancare. Tuttavia un impegno era un impegno, sicché, dopo avere controllato se l'attore non fosse andato al check-in solo per chiedere dove fosse il negozio dì cravatte, cercando di vincere un leggero capogiro aveva sbattuto la carta di credito sul banco e acquistato il biglietto.

Trascinato dall'entusiasmo per l'insolita solvibilità, aveva perfino prenotato un posto in business class. L'anonimo cliente era senza dubbio una persona danarosa e non avrebbe certo storto il naso per quel piccolo supplemento. D'altronde, se l'attore avesse viaggiato in business class e lui avesse preso un biglietto di classe turistica, non sarebbe riuscito a tenerlo d'occhio da un sedile incuneato in coda all'aereo. Anzi, forse ci sarebbe stato motivo di azzardare un viaggio in prima classe, ma, aveva dovuto ammettere Dirk con riluttanza, non era un motivo sensato.

Tuttavia, un'ora e mezzo dopo il decollo, cominciò a farsi delle domande. Come passeggera della business class non aveva accesso alla prima classe, nella sezione anteriore dell'aereo, mentre poteva girare liberamente da qualsiasi altra parte. Ormai aveva percorso ogni corridoio e sbirciato ogni porta di toilette senza vedere da nessuna parte la sua preda. Tornò a sedersi e rifletté sulla situazione. 0 l'attore era in prima classe o non era a bordo.

Prima classe? L'attore non sembrava il tipo che se la poteva permettere: il biglietto gli sarebbe costato quanto alcuni mesi d'affitto del suo appartamento. Ma chissà, forse a Hollywood aveva attirato l'attenzione di un direttore del casting che lo aveva chiamato in America per un provino. Per Dirk non sarebbe stato difficile introdursi in prima classe e dare una rapida occhiata in giro, ma sarebbe stato difficile farlo senza dare nell'occhio.

E se l'attore non fosse stato a bordo? Dirk lo aveva visto dirigersi al controllo passaporti, ma a un certo punto il giovane si era guardato all'improvviso intorno e lui si era infilato immediatamente in una libreria.

Qualche secondo dopo, quando aveva alzato gli occhi, Dirk non lo aveva più visto e aveva creduto che fosse andato avanti. Si era trattenuto ancora un po' in libreria, comprando alcuni libri e quotidiani, quindi aveva superato il controllo passaporti ed

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era entrato in sala partenze. Non si era stupito molto di non vedere più l'attore, perché la sala partenze era un

luccicante dedalo di negozi, bar e salette inutili, e gli era parso assurdo dargli la caccia in quel labirinto; tanto, si era detto, erano inesorabilmente diretti nello stesso luogo e sarebbero stati insieme sullo stesso aereo.

Seduto immobile, rifletté ancora sull'eventualità che l'attore non fosse a bordo. A pensarci bene, doveva ammettere di averlo visto per l'ultima volta prima del controllo passaporti e di avere tratto le successive conclusioni partendo dall'assunto che facesse quello che lui, Dirk, aveva pensato facesse. Ora capiva che l'assunto lasciava alquanto a desiderare. Aria fredda gli gocciolò addosso dal bocchettone sopra la sua testa.

Il giorno prima aveva commesso un errore da pivello, come salire su un autobus mentre pedinava il suo uomo. Adesso era salito a bordo di un aereo diretto a Chicago e stava scoprendo che si trattava dell'aereo sbagliato. Portandosi una mano alla fronte si chiese se, in tutta onestà, si potesse davvero definire un buon detective privato.

Chiamò uno steward, ordinò un whisky e accudì il bicchiere come avrebbe accudito un malato grave. Poi frugò nella borsa di plastica piena di libri e giornali pensando che tanto valeva passare il tempo e, sospirando, tirò fuori qualcosa che non ricordava di avere messo dentro.

Era un pacchetto consegnato per corriere ed era già stato aperto. Aggrottando lentamente la fronte, Dirk estrasse il contenuto e se lo rigirò stupito tra le mani. Era un libro intitolato Tecniche di sorveglianza avanzate, lo stesso libro il cui dépliant pubblicitario aveva trovato tra la posta il giorno prima e aveva accartocciato e buttato in terra. Ripiegato tra due pagine c'era lo stesso identico opuscolo, che qualcuno aveva evidentemente raccolto e stirato. Con un orribile presentimento, lo aprì piano. All'interno, scritte a pennarello con una calligrafia che gli riusciva stranamente familiare, c'erano due parole: "Bon voyage!". Lo steward gli si avvicinò e disse: «Posso versarle altro whisky, signore?».

8

Il sole era alto sopra il lontano Pacifico. Nel cielo terso, azzurro e luminoso, l'aria - se si amava l'odore dei tappeti bruciati - era perfetta. Los Angeles: una città che non avevo mai visto.

L'elegante auto blu decappottabile e desiderabile giunse dalla direzione di Beverly Hills percorrendo le dolci curve di Sunset Boulevard. Chiunque avesse visto un'auto del genere l'avrebbe naturalmente desiderata. Era stata progettata apposta per essere desiderata. Se la gente non l'avesse desiderata, la casa automobilistica l'avrebbe ridisegnata e ridisegnata finché non fosse stata desiderata da tutti. Il mondo adesso è pieno di oggetti del genere ed è ovviamente per questo che tutti si trovano in un perenne stato di bisogno.

L'autista era una donna, e vi assicuro che era una donna bellissima. Aveva fini capelli neri corti che, mentre guidava, svolazzavano nel vento caldo. Vi descriverei la mise, ma non capisco niente di vestiti e se vi dicessi che portava un nonsocosa Armani e un nonsoché Fahri o come cavolo si chiama, capireste che vi sto prendendo

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per i fondelli e siccome vi siete disturbati a leggere quello che ho scritto, voglio trattarvi con rispetto, anche se a volte, sempre con animo amichevole e sostanzialmente leale, vi racconto bugie. Mi limiterò quindi a dire che la donna indossava un abito blu che gli intenditori di moda avrebbero ammirato moltissimo. Alte palme fiancheggiavano la strada e silenziosi messicani curavano giardini così ordinati da sembrare finti.

Oltre le porte di Bel Air, era un susseguirsi di case perfette nel cuore di perfetti bouquet di boschetti. Ho visto le stesse case in televisione e perfino io, vecchio scettico che si fa beffe di tutto, ho provato il forte desiderio di vivere in una di esse. Per fortuna, le cose che gli abitanti di quelle case si dicono mi fanno talmente ridere che il tè mi schizza fuori dal naso e così il momento del desiderio passa.

L'elegante, fichissima decappottabile blu continuò a procedere lungo la via. C'è una serie di semafori tra Bel Air e Brentwood e quando l'auto arrivò ai semafori, questi diventarono rossi. La donna si fermò e scosse i capelli; poi, guardandosi nello specchietto retrovisore, si aggiustò gli occhiali da sole. Mentre lo faceva, vide nello specchietto una figura piccola e scura emergere furtiva dall'ombra della banchina e nascondersi dietro la macchina. Un istante dopo un uomo la aggredì, puntandole una pistola in faccia. Mi intendo di pistole ancor meno che di vestiti e quindi non avrei speranza a Los Angeles. Mi sfotterebbero non solo per la mia ignoranza in tema di moda, ma anche per la mia pietosa incapacità di distinguere una 38 Magnum da una Walther PPK o anche (lo ammetto) da una pistola di grosso calibro a canna corta. So però che anche la pistola era blu, o blu-nero, e che la donna si spaventò a morte quando se la vide puntare a un centimetro dall'occhio sinistro. L'aggressore le spiegò che non le sarebbe convenuto né sfilare le chiavi dal cruscotto né prendere la borsa dal sedile accanto, ma che, calma, docile e rapida, avrebbe fatto bene a levare quelle cazzo dì chiappe dal posto di guida.

La donna si sforzò di essere calma, docile e rapida, ma ne era impedita dall'incontrollabile tremito di paura che l'aveva invasa dal momento in cui la pistola aveva cominciato a saltellarle a un centimetro dal viso come un'efemera d'estate. Riuscì però a levare quelle cazzo di chiappe dal sedile. Rimase lì in mezzo alla strada a tremare mentre il ladro, al volante della sua auto, dava gas al motore strappandogli un ruggito di trionfo e partiva a tutta birra per Sunset Boulevard, scomparendo dietro una curva. La donna girò le spalle, scioccata e disperata. Il suo mondo si era all'improvviso capovolto, gettandola a terra e trasformandola, repentinamente e inaspettatamente, in una delle creature più derelitte di Los Angeles: i pedoni.

Provò a fermare una o due auto, ma queste compirono un'educata manovra per schivarla. Una era una Mustang scoperta con la radio a tutto volume. Mi piacerebbe poter dire che era sintonizzata su una stazione che trasmetteva vecchia musica e che le parole cantate a squarciagola in quel momento erano: «Che effetto fa? Cite effetto fa?», ma ci sono limiti anche alla fiction. La radio trasmetteva, sì, vecchia musica, ma in quel momento mandava in onda Sunday Girl di Blondie, una canzone per niente appropriata, visto che era giovedì. Povera ragazza: che cosa poteva lare?

Un altro crimine perfetto. Un altro giorno perfetto nella Città degli Angeli. E solo una piccolissima bugia.

Dì cui chiedo venia.

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9

Se in Inghilterra c'è un palazzo più brutto di Ranting Manor, io non l'ho visto; dev'essere nascosto da qualche parte e non, come Ranting Manor, trovarsi al centro di quaranta ettari di terreno ondulato. La tenuta originaria consisteva di molti altri ettari che erano l'orgoglio dell'Oxfordshire, ma generazioni di idiozia sifilitica e vane ciance lo hanno ridotto all'attuale sfascio. Boschi incolti, prati e campi ingombri dei vari tentativi falliti di ricavare denaro dal parco con le imprese che, secondo il periodo, parevano a qualcuno le più adatte: uno squallido luna park, uno zoo un tempo fornitissimo e, più recentemente, un centro high-tech di cui al momento era unica locataria una vacillante azienda di videogiochi abbandonata al suo destino dalla casa madre americana e ritenuta l'unica società tecnologica in perdita del mondo. Se si trovasse un giacimento di petrolio da un miliardo di barili nella tenuta di Ranting Manor, nel giro di due anni riuscirebbe sicuramente a perdere soldi e bisognerebbe vendere lo stagno di famiglia per mantenerlo in funzione. L'argento di famiglia è naturalmente scomparso da un pezzo, assieme alla maggior parte della famiglia. Un perverso misto di malattie, alcol, droga, imbecillità sessuale e automobili carenti di manutenzione ha fatto il vuoto nelle file dei Ranting, riducendoli quasi a zero.

Quanta parte di storia volete sapere? Forse pochissima. La residenza vera e propria o meglio alcune sue parti risalgono al Tredicesimo secolo. Le parti sono tutto ciò che resta dell'originario monastero, abitato per un paio di secoli da un pio ordine di calligrafi e pederasti. Poi Enrico VIII ci mise su le zampe e lo assegnò al mascalzone di corte John Ranting per compensarlo di un'atroce, inaudita scelleratezza da lui compiuta nell'interesse del sovrano. Ranting demolì il monastero e lo ricostruì come piaceva a lui, e forse come piaceva a lui piaceva anche ad altri, perché gli architetti del periodo Tudor conoscevano molto bene il loro mestiere: travi robuste, finestre con i vetri piombati, ottima intonacatura, insomma tutte le cose cui adesso attribuiamo enorme valore, ma a cui purtroppo non lo attribuivano i discendenti di John Ranting, in particolare Sir Percy Ranting, il magnate della gomma che negli anni Sessanta dell'Ottocento, in piena era vittoriana, buttò giù quasi tutto il palazzo per farne un capanno da caccia. I "capanni da caccia" vittoriani furono costruiti perché i ricchissimi mercanti dell'epoca, non potendo pavoneggiarsi in giro con l'uccello eretto, eressero al suo posto tutti quegli edifici e, per farlo, sacrificarono vasti tratti di dolce e innocente campagna inglese. Grosse, bulbose, rubizze costruzioni con grandi sale da ballo, maestose scale angolari e tante torrette e merlature simili alle merlature che nei preservativi servono a prolungare e intensificare il piacere.

Sotto il profilo estetico, il Diciannovesimo secolo fu abbastanza disastroso per Ranting Manor, ma subito dopo arrivò, ahimè, il Ventesimo, con le sue teorie architettoniche e i suoi doppi vetri. Le principali aggiunte furono, negli anni Trenta, una sorta di salone da biliardo nazista e, negli anni Sessanta, una piscina interna dalle piastrelle arancione e viola, punteggiata adesso di varie escrescenze fungose dai vividi colori.

Nonostante la diversità degli stili, il maniero è coerente nel trasudare da ogni poro umidità e decadenza e nel dare l'impressione che, se un cittadino dotato di senso

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civico tentasse di appiccarvi fuoco, il fuoco si spegnerebbe prima che arrivasse la prima squadra di pompieri. Cos'altro? Ah, sì. Ranting Manor è infestata dagli spiriti.

Basta con la descrizione dello squallido palazzo. Alle dieci e mezzo di sera, circa nello stesso momento in cui fu rubata l'auto in

Sunset Boulevard, un cancelletto esterno si aprì cigolando. Di notte la grande cancellata di ferro era chiusa a chiave, mentre il cancelletto laterale veniva solo accostato. In genere la fama di luogo insalubre e molesto bastava a scoraggiare gli intrusi. Sull'ingresso principale era attaccato il cartello "Attenti al cane" e, sotto, qualcuno vi aveva scarabocchiato: "Perché al cane e non al resto?".

Un grande cane seguito da un piccolo uomo s'infilò nella tenuta attraverso il cancello secondario. I due zoppicavano vistosamente: il cane con la zampa anteriore sinistra, l'uomo con la gamba destra. Per la verità l'uomo la gamba destra non l'aveva, perché gli mancava dal ginocchio in giù, e quindi zoppicava su una gamba dì legno che, essendo di due o tre centimetri più lunga della gamba sinistra, gli rendeva il camminare non solo un'impresa, ma una vera e propria tortura.

La notte era buia. La luna, o meglio la mezzaluna, era quasi completamente nascosta dalle nubi. Le due figure indistinte zoppicarono all'unisono lungo il vialetto e, viste da lontano, sembravano un giocattolo tirato da un filo, con le ruote fuori centro. Scelsero la strada più lunga per arrivare alla casa: un percorso tortuoso che attraversava la tenuta toccando alcune delle aree in cui erano sorte le imprese fallite o in via di fallimento.

Il cane guaì e si lamentò, finché il padrone, chinandoglisi sopra rigidamente, gli tolse il guinzaglio. L'animale uggiolò di gioia, fece due piccoli balzi avanti, poi, riprendendo l'andatura zoppa e traballante così simile a quella del padrone, si mantenne a un paio di metri da lui. Ogni tanto sì guardava indietro per controllare che il padrone ci fosse ancora, che tutto andasse bene e che nessun mostro sbucasse dal folto degli alberi per morderli.

Curvo e avvolto in un lungo cappotto scuro nonostante la serata mite, l'uomo percorse con il cane un lungo tratto di viale. Dopo qualche minuto superò, sulla sinistra, l'entrata dello zoo che aveva prosciugato le limitate risorse di Ranting Manor. Erano rimasti ormai pochissimi animali: due capre, un pollo e un capibara, il più grande roditore del mondo. Al momento c'era anche un ospite straordinario, che era stato trasferito temporaneamente lì perché si stava ristrutturando la sua normale gabbia nello zoo di Chatsfield. Desmond - l'ospite si chiamava Desmond - si trovava nel parco da due sole settimane, ma, com'era prevedibile, la sua presenza aveva provocato sensazione nel villaggio di Little Ranting.

Passando accanto all'ingresso dello zoo, l'uomo e il cane si fermarono a guardare e dopo un attimo guardarono di nuovo: il cancelletto di legno, che a quell'ora di notte avrebbe dovuto essere chiuso ermeticamente, era spalancato. Il cane uggiolò e annusò il terreno, che sembrava smosso e calpestato; l'uomo si trascinò fino all'entrata e scrutò nelle tenebre. Gli sparsi casotti erano avvolti nel buio, se si escludeva un'unica, fioca luce proveniente dalla capanna in cui era alloggiato Roy Harrison, il guardiano di Desmond a Chatsfield. Niente pareva fuori posto e nessuna ombra si aggirava furtiva. Come mai allora il cancello era aperto? Forse non significava nulla. Forse

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niente significa nulla, ci avrebbe detto l'uomo se glielo avessimo chiesto. Tuttavia egli chiamò il suo cane con una sillaba rauca e, varcato il cancello, se lo chiuse alle spalle. Poi, con il suo passo lento e strascicato, percorse il viottolo ghiaioso che conduceva all'unica fonte di luce: l'alloggio temporaneo di Roy Harrison.

Tutto sembrava tranquillo. L'uomo bussò forte alla porta e tese l'orecchio: nessuna risposta. Bussò ancora:

niente. Aprì la porta, che non era chiusa a chiave forse perché non c'era motivo di chiuderla a chiave, ed entrò nel piccolo atrio buio. Sentì uno strano odore. Gli alloggi dei guardiani di zoo sono proprio il posto in cui è lecito aspettarsi di sentire una ricca e variegata gamma di strani odori, ma non necessariamente quel particolare odore dolciastro e aromatico. Mah. Il cane guaì piano, pianissimo.

Sulla destra c'era la stanza da cui arrivavano sia la luce che si vedeva dall'esterno sia l'odore che si sentiva all'interno; però tutto appariva tranquillo. L'uomo aprì la porta con cautela.

Sulle prime pensò che la sagoma appoggiata come un sacco di patate al tavolo della cucina fosse priva di vita, ma dopo un lungo, inquieto momento di silenzio la udì lussare piano, con un suono gorgogliante.

Il cane guaì di nuovo e annusò apprensivo il pavimento. Per essere di così grossa taglia, aveva un temperamento fin troppo nervoso e si girava continuamente verso il padrone per essere rassicurato. In effetti era un cane molto strano, di razza - o razze - incerta. Grande e nero, aveva il pelo fitto, il corpo sgraziato e scheletrico e il comportamento ansioso, isterico, decisamente nevrotico. Ogni volta che si fermava, sembrava far fatica a riprendere il cammino, come non ricordasse dove aveva lasciato ciascuna zampa. E dava l'impressione che gli fosse successo o stesse per succedergli qualcosa di orribile.

Il guardiano addormentato continuò a russare. Accanto a sé aveva un mucchio di lattine di birra accartocciate, una mezza bottiglia di whisky e due bicchieri. Nel portacenere c'erano le cicche di tre canne e, sparsi in giro, frammenti di un pacchetto di sigarette stracciato, una bustina di cartine per sigaretta e il classico pezzetto di stagnola accartocciato. Ecco da dove veniva l'odore. Roy aveva fatto chiaramente baldoria con qualcuno e questo qualcuno poi si era chiaramente dileguato. Il visitatore afferrò per le spalle il guardiano e lo scrollò per svegliarlo, ma non ci riuscì. Provò di nuovo, ma Roy scivolò piano di lato e crollò in terra, scomposto e sbavante. Spaventatissimo, il cane corse a rifugiarsi dietro il divano, ma, essendo più grande e pesante del divano, mentre cercava di superarlo d'un balzo lo rovesciò e se lo fece cadere addosso. Con un guaito di dolore si mise a correre sul linoleum del pavimento grattandolo con le zampe e, quando cercò di nascondersi dietro il tavolino da caffè, lo ruppe. Poi, non avendo più mobili dietro i quali nascondersi, si rannicchiò in un angolo a tremare di paura.

Dopo essersi assicurato che Roy fosse solo in un temporaneo stato di squilibrio chimico e non in reale pericolo di vita, il padrone consolò il cane con qualche buona parola e uscì. I due percorsero il viottolo fino al cancello e, tornati sul viale principale, si diressero al palazzo che fin dall'inizio era stato la loro meta. Sul terreno si notavano grosse orme.

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Desmond era sconcertato. All'improvviso tutti gli odori che aveva sempre sentito erano diventati strani, confusi. Intorno gli balenavano luci, ma non gli importava. Le luci non gli importavano proprio. Lampeggiavano, lampeggiavano, e con ciò? L'odore, invece, l'odore era un'altra cosa. Sarebbe stato tentato di dire che aveva le allucinazioni, solo che non conosceva quella parola e anzi non conosceva nessuna parola. Non sapeva nemmeno di chiamarsi Desmond, ma nemmeno questo gli importava. Un nome era solo un suono che arrivava all'orecchio e non aveva il ricco, inebriante afrore del vero essere. Un suono non saliva alla testa e non faceva [unum come un odore. L'odore era vero, dell'odore ci si poteva fidare.

Almeno così era stato fino a quel momento. Ma adesso Desmond aveva l'impressione che il mondo intero si fosse capovolto e si sentiva turbato da questo fatto, turbato che il mondo si comportasse così.

Trasse un respiro profondo per cercare di dare stabilità al grosso corpo. Aspirò dalle sensibili membrane nasali miliardi di minuscole molecole ricche di effluvi.

No, in realtà le molecole non erano così ricche di effluvi. Gli odori erano piccoli odori meschini: odori acri, stantii, insipidi, con il sottofondo pungente di qualcosa di nauseante che veniva bruciato. Desmond non sentiva più il vasto, generoso profumo dell'aria calda che sapeva di erba e letame fresco di giornata, quel profumo il cui solo ricordo bastava a inebriarlo; ma se non altro i piccoli, miseri odori locali avrebbero dovuto conferirgli stabilità, radicarlo maggiormente al terreno.

Non fu così. Hhrrphraaah! Gli pareva di avere dentro la testa due mondi diversi in totale

contraddizione tra loro. Graaaephhh! Che cosa stava accadendo? Dov'era finito l'orizzonte?

Ecco qual era il problema. Ecco perché il mondo sembrava capovolto. Dove di solito c'era un normalissimo orizzonte, c'era adesso qualcosa di molto diverso: un altro mondo, un immenso altro mondo che proseguiva, proseguiva, proseguiva stemperandosi in lontananza in una strana caligine. Desmond sentì crescere dentro di sé profonde, arcane paure. All'improvviso provò il desiderio istintivo di caricare qualcosa, ma non si poteva caricare un'inquietante incertezza. Per poco non inciampò.

Trasse un altro respiro profondo e strizzò piano gli occhi. Haaarh! Il pezzetto di nuovo mondo era scomparso! Dov'era? Dov'era finito? Ah,

eccolo che si dispiegava nuovamente come una grande macchia. Desmond ebbe ancora l'impressione di cadere, ma stavolta fu più svelto a ritrovare l'equilibrio. Stupide lucine. Lucine lucine lucine lampeggianti. Che cos'era quello strano pezzo di mondo? Scrutò incerto le cose davanti a sé, giocandovi sopra con le narici della mente. Quelle luci cominciavano a distrarlo. Chiuse gli occhi per concentrarsi sull'esplorazione, ma appena li chiuse il nuovo mondo, per la seconda volta, sparì. Si chiese sconcertato se ci fosse un nesso tra le due cose, ma operare collegamenti logici tra le cose non era il suo forte.

Cercò di non badarci. Quando riaprì gli occhietti rugosi, vide il nuovo mondo ultraterreno dispiegarsi pian piano nella mente e riprese a esplorarlo.

Era un mondo più selvaggio di quello a cui era abituato e consisteva di sentieri e colline; i sentieri si biforcavano e biforcavano ancora per poi affondare nella terra e diventare valli, mentre i colli si trasformavano in alti monti. L'orizzonte era

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incorniciato da una massiccia catena di montagne e da profondissimi canyon avvolti in mobili nebbie. Desmond si sentì invadere dall'ansia. Operare collegamenti logici tra le cose non era il suo forte, ma non lo era nemmeno l'alpinismo.

Il sentiero era adesso più ampio e pianeggiante, ma appena vi concentrò sopra l'attenzione, provò ancora più ansia.

C'era qualcosa di brutto davanti a lui. Qualcosa di grande e brutto. Qualcosa di ancor più grande e brutto di lui. Desmond strizzò un attimo gli occhi e, per l'ennesima volta, ebbe la spiacevole sensazione di veder scomparire ciò che aveva appena visto. Poi quando, pochi istanti dopo, l'immagine si ricompose nella sua narice mentale, l'impressione di un disastro incombente si intensificò.

Era un tuono quello che si udiva? Desmond non aveva mai avuto paura dei tuoni e non si accorgeva quasi dei lampi,

ma quel tuono gli fece paura. Non avvertì turbolenza e danza di masse d'aria nel cielo, ma solo un'orrida, crepitante esplosione di tenebra. Provò una tal paura che tremò in tutto il massiccio corpo e all'improvviso si mise a correre. Lo strano mondo nuovo si frantumò e sparì. Come un treno in corsa, Desmond galoppò fragorosamente in un turbinio di fioche lucine, mentre una tonnellata di qualcosa, non sapeva esattamente cosa, gli si schiantava accanto. La cosa che si schiantò brillò debolmente emettendo una sorta di boato, ma Desmond vi passò in mezzo e, quando ne emerse, tornò a correre come un treno, sfondando una fragile porta o forse un muro (per lui erano uguali). Adesso era fuori, fuori nell'aria notturna, e calpestava il terreno con le enormi zampe che parevano macigni.

Le cose in giro si allontanavano da lui, gridando. Sempre più forti e sempre più numerose diventavano le grida d'allarme e le urla di terrore alle sue spalle, ma Desmond non se ne curava: pensava solo a immettere nei polmoni l'aria della notte. Anche quell'aria acre e stagnante era meglio di niente, perché almeno era fresca e gli ventilava i polmoni e gli turbinava sulla pelle durante la corsa. Sotto le zampe il terreno era duro; poi, per un attimo, Desmond sentì qualcosa di pungente intorno al collo e si accorse che il suolo era coperto di erba ispida.

Adesso era quasi in cima a un colle. Un vero colle, non una spaventosa allucinazione che nasceva nella sua testa con presagio di morte. Era su un colle circondato da altri colli. Il cielo era senza nubi, ma nero come la pece. Desmond non era interessato alle stelle. Non si potevano odorare le stelle, ma adesso nemmeno le vedeva. Non gli importava: l'importante era che correva sempre più veloce giù dalla collina azionando tutti i muscoli, anche quelli rimasti a lungo inattivi. Braaarrrm! Corri, galoppa, carica, vola, vai a rotta di collo! Sentì altri oggetti pungenti intorno al collo e d'un tratto fu ostacolato nella corsa da tutta quella roba che lo ingombrava. Continuò a procedere con le zampe come macigni e si ritrovò in mezzo a una folla di creature che si sparpagliarono urlando al passaggio del suo enorme corpaccione lanciato nella corsa. L'aria si riempì di quelle urla e del rumore di oggetti che si rompevano tintinnando. Desmond captò strani effluvi: un tanfo di carne bruciata, zaffate inebrianti di qualcosa che dava alla testa, stilettate di muschio disgustosamente dolce. Confuso, cercò di capire che cosa gli accadesse intorno guardando gli oggetti, ma non si fidava molto della vista, da cui apprese poco. Distingueva soltanto ciò che lampeggiava o lo minacciava o girava in tondo. Mentre

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si sforzava di riconoscere le forme che urlavano e scappavano, vide un grande rettangolo di luce dai contorni sfumati. Quello era qualcosa, pensò e, girandosi, lo caricò.

Patatràc! Sentì qualcosa al fianco, qualcosa di umido e spiacevole che gli fece prurito.

Inciampando, piombò in una grande stanza dove fu assalito da una soffocante orgia di odori, urla e vivide luci. Caricò un groviglio di creature urlanti, che strillarono e ruggirono per poi spaccarsi e rammollirsi. Una gli rimase infilzata nel corno e Desmond dovette scuotere la testa per scrollarsela di dosso. Vide davanti a sé un altro grande rettangolo luminoso e, poco oltre, una luccicante distesa azzurra. Si lanciò ancora una volta avanti e, dopo un altro schianto, udì altre urla e altri gemiti. Continuò a correre e si ritrovò ancora una volta all'aria aperta.

La luccicante distesa azzurra era una strana pozza d'acqua con creature urlanti al suo interno. Desmond non aveva mai visto l'acqua scintillare così. Notò di nuovo dei bagliori intermittenti, ma non vi badò, come non badò agli scoppi che accompagnavano ciascun bagliore. Bum, bum, facevano gli scoppi, ma non gli importava. Gli importarono invece un improvviso odore acre e delle fitte di dolore che sentì prima a una spalla, poi all'altra. Alzò una zampa al rallentatore. Ora provava un forte dolore al fianco, un dolore strano e preoccupante; poi si sentì trafiggere da un'altra fitta alla testa e, a poco a poco, il mondo si fece sempre più lontano e insignificante. Nel mondo qualcuno ruggì parole. Desmond cadde lentamente in avanti e piombò tra grandi onde calde, azzurre e luccicanti.

Quando il mondo si allontanò da Desmond, una voce isterica gridò parole incomprensibili per una creatura non umana come lui:

«Chiamate subito un'ambulanza! Chiamate subito la polizia! Non solo quella di Malibu, ma anche quella di Los Angeles! Dite che mandino gli elicotteri! Abbiamo morti e feriti, qui! E dite… non so come prenderanno la notizia, ma… dite che abbiamo un rinoceronte morto in piscina.»

10

Benché fosse penosamente chiaro che a bordo dell'aereo l'attore non c'era e che Dirk era stato depistato di seimila chilometri e novanta cruciali chili con un trucco da bambini, conveniva fare un ultimo controllo. Quando, all'aeroporto O'Hare, tutti i passeggeri cominciarono a scendere, Dirk si piazzò accanto al portello di uscita e guardò la gente così intento, che quasi non si accorse della voce che lo chiamava all'altoparlante invitandolo a recarsi allo sportello informazioni dell'aerolinea.

«Signor Gently?» fece allegra la donna al banco. «Sì…?» rispose cauto Dirk. «Mi può favorire il passaporto?» Dirk glielo consegnò e si dondolò sulla punta dei piedi, aspettandosi grane. «Ecco il suo biglietto per Albuquerque, signore.» «Il mio che?»

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«Il suo biglietto per Albuquerque, signore.» «Il mio biglietto per dove?» «Albuquerque, signore.» «Albuquerque?» «Albuquerque, nel New Mexico, signore.» Dirk guardò il biglietto nella sua custodia come fosse una foglia di rabarbaro di

plastica. «E questo da dove viene?» chiese, prendendolo in mano e leggendo i particolari del volo.

«Da questa macchina che stampa i biglietti, credo» rispose la donna con un grande sorriso da aerolinea e una grande alzata di spalle da aerolinea.

«Il suo computer che cosa dice?» «Dice: "Biglietto prepagato per Albuquerque, New Mexico, intestato al signor Dirk

Gently. Da ritirare". Non aveva intenzione di andare ad Albuquerque, oggi, signore?» «Pensavo di finire in un posto imprevisto, ma non mi aspettavo che questo posto

fosse Albuquerque, ecco tutto.» «Mi pare un'eccellente meta per lei, signor Gently. Buon viaggio.»

E buono lo fu, il viaggio. Dirk ruminò in silenzio sugli avvenimenti degli ultimi

due giorni, organizzandoli mentalmente in maniera non ancora lucida, ma a tratti abbastanza suggestiva. Un meteorite lì, un mezzo gatto là e il filo elettronico di invisibili dollari e imprevisti biglietti aerei che li collegavano. Da qualche parte aveva preso un impegno con qualcuno o qualcosa, qualcosa che lui solo aveva individuato e verso cui era attratto. Ora non lo preoccupava più non sapere chi o che cosa fosse: l'importante era averlo trovato, esserne stato trovato, averne sentito il polso; il volto e il nome sarebbero apparsi a tempo debito.

All'aeroporto di Albuquerque rimase qualche tempo sotto le alte travi dipinte a fissare cartelloni pubblicitari dove bruni esponenti del centro per la lotta alla guida in stato di ubriachezza invitavano chiunque avesse subito danni per un incidente causato dal tasso alcolico a far valere i suoi diritti. Trasse un respiro profondo. Adesso si sentiva bene, nuovamente calmo, in grado di affrontare le folli, micidiali improbabilità che si annidavano sotto l'opaca superficie del mondo narrato, e di parlare la loro lingua. Si avviò senza fretta verso la lunga scala mobile e scese con la solenne lentezza di un re invisibile.

Il suo uomo lo stava aspettando. Lo vide subito: un punto fermo nell'aeroporto brulicante di gente in movimento.

Era un grassone largo e sudato, con una faccia che pareva una tavola mal livellata e con giacca e pantaloni neri che non sembravano della sua taglia. Lo aspettava a un metro dalla scala mobile e guardava in su con aria apatica e insieme enigmatica. Fu una fortuna che Dirk lo notasse subito, perché se fosse stato distratto gli sarebbe probabilmente sfuggito il cartello che l'uomo teneva in mano e che recava la scritta "D. JENTTRY".

Si presentò al tizio. Il tizio disse che si chiamava Joe e che l'auto era pronta davanti all'aeroporto. Dirk lo giudicò un epilogo abbastanza deludente.

L'auto si accostò al marciapiedi; era una Cadillac nera piuttosto vecchia, che

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brillava debolmente tra le luci dell'aeroporto. Dirk la guardò soddisfatto, vi salì e si accomodò con un piccolo grugnito di piacere nel sedile posteriore.

«Il cliente ha detto che le sarebbe piaciuta» disse Joe, guidando abilmente lungo il raccordo di uscita. Data la lunghezza della macchina, la sua voce arrivava da una certa distanza. Dirk guardò la frusta, logora tappezzeria di velluto di cotone blu e la pellicola di plastica tinta che, originariamente applicata al finestrino, si era in parte staccata. Accendendo la tivù vide che era sintonizzata solo sull'elettricità statica, mentre l'impianto asmatico di condizionamento d'aria gli soffiava addosso un vento ammuffito che non era certo meglio dell'aria calda del deserto, fuori.

Il cliente aveva perfettamente ragione. «Il cliente» disse Dirk, mentre la grande auto procedeva veloce lungo la

superstrada poco illuminata che attraversava la città. «Per la precisione, chi è il cliente?»

«Un signore australiano, se ho ben capito» rispose Joe con un tono lamentoso e vicino al falsetto.

«Australiano?» fece stupito Dirk. «Sì, australiano come lei, signore.» Dirk aggrottò la fronte. «Io sono inglese» disse. «Ma australiano, no?» «Perché australiano, scusi?» «Ha l'accento australiano.» «No, non è vero.» «Allora sarà di quel posto.» «Che posto?» «La Nuova Zelanda. L'Australia è in Nuova Zelanda, no?» «Be' no, non proprio, ma capisco che cosa… Cioè, stavo per dire "capisco che cosa

intende dire", ma i realtà non sono sicuro di capirlo.» «Allora di quale parte della Nuova Zelanda è?» «Ecco, direi che è più Inghilterra.» «E l'Inghilterra è in Nuova Zelanda?» «Solo fino a un certo punto» disse Dirk.

L'auto si diresse a nord, lungo l'autostrada che portava a Santa Fé. Il chiarore

lunare illuminava della sua luce magica il deserto. L'aria della sera, data anche l'altitudine, era frizzante.

«È già stato a Santa Fé?» domandò Joe con la sua voce nasale. «No» rispose Dirk. Aveva ormai rinunciato a cercare di condurre con lui una

conversazione sensata e si chiese se non fosse stato scelto come autista proprio per le sue lacune in quel campo. Da tempo cercava alacremente di restarsene immerso nei suoi pensieri, ma Joe provava in continuazione a farlo riemergere.

«Bel posto, questo» continuò Joe. «Proprio bello. Se non verrà rovinato da tutti i californiani che ci si trasferiscono. La chiamano californicazione. Ah, ah! Sa come la chiamano?»

«Californicazione?» azzardò Dirk. «Fanta Se» disse Joe. «Tutti i tizi di Hollywood si stanno trasferendo qui dalla

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California. E stanno rovinando questo bel posto. Specie da quando c'è stato il terremoto là da loro. Ha saputo del terremoto?»

«Be', sì, certo, ho saputo» disse Dirk. «Ne hanno parlato parecchio al telegiornale.» «Sì, è stato un terremoto violento. E adesso tutti i californiani invece di starsene là

si trasferiscono qua. A Santa Fé. E la rovinano. I californiani. Sa come la chiamano?» Dirk sentì l'intera conversazione fare dietro-front e ripiombargli addosso, per cui

cercò di deviarla. «Lei ha sempre vissuto a Santa Fé?» domandò con voce fievole. «Oh, sì» rispose Joe. «Cioè, quasi sempre. Da più di un anno ormai. Sembra

un'eternità.» «E dove viveva prima?» «In California» disse Joe. «Mi sono trasferito qui dopo che mia sorella è stata

beccata da una pallottola durante un drive by.36 Avete i drive by in Nuova Zelanda?» «No» disse Dirk. «A quanto ne so non si pratica in Nuova Zelanda e nemmeno a

Londra, dove vivo. Mi dispiace molto per sua sorella.» «Sì. Si trovava all'angolo di una strada a Melrose quando due tizi sono passati su

una Mercedes ultimo modello con i doppi vetri e, bum!, le hanno sparato. Credo fosse una 500 SEL, la Mercedes, blu scura, molto bella. Dovevano averla piratata. Avete i piratauto nella vecchia Inghilterra?»

«I piratauto?» «Quelli che ti si avvicinano e ti rubano l'auto.» «No, ma grazie d'avermi avvertito. Abbiamo gente che ci pulisce per forza il

parabrezza anche se non lo vogliamo, ma…» «Bah!» fece Joe, con disprezzo. «Il fatto è che a Londra ci si può sicuramente avvicinare a una persona per rubarle

l'auto, ma non si riuscirebbe mai a fuggire» spiegò Dirk. «Un congegno di lusso che viene impiantato in macchina e impedisce di ripartire?» «No, il traffico» disse Dirk. «Senta, ma… sua sorella è riuscita a cavarsela?» «A cavarsela?» gridò Joe. «Se spari a uno con un kalashnikov e quello se la cava,

hai diritto di chiedere i soldi del fucile indietro! Ah, ah!» Dirk cercò di produrre un verso in sintonia con la risata, ma il suono gli si bloccò

in gola. L'auto stava rallentando, così abbassò il finestrino scrostato e guardò il deserto immerso nella notte.

Alla luce dei fari vide per un istante un cartello stradale e gridò di colpo: «Si fermi!».

Si sporse dal finestrino e, appena la macchina si fermò, guardò indietro, in lontananza si vedevano, nel chiarore lunare, i vaghi contorni del segnale.

«Può fare un tratto in retromarcia?» domandò ansimante. «È un'autostrada» replicò Joe. «Sì, certo, ma non abbiamo nessuno dietro, la strada è vuota» disse Dirk. «Solo

poche centinaia di metri.» Brontolando fra sé, Joe ingranò la marcia indietro e pian piano fece arretrare la

lunga auto. 36 In America, il drive by è lo sport delinquenziale praticato da giovani adulti che, a bordo di un'auto, sparano a casaccio alla gente in strada. [N.d.T.]

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«È questo che fanno in Nuova Zelanda, eh?» si lamentò. «Che cosa?» «Guidare a marcia indietro?» «No» disse Dirk. «Ma so che disapprova che, come noi inglesi, i neozelandesi

tengano la sinistra anziché la destra.» «Immagino sia più sicuro tenere la sinistra se siete abituati a guidare a marcia

indietro» disse Joe. «Sì, è molto più sicuro» disse Dirk e, appena l'auto fu ferma, saltò giù. A ottomila chilometri dai suo sgangherato ufficio a Clerkemvell, un cartello

stradale giallo e quadrato, ben illuminato dalla luce dei fanali, diceva a grandi lettere: RAFFICHE DI VENTO e sotto, a lettere più piccole: A VOLTE ESISTONO. La luna, alta nel cielo notturno, vi stava direttamente sopra.

«Joe, chi ha messo qui questo?» gridò all'autista. «Questo cosa?» disse Joe. «Il cartello!» disse Dirk. «Intende questo cartello?» disse Joe. «Sì» disse Dirk. «Raffiche di vento a volte esistono.» «Immagino sia stata l'Azienda nazionale delle strade.» «Che cosa?» fece Dirk, sconcertato. «L'Azienda nazionale delle strade» ripeté Joe, perplesso. «Se ne vedono

dappertutto di cartelli così.» «"Raffiche di vento a volte esistono"?» domandò Dirk. «Lei dice che è un normale

cartello stradale?» «Be', sì» rispose Joe. «Vuole solo dire che questa zona è un po' ventosa. Sa,

quando il vento soffia nel deserto ti sballotta, specie se sei in macchina.» Dirk sbatté le palpebre e d'un tratto si sentì molto stupido. Aveva creduto, un po'

follemente, che qualcuno avesse scritto apposta per lui il nome di un gatto mezzo scomparso sul cartello stradale di una strada del New Mexico. Era assurdo. Chiaramente, il gatto era stato battezzato da qualcuno che aveva visto quel comunissimo segnale stradale americano e se ne era innamorato. La paranoia, pensò, era uno dei normali effetti collaterali del jet lag e del whisky.

Tornò alla macchina tutto mogio. Poi si fermò a riflettere un istante, andò al finestrino del posto di guida e sbirciò dentro.

«Joe, lei ha rallentato mentre ci avvicinavamo al segnale» disse, sperando che a parlare in lui non fossero solo il whisky e il jet lag. «L'ha fatto perché lo vedessi?»

«Oh, no» rispose Joe. «L'ho fatto per via del rinoceronte.»

11

«Sarà il jet lag, ma per un attimo mi è parso di sentirla; nominare un rinoceronte» disse Dirk.

«Sì» fece Joe, schifato. «Già prima, quando sono venuto a prenderla, ho dovuto rallentare a causa del rinoceronte, che proprio in quel momento stava lasciando l'aeroporto.»

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Dirk si ripromise di riflettere prima di dire qualcosa che lo esponesse al ridicolo. Forse c'era una squadra di baseball o una rock band del luogo che si chiamava I Rinoceronti. Sì, doveva essere così. La squadra o band proveniva dall'aeroporto ed era diretta a Santa Fé? Doveva domandarlo.

«Di che tipo di rinoceronte stiamo parlando?» chiese. «Non lo so» rispose Joe. «Non riconosco i rinoceronti come riconosco gli accenti.

Se fosse un accento, le direi di che esatto tipo è, ma siccome è un rinoceronte posso solo dirle che è grande e grigio con un corno in fronte. Viene da Irkutsk o da quella regione, sa, il Portogallo o roba del genere.»

«Intende Africa?» «Forse Africa.» «E dice che è qua in strada davanti a noi?» «Già.» «Allora seguiamolo immediatamente» disse Dirk, risalendo in auto. Joe ripartì. Dirk si protese in avanti nel comparto passeggeri e scrutò, sopra la

spalla dell'autista, il deserto davanti a loro. Dopo pochi minuti vide profilarsi alla luce dei fanali della Cadillac la sagoma di un grosso camion. Era un autocarro verde con un pianale su cui era collocata una grande gabbia coperta da una tela cerata fissata con corde.

«Allora, vedo che prova grande interesse per i rinoceronti» disse Joe in tono colloquiale.

«No, non lo provavo affatto finché non ho letto il mio oroscopo, stamattina.» «E lo ha preso sul serio? Io non lo prendo sul serio. Sa che cosa diceva il mio

stamattina? Diceva che dovevo riflettere a lungo e seriamente sulle mie prospettive personali e finanziarie. Praticamente la stessa cosa che diceva ieri. Certo, è quello che faccio tutti i giorni girando in macchina e quindi in fondo un po' ci prende. Il suo che cosa diceva?»

«Che avrei incontrato un rinoceronte di tre tonnellate di nome Desmond.» «Immagino che vediate delle stelle diverse là in Nuova Zelanda» disse Joe.

«Comunque ho sentito dire che è un sostituto.» «Un sostituto?» «Già.» «Un sostituto di che?» «Del rinoceronte precedente.» «Be', certo non potrebbe essere il sostituto di una lampadina…» ammise Dirk. «E

mi dica: che cosa è successo al rinoceronte precedente?» «È morto.» «Che tragedia. Dove? Allo zoo?» «A un party.» «Un party?» «Già.» Dirk si succhiò il labbro inferiore con aria pensierosa. C'era un principio a cui

amava attenersi quando se ne ricordava: non fare mai una domanda se non si è sicuri di gradire la risposta. Si succhiò anche il labbro superiore.

«Credo che andrò a dare un'occhiata di persona» disse, scendendo dall'auto ormai

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ferma. Il camion verde scuro era accostato alla banchina. I fianchi erano alti poco più di

un metro e una pesante tela cerata era fissata con una corda alla grande gabbia. Il guidatore fumava una sigaretta appoggiato alla portiera della cabina e, essendo responsabile di un rinoceronte di tre tonnellate, riteneva chiaramente che nessuno avesse il diritto di argomentare con lui; ma si sbagliava. I guidatori che a uno a uno cercavano di superare il suo camion gli lanciavano gli insulti più incredibili.

«Bastardi!» Dirk sentì che l'autista bofonchiava quando gli si avvicinò con aria noncurante e si accese una sigaretta per avere la scusa di attaccar bottone. Stava cercando di smettere di fumare, ma teneva sempre un pacchetto in tasca per scopi tattici come quello.

«Sa che cosa non sopporto?» disse al camionista. «Non sopporto quegli adesivi che attaccano nei taxi e che dicono: "Vi ringraziamo di non fumare". Non mi disturberebbe se fosse scritto: "Si prega di non fumare" o anche semplicemente: "Vietato fumare", ma non sopporto quel perbenistico "Vi ringraziamo di non fumare". Ti fa venir voglia di accendere subito una sigaretta e dire: "Non c'è nulla di cui ringraziarmi, perché non intendevo non fumare".»

L'autista rise. «Lo sta portando lontano, il bestione?» chiese Dirk guardando il camion ammirato,

come se lui stesso fosse un camionista esperto che, abituato a trasportare rinoceronti, confrontasse la propria bolla di consegna con quella del collega.

«A Malibu» rispose l'autista. «Per l'esattezza a Topanga Canyon.» Dirk schioccò la lingua come a dire: "Non parlarmi di Topanga Canyon. Una volta

ho dovuto portare un'intera mandria di gnu a Cardiff su un minibus. Se uno cerca guai, quello è il modo migliore per trovarli".

«Dev'essere stato un gran party» disse, succhiando la sigaretta. «Party?» fece il camionista. «I rinoceronti credo siano i peggiori ospiti che possano capitare a un party»

continuò Dirk. «Invitali pure se proprio devi, ma preparati al peggio.» Era convinto che fare domande dirette suscitasse diffidenza nella gente e che convenisse dire incredibili sciocchezze per poi farsi correggere.

«A che si riferisce parlando di "party"?» chiese il camionista. «Al party a cui stava partecipando il vecchio rinoceronte quando è morto» rispose

Dirk, battendosi l'indice contro una pinna del naso. «Partecipando a un party?» fece l'autista aggrottando la fronte. «Non direi che

stesse partecipando a un party.» Dirk alzò un sopracciglio e lo guardò con aria incoraggiante. «È sceso giù da una collina caricando, ha sfondato il reticolato del perimetro,

spaccato le portefinestre di cristallo della villa e corso intorno al salone ferendo diciassette persone; poi è emerso in giardino e, quando qualcuno gli ha sparato, è caduto lentamente nella piscina gremita di sceneggiatori nudi, trascinandosi dietro cinquanta chili di crema di avocado e non so quanta macedonia di non so quale frutta polinesiana.»

Dopo gli uno o due secondi necessari ad assimilare la notizia, Dirk chiese: «Di chi era la villa?».

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«Gente del cinema. Pare che la settimana prima avessero avuto come ospite Bruce Willis. E adesso pensi che macello tra quei muri.»

«È andata male anche al vecchio rinoceronte» disse Dirk. «E ora eccone qua un altro.»

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Da un'intervista del "Daily Nexus" a D.N.A., 5 aprile 2000

Mi chiedo con che macchina arriverà Douglas Adams al caffè. Gli abitanti di Montecito che amano fare una capatina da Pierre Lafond's, in genere arrivano a bordo di un'auto di lusso o, ancor più, di una suv, lo sport utility vehicle che ha una notevole stazza e non è certo a buon mercato. Una normalissima tazza di caffè da Pierre Lafond's costa un dollaro e venticinque e i chicchi, ti dicono, sono stati sottoposti a "tostatura biologica francese". In realtà il caffè ha lo stesso esatto sapore di quello del McDonald's o del fluido organico del carter, ma ai guidatori di suv non sembra importare.

Da Adams mi aspetterei qualcosa di meglio di una suv, Vorrei vederlo uscire da un'astronave oppure materializzarsi all'improvviso, o anche solo camminare. L'autore della Guida galattica per gli autostoppisti è riuscito a rendere la vita, l'universo e tutto quanto molto più divertenti ed è per questo che mi domando in che modo farà la sua apparizione.

Arriva su una Mercedes nera. È alto un metro e novantacinque e ha gli occhi tondi. Non ha avuto una buona

giornata: siccome sua figlia si è ammalata, ha saltato il pranzo ed è riuscito a mangiare solo una brioche alle cinque del pomeriggio. Tuttavia la vita non è stata avara con Adams, che, a quarantanove anni, viaggia in lungo e in largo, ha pubblicato nove libri vendendo oltre quindici milioni di copie e ora sta per veder realizzato il tante volte rimandato film ispirato alla Guida, che sarà prodotto dalla Disney e diretto da Jay Roach, il regista di Austin Powers. Roach ha già firmato il contratto.

«Il film eterno, che da vent'anni era sul punto di essere girato, ora è più che mai sul punto di essere girato» dice lo scrittore. «Vedremo. Vorrei non avere mai avuto l'idea di ricavare un film dalla Guida. Riavrei indietro dieci anni di vita.»

Dopo oltre un decennio di interruzione, ha cominciato a scrivere un nuovo libro. «Sì, ma a un certo punto mi ha terribilmente stufato» confessa. «I miei libri

tendono a consumare idee a un ritmo spaventoso. All'inizio non volevo fare lo scrittore, così decisi di fare molti altri mestieri… Per questo ho una grossa riserva di idee narrative e ora la domanda che mi pongo spaventato è: "Potrò mai realizzarle nel resto della carriera, data la velocità con cui mi assalgono al momento?". L'altro timore è rappresentato dall'eterno problema dello scrittore: concentrarsi sulla scrittura. Credo di avere più paura di scrivere della maggior parte dei miei colleghi.»

Il nuovo libro non appartiene né alla serie Guida galattica, composta da cinque romanzi, né a quella di Dirk Gently, ma, dice, «chiunque conosca ciò che ho già pubblicato riconoscerà lo stile».

«Da dieci anni a questa parte» continua «ho messo insieme molti intrecci diversi che aspettano di essere trasformati in libri. A uno, non so ancora quale, assegnerò il

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titolo di Il salmone del dubbio.» Nel 1990 Adams, assieme allo zoologo Mark Carwardine, scrisse L'ultima

occasione, un saggio sulle specie in estinzione che in libreria è più difficile da trovare degli altri libri, ma che era e resta il suo preferito. Quando oggi parlerà all'università della California a Santa Barbara, l'argomento sarà proprio quello.

«Tengo conferenze in tutto il paese e non vedevo l'ora di tenerne una nel luogo dove vivo» dice lo scrittore, che da due anni si è trasferito a Santa Barbara. «La considero una sorta di presentazione, come a dire: "Eccomi qua".»

Adams, che è abituato a parlare in pubblico, tiene perlopiù conferenze sulla tecnologia presso grandi aziende.

«Preferisco di gran lunga, come oggi, trattare il tema della natura, ma è un tema da università, perché, stranamente, le grandi industrie non amano sentir parlare della salvaguardia delle specie a rischio di estinzione. Le aziende sanno che le specie a rischio di estinzione non fanno guadagnare, ma perdere soldi.»

L'ultima occasione doveva essere, all'inizio, solo un articolo per una rivista del World Wildlife Fund. Adams fu mandato dal WWF nel Madagascar, dove conobbe Carwardine e descrisse l'aye-aye, un lemure notturno a rischio di estinzione che sembra un incrocio tra un pipistrello, una scimmia e un neonato stupito.

«All'epoca si credeva che ce ne fossero solo quindici, poi ne sono stati scoperti altri, per cui non è così terribilmente a rischio come si pensava, ma solo molto, molto a rischio» spiega lo scrittore. «Quel viaggio fu, dall'inizio alla fine, assolutamente magico.»

Così magico che lui e Carwardine passarono l'anno successivo a viaggiare per il mondo in cerca di animali minacciati di estinzione, come i pappagalli kakapo della Nuova Zelanda, che non sanno volare, e i baiji, i delfini che vivono nel fiume Yangtze. Gli ultimi venti baiji si estingueranno quando il governo cinese avrà portato a termine la costruzione della diga delle Tre Gole, distruggendo l'habitat dei cetacei.

«E terribile, non solo perché un'altra specie scompare e l'estinzione in sé è una tragedia, ma anche perché non si capisce per quale motivo gli esseri umani continuino a costruire le fottute dighe» dice Adams con una veemenza che contrasta con il suo pacato eloquio inglese. «Non solo provocano in questo modo disastri ambientali e sociali, ma, con pochissime eccezioni, non riescono nemmeno a ottenere i vantaggi cui in teoria mirerebbero. Guardi il Rio delle Amazzoni, dove hanno insabbiato tutto. E pur vedendo 1 insabbiamento, che cosa fanno? Costruiscono altre ottanta dighe. È demenziale. Dobbiamo avere in corpo geni di castoro o di analogo animale… Bisognerebbe cercare di scoprire l'origine del meccanismo e sopprimerla. Speriamo che il Progetto genoma umano riesca a localizzare il gene del castoro e a eliminarlo.»

Nella Guida galattica per gli autostoppisti, bulldozer intergalattici distruggono la Terra e l'umanità. Un bulldozer di tutt'altro tipo distrusse la specie che un tempo dominava il pianeta. Sessantacinque milioni di anni fa, un asteroide largo una decina di chilometri precipitò nella penisola dello Yucatán, producendo un cratere del diametro di centosessanta chilometri e sollevando una nube di vapori e polvere ardenti. I dinosauri non ressero alla prova.

«Sono ossessionato dall'idea del gigantesco meteorite e dal fatto che a

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quell'impatto dobbiamo la nostra esistenza» dice lo scrittore. «È forse l'evento più drammatico che si sia verificato nel nostro pianeta e certo quello più importante per la vita umana, nel senso che gettò le basi della nostra esistenza. E nessuno era là a guardarlo.»

I meteoriti che uccidono i dinosauri appartengono alla fisica classica. La fisica dei giorni nostri è un po' troppo stravagante per colui che ha scritto che la risposta alla Vita, l'Universo e Tutto Quanto è 42. Nella Guida è un computer a dare questa risposta e Adams sostiene che i computer cambieranno il mondo.

«Prima li abbiamo costruiti grandi come stanze,' poi, via via, di misura adatta a un tavolo, a una valigetta e a una tasca; e presto saranno tanti come granelli di polvere e si potranno spruzzare ovunque. A poco a poco tutto l'ambiente intorno a noi diventerà molto più reattivo e intelligente e il nostro modo di vivere sarà così diverso da quello attuale che noi faremo fatica a capirlo. La mia bambina di sei anni lo capirà, credo, molto meglio di me.»

Adams si è occupato di tante cose - radio, televisione, progettazione di videogiochi - ma non tutte hanno avuto successo.

«Sono le piccole lezioni della vita» osserva. «Sa in che cosa consistono le lezioni della vita? Consistono nel dire: "Hai presente quella cosa che hai appena fatto? Ecco, non farla più".»

«Alla fine di queste molteplici esperienze» continua «credo sia meglio che mi sieda alla scrivania e metta nell'ordine giusto centomila parole.» Tuttavia, aggiunge, scrive «lentamente e faticosamente».

«La gente crede che tu stia seduto in una stanza con aria meditabonda a buttar giù grandi pensieri. Invece siedi in una stanza con aria spaventata e speri che non ti abbiano ancora messo una guardia alla porta.»

Nei prossimi anni, intanto che sua figlia cresce, probabilmente si dedicherà ai libri. «Si è detto in giro che avrei curato una grande serie di documentari televisivi,

invece penso che aspetterò che mia figlia cresca, che arrivi al periodo in cui sarà bombardata dagli ormoni dell'adolescenza. Allora scapperò come un fulmine. Appena Polly compirà tredici anni me ne andrò, curerò una grande serie di documentari e tornerò dopo che sarà diventata una persona civile.»

L'intervista finisce quando Adams risponde al cellulare che gli squilla in una tasca. Nell'altra tasca tiene un oggetto che ha tutta l'aria di appartenere a sua figlia: un pezzetto di cotone imbottito con sopra ricamata una giraffa rossa. Sua moglie e la bambina sarebbero dovute volare a Londra, stasera, ma a Polly è venuta un'infezione a un orecchio, "un'infezione seria".

Così lo scrittore si congeda, risale a bordo della Mercedes nera e corre a casa dalla figlia.

Intervista condotta da Brendan Buhler di "Artsweek"

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Epilogo

Questo è un lamento funebre per Douglas Adams, il famoso autore della Guida galattica per gli autostoppisti, morto di infarto venerdì, all'età di quarantanove anni.

Questo non è un necrologio; ci sarà tutto il tempo per i necrologi. Non è nemmeno un omaggio, la meditata lode di una vita brillante, insomma un elogio funebre. È un lamento, scritto a troppo poca distanza dal fatto per essere equilibrato, per essere ragionato. Douglas, non puoi essere morto.

Un venerdì di maggio, alle sette e dieci di una mattina di sole, scendo dal letto e guardo come di consueto la posta elettronica. Do un'occhiata ai soliti titoli in neretto - perlopiù spazzatura, ma anche una notizia attesa da tempo - e li seguo distrattamente facendo scorrere la pagina. Appena leggo il nome "Douglas Adams" sorrido: questa lettera, se non altro, mi farà ridere. Poi ho la classica reazione a scoppio ritardato e guardo meglio lo schermo.

Che cosa dice in realtà l'"oggetto" dell'e-mail? Douglas Adams è morto di infarto poche ore fa. E allora ho un'altra reazione tipica: vedo le parole ingigantirsi davanti ai miei occhi.

Non può essere vero; deve trattarsi di un altro Douglas Adams. È troppo assurdo per essere vero: evidentemente sto ancora sognando. Apro il messaggio, che proviene da un noto programmatore di software tedesco. No, non è uno scherzo e io sono sveglissimo. E si tratta proprio del Douglas Adams giusto, o meglio sbagliato. È stato colto all'improvviso da infarto in una palestra di Santa Barbara. "Oh, Signore, Signore, Signore" conclude la lettera. Signore, già. Un signore, un uomo; e che uomo. Un robusto gigante vicino ai due metri, che non stava curvo come gli uomini alti afflitti dal complesso dell'altezza, ma non si dava neppure le arie da maschio tracotante tipiche di certi colossi che intimidiscono i più bassi di loro. Non si scusava né si gloriava del proprio metro e novantacinque. Come su tante altre caratteristiche personali, ci scherzava su.

Con il suo sofisticato umorismo basato su una conoscenza profonda della letteratura e della scienza, che in lui si compenetravano (e che sono, tra l'altro, due miei grandi amori), Adams è stato un grande della nostra epoca. Inoltre fu lui a presentarmi, alla festa per il suo quarantesimo compleanno, quella che poi sarebbe diventata mia moglie.

Suo coetaneo, aveva lavorato con lei a Doctor Who. Devo darle la notizia adesso o lasciarla dormire ancora un poco, prima di farla piangere? Fu lui a favorire la nostra unione, nella quale ha continuato ad avere un ruolo importante. Bisognerà che le dia la notizia subito.

Douglas e io ci conoscemmo perché, di mia spontanea volontà (cosa che ho fatto un'unica volta nella vita), gli scrissi una lettera di ammirazione. Mi era piaciuta

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moltissimo la Guida galattica per gli autostoppisti. In seguito lessi L'investigatore olistico Dirk Gently. Appena lo ebbi finito, tornai alla pagina uno e lo rilessi tutto, ciò che non avevo fatto per nessun altro libro, e scrissi ad Adams per dirglielo. Rispose che ammirava i miei saggi e mi invitò a casa sua a Londra. Raramente ho conosciuto uno spirito più affine del suo. Mi aspettavo naturalmente che fosse spiritoso, ma non sapevo che avesse una notevole cultura scientifica. Tuttavia avrei dovuto intuirlo, perché non si possono capire molte delle battute della Guida se non si è aggiornati sui più recenti studi in svariati settori della scienza. In informatica, poi, era un vero esperto. Parlavamo moltissimo di scienza non solo in privato, ma anche in pubblico: ai festival letterari, alla radio, alla televisione. E divenne il mio guru per tutti i problemi tecnici. Anziché arrabattarmi su un manuale scritto in un orrido, incomprensibile inglese della Corea o di Taiwan, spedivo un'e-mail a Douglas. Che si trovasse a Londra, a Santa Barbara o in una stanza d'albergo di qualche località del mondo, spesso rispondeva nel giro di pochi minuti. Diversamente dagli operatori dei numeri verdi di assistenza tecnica, Douglas capiva subito il mio problema, sapeva con precisione perché mi disturbasse e aveva sempre la soluzione pronta, che mi illustrava con lucidità e humour. La nostra fitta corrispondenza elettronica traboccava di battute su scienza e letteratura e di piccole digressioni affettuosamente ironiche. Era senza dubbio tecnofilo, ma aveva anche un forte senso del paradosso. L'intero mondo era per lui un grande sketch dei Monty Python, e le follie dell'umanità gli parevano non meno comiche nelle silicon valley che altrove.

Con altrettanta allegria rideva di se stesso. Rideva per esempio dei suoi epici blocchi dello scrittore («Amo le scadenze. Amo il loro sibilo quando mi sfrecciano accanto»), a causa dei quali, narra la leggenda, l'editore e l'agente letterario lo chiudevano a chiave in una stanza d'albergo con il materiale per scrivere e non gli concedevano né il telefono né altre distrazioni, a parte una passeggiata compiuta sotto sorveglianza. Quando si lasciava trascinare dall'entusiasmo e formulava un'ipotesi biologica troppo eccentrica perché io, con il mio scetticismo professionale, la accettassi, dopo che gliela avevo smontata non si scoraggiava, ma faceva commenti autoironici; e in seguito tornava alla carica.

Rideva delle sue stesse battute, cosa che un bravo comico non dovrebbe fare, ma ne rideva in maniera così simpatica che le battute diventavano ancora più divertenti. Sapeva prendere in giro con garbo, senza ferire, e in genere il suo umorismo aveva come bersaglio non tanto gli individui, quanto le loro assurde idee. Per sottolineare ad esempio quanto sia ridicolo che gli esseri umani, sentendosi ben adattati all'universo, credano che l'universo sia stato creato per loro, ricorreva all'esilarante similitudine della pozzanghera, la quale, trovandosi in uno splendido buco adatto a lei, si convince che quel buco sia stato, per motivi soprannaturali, creato apposta per contenerla. Si divertiva anche molto a raccontare una parabola la cui morale non ha bisogno di spiegazioni. Un uomo ignaro del funzionamento della televisione crede che all'interno dell'apparecchio ci siano vari ometti che manipolano le immagini ad alta velocità. Un ingegnere gli spiega tutto sulle onde di alta frequenza nello spettro elettromagnetico, gli apparati trasmittenti, gli apparati di ricezione, gli amplificatori, í tubi catodici e le linee di scansione che si muovono lungo lo schermo fosforescente. L'uomo lo ascolta con grande attenzione, annuisce a ogni chiarimento e infine si dichiara soddisfatto di

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sapere una buona volta come funziona la televisione. Ma, conclude: «Quattro o cinque ometti ci saranno ancora li dentro, no?».

La scienza ha perso un amico, la letteratura ha perso un grande, i gorilla di montagna e i rinoceronti neri hanno perso un coraggioso difensore (una volta è andato sul Kilimangiaro con un costume da rinoceronte addosso per raccogliere fondi per combattere l'assurdo traffico di corni), la Apple Computers ha perso il suo più eloquente apologeta. E io ho perso un insostituibile compagno intellettuale e uno degli uomini più buoni e spiritosi che abbia conosciuto in vita mia. Il giorno in cui Douglas è morto, ho ricevuto in via ufficiale una buona notizia che lo avrebbe rallegrato. In via ufficiosa l'avevo già appresa, ma non mi era permesso dirla a nessuno nelle settimane precedenti, e adesso che la posso annunciare, è troppo tardi.

Il sole splende, la vita continua, si coglie l'attimo fuggente e via con i cliché. Oggi pianteremo un albero, un abete Douglas alto, diritto, sempreverde. È il

periodo sbagliato dell'anno, ma faremo del nostro meglio perché venga su rigoglioso. Andiamo dunque al vivaio.

Richard Dawkins "The Guardian" 14 maggio 2001

(Richard Dawkins è titolare della cattedra Charles Simonyi di Comunicazione della scienza all'Università di Oxford)

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Douglas Adams 1952-2001 Programma della funzione in sua memoria

Corali Schübler di Johann Sebastian Bach

Le choeur des bergers da L'enfance da Christ, di Hector Berlioz

Discorso di benvenuto del reverendo Antony Hurst a nome della parrocchia di St Martin-in-the-Fields

Introduzione e preghiera di apertura di Stephen Coles

JONNY BROCK

Drei Könige wandem aus Morgenland di Peter Cornelius

ED VICTOR

Mine eyes have seen the glory of the coming of the Lord Canto tradizionale americano.

Testo e musica di Julia Ward Howe

MARK CARWARDINE

Gone Dancing

ROBBIE MCINTOSH

Te fovemus (di P. Wickens)

The Chameleon Art Chorus

JAMES THRIFT, SUE ADAMS, JANE GARNIER

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Rockstar Margo Buchanan

Preghiere di Thanksgiving di Stephen Coles

Holding On Gary Brooker

Wish You Were Here David Gilmour

RICHARD DAWKINS

For the beautry of the earth Musica di Conrad Kocher

testo di Folliott S. Pierpoint

ROBBIE STAMP

Vergnügte Ruh, beliebte Seelenlust dalla Cantata BWV 170

di J.S. Bach

Aria

Vergnügte Ruh! beliebte Seelenlust! Dich kann man nicht bei Höllensünden, Wohl aber Himmels eintracht finden; Du stärkst allein die schwache Brust, Vergnügte Ruh! beliebte Seelenlust!

Drum sollen lauter Tugendgaben In meinem Herzen Wohnung haben.37

SIMON JONES

For all the Saints who from their labours rest Musica di R. Vaughan Williams

testo di William W. How

Benedizione del reverendo Antony Hurst

37 Dolce riposo, amato desiderio dell'anima, / non ti sì trova tra i peccati dell'inferno, / ma nell'armonia del Cielo; / tu solo fortifichi il cuore debole, / dolce riposo, amato desiderio dell'anima. / Perciò solo i doni della virtù / dimoreranno nel mio cuore. [N.d.T.]

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Musiche per organo di Johann Sebastian Bach Concerto italiano di J.S. Bach

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Ringrazio:

Douglas, che tanto mi manca e senza il quale non avremmo avuto il grande piacere di leggere queste pagine;

Jane Belson, sua adorata moglie, senza il cui sostegno e senza la cui ferma fiducia nella bontà dell'operazione di recupero il libro non sarebbe potuto uscire;

Ed Victor, da molti anni agente letterario e fidato amico di Douglas, che con la sua intelligenza e la sua devozione ha dato un contributo diretto ed essenziale alle pagine;

Chris Ogle, l'amico intimo di Douglas che, conoscendo bene sia l'informatica sia i processi mentali, le password e il sistema dì archiviazione dell'autore della Guida galattica, ha potuto mettere insieme il CD-ROM di tutta l'opera da cui è stato tratto questo libro;

Robbie Stamp, buon amico e socio d'affari di Douglas, che ha proposto di ricalcare la struttura ideata da Douglas per il suo sito web e di dividere il volume in tre sezioni;

Shaye Areheart e Linda Loewenthal della Harmony Books, che mi hanno coinvolto nel progetto, Bruce Harris, Chip Gibson, Andrew Martin, Hilary Bass e Tina Constable, che hanno pubblicato Douglas e gli hanno voluto bene, e Peter Strauss e Nicky Hursell, che in Gran Bretagna mi hanno dato preziosi consigli-editoriali;

Mike J. Simpson, ex presidente dello ZZ9, il club ufficiale dei fan di Douglas Adams, che con la sua generosità e la sua enciclopedica conoscenza della vita e dell'opera dello scrittore mi è stato prezioso;

Patrick Hunnicutt, che mi ha aiutato a Chapel Hill, nel North Carolina, e Lizzy Kremer, Maggie Philips e Linda Van che mi hanno aiutato a Londra nell'ufficio di Ed Victor;

le riviste, i giornalisti e gli amici che, generosamente, mi hanno fornito il materiale in loro possesso riguardante Douglas, permettendomi di pubblicarlo;

Isabel, la mia compagna; i miei figli Sam e William, che, come molti altri giovanissimi, hanno letteralmente

divorato i libri di Douglas; tutti i lettori di Douglas. Com'è noto, l'affetto che egli provava per loro era (ed è

tuttora) ricambiato. Chiunque desideri altre informazioni su Douglas Adams e le sue opere, può

visitare il sito ufficiale www.douglasadams.com. Chiunque voglia iscriversi o anche solo informarsi su ZZ9 Plural Z Alpha, il club

dei fan della Guida fondato nel 1980, può visitare www.zz9.org. Douglas Adams dava contributi a due istituzioni senza scopo di lucro: il Dian

Fossey Gorilla Fund (www.gorillas.org) e Save the Rhino International (www.aaa.comwww.savetherhino.org).

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Douglas Adams di Laura Serra

Nato il marzo 1952 a Cambridge, Douglas Adams apparteneva anagraficamente alla generazione dei "contestatori", come si chiamavano nei primi anni Settanta i giovani che criticavano la società e andavano in autostop a Katmandu ad allargare le soglie della coscienza con erba o hashish. Lui, nel 1971, fece qualcosa di meno o di più, secondo i punti di vista: andò nell'Europa continentale, la quale dopotutto, per un inglese, è pur sempre una terra aliena, e anziché allargare la coscienza cercò di ottunderla tracannando birra in quantità industriali. Aveva con sé, in quel viaggio, la Hitch Hiker's Guide to Europe di Ken Walsh, destinata a lettori ancora più pezzenti di quelli di Europe on Five Dollars a Day di Arthur Frommer, capitalisti con ben cinque dollari in tasca, e cercò, per mangiare e dormire, luoghi ancora più pulciosi delle locande nepalesi o indiane. Scroccò panini facendo il giro turistico delle fabbriche di birra in Germania e sbarcò il lunario curando giardini di orfanotrofi in Italia. A volte era così ciucco da non riuscire a vedere in Venezia niente di speciale e da ammirare, agli Uffizi di Firenze, più le toilette dei quadri. Altre, nel suo stato di alterazione, ebbe vere e proprie epifanie, come quando, a Innsbruck, crollò sbronzo su un prato e, contemplando le stelle, pensò: "Se ci fosse sul mercato una Guida galattica per gli autostoppisti, partirei a razzo". Più procedeva verso sud, più le tenebre mentali diventavano fitte intestinali, finché a Istanbul, mangiando cibo avariato, si beccò la dissenteria. Stava così male che non poteva più viaggiare in autostop ed era così al verde che non poteva pagarsi il biglietto del treno. Una signora svizzera dal cuore d'oro come l'astronave di Zaphod si commosse per la sua ordalia e gli pagò il biglietto di ritorno a Ostenda, permettendogli di trascorrere le ore abbracciato, anziché alla ragazza con cui viaggiava, alla porta del gabinetto del treno. Per finire, il ferry-boat che lo riportava in Inghilterra rischiò il naufragio.

Fu un Grand Tour indimenticabile; eppure, per sei anni Adams se ne dimenticò. Si laureò in inglese a Cambridge, cominciò a suonare la chitarra, continuò ad amare Bach e i Beatles, scoprì i Monty Python e scrisse sketch nel loro stile; ma, non trovando nessuno interessato all'idea letteraria che gli stava nascendo in testa, quella di coniugare fantascienza e comicità, piombò nella depressione e accettò lavori di ripiego, come fare la guardia del corpo e pulire pollai.

A salvarlo dalle brume della sfiducia fu Simon Brett, produttore radiofonico della Bbc, che nel 1977 giudicò interessante la commistione di fantascienza e umorismo e concepì una trasmissione radiofonica in quella chiave. Fu allora che Douglas si ricordò del suo giro d'Europa e della Guida di Ken Walsh, dove spesso le informazioni non corrispondevano alla realtà, i dati non erano mai aggiornati e le imprecisioni abbondavano. Fu allora che ripensò al momento in cui aveva desiderato

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prendere un razzo per altri pianeti. "All'epoca ero piuttosto scontento del mondo e avevo elaborato sei diversi intrecci, in ognuno dei quali la Terra veniva distrutta in un modo e per un motivo diversi" avrebbe ricordato in seguito.

Ebbe la meglio il plot di una Terra da distruggere per fare posto a un'autostrada iperspaziale e il titolo, che inizialmente era The Ends of the Earth, diventò The Hitch Hiker's Guide to the Galaxy. Il primo episodio fu trasmesso "alle dieci e mezzo di sera di mercoledì 8 marzo 1978, dopo un colossale non-battage. I pipistrelli udirono con i loro ultrasuoni il clamore pubblicitario. Quattro gatti miagolarono". Ma anche alcuni topi (i padroni dell'universo) e alcuni esseri umani dovettero ascoltare, perché qualche settimana dopo arrivarono delle lettere e qualche mese dopo un editore, la Pan Books, chiese a Douglas di trarre dal serial un libro. Lui nicchiò - è diventata leggenda la fatica con cui partoriva le opere - ma alla fine, nel 1979, produsse The Hitch Hiker's Guide to the Galaxy in formato romanzo {Guida galattica per gli autostoppisti, "Urania" n. 843, 1980, e "Piccola Biblioteca Oscar" n. 205, 1999), che finì subito al primo posto nella lista dei bestseller del mass market e vi rimase a lungo.

Il resto è storia; ma forse è utile riassumere che cosa contenevano i cinque libri ispirati alle trasmissioni in base ai dati forniti dallo stesso Adams nell'Introduzione all'edizione Omnibus del ciclo, uscita nel 1986 nel Regno Unito e nel 2000 in Italia da Mondadori. The Hitch Hiker's Guide comprendeva, ampliati, i primi quattro episodi radiofonici; The Restaurant at the End of the Universe, pubblicato in Gran Bretagna nel 1980 (Ristorante al termine dell'Universo, "Urania" n. 968, 1984, e "Piccola Biblioteca Oscar Mondadori" n. 298, 2002), sviluppava il tema della quinta puntata radiofonica; Life, the Universe and Everything, del 1982 (La vita, l'universo e tutto quanto, "Urania" n. 973, 1984, e "Piccola Biblioteca Oscar Mondadori" n. 306, 2003), "non si ispirava ad alcuno degli episodi radiofonici o televisivi e, anzi, contraddiceva nettamente le puntate 7, 8, 9, 10 e 12 del programma radio"; So Lung, and Thanks for All the Fish, uscito nel 1984 (Addio, e grazie per lutto il pesce, "Urania" n. 1028, 1986), "non solo smentiva tutto quanto era stato detto fino ad allora ma si contraddiceva da solo"; e Mostly Harmless, del 1992 (Praticamente innocuo, "Urania" n. 1209, 1993), condensava nel titolo il ritorno alle origini, al prato austriaco in cui un giovane stoppista britannico aveva dormito sotto le stelle con la consapevolezza che, in fondo, la Terra era un pianeta migliore di Kakrafoon.

In Italia, nel 1980, la Guida galattica per gii autostoppisti vendette una decina di migliaia di copie, mentre nei paesi anglofoni l'originale si rivelò un "gotto esplosivo pangalattico" che superò la quota dei quattordici milioni di copie. Forse lo humour anglosassone di Adams, tra Lewis Carroll e i Monty Python, spiazzò sul momento il lettore italiano; ma a quasi un quarto di secolo di distanza l'avventura di Ford Prefect e Zaphod Beeblebrox si è trasformata in un libro di culto e in un piccolo longseller. Il fatto che resista negli anni ne dimostra la qualità; e la qualità è data dal fatto che, a monte dell'apparente leggerezza, c'è un immenso lavoro. Lavoro linguistico, lavoro umoristico, lavoro filosofico: una quest che è raro trovare nei testi americani, salvo forse in Robert Sheckley, del cui umorismo surreale, come scrissero Carlo Fruttero e Franco Lucentini nel "corredino" consegnato nel 1980 alla redazione di "Urania", Adams si poteva considerare l'erede. Entrambi sono scettici, iconoclasti, strapazzatori

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di luoghi comuni. Entrambi si fanno beffe delle credenze, dei tic, delle mitologie umane.

Con il tempo Douglas Adams si è appassionato sempre più alla scienza su cui un tempo ironizzava, soprattutto all'informatica e all'ecologia, tanto da dichiarare che se fosse potuto tornare indietro non avrebbe più scelto lettere all'università, ma biologia. È andato in Kenya travestito da rinoceronte per sostenere la causa dei rinoceronti ed è volato in Madagascar a studiare i lemuri per scrivere, con lo zoologo Mark Carwardine, il saggio L'ultima occasione (1990). Ha scritto sempre meno e tenuto sempre più conferenze. Si è sposato, ha avuto una figlia, Polly, si è trasferito negli Stati Uniti per scrivere la sceneggiatura di un film tratto dalla Guida che non è stato mai realizzato. E forse è diventato, come insinuano i lettori nel Salmone del dubbio, un voltagabbana.

"Vent'anni fa'' spiega rintuzzando le critiche "nella Guida galattica per gli autostoppisti diventai famoso facendomi beffe della scienza e della tecnologia: robot depressi, ascensori poco collaborativi, porte con interlacce utente ridicolmente loquaci… Oggi invece sembro essere diventato uno dei più accesi fautori della tecnologia. Due cose vorrei sottolineare. Primo, mi chiedo se non stiamo esagerando con la comicità… Oggi tutti fanno i comici, anche le annunciatrici e le ragazzone che leggono le previsioni meteorologiche. Ridiamo di tutto. Non più in maniera intelligente, non più per lo shock improvviso della battuta illuminante che induce stupore e comprensione, ma in maniera stupida, implacabilmente stupida… Il fermento creativo si è trasferito altrove, in ambito scientifico e tecnologico, dove vi sono nuove concezioni, nuovi modelli dell'universo, nuove, continue scoperte in merito al funzionamento della vita, del pensiero, delle percezioni e delle comunicazioni."

C'è dunque un tempo anche per non ridere più, perché la realtà è troppo idiota e volgare. Se poi la scienza e la tecnologia salveranno davvero la creatività, resta da vedere. Certo Adams, anche volendo, non lo potrà verificare, perché l'11 maggio 2001 è morto di infarto. Come potranno constatare i lettori, Il salmone del dubbio, che è stato strappato alla memoria del suo computer come Minerva alle meningi di Giove, dice molto sulla vita, la mente critica e il coraggio laico dello scrittore. E, in un contesto in cui "tutti fanno i comici", ristabilisce le gerarchie, giacché, sia nella parte saggistica sia nel romanzo incompiuto, diverte con grazia, contesta con sapida coscienza, suscita il riso "per lo shock della battuta illuminante che induce stupore e comprensione".

Laura Serra