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MANLIO TRUCCO
AVVENTURE E DISAVVENTURE
DI UN MANGIANUVOLE
(1884-1967)
Libro per i giovani e gli adulti (a cura di M.Cassini e L.Ziller)
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INDICE
INTRODUZIONE 2
IL MANOSCRITTO 8
PREFAZIONE 11
INFANZIA 12
IN TERRA AMERICANA – BELEM 17
RITORNO A GENOVA (1892) 26
DI NUOVO A BELEM 29
SOLO 43
DI NUOVO A GENOVA 48
FIRENZE (Periodo fiorentino) 59
RENTRO A GENOVA-ESPERIENZA MILITARE 74
FIRENZE (Secondo periodo fiorentino) 80
CORNELIA 84
IN TERRA MESSICANA 93
AVVENTURE E DISAVVENTURE DI UN GENOVESE A NEW YORK 106
DALLE IMMAGINI SU TELA ALLE IMMAGINI IN CELLULOSA 120
ALL’OMBRA DELLA TOUR EIFFEL (Periodo parigino) 131
DI NUOVO A GENOVA 148
IL VOLO DELLA FENICE 159
COMMIATO 168
In Appendice:
ALBUM FOTOGRAFICO PERSONALE
I LUOGHI
INCONTRI LUNGO LA VIA
GALLERIA DI QUADRI
CERAMICHE DIPINTE
ARREDAMENTO
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INTRODUZIONE
E’ opinione comune che pittori, scrittori, scultori, scienziati, gli artisti tout court, siano
persone strane, estrose, imprevedibili. Ricordo di aver letto che Balzac amava sfoggiare
cavalli, carrozze, domestici in livrea; che aveva la mania di arredare sfarzosamente la sua
casa in Rue Cassini; di lavorare di notte avvolto in una casacca bianca di cachemire, con la
caffettiera di porcellana sempre a portata di mano. Ricordo Oscar Wilde che si fece
conoscere per le sue stravaganze: era solito passeggiare in Piccadilly tenendo in mano ora un
giglio ora un girasole, finendo in tal modo tra le caricature del giornale ‘Punch’.
Ricordo pure parte di una lettera che Machiavelli scrisse all’amico Francesco Vettori:
“Venuta la sera, mi ritorno in case, et entro nel mio scrittoio; et in su l'uscio mi spoglio
quella veste cotidiana, piena di fango et di loto, et mi metto panni reali et curiali; et rivestito
condecentemente entro nelle antique corti degli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto
amorevolmente, mi pasco di quel cibo, che solum è mio, et che io nacqui per lui”.
Forse per una sorta di mimesi, ma lungi dal paragonarmi a loro, anch’io non di rado seguo
simili orme. Ad esempio, adesso, mentre scrivo, la notte è nel suo pieno vigore (sono le
quattro del mattino) e tutto è silente. Davanti a me ci sono due quadri, un libro dalla
copertina cartonata in color marroncino chiaro, anonima, e un catalogo edito a cura
del Comune di Albisola.
Da uno dei due quadri il volto grazioso di una giovane india della fiera tribù dei Tupinambà
mi sorride. Gli occhi vivi, scuri, i capelli color ebano, le spalle nude e la pelle di un color
bronzeo, la bocca socchiusa che mostra denti bianchissimi che splendono su quel volto
sorridente e una collana di perline attorno al collo dona un tocco civettuolo alla sua figura di
adolescente. In fondo al quadro una firma: M.Trucco.
L’altro quadro è totalmente diverso. Un paesaggio: alberi e vegetazione mediterranea
contornano una casetta bianca. Non c’è firma ma so di chi è perché fu il pittore Manlio
Trucco a donarmela. “E’ un abbozzo, - mi disse - una prova che ho fatto su un una tavoletta
di legno. Forse in seguito riprenderò il soggetto”. Per questo non l’aveva firmata. Non si
firmano gli “appunti” o gli “abbozzi” ma solo l’opera finale.
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Il libro dalla copertina marroncino in similpelle, non presenta titolo alcuno. E’ solo
accuratamente rilegato. Aprendolo, ci si accorge che manca anche il frontespizio. C’è solo
una dedica scritta a penna: “Ai cari amici Ida e Ernesto Ziller con affetto. M.Trucco). Me lo
ha consegnato per una lettura il figlio degli Ziller, che da bambino fu il pupillo dei coniugi
Trucco i quali, non avendo figli, riversarono su di lui le loro attenzioni e al quale il pittore-
ceramista insegnò a costruire minuscole figurine in coccio, rappresentanti personaggi
da presepio.
Le pagine sono tutte dattiloscritte accuratamente e corrette qua e là da Trucco.
Voltata la pagina con dedica, si entra subito in argomento. Una breve introduzione inizia
con: ”Mi accingo a scrivere per voi, cari amici, il racconto della mia lunga, tumultuosa vita.”
E che termina con la frase “”Mi limiterò, quindi, a raccontarvi semplicemente, ma con
sincerità, cosa ho visto e cosa ho fatto nel mio passato”.
Un’autobiografia quindi, un genere che nell’editoria dei primi del Novecento era molto in
voga specie tra gli artisti (scrittori, pittori, scultori, poeti, drammaturghi...) ed nel quale il
lettore entra in punta di piedi, e, col permesso dell’autore, si trova di fronte ad una privacy
che viene volutamente aperta a tutti. Ipotizzo che in Manlio, quando, nel 1967, cominciò a
scriverlo, ci fosse la speranza di sopravvivere dopo la morte non solo per i suoi quadri, ma
anche attraverso le vicende della sua vita. Parafrasava in tal modo una frase di Foscolo: “Sol
chi non lascia traccia di sé poca gioia avrà nell’urna”.
L’ultimo oggetto è un catalogo dal titolo MANLIO TRUCCO. 1884-1974. Ceramiche,
mobili, dipinti, disegni, a cura di Liliana Ughetto cui si devono gli interventi più
interessanti rivolti a tutta l’opera del pittore ligure, in particolar modo alla sua biografia. Solo
nel suo lungo, accurato, documentato e puntiglioso intervento della curatrice ho potuto
conoscere il titolo che Trucco diede alla sua autobiografia. In una fotografia a pagina 9 è
riprodotta la foto di un manoscritto che reca la scritta: Manlio Trucco: Vita di un
mangianuvole diventato poi Memorie di un mangianuvole.
A mio avviso il saggio della Ughetto è la più documentata e interessante analisi della vita di
Manlio Trucco, intessuta da brani tratti dal mss., inseriti in capitoli che comprendono :
Tempo d’infanzia; Genova; Il viaggio; Parigi; Le arti decorative: La ceramica;
L’interesse per il primitivo; Fortuna diseguale. Un nuovo clima per le arti
applicate; Manlio Trucco progettista di mobili; L’esperienza della ceramica, Manlio Trucco
pittore; Compagni di strada. Le raccolte del “Museo Trucco” e gli artisti della Fenice. Un
saggio completo su un autore e su tutta la sua opera.
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Manca però qualcosa, non nel saggio della Ughetto: manca la possibilità al visitatore del”
Museo Trucco” di poter leggere nella sala sottostante, dove è ubicata la Biblioteca
Civica, le pagine autobiografiche del pittore.
Il manoscritto Vita di un mangianuvole o Memorie di un mangianuvole non ha mai avuto
la fortuna di passare sotto i torchi di una tipografia;
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“Le memorie nacquero “inizialmente dattiloscritte – scrive Liliana Ughetto- quindi
sottoposte a una prima revisione, furono riscritte con l’aiuto della pittrice [ceramista] Ida
Ziller e poi di nuovo dattiloscritte. Dovevano intitolarsi Vita di un mangianuvole , quindi
Avventure e disavventure di un mangianuvole, sottotitolate da ‘Libro per i giovani e per gli
adulti’. L’ultima versione - Memorie di un mangianuvole è senz’altro la più fedele
all’importante ruolo giocato dalla memoria nella sua vita”(pag.134)).
Purtroppo il dattiloscritto è rimasto tale, noto in pochissime copie, che solamente alcuni
privilegiati hanno avuto la fortuna di leggere nella sua interezza eseguendo passo dopo
passo, il percorso che dalla natia Genova portò Manlio Trucco a Belem, nello stato
brasiliano del Parà, lungo il Rio delle Amazzoni, nel Messico, a New York, a Parigi dove
conobbe Modigliani, Arturo Martini, i fratelli Cominetti Apollinaire, Max Jacob, Gino
Severini e il famoso Paul Poiret, gran maestro della “haute couture” per il quale creò motivi
per la stampa di seterie e arredamento e dove, nel 1915, in una mostra da Goupil espose
alcune sue opere a fianco di quelle di Modigliani e di Matisse ..., per ritornare poi a Genova
e , infine, stabilirsi ad Albisola dove creò la sua ultima creatura: il laboratorio di ceramica
artistica la “Fenice”.
Manlio Trucco morì il 15 novembre del 1974 a distanza di undici mesi dalla conclusione
della sua autobiografia. E’ sepolto nel Cimitero della Pace di Albisola Superiore, in una
tomba a fianco di quella della moglie Cornelia Pesse, che lo aveva preceduto dieci mesi
prima. Su entrambe le lapidi c’è solo il nome e la data di nascita e di morte di entrambi. Su
quella di Manlio c’è in più anche la scritta “Pittore”. Nessun’altra aggiunta: la grande livella
rende tutti uguali.
Durante la vita e anche dopo la morte, a differenza di Balzac, di Wilde e di molti
altri, Trucco non cercò mai di “esibirsi” per attirare su di sé l’attenzione del pubblico, come
gli consigliava l’amico Arturo Martini in una lettera spedita da Parigi, nel 1927: “Non basta
saper dipingere , caro Trucco, per acquistare notorietà e fama devi scendere in piazza
travestito da clown col viso impiastricciato di bianco e di rosso e gridare a tutto fiato che la
più bella pittura è la tua e serviti del megafono che la tua voce sia udita anche dai sordi, So
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che non sei capace di fare questo e finirai tranquillamente, senza notorietà e senza gloria,
nel folto delle tue belle foreste amazzoniche tra i tuoi indi e le vaste distese d’acqua, ove, sta
pur certo, nessuno verrà mai a interrompere il tuo sogno e ben pochi sapranno che sei
esistito”.
Per sfatare quest’ultima affermazione di Martini, ho pensato di pubblicare su Internet la sua
autobiografia della quale, come detto in precedenza, esistono pochissime copie dattiloscritte,
gelosamente custodite dai proprietari.
Perché lasciarla nell’oblio “delle foreste amazzoniche”, come dice Arturo Martini?
Oggi, nel secolo dell’informatica, si dibatte spesso un problema di capitale importanza per la
cultura, e cioè se Internet sostituirà la carta stampata. Le biblioteche, previdenti, già hanno
posto a fianco dei libri qualche computer a disposizione del pubblico per ricerche in rete.
Ecco perché ho pensato di inserire on line, nel SALOTTO LETTERARIO del mio sito,
anche le Memorie di un mangianuvole, raggiungibili così da chiunque.
Un sistema cui Arturo Martini non poteva (e non avrebbe potuto) pensare.
L’ autobiografia di un pittore non può essere conclusa solo con parole.
Ho, pertanto, ritenuto opportuno accompagnare quella di Trucco con album iconografici:
- uno in b.e n., che comprende fotografie tratte da un album di famiglia;
- altri con riproduzioni di quadri (ora a colori, ora in b.e n., ricavate dal vero o da
cataloghi),
suddividendoli in due settori: figure e paesaggi di Liguria; e figure e paesaggi di
luoghi esotici.
Il giudizio sulle opere di Manlio Trucco lo lascio a Luigi Pennone, che nella prefazione ad un
catalogo per una mostra tenutasi a Milano dal 16 al 29 maggio 1959, comprendente 63
dipinti e 14 ceramiche, tutti di soggetti brasiliani, così scriveva: “ ...il ceramista non ha mai
soffocato in lui il pittore nativo. E’ una lunga, costante, infinita devozione ad un sogno che
gli aveva acceso il cuore nella fanciullezza: e lo ha portato a dipingere per tutta la vita, i
grandi quadri nostalgici della natura, dei paesi, degli uomini d’oltreoceano.
Foreste, laghi fiumi, grandi alberi, uccelli: e gli indios nativi dei luoghi ch’egli deve sognare
ancora nelle sue notti serene di vecchio signore malato di nostalgia”.
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Nel mese di giugno del 2016 fui invitato dalla Biblioteca Civica “Manlio Trucco” a tenere,
nei “Venerdì letterari della biblioteca”, una relazione sul contenuto del dattiloscritto.
Esaminando la parte iconografica del lavoro della Ughetto, ero venuto a conoscenza
dell’esistenza di un contenitore di molti fogli manoscritti e ne dedussi che oltre alle pagine
dattiloscritte esisteva anche un mss., di cui era depositaria la professoressa Laura Ziller.
Da lei seppi che nel 2000 era stato dato in prestito alla Ughetto per il suo lavoro e che da
allora era andato smarrito.
Attraverso ricerche effettuate con la Signora Ziller la biografia manoscritta di Trucco, come
un’araba fenice, ritornò a vivere. Il manoscritto, di 318 pagine, conteneva una molteplicità di
notizie, note, aggiunte, correzioni che conferivano all’opera un valore nuovo per la
completezza della vita del pittore-ceramista.
E la mia decisione fu quella di trascriverne l’intero contenuto.
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IL MANOSCRITTO
AVVENTURE E DISAVVENTURE DI UN
MANGIANUVOLE
(1884-1967)
Libro per i giovani e gli adulti
Prima versione datata 1884-1967
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Seconda versione mss. datata “Albisola Capo 31 dicembre
1973.
Terza versione. Trattasi di una versione ridotta, dattiloscritta datata “Albisola
Capo, 31 dicembre 1973. Ne esistono pochissime copie.
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AVVENTURE E DISAVVENTURE DI UN
MANGIANUVOLE
(1884-1967)
Libro per i giovani e gli adulti
- Della biografia di Manlio Trucco esistono tre versioni:
a) la prima versione (la più completa), vergata a mano in nitida grafia, datata 1884-1966 (la
cifra è stata in seguito corretta in 1967) , è composta da 318 pagine;
b) una seconda versione è datata “Albisola – Marzo/aprile . Il lavoro è stato riveduto, diviso
in fascicoli numerati da 1 a 8, per un totale di pagine 225 pagine tutte dattiloscritte;
c) dalle due versioni l’autore ricavò una versione ridotta di 154 pagine, datata “Albisola –
31 dicembre 1973”, comprendente fogli dattiloscritti.
Probabilmente doveva essere la versione da inviare all’editore Scheiwiller per una edizione
cartacea. Non fu mai eseguita perché la morte del Trucco interruppe le trattative già iniziate.
Ho ritenuto opportuno e doveroso riprodurre per intero il lavoro di Trucco, presentando la
prima stesura del lavoro(quella completa), senza, peraltro, tralasciare aggiunte o correzioni o
ripensamenti operati nelle successive.
Capita spesso che l’autore, nelle versioni successive, ritornando sul suo lavoro, depenni frasi
dopo averle scritte, (forse a seguito di un ripensamento), aggiunga frasi che contengono
concetti o idee attinenti al tema che sta svolgendo e quindi legate al momento della sua vita
che, nel momento che scrive, sta analizzando. Possono consistere in spiegazioni, in
ampliamenti che servono a meglio puntualizzare quanto sta mentalmente visualizzando nella
mente o cercando di ricordare.
Ho ritenuto opportuno conservarle (sebbene l’autore abbia voluto scartarle con un tratto di
penna), evidenziandole però con un tipo di carattere diverso: il “lucida
handwritting.” o riportandole in corsivo-neretto in caratteri minori, precedute dalla
dicitura: “Cancellato”.
In tal modo ho ritenuto di rimanere fedele a tutto il lavoro, sia a quello della prima stesura,
sia a quello di rielaborazioni successive, affrontate dall’autore.
- La suddivisione del contenuto del manoscritto i capitoli è mia, motivata dalla necessità di
inserire in calce un elenco, evidenziando il numero di pagina.
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PREFAZIONE
Mi accingo a scrivere, per i miei cari amici, il racconto della mia lunga e turbolenta vita. Mi
riesce difficile mettere un po’ d’ordine nella mia mente perché, cari amici, devo confessarvi,
se ancora non lo sapete, che sono molto ignorante: i miei studi scolastici sono limitati alla
prima ginnasiale. Ho letto molto, ma disordinatamente, saltando, come si dice, di palo in
frasca, senza la guida o il consiglio di chicchessia, nella scelta di buoni libri. Ho sempre
preferito la lettura di viaggi, scienze naturali con speciale riferimento alla zoologia. Di
geografia so ben poco e di matematica poi, meno ancora. Che non vi venga in mente, cari
amici, di chiedermi a bruciapelo,per esempio: Chi era Priamo? Oppure: In che anno ebbe
inizio la Guerra Santa. Mi mettereste in imbarazzo e potrei rispondere solo dopo aver
consultato un’enciclopedia.
Tutte le vicende più importanti della mia vita , le ho qui nei miei occhi e nell’animo, le vedo
come attraverso un caleidoscopio, in mille colori, accavallate, mescolate, in un groviglio tale,
che è, per me, un problema districarle e disporle con un certo ordine.
Se non troverete in questi scritti espressioni felici ed eleganti, vocaboli scelti e il rispetto
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dovuto alla grammatica, ora sapete perché.
Mi limiterò, quindi a raccontarvi chi sono, cosa ho fatto e cosa ho visto nel mio passato.
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INFANZIA
All’epoca della mia nascita (1984) e anche dopo, nelle famiglie del genovesato regnava
l’austerità, l’ordine e il metodo, l’osservanza assoluta delle consuetudini. Tutto doveva essere
moderato. Anche la spontaneità, l’entusiasmo l’amore e l’affetto dosati con parsimonia.
Eppure, in casa mia, si conduceva una vita agiata e non mancavano i presupposti per poter
vivere in gaiezza e serenità, ma non era così. In armonia all’andazzo del tempo, si rideva poco.
Anch’io, sebbene in tenera età e in salute, ero tardo al riso. Chi mi dava prove tangibili di vero
amore era la mia balia, bellissima giovane della Garfagnana, e su di essa avevo riversato tutto
il mio affetto.
Altri ricordi, più lieti, affiorano in questo momento alla mia mente: la mia buona maestra della
prima elementare, la signora Musante, la quale, più ancora che un’ottima insegnante, era la
mamma affettuosa di tutta la scolaresca – e poi la piccola Ada mia vicina di casa, bella
biondina della mia stessa età. Il tragitto casa-scuola e viceversa lo percorrevamo tenendoci per
mano, salterellando e cantando in piena allegria. Le matite, le penne, il sillabario, il quaderno,
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il panino imbottito, ballavano, saltavano anch’essi dentro alla cartella, partecipando vivamente
alla nostra gioia.
Ricordo anche alcune delle tante malefatte di cui ero spesso protagonista e alle quali,
inconsciamente, partecipai. Eccone una: Battaglia in piazza d’armi tra le scolaresche
dell’Agostino Descalzi (la mia scuola) e della Biagio Assereto. (A quei tempi nelle città erano
di “moda” le risse tra quartiere e quartiere e, nelle campagne, di paese contro paese. Era una
deplorevole e ridicola usanza di sapore medievale.)
Noi dell’Agostino De scalzi avevamo eletto nostro generale il garzone di un fabbro che
l’incudine aveva dotato di un superbo apparato muscolare: perciò godeva di tutta la nostra
fiducia e ammirazione. Col compenso di tre sigarette si accollava tutti i compiti militari, di
strategia, logistica etc. e nei momenti più drammatici del combattimento, era sempre in prima
linea. Le nostre armi di offesa erano i sassi che raccattavamo dal suolo, e, fra quelle di difesa,
le nostre gambe, pronte a scattare per una precipitosa ritirata.
Il comando secco del generale: “Sotto, ragazzi!” ci fece entrare
tutti in azione e una nutrita, violenta sassaiola, in pochi minuti
mise in fuga i nemici.
Il generale dell’Assereto, lungo e magro come uno stecco, era abilissimo nell’organizzare
rapide ritirate. Mentre fuggiva alla testa del suo esercito, noi vittoriosi, come massimo
dispregio, gli ridavamo a squarciagola, in coro, “Gamba di cimice! Gamba di cimice! Gamba
di cimice! ( Chissà poi perché).
Riflessione: E’ doloroso constatare come l’uomo, già all’inizio della sua vita abbia degli istinti
malevoli e guerreschi.
Concludo questo discorsetto sui primi anni della mia infanzia, con un altro riprovevole fatto
di cui io solo fui l’unico colpevole.
Eravamo vicini alle feste natalizie. Mia madre ossequente alle buone usanze, mi diede due
lire per il bidello della scuola, da consegnargli con gentili parole di auguri.
Io ero talmente goloso di dolciumi, che non esitai a commettere, per il piacere del palato e
della gola, una vile azionaccia. Al bidello diedi una lira soltanto, abbondando però in lodi,
complimenti e auguri. Colla lira rimastami, acquistai da un droghiere, certi amarettini non più
grossi di una nocciola, che facevano bella mostra nella vetrina parata a festa. Uscii dalla
bottega con un grosso pacco. Presi per mano la piccola Ada, che mi aspettava fuori e andammo
a sederci su una panchina della vicina Piazza Brignole.
Ada fu parsimoniosa, mangiò qualcuno di quei deliziosi amaretti e poi disse “basta”. Io,
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invece, continuai a divorarne, fino a che mi rimase in mano la sola carta. Quasi subito dopo
sentii che il mio stomaco era troppo pieno e nauseato.
A casa mi aspettava la polenta con cavoli neri. Il grande piatto da portata, in mezzo al tavolo,
era colmo. Per non destare sospetti, finsi di mangiare col solito appetito, ma ero preoccupato
perché presentivo un disastroso epilogo alla brutta storia. Infatti rimasi lì, abbrutito, con lo
sguardo fisso sul piatto da portata. Il mio comportamento fu mal interpretato da mio padre che,
rivolto a mia madre disse: “E’ lì che se lo divora con gli occhi, dagliene un altro piatto”. Il mio
segreto non doveva, a nessun costo, essere svelato e così dovetti inghiottire anche la seconda
porzione non meno abbondante della prima.
Con l’animo pieno di rimorsi e di vergogna e lo stomaco rimpizzato di dolciumi e di polenta,
dovetti rifugiarmi al gabinetto in tutta fretta, unico posto di cui, in quel momento ero degno.
Proprio nei giorni che precedettero la fine dell’anno scolastico, se non erro, ai primi di luglio
(in altra versione: “ai primi di giugno del 1890), mio padre ricevette da un suo amico,
conosciuto in Bolivia,l’invito di assumere la direzione di un grande Centro di raccolta di
gomma elastica (prodotto prezioso e allora molto ricercati). Sede di questo Centro di raccolta
doveva essere Belem, nello Stato brasiliano del Parà, alle foci del Rio delle Amazzoni.
Le condizioni economiche propostegli erano talmente allettanti che, dopo alcuni giorni di
ponderate riflessioni, l’invito fu accettato.
Mi rendevo conto che non avrei più rivisto la mia balia, la mia
maestra e la mia piccola amica Ada e questo fu un duro colpo per
il mio piccolo cuore.
La partenza per Belem fu fissata per la fine luglio. Mi recai a
salutare Ada e i suoi genitori. Ricordo che le diedi una gardenia,
che tenevo in mano per lei. Alcune lacrime le erano scivolate
sopra. Sembravano piccole gocce di rugiada.
Il mio destino di giramondo era segnato. E’ forse l’antico spirito genovese, avido di
avventure, che ci ha spinto a solcare gli oceani, a valicare aspre montagne, a inoltrarci in
misteriose foreste esposti a continui pericoli e insidie?
Mio nonno, capitano marittimo, ha passato tutta la sua vita sul mare. Dei suoi 14 figli, gli
undici maschi, esaltati dalle emozionanti vicende vissute dal padre, si dispersero per le vie del
mondo, in cerca di avventure. Tra questi mio padre. A 18 anni, compiuti gli studi liceali, partì
con una chitarra sotto il braccio, alla volta di Valparaiso. Attraversò con alterne fortune le
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Americhe del Sud e del Nord, affrontando e sormontando dure situazioni. ( Contrasse il
suo primo matrimonio nel Cile, il secondo in Bolivia e gli altri
due in Italia. Da questi quattro matrimoni nacquero 24 figli).
Rientrato a Genova , l’anno 1880, celebrò con mia madre il terzo matrimonio. Anche i suoi
24 figli furono dal destino sballottati nei più remoti siti del globo. Mia sorella Ofelia, un
fratellastro, figlio della quarta moglie ed io, siamo i soli superstiti della numerosa prole.
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18 luglio 1890. E’ giunto il momento della partenza. Lasciammo Genova. Valigie,
valigette, coperte da viaggio, sono allineate nell’ingresso, pronte ad essere portate alla
stazione. La mia balia ritornò alla Garfagnana; non l’avrei mai più rivista. Il nostro addio fu
commovente; le lacrime e i baci si confusero in un lungo affettuoso abbraccio.
Il piroscafo ci attendeva a Le Havre per salpare il giorno 20, con destinazione Belem.
Pernottammo a Parigi. Alle ore 5 del mattino, il carrozzone dell’albergo ci portò alla
stazione. Io ero intontito dal sonno e, non so come, scendendo dal veicolo, mi trovai con i
piedi immersi nell’acqua che scorreva nella cunetta per il lavaggio della strada.
Una pedata nel sedere appioppatami da mio padre, ebbe un effetto immediato e prodigioso.
Spalancai gli occhi, il sonno era sparito e mi sentivo perfettamente sveglio. Sentii chiara e
scandita la voce di mio padre: “Scrivi sul tuo taccuino da viaggio: il giorno 18 luglio anno
1890 alle ore 5 del mattino, a Parigi, presso la Gare du Nord, ho ricevuto da mio padre una
meritatissima pedata nel sedere”.
Il sorriso sommesso con un pizzico di malignità dei miei fratelli, chiuse l’incidente.
Il giorno dopo, giunti a Le Havre, ci imbarcammo. I bauli spediti da Genova, erano già nel
capace ventre del piroscafo e ci sistemammo, colle valigie, nelle cabine messe a nostra
disposizione. Nel pomeriggio, mollati gli ormeggi e levata l’ancora, un lungo, rauco suono che
a me fece l’impressione del lamento di un mostro, annunciò la partenza e, poco dopo, la nave
si mosse.
Durante il viaggio, ciò che maggiormente colpì la mia fantasia, fu l’infuriare di una violenta
tempesta, con l’invasione della tolda della nave, di ripetute grandi ondate spumeggianti: i voli
incrociati e acrobatici dei gabbiani, che comparivano e sparivano nelle nubi o si tuffavano
nelle rabbiose creste delle onde, e, nelle serate calme, la lunga scia di gemme fosforescenti che
inseguiva il piroscafo.
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A mezzogiorno dell’ 8 agosto il capitano, fece gettare l’ancora, a mezzo miglio circa dalla
costa.
La giornata era caldissima e afosa. Il fasciame di legno che rivestiva la tolda, fermo sotto il
sole, si era talmente surriscaldato che ci sembrava di essere in un forno.
La città di Belem era lì, davanti ai nostri occhi, adagiata tra vaste foreste, con lievi colline alle
spalle. Era molto graziosa, e in quelle infinite distese d’acqua, color pisello e il cupo verde che
la circondava, le sue case basse e chiare, assumevano luminose e delicate colorazioni.
Sistemati i viaggiatori, con i relativi bagagli, su una grande chiatta, trainata da un
rimorchiatore, scendemmo a terra, trafelati, stanchi e delusi perché non ci aspettavamo un
caldo così torrido.
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IN TERRA AMERICANA
BELEM
La vallata paraense coperta dalle sue immense foreste è
solenne e misteriosa; è il regno del grandioso, dell’eccessivo, è
l’esternarsi della natura nelle sue forme superlative di bellezza e
di colore, di vastità, di potenza e anche di crudeltà ed insidia.
Il rio delle Amazzoni che l’attraversa, non ha come gli altri fiumi
un bacino chiaramente circoscritto e non è fornito da un unico
corso d’acqua, ma da un’intricata e confusa rete di grandi e
piccoli fiumi che, contornando innumerevoli isole, convogliano
l’enorme massa d’acqua verso l’oceano atlantico (in nota: con un
volume di 250 milioni di metri cubi
all’ora e alla velocità di 180° metri per minuto).
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A seicento Km. dalla costa è ancora visibile la caratteristica tinta
color pisello delle sue acque ed è percettibile il movimento della
sua corrente.
La scoperta del Rio delle Amazzoni è dovuta a Dicente Cane
Pinsòn, studioso e avventuriero, come molti dei suoi
contemporanei. (in nota: Ottenuta la licenza dai re di Castiglia
e Aragona, partì da Palos nei primi giorni del mese di dicembre
1499, con quattro caravelle allestite a spese proprie. Al Capo Verde
prese la direzione Sud –est e attraversò la linea equatoriale
lottando contro furiose tempeste).
Vi approdò il 26 gennaio 1500 e rilevò con i suoi calcoli che il
fiume nel quale si trovava non aveva meno di trenta leghe di
larghezza. A quella immensa distesa d’acqua dolce diede il nome
solenne e musicale di “Rio Grande de Santa Maria de la
Mardulce”.
Gli indi che ne popolavano il margine, col loro linguaggio
semplice e significativo lo chiamavano Paranà-açu (açu significa
grande). Quarantanni dopo fu battezzato Rio delle “Amazzoni“
dal capitano Francesco Orellana, dopo l’incontro di costui con le
donne guerriere Ycamiabas, avvenuto alla confluenza del grande
fiume col Rio Jamundà, sulla riva del quale esse abitavano.
Sono veramente esistite le guerriere del Rio Jamundà?
Humboldt e De la Condamine furono concordi
nell’ammetterne l’esistenza .Walter Raleigh diffuse in
Inghilterra le meraviglie dei loro usi e costumi, ma Francesco
Lopez de Gomara, storico brasiliano, invece, pur forse
ammettendo che alcune donne frammiste ai loro mariti,
avessero preso parte al combattimento dal suo contemporaneo
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Orellana, ritenne che l’asserzione di questi, ebbe
probabilmente lo scopo di rendere più interessante e colorita
l’avventura di quei giorni. Molti indiani che ho interpellato in
quelle zone della vallata paraense, ancora oggi affermano
che, sebbene in numero molto ridotto, le Ycamiabas abitano
tuttora nel folto delle foreste, sulle sponde di alcuni laghi,
nella vasta zona inesplorata, compresa tra il Rio Branco e lo
Jary, affluenti di sinistra del Rio delle Amazzoni.
Giacché l’argomento mi fornisce lo spunto, ecco la leggenda
delle Ycamiabas: “ Quando era prossimo il momento di ricevere
gli uomini per essere fecondate,le guerriere Ycamibias si
radunano sulla sponde del lago Jciuaruà
(Jaci=luna – uaruà=riflesso) a rendere culto alla luna, la
loro grande madre, con frenetiche danze, alternate alle più
rigorose penitenze.
Allorché la bella Jaci, in plenilunio, rifletteva tutta la sua luce
sulla tranquilla superficie del lago, le fiere Ycamiabias
s’immergevano nelle fosforescenti acque sino a raggiungerne
in fondo e trionfanti ritornavano con Muyrakità che avevano
ricevuto dalle mani delle grande mare Jaci. (in nota: I
muyrakità sono rari amuleti di giada di svariati colori; è
credenza degli indi che coloro che hanno la fortuna di
possederli siano immuni da ogni calamità.)
Con questi preziosi amuleti si recavano alle loro capanne che
inghirlandavano con i più belli fiori della foresta.
Spalmavano i loro bruni corpi con la candida tapioca, per
vellutarne la pelle; profumavano e adornavano i capelli con
erbe aromatiche; le più belle collane cingevano il loro collo; ai
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polsi e alle caviglie, candide piume di rari uccelli
s’intrecciavano a quelle vermiglie del guarà. Così si offrivano
agli amanti, ai quali consegnavano i Muyrakità affinché
fossero preservati da ogni male e forse, perché l’offerta
ricordasse loro che anche le temibili guerriere del Jamundà,
come tutte le donne, sanno sorridere e amare”.
****
La popolazione paraense è composta di tre elementi storici:
bianco, nero e indiano ed è il risultato degli incroci di queste tre
razze. Il,bianco rappresentato dal portoghese, il nero importato
dalle Isole del Capo verde e dell’Angola e l’indiano che occupava
la regione all’’epoca della conquista portoghese, capitanata da
Pedro Cabral.
La costituzione sociale della popolazione è dovuta al Portoghese
ma il fattore più considerevole dell’aspetto etnografico è l’indiano
e precisamente il Tupinambà.
La grande tribù dei Tupinambà occupava tutta la zona di Belem
e si estendeva per largo tratto nell’interno dello Stato e lungo la
costa sino a Rio de Janeiro. Furono i tupinambà che opposero
dura resistenza agli invasori della loro terra. Quelli che non
caddero vittime nello scontro e che non furono fatti prigionieri,
incalzati dai conquistatori, si rifugiarono in vari punti, tra gli
affluenti del Rio delle Amazzoni, ove già abitavano in piccole
tribù i Caraibas, i Tentugali, i Carapinas, i Nu-Arnaka, i Taèpajos
e altri, dei quali non ricordo i nomi.
La fauna del Parà occupa un posto preminente con infinite
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diversità di speci e di forme.
Tra i felini, oltre al leopardo, jaguar, puma e gatto-tigre,
abbondano i rappresentanti minori in molte speci indigene della
stessa famiglia, chiamati localmente, gatos, che imitano le feroci
imprese dei loro cugini maggiori. Non vi sono gli elefanti, i leoni,
le tigri e i rinoceronti e tanti altri animali che abbondano invece
nell’ Asia e nell’Africa.
I lemuri e le scimmie pullulano, con frenetica vita, sullo
sconfinato terrazzo, formato dalle fronde culminanti dei grandi
alberi della foresta, tra fantastiche architetture di intrecci di
liane. Le paraonà scendono al calar del sole in numerosi gruppi
ed emettono gridi e strilli tanto acuti e assordanti, che portano
alla disperazione; sono le cosiddette scimmie urlatrici; alcune
specie della stessa famiglia: le Guaribas, le Cuxius, le Guatàs, da
molte tribù considerate un eccellente alimento e vengono essiccate
per le riserve dei mesi piovosi; interessano per grazia e colore le
piccole Tamarin e le Uistiti.
Negli ungulati sono numerosi i tapiri, i suini, i cervi, questi ultimi
hanno nell’economia paraense un’importanza rilevante per le
pelli, di cui si esportano considerevoli quantità.
I coccodrilli, in due specie di diverse dimensioni, infestano le
acque calme dei fiumi e dei terreni paludosi delle foreste.
Nell’epoca della riproduzione sono aggressivi e il piccolo jacaré-
tinga è ritenuto più pericoloso del grande jacaré-açu, specie
esclusivamente paraense.
Tra i pitonidi è soprattutto notevole l’Anaconda, il più grande
esistente del mondo, che raggiunge la lunghezza di dieci metri, è
voracissimo e vive generalmente nell’acqua; gli indiani ne
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mangiano le carni.
Gli uccelli sono rappresentati da una grandissima meravigliosa
quantità di specie di cui il Parà ha il primato nel mondo.
La ricchezza ittiologica dei fiumi e dei laghi è notevolissima e di
sorprendente abbondanza, con vantaggio della popolazione che è
preponderatamente ittiofaga.
Vi sarebbe molto da dire sugli insetti che infestano la valle
paraense. Alcuni di essi costituiti in potenti ordinate e agguerrite
legioni, sono tra i nemici più temuti dell’uomo.
Nel regno vegetale, le immense foreste vergini che coprono un
vastissimo spazio del territorio paraense sono ricchissime di
essenze preziose. In questa vasta area, caratterizzata da una
straordinaria varierà di colorazioni, è affascinante la
moltitudine delle specie, che variano da una zona all’altra con i
più strani aspetti ma la fisionomia più saliente del paesaggio
paraense risiede nell’abbondanza e varietà delle sue palme che si
estendono nella valle amazzonica in generale. Tra esse le
Tucumà, la Bacabà, le Caranà, le Ubuassù, dai robusti altissimi
tronchi coronati da lucenti grandi foglie, sembrano possenti
colonne, dal ricco capitello, erette a sorreggere il cielo.
Alcune grandi Euforbie col loro lattice gommoso, al principio del
nostro secolo, furono oggetto di una esplorazione intensa e
febbrile ed hanno prodotto delle ricchezze favolose.
La concorrenza delle piantagioni sistemate posteriormente
nell’Africa e nelle Indie e il minor costo dei trasporti, ha dato un
serio colpo all’importantissima industria estrattiva della gomma
elastica e del caucciù che fu tanto fiorente nel Parà.
L’ampia messe di lucri facilmente ricavati dai prodotti naturali
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faunistici e vegetali, ha ostacolato lo slancio e l’impegno necessari
per la ricerca e l’utilizzazione dei prodotti del regno minerale nel
Parà. Esiste l’oro nel Rio Gurupy, nei fiumi Jary Parù e Yacopok e
in altri punti dello Stato.
*****
L’albergo “La Paz” che ci accolse era situato in una vasta piazza circondata da alberi folti e
lussureggianti
Palme di svariate qualità, altissime piante dal fogliame di un bel verde lucido, corimbi e
cespugli stranamente fioriti, ornavano le vaste aiuole della piazza. Fui però male impressionato
alla vista di certi uccellacci neri, grossi come tacchini, col collo e la testa ricoperti di brutte
granulose verruche. Mi facevano paura. Alcuni razzolavano qua e là per terra, con scatti, salti e
strida acute e quanto mai sgradevoli, altri immobili stavano sui tetti delle circostanti case.
Erano gli urubù, collaboratori dei netturbini municipali, perché colla caratteristica e
sorprendente insaziabile voracità, liberavano la città da ogni sorta di immondizia. Pertanto
erano degni di rispetto.
Dopo pochi giorni di permanenza nell’albergo, fummo ospitati in casa di un “fazendeiro”
brasiliano (Don Augusto de Souza, amico di Don Nicolas Suarez – lo stesso che aveva invitato
mio padre ad assumere la direzione del Centro di raccolta gomma a Belem).
Don Augusto conduceva, nelle vicinanze immediate della città, una vasta coltivazione di
cacao, caffè e canna da zucchero.
La sua ospitalità fu cordiale, aliena da ogni stucchevole salamelecco.
Se usciamo a fare due passi nel quintal, dobbiamo prendere qualche precauzione: stare che un
pesante frutto dell’alto albero del pane, giunto a maturazione e staccandosi dal suo picciuolo,
non precipiti sul nostro capo accoppandoci. Non sdraiamoci mai sull’erbetta dei prati, senza
prima frizionarci con alcol, il piccolissimo “mucui”, un insetto di un bel rosso intenso, ci
infliggerebbe delle sgradite punture. Attenti anche alla nigua specie di pulce, che ama tracciare
piccoli camminamenti, piazzette e gallerie sotto le unghie dei nostri piedi. Non conviene
pertanto andare scalzi.
Il bagno nel fiume si fa in recinti limitati da stecconi di legno ravvicinati; ma anche qui c’è un
pericolo: un pesciolino impertinente (non ne ricordo il nome) s’0ntrodiuce, (ciò avviene per
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fortuna raramente) nelle più recondite cavità del nostro corpo, ove configge pinne e squame,
rimanendovi prigioniero. Oltre all’ingloriosa situazione in cui verrebbe a trovarsi la sua vittima
costretta da atroci dolori, deve ricorrere a complicati interventi chirurgici.
I piccoli pesci chiamati Piranha, in gruppi numerosi con la loro voracità divorano in
brevissimo tempo, un bue o altro grande mammifero, che, travolto dalla corrente, galleggia
sulle acque del fiume.
Vi solo anche i “siluri” che sul fondo delle acque basse attendono il passaggio di animali ed
eventualmente anche persone, che al minimo contatto, una potente scarica elettrica li fulmina
senza speranza di salvezza.
Vivendo a casa dei paraensi ci si sente a tutt’agio; si va e si viene dove si vuole, liberamente
come a casa propria. La tavola è sempre ben imbandita, le svariate vivande vengono deposte
contemporaneamente; ognuno sceglie quel che più gli piace, senza aspettare d’essere servito.
All’ora di cena non è però raro che uno dei tanti grossi insetti, non esclusi gli scarafaggi,
attratti dalla luce del lume a petrolio, caschi proprio nel vostro piatto. Può anche capitare,
come infatti è capitato proprio a me, che una massa viscida e pesante strisci sui vostri piedi,
facendovi scattare con un brivido di raccapriccio. Niente paura! E’ il “sicury” enorme, ma
mite pitone, divoratore di topi e piccoli mammiferi, che, in molte case del Parà, sostituisce con
vantaggio il gatto. Al momento di addolcire il caffè, ci sorprenderà di notare nella zuccheriera
innumere voli puntini, neri e biondi, in movimento; sono graziose formichine. Il nostro ospite
ci dirà di non impressionarci, né di fare gli schizzinosi, rassicurandoci con queste brevi parole:
“Isto nao faz mal”.
Mio padre era molto indaffarato per trovare i locali, gli uffici e , magazzini adatti per il Centro
di raccolta gomma che da varie zone boliviane, attorno al Rio Beni e da molte altre brasiliane
sparse nelle foreste comprese tra i grandi affluenti del Rio delle Amazzoni, doveva essere
convogliata sino a Belem.
Trovò nella zona commerciale della città, una grande casa a due piani, che, con alcune
modifiche e l’aggiunta di grandi capannoni, rispondeva bene allo scopo. A mio padre fu
conferita la carica di Console della Bolivia nel Parà e il consolato ebbe la sua stessa sede in
questa casa. Le mansioni affidategli erano prevalentemente di carattere commerciale, per la
formulazione di manifesti concernenti le ingenti quantità di prodotti boliviani, soprattutto di
gomma in transito per Belem e che , sveltite le pratiche doganali proseguivano per l’America
del Nord e per l’Europa.
Mia madre mi faceva molta pena; sebbene piccolo intuivo che la situazione non costituiva per
lei un miglioramento. Non era contenta, aveva poca salute soprattutto soffriva di nostalgia.
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Ricordava la sua Genova lontana e sentiva la mancanza delle comodità che le offriva la sua
casa. Teneva però le sue pene dentro di sé, senza esternarle.
La mia sorellina Ofelia trovava lo spunto per i suoi giochi in qualsiasi oggetto che la
circondava. L’unico suo rammarico era causato dal calar del sole “perché, diceva piangendo,
non ho più tempo per giocare”.
Io e i miei fratelli Urbano e Alfredo, trascorrevamo il nostro tempo nel più completo ozio; essi
giocavano al pallone, s’arrampicavano sugli alberi per cogliere frutti o per impossessarsi di
nidi d’uccelletti e misuravano sovente le loro forze in partite di lotta greco-romana.
Io non provavo alcun piacere a partecipare ai loro divertimenti e svolgevo, sempre da solo le
mie iniziative. La cattura dei nidi, poi, urtava e offendeva i miei sentimenti.
I miei passatempi erano molto diversi. A me piaceva veder da vicino il colore iridescente e le
complicate diramazioni delle venature delle ali di certe meravigliose e sorprendenti farfalle
paraensi; e mi soffermavo lungamente ad osservare i movimenti e la struttura di qualsiasi
insetto. Trovai, per esempio, degna di molto interesse l’amantide (sic) religiosa che, a
differenza da quella da noi conosciuta in Italia, è assai più grande e ha colori più svariati e
vibranti. Mi interessava soprattutto la sua strana forma che si stacca decisamente da quella
degli altri insetti in genere.
Anche voi, cari amici, avreste trovato logico il mio interessamento alla natura, se, come me,
aveste osservato le foglie di certi cespugli; ornate di una doratura così evidente e brillante, non
meno suggestiva di quelle di certe preziose cornici, ben patinate.
Ho provato a riprodurre all’acquarello una delle tante belle farfalle, rivestita da una gamma di
colori affascinanti ma debbo confessarlo, i miei primi saggi di pittura, furono veramente
deludenti.
********
Dopo un soggiorno di circa un mese, nell’azienda di Don Augusto de Souza, amico di Suarez,
ci trasferimmo, consigliati dal medico che aveva in cura mia madre a Pinheiro, isola situata a
poche miglia a nord di Belem. Mio padre aveva preso in affitto una graziosa villetta, nascosta
in un bosco di palme altissime, slanciate verso il cielo. Numerose orchidee selvatiche rosse, e
viola inghirlandavano il tronco di altre piante, sparse qua e là attorno alla casa. Farfalle di ogni
colore volavano in tutti i sensi, scintillando sotto il sole. Anche gli uccelli mosca, più piccoli
delle farfalle, rapidi e frementi, volavano da un fiore all’altro, suggendone il nettare, col loro
becco lungo e sottile. Era uno spettacolo che mi toccava il cuore.
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Entrando in casa, ci siamo subito accorti che era abitata, ma non
da persone. La casa però era invasa da legioni di grossi topi. Dovemmo rifugiarci, per
qualche giorno, in un piccolo albergo, mentre un negro, alle dipendenze di mio padre,
introducendo in casa due voraci, grossi pitoni e stendendo trappole e tagliole, riuscì ad
eliminare tutti quegli inopportuni roditori,
In quella bella isola, fitte foreste circondavano le poche case, occupate da turisti e da alcuni
indigeni, dediti alla caccia e alla pesca.
Purtroppo il nostro soggiorno fu triste e non ci fu dato di godere le tante bellezze che ci offriva
la natura. Mia madre, colpita da febbre gialla, dovette restare a letto, più di due mesi, in
continuo grave pericolo.
Trascorso il periodo di convalescenza, rientrammo a Belem. Nella strada San Geronimo, mio
padre aveva acquistato una bellissima casa, con giardino e vasto orto-frutteto (quintal).
All’interno non mancavano le comodità possibili a quei tempi. L’architettura del fabbricato
sfruttava, come elemento indispensabile, la veranda, accordandosi con le esigenze del clima,
influenzato dall’evaporazione di enormi volumi d’acqua. Mia madre era soddisfatta della sua
nuova dimora.
Intanto il tempo passava. Io e i miei fratelli crescevamo come bestiole; ben lontano era in noi il
pensiero di prendere in mano un libro o una penna. L’ambiente così suggestivo e ricco di
attrattive, ci distoglieva dal raccoglimento e dal concentramento necessari per applicarci allo
studio.
Si affacciò il problema della nostra educazione. Un istituto scolastico, denominato “Ateneo
paraense”, non era lontano da casa nostra, Mio padre provvide ad iscrivermi. Quando mi
presentai in direzione, il preside, fissandomi negli occhi, mi fece un lungo discorso, che fu per
me causa di grande disagio e tormento. Di quanto mi disse non capii proprio niente e non
poteva essere altrimenti, perché allora, non ero a conoscenza che di pochissime parole
portoghesi. Mi accompagnò in classe e mi presentò all’insegnante, un giovane professore, che
mi invitò a prendere posto in un banco vacante. Gli allievi che avevo attorno erano assai più
alti di me, dimostravano un’età fra i 12 e i 14 anni, Io non ne avevo ancora compiuti sette. Il
divario fra loro e me era rimarchevole.
Il professore, rivolto agli allievi, parlava, parlava… ma io, sebbene con rincrescimento, non
afferravo il senso di quel che diceva.
Riferii ai miei genitori come si svolse il primo giorno di scuola in quell’Ateneo e dissi
loro tutto,per filo e per segno, ho notato e notai il loro disappunto. “Per ora
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rimani lì e cerca di fare del tuo meglio, e presto andrai a Genova, in collegio” disse mio padre.
I miei fratelli studiavano privatamente sotto la guida di un maestro delle elementari e in un
secondo tempo in un istituto tecnico, nella città bassa.
La mia frequenza all’Ateneo si ridusse in una inutile perdita di tempo, con risultati negativi e
controproducenti. Quel pochino di portoghese che imparai, lo devo ai miei compagni di giochi.
Era tutto pronto: dovevo partire!
La novità di iniziare un nuovo viaggio non mi spiacque affatto, Fui affidato alle cure di cap.
Tiscornia, del “Re Umberto”, piroscafo della compagnia di navigazione “Ligure – Brasiliana”,
colla quale mio padre intratteneva relazioni di affari.
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RITORNO A GENOVA
(1892)
Giunsi a Genova, con tempo ottimo, coccolato durante il viaggio da tutto l’equipaggio e anche
dai passeggeri. Avete notato che un ragazzino in viaggio, solo, è sempre oggetto delle cure,
della simpatia e anche dell’affetto di tutti? E’ una naturale, bella consuetudine che l’uomo ha
sempre seguito e segue generosamente. Anche i salti e i tuffi dei delfini, i voli arditi degli
innumerevoli gabbiani, lo sfrecciare fuori acqua dei pesci volanti, i canarini e i vari uccellini in
cerca di riposo sui cordami della nave, tutto stava lì ad allietare i miei occhi.
Ad attendermi sulla panchina d’attracco c’era il signor Martinet, vecchio amico di famiglia, e
zia Rosita, sorella di mio padre, una donnina minuta, magra, nervosa, tutto naso e tutto cuore.
Zia Rosita divenne la mia affettuosa tutrice per tutta la durata della mia permanenza in
collegio.
A Genova giunsi il 18 settembre del 1892. Avevo circa 7 anni e mezzo. Il primo ottobre
dovevo entrare al Collegio Nazionale in Via della Zecca.
In attesa di quella data zia Rosita mi condusse a Bargagli, nella vecchia casa paterna di
campagna. Il suono delle campane di quella chiesuola, m’inondò di lacrime gli occhi.
Quale impressione ho provato rivedendo quei siti! Tutto mi sembrava nudo e piccolo. Facevo
mentalmente il confronto tra la florida vegetazione equatoriale e l’irrilevante sviluppo di quella
in questi modesti boschetti. Quale differenza! Però ho dovuto anche constatare che le grandi,
cupe foreste brasiliane incutono nell’animo un senso di meraviglia e di ammirazione, ma
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anche, direi, di paura, tanto sono immense e misteriose; mentre qui la vegetazione e l’ambiente
ci sorridono e ci trasmettono gaiezza e serenità.
Con zia Rosita, occupavo il tempo a far lunghe passeggiate e a cercar funghi.
Il tempo vola! Ecco il momento di entrare in collegio.
Dopo un sommario, breve esame fui assegnato alla 3° classe elementare.
Il mio maestro si chiamava Papara (non Papera), aveva i capelli bianchi, baffoni lunghi e folte
ciglia. Era burbero ma buono Per spiegarci la rotondità del nostro pianeta, portava in classe un
cestello di arance, che poi distribuiva ai suoi allievi. E, più per divertirci che per istruirci, non
lasciava mai mancare in classe piccoli giocattoli di ogni genere. L’aula destinata alla mia
classe, costituiva per me un’oasi ove aleggiava un po’ d’amore e un po’ di colore. E vi dico
subito perché.
La vita in collegio era triste; troppo ordine, troppa disciplina, troppa freddezza. Abituato
com’ero al Parà, in piena libertà, all’aria aperta, al sole, mi sembrava di trovarmi in una tetra
prigione. Difatti l’ubicazione del fabbricato era infelice. Sorgeva in una viuzza stretta,
fiancheggiata da case, All’interno, le grandi sale adibite al dormitorio, al refettorio e alle aule
di studio, avevano le finestre verso un cortile, contornato da porticati, con vista preclusa, senza
orizzonte. L’unico sfogo verde era costituito da un minuscolo giardinetto, ove erano sistemate
le docce.
Le brevi ricreazioni consentite avevano luogo, se non pioveva, nel cortile e, se il tempo era
brutto, sotto i porticati. In quel collegio regnava sovrano il più profondo silenzio.
Io rimpiangevo, col cuore pieno di nostalgia il frastuono dei lontani pappagallini, con i loro
coloriti piumaggi in continuo movimento e le acute urla delle “paraonà” che al calar del sole
scendevano dalla sommità delle alte piante in folti gruppi per rifugiarsi nei cespugli del
sottobosco. Là c’era vita!
Nel triste ambiente del collegio, non era possibile altra distrazione all’infuori dello studio,
perché anche le brevi ricreazioni che ci venivano concesse, erano rigidamente controllate e
regolate.
La voce non doveva raggiungere tonalità troppo alte, le corse non dovevano essere sfrenate; i
sorrisi mai esagerati.
Una tale moderazione su ogni nostra manifestazione spontanea, ci distruggeva anima e corpo.
Anche nel refettorio al momento del pranzo e della cena, era soltanto ammesso dal Censore
che passeggiava immusonito, su e giù per la sala, un lieve bisbiglio, ma non dovevamo mai
parlare, come naturalmente si parla. Il vitto era appena sufficiente e insipido, così tutti i
convittori conservavano, loro malgrado, una perfetta “linea”. Non so come io abbia potuto
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adattarmi a vivere in un ambiente così ostico e freddo. Eppure, bisogna dire che l’adattamento
ambientale dell’uomo ha del prodigioso. Vi ho resistito per ben quattro anni, fino al
compimento della prima ginnasiale.
Alla domenica erano ammesse brevi visite dei familiari, dalle ore 15 alle 17 e la mia cara zia
Rosita, che attendevo con vera ansia, compariva, puntualissima, traboccante d’affetto e con
dolcetti da lei confezionati per me. Io non le raccontavo mai le mie pene per non addolorarla.
Nei primi giorni di luglio, al termine del mio ultimo anno scolastico, l’istitutore mi consegnò
una lettera proveniente da Belem: era di mio padre. Tra le molte notizie mi chiedeva: “Hai
intenzione di proseguire gli studi in collegio o preferisci raggiungerci al Parà? Ti lascio libero
di scegliere”. Ancora oggi non so se ho fatto bene o male, ma optai, senza indugio, per la
seconda proposta.
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DI NUOVO A BELEM
Alla fine di luglio, dopo un doloroso, indimenticabile addio alla mia buona, cara zia Rosita,
m’imbarcai sul piroscafo “Amazonias” della Società Ligure-brasiliana.
Il mio bagaglio spirituale era costituito dalle poche nozioni scolastiche, da clandestine letture
di viaggi, da una piccola raccolta di miei disegni e da un vivo sentimento di avventura che mi
sospingeva verso l’ignoto e il misterioso.
Prima di raggiungere Belem, il piroscafo fece scalo a Marsiglia, Malaga, Cadice, Lisbona,
Oporto, Funchal (nell’isola di Madera) e Avana (Cuba). Tra i passeggeri c’era il pittore De
Angelis, che si recava anch’egli a Belem per affrescare nel palazzo del governo un’allegoria
dedicata al noto compositore paraense Carlos Gomes, autore fra le altre sue opere del
“Guarani”, che tanto successo ebbe in quei lontani tempi. Mi piaceva il pittore De Angelis, e
gli stavo sempre tra i piedi. C’era anche una graziosa fanciulla, accompagnata da una sorella
maggiore.
A Marsiglia salì a bordo un arzillo vecchietto, con una fluente barba bianca: un naturalista
francese. Era bello vederlo nelle vicinanze di Cuba, inseguire le farfalle che sorvolavano il
piroscafo. Con infantile entusiasmo, armato di un salario (Cancellato e sostituito da: un
sacchetto di tulle) fissato su di un lungo manico, salterellava graziosamente sulla tolda,
emettendo grida di gioia e di meraviglia, quando riusciva a catturarne una. Era uno spettacolo
umoristico e commovente.
Per queste tre persone sentivo una spiccata simpatia ed ero lieto di trovarmi con loro,
L’incontro col pittore e col naturalista suscitò nel mio animo confusi sentimenti di esaltazione,
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che influirono profondamente sul mio avvenire, segnando fin d’allora, inequivocabilmente, la
via che dovetti poi seguire nella mia vita.
La giovane signorina, di cui più sopra ho fatto cenno, aveva 16 anni, cinque più di me e si
chiamava Elena.
Passavo alcune ore del giorno con lei a giocare a tela o a dama. Vinceva quasi sempre lei. Quei
ripetuti amichevoli contatti, non tardarono a tramutarsi in me, (non in lei) in nuovi strani
sentimenti. Ero divenuto vittima di una grande inspiegabile sofferenza che tenevo segreta.
Solo alla luna, che mi guardava dall’alto del cielo, chiedevo invano consolazione. Era forse il
mio primo amore ?...
I venti giorni di questo viaggio, passarono rapidi e lasciarono profondamente incisi nella mia
mente ricordi indimenticabili,
A Belem trovai mio padre , fortemente abbronzato, e mi si strinse il cuore alla vista di mia
madre, che trovai molto deperita. I miei fratelli non erano più a Belem. Il maggiore si era
trasferito a San Antonio, in una azienda gommifera e il 2° (Alfredo) fu chiamato da un nostro
fratellastro, nato in Cochubamba, figlio della 2° moglie di mio padre e allora residente nel
cuore di una foresta, una zona attraversata dal Rio Beni, in Bolivia, ove, incaricato da Don
Nicolas Suarez, dirigeva un’importante azienda per l’estrazione della gomma.
In quell’epoca le grandi piante della gomma, col loro lattice, furono oggetto di una
esplorazione intensa e febbrile ed hanno prodotto cospicue ricchezze. Molti furono gli incauti
pionieri, che nell’intento di sfruttare quell’oro vegetale, ignorando i pericoli a cui andavano
incontro, perirono miseramente nella solitudine misteriosa delle malsane foreste.
Non era ancora trascorsa una settimana dal mio arrivo che già ero in un ufficio con mio padre a
trascrivere corrispondenze, fatture e altri documenti in “bella calligrafia”. Allora non esisteva
la macchina da scrivere e gli abili calligrafi erano ricercati e ben retribuiti. Nella calligrafia
(detta anche “scienza degli asini”) io ero molto progredito, anzi in quella scienza mi
distinguevo. [ la frase è cancellata].
Mio padre mi assegnò un ottimo stipendio che io spendevo fino all’ultimo centesimo, per
formare un piccolo giardino zoologico nel terreno retrostante alla mia casa, in un boschetto,
dove abbondavano varie specie di palme e di alberi fruttiferi.
Gabbie di ferro e di legno, con reti metalliche accoglievano i diversi animali che ogni fine
mese acquistavo. La prima ospite fu un’iguana crestata, bruna con riflessi cangianti tra lo
zaffiro e lo smeraldo; poi due graziose scimmiette “uistiti” di piccole dimensioni. Il loro
“faccino” animato da occhietti vivacissimi, era superbamente incorniciato da una folta criniera
candida, a pelo lunghissimo.
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Il corpo, sottile e snello, era rivestito da pelo corto color oliva, con striature brune che si
estendevano sino alla sommità della lunga coda, alternandosi con cerchi bianchi di lunghi peli.
Venne poi l’irrequieto “Quatty” in continuo frenetico movimento. Secondo me, è uno dei
più interessanti lemuri della valle amazzonica. E’ facile addomesticarlo, è affettuoso ed è
piacevole osservare la grazia e la vivacità sorprendente dei suoi movimenti, nonché l’eleganza
delle sue forme. Altri svariati piccoli mammiferi arricchirono la mia raccolta, ma il soggetto
che destava maggior interesse, era certamente il macaco di Humbolt (nome del suo
scopritore), coperto di un meraviglioso manto di pelo fitto, lanoso e arricciato, di un bel
grigio argentato, con chiazze nere sul musetto, ove spiccavano due occhi bonari, con
espressione malinconica, direi, quasi sentimentale. Era molto sensibile alle
mie carezze e gradiva la mia compagnia.
Avevo stretto buone amicizie con tutte le mie bestiole, accarezzandole e non lasciando loro
mai mancare quei cibi che ad ognuna di esse si confaceva.
In quei giorni mi sentivo felice e trovavo che tutto andava bene, che tutto quello che mi
circondava era bello! Ero pervaso da un invidiabile ottimismo.
Mi venne l’idea di riprodurre con disegni e colori i miei variopinti ospiti. E lo feci. Avevo
meravigliosi modelli a mia disposizione. Nelle ore libere dal mio lavoro di scribacchino, mi
dedicavo con molto entusiasmo ai miei primi saggi artistici. Disegnavo con carbonelle e usavo
colori leggeri per acquerellarle. Fra tutti i fogli che ho allora dipinti, qualcuno mi piacque, e,
pur non potendo affermare che fossero proprio belli, a guardarli provavo un gran piacere: ciò
significa che un risultato positivo era raggiunto
Là sulla banchina di attracco delle canoe, ove mi recavo di buon mattino per l’acquisto dei
miei animaletti, era piacevole osservare gli eterogenei carichi sbarcati dagli indi: si vedevano
ceste di belle e profumate frutta di strane qualità , da noi mai viste:
sapothilhas, gemipapos, cupu, abacates etc, etc. (la lista si allungherebbe troppo se dovessi
elencarle tutte). E poi cataste di rigide pelli di cervo essiccate al sole, ceste di mandioca
(farinha d’agna), erbe e noccioli aromatici, bacche di vaniglia, caffè, cacao in pannocchia,
tabacco, canna da zucchero etc.
Non mancavano meravigliosi volatili dell’isola Marajò, tra i quali spiccava il guarà col suo
piumaggio rosso fuoco; le are, i tucani dal possente becco, e centinaia di chiassosi pappagalli e
parrocchetti.
Tutte queste svariate forme dagli affascinanti contrasti cromatici procuravano (erano lì
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per il) un vero piacere per gli occhi.
Dal giorno del mio arrivo a Belem erano già trascorsi tre anni. Del mio lavoro di calligrafo non
ero affatto contento. Mio padre, uomo molto intuitivo e buon osservatore, se n’era accorto già
da tempo e per rendere meno monotona la mia occupazione decise di mandarmi ogni tanto ad
aiutare il contabile della ditta e a poco a poco imparai (le prime nozioni di
contabilità), la tenuta dei libri contabili. Ma non era nemmeno quella caterva di libri:
prime note – giornale – mastro - conti correnti – scadenze etc. etc. che (avrebbe
soddisfatto) rispondeva alle mie attitudini. Io non potevo adattarmi ad essere chiuso per
ore e ore in un ufficio; volevo svolgere un’attività movimentata, all’aperto.
Un giorno, ad onta della mia timidezza, presi il coraggio a quattro mani e dissi apertamente a
mio padre che quella vita sedentaria non era confacente al mio temperamento, né alle mie
aspirazioni e lo pregai di assegnarmi qualsiasi altro lavoro, da svolgere fuori, all’aria libera. Mi
attendevo una secca risposa negativa. Invece no. Dopo un lungo silenzio che mi tenne sulle
spine, pacatamente mio padre disse: “ Io apprezzo e condivido il tuo desiderio. Anch’io da
giovane ero insofferente della vita statica e sedentaria e non mi sono mai assoggettato ad essa.
Io credo di poterti suggerire un’occupazione gradevole e redditizia: la compra-vendita dei
cuoi di cervo. Dall’America del Nord e specialmente dall’Inghilterra c’è sempre una forte
richiesta. I cuoi di cervi, essiccati al sole, sono trasformati dalle concerie in guanti per
militari, vigili di città, poliziotti, pompieri etc. Il tuo lavoro dovrebbe essere quello di
immagazzinare il maggior numero possibile di pelli. Giù, in uno dei capannoni, hai il posto
necessario. Dovresti recarti di mattino di buon’ora alla banchina d’attracco delle canoe ed
acquistare quelle che gli indi vi sbarcano. Ma queste, in quantitativo esiguo, non basterebbero
ad assicurarti un lavoro proficuo. Bisognerà che tu faccia delle puntate, in vaporetto o in
canoa, in quei villaggi, vicini o lontani, ove maggiormente abbondano e fare più
vantaggiosamente i tuoi acquisti sul posto. Prima però di accettare il prezzo corrente in
piazza, devi conoscere le quotazioni fissate, sia a New York che a Londra, che, a mezzo
cablogramma, vengono segnalate al “Bollettino Commerciale Parmense”, il quale indica
anche la denominazione e l’indirizzo delle ditte che sono interessate a questi acquisti.
Questa attività la svolgerai in proprio, non alle dipendenze della nostra ditta. Ora va e fammi
vedere come te la cavi”.
Ringraziai mio padre, ma dubitavo alquanto delle mie capacità, per condurre bene una simile
impresa. Iniziai, comunque, con giovanile e ottimistico entusiasmo la nuova attività della mia
ditta per il commercio delle pelli di cervo, che doveva correre sotto la denominazione “Ditta
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individuale: Manlio Trucco, esportazione di prodotti parmensi”.
Trascrivevo su di un taccuino tascabile le quotazioni aggiornate dei cuoi, trasmesse da Londra
e da New York.
Ogni mattina, alle sei, ora dell’approdo delle canoe ero puntualmente sul posto. Tra le svariate
merci sbarcate, c’era sempre una discreta partita di pelli. Concluse le brevi, quasi silenziose
contrattazioni cogli indi, due negri alle mie dipendenze le trasportavano al capannone.
Tra i prezzi segnati sul mio taccuino e quelli praticati dagli indi, correva una rilevante
differenza, nella proporzione media da 10 a 100. Dovevo però tener conto, prima di fare delle
deduzioni troppo ottimistiche che bisognava desumere dal presunto guadagno: il mio
stipendio, la paga ai due manovali, la nota spese dello spedizioniere, ivi comprese
assicurazioni della merce, diritti doganali, trattenute dell’erario, manifesto e fatture consolari;
inoltre, le spese generali, viaggi, trasferte, imballaggi, cancelleria, posta e imprevisti.
L’aggravio di queste voci, sul prezzo pagato dai miei clienti, incideva, grosso modo con una
percentuale del 20-25%. Il margine residuo di guadagno, ossia l’utile netto, comunque,
risultava molto elevato e quanto mai allettante.
Le prime spedizioni effettuate a Londra, non smentirono i miei calcoli, e lo stesso per quelle a
New York. Le condizioni di pagamento erano stabilite a trenta giorni dalla data della merce in
partenza e mi venivano puntualmente corrisposte le mie spettanze, mediante assegni bancari.
Vennero poi i miei primi contati cogli indi dei villaggi vicini e lontani da Belem. Gli acquisti
delle pelli aumentavano sensibilmente e il meccanismo commerciale di compra-vendita si
complicava assorbendo tutto il mio tempo; dovevo accudire alla corrispondenza spagnola e
portoghese, col dizionario alla mano, alla contabilità e ai miei frequenti spostamenti di
villaggio in villaggio.
Decisi di assumere due impiegati. Uno per la contabilità e corrispondenza, l’altro per le
pratiche da svolgere fuori ufficio, non esclusi gli acquisti dei cuoi delle canoe in arrivo a
Belem.
Io mi ero riservata la parte, non meno dura, del lavoro: i continui, ripetuti spostamenti da un
villaggio all’altro, con tutte le relative conseguenze: talora il tormento di un caldo eccessivo, le
zanzare, i cibi talvolta immangiabili, pernottamenti privi di ogni comodità etc.
Una volta, per avaria alla macchina, il battello che mi sbarcò a Macapà non ebbe la possibilità
di ritornare a Belem, seguendo l’orario previsto e, mio malgrado dovetti trattenermi a Macapà
per ben otto giorni.
Questa piccola città sotto la linea equatoriale, sotto la linea equatoriale, sul
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confine con la Guiana Francese, è situata in una vasta zona di foreste
gommifere, attraversate dai fiumi Cassiporé e Yacopok fu oggetto di lunghe
controversie, tra la Francia e il Brasile per definirne i confini, è
lontana più di 300 km. da Belem. Fui invitato gentilmente da Don Pedro Navarro, ricchissimo
“matuto” (produttore di gomma) a soggiornare nella sua casa, una lunga costruzione in legno
che si ergeva su alte palafitte, poco distante dalle acque del fiume. Più lontane, in gruppo, si
scorgevano le capanne che accoglievano circa 400 famiglie di indi, occupati nell’estrazione del
lattice gommifero e nella cura del bestiame.
Don Pedro, dedito all’alcol, era estremamente vanitoso ma molto ospitale e
accoglieva nella sua casa le più disparate persone e fra le sue debolezze
emergeva quella di ritenersi un grande oratore. Ma gli argomenti che trattava nei suoi
ampollosi discorsi, erano di così scarso interesse, così vuoti e sconnessi che sembravano
colorati soltanto dall’alcol di cui era saturo. Il suo uditorio, annoiato e rassegnato, era
composto di poche persone, tra cui un certo Lopez, ex cameriere di bordo, una distinta signora
francese, Madame Legrand e lo scrivente.
La signora Legrand era una persona degna di considerazione e rispetto. Accompagnava il
marito, coadiuvandolo nelle sue ricerche botaniche in certe zone paraensi, quando, transitando
a Macapà, colto da febbre gialla, il marito vi morì e sua moglie rimase lì, nell’azienda di Don
Pedro, in attesa che la sua precaria condizione fisica e spirituale le permettesse di rimpatriare.
C’era nell’azienda anche un dottore in medicina, francese, quarantenne, anch’egli vittima
dell’alcol. Inebetito e tremante, passava i suoi ultimi tristi giorni, accoccolato come un gatto in
un oscuro angolo della sua camera, assistito dalla sua compagna, una trasandata, sparuta
mulatta. La sua vera moglie, con due figlioletti, l’attendeva fiduciosa a Marsiglia.
Sebbene tormentato da vivi sentimenti di pietà e di tristezza, fui attratto dalle caratteristiche
somatiche degli indi che lavoravano nell’azienda.
Con una carbonella stesi su un foglio di carta le sembianze di un giovinetto che aveva uno
strano sguardo, quasi impaurito e, allo stesso tempo i suoi occhi esprimevano ribellione e odio.
Ero completamente turbato e compreso nel mio lavoro, che dimenticai gli interessi della mia
ditta, e così fu nei giorni seguenti quando lusingato dall’esito del mio disegno, che a me parve
buono, mi accinsi a continuare le mie prove, con altri interessantissimi modelli.
Ma trovai anche un po’ di tempo per l’acquisto di pelli.
Mi fu annunciata la prossima partenza del Tucumaré, il vaporetto che ci
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avrebbe riportato a Belem. Don Pedro mi fece dono di un bel
macaco, detto di Humboldt, prezioso esemplare della fauna
paraense. Caricate le pelli a bordo, mi congedai dal mio ospite e feci ritorno a Belem.
Nei giorni che seguirono mi recai a Prainha e a Faro e nell’estuario di Xingù, a Itaituba e Porto
Moz, con risultati positivi e anche negativi.
Frattanto la mia cartella si arricchiva di disegni belli o no, ma che per me erano fonte di gioia e
di esaltazione. Anche gli animali del mio piccolo zoo aumentavano di numero con i nuovi
curiosi esemplari raccolti nei villaggi che visitavo e che ottenevo in cambio di lattine di
conserve alimentari, collane di vetro di Venezia e anche, per soggetti rari, di fonografi.
A Prainha, un indio dell’interno, mi disse: “Tu mi porti una scatola di musica in conserva e io
ti do un bel tamy”. [in nota: La richiesta di “musica in conserva dell’indio di Painha è
giustificata dal fatto che il villaggio veniva periodicamente fornito di derrate alimentari in
conserva, scatole di verdura, carne etc,].
Il tamy è un interessante volatile, della proporzione di un tacchino. Ha un bel piumaggio
vellutato, azzurro scuro, con riflessi dotati ed emette, nell’ora del tramonto, un acuto canto
nostalgico (è detto anche ‘trombettiere’).
Le cure dello zoo le avevo affidate ad un mio servitorello, chiamato Eulojo. Tutte le sue
delicate attenzioni, più che a me, suo padroncino, erano per le bestiole del serraglio.
Eulojo, nato in Bolivia, nelle vicinanze di “Cachuela Esperanza” era di passaggio a Belem col
suo ex padrone. Questi morì improvvisamente e il piccolo Eulojo, dodicenne, rimasto solo, fu
accolto in casa di mio padre e gli fu appunto affidata la cura del piccolo serraglio.
Eulojo vedeva da un solo occhio, dal destro; con l’altro, incavato nell’orbita, non vedeva
affatto. Gli chiesi come e perché era stato colpito da così grave disgrazia. La sua calma
risposta, che udii con orrore e raccapriccio, fu questa: ”Io stavo riposando in amaca. Il mio
padrone mi ficcò la lama di un coltello nell’occhio sinistro”.
“Ma perché ricorse ad una simile inaudita crudeltà” gli dissi. E lui: “Perché il mio padrone,
capiva che io, con due occhi vedevo meglio e più lontano di lui”.
Il nuovo viaggio da me intrapreso ebbe per meta l’isola di Marajó che si stende alla
foce del Rio della Amazzoni con una superficie di 4o.ooo kmq. La
sua struttura geologica è uguale a quella del continente, di cui
non è che un pezzo staccato dall’erosione del mare e dalla
corrente del grande fiume. E’ molto importante per le sue vaste
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foreste, per i suoi estesi campi di allevamenti bovini, per i fiumi e
laghi prodigiosamente ricchi di pesce e di svariatissime qualità di
uccelli acquatici. La città principale è Soure, , sulla costa, a
levante, alle foci del Paracauary. Per il suo clima temperato e la
bellezza del paesaggio è meta apprezzata dai turisti.
In compagnia di un amico nativo di Soure, abile guida e
conoscitore dell’isola, raggiungemmo la capitale in battello-
Non tanto fu il miraggio degli affari commerciali che mi fece scegliere quest’isola come meta,
ma il vero desiderio di vedere da vicino gli indi Tupinambà.
Tra i pochi superstiti della grande tribù dei Tupinambà, un centinaio o poco più, vivevano in
un villaggio dell’isola Marajò. Volli visitarlo, e in compagnia di un amico, nativo della grande
isola, raggiungemmo Soure, la sua capitale, in battello,
Devo dirvi che la grande tribù dei Tupinambà, ai tempi della conquista portoghese, capitanata
da Pedro Cabral, occupava tutta la zona, ove sorge Belem, e si estendeva per largo tratto,
nell’interno del Parà e lungo la costa, sino a Rio Janeiro. Furono i Tupinambà che opposero
dura resistenza agli invasori della loro terra. Quelli che non caddero nello scontro e che non
furono fatti prigionieri, incalzati dai conquistatori, si rifugiarono in vari punti, tra gli affluenti
del Rio delle Amazzoni, ove già abitavano molte altre piccole tribù alle quali i Tupinambà
imposero i loro costumi e la propria lingua, la Nheengatù, che significa: nheen=lingua;
gatù=bella.
Lasciammo Soure e, in canoa, seguendo la costa per lungo tragitto, raggiungemmo, verso sera,
un baraccamento di pescatori e vi pernottammo.
Alle prime luci del giorno, c’inoltrammo nel fitto della foresta, seguendo una pista di cui
spesso si perdevano le tracce e che serpeggiava, a volte quasi impraticabile, perché ostacolata
da spinosi grovigli vegetali o interrotta da larghe distese di terreno fangoso e da pozzanghere
di putride acque, ove guazzavano immondi rettili e galleggiava una sudicia schiuma verdastra,
Tutto attorno la grandiosa vegetazione tropicale, con vaste zone di cupe ombre, incuteva paura.
Miriadi di insetti di ogni genere, si agitavano e volteggiavano rapidi nell’aria emettendo
bagliori di gemme. Splendide orchidee sospese ai tronchi di giganteschi alberi, simili a leggere
farfalle, attingevano la propria bellezza, respirando quei mortiferi miasmi.
Non potevamo attardarci ad osservare le gemme, i fiori e i frutti degli alberi che si levavano
attorno a noi; le sgocciolature gommose, attaccaticce o dure come il vetro, come l’ambra e
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come lacrime color d’agata; gli eserciti d’insetti per i quali, le rugosità delle cortecce, sono
monti o valli. Dovevamo trascurare enormi trinchi e rami di scuro legno morto, poroso di vari
alberi atterrati. Dentro a quella massa decomposta miriadi d’insetti svolgevano una
sorprendente attività; tutta una vita maligna respirava intorno a no. Mostruosi calabroni, sciami
di api e di vespe, minacciano il nostro viso.
Per avere una idea di che cosa sia una foresta brasiliana, bisogna, cari amici, che vi
immaginiate una zona della superficie di una grande nazione, coperta di alberi alti da 5 a 6
metri, sino a settanta e talvolta più, con fronde e fogliame così fitto da nascondere cielo e sole.
Da un albero all’altro, grosse funi che corrono aggrovigliandosi ai tronchi, come lacci,
cadendo come festoni e intrecciandosi tra loro, in ampie spire. Sono le liane grosse come un
dito o come un braccio o anche di più. Immaginate il suolo coperto da arbusti, cespugli,
licheni, spine, felci, tronchi d’albero caduti, tutto in una massa compatta, spesso invalicabile.
Immaginate una distesa di qualche chilometro invasa, da alti tronchi che sembrano colonne di
un tempio o di una cattedrale e il cui fogliame forma strani capitelli.
Immaginate la sommità di questi alberi come una vasta sconfinata terrazza ove pullulano
scimmie, lemuri con frenetica vita, tra fantastiche architetture di intrecci di liane.
Il nostro cammino fu lungo e faticoso, dovemmo pernottare nella foresta in una notte calda e
soffocante, ma luminosa, non già per il chiarore della luna, che non poteva penetrare in quella
densa massa di vegetazione, ma per la fantastica illuminazione di lucciole che, descrivendo
strane tremolanti arabescature fosforescenti, rendevano l’ambiente magico e pauroso.
Sentimmo delle misteriose voci lontane. I nostri nemici in quella lunga notte insonne, non
furono né il puma né il gatto-tigre, bensì le zanzare, contro le quali non fu valida alcuna difesa,
i pipistrelli terribili succhiatori di sangue, che tenemmo distanti a colpi di bastone e l’umidità
che emanava maleodorante dal suolo e ci indolenziva le ossa.
All’alba si riprese il cammino: dense nubi vagavano strisciando sui cespugli del sottobosco, su
terreni acquitrinosi.
Dopo molte ore di faticosissimo percorso ci trovammo ai piedi di un’altura e cominciammo a
salire, fiancheggiando un piccolo fiume dall’acqua limpida e scrosciante. La vegetazione
divenne più rada, gli alberi non erano più addossati e compatti, ma in gruppi isolati e il
sottobosco era quasi sparito. Stanchi e indolenziti dalla notte insonne, la salita ci sembrò lunga
ed estenuante, ma, ad una svolta della pista, un meraviglioso spettacoloso si presentò ai nostri
occhi! In una luce calda e dorata una radura pianeggiante accoglieva una ventina di capanne, di
forma conica, coperte di fibre di palma e disposte a ferro di cavallo, a uguale distanza una
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dall’altra. Era il villaggio dei Tupinambà!
Alcune di queste capanne erano parzialmente coperte da piante rampicanti silvestri, che
estendevano esili rami fioriti. I venti alisei portavano lassù, malgrado l’ardore del sole, una
deliziosa frescura; ombrosi manghi, frammisti ad eleganti palme e a colossali euforbie,
incoronavano la radura, proiettando profonde ombre. In un denso groviglio le liane
precipitavano dall’alto e i filiformi lunghi rami, formanti festoni, ghirlande e corimbi,
imprigionavano i tronchi , legando gli uni agli altri. Magnifiche farfalle di ogni colore
intrecciavano voli in tutti i sensi e con i piccoli uccelli mosca, senza posa e frementi,
punteggiavano l’aria di scintille d’oro e d’argento.
Di lassù si scorgeva il lago Arary, chiaro e terso come uno specchio e apparivano lontane le
isole Anajà, Corumù e Jacaré, bordate da un’alta muraglia vegetale grigio-verdastra. I corsi
d’acqua che le separavano, avvolgendole, con lunghi e tortuosi giri, sembravano d’argento.
Ci avvicinammo al villaggio che pareva deserto. All’interno di una capanna tre vecchi
riposavano nelle amache e quattro donne, pure loro anziane, accoccolate in un angolo,
fumavano silenziose la pipa. Alcuni bimbi all’aperto, giocavano rotolando noci di cocco.
Con la nota indifferenza per tutto ciò che accade nel mondo, che è una caratteristica degli indi,
l’accoglienza riservataci fu quanto mai fredda. Senza alzare lo sguardo una donna ci disse,
usando il suo linguaggio, che i loro familiari stavano cacciando e pescando nel vicino lago
Arary’. Disse il vero; infatti non tardarono a rientrare: erano forse una trentina tra uomini,
donne e adolescenti. Tanto i maschi che le femmine, erano di statura media, con un
meraviglioso, accentuato apparato muscolare, capelli neri, lisci o ondulati nei maschi; pesanti,
lunghe trecce ornavano invece il capo delle femmine, Tutti erano coperti all’addome da un
succinto drappo, o di piume bianche e colorate, di garze e di guarà.
Avevano zigomi sporgenti, viso largo, occhi piccoli, poco incavati, ma scintillanti, bocca molto
estesa col labbro inferiore rilevato e carnoso, naso largo ma non schiacciato.
Alcuni portavano appoggiata orizzontalmente sulla spalla destra, un’asta di legno dalla quale
penzolavano grossi pesci, i pirarucù, altri portavano fasci di uccelli acquatici: marrecas, garzas
e guaràs, che vengono essiccati e consumati nella stagione delle piogge. Archi, frecce, arpioni
e altri arnesi da pesca, erano portati dalle donne e dai fanciulli.
Ci venne incontro il capo della tribù dall’aspetto calmo e dallo sguardo freddo e penetrante.
Nella sua lingua e con l’aiuto di poche parole portoghesi, ci offerse ospitalità e mise a nostra
disposizione una capanna, due amache e una cesta contenente certe radici, da bruciare durante
la notte, perché il fumo da esse prodotto avrebbe allontanato le zanzare e i pipistrelli.
Verso sera fummo invitati dal Capo a consumare il pasto colla famiglia. La moglie, giovane,
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grassottella e sempre sorridente, indossava un lungo camice di filato rustico a strisce
orizzontali bianche e brune Due maschietti, i figli, tra i sette e i dieci anni, erano sottili, diritti,
con bella muscolatura.
La capanna del Capo era uguale a tutte le altre, a forma di mezzo uovo con diametro, alla
base, di circa sei metri, armata con solidi tronchi di acapù, un legno scuro, durissimo, pesante,
intaccabile dalle termiti.
La copertura esterna era composta da un fitto strato di fibre di palma, pressate e collegate con
cordicelle vegetali. Il pavimento era formato da tondelli pure essi di acapù, perfettamente
accostati e resi lucidi dal continuo uso, come se fossero passati a cera.
Nelle pareti erano appese pelli di leopardo e di puma, archi e frecce di vari tipi e dimensioni;
strani indumenti tessuti con fibre di yuca con vistosi disegni geometrici, colorati di rosso
bruno. Vari erano gli elementi di adorno: collane di denti di felini, copricapo di piume di garza,
airone, guarà.
Coppe di diversa grandezza, chiamate dagli indi “cuyas” ricavate dalla corteccia di certe
cucurbitacee, incise finemente, con vistosi disegni policromi, di figure umane, di animali e
motivi ornamentali, su fondo lucido e nero, erano poste alla rinfusa su un rozzo pancone, tra
ceste di mandioca e altri disparati oggetti. E’ curioso constatare la resistenza che i colori e le
vernici della cuyas, oppongono all’azione dell’acqua bollente e allo sfregamento. Le
decorazioni ricordano molto quelle delle ceramiche precolombiane degli Incas, per quanto
riguarda l’interpretazione e la stilizzazione delle figure umane e animali, mentre invece è
diversa la scelta dei motivi complementari. Questa accentuata somiglianza fa pensare che,
probabilmente gli Incas, scesi dal Perù per via fluviale sino al Parà, abbiano avuto contatti
duraturi con le tribù dei Tupinambà, lasciandovi l’impronta delle proprie nobili espressioni
artigiane.
Consumammo la cena all’aperto, attorno ad una stuoia stesa a terra, sulla quale furono disposte
le vivande: pirarucù lessato, tartaruga arrostita, mandioca e alcune saporite frutta e vino
(ottenuto dalla fermentazione del succo della canna da zucchero, dalla quale, con diverso
procedimento producono anche la “cachaza” liquore molto alcolico, paragonabile alla
“grappa”).
Coi attardammo a mensa e la serata, sotto il chiarore di un fantastico plenilunio, terminò con
abbondanti libagioni di cachaza e strane canzoni nostalgiche.
All’alba del mattino seguente, tutti i componenti della tribù, prima di recarsi al lavoro nei loro
piccoli campi e alle consuete, indispensabili partite di pesca e caccia, si adunarono intorno allo
stregone del villaggio: un vecchietto scarno e sparuto, col viso crivellato da fitte profonde
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rughe, a rendere omaggio ai loro feticidi, con canti e danze grottesche.
Dopo tre giorni di permanenza al villaggio dei Tupinambà, si fece ritorno a Belem, seguendo
un’altra rotta più lunga, ma assai più praticabile della prima e giungemmo a Suore,
costeggiando il margine di un lungo corso d’acqua, forse il Paracauray o uno dei suoi affluenti.
Torme di are in volo, a bassa quota, con rumorosi battiti d’ala, passarono sbandierando i loro
variopinti colori. In basso, in vaste praterie, circondate da corsi d’acqua e da foreste,
apparivano popolate da numerosi capi bovini d’allevamento.
Rientrati a Belem, un violento, torrenziale acquazzone, annunciò l’inizio della stagione delle
piogge e, come per incanto, la città divenne subitamente deserta. Solo gli urubù rimasero
impassibili ad orlare i tetti delle case.
*********
Pochi giorni dopo il mio ritorno a Belem, rimasi vittima di un imprevedibile duro colpo.
Probabilmente la vera e prima causa di questa deplorevole disavventura, che sto per
raccontarvi, è dovuta ad un pizzico di presunzione e d’inesperienza propria della mia giovane
età. I facili e cospicui guadagni che ricavavo dal commercio delle pelli, non li attribuivo alle
circostanze che li avevano favoriti e ai consigli che, con chiara intuizione ed esperienza, mi
aveva dato mio padre, ma a poco a poco, si era formata in me la convinzione che tutto era
dovuto alla mia chiaroveggenza, e alla mia spiccata attitudine al commercio.
Bayao è un villaggio abitato da indi di diverse tribù. E’ situato su di una lieve altura e le foreste
che lo circondano, producono, oltre alla gomma e altri generi coloniali, una enorme quantità di
castagne paraensi utilizzate per l’abbondante contenuto d’olio, dalle industrie chimiche e
dolciarie e, la castagna stessa, allo stato naturale, come squisito frutto.
Bayao, data la sua ubicazione, confinante con tre Stati: Maranhon, Goyas e Mattogrosso,
attraversata dal gran fiume Tocantin, ha due porticcioli, con grande traffico. Io sbarcai in uno
di essi chiamato Arciao e rimasi subito meravigliato dalle enormi quantità di castagne caricate
su numerose “alvarengas” (grandi chiatte). Una malaugurata idea occupò repentina la mia
mente e feci questa avventata considerazione: “Se di queste castagne c’è una così importante
esportazione è logico pensare che questo è un prodotto molto ricercato”. Senza indugio ed
esitazione, mi misi subito in contatto con un produttore e dopo brevi contrattazioni, ne
acquistai una partita di varie tonnellate. Pattuito l’ultimo prezzo per merce resa a Belem –
pagamento a trenta giorni, ricevimento merce a Belem, lasciai al produttore i dati per le mie
referenze. Ritenni trascurabile, per quel giorno, il solito acquisto delle pelli e, in attesa del
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battello che doveva riportarmi a Belem, feci un disegno di quell’interessante paesaggio e lo
posi soddisfatto nella mia cartella.
Venti giorni dopo la data dell’acquisto, nel vasto capannone, a Belem, dominava una montagna
di castagne paraensi.
Senza perdere tempo, scrissi a diverse industrie e agenzie che si interessavano a questo
prodotto, facendo le mie migliori offerte.
Scrissi a Londra, Parigi, Bruxelles e a diverse ditte svizzere.
Le risposte erano tutte, indistintamente negative.”Non c’è richiesta sul mercato, Ci spiace
dover dar passata alla Vs, offerta. In questo momento il nostro mercato è saturo di questo
prodotto.”
Immaginate il mio stato d’animo, dopo aver letto lettere?
Le rilessi con una lieve speranza di averne mal interpretato il contenuto. Il mio conto in banca
subì un duro salasso, compromettendo irrimediabilmente il futuro della mia ditta.
Insorsi contro di me: perché prima di fissare una così esagerata partita non hai avuto
l’accortezza di consultare le ditte che si interessano a questo prodotto? Era il meno che
potessi fare!
Piombai in un profondo scoraggiamento e dovetti riconoscere la mia inettitudine in fatto di
commercio. E ora cosa avrei fatto? Come mi sarei comportato con mio padre? Presi la mia
decisione: a mio padre avrei detto tutto e subito, prima che lo venisse a sapere per altre vie.
Mi somministrò una lunga crudele lavata di testa, ove le parole “inetto, incosciente”, erano
sempre in primo piano. Poi mi fece questo discorsetto:” Non illuderti e non aspettarti che io ti
aiuti col mio denaro, a mettere a posto le cose. L’unica soluzione che intravvedo possibile, ma
non sicura, è quella della cessione della ditta a qualcuno che abbia un po’ più di buon senso di
te. Ripeto che il commercio delle pelli è, ora, buono e redditizio. Non escludo che si possa
trovare un rilevatario: la ditta ha un discreto avviamento, suscettibile di essere ampliato.
Quanto a te, figlio mio, non ti rimarrà che riprendere le mansioni di aiuto contabile e di
scribacchino, sino a che, maturando in te un po’ di senso comune, possa dedicarti ad una più
gradita occupazione”.
Accettai in silenzio l’umiliante castigo.
Il rilevatario, conoscente di mio padre, non tardò a presentarsi, quale rilevatario della mia ditta
e la continuò, senza interruzione e solo col cambio del nome del titolare. Quel che mi fu
concesso per la cessione fu ben poco.
Mogio e deluso ripresi a ricopiare fascicoli di corrispondenza nelle lingue spagnolo,
portoghese e a tirarne copie con duplicati sul copia lettere azionato a torchio e a scrivere sui
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rispettivi libri contabili le voci segnate sulle “Prime note”.
Le mie disponibilità non mi consentivano più di mantenere e conservare il mio zoo e non vi
dico quanto ho sofferto di dover rinunciare a questa mia passione. Donai tutta la collezione
allo zoo municipale di Belem.
Nel mio cervello e nel mio cuore si produsse un gran turbamento. Quel repentino cambiamento
di situazioni mi spingeva talvolta al pianto e talora a inutili sentimenti di rivolta e di
disperazione.
Per fortuna, disegnando e dipingendo istintivamente, senza scuola e senza la guida di un
maestro, ma con vivo entusiasmo, mi ero creata un’oasi di serenità e di raccoglimento lontana
dalla triste monotonia delle occupazioni d’ufficio.
Dipinsi sulle pareti delle cantine, con audace slancio e molta incoscienza, grandi figurazioni
umane e di animali. Ma mio padre, però, pur lodando(non opponendosi ai) i miei
tentativi artistici, avrebbe preferito che dedicassi il mio tempo a cose pratiche e utili.
*****
La permanenza di circa nove anni a Belem, il clima afoso e deprimente e l’impossibilità di
adattarsi a quell’ambiente, influirono molto sullo spirito e sul fisico di mia madre.
Il suo continuo allarmante deperimento, lo stato costante di tristezza e l’inefficacia i tutte le
cure, indussero mio padre a prendere una drastica decisione: lasciare la direzione della ditta,
rinunciando al mandato affidatogli dal suo amico Don Nicolas Suarez, ritirarsi
definitivamente a Genova e iniziar colà una seria cura per la salute di mia madre. Così i miei
genitori, speravano di poter trascorrere tranquilli e sereni quei pochi anni che li separavano
dalla vecchiaia, provvedendo anche adeguatamente all’educazione di mia sorella Ofelia.
Venne il giorno della loro partenza.
Al momento di separarci mi dettero molti consigli e mi fecero molte raccomandazioni,
Un’agenzia fu incaricata della vendita della casa della Estrada San Jeronimo. Io vi sarei
rimasto indisturbato, fino a che l’atto notarile di vendita non fosse legalmente valido.
Rimasi solo!... E trovarmi solo voleva dire non aver più vicina nessuna persona che mi volesse
bene; voleva dire che avrei dovuto sormontare, senza il consiglio e l’aiuto di chicchessia, tutti
gli ostacoli, i contrattempi, le controversie, i dolori che il destino avrebbe posto, in
opposizione e ai miei sogni, alle mie illusioni, rendendo vano il mio innato ottimismo.
Situazione dura per la mia giovane età. Ma il coraggio non mi mancava.
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SOLO
La mia prima personale decisione, da quando mi trovai solo e responsabile delle mie azioni , fu
quella di trasferirmi all’albergo “La Paz”. Che cosa avrei fatto in quella vasta casa? Sul valido
aiuto di Eulojo non potevo contare, e poi mi aveva informato che voleva imbarcarsi, come
mozzo, su di un vaporetto di piccolo cabotaggio. Mi assicurò che, durante le soste a Belem,
sarebbe venuto da me
Comunque la casa non rimase abbandonata, perché avevo già trasformato la grande sala di
soggiorno, in un bellissimo studio da pittore, ove mi sarei rifugiato nelle ore libere.
Nell’albergo non mi trovavo male. Non dovevo pensare a quanto riguarda la necessità della
vita quotidiana. Tutto era pronto a qualunque ora. Nella sala da pranzo, il mio tavolo era vicino
a quello di un diplomatico boliviano, Don Adolfo Ballivian che vi consumava i pasti, col suo
segretario Juan Zetina. Entrambi di una raffinata squisita gentilezza, non tardarono a stabilire
con me una amichevole relazione, e io mi sentivo molto onorato.
Don Adolfo Ballivian era stato nominato dal suo governo “Capo della commissione
demarcatrice dei confini tra Bolivia e Brasile” e era in procinto di partire, con numeroso
personale al suo seguito, per la zona che comprende il territorio dell’’Acre, ove la
delimitazione dei confini suscitava continue controversie tra queste due nazioni.
Prima di partire Don Adolfo Ballivian mi presentò al nuovo console di Bolivia nel Parà, che
aveva recentemente sostituito mio padre, trasferendo il consolato in altra sede.
Le mie mansioni di “trascrittore calligrafo” furono riconfermate dal nuovo console, con
sensibile miglioramento delle mie retribuzioni, in rapporto alle poche ore di lavoro. Avevo
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così modo di dedicare più tempo alla pittura.
Il territorio dell’Acre è uno dei più malsani del Brasile. Là infieriscono tutte le peggiori
malattie equatoriali: febbre gialla, beri-beri, paludismo etc.etc.
Non erano ancora trascorsi quattro mesi dalla partenza di detta commissione, che giunse a
Belem, proveniente appunto dall’Acre, un contingente di ammalati, tutti giovani. Era penoso
vedere in che stato erano ridotti. Naturalmente il consolato aveva il dovere di occuparsi, senza
indugio, della sorte di quegli infelici.
Io sentii nel mio cuore degli impulsi che mi sospingevano a fare per essi qualcosa subito e
offersi al console il mio immediato interessamento personale per la sistemazione in ospedale di
quei poveretti. La mia iniziativa fu apprezzata e accettata,.
Inviai subito un fattorino all’ospedale della città, per fissare, a nome del consolato, quindici
letti (tanti erano gli ammalati). Avuta la conferma, con vetture, carrozzelle e altri mezzi di
fortuna, prelevai dal battello attraccato tre ore prima alla banchina, quei poveri infelici e li
sistemai in ospedale. Alcuni di essi erano gravissimi. Altri erano già deceduti in viaggio. Al
mattino del giorno dopo due di essi erano spirati e altri tre, nel pomeriggio del giorno seguente,
ebbero la stessa sorte, malgrado le immediate e assidue cure dei dottori.
Ogni giorno, in mattinata e nel pomeriggio, facevo loro la mia visita, interessandomi ai
particolari casi di ognuno di essi, nell’intento di recar loro un po’ di conforto e per soddisfare,
per quanto possibile i loro desideri. Ben pochi furono quelli che ebbero la buona sorte di
rimpatriare.
********
Le corrispondenze che io ricopiavo, erano indirizzate ai vari Ministeri del Commercio, a
quello delle Relazioni con l’estero, e ad altri, per quanto
riguardava trasporti, la finanza etc. Erano redatte in uno stile
ampolloso, direi anche adulatorio e quasi servile come era in uso in
quei lontani tempi. Comunque valsero a farmi imparare, sia pure, molto
superficialmente, la lingua spagnola e quella portoghese.
Ero appunto intento al mio lavoro, quando il console mi chiamò nel suo ufficio e con palese
soddisfazione mi disse: “Ho buone notizie per lei”, ed estraendo un foglio con un plico di
corrispondenza, me lo consegnò.
Il foglio era timbrato con lo stemma, ove si leggeva “Gran sello de estado” e il contenuto era
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questo:
Josè Manuel Pando
Presidente constitucional de la Repubblica de Bolivia
Atendiendo a las aptitudes del Ciudadano
señor Italo Manlio Trucco
Le confiero el titulo de Canciller ad honorem
Del Consulado de Bolivia en el Parà.
Este despacho registrado donde corresponde.
servirà de suficiente titulo para los efectos legales.
Firmado y sellado a La Paz a los tres dia del mes de Julio del ano 1901
(firma di ) Josè Manuel Pando.
Refrendado sed, Diez de Medina
Registrado: El officia Mayor de Relaciones Exteriores
Questa onorificenza era accompagnata da una lettera indirizzatami personalmente dal
Presidente Manuel Pando, compiacendosi e lodando le mie prestazioni in favore di cittadini
Boliviani che ritornarono ammalati dall’Acre.
Il Console m’informò che l’onorificenza mi era stata assegnata
per le mie prestazioni personali in favore di cittadini boliviani
che ritornarono ammalati dall’Acre.
Mi sentii commosso, meravigliato e sorpreso. Cosa avevo poi fatto di straordinario da meritare
questa onorificenza? Chiunque altro, in simile circostanza, non avrebbe fatto altrettanto?
Continuavo a fare le mie scappate quotidiane nello studio dove lavoravo con crescente
passione. I miei ultimi disegni mi sembravano migliori dei primi. Però mi sentivo troppo solo,
mi mancava un po’ di affetto; spesso si affacciava alla mia mente il vivo ricordo dei miei
genitori, di zia Rosita e della mia balia.
Don Adolfo Ballivian ritornò a Belem dopo aver portato a termine nell’Acre, le mansioni
affidategli dal governo boliviano. Mi pregò molto cortesemente di voler ricopiare, in due
esemplari, il “giornale” da lui redatto in relazione al suo viaggio e agli accertamenti fatti
all’Acre, sui confini di quel territorio. Si trattava nientemeno di trascrivere per due volte il
contenuto di un grosso libro di ben 600 pagine,in scrittura fitta, difficile a leggere. Mi faceva
paura solo a guardarlo.
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La copiatura, trattandosi di “documentazioni segrete” doveva essere stesa nell’albergo, in una
sala dell’appartamento, riservato allo stesso Don Antonio Ballivan e al suo segretario.
Lavoro questo che richiedeva molto tempo e io non volevo assolutamente trascurare i miei
impegni verso il consolato, ma mi rendevo conto che mi sarebbe rimasto
ben poco tempo da dedicare alla pittura-.
Decisi, sebbene un po’ a malincuore, di occuparmene di sera, nelle ore libere. Svolsi il
lavoro nelle ore serali, protraendole spesso nelle ore piccole della
notte. Come non avrei potuto non accontentare una persona così importante e così gentile!
Mi misi all’opera subito e dopo due mesi di estenuante impegno, terminai la copiatura di quel
librone, con evidente, piena soddisfazione di Don Adolfo e del suo segretario,.
Fui ricompensato con un’inaspettata generosità e con signorilità particolare.
Ero però invaso da un’inspiegabile tristezza e malinconia, accentuata dal peso di
quell’improbo lavoro serale che spesso si protraeva alle ore piccole della notte. Nello studio
non combinavo più nulla di bene, ero deluso e non avevo più né idee, né iniziative. In quei
giorni Eulojo tornò a casa, grazie alla prolungata sosta a Belem del vaporetto su cui viaggiava.
Lo trovai cambiato, disobbediente e svogliato.
Per combattere il mio abbattimento e la noia, scesi in cantina e ritornai nello studio con due
mezze bottiglie di vecchio bracchetto e, un bicchiere dopo l’altro, le vuotai. Non abituato a
libagioni di quel genere, la mia mente non tardò ad offuscarsi e risvegliò in me il male che,
forse già latente, esplose rapido e violento. Brividi di freddo mi assalirono, e un gran tremito
scuoteva il mio corpo. Non potei far ritorno all’albergo e dovetti buttarmi a letto colto da
improvvisa alta febbre.
Il giorno dopo, il dottore venne, accompagnato da un certo signor Semeria, genovese, cassiere
della ditta Suarez, già alle dipendenze di mio padre e che aveva per lui molta stima.
Il dottore mi prescrisse delle pillole da prendere alle ore fissate.
Eulojo, invece di prestarmi le cure del caso, mi trascurava completamente, anzi, dall’alto di un
albero carico di frutti, chiamati “habyns”, proprio vicino alla finestra della mia camera si
divertiva a bersagliarmi, schizzando tra le dita i lucidi noccioli di quei frutti, prendendo di mira
la mia faccia. Io, purtroppo, non ero in grado di reagire.
Il signor Semeria, consigliato dal medico, che fece una pessimistica diagnosi del mio male, mi
accompagnò senza esitazione in una clinica, nel quartiere di Battista Campos, ove tra vita e
morte rimasi ben quaranta giorni oggetto, per fortuna, delle assidue cure e attenzioni di una
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giovane, graziosa suora. Venne la mia guarigione e il momento di lasciare la clinica. Avrei
desiderato prorogare di qualche giorno la mia permanenza in clinica, per poter restare ancora
un po’, vicino a quella gentile suorina.
In ottemperanza al desiderio espresso telegraficamente da mio padre, il signor Semeria venne a
prendermi con una carrozzella per accompagnarmi a bordo del piroscafo con quale dovevo far
ritorno a Genova.
Transitando in Estrada San Geronimo salii un po’ a stento i pochi gradini che immettevano
nell’atrio della nostra casa ed entrato nello studio, radunai nella cartella tutti i miei disegni,
abbandonando con molto rincrescimento i miei quadri e quadretti, finiti o in lavorazione.
(Cancellato: Con i miei disegni sotto il braccio, ripresi posto nella carrozzella e ci
avviammo al porto.)
Non abbandonavo soltanto i quadri, ma la parte più bella della
mia vita: l’adolescenza, con tutti i suoi sogni e le sue illusioni! …
Poche ore dopo il piroscafo salpava alla volta di Genova.
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DI NUOVO A GENOVA
L’incontro a Genova con i miei genitori fu patetico; dopo le mille domande rivoltemi,
cominciarono gli apprezzamenti sul mio fisico: “Non ti trovo poi tanto male. Un po’ pallido
ma il cambiamento d’aria, vedrai che ti rimetterà a posto. E’ strano , hai proprio l’aspetto di
un indio”.
Questo aspetto di indio lo avevo rilevato anch’io, guardandomi nello specchio. Il colore della
pelle, gli occhi rimpiccioliti e un po’ gonfi con espressione vaga e la mancanza di effusione
nell’esternare i miei pensieri e i miei sentimenti, mi conferivano appunto le caratteristiche
etniche e somatiche proprie dei cari indi, con i quali ho avuto lunghi contatti e per i quali ho
sempre nutrito una viva simpatia.
Mia madre, nella sua Genova, aveva acquistato salute e buon umore. Mio padre stava benone;,
energico e fattivo come sempre, disegnava e progettava la costruzione di una palazzina, perché
il suo sogno era di fabbricare a Bargagli, nelle vicinanze della vecchia casa di campagna dei
nostri avi, una moderna, comoda abitazione, per il soggiorno estivo della sua famiglia.
Mia sorella Ofelia formava la sua educazione presso le suore Marcelline (cancellato: A casa
aveva una istitutrice che le impartiva lezioni di piano.)
Mio fratello Tullio, allora dodicenne, continuava i suoi studi, al collegio nazionale, ove rimase
sino al conseguimento della laurea di avvocato.
Anche le rare nlotizie che pervenivano dal Rio Beni e da S. Antonio dai miei fratelli Luis,
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Alfredo e Urbano erano buone.
L’unico della famiglia che non stava del tutto bene, ero io. Quasi ogni giorno verso sera, una
leggera febbriciattola con brividi di freddo, mi assaliva e per oltre un anno non potei
liberarmene.
Per la casa circolavano due donne di servizio, con cuffie e grembiulini bianchi adornati con
ricami e nastro svolazzanti, che mi ricordavano certe scimmiette stranamente vestite
che gli zingari tengono legate sull’organetto e che distribuiscono “pianeti” ai passanti.
Quell’inutile e ridicolo mascheramento mi infastidiva.
L’appartamento, senza dubbio, era sontuosamente mobiliato. Dominavano i mobili di noce,
scuri con cariatidi, puttini e frutta in alto rilievo, ben modellati, sfondavano su tappezzerie di
ricche stoffe rosse o verdi pure esse scure. Il soffitto della sala di soggiorno, a cassettini, con
pesanti incorniciature policrome e dorate, sembrava volesse schiacciarmi col suo peso. Io, dico
la verità, avrei preferito abitare in un capanna dei Tupinambù. Quell’ostentata atmosfera di
ricca borghesia mi opprimeva. Ma le cose stavano così e non ero certo io che avrei potuto
ambiarle.
Poi, bisognava seguire troppe regole in quella casa, e non si poteva fare a meno di
assoggettarvisi per non far nascere guai. Per esempio: al mattino, bisognava alzarsi molto
presto e tutti alla stessa ora. La mia “libera uscita” alla sera, non doveva protrarsi oltre le ore
22, perché, a quell’ora precisa, per ordine paterno, la porta d’ingresso doveva essere chiusa
con sei mandate di chiave, chiavistelli e catena.
Mi capitò più di una volta, per colpa delle mie distrazioni, di presentarmi alla porta di casa
pochi minuti dopo le ore 22; a nulla servirono le ripetute scampanellate per farmi aprire.
Sentivo dall’interno , la vocetta amica della buona Firmina (una delle donne di servizio) che
bisbigliava: “Mi spiace tanto, signorino, ma non posso proprio aprirle, suo padre
assolutamente non vuole”
Non mi rimaneva che andarmene per quella notte all’albergo.
Capitò però una sera, che trovandomi casualmente senza un soldo in tasca, dovetti passare la
notte su di una panchina all’Acquasola, sotto un comprensivo salice piangente. Era logico che
in quella gabbia dorata non abbia potuto resistere a lungo.
Al mattino, quando un po’ titubante mi presentavo a casa, contrariamente alle mie previsioni,
non ero accolto da nessun rimprovero. Come se nulla fosse accaduto. Avevo, secondo mio
padre, fatto il male e scontata la relativa penitenza. C’era una giusta, esatta compensazione.
Quindi più niente da dire.
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Ricordo che al Parà, quando, nonostante la mia giovane età, maneggiavo già fior di quattrini,
mia madre, assennatamente mi consigliava di essere economo, di non sciupare tutto quel che
guadagnavo.
Mio padre, invece, a questo proposito diceva: “I soldi se li è guadagnati lui, sono cosa
esclusivamente sua, pertanto può farne l’uso che più gli piace ma se, per qualsiasi ragione,
dovesse trovarsi senza, sia ben chiaro: non si rivolga a me”. Ecco un’altra personale opinione
di mio padre.
Pochi giorni dopo il mio arrivo a Genova, mi recai a Milano e poi a Locate Triulzi. A Milano
per abbracciare mia sorella Matilde (nata a Valparaiso, dal primo matrimonio di mio padre e
sposata con mio zio paterno Edoardo, compositore musicista) che non vedevo da parecchi
anni. A Locate Triulzi, per fare omaggio di un bel mazzo di fiori alla signorina Elena, mia
compagna di viaggi e di giochi, durante il tragitto Genova-Belem, effettuato subito dopo la mia
uscita dal collegio. (nota: I mazzi di fiori, allora, erano confezionati così: quando si doveva
fare un omaggio di rilievo, la fioraia sceglieva un bel cartoccio di carta bianca, ricamatissima,
coll’orlo ondulato e vi poneva i fiori, disponendoli in una massa ben compatta e ben accostati
l’uno all’altro. Fissava poi il tutto su di un bastone avvolto con stagnola. Il bastone serviva di
presa per facilitarne il trasporto e, secondo il gusto di allora, formava un insieme architettonico
piacevole. Così si offriva allo stesso modo, un bel mazzo di fiori o una bella torta.)
La sera stessa del mio arrivo a Milano, con mia sorella e lo zio Edoardo, ci recammo al Teatro
della Scala. Andava di scena Lucia di Lamermoor di Donizetti. Il teatro era affollatissimo.
Mio zio mi presentò al grande maestro Toscanini e alla signora. Era con noi anche il
compositore Leoncavallo, l’autore di “Pagliacci”.
Notai con disappunto che tutti mi osservavano con palese curiosità, come si guarda una “bestia
rara”. L’ambiente ove trascorsi gli anni della mia adolescenza, il clima torrido, i continui
prolungati contatti cogli indi avevano impresso alla mia persona, le loro caratteristiche. Ero
timido, taciturno, un po’ sospettoso e avevo lo stesso loro comportamento. Non sapevo dove
tenere le mani, non sapevo quale posizione dare al mio corpo e avevo la percezione esatta della
mia goffaggine e inferiorità, rispetto a tutti quei signori.
Aumentava sempre più in me il disagio e la confusione e dovevo, mio malgrado, riconoscere
che quegli sguardi incuriositi e implacabili, che convergevano sulla mia persona erano
giustificati. Difatti, nell’ambiente europeo della cosiddetta gente civile, se proprio non
apparivo una “bestia rara”, avevo però tutte le caratteristiche per essere considerato un giovane
molto strano e singolare.
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La viva luce diffusa in tutto il teatro, il fragore assordante dell’orchestra, i palchi e le poltrone
di platea affollati, suscitavano in me un turbamento indicibile. Le signore elegantissime m
sembravano tutte bellissime creature da fiaba e gli uomino vestiti di nero, con sparato bianco,
che le fiancheggiavano, mi ricordavano i pinguini. Non avevo, in vita mia , mai visto nulla di
simile e mi sembrava di trovarmi in un altro mondo. Il mio essere era sconvolto.
E lo spettacolo? Confesso che non l’ho seguito affatto. Ero talmente turbato e smarrito che,
canto, musica e applausi scroscianti, non formavano per me, che un unico confuso insieme di
strani rumori che mi stordiva e mi faceva quasi paura.
Nel pomeriggio del giorno dopo, ben rasato, accuratamente pettinato, con indosso un bell’abito
nuovo, una bombetta in capo e una bacchetta di marapima, un legno prezioso del Parà), con
vistoso pomo d’oro, che, secondo me, mi avrebbe conferito una certa dignità, mi recai da una
fioraia e acquistai uno di quei bei mazzi di fiori, sopra descritti e mi diressi verso Locate
Triulzi. Passando davanti ad una vetrina diedi una rapida furtiva occhiata ad uno specchio:
andava tutto bene, facevo un’ottima figura. Ho sempre ricordato la Signorina Elena per i suoi
sentimenti di bontà e di gentilezza e pensavo alla commozione che avrei provato nel rivederla
dopo tanto tempo!
La portinaia della casa dove prima abitava, molto laconicamente mi disse: “La signorina Elena
si è fatta suora e la sua famiglia si è trasferita a Roma”.
Amarissima delusione! A stento frenai un singhiozzo che mi saliva in gola.
Solo in un remoto angolo delle mie foreste, avrei trovato, un po’ di consolazione.
Ormai la mia nuova vita doveva svolgersi qui in Europa, dovevo inserirmi nel turbolento
complesso della civiltà. Pertanto erano inutili i rimpianti, i sentimentalismi, le nostalgie.
E ora pensavo, che cosa farò a Genova?
La mia intenzione era di dedicare tutto il mio tempo alla pittura, iscrivendomi all’Accademia
di Belle Arti, frequentando l’ambiente degli artisti e proseguire per questa strada, evitando le
deviazioni, sino a raggiungere l’agognata meta: diventare un pittore, un artista!
Queste mie intenzioni, però, non collimavano con quelle di mio
padre che aveva deciso di avviarmi alla carriera commerciale ì,
ed anzi, tutti i giorni le sue repliche si aggiravano sullo stesso
argomento. Io gli contrapponevo il mio punto di vista ma egli
restava irremovibile.
“Non è con l’arte che tu potrai far fronte alle dure necessità della
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vita quotidiana”. Non tardò, quindi a trovarmi un impiego presso
un rappresentante di saponi.
Il titolare della ditta era il signor Grasso con “scagno” in Via della Maddalena. Il compito che
mi venne assegnato fu questo: visitare i clienti, persuaderli, con bei modi, a rilasciarmi nuove
ordinazioni, effettuare la riscossione di quanto fatturato in precedenza e, il dopopranzo, in
ufficio dovevo dedicarlo alla stesura di nuove fatture. La nostra clientela era formata
soprattutto da botteghe di commestibili.
Il signor Grasso, uomo bonaria e comprensivo, perfettamente al corrente del mio intimo
dramma, mi lasciava libero tutto il dopopranzo di ogni sabato. “Vada – mi diceva – non
bisogna soffocare i sogni d’arte, vada pure a dipingere”.
E io correvo a Palazzo Rosso o a Palazzo Bianco e rimanevo lungo tempo, a
bocca aperta, davanti ai capolavori di Van Dick o del Magnasco.
Le mie stentate parole per convincere i clienti a rilasciare ordinazioni erano inutili, essi stessi
mi rilasciavano spontaneamente le ordinazioni, perché il sapone verde marmorizzato di
Marsiglia specialmente, era ben accolto dal pubblico.
Il pagamento delle fatture veniva effettuato con pacchetti da 10 lire in monetine di rame da uno
o due soldi, messe in pila e avvolte in rotolo di carta-straccia. Finché i rotoli erano pochi, me
li mettevo in tasca, quando il loro numero aumentava troppo, li avvolgevo in un più grande
foglio della stessa carta e me li mettevo sotto il braccio, tenendoli fermi con la mano.
In un giorno piovigginoso, transitando, senza paracqua, per la stretta, affollatissima Via
Luccoli, avvenne un incresci oso fatto: i pacchetti dei soldi e la cartastraccia che li avvolgeva
si intrisero talmente d’acqua, che soldi e soldini, uscendo dal loro involucro, come una
violenta sonora pioggia, precipitarono sul selciato, tra gambe e piedi di numerosissimi,
affrettati passanti. Non vi dico in quale frangente mi trovai. Cominciai la raccolta, tra spintoni,
risa maligne e una confusione indescrivibile. Qualche anima pietosa mi venne in aiuto, ma
ogni tanto ci si doveva spostare al margine della via per lasciare, per lasciare il passo alle
carriole trainate dai facchini, che gridavano maleducatamente: “Imbarazza strade! Lasciate il
passo libero!”
Malgrado questa malaugurata disavventura, ho constatato, ricontando i soldi, che l’ammanco
si riduceva a ben poco e, attingendo al mio personale borsellino, rimpiazzai il perduto. Dopo
questo incidente il Signor Grasso si decise ad acquistare una capace borsa di cuoio.
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Non servirono granché le esperienze contabili fatte a Belem le somme; le date e le voci sulle
fatture che compilavo, erano troppo spesso errate e giuste, invece, erano le osservazioni e i
rimproveri del mio principale. I miei pensieri, mentre scrivevo, vagavano ben lungi dallo
scagno del signor Grasso, Mentalmente dipingevo con una tavolozza coperta dai più
smaglianti colori! Il mio corpo era alla scrivania, il mio spirito in paradiso.
Anche questa parentesi basata sul sapone, con uno spiacevole scivolone, mi rimandò a casa
disoccupato. Difatti il signor Grasso, giusto e onesto, mi mise al corrente di cose che ignoravo.
“Vede, caro pittore - mi disse - i soldi che io le ho dato in compenso delle sue prestazioni, non
erano miei. Lo stipendio, era suo padre che glielo pagava per mio tramite. Le dico inoltre
che ho constatato, non se ne abbia a male, che lei non ha alcuna attitudine per il commercio,
per questo ho ritenuto mio dovere dire a suo padre che è meglio che lei si dedichi agli studi
dell’arte”.
Ero, dunque, gentilmente licenziato!
Dopo una lunga lotta di sentimenti contrastanti, tra mio padre e me, grazie alle mitiganti parole
e all’appoggio di mia madre, vinsi la partita. Fu deciso che avrei abbracciata la carriera
artistica!.
Immaginate, amici miei, lo stato di beatitudine del mio animo? La mia gioia?
M’iscrissi all’Accademia Ligustica di Belle Arti. I corsi si svolgevano nelle ore pomeridiane.
Mi presentai al pittore Luigi de Servi, lucchese, con studio in Vico chiuso Carletto. Avevo
visto di lui alla mostra della Società Promotrice di Belle Arti , un ritratto virile, che mi
piacque, per la tecnica larga e disinvolta, con cui era condotto, per la bella colorazione e per
l’espressione del volto.
Gli presentai, molto confuso e titubante, la cartella dei miei disegni eseguiti a Belém.
Naturalmente, come del resto mi aspettavo, mi fece rilevare numerosi difetti: segni inutili e
troppo incisivi, sproporzioni tra le diverse parti del corpo nelle figure, mancanza assoluta di
senso prospettico e, in molti casi, anche eccessiva infantilità nell’interpretazione del modello.
Comunque ammise che c’era in essi anche del “buono” e mi accolse volentieri nel suo studio,
che era composto da due grandi sale, delle quali una per il suo studio personale e l’altra per gli
allievi. Io lo frequentai nella mattinata e in parte del pomeriggio.
Il mio progresso era rapido ed evidente. Anche la scelta di modelli caratteristici e interessanti,
agevolava il buon esito delle mie interpretazioni dal vero.
Durante le frequenti visite al mio maestro, del grande compositore Giacomo Puccini, anch’egli
lucchese, (Cancellato: che appunto a quei tempi era intento alla composizione di Madama
Butterfly), e dello scultore Edoardo de Albertis, mi sentivo molto lusingato dai loro
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complimenti e dalle loro parole d’incoraggiamento.
Durante i miei lavori incappavo a volte in difficoltà che ritenevo insuperabili, ed ero soggetto a
scoraggiamenti e a sofferenze crudeli, che mi facevano dubitare della mia capacità. Ma
insistevo, non volevo darmi per vinto, ritornavo con accanimento e, direi quasi, con
testardaggine al mio lavoro, sino a rimuovere e ad annullare i contrasti che si frapponevano tra
la mia volontà e il mio dipinto. Bisogna dire, che, raggiunto lo scopo prefisso, la
soddisfazione è assai più viva, quanto più sono numerosi e difficili gli ostacoli da superare.
Dalle ore 20 alle 22 (non più tardi, godevo della mia libera uscita e me ne andavo al Caffè
Milano, ritrovo di artisti, pittori, scrittori, poeti, scultori, giornalisti e appassionati d’arte. Era
quanto mai divertente e istruttivo, ascoltare le vive discussioni, i paradossi che s’incrociavano,
da un capo all’altro della sala, tra quegli entusiasti frequentatori del caffè. Alcuni, forse la
maggioranza di essi, insistevano con calore, sulla necessità urgente della ricerca di nuove
forme, di nuove espressioni, di tentativi, magari azzardati, ma sempre nell’ambito della natura
e della tradizione. Ma già allora, tra i più scalmanati, c’erano pochi – ma c’erano – i “brucia
musei”, i “distruttori” di tutto il già fatto: opere d’arte, istituzioni, religioni, tutto il vasto
patrimonio tramandatoci dalla civiltà e tradizioni, da secoli e secoli! Bisognava, secondo le
loro teorie, distruggere tutto e ricominciare da zero, A me, forse troppo ingenuo e
incompetente in materia sembravano degli alienati e, allo stesso tempo, non mi dispiaceva la
loro maleducata irruenza, nell’esprimere, in modo certo non ortodosso, le loro
incoerenze. Tra di essi non mancavano i “capelloni”, che si differenziavano da quelli d’oggi,
solo perché questi, ora di moda, lasciano fluire le loro lunghe disordinate e arruffate chiome,
un po’ dappertutto: a cominciare dal coscuzzo (sic) sugli occhi e sulle spalle; quelli d’allora,
invece, forzavano la crescita dei loro capelli, dalla nuca alle spalle. I loro occhi spiritati
brillavano, sulla faccia smunta e giallognola, che a sua volta, era invasa, sotto le orecchie da
basette arruffate, alla Schopenhauer.
C’erano, però, anche gli studiosi, quelli che non ignoravano, che la vita non si affronta solo
con fumo e parole. Tra quelli che ho avuto la fortuna di frequentare allora c’erano Angiolini
(giornalista), Baritono, Barile, De Goffredi, De Alberti, Ceccardo Roccatagliata, Messina, De
Servi, Denegri, Figari, Galletti, Giglioli, i Gagliardo, Mario Maria Martini, Merello,
Maragliano, Motta, Pennasillico, Sbarbaro, i F.lli Saccorotti, Sacheri, Viazzi, Panseri e altri.
Sarebbe forse compito lungo e difficile parlarvi a lungo di ognuno di essi.
Dirò più sotto qualcosa di De Negri, non già perché fosse il più dotato, tra essi, ma era così
tipico e difendeva con tanta originalità la sua indipendenza, che merita di essere ricordato.
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Tra gli amici sopra nominati, alcuni erano già molto noti. Altri assursero dopo: il poeta
scrittore Sbarbaro e , ad esempio, lo scultore Messina.
I più, invece, rimasero ignorati. Ma che importa se a questi non ha arriso il successo e la
notorietà? La vita l’hanno affrontata coraggiosamente; hanno lavorato intelligentemente con
amore e dedizione. E poi si sa, anche le citazioni, gli elogi, le apologie sono quasi sempre
dedicate agli artisti già incontestabilmente noti.
Quanti sono i fiori che donano al prato i loro preziosi colori, il loro profumo, senza che
nessuno si curi di coglierli e di guardarli?
Cari amici di Genova, non posso dimenticarvi, vi ho sempre nel cuore.
Moltissimi, tra voi, sono gli assenti; ma la morte, il meglio di voi non se lo è portato via; vi
parlo, sono spesso in contatto con voi, come se foste anche fisicamente presenti.
Ora, eccovi De Negri. Figlio di toscani, nato nel Cile, buon caricaturista, vestiva malamente,
con scarpe rotte, barba incolta, ispida e nera, e due occhi scintillanti e diabolici. Odiava il
lavoro e la parola stessa , l’avrebbe cancellata da tutti i dizionari. Non aveva domicilio,
dormiva d’inverno nello studio di uno o dell’altro pittore, sui fornelli di una cucina, o magari
alla meglio, sdraiato per terra, con un fagotto sotto il capo, come capitava. Nella stagione
autunnale, estiva e di primavera, il suo domicilio era la solitaria spiaggetta di Santa Chiara e la
sua camera da letto, una delle barche che i pescatori lasciavano sulla spiaggia.
Si nutriva allora quasi esclusivamente di pesce. Qualcun regalato dai pescatori, qualcuno da lui
stesso pescato colla canna. L’ho visto un giorno uscire dall’acqua, con un polipo serrato tra i
suoi bianchissimi denti. Scuro di pelle e barbuto com’era, sembrava un tritone. Cuoceva i pesci
tra i sassi arroventati. Per un pacco di ritagli di salumi, appose la sua firma, non so su quante
carte bollate, addossandosi tutte le responsabilità, relative al fallimento di un pizzicagnolo di
dubbia moralità.
Gli abiti e gli indumenti che spesso gli regalavano gli amici, per metterlo un po’ all’onore del
mondo, si affrettava a venderli per pochi soldi, perché, diceva: “Guai se fossi ben vestito, non
avrei più la protezione di nessuno”.
Con astuzia e adulazione riusciva a carpire a qualcuno dei suoi amici, me non escluso, uno
schizzo o un disegno. Cancellava, cinicamente sostituendola con la sua, la firma dell’autore
“così – diceva – per pochi soldi trovo chi lo compra”.
Per iniziativa e cura dei suoi amici e per cura degli stessi, senza però la sua convinta adesione,
fu allestita nella sala del Caffè della Borsa, una piccola mostra, di una dozzina di caricature del
De Negri. Una sola fu venduta.
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Dopo molte insistenze, riuscimmo a condurlo al Caffè della Borsa e, appena giunto, lo
mettemmo al corrente della vendita: “Un signore l’ha acquistata per 50 lire”. Gli si accese
talmente il volto, che c’era da temere un colpo apoplettico. Perse il controllo di sé stesso e,
come un forsennato, correva su e giù per la sala, gesticolando, gridando a tutta voce: ” 50 lire!
50 lire! Dategliele tutte, per 50 lire, dategliele tutte! Via, staccatele subito, staccate, staccate e
dategliele subito tutte, che non abbia a cambiare idea!”
Venne il momento anche della mia prima mostra alla Promotrice belle arti. Coll’approvazione
del mio maestro De Servi esposi tre quadri di modeste dimensioni. Uno intitolato “Vasca nel
giardino dell’Acquasola, l’altro “Nel Parco di Villa Quartaro” e il terzo, una testa virile,
energica e volitiva, che per suggerimento del mio maestro intitolai “Tribuno del popolo”.
Provai una invincibile emozione e sorpresa quando il segretario della Promotrice mi disse la
“Vasca nel giardino dell’Acquasola” era stata acquistata dalla Signora del noto giornalista
Gustavo Macchi. Altre vive emozioni m’attendevano: sul “Secolo XIX”, sul “Caffaro” e sul
“Lavoro”, nella rubrica delle recensioni d’arte, figuravano il mio nome, accompagnato da
brevi, ma per me molto significative, lodi. Era la mia prima vendita , e la prima vendita, per un
giovane pittore, è un po’ come il primo amore; non si scorda mai! Ero veramente contento.
Questa prima prova mi consentiva, ora, di entrare a testa alta nel mondo dei pittori. Vi par
poco?
I miei genitori, ora molto ben disposti verso di me, non si opposero all’intenzione, che da
qualche tempo ruminavo, di recarmi a Firenze per ampliare e perfezionare le modeste
conoscenze artistiche acquisite. Avrei visto da vicino le opere di molti nostri grandi pittori del
passato!
*********
Oltre a quel poco che avevo imparato all’Accademia e dal mio maestro De Servi, avrei
desiderato avere qualche nozione di anatomia. Il mio amico scultore De Albertis, mi
raccomandò a suo padre, notissimo anatomista, che con grafici, fotografie e disegni,
m’impartì amichevolmente le prime lezioni teoriche e un bel giorno mi disse: “Dovresti
presenziare alla dimostrazione pratica che impartirò, lunedì alle ore 10, all’Ospedale di
Pammatone”.
Vi andai: disteso su di un tavolo, giaceva il cadavere di un uomo anziano, magro, con muscoli
e ossa nude scoperte. A quella vista rimasi tremendamente impressionato. Era la prima volta
che vedevo un uomo morto, completamente denudato. Triste spettacolo!
Attorno al tavolo, oltre al professore, erano affollati gli allievi universitari di medicina e
chirurgia. Io cominciavo a sentirmi male, non volevo però essere giudicato dai presenti un
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“cuor di Signorina”.
Feci appello a tutte le mie forze per resistere, ma quando il professor De Albertis, fece la prima
incisione per iniziare l’autopsia, mi sentii mancare e svenni. Sostenuto da uno studente, fui
disteso su di una lettiga e con ripetuti schiaffetti, non tardai a riprendermi.
“Va, caro, va a casa” mi disse il professore, e me ne andai alquanto mortificato.
*********
Morì improvvisamente all’età di 65 anni mia zia Rosita. Fu per me un durissimo colpo, Io
volevo molto bene a zia Rosita, perché era buona. Con lei mi confidavo. A lei potevo dir tutto,
non le nascondevo nulla, con piena fiducia, nella sua intelligente comprensione Era mia zia,
ma anche una fedele sincera amica.
***********
La costruzione della palazzina a Bargagli era virtualmente ultimata – e l’abitammo nel periodo
Giugno-Settembre. La decorazione dei muri esterni doveva essere, per volere di mio padre,
ispirata allo stile “Liberty”, che a me non piaceva affatto. Non riuscii a dissuaderlo dalla sua
ferma decisione e dovetti approvare. M’incaricò di eseguire io stesso le decorazioni desiderate,
coll’aiuto di qualche mio collega. A Davagna, piccolo paesino di montagna, proprio in faccia
allal borgata di Bargagli, c’erano due giovani studenti, figli del Segretario del Comune, che
s’occupavano di decorazioni murali. Andai a trovarli e li informai sul da farsi. Accettarono di
buon grado, ci dimostrammo subito reciproca simpatia e ci demmo del “tu”.
Uno di essi, il più giovane, frequentava a Genova la 5° ginnasiale e si chiamava Nino
Cominetti, Il maggiore, Peppino, il 2° anno di liceo. Nino voleva dedicarsi alle belle lettere e
Peppino alla pittura.
Quel poveruomo, loro padre, con la moglie sempre ammalata, due piccoli figli, maschio e
femmina alle elementari e i due maggiori alle scuole classiche, col misero stipendio di
Segretario comunale, doveva far miracoli. Per questo Nino e Peppino, buoni e intelligenti,
consci del duro calvario del padre, si adattavano a qualsiasi lavoro pur di aiutare la famiglia.
Mio padre aveva stabilito con equità la paga per ognuno di noi: Lire cinque, per ogni giornata
di lavoro. Io godevo dello stesso trattamento dei Cominetti, col vantaggio che non avevo spese
da sostenere.
La decorazione delle facciate esterne dipinte “a fresco”, le pitture ad olio all’interno,
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sopraporte, pannelli con frutta e fiori nella grande sala da pranzo e cigni, alghe e nastri
svolazzanti, nel bagno, ci occupò quasi tre mesi e l’amicizia con i fratelli Cominetti divenne
salda e affettuosa. I nostri pensieri, le nostre idee e le nostre illusioni, collimavano alla
perfezione.
Perdurava invece tra mio padre e me, l’opposta concezione della vita. I suoi argomenti
preferiti, concernevano sempre gli affari, il commercio, il denaro; cose queste che, per me,
non avevano la minima attrazione e non costituivano certo una meta da perseguire. Più tardi
però, ho dovuto constatare, mio malgrado, che delle sue opinioni avrei dovuto tener conto,
specialmente quando certe crude situazioni, mi misero a duro contatto colla realtà della vita.
Al principio di ottobre, ultimati i lavori ritornammo a Genova.
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FIRENZE
(Periodo fiorentino)
Con molto dispiacere lasciai i miei genitori e gli amici. Partii per Firenze!
Portavo una valigia con i miei indumenti e un grosso pacco, contenente una buona scorta di
colori, tavolozze, piccoli telai smontabili, la mia cartella dei disegni e alcuni libri.
Giunto a Firenze, per la prima cosa, lasciai la valigia in deposito, presi un caffè al bar della
stazione e mi feci condurre in carrozzella in Via Nazionale, ove mi fu detto, c’era un piccolo
ristorante, frequentato da artisti e, nella stessa via, o poco lontano, era facile trovare una
camera mobiliata, presso qualche famiglia.
Difatti, quel piccolo ristorante, era un ritrovo di artisti. Specialmente di teatro, di commedia,
operetta, varietà, ballo. C’erano anche alcune giovani che studiavano dizione, dal noto dicitore
prof. Rasi. Erano aspiranti attori.
Quando tornai alla stazione, per ritirare il mio bagaglio, il grosso pacco non c’era; l’avevo
dimenticato sul treno. Il capostazione fece le dovute telefonate per rintracciarlo, ma il pacco
non fu trovato.
Mi dispiacque molto, ma molto aver perduta la cartella dei miei
disegni, che aveva per me un valore spirituale inestimabile.
Quella sera mi alloggiai in una camera, mobiliata alla meglio, nella stessa via Nazionale. Una
volta tanto ho dimostrato di avere un po’ di buon senso: la fissai per una sola notte e feci bene.
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La camera era invasa dalle pulci eccezionalmente aggressive.
Il giorno dopo fissai per una settimana, questa volta, un’altra camera in Via Mirasole, in casa
di una fioraia. Pochi giorni prima , sua figlia Elsa era stata eletta “Reginetta del mercato”. Se
avessi fatto parte della giuria, non avrei esitato a darle pieni voti, anch’io. Era veramente molto
carina. Fissai l’affitto per un’altra settimana. I padroni di casa erano cortesi, non mancava
un’accurata pulizia, la biancheria del letto era candida, Non c’era dunque nessuna ragione che
impedisse di rimanervi. Mi mancava, però uno studio. Ma prima di cercarlo volli visitare, in
tutta calma, la parte esterna della città e, zona per zona, con lunghe, lente passeggiate, nel
centro e nelle immediate adiacenze, ne ammirai, con commossa gioia, tutte le meraviglie,
guida alla mano, proprio come un turista straniero.
Quando rientrai stanco nella mia camera mi butta sul letto e tutte le magnifiche e preziose
creazioni del genio umano che avevo visto da vicino mi attraversavano la mente e il cuore
come se fossero travolte da una impietosa fiumana, confuse e mescolate tra loro, senza ch’io
potessi isolarle e considerarle separatamente. Intravvedevo la Chiesa di S.ta Maria Novella, la
Porta del Paradiso del Ghiberti, nel Battistero. S.ta Maria del Fiore, così bella, specialmente
nella parte absidale, il San Giorgio di Donatello nell’Orsanmichele; S.ta Croce e gli affreschi
di Giotto; San Lorenzo e la sua Sacrestia nuova colle numerose opere di Michelangelo.
Dinanzi a quell’ondata di grandiose bellezze, come mi sentivo piccolo e insignificante!
Nella notte feci uno strano, sbalorditivo sogno,ove l’incoerenza, la contraddizione e l’assurdo,
l’impossibile e il ridicolo, dominavano la scena che si svolgeva in una grande piazza,
circoscritta dalle fantastiche architetture di S.ta Maria Novella, di S.ta Croce e di S.ta Trinita.
Apparvero d’improvviso in una fantastica luce, Papa Giulio 2°, Dante, Michelangelo,
Botticelli, Cosimo de Medici, Donatello e molti, molti illustri personaggi di un lontano
passato, Tenendosi stretti per mano, volteggiavano in un vorticoso girotondo, lieti e sorridenti.
In un altro lato della piazza, numerosi Guelfi fraternizzavano con i Ghibellini, con affettuosa
enfasi. Laggiù, in fondo, in un antro oscuro, sferzato da fasci di luce rossa, campeggiava
Lucifero, che colla “divina Commedia” infilzata su di una forca, tentava di distruggerla,
affondandola nei ghiacci eterni. Ma ecco apparire Beatrice sotto le sembianze di un Angelo,
che riesce a carpirgliela e a involarsi con essa. Altre illogiche raffigurazioni, prive d’ogni
senso, furono repentinamente interrotte dalla mia padrona di casa che bussava forte alla porta
per consegnarmi la posta.
In fondo, in quel caos non era assente una certa logica. Quell’accolta di personaggi in
atteggiamenti inconcepibili, i paradossi politici, storici e nostalgici, non erano che il genuino
frutto della mia fantasia avida di conoscenza e di sapere e della mia in commensurata
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ignoranza.
Tra la posta consegnatami dalla mia padrona di casa, in una lettera di mio padre , lessi: “Mi è
caro informarti che tra le disposizioni testamentarie di tua zia Rosita, di cui io sono
esecutore, c’è un lascito a tuo favore di £. 20.000, che ti corrisponderò, in ottemperanza al
suoi desiderio, in ragione dl £.150 mensili, che riceverai ogni fine mese, a mezzo assegno
bancario”.
Quest’altra tangibile prova d’affetto di mia zia Rosita, mi commosse. Così avrei potuto far
fronte alle mie spese, senza ricorrere all’aiuto paterno.
***********
Al ristorante la giovanissima e graziosa attrice Lida Borelli dominava allora, trionfante la
sala, circondata da un folto stuolo di ammiratori e forse anche adoratori ed era evidente il suo
vanitoso compiacimenti.
Il capocomico Marchetti con le sue argute, improvvisate battute di spirito, faceva sbellicare
dalle risa i presenti.
Feci un disegno del suo profilo e glielo offrii in omaggio Ciò mi valse un buono di ingesso
gratis, per assistere al repertorio di tutte le operette messe in scena dalla sua compagnia: Il
paese dei campanelli , Gheischa, Il duchino, Madame d’Angot e altre ancora che non ricordo.
********
I quadri che mi recai a vedere alla Galleria degli Uffizi, del Bronzino, Raffaello, Andrea del
Sarto, Botticelli, Ghirlandaio, Rubens e tanti altri, pur essendo eseguiti in diverse epoche, con
diversità rimarchevoli di tendenze e di tecnica, per me, erano tutti, indistintamente bellissimi.
Non mi sentivo ancora abbastanza maturo per arrogarmi presuntuosamente il diritto di
emettere giudizi, opinioni personali e stabilire delle preferenze. Mi sembra questo per una
ragione, quello per un’altra, tutti meravigliosi e mi ripetevo con ammirazione e grande rispetto
il nome dei loro autori.
Era per i miei occhi una vera gioia, osservare da vicino quei bei quadri. Mi prendevo il piacere,
un po’ per curiosità, un po’ per studiarne i dettagli, di suddividere il soggetto, mediante un
piccolo passepartout, che portavo sempre i tasca, in tante piccole sezioni. Quasi tutte le parti,
così circoscritte esaltavano la mia fantasia. In ognuna di esse scoprivo tante preziosità di
colore, di forme e tanti originali elementi, ch suggerivano la composizione di nuovi quadri.
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Lungo il Mugnone presi in affitto un piccolo studio. Era un po’ troppo distante dal centro, ma
in un posto silenzioso che invitava al raccoglimento e alla meditazione.
Ripresi a dipingere con vivo entusiasmo, la figura dal vero e poco lungi dallo studio il
paesaggio. Quel che mi sembrava strano e che sembrerà strano anche a voi, era che, invece di
trarre ispirazione e spunti per i miei saggi più impegnativi dal meraviglioso ambiente
fiorentino e dalle sue eccezionali opere d’arte, il mio pensiero vagava lontano e andava a
cercarli insistentemente tra le immense misteriose foreste paraensi e tra i suoi semplici e cari
indi. Sentivo che il mio vero mondo era quello della mia adolescenza, dal quale non mi sarei
staccato mai; così nacque la mia pittura, fatta di ricordi e di sogni. Pittura che ancora oggi
seguo con immenso amore e fedeltà.
Giacché ho rievocate qui quelle lontane foreste, ricordate, quando giovinetto mi aggiravo tra
esse, timido, ma fattivo, ligio ai miei doveri, troppo impulsivo e ottimista al cento per cento ?
Ebbene a Firenze mi sentivo sensibilmente cambiato. Io credo che il clima e l’ambiente
influiscano molto sulla nostra formazione fisica e morale. Le qualità o difetti della mia
adolescenza mi erano quasi tutti rimasti, ma altri ne aumentarono l numero, non certo in modo
positivo. Un gran disordine per esempio (Cancellato: che metteva sossopra tutte le cose che
avevo attorno spostandole dal loro consueto logico posto), l’assenza del più comune
buonsenso , e frequenti inconcepibili distrazioni. E quel che è peggio ed assai più riprovevole
per i ben pensanti, il disordine non mi dispiaceva, mi pareva anzi che fosse un toccasana
contro la monotonia, contro tutto ciò che era statico e sempre uguale.
I più disparati oggetti, buttati o caduti sul pavimento ostacolavano il passo e dovevo scansarli e
allontanarli con la punta del piede. Era un gran piacere vedere le curiose bizzarre ombre
ch’essi proiettavano sotto la luce del grande finestrone. E poi, tutto questo si avvicinava molto
al mio abituale stato d’animo.
Ogni tanto, si capisce, per rendere possibile la circolazione, dovevo ricorrere alla scopa e
liberare il pavimento. Ma in breve tempo ritornava il caos di prima. Ordine e disordine in
continua opposizione, erano in armonia colle continue eterne alternative tra bello e brutto,
bene e male, buono e cattivo e così via all’infinito, che ci offre la natura.
Ho accennato più sopra anche al mio cambiamento fisico. La mia somiglianza agli indi
paraensi a poco a poco era svanita e sorsero nel mio volto nuovi segni e un’espressione che mi
conferiva l’aspetto di un cinese; non per il colore della pelle, ma a causa di due baffetti, mal
cresciuti, che, invece di puntare verso l’alto, secondo la logica e la normalità, scendevano
verticalmente all’ingiù, quasi sino al mento, rasentando la bocca. Anche le mie mani si erano
sviluppate in un modo che non mi piaceva affatto; la palma era spesso quadrata e tozza e le
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dita troppo corte. Anche le mie braccia erano troppo corte e di questo, soprattutto mi
rammaricavo, perché evidentemente non avrei, con esse, potuto abbracciare il mondo, in un
solo amplesso per attingervi da vicino un po’di conoscenza e di sapere, come vivamente
desideravo.
*********
“Domani grande festa a Settignano, processione, musica, gare sportive, danze, fuochi
artificiali, mortaretti. Vedesse che bello! Venga, venga anche lei con noi , signorino! Ci
divertiremo” così mi disse la mamma di Elsa.
“Grazie, signora – le risposi – lei è molto gentile, accetto volentieri il cortese invito. Mi farà
bene un po’ di distrazione”.
La mamma di Elsa era nata a Settignano. Alle ore sette del mattino seguente, in casa eravamo
tutti in movimento; il caffè era già preparato, due ampie sporte traboccavano di pacchi e
pacchetti contenenti i doni per i parenti e gli amici della mia padrona di casa.
Il mio portasigarette era già nella tasca ben stivato, le mie scarpe lucide e la bella bombetta in
mano: l’avrei messa in capo appena uscito di casa. Dopo tutto, pensavo, la compagnia di Elsa
era gradevole.
La vecchia zia di Elsa, la signora Adelina, brutta e un po’ arcigna, ritoccava il suo scarno volto
davanti allo specchio e considerava molto attraente il nastro di seta nuovo che, poco prima,
aveva applicato sul cappello di due anni fa.
In fondo a Via Ricasoli sostava in attesa, una traballera, con due melanconici ronzini,
consapevoli degli sforzi che avrebbero dovuto sostenere, per trascinare, oltre al veicolo, un
pesante gruppo di gitanti. I sedili erano in gran parte già occupati e valigie, fagotti, pacchi e
altri ingombri, ostruivano il passo.
Le due signore ed Elsa, riuscirono a trovare posto sedute. Io dovetti rimanere in piedi e dopo
vari spintoni, mi trovai pressato come un torchio da due grossi corpi maschili. Sgangherate risa
e animate conversazioni, s’intrecciavano da una parte all’altra del veicolo. Mi stordivano e mi
facevano pensare, con una specie di nostalgia, alla tranquillità del mio studiolo di Lungo il
Mugnone.
La traballera era inghirlandata, tutt’attorno, all’esterno, di rami e fogliame d’alloro.
Con un gioioso scoppiettìo della frusta il cocchiere diede il via e gridò, rivolgendosi ai ronzini:
”Su, via grulli! Arrancate e badate alle fosse!”
Un urlo di gitanti dimostrò la loro soddisfazione. La traballera era in moto e, contando uno per
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uno, con fragore, i blocchetti di pietra che selciavano il pavimento della strada, ondecchiava,
beccheggiava, scricchiolava, molto allegramente.
Un lungo tralcio d’alloro, insinuatosi abusivamente all’interno da un finestrone aperto,
sensibile ai sussulti del veicolo, martellava la mia bombetta e di tanto in tanto mi solleticava il
collo. Dopo un paio di chilometri, il cocchiere fermò i suoi cavalli, tirando violentemente a sé
le guide. C’era un’osteria, dove - disse, - doveva fare una commissione alla proprietaria, e la
fece, bevendosi un bel bicchierotto di vino bianco. Riprese tosto la guida e ci rimettemmo in
moto. Prima di giungere a Settignano, fece un’altra breve sosta, davanti all’osteria “Buon vino
per chi viene”. Questa volta era però per informarsi della salute del figlio dell’’oste, il quale
per ringraziarlo, volle ad ogni costo che assaggiasse il suo vino bianco toscano. Così ci disse
mentre nei sorrisi dei gitanti affiorava un pizzico di incredulità.
Ancora qualche secco colpetto della frusta, ancora qualche ondeggiamento dei passeggeri in
piedi che a stento mantenevano l’equilibrio, ed eccoci arrivati a Settignano.
La piazza e tutte le strade e stradicciole che in essa convergevano, erano ingombri da
interminabili file di bancarelle con torroni, frutta secca, dolciumi e le più impensate mercanzie.
I venditori vociavano tutti assieme e non si riusciva a capir gran che di quel che dicevano.
Vedevo aggirarsi tra essi, uomini alti, bassi, magri o grassi, con palamidoni, color rosso
mattone, o verde secco, adornati da un ampio colletto di pelliccia di volpe rossigna o grigia.
Spandevano tra la folla una piacevole nota di colore.
Poco dopo il nostro arrivo, la signora Adelina mi disse:” Col suo permesso ci assentiamo un
momento. Sa, ci sono i parenti da salutare. Ma non tardiamo. Ci vedremo tra poco, qui in
piazza. Ci scusi tanto, signorino”.
“Ma le pare? – io dissi – S’accomodino pure! Intanto io mi diverto a guardare tutte queste
belle cose“.
Non erano ancora suonate le 9 che già c’era chi ballava, su una piattaforma di legno fissata sul
selciato. Tra i quattro vecchietti del corpo musicale, il suonatore di flauto, già a quell’ora,
evidentemente brillo, non riusciva a rispettare né il ritmo, né il tempo e col suo strumento
emetteva suoni stridenti e quanto mai stonati. Ma i ballerini, in quel momento in pista , erano
dotati dalla natura di orecchie e gambe atte ad accettare qualsiasi genere di rumore e i più
impensati movimenti. Erano sei giovani, rozzi e alquanto goffi, con scarponi a quadrupla
suola, ben chiodata e fazzoletti di vivi colori al collo, i quali, in compagnia delle loro sgraziate
ragazze pestavano il tavolato con violenza e col fragore della ferraglia degli scarponi
sembrava volessero, a ogni costo, sfondarlo. Chissà chi erano e da dove venivano !?
In gran frastuono di campane suonate a distesa e la musica della banda , annunciarono il
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passaggio della processione. Una bella Madonna di legno colorato e dorato, adorna di
appariscenti gioielli, dominava dall’alto di un cassone, riccamente decorato ed era portata a
spalle da quattro baldi giovanetti. Sfilava lentamente tra due ali di pubblico, che a capo chino
si faceva il segno della croce. Si vedevano i chierichetti in bianco e rosso, le ragazze in bianco
come tante fatine, colle chiome adorne di fiori in bocciolo. Le mamme, le spose e le vedove
con veletta scura; i sacerdoti che portavano indosso la pianeta ricamata dalle donne del paese,
avanzavano, pregando, sotto il baldacchino, seguiti da una fila interminabile di uomini, donne
e fanciulli, ogni gruppo dietro al proprio labaro. I canti religiosi si alternavano al suono della
banda.
Io ero sempre in attesa delle mie compagne di gita, ma di esse nessuna traccia.
“Che mi abbiano gentilmente piantato in asso?” “ mi domandai. Al campanile della chiesa
scoccarono le ore 14. Intanto l’appetito incalzava.
Attorno all’unica osteria di quella zona c’era un gran movimento, un continuo via vai di gente
d’ogni specie. Chi vi entrava per dissetarsi con una o due bottiglie di buon vino, chi ne usciva
per respirare un po’ d’aria pulita.
Anch’io vi entrai, ma era talmente stipata di avventori, col viso proteso tra i piatti dell’arrosto
d’agnelletto, di salumi o delle patate fritte che non c’era più un posto per me. Uscii, comprai
un po’ di frutta secca e due panini che innaffiai con una limonata.
Le mandorle avevano un delicato gusto di olio rancido. Miscelate però all’uva passa e ai fichi
secchi, mi sembrarono buone.
Ormai dappertutto si ballava, piccole orchestrine a base di fisarmonica marcavano il tempo
della polca per i ballerini : un, due, tre, un, due,tre; e per quelli più evoluti, c’era la mazurca e
il valzer, con violino e flauto in più. Era un ballo senza fine e senza principio.
Però tutto quel frastuono, quell’affollamento di gente mi infastidiva perché contrastava troppo
col mio innato amore della tranquillità e della serenità.
Sotto in pergolato improvvisato per l’occasione e coperto da frasche di fogliame si giocava alle
bocce. Stetti un po’ ad osservare la partita in corso, che non suscitò in me alcun interesse. Avrei
voluto vedere qualcosa di bello. Qualche edificio antico, l’interno della chiesa ma non era la
giornata propizia per occuparmi d’arte. Mi sentivo intontito, mi mancava la lucidità di spirito.
Era bello da vedersi, annunciato con una secca esplosione qualche fuoco artificiale che, ogni
tanto, fendeva l’aria e spandeva una pioggia di stelline rosse, che sfondavano sull’oscuro cupo
del cielo, ora coperto da minacciose nubi.
Erano già le 21, l’aria s’era fatta fredda e tirava vento e quelle signore non si facevano vedere.
Annoiato, stanco e infreddolito, marcavo il passo attorno alla traballera, che doveva rientrare a
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Firenze tra non molto.
Ecco finalmente la mia padrona di casa, colla signora Adelina ed Elsa, che quasi a passo di
corsa mi raggiungono.
“Ebbene, signorino, com’è andata?” mi disse la signorina Elsa, “Vero che bella festa?
L’hanno servita bene all’osteria?”
“Oh! Benissimo” risposi “(Cancellato: tutto è andato bene) e quanto mi sono divertito!”
Pensai che in quell’occasione, avrei fatto male a dire la verità.
Prendemmo posto sul tranvaietto in tempo, per sederci. Attorno a noi, al momento di partire,
tutti cantavano e le stonature a volte atroci erano in rapporto al vino bevuto. C’era un vecchio
che appuntellava il suo vicino per non lasciarlo cadere.
Un giovanotto si trovò in tasca ancora due lire, e giurava bestemmiando, che voleva spenderle
prima di andare a letto.
Una giovane donna estrasse da un pacchetto, i resti di un pezzo di agnelletto arrosto, e se lo
rosicchiò lentamente, mentre suo marito teneva in braccio il bimbo addormentato. E gli
carezzava i capelli biondi.
Arrivati a casa, dopo aver ringraziate le mie compagne della bella, divertente giornata a
Settignano, con un lieve inchino, diedi la buona notte e mi rinchiusi nella mia camera,
brontolando piano, piano “Non mi ci pescate più”.
Solo allora mi accorsi che tenevo stretto in mano, un profumatissimo mazzo di fiori di frassino
e non so perché lo scaraventai violentemente a terra, e me ne andai a letto. Dormii poco e
male.
Al mattino mi alzai con un forte mal di capo. Se quei fiori li avessi buttati gentilmente dalla
finestra, invece che brutalmente sul pavimento della mia camera, non mi sarebbe venuta
l’emicrania.
La gita a Settignano è stata come una doccia freddissima sulla simpatia che nutrivo per la mia
padrona di casa e per la bella Elsa. Ormai mi trovavo molto a disagio quando dovevo
conversare o intrattenermi con loro.
Più passavano i giorni e più il mio malcontento si accentuava e non vedevo come avrei potuto
sganciarmi per trasferirmi altrove. La mia eccessiva timidezza contribuiva ad aggravare la
situazione.
Come dirglielo, quale scusa addurre per giustificare la mia decisione? Tanto più difficile era la
soluzione del problema inquantoché nei giorni che precedettero la malaugurata gita avevo
esternato il piacere di trovarmi tra di loro, tanto buoni e gentili e mi dichiaravo soddisfatto
della graziosa cameretta a mia disposizione.
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Dopo aver vagliato e scartato tante soluzioni, una ne credei che mi paresse buona e il risultato
dimostrò che lo era davvero.
Affidandomi alla poca disinvoltura che il mio mite e titubante temperamento mi consentiva:
“Signora – le dissi – mi spiace proprio molto, ma devo lasciare la mia cameretta e quel che
ancora più mi reca dispiacere è dover anche rinunciare alla sua cortese ospitalità e a tutte le
sue delicate attenzioni. Il motivo che mi fa prendere questa decisione è l’eccessiva distanza dal
centro del mio studiolo, che fra l’altro è troppo piccolo e scomodo per svolgere il mio lavoro.
Ne ho trovato uno molto ampio, soprastante alla galleria Pisano e c’è largamente lo spazio
per potervi anche dormire.”
“Anche a me, caro signorino, spiace molto che debba lasciarci, - disse. – Sentiremo la
mancanza della sua compagnia. Ma, in certi casi, la capisco, bisogna sacrificare i nostri
sentimenti. Noi le auguriamo che si trovi bene nel nuovo studio e gradiremo se, quando ne
avrà tempo, verrà a trovarci”.
Questo colloquio mi toglieva dall’imbarazzo in cui mi trovavo. Ora mi sentivo libero!
******
Eravamo a fine giugno del 1903 quando lasciai la strada di Lungo il
Brugnone e la camera che occupavo dalla fioraia per sistemarmi
nel nuovo studio di Borgognissanti. Dal pianerottolo dell’’ultimo piano, si
accedeva allo studio dello scultore Andreotti e al mio. (Andreotti, già allora godeva di buona
notorietà).
La mia prima conoscenza, in quel nuovo ambiente, l’ho fatta sulla scala, colla Signora, una
cuoca della proprietaria dello stabile, che abitava al piano sottostante e che aveva una galleria
d’arte nello stesso caseggiato. La signora Anna dimostrava un’età non inferiore ai 60 anni e
dal primo nostro breve colloquio, ebbi l’impressione che avesse un cuore d’oro. Vedrete in
seguito che non sbagliavo.
Nel nuovo studio non mancavano le comodità (Cancellato: apprezzate in quei tempi). In un
cucinino ben chiaro, avrei potuto improvvisare una colazione e magari un pranzetto. Difatti
cominciai a diradare i miei pasti al ristorante e poi a rinunciarvi del tutto. Così oltre ad un
sensibile vantaggio economico, mi sentivo più libero: potevo pranzare a mio piacimento e
nell’ora che preferivo, senza l’impegno di cambiar abiti per andare in mezzo alla gente.
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Disposi sul cavalletto una tela di discrete dimensioni. Sentivo l’impellente desiderio di
dipingere una foresta paraense. Gli elementi che volevo trattare erano: indi, capanne,
boscaglie, isolotti lontani, grandi distese d’acqua. Ero conscio che le difficoltà da superare nel
corso del lavoro, sarebbero state molte. Anzitutto non ero ancora in possesso di una tecnica
convincente, con la quale poter esprimere facilmente il mio pensiero. Avrei dovuto
rappresentare su di una tela liscia, bianca, senza alcun appiglio iniziale, la foresta con tutto il
suo mistero e grandiosità, avrei dovuto ambientarvi una capanna e indi, isolotti ed acque
lontane, alberi, intrighi di liane, e altre dettagliate forme vegetali in primo piano; il tutto
invaso da una luce tremula, leggermente nebulosa, che è caratteristica preminente, in quelle
regioni, dove le evaporazioni d’acqua sono rilevanti. E poi la composizione doveva avere un
taglio, un timbro di originalità, e doveva essere lontana da un verismo accademico e banale.
Ma tutte queste assennate, ponderate mie considerazioni e riflessioni non mi servirono proprio
a niente. Quando il quadro era già abbozzato, apparve sulla tela un felice intreccio di bei
colori che non erano frutto della mia volontà. Presero posto lì a mia insaputa e ciò valse ad
annullare le mie intenzioni, allontanandomi dalla strada che mi ero prefisso di percorrere,
scartando ogni eventuale deviazione. Quell’intruso gruppetto di piacevoli colori, si allargava
invadendo la tela con forme e volumi, da me mai sognati, e si opponeva risolutamente alla mia
volontà e ai miei inutili tentativi di ritornare nel “mio”, in quel mio genuino e mi dava la
gradita sensazione di aver inventato qualcosa.
Comunque il quadro fu ultimato. Ma da chi? Forse da uno spiritello dispettoso ma geniale.
**********
La signora Anna mi consegnò una lunga lettera di Peppino Cominetti: una bella, affettuosa,
commovente lettera dove mi esternava il desiderio di conoscere Firenze.
Tra l’altro mi diceva che lui e suo fratello Nino, per frequentare le scuole a Genova, dovevano
sobbarcarsi una quarantina di chilometri al giorno, a piedi: venti da Davagna a Genova e
venti per il ritorno. Partivano al mattino presto e rientravano tardi alla sera. Dura vita la loro,
poveri figlioli! E ammirevoli le loro prove di ferrea volontà. Erano degni di tutta la mia stima
ed affetto, non solo per questo, ma anche per la loro grande bontà che li animava.
Tra i sogni di Peppino c‘era, in primo piano, quello di conoscere Firenze. Me ne aveva tanto
parlato a viva voce.
Gli risposi immediatamente , e volendo appagare il suo desiderio, gli offrii ospitalità nel mio
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studio.
Le scuole erano terminate, l’invito pertanto era opportuno. Il caro Pepino avrebbe così avuto
modo di vedere da vicini tutte le belle cose, che gli stavano tanto a cuore.
Quando ricevetti la sua risposta, dove mi esprimeva la sua felicità e fissava il suo arrivo ai
primi giorni di luglio, io mi misi subito in azione.
Presi in affitto un lettino smontabile con materasso; acquistai lenzuola e federe. Feci provviste
di viveri: 6 barattoli di miele centrifugato delle Alpi, caffè, vino, salumi, zucchero etc.
Per adornare lo studio, comprai 24 palloncini giapponesi, che colle candeline accese,
avrebbero fatto un effetto meraviglioso.
Alla Signora Anna parlai a lungo dei miei amici Cominetti, esaltandone tutte le loro doti e lei,
con segni evidenti di commozione, mi assicurò che sarebbe venuta il giorno dopo, per aiutarmi
ma perfezionare i preparativi che avevo iniziato.
Infatti, il mattino seguente venne. Mi accorsi che appena entrata il suo sguardo si fissava ora
sul pavimento, ora sulle sedie, sullo scaffale che accoglieva i miei pochi libri, sul mio divano-
letto. Intuii subito dall’espressione lievemente crucciata dei suoi occhi, che qualcosa non le
piaceva.
“Signora, - le dissi - c’è qualcosa che non va? Me lo dica francamente”.
“Scusi, ma giacché me lo chiede le rispondo subito. In questo studio c’è troppo disordine. Il
posto del tegamino (Cancellato: non è quello che gli ha dato lei, il suo posto) è in cucina. I
panni, le camicie, i calzettoni, non li lasci sulla scrivania e sulle sedie, li metta piuttosto, ben
piegati, là, dietro al paravento. Poi, per favore, non butti i pennelli per terra! Li tenga sul
tavolino da lavoro, vicino alla tavolozza. E poi, guardi come sta male quella cartaccia; quei
mozziconi di sigaretta, i giornali, le riviste e tutta quella roba sparsa sul pavimento?! Eh via!
Così non può andare. Sono certa che se la su’ mamma fosse qui a vedere, le direbbe quel che
le dico io”.
In men che non si dica, alle parole seguirono i fatti; dispose ogni cosa al suo posto e, scopa alla
mano, sgombrò e pulì il pavimento.
Ogni mattino, da quel giorno, faceva la sua breve ispezione allo studio e, con occhio critico,
guardava per rassicurarsi che l’ordine e la pulizia fossero mantenuti.
Io rimasi un po’ mortificato, ma dovetti ammettere che le sue osservazioni e i suoi rimproveri
erano giusti e benevoli allo stesso tempo.
Venni a sapere, dalla stessa signora Anna, che, coadiuvata da suo marito e dall’unico loro
figlio, conduceva una piccola trattoria, alla periferia di Fiesole. Le morì il marito quando aveva
cinquanta anni e anche il suo figliolo, perse la vita, vittima di una polmonite fulminante. Aveva
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appena vent’anni. Rimase sola e in precarie condizioni economiche – e fu allora che passò alle
dipendenze della Signora Pisano. Compresi perché quella buona donna, avesse bisogno di
riversare su di me una parte del suo affetto materno. La mia età coincideva con quella del
figliol perduto.
**************
I lampioncini giapponesi, disposti in due file, di fronte alla porta d’ingresso, stavano proprio
bene.
Informato telegraficamente dell’ora di arrivo di Peppino, mi recai a riceverlo alla Stazione e
con una carrozzella lo accompagnai al mio studio. Il nostro incontro fu gaio e affettuoso. Lo
trovai smunto e pallido, ma i suoi due piccoli occhi sprizzavano luce e scintille. Mi diede
notizie dei suoi familiari, di ciò che aveva fatto in pittura e di quel che intendeva fare e io dissi
lo stesso a lui.
La tavola per il pranzo era già imbandita: salumi assortiti, insalata di pomodori, miele
centrifugato delle Alpi, vino, frutta, caffè.
I lampioncini tutti accesi, benché fossimo i pieno giorno, spandevano una piacevole luce
colorata, che Peppino, con parole alate, definì “chiarore paradisiaco”.
Le visite che abbiamo poi fatte insieme ai musei, alle gallerie d’arte alle meravigliose
costruzioni delle chiese e a tante delle infinite bellezze della città, acuivano il nostro
entusiasmo e passavamo molte ore a contemplare questo o quello. Peppino inseriva schizzi e
numerose annotazioni sul suo taccuino ed io ero lieto di godermi la sua felicità.
Peppino mi descrisse un quadro che avrebbe iniziato al suo ritorno a Davagna,
“Immagina - mi diceva – una sconfinata distesa di terra smossa, a zolle bruno-rossastre,
limitata dal sole calante, in un tramonto di fuoco. Immagina questa silenziosa, vasta e nuda
pianura, animata solo da tre figure di agricoltori a torso nudo, contro luce. Il primo a destra
curvo colle braccia protese quasi a sfiorare la terra. La figura di centro, colla zappa e le sue
braccia soo sollevate in alto, in procinto di inclinarsi verso il suolo; e l’altro a sinistra
nell’atto di iniziare lo stesso ritmico movimento. Lo
intitolerò “I conquistatori del Sole”.
“Con poche parole mi hai fatto vedere il quadro finito. Bravo, Peppino, - gli dissi - Tu pure
conquisterai il sole!”.
Anch’io avevo nel mio cuore un “grande sorprendente quadro che avrei intitolato “Parabola”
ma non ritenni opportuno descriverlo al mio amico, perché non lo avevo ancora ben
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concretato nella mia mente.
Peppino , dopo quindici giorni di permanenza a Firenze, se ne andò e mi ritrovai solo. Trovarsi
soli non è piacevole. Sebbene io fossi di natura poco socievole, ogni tanto, non mi sarebbe
dispiaciuto di scambiare due parole con qualche mio collega, Ne conoscevo tre, che mi furono
presentati quando frequentavo il ristorante. Uno di essi dipingeva dei quadretti, con figure
diligentemente finite e trattava soggetti assai banali: per esempio: un gruppo di grassi frati,
rubicondi e sorridenti, attorno ad un tavolo ben imbandito, intenti a divorare carni arrostite e a
bere bicchieroni di vino. (Cancellato. Sul tavolo abbondavano i salumi e i fiaschi di Chianti).
In un altro quadretto si vedeva la servetta, seduta sulla banchina, nel giardino pubblico,
abbandonata tra le braccia del soldatino. Banali quanto mai questi quadretti! Banali i soggetti e
banale il genere di pittura. Eppure ne vendeva molti, specialmente ai turisti stranieri!
L’altro pittore, ritrattista, conosceva il disegno, ma, secondo il mio gusto, le figure erano
troppo lisce e leccate, ricordavano certe brutte oleografie.
Il terzo era un ricco pittore messicano. Aveva un bellissimo grande studio, con mobili che
imitavano bene quelli antichi del 400. Sul pavimento erano stesi soffici tappeti; pesanti
lampadari di cristallo pendevano dal soffitto; graziosi ninnoli, un po’ dappertutto, e un piccolo
bar, ben fornito di bottiglie di liquori e vini. Più che uno studio sembrava una sala da
ricevimento assai borghese. E lo era.
Una sera, per mia sventura, dovetti accettare l’invito e trovare nella sala delle signore straniere
abbigliate e adornate in tutta pompa, con vaste scollature, collane a quadruplo giro,
braccialetti, orecchini molto vistosi, occhi bistrati, pomate, rossetti e ciprie (Cancellato: in
colori mal combinati).
Parlavano lentamente, con vocette volutamente falsificate. Erano adagiate in poltrone o sul
divano, tra soffici cuscini, in pose studiate, niente affatto naturali (Cancellato: proprio come
vere autentiche donne di classe. Era evidente la loro aspirazione ad essere considerate
autentiche a donne di classe).
Non mancò il giovane poeta, che recitò i suoi versi con larghe gesta e stiracchiamenti di belle
mani affusolate.
Avrei voluto vedere i quadri di questo facoltoso pittore , ma riuscii a vederne uno solo,
riccamente inquadrato in una larga cornice, eccessivamente dorata. Era posato sopra un
cavalletto di noce scura, ben lucidato.
Il quadro, mi spiace dirlo, era proprio brutto. Rappresentava un nudo di donna sbiancato, con
certi panneggi su cui sfondava, che sembravano di cartone e il nudo era chiaro e piatto, con
troppe sproporzioni. denotava l’assoluta inesistenza della più elementare conoscenza del
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disegno.
*********
Un ragazzetto quindicenne, garzone del mio barbiere, dimostrava una sincera ammirazione per
l’arte e per gli artisti. Anche lui aveva il suo quaderno con piccoli disegni fatti dal vero, taluni
dei quali espressivi e resi con una tale ingenuità che li rendeva piacevolissimi.
Mi chiese di concedergli “l’onore” di vedere i miei dipinti.
“Ma sì, caro, vieni quando vuoi” – gli dissi.
Venne un lunedì. Aveva un cestino con due barattoli di marmellata e un mazzetto di fiori, che
depose sul tavolo, senza dir parola. Mi presentò il quaderno dei suoi ultimi disegni
acquerellati, un po’ confuso e titubante.
“Bene –gli dissi – il buon gusto non ti manca, continua a disegnare dal vero; un fiore, per
esempio, il tuo gatto (se ce l’hai), due mele, una sedia, un libro, un oggetto qualsiasi, purché
tu lo faccia con amore: disegna solo quando senti il vivo desiderio di farlo”.
Nel cestino, al posto della marmellata deposi un assortimento di barattolini di colori a tempera
e alcuni pennelli. Dal modo in cui li guardava, mi accorsi di avergli regalato un pizzico di
felicità. Osservò a lungo e molto attentamente i miei lavori, senza fare alcun commento ma un
bel sorriso gli illuminava il volto.
“Tante grazie” – mi disse , e se ne andò.
“ A rivederci presto, piccolo Agenore, portami a vedere i nuovi disegni che farai”
Avevo assai più fiducia sulle possibilità del giovane Agenore, che in quelle dei tre pittori che
più sopra ho nominato.
**************
Brutto giorno per me fu il 2 ottobre 1904!
Mio padre aveva accluso in una sua lettera, un’altra lettera indirizzatami dal Distretto militare
di Genova. Dovevo presentarmi a San Benigno, per la visita medica entro il 10 ottobre. Questa
notizia annullò di colpo tutte le mie speranze e spiazzò via, crudelmente, le mie illusioni. Non
avrei più avuto la possibilità di proseguire i miei lavori. I numerosi bozzetti, i lavori che avevo
preparato per la “Parabola”, il grande quadro che avevo dovuto iniziare, proprio in quei giorni,
sarebbero, allora stati inutili? Ero molto addolorato [di dover] lasciare il mio studio e tutte le
bellezze di Firenze. E per quanto tempo? (Cancellato: Ero impegolato in un bel pasticcio”).
Non potevo proprio farci nulla. Dovevo rassegnarmi alla mia sorte e partire. (Cancellato: ma
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proprio contro voglia.) Non avevo nessun requisito che dovrebbe distinguere un militare.
Anzitutto detestavo i comandi e la disciplina, il mio aspetto poi non aveva proprio nulla di
marziale, ero distratto e disordinato. Cosa avrei potuto fare sotto le armi? Mi vedete, cari
amici, col fucile a tracolla, lo zaino sulle spalle, la gavetta per mano, immusonito, con l’aspetto
di un cinese deluso?
Parlai lungamente di questa dolorosa vicenda con la signora Anna, e a seguito dei suoi
consigli, decisi di far così: avrei conservato lo studio ancora per due mesi. Nutrivo in fondo la
vana (Cancellato: e purtroppo impossibile) speranza di essere riformato. Se, invece, dovevo
essere sacrificato, com’era presumibile e logico, la signora Anna avrebbe custodito, col
consenso della Signora Pisano, i quadri, colori, cavalletto, i miei indumenti personali etc. in un
ripostiglio. Lo studio lo avrei subaffittato, con i mobili e gli altri utensili rimasti.
La Signora Pisano, molto gentilmente, venne a riconfermarmi le decisioni che avevo prese con
la Signora Anna.
Osservò con l’occhialino i miei quadri, si complimentò e mi chiese il prezzo di un “notturno”
con due innamorati nel viale alberato di un parco e (si capisce) sotto i raggi della luna. Tra i
miei lavori era uno di quelli che mi piacevano meno. Le esposi il prezzo: 60 lire.
“Va bene “ – mi disse e mi salutò molto cortesemente. Il quadro fu ritirato poco dopo. Venne il
suo segretario (Cancellato: o amministratore che fosse); mi consegnò un assegno e mi fece
firmare una ricevuta.
Con un affettuoso saluto alla Signora Anna, lasciai, con molto dispiacere, la bella Firenze e
partii alla volta di Genova.
Il mio lieto soggiorno fiorentino aveva fine o, per lo meno era sospeso sino a tempo
indeterminato.
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RIENTRO A GENOVA
ESPERIENZA MILITARE
Trovai mia madre con poca salute e alle preoccupazioni di mio padre si aggiunse la mia.
Al forte di San Benigno ove mi presentai per la visita medica fui dichiarato abile. Passai la
notte nella caserma del Distretto Militare in Piazza Carignano, a pochi passi dalla casa di mio
padre.
Per terra , in un angolo di un grande stanzone, c’era uno strato di paglia, per chi volesse
coricarsi; non era, però, troppo invitante. Infatti brulicava di numerosi insetti biancastri
(Cancellato: e poi correva voce , tra le reclute, che sulle cannucce di quella paglia si
vedevano molti insetti biancastri, marciare in colonna )
Il mio stato d’animo era compassionevole; mi sentivo scoraggiato, umiliato e stordito dalle
urla e dai canti delle reclute ubriache. Al mattino presto vi fu l’adunata e l’appello. Ad ogni
coscritto fu indicata la destinazione e il corpo a cui doveva appartenere. Io fui destinato
all’isola della Maddalena – artiglieria da costa. Seguì lo smistamento e io con altre cinque
reclute, messi in fila a due per due, con un caporale che marcava il passo “Uno, due, uno due”
ci avviammo al porto e (Cancellato: imbarcati su di un piroscafo) il mattino dopo arrivammo
alla Maddalena, isola solitaria abitata da pochi pastori e da capre.
Al comando mi fu consegnata la divisa e il berretto. I pantaloni erano troppo ncorti, la giacca
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troppo stretta e il berretto mi calava giù, sino agli occhi. Il berretto fu sostituito con un altro,
un po’ meno largo. Ma i pantaloni e la giacchetta dovetti tenermeli com’erano, perché il
sergente incaricato della distribuzione, credeva che andassero molto bene così. Mi consegnò
anche una coperta, due paia di calzettoni, un paio di scarponi chiodati, mutande e due camicie
giallognole e raspose. Tutti questi indumenti usati e vecchi, erano profumati al lisoformio. La
gavetta era sporca, lo zaino sdrucito con le cinghie di cuoio strappate e malamente ricucite.
Feci a stento la lunga, ripida, sassosa salita che separava il comando (Cancellato: vicino al
porticciolo), dai forti e dalle camerate, in cima alla montagna rocciosa e brulla.
Giunsi lassù esausto, sotto il peso dello zaino con un forte raffreddore e una tosse che mi
squassava il petto. Il letto assegnatomi era un pagliericcio pieno di foglie di grano turco,
posato su un duro tavolato di legno. Da oltre 48 ore non avevo assaggiato cibo, Suonò la
tromba che annunciava la distribuzione del rancio. Pulii (Cancellato: il meglio possibile) la
gavetta e mi misi in fila per avere la mia parte, sebbene ne avessi ben poca voglia. Due grossi
mestoli di minestra e un pezzo di bollito filamentoso e grasso con un lungo osso. Io trovai la
parte acida e immangiabile. Un colonnello, in ispezione, fingendo di assaggiarla con la punta
di un cucchiaio, diceva ad alta voce: “Buona, buona”.
Se il colonnello la trovava buona era naturale e, quanto meno doveroso, che i soldati dovessero
trovarla eccellente. Buttai minestra e carne giù da una rupe, mentre un caporale, che m’aveva
visto, mi disse: “ Sei di quelli che fanno i difficili, ma qui, caro mio, non spettarti i manicaretti
della mamma!”
Stavo molto male. Avevo la nausea e brividi di freddo, sentivo che la febbre incalzava. Mi
buttai sul pagliericcio e mi coprii colla coperta.
Un caporale mi gridò: “Se ti senti male, marca visita”, e segnò le mie generalità su di un
foglietto di carta. Venne poi il dottore, un capitano, che mi fece somministrare del chinino.
Il mio stato andò peggiorando e fui trasportato in infermeria ove rimasi una quindicina di
giorni, assordato e spaventato dai continui rombi dei cannoni in esercitazione.
Il capitano medico mi prescrisse un lungo riposo. Quando fui dimesso dall’infermeria, ero
estremamente debole e un grande esaurimento nervoso mi rendeva triste e inquieto. Passai
intere lunghe, eterne giornate, riverso sul pagliericcio. Di tanto in tanto facevo alcuni passi su e
giù per la camerata, ma mi sentivo morire di noia. Non sapevo come passare il tempo. Non un
libro, non un giornale da leggere. Niente.
Mi guardai in un piccolo specchio che tenevo in tasca: rimasi molto impressionato, avevo un
aspetto sparuto, le orbite infossate, le pupille isolate e spaurite, i peli della barba lunghi, ispidi
e arruffati. Il mio volto, in quel momento, non aveva più alcuna traccia, né dell’indio né del
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cinese, ma piuttosto di un selvaggio preistorico, abitatore delle caverne !
Io ritenevo la mia presenza in quel luogo inutile e ingombrante e credo che lo pensassero
anche i miei superiori perché fui chiamato a presentarmi al comando. Vi andai, trascinandomi,
inciampando, con incredibile stento.
(Cancellato: Mi fecero entrare nell’Ufficio del Generale che) aveva un aspetto bonario.
“Tu sei il soldato Manlio Italo Trucco, figlio di Luigi e di Luigia Tassara? – mi chiese .
“Signor sì “ risposi in posizione di attenti.
“Qual è la tua professione ?”
“Pittore”
“Ah, pittore!? Anche mio figlio vuole fare il pittore. Ebbene, dimmi, vorresti tornartene a casa
a dipingere?
“Signor sì”.
“Sta, però attento alla tua salute, il Capitano mi ha detto che stai poco bene”
“Signor sì, grazie “.
Non seppi e non potei dirgli altro che “Signor sì”.
Il Generale mi consegnò un foglio di congedo, dicendomi: “Va in fureria a prendere le tue
cinquine”
“Signor sì”.
Il furiere, quando gli chiesi le cinquine mi disse: “Ora ho altro da fare, ti farò chiamare prima
che tu vada via.” Nessuno mi chiamò e io non osai tornare a chiederle.
Il mio rientro a Genova su un piroscafo di piccolo cabotaggio, che viaggiò, costeggiando, tutta
la notte, riaccese nel mio cuore qualche fiammella di speranza. Eppure fisicamente soffrivo
ancora molto. Avevo freddo e non trovai riposo sulle vele ammonticchiate, sulle quali in
sdraiai, coprendomi colle stesse, nella speranza di poter dormire.
Quando mi videro entrare in casa, inaspettato ospite, i miei furono sorpresi e impressionati dal
mio aspetto. Circondato da affettuose cure mi trattenni in famiglia alcuni giorni e non tardai a
rimettermi in buona salute
Rividi alcuni tra i miei amici più cari. I Cominetti mi dissero che si sarebbero recati a Parigi,
per tentare una sorte più benevola e io li rassicurai che, non sapevo quando, ma, presto o tardi
li avrei raggiunti.
E’ quasi doveroso, per un artista, conoscere Parigi.
De Albertis nel suo studio di Albaro, stava ultimando la sua “Mandragora” mirabilmente
stilizzata.
Giglioli era irritato e inveiva contro l’Ufficio Igiene del Municipio, che non voleva
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concedergli, diceva, il “nulla osta” per collocare, nel Cimitero, un suo bassorilievo con
Madonna e Angeli. Fu per i suoi amici, molto difficile persuaderlo che era in errore e che
doveva rivolgere la sua richiesta all’Assessorato di Belle Arti e all’Ufficio Municipale dei
Lavori Pubblici. Che c’entrava l’Ufficio Igiene?
Mi recai dal poeta Mario Maria Martini che aveva scelto San Fruttuoso di Portofino, silente e
grandioso, per ultimare il suon “Ultimo Doge” proprio lì dove vi sono le tombe dei Doria. Era
con lui De Goffredi che pescava e disegnava.
Fui accolto molto festosamente. I lampioncini giapponesi non c’erano, ma all’ora del pranzo,
sul tavolo dell’Osteria Unica ci aspettava un bel piatto di lasagne col pesto, che trovai
eccellenti, mescolandole con la lettura di alcune pagine del manoscritto di Martini e con i
disegni di De Goffredi.
Quant’era bello, allora, San Fruttuoso! Vi si accedeva passando da Ruta e inerpicandosi, su in
alto, sino a Portofino vetta, da dove si ridiscendeva per dei sentieri, ripidi e rupestri, sino al
mare; oppure in barca, da Camogli.
Quei pini alti, diritti come colonne e gli altri più piccoli contorti, che si piegavano quasi a
toccar l’acqua della piccola rada, quelle enormi scogliere selvagge, incoronate da fitte pinete
(Cancellato: che strapiombando ) a picco sul mare, e le pochissime casette attorno alla bella
costruzione, centrale ad archi, ove i pescatori stendevano le loro reti, mi ricordavano altre gite
a San Fruttuoso e mi sentivo commosso. Firenze è bella – mi dicevo – San Fruttuoso non è da
meno. Si capisce, in un modo molto diverso, tutto suo.
Il mio maestro De Servi, dipingeva nell’ingresso della Stazione Brignole alcune allegorie: il
“Porto di Genova”, “Il Commercio” e altre, con figure più grandi del vero. Per alcuni giorni lo
aiutai abbozzando alcune di quelle figure che De Servi rifiniva (Cancellato: dipingere il
fondo, che era il cielo, con nubi grigie-rosa e squarci azzurri di sereno). Quei dipinti erano
eseguiti all’encausto.
Sulla facciata di un gran caseggiato in Via Francsco Pozzo, adiacenti a Piazza Tomaseo, vidi
me stesso (dipinto a fresco dal De Servi) (Cancellato: con in mano un mappamondo) in
grandi dimensioni, con le mie ex caratteristiche di indio, ricavate da uno schizzo dal vero, che
fece quando frequentavo il suo studio. Ne rimasi vanitosamente lusingato, perché mi trovai
bello!
Alla sera mi recavo al caffè e mi intrattenevo cogli amici sino alle ore 21 e 30 minuti.
Il vecchio amico degli artisti, il console portoghese Araujo da Silva, entrò una sera nella sala,
tutto sconvolto e agitato.
“Che ha? Che è successo? – gli domandammo.
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“State a sentire che cosa mi è capitato, poco fa” disse. “Ho avuto la gioia e l’onore di
conoscere e parlare con Giuseppe Verdi! Lo incontravo sovente in un negozio in via Roma,
senza sapere chi fosse. Io comperavo sempre fichi, lui sempre noci. Ma, scusi, gli dissi chi è lei
che compra sempre noci. -
E lei che compra sempre fichi, chi è?
Io sono il Console del Portogallo, Arauyo da Silva e lui disse: Io sono il compositore Giuseppe
Verdi.
Sono proprio lieto, onorato e commosso d’aver conosciuto e parlato col grande Maestro
Giuseppe Verdi!
La sua soddisfazione era tale che ci invitò tutti a mangiare le taccole dalla signora Maria. Io,
con grande rincrescimento, dovetti rinunciare al gentile invito, Alle 22 dovevo essere a casa. E
alle 22 meno cinque minuti difatti suonavo il campanello e la porta si spalancò. I miei genitori
erano già nelle loro camere. Firmina mi disse “buona notte” e anch’io me ne andai a letto a
leggere.
L’andamento della casa paterna era sempre lo stesso. Vi si svolgeva una vita monotona, senza
distrazioni e mio padre, non si era nemmeno sognato di revocare l’ordine tassativo, di tenere
saldamente chiuso il portone d’ingresso, dalle ore 22 alle ore 6 del mattino.
Io non potevo capacitarmi del perché di tanta fermezza e intransigenza (Cancellato: nel volere
che questo suo ordine fosse sempre valido).
Ma pensavo anche che sarebbe grande la mia presunzione, se mi volessi atteggiare a giudice
(Cancellato: delle opinioni e delle azioni altrui). Dovrei prima analizzare, a cominciare dalle
radici, le mie idee, i miei pensieri e le mie azioni. Credo che dopo una attenta analisi, che
preferisco non fare, desisterei senz’altro dall’emettere giudizi severi o critiche, sulle opinioni
e azioni altrui.
Guai se pensassimo tutti allo stesso modo! Se tutti fossimo dotati di uguale buon senso, tutti
buoni, tutti perfetti, tutti fatti a serie, collo stesso stampo, guai se la meta da raggiungere fosse
la stessa par ognuno di noi! Si morirebbe tutti di noia!
Questo misterioso caos in cui si svolge la nostra vita, ci vuole. Questi eterni contrasti tra il
bene e il male (Cancellato: tra il genere umano e la natura che ci circonda), le polemiche, le
critiche, le divergenze di opinioni, la diversità dei sentimenti, ciò che ci pare assurdo o
paradossale è parte integrante di noi stessi. Non è la natura stessa che ci offre un continuo
violento contrasto fra tutti gli elementi che la compongono? Solo in questo caos, possiamo
sentirci vivi. Ci vuole il brutto come il bello, il male come il bene, l’austero e il ridicolo, tutto
ci vuole! L’unica cosa sulla quale dovremmo essere d’accordo, è di riconoscere che il mondo
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in cui viviamo è questo non quello che ognuno di noi vorrebbe fabbricarsi per proprio uso e
consumo.
Con tutto ciò non dubito che vi siano opinioni e modi di vedere più logici e convincenti dei
miei. (Cancellato: Adesso vi dirò perché mi sono perso a fare questa pappardella che ) ha
ben poco a vedere col racconto della mia vita
Il perché di queste amare considerazioni è che ero scontento e un po’ indispettito di aver
dovuto rinunciare alla compagnia dei miei amici e alle taccole, che mi piacciono tanto.
Dimenticavo dirvi che il giorno stesso che ritornai da militare, i miei genitori mi presentarono
la signorina Ermelinda Celle, pressappoco della mia età molto, molto religiosa. Non era né
bella né brutta, non troppo alta e né troppo piccola, i suoi capelli non erano né biondi né neri,
ma di un castano sbiadito. Era l’istitutrice e l’insegnante di piano di mia sorella Ofelia. Dopo
l’entrata in casa nostra di questa signorina, non c’era più una sala o una camera, ove non vi
fossero immagini della Madonna e di Santi, appesi alle pareti, o posate sui mobili. Mia madre,
dato il suo precario stato di salute non era in grado di dedicare a mia sorella, ormai dodicenne,
quelle costanti cure, necessarie per completare e perfezionare la sua educazione.
E’ per questo che l’incarico fu affidato alla Signorina Celle, molto religiosa e raccomandata da
un alto prelato. Di questa signorina, dovrò parlarne ancora, più tardi.
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FIRENZE
(Secondo periodo fiorentino)
Negli ultimi giorni di Novembre rientrai a Firenze nel mio studio.
La Signora Anna che avevo opportunamente informata del mio arrivo, mi preparò un’ottima
cena, con un bel mazzo di fiori sul tavolo…i lampioncini accesi ! Non vi dico quanto mi
commosse e quanto gradii la sua bella dimostrazione di affetto.
Ripresi a dipingere, dopo quasi due mesi d’interruzione .
(Cancellato: Una grande tela, l’avevo già preparata, secondo l’insegnamento del mio
maestro con un intonaco di bianco di medone e colla di pesce, fatta prima bollire, e poi ben
levigato con pietra pomice. La tela, tesa su di un robusto telaio, suonava come un tamburo.
Misurava m. 2,50x 1,90.
Per arrivare col pennello alla parte alta, avevo fatto con delle assi una pedana con tre
scalini.
Ora vorrei darvi un’idea di ciò che era mia intenzione dipingere, ma mi trovo molto
imbarazzato perché il soggetto che avrei dovuto dipingere era complesso, direi quasi
dantesco! “Parabola” doveva essere il titolo. In sintesi, la composizione avrebbe dovuto
descrivere una vasta fascia luminosa formante una curva su di un fondo cupo stellato,
tendente all’azzurro. Questa fascia di luce in ascesa, dal basso a destra, sino al vertice, poi
discendente, verso sinistra, sino a perdersi doveva apparire nel nulla, in un baratro oscuro.
Gruppo di figurazioni umane, disposti in quel fascio di luce, in atteggiamenti ed espressioni
atte a dar rilievo a diversi stati d’animo, avrebbero dovuto descrivere appunto una parabola,
che, partendo a destra dall’infanzia, raggiungendo il vertice colla giovinezza terminavano
nel nulla, colla vecchiaia Con queste figure volevo rappresentare le più rimarchevoli
passioni umane.
Il compito era difficile. Mi accinsi al lavoro e non pensai più ad altro. Tracciai con leggeri
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segni, la fascia che doveva accogliere le numerose figure, aiutato dai miei disegni di nudo e
dai bozzetti con annotazioni di colore. Accennai qua e là, sommariamente quei gruppi di
figure, nella parte della tela ad essi destinata. Tinteggiai la zona del fondo e accentuai i
movimenti che avrebbero dovuto dar vita alla composizione. La tela era ormai coperta da
leggeri colori. Lavoravo senza sosta, quella pedana a scaletta non so quante volte l’avrò
salita e discesa durante le lunghe faticose ore di lavoro).
La buona Signora Anna non si stancava di dirmi,: “Lavora troppo! Si riposi un po’, per l’amor
del Cielo!”, ma non poteva dirmi quello che io veramente desideravo, una parola
d’incoraggiamento. Ero proprio solo ad esaltarmi, gioire e soffrire. Se avessi potuto aver
vicino qualcuno a cui poter aprire il mio cuore a cui confidare tutti i miei pensieri, le mie
speranze, mi sarebbe parso meno duro, il mio compito.
Io avrei voluto un amore grande, puro, profondo. Le piccole avventure, le passioncelle fugaci,
comuni a tutta la gioventù, non mi toccavano più. In poche parole io sognavo la compagnia di
una fanciulla buona e piacevole, ma soprattutto intelligente e sensibile.
Passavo naturalmente in rivista tutte le signorine che conoscevo. Molte di esse peccavano di
un’eccessiva vanità; non avevano altro che il culto del loro corpo e tutto quel che succedeva
all’infuori aveva ben poca importanza per loro. L’unica aspirazione era piacere agli uomini. E
appunto per questo a me non interessavano affatto.
Ne conoscevo una che era molto carina. Aveva sulle guance due fossette e gli occhi grigioverdi
che accentuavano la bellezza del suo volto e ricordava le figure botticelliane. Parlava bene, con
una vocetta armoniosa, era sottile ed elegante, ma di una tale presunzione che annullava tutte
le sue qualità fisiche. Non parlava che di se stessa, continuamente, senza tregua, esaltando la
sua bellezza e anche tante altre qualità che non aveva.
(Cancellato: Riteneva giusto e ammissibile solo quello che pensava e diceva. Gli altri
sbagliavano tutto e sempre.)
Io forse ero in errore, ma non riscontravo in lei nulla di attraente, all’infuori del suo fisico, la
consideravo poco interessante.
Le mie congetture forse erano troppo personali e astratte. Probabilmente dove io non vedevo
nulla che potesse giustificare simile comportamento, altri vi avrebbero trovato miniere d’oro e
di brillanti e avrebbero saputo discernere virtù e qualità che io non riuscivo a riconoscere.
Però, era certo che tra tutte queste gentili signorine non avrei trovata la mia anima gemella.
La ricerca e scelta della fanciulla ideale, era pertanto insolubile, ma confidavo, malgrado tutto,
un incontro felice e casuale, che avrebbe risolto il mio problema.
Ciò che più mi dispiaceva e che mi pareva un ostacolo insormontabile, era (Cancellato: che
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fisicamente avevo ben poche attrattive. Non era certo la mia prestanza, che avrebbe
suscitato un vero amore, il grande amore) il mio temperamento poco socievole; non mi
piaceva partecipare a feste, ero timido, piuttosto taciturno e trascurato nella persona. A chi
avrei potuto interessare?
Con la pittura non avevo ancora raggiunto alcuna notorietà. Quale fanciulla avrebbe potuto
affidare la sua vita nelle mie mani?
Era questo un pensiero che mi rattristava molto, ma il mio ottimismo non si arrendeva: “Quel
che oggi ti pare assurdo e impossibile, domani sarà la più logica delle realtà”. Mi consolavo
così ed avevo ragione, come vedremo più tardi.
(Cancellato: “Ma intanto troppe erano le nubi che invadevano il cielo del mio piccolo
mondo” e sostituito con.) Attraversavo un periodo in cui la mia sensibilità era spesso messa a
dura prova e troppe nubi invadevano il cielo del mio piccolo mondo.
Ricevetti da mio padre una crudele inaspettata notizia: “Tua madre sta molto male. Vieni
subito” Ne ebbi una tale dolorosa impressione che rimasi a lungo come se avessi perso la
ragione.
Giunsi a casa alle due di notte di quello stesso giorno. Mia madre era spirata poche ore prima.
Per le ragioni che voi intuite, non voglio soffermarmi oltre su questo doloroso, irrimediabile
avvenimento. Mi trattenni pochi giorni con mio padre e con mia sorella. La signorina Celle,
ormai era la padrona di casa, faceva tutto ciò che le piaceva, senza essere contrastata da
nessuno e per quanto avesse per me delle parole stentatamente gentili (Cancellato: Non
occorreva troppo acume per) intuivo che avrebbe preferito non vedermi in casa. (Cancellato:
Forse voleva piazza libera.) Non sapevo precisamente perché, ma mi spiaceva che la mia
sorellina rimanesse completamente nelle sue mani.
Una ridda di pensieri contrastanti era nella mia mente. “Tornerò a Firenze?” mi domandavo. I
miei amici erano a Genova. La solitudine a cui mi sarei trovato là mi avrebbe reso infelice.
Mi spiaceva però molto dover lasciare la S.ra Anna. Decisi di farvi una breve scappata per
ritirare dal mio studio, ciò che più mi interessava e del resto avrei disposto nel miglior modo
possibile.
(Cancellato: Quando mi trovai dinanzi al mio grande quadro, un repentino impeto,
incontrollabile di collera, di delusione e di scoraggiamento, mi spinse a commettere
un’azione di violenza che ancor oggi deploro. Saltai sulla pedana e con un coltello, come un
forsennato, tagliai, tagliai la grande tela, riducendola in tanti brandelli; sotto gli occhi
spaventati della buona signora Anna, che gridava: “Ma cosa fa, lei impazzisce. Si calmi,
caro figliolo!”
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Quando ritornai in senno mi dissi: “ Ho fatto male, avrei dovuto finirlo”. Ma ormai non
c’era più nulla da fare. Il destino mi era avverso!.)
I miei piccoli quadri, i disegni, i colori e i miei indumenti imballati, legati alla meglio, me li
portai a Genova. Di tutto il resto, tavoli, divano, poltrone, sedie, scaffali, utensili da cucina etc.
feci omaggio ad un operaio, nipote della S.ra Anna che doveva sposarsi. A quei tempi la gente
non ricca, gradiva anche i mobili modesti, com’erano i miei. Oggi nessuno li vorrebbe.
Quando venne il momento di dire addio alla S.ra Anna, il singhiozzo mi salì alla gola e mi
buttai nelle sue braccia piangendo come un bambino. Anche lei balbettava e le lacrime le
inondavano il volto. Ci promettemmo di scriverci e di tenerci sempre informati l’un l’altro. E
così facemmo per oltre un anno. L’ultima mia lettera non ebbe più risposta. Impensierito chiesi
notizie alla Sig.a Pisano.
“Mi spiace doverle dare una dolorosa notizia. La buona S.ra Anna ci ha lasciati. E’ deceduta
tre mesi fa, improvvisamente , mentre era intenta al suo lavoro!” Così diceva nella sua lettera
la Sig.a Pisano.
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CORNELIA
A Genova presi in affitto uno studio, dallo scultore Capurro, in Via Leonardo Montaldo. La
costruzione era in legno e le pareti perimetrali di tavole non perfettamente connesse,
lasciavano il passo a soffietti d’aria un po’ dappertutto. Non era invitante per dormirvi.
Pertanto affittai una camera mobiliata in Via Corsica, dalla famiglia Gualco. Il marito era
indoratore e fabbricante di Cornici.
Alla sera mi trovavo con i miei amici al caffè ove si facevano piacevoli, animate discussioni
giovanili, ricche di argomenti imprevisti e di umoristiche assurdità. Non ero più schiavo
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dell’orario e rientravo a casa, quando mi faceva piacere.
Il nuovo studio era situato a pianterreno, basato su un terrapieno declinante in pendio, dove
crescevano cespugli di ginestra e qualche raro, striminzito ulivo. Proprio davanti alla porta di
ingresso vi era un superbo fico, con un tronco liscio, grigio, che in estate proiettava una
riposante ombra e all’inizio dell’autunno, offriva agli amici i suoi saporiti frutti. In primavera
il terrapieno si ricopriva di margheritine bianche e fra di esse le lucertoline facevano le corse.
Mi trovavo bene, mi pareva d’essere in campagna.
Il signor Gualco mi propose di fare di fare un ritratto di sua moglie e il suo, in grandezza
naturale. L’idea non mi dispiacque. Fissammo d’accordo il mio modesto compenso. La signora
Gualco avrebbe posato nel mio studio tre volte alla settimana, nella mattinata, dalle 9 alle 11.
Non era bella, ma tipica, una facciotta liscia e colorita, sopracciglia ben marcate, sguardo
energico e volitivo e i capelli erano di un bel biondo dorato. Avrei potuto fare un bel gioco di
colori.
Lavorai con impegno e vivo entusiasmo. Il ritratto era, secondo me, somigliante, espressivo e
bello di colore. Stavo appunto lavorando nel fondo, quando un pomeriggio capitò nel mio
studio l’amico pittore Schiaffino. Osservò il ritratto e trovò che andava bene. Poi, di suo
arbitrio e senza chiedermi se mi faceva piacere o no, prese la tavolozza e pennelli e non
tenendo in alcun conto le mie rimostranze, dipinse una rosa sul petto della Sig.a Gualco. Io,
incapace di contrastare la sua insolenza, lo lasciai fare, già deciso a cancellarla, non appena
fosse uscito dallo studio. Ma quando depose la tavolozza e (Cancellato: guardammo insieme
cosa diceva quel fiore) dovetti convenire che quel fiore ci voleva. Aggiungeva al ritratto una
fresca nota di colore, molto gradevole. Così lasciai la rosa al suo posto.
Il pomeriggio del giorno dopo, sentii bussare alla porta. Era la Signora Gualco che
accompagnava una sua amica a vedere il ritratto. Me la presentò.
“La mia amica Signorina Cornelia Pesse”.
Mentre guardavano il dipinto, io osservavo la signorina che era molto,
molto graziosa. Vestiva con semplice, signorile eleganza e si esprimeva con giovanile
disinvoltura. Dimostrava pressappoco la mia età
Nel mio studio, quel giorno, regnava un disordine inimmaginabile! Mi rincresceva, non tanto
per la Signora Gualco, che ormai si era abituata all’ambiente, ma (Cancellato: per la
signorina che si sarebbe formata di me) per la poco lusinghiera opinione che la signorina si
sarebbe fatta di me. I suoi occhi osservavano ora i miei quadri, ora si posavano curiosi e
meravigliati sulla mia persona e con maggior insistenza (Cancellato: e palese disappunto), sui
numerosi disparati oggetti che ingombravano il pavimento. Non avevo pensato a tirare la tenda
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che avrebbe dovuti coprire il lavandino. Proprio in quel giorno, più del solito, vi erano pennelli
da lavare, fondo di caffè, con relativa caffettiera alla napoletana, bicchieri, stracci,
asciugamani, fiori appassiti e non so quante altre cose. Mi accorsi, con disagio e direi quasi
vergogna, che lo sguardo della signorina Cornelia si fermava anche sul lavandino.
Al momento di accomiatarsi la Signora Gualco mi disse che se non avevo nulla in contrario, la
Signorina Cornelia , sarebbe tornata qualche volta a tenerle compagnia durante le ultime pose.
“Venga liberamente quando vuole, anzi mi sarà ben caro rivederla “ dissi.
Venne due giorni dopo. Le nostre conversazioni si fecero più animate, più scherzose e, come
succede ai giovani, anche più confidenziali.
Feci delle variazioni e delle aggiunte al ritratto, in modo che le visite della signorina
continuassero più a lungo.
La Signora Gualco, molto intuitiva e molto gentile, aveva capito che una corrente di simpatia
era nata tra me e la signorina, ed era lei stessa che cercava occasioni favorevoli, perché si
moltiplicassero le visite.
Quando il Signor Gualco festeggiò il suo compleanno, fui invitato a pranzo in casa sua; c’era
anche la Signorina Cornelia e suo fratello (Ernesto) .
La serata fu allietata da alcune canzoni, cantate dal Signor Ernesto, con una bellissima voce.
Egli insistette perché andassi qualche sera a casa sua.
“Non mancherò di farlo e di farlo molto volentieri” dissi. Un’altra porta si spalancava al mio
sentimento!
La simpatia tra la Signorina Cornelia e me aumentava, ogni giorno di più.
Ricordo che una domenica, mentre lavoravo al ritratto del Signor Gualco e la sua signora era
immersa nella lettura di un romanzo, la Signorina Cornelia trafficava qua e là nello studio;
faceva scorrere acqua nel lavandino (Cancellato: lo fregava energicamente con una
spazzola,) raccattava oggetti e cartacce che trovava fuori posto; scopava e spolverava il tutto
molto energicamente. Quando smisi di dipingere, trovai ogni cosa a suo posto, tutto ben pulito
e ordinato.
Mi rincresceva che, causa il mio incorreggibile disordine, la Signorina Cornelia si fosse
accinta a fare certi lavori. D’altra parte quel suo benevolo interessamento mi piaceva. C’era
qualcosa di familiare in esso, e di casalingo che mi toccava il cuore.
I signori Gualco stavano parlando animatamente tra loro. Io invitai la signorina ad uscire per
prendere una boccata d’aria sul terrapieno. Mi venne l’idea di raccogliere qualche fico. Ve
n’erano tanti, ben maturi, con la pelle verdognola screpolata ed era il momento giusto per
coglierli.
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Mi arrampicai sull’albero e dopo di me, la signorina fece altrettanto.
Lassù tra i rami, volli porgerle un bel frutto e, piegandomi verso di lei, mi trovai col mio viso
accostato al suo e sentii il lieve rumore del bacio che le diedi, Non volle accettarlo e me lo
restituì.
“Vorrei esserle sempre vicino, le voglio bene” le dissi e lei mi rispose:
“Anch’io!”.
In quel momento sentimmo la voce dello scultore Capurro “Qualcuno anche per me” diceva.
Io rimasi perplesso e indignato, perché credevo volesse fare lo spiritoso, alludendo al bacio
che ci eravamo scambiato,
“No, - mi disse piano la Signorina Cornelia, - si riferisce ai fichi”. Difatti un piccolo cestello,
appeso a una cordicella, scendeva lentamente trattenuto dallo scultore, affacciato al finestrone
del piano superiore.
Quando i Signori Gualco e la mia cara Cornelia ora mia fidanzata (Cancellato: anche se non
in forma ufficiale) se ne andarono, fui preso da un senso di viva euforia: ballavo, saltavo,
facevo gesti e movimenti inconsulti, parlavo ad alta voce e poi, ricordando una lontana
canzone parmense, la cantai, abbellendola con gradevoli alte stonature.
La canzone diceva più o meno così: “Ho raccolto un bel fiore, dl delicato profumo, che viveva
nascosto, in fondo al mio cuore”.
Era dunque vero, come ho scritto più sopra, che “quel che oggi pare assurdo e impossibile,
domani sarà la più logica delle realtà”.
Tutti i miei complessi di inferiorità, in un felice attimo, furono dissipati e annullati, E’ bastata
l’intelligente, sensibile comprensione della mia Cornelia, a ridarmi fiducia in me stesso e
restituirmi il mio lieto stato d’animo.
Si vede che qualche benevolo spiritello ha voluto mettere in luce, sotto i suoi occhi, quelle
poche qualità, che non sapevo d’avere.
*******
[Nota del curatore. Durante la trascrizione della parte precedente del manoscritto, ho trovato
una pagina che stonava con i ricordi che in quel momento l’autore descriveva. Si trattava di
una specie di “filosofica digressione” che mi piace chiamare “la teoria degli spiritelli”. Ho
ritenuto opportuno inserirla in questo punto.]
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Stamane mi sono alzato presto, come al solito, e, ripensando al
mio passato, vivi interessanti ricordi sono affiorati alla mia
memoria; avrei voluto inserirli nel mio racconto. Sennonché,
improvvisamente, un velo ha offuscato la mia mente e i miei
pensieri si sono fatti confusi, incerti e le mie idee sono sparite;
tutto è finito a zero. Così più nulla ricordo di quanto poco fa
ritenevo interessante e degno di essere scritto.
Succedono a volte cose strane e inspiegabili.
Càpitano, ogni tanto, dei giorni in cui tutto quel che faccio o
voglio fare si annulla. Una forza ignota ostacola e blocca ogni
mia azione. Oggi, per me, è stato uno di quei giorni. Ho
cominciato di buon mattino a rovesciare la tazza del caffè a
letto; al momento di vestirmi non trovo una delle mie calze. Avevo
fretta, cominciavo a spazientirmi e finalmente la trovo. Guardo
fuori: tempo orribile, piove, fa freddo, c’è vento. Tutto va male.
Metto a bollire il latte per la mia colazione; il latte bolle ma
finisce nel fuoco. La stufa non funzione: ripetute ondate di fumo
invadono la casa; apro la finestra per arieggiare; il vento fa
sbattere porte e finestre colla rottura di un vetro. Fuggo disperato
e mi avvio alla porta d’uscita per scendere di sotto nel mio studio.
Lo credete? Non posso aprire, la serratura è intoppata, ci vuole un
cacciavite per smontarla; ma il cacciavite è al piano di sotto, nel
cassetto del mio tavolo da lavoro. Riesco finalmente a svitare e
togliere la serratura, usando, come cacciavite, la lama di un
coltello da cucina, che ho rimesso a posto – naturalmente – colla
lama rotta.
Mi domando perché oggi le cose vadano tutte a rovescio?
Io penso, anzi credo, che ognuno di noi ospita dentro di sé, a sua
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insaputa, una sorta di “spiritelli” taluni bonari e altri maligni e
dispettosi, che si oppongo a loro piacimento alla nostra volontà e
ci fanno agire secondo il loro principio.
Vi è capitato mai, dopo aver compiuto una data azione di dire a
voi stessi: “Ma io non volevo far questo!”. Eppure lo avete fatto,
magari con la vostra volontà; ma lo avete fatto, credo sotto
l’influsso dei maligni spiritelli.
Quando io dipingo, per esempio, in coscienza, non posso
attribuire alla mia genialità e alla mia incapacità, le qualità o
le manchevolezze del mio lavoro. Spesso mi capita di riscontrare,
su di un mio quadro, certe preziosità di tecnica e di colore che,
devo ammettere, io solo, non avrei la possibilità di realizzare.
Anche in questo caso, credo, la mia mente e la mia mano hanno
agito sotto l’influenza degli spiritelli. Nel caso inverso,cioè
quando incappo in difficoltà a volte insormontabili e non posso
ottenere ciò che desidero, allora, senza dubbio, sono gli spiritelli
maligni e dispettosi che si divertono alle mie spalle.
.
********
Ormai, non tentavamo più di tenere segreti i nostri sentimenti. I coniugi Gualco, già da tempo
se n’erano accorti e anche il fratello di Cornelia dimostrava di esserne contento. Cosi durante i
nostri frequenti incontri ci facevamo le nostre confidenze. Lei era rimasta orfana all’età di
dodici anni, col fratelli e una sorella minore, le mancò pertanto nella sua adolescenza l’affetto
dei genitori. Io le parlavo della tristezza che aveva dominato la mia gioventù, priva appunto di
un affetto duraturo. Le descrissi le avventure dei miei viaggi, e questo era un argomento che la
interessava vivamente. Anche lei, come me, aveva nell’animo il germe dell’avventura; la sua
fervida fantasia, come la mia, sognava lidi sconosciuti, lontani.
Consultando un atlante geografico, ci capitò sotto gli occhi “Messico”.
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“Vediamo cosa dice del Messico l’enciclopedia” disse Cornelia. Molte cose diceva , a
cominciare dalle vestigia delle antiche civiltà dei Tolte, dei Chichimeki, dei Maya, degli
Azteki, all’invasione e dominio spagnolo, alle continue guerre e rivoluzioni successive. Ma
quel che colpì ed esaltò la nostra fantasia fu la storia che si riferiva al periodo precolombiano e
specialmente all’impero degli Azteki con l’eroica resistenza che opposero agli invasori,
lasciando segni tangibili della loro civiltà
E poi il perpetuo clima primaverile sugli altipiani, in cui trovasi Messico capitale. La
meravigliosa flora, le immense pianure con i cavalli selvaggi, le alte montagne, i numerosi
vulcani che circondano le vaste pianure, i laghi e gli indi che conservano tuttora le
caratteristiche originarie.
Tutto il Messico, aveva preso posto nella nostra mente e nel nostro cuore e per molti giorni
l’argomento preferito di ogni nostro discorso si aggirava in quelle lontane terre.
Ci trovammo perfettamente d’accordo nella decisione di partire per il paese dei nostri sogni ma
io obiettai.
“Ci andresti?” le chiesi.
“Io subito e tu?” rispose
“Ma non sarebbe una follia andare, così all’avventura, in un paese tanto lontano, ove non
conosciamo nessuno?”
“Appunto perché è lontano, perché è per noi ignoto, che desidero vederlo. E tu avresti davanti
ai tuoi occhi tanti elementi nuovi e sorprendenti che ti suggerirebbero chissà che bei soggetti
per la tua pittura”.
Il 22 dicembre 1906 celebrammo il nostro matrimonio. Quattro amici erano con noi: Peppino
Cominetti, pittore, suo fratello Nino, poeta; lo scultore Giglioli e il neo-dottore Garbarino.
Entrambi i Cominetti, con zazzere e basette incolte, avevano uno strano aspetto, piuttosto
sconcertante; Giglioli, alto, robusto con un pizzo, nero sul mento, confermava la sua origine
russa. Sembrava un pope. Il dottorino, mingherlino e ben rasato, portava un’ampia mantellina
scura, che lo copriva sino al ginocchio. Noi due, con abiti normali, ma scelti tra i nostri
migliori, non stavamo affatto male in mezzo a loro.
Dopo un bel pranzo, che si svolse in una gaia atmosfera di brindisi augiurali, lasciammo mio
padre e la mia sorellina, con commosso affettuoso saluto.
La sera di quello stesso giorno, accompagnati da Ernesto, il fratello di Cornelia, e da un
numeroso stuolo di amici, c’imbarcammo sul “Manuel Calvo”, vecchia carcassa spagnola che,
secondo quanto ci dissero, effettuava il suo ultimo viaggio, con meta Messico. Poi sarebbe
rientrato in Europa per essere demolita.
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Ebbe così inizio il nostro viaggio di nozze che durò ben 33 giorni!
Il piroscafo era stipati di merci e di passeggeri, provenienti da Napoli. Dovemmo, con grande
disappunto, accontentarci di due cabine separate: quella di Cornelia verso poppa, la mia verso
la prua. Quando vi entrai, era già occupata da un dottore spagnolo, che aveva fissata la
cuccetta bassa e io, per raggiungere la mia, dovevo servirmi di una scaletta. Mia moglie si
trovava nella mia stessa situazione. Sotto di lei, invece di un dottore, c’era una cantante lirica
lei pure spagnola.
Capii subito che, durante il viaggio, avremmo avuto ben poche occasioni di trovarci noi due da
soli. Avevo commesso uno dei miei soliti errori, dovuti alla mia eccessiva impulsività. Prima
di acquistare i biglietti di viaggio, sarebbe stato logico, con un minimo di buon senso,
accertarmi di poter fare il viaggio, nella stessa cabina, non una a poppa e l’altra a prua!
(Cancellato: ma data la mia mentalità, come prevedere una cosa simile!) Cornelia,
seccatissima ma decisa, a spuntarla, mi prese per mano e mi trascinò davanti al Comandante
della nave al quale esponemmo il nostro caso. Questi ci promise che (Cancellato: dovendo
alcuni passeggeri scendere a Malaga e a Cadice) avrebbe trovato una cabina per noi due soli,
dopo aver lasciata la costa della Spagna.
Questo colloquio, voluto da Cornelia, valse a rasserenarci un po’. E poi pensavo che avremmo
passate lunghe ore insieme, passeggiando sulla tolda e rifugiandosi nella saletta dei fumatori,
quando fosse deserta. Ma il tempo, che volse repentinamente al brutto, annullò questa mia
speranza. Il mare si era fortemente agitato, impetuose raffiche di vento sferzavano le strutture
esterne della nave (Cancellato: Non era possibile star fuori) e a rendere le cose ancora più
penose il mal di mare non consentiva a Cornelia di lasciare la cuccetta. Il vento aumentava,
rabbioso, ringhiante con acuti prolungati sibili e il rullìo e il beccheggìo facevano perdere
l’equilibrio agli stessi marinai.
La traversata del golfo del Leone, fu terribile e paurosa. Si udiva l’impressionante continuo
scricchiolio, come di assi che stanno per schiantarsi, La nave si inclinava sul fianco sinistro,
s’inclinava sempre più e ad un tratto, un rombo assordante, come un violento precipitare di
pesanti massi,accentuò in modo pauroso, e improvviso, l’inclinazione sul fianco sinistro.
Dominava il panico, si temeva che la nave si capovolgesse da un momento all’altro.
Ordini impartiti dal ponte di comando, misero in moto tutti i componenti dell’equipaggio, che,
con grande fatica, legati e aggrappati a corde, per non essere scaraventati a mare, dalle
frequenti furiose ondate, riuscirono a penetrare nel capace ventre del piroscafo.
Dopo un lavoro difficile, snervante e pericoloso, provvidero allo spostamento di pesanti casse,
bauli, ferraglia e altre masse di merce, riportando, finalmente a un certo equilibrio, la paurosa
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inclinazione.
Io ero sconvolto e impaurito da quel terrificante spettacolo, e tra le urla e le invocazioni dei
passeggeri presi dal panico, non esitai, affrontando seri pericoli, ad aggrapparmi con tutte le
mie forze, sulle corde tese dai marinai. Volevo vedere Cornelia, soccorrerla, consolarla.
Trascinandomi, correndo, cadendo ripetute volte nell’impossibilità di tenermi in equilibrio, per
l’implacabile beccheggio e rollio, riuscii miracolosamente ad evitare una grossa ondata, e ad
attraversare la tolda, sino a poppa.
Violenti spruzzi mi inzupparono d’acqua, da capo a piedi. Non posso descrivere il mio stupore
e la mia meraviglia, trovando Cornelia e la sua compagna, tranquille e serene, come se ben
poco di rilevante fosse accaduto.
Esse mi dissero che sì… avevano avvertito un movimento della nave, diverso dal solito e che
avevano anche notato che per un po’ la nave pendeva da una parte, ma che non si erano
impressionate affatto, attribuendo quello strano movimento a uno dei soliti capricci del mare!
“Caro mio, tu mi sembri molto impressionato sei tutto inzuppato d’acqua! Che hai fatto!?
Cambiati subito. Mettiti il mio accappatoio e la mia vestaglia. Non prendere freddo” mi disse
Cornelia.
A Malaga e a Cadice scesero parecchi viaggiatori. Il mare cominciava a rabbonirsi. Il
comandante mantenne la sua promessa e ci fu assegnata una cabina per noi due soli. Eravamo
proprio felici e sembrò che il tempo non volesse menomare la nostra gioia. Vasti squarci di
sereno lasciarono affacciare il sole e il vento se ne andò altrove.
Fuori dallo Stretto di Gibilterra e oltrepassate le coste della Spagna, ebbe inizio la nostra luna
di miele, luna di miele meravigliosa, che dura ancora oggi, dopo sessant’anni di matrimonio,
sebbene vicende e avventure dì ogni genere abbiano tentato di contrastarla.
Non più avversati dal maltempo i passeggeri, d’accordo col Comandante decisero di
festeggiare in un’unica festa le ricorrenze di Natale, Capodanno a Funchal (nell’isola di
Madera) ove giungemmo proprio alla vigilia dell’Epifania.
(Cancellato: In una festa molto gaia, la gioia di tutti i partecipanti fu triplicata dalle tre
ricorrenze, raggruppate assieme.)
A Madera il clima era primaverile e il sole splendeva in un limpido cielo. Le canzoni cubane,
cantate da un giovane che si accompagnava con la chitarra, suscitarono in me sentimenti
nostalgici, forse per il loro sapore equatoriale; rivedevo Belem, il piccolo zoo,le foreste…
Lasciata Funchal, ove ci trattenemmo due giorni, si fece scalo all’Avana e dopo un’altra
prolungata sosta, finalmente, con 33 giorni di emozionante viaggio, giungemmo a Vera Cruz.
Ci attendevano centinaia di pescicani enormi, che infestavano le acque di tutto il golfo e
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numerosi stormi di anatre selvatiche che solcavano un bel cielo azzurro, ripulito dai recenti
temporali.
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IN TERRA MESSICANA
Il caldo di Vera Cruz per Cornelia era insopportabile. In attesa della partenza del treno che
doveva portarci su, in alto, a più di 2000 m., cercavamo refrigerio in qualche zona d’ombra,
ma anche lì si stava male.
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“Lassù godremo un clima primaverile” le dicevo per farle coraggio. Ma le mie parole non
lenivano le sue sofferenze.
Nel tardo pomeriggio il treno si mise in movimento e cominciò l’ascesa a spirale delle valli e
delle montagne, sul culmine delle quali si adagia Messico capitale, circondata da immense
pianure. L’aria si fece sensibilmente più respirabile e, di mano in mano che si saliva, l’afa
equatoriale cedeva il posto ad una gradevole frescura. Dai finestrini del vagone, si potevano
ammirare zone di folta vegetazione, e prati di smeraldo tinteggiati dal bianco di numerosi
bovini.
Alla stazione di Puebla, donne avvolte in scialli multicolori,offrivano ai viaggiatori le loro
specialità gastronomiche: tortillas, tamales, mole de guajolote, che portavano sul capo, in
grandi recipienti di terraglia. Altre con ceste colme di amapoles offrivano bellissimi fiori a noi
sconosciuti.
Le gardenie, per conservarle fresche e per non disperderne il profumo, le presentavano
deposte nel cavo di sottili tronchi di banano opportunamente sezionati e svuotati all’interno.
Assaggiammo il mole di guajolote (tacchino in umido) e lo trovammo squisito, ma per noi
troppo piccante. (Nella cucina messicana si fa un uso esagerato di peperoncini).
Raggiunti gli altipiani, il treno aumentò la velocità. Un paesaggio desolato e nudo, senza il
minimo segno di vita, contrastava in modo impressionante, con le belle praterie che pochi
minuti prima ci avevano rallegrato il cuore e gli occhi.
Una pianura senza fine, ricoperta di salnitro, col suo biancore ci offendeva la vista. Ogni tanto
emergeva da quel deserto di sale lo scheletro di un cavallo o di un bove. Il percorso in quella
infinita distesa bianca infondeva tristezza e stupore allo stesso tempo.
Ad un tratto comparvero zone di terra bruna arata e grandi coltivazioni di maguey (della
famiglia delle agavi). Dal centro delle sue lunghe pesanti foglie spinose, si estrae il pulque, un
liquido spesso e lattiginoso, che, sottoposto a fermentazione, costituisce una bevanda alcolica
molto apprezzata degli indo messicani.
In distanza apparve Messico, la capitale, con le prime luci accese.
Con un lungo fischio il treno entrò nella stazione e con fragoroso rumore di ferraglia si
fermò.
Dopo una breve visita dei doganieri al nostro bagaglio, prendemmo posto in un carrozzone
dell’albergo “Gambrinus”.
Percorremmo una vasta strada alberata e con diverse carreggiate.
Ricordava i boulevards parigini. Grandi e lussuosi caseggiati la fiancheggiavano e tutto era
illuminato a giorno.
99
(Cancellato: Cornelia era meravigliata e io anche) Non ci aspettavamo tanto lusso e tanta
grandiosità. Io avrei perferito che quella capitale fosse un po’ più alla buona, come Belem, per
esempio; avevamo, invece, l’impressione di trovarci in un grande centro europeo.
Ero preoccupato. Conscio dei miei doveri e responsabilità che mi ero assunto nei riguardi di
Cornelia, pensavo (Cancellato: se in un Messico così evoluto e così diverso da quello che
avevo immaginato, avrei avuto ) alle poche possibilità, colle deboli armi che possedevo, di
affrontare con successo tutti i problemi che si sarebbero presentati. Mi domandavo: “Potrò
dare a mia moglie una vita serena e agiata?”
Se fossimo stati un po’ più ragionevoli queste cose avremmo dovuto considerarle
assieme,prima di metterci in viaggio; invece tutti e due nel più perfetto incosciente accordo ci
siamo limitati a dirci: Il Messico è bello! Le attrattive che offre sono infinite; clima di eterna
primavera, l’antica civiltà dei Maya, degli Azteki i cavalli bradi nelle pianure senza fine, i
vulcani incappucciati di neve, i fiori di una bellezza mai vista! Bisognava partire subito, senza
indugio. Si sarebbe detto che temevamo di non arrivarci in tempo!
In opposizione però ai miei dubbi, dovevo convenire che Messico capitale, centro ricco e
importante, poteva essere propizio allo svolgimento di una attività artistica.
L’albergo “Gambrinus” era molto frequentato. Il Signor Anglada, nostro commensale, era
proprietario di una tenuta agricola nelle vicinanze di Toluca e doveva trattenersi qualche
giorno nella capitale per il disimpegno di affari. Per tramite suo conobbi l’avvocato Atzcuè ,
autentico messicano, che aveva ultimata la costruzione di una sontuosa palazzina a Villa di
Guadalupe, poco lungi dalla capitale. Era suo desiderio inserire nelle parti dell’atrio o cortile
interno del fabbricato, alcuni pannelli dipinti a olio su tela. Il soggetto da trattare era:
danzatrici dell’antica Grecia.
Presi i necessari accordi coll’architetto e lasciammo l’albergo per trasferirci in Calle de las
Flores, un po’ fuori centro, ma un posto molto pittoresco. Nel piccolo appartamento che
prendemmo in affitto, oltre alla camera da letto, c’erano altri due ambienti molto luminosi.
Uno lo destinammo a studio e l’altro a sala da pranzo. Comprammo mobili e il necessario per
rendere la casetta accogliente seppur modesta.
Cornelia, entusiasta e fattiva com’era, partecipò intelligentemente al mio lavoro (Cancellato:
disponendo questo qui e l’altro là) e non mancò di frenare i miei soliti impulsi disordinati e
incoerenti, all’inizio del loro insorgere. Nel mio studiolo c’era ordine e pulizia (Cancellato:
ciò che valse a facilitare il mio lavoro) che mi dava un senso di benessere e sicurezza.
Un mattino, molto presto, uscimmo di casa per fare una passeggiata nel centro della città.
Nelle strade non era ancora incominciato l’intenso abituale traffico, ma ci divertì molto un
100
fatto inaspettato e umoristico. Signori in frac o in abito da sera, eleganti dame, giovani e
anziane, (cancellato: con ampie scollature) ingioiellate, ma con capelli (in disordine)
arruffati e occhi inebetiti (giovani e anche anziane) , frammiste a miserabili indi di ogni età
(tutti colla scopa in mano) Sorvegliati da arcigne guardie, procedevano lentamente a scopare e
a lavare le strade centrali della città.
Erano gli ubriachi della sera e della notte, che con schiamazzi e atti non leciti, disturbavano la
quiete pubblica. Condotti in guardina, nelle primissime ore del giorno, inquadrati a gruppi, con
senso di esemplare praticità, erano obbligati, volenti o nolenti a quell’umiliante lavoro
(Cancellato: pulire e lavare le strade. Il comune ne ritraeva un sensibile risparmio).
Risparmio, quindi di manodopera e agli ubriaconi lo sport” della scopa” era indubbiamente
salutare. Per taluni di essi anche divertente! Tutti contenti dunque! Paese che vai, usanza che
trovi!
Le mie danzatrici greche, con felici movimenti ritmici, rallegravano lo studio. Lo sguardo di
una di esse a Cornelia non piaceva, le sembrava un po’ spento; secondo lei, avrei dovuto
ravvivarlo un poco.
Durante una mia breve assenza, col suo temperamento frenetico e deciso, volle correggere il
difetto, e farmi così una improvvisata. Fece un ritocco, con bianco puro sugli occhi dove le
parevano poco espressivi. Il risultato che ottenne fu disastroso. Quel bianco assoluto fece
volgere la pupilla scura all’insù. La figura assunse una espressione crudele e pazzesca e la
stonatura di quel terribile bianco era insopportabile.
Quando vidi quello spiacevole spettacolo fui preso da un attimo di stizza. Lei corse ad
abbracciarmi, scusandosi piangendo e tutto finì in una bella risata. Con la spatola tolsi
l’inopportuna crosta di bianco e feci alla danzatrice due begli occhi vivaci e sorridenti, con
piena soddisfazione della mia “collaboratrice”.
Gli indi provenienti dai vari villaggi, vicini alle città di Queretaro,Toluca, Villa de Guadalupa,
con lunghe marce a piedi (Cancellato: alcuni dei quali con pochi prodotti del loro paese)
trascinavano i loro miseri prodotti nella capitale. Smunti, denutriti, allampanati, senza speranze
e senza illusioni, si consolavano bevendo il pulque, amoreggiando colle loro accondiscendenti
femmine. Potevamo vederli dalla nostra finestra, guardando nella pulqueria che avevamo di
fronte. Uomini e donne stavano bevendo all’interno, altri già saturi e ubriachi, appoggiati al
muro della facciata; altri ancora giacevano o erano accoccolati a terra e quelli in piedi, con
frequenti repentine flessioni delle ginocchia facevano sforzi per mantenersi in equilibrio, ma
fatalmente, anch’essi, dovevano poi precipitare pesantemente al suolo.
Triste, penoso spettacolo! Pare incredibile che a quei poveretti non potesse essere riservata
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miglior sorte di quella.
L’abbigliamento degli indi è molto semplice. Le femmine, di ogni età, portano in telo rigato a
colori, avvolto attorno alle gambe e fissato con una cintura alla vita. Quella è la loro sottana.
Un altro telo pressappoco delle stessa misura, con un foro nel centro per il passaggio del
capo, casca con un lato sul davanti e coll’altro sul dietro e ricopre così la parte superiore del
corpo.
I maschi indossano larghi calzoni di tela di cotone bianco e coprono il torso con un ampio
mantello avvolto attorno alle spalle e calante giù oltre le ginocchia. Portano in capo un gran
cappello di paglia a falda larghissima con il noto alto cocuzzolo al centro.
Cornelia conosceva ben poche parole di spagnolo ed era difficile per lei fare la quotidiana
spesa dei viveri. (Cancellato: nei negozi non riusciva sempre a farsi capire). Per questa
ragione e anche perché potesse disporre di un po’ di tempo libero decidemmo di cercare una
domestica. Non fu difficile trovarla.
Appoggiati al davanzale della finestra, al pianterreno, che dava sulla strada, molto frequentata
dal continuo passaggio degli indi, disse ad una fanciulla “Quieres hacer a la criada? (Vuoi
fare la domestica?) E quella rispose subito : “Sì niña”.
“Allora entra “ replicò Cornelia.
Si chiamava Marcellina, era magra e brutta, ma simpatica; due lunghe pesanti trecce nere le
calavano dalle spalle e nei suoi occhi (Cancellato: e nel labbro inferiore e carnoso) c’era
qualcosa che esprimeva la bontà.
Io feci da interprete. Ritornò il mattino del giorno dopo con un fagottino. Cornelia con un
materasso e un cuscino, le aveva improvvisato un letto. Rimase con noi pochi giorni e
funzionò a meraviglia. Ubbidiente ben rispettosa, sotto la guida di Cornelia, accudiva alle
faccende di casa, faceva la spesa e cantava le canzoni degli indi.
Nel fagottino aveva una striscia di tela spessa e rustica, una specie di stuoia, e su di essa si
coricava per dormire, il suo guanciale era formato da alcuni straccetti legati assieme. Del
morbido, candido lettino preparatole da Cornelia, non ne volle sapere. Preferiva dormire a
modo suo.
Una mattina, come al solito, si recò a far la spesa e non fece più ritorno. Due giorni dopo si
ripresentò un po’ brilla e piangente, con singhiozzi che parevano veri. “E’ morta la mia
mammina “ disse. Cornelia, impietosita, l’accarezzava e cercava di consolarla. E Marcellina tra
i singhiozzi, proseguì; “Con i soldi della spesa ho comperato i fiori per la mia mammina”.
“Non ti dare pensiero per questo, povera piccola” le disse Cornelia.
Riprese i lavori in casa. Nel pomeriggio dello stesso giorno, sparì colla sveglia che era posata
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sul tavolo e non l’abbiamo mai più vista.
E così fecero le molte altre che abbiamo assunto. Un ferro da stiro, un paio di calzettoni, le
forbici, un qualsiasi oggetto, andava bene per portarlo al Monte dei Pegni. I pochissimi
quattrini ricavati, bastavano per una completa ubriacatura di pulque!
Bisogna, però dire che, ad eccezione di quei piccoli furtarelli, è raro che un indio commetta
delitti, ferimenti ed omicidi. La sua natura è bonaria.
Tra le nuove assunte ve ne fu una che si vantava d’essere l’amica del Presidente della
Repubblica e che tutte le leggi e le direttive del governo erano subordinate ai consigli che lei
dava al Presidente. Bastava guardarla per capire quanto erano madornali e inattendibili le sue
fandonie. L’alcol alterava la sua povera mente!
E un’altra, invece di attendere ai lavori di casa, ci dava spettacolo, esibendosi in frenetiche
danze ed eccelleva nel “tapatio”, ballo molto movimentato di grande effetto, allora in voga in
Messico.
Carmencita, una ragazza diciottenne, diceva che un indio , suo amico, aveva dedicato a lei
questa canzone che ci cantò con una bella vocetta:
“Carmencita! Carmencita!
Vengo amarte, a ver si puedo
Carmencita! Carmencita!
No estees contra de mi.
Por tu calle ando pasando,
Cantandote una canciòn
Que en mi tierra se anda usando.
Mi tierra es muy lejos de aquì.
Mi tierra es San Luis de Potosì.
Si m’enboracho es que me gusta el trago
Si m’emboracho es de puro sentimento.
Ah! Carmencita! Non estees contra de mi
Carmencita! Carmencita!
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Una lettera di mio padre di contenuto sensazionale ci sorprese: aveva sposato la signorina
Celle, l’istitutrice di mia sorella! Mio padre aveva ben quarantasei anni più di lei|
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********
Consegnai all’architetto del Signor Atzcué i dodici pannelli colle danzatrici greche. Oltre agli
elogi che ho gradito molto, un bel pacchetto di pesos consegnatomi a compenso del mio
lavoro, mi fece ancor più piacere.
Con Cornelia avevamo già deciso di fare una bella gita. Andammo poco lontano dalla capitale.
Pare impossibile che a pochi chilometri di distanza, Teotihuacan, dove ci siamo recati, si
presentasse così diversa da Messico capitale, che per il suo complesso urbanistico e la
disposizione delle sue strade, somiglia molto alle grandi città europee. Là ci sembrava di
trovarci in un mondo di sogni arcaico e leggendario.
Le due enormi piramidi, una dedicata al “Sole” e l’altra alla “Luna”, ereditate dagli Aztechi,
da altre più remote civiltà, sono talmente grandiose e imponenti che ci lasciarono a bocca
aperta, dalla meraviglia.
Quella del “Sole” è meglio conservata. Sul suolo, dove sorge, innalzandosi a 65 m. di altezza,
una piantagione di agavi e di grandi alberi, la circonda.
Pare che tra le popolazioni più remote che lasciarono stupefacenti tracce dell’alta civiltà
messicana, vi fossero i Zapotechi, forse prima di 600 anni avanti Cristo, i Mixtechi, i Maya, i
Toltechi, i Cicimechi e, più recentemente gli Aztechi, ancora in auge, sotto l’impero di
Montezuma, all’epoca dell’invasione spagnola. Ma io non intendo darvi qui notizie diffuse
sulla storia di quelle antichissime civiltà, né di citare dati archeologici, di cui non so nulla o
ben poco. (Cancellato:Le sole parole “Storia” e “Archeologia” bastano per mettere grande
confusione nel mio cervello e farmi ricordare la mia ignoranza: Pertanto preferisco non dire
più nulla in proposito).
Mi limiterò a descrivere quello che più ci ha colpito durante la nostra visita a Teotihuacan (sito
degli dei).La sua capitale, nei tempi remoti era Tenochtitlan, sulle ceneri della quale è sorta
l’attuale Capitale del Messico.
Della gente che costruì le immani opere, che vi si ammirano, si sa che era dedita oltre che
all’architettura, alle arti figurative e produceva delle splendide ceramiche.
Sorprendenti sono i resti di certe pitture murali e specialmente una, assai notevole, che con
raffigurazioni umane, in movimentati atteggiamenti talora umoristici, vuol rappresentare un
paradiso nel quale in quei tempi si credeva.
Curiosi e di misterioso significato sono i fregi del tempio Quetzalcoalt; uno dei quali
rappresenta il “Dio della pioggia” e l’altro il “Serpente piumato.
Venne il crepuscolo e ci affrettammo a rientrare in città, perché era nostro desiderio far visita
104
alla Signora Inclan, vedova di un generale, nostra buona vicina di casa, per raccontarle il
soddisfacente esito della nostra gita a Teotihuacan.
Ricordo in modo preciso, come se il fatto che sto per raccontarvi fosse accaduto ieri, tanto si è
inciso nella mia memoria.
(Cancellato: Verso le ore 19, seduti nella sala da pranzo) mentre la Signora Iclan ci offriva
una tazza di tè, io, rivolgendomi a lei, con assoluta convinzione, ma anche per fare un po’ lo
spiritoso, le stavo dicendo che Cornelia non è soltanto la mia cara sposa, ma anche la mia
balia, la mia mamma,la grande amica, la mia … (Cancellato: un repentino strano rumore) un
boato e un violento oscillamento della casa m’interruppe bruscamente. Ninnoli di porcellana
precipitati al suolo, porte che sbattevano, urla di donne impaurite, passi concitati di gente in
fuga attestavano una terribile scossa tellurica. Sentivamo il lugubre inconsueto ululo dei cani,
il nitrito di cavalli che ho visto impennati o con le gambe divaricate per tenersi in piedi;
preghiere e pianti di gente, colta dal panico, inginocchiata in mezzo alla strada. Gli alberi
piegavano le loro fronde come sospinte da un forte vento. Eppure il cielo era sereno e l’aria
non era agitata. Nello stesso momento il muro di una villa vicina strapiombò e cadde
fragorosamente.
La durata della scossa fu breve, ma si ripeté più volte con minore o maggior intensità. La
signora Inclan non volle uscire di casa. Era molto impressionata e noi non la lasciammo sola.
Cornelia sensibile ed emotiva, era un po’ spaventata, ma trovò parole d’incoraggiamento per la
sua amica.
I terremoti al Messico, data la natura vulcanica del suo terreno, sono frequenti e talvolta
catastrofici.
*********
Il signor Atzcué mi scrisse invitandomi a Villa di Guadalupe, per mettermi in contatto con
l’ingegner Aubry che desiderava affidarmi un lavoro da eseguire nella sua palazzina. Si
trattava di rivestire le pareti dell’atrio, con intrecci di rami fioriti, animandoli con l’aggiunta di
uccelli, farfalle e scoiattoli. Lavoro lungo ma piacevole. Si presentava una bella occasione per
sbizzarrire la mia fantasia e continuare bei giochi di colore.
Da Messico partivo ogni mattina presto per rientrare a casa verso sera. La signora Inclan
impartiva a Cornelia lezioni di spagnolo; facevano insieme qualche passeggiata, facendosi
ottima compagnia. Io ero tranquillo, sebbene mi rincrescesse non potermi trattenere con loro
durante il giorno.
105
A Villa Guadalupe il lavoro non mi mancò per molto tempo. Feci due ritratti e delle nature
morte per una famiglia di agricoltori, alla quale fui presentato dall’ingegnere Aubry e, anche
per suo tramite mi fu affidato un lavoro molto importante nella Chiesa parrocchiale di Ns.
Signora della Consolazione. Dovevo però assumermi anche dei lavori estranei alla pittura e
cioè stuccature e rivestimento delle colonne delle navate, tinteggiature di fondi, doratura a
foglio, mosaicatura sul fondo dell’abside. Per questo dovetti ricorrere alla mano d’opera
specializzata.
Io dovevo dipingere, in grande, la Madonna, con attributi di Santi e di angeli, di cherubini e
serafini in disposizione ritmica, nelle cupole delle navate. I motivi ornamentali erano gotici,
perché questo era lo stile della chiesa.
Avevo da fare con un architetto molto esigente e meticoloso, che a volte mi infastidiva colle
sue direttive un po’ troppo ortodosse.
Il lavoro era molto impegnativo e mi faceva quasi paura; ma lo affrontai coraggiosamente,
armato di buona volontà confidando nella mia intelligenza, che, non saprei dirvi se in quel
momento era poca o sufficiente.
Tutto sommato, per l’architetto, più che un artista, ero un impresario e gli impresari, si sa, sono
furbi e astuti. Io invece non ero né l’uno né l’altro. Le contrattazioni per l’esecuzione del
lavoro furono fatte un po’ alla buona, soprattutto basate sulla fiducia.
Lavorai in quella chiesa per oltre sei mesi e, oltre al modesto acconto avuto dal
Parroco,investii quasi tutti i miei risparmi per l’acquisto di costosi materiali. Agli stuccatori e
ai tinteggiatori che avevo assunto, dovevo corrispondere settimanalmente delle rilevanti
retribuzioni. Io, ogni tanto, mi dicevo: “Che Dio me la mandi buona.”
Dopo indicibili patemi d’animo, finalmente il lavoro fu portato a termine. Tanto il vescovo
intervenuto per l’inaugurazione, che il parroco e lo stesso architetto approvarono e mi
elogiarono con belle parole.
Io speravo, anzi ero quasi certo, che senza chiederlo mi sarebbe stato corrisposto il compenso
pattuito in precedenza. Aspettai un mese, aspettai due mesi, ma inutilmente.
Costretto dalle mie pressanti necessità, mi presentai al parroco per sollecitare il pagamento.
Questi con molte belle parole, elogi e promesse di altri lavori, mi disse che in quel momento
non aveva disponibilità di liquido. Avrei dovuto aspettare, perché sperava di racimolare a poco
a poco la cifra dovutami, col concorso dei suoi generosi parrocchiani.
Io, intanto, ero ancora debitore verso gli stuccatori di una discreta somma, per acquisti di
materiali, ed ero da essi insistentemente sollecitato a saldare il loro conto e avevano ragione.
Sebbene a malincuore dovetti cercar lavoro da diverse ditte di decorazione.
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Ero desolato, abbattuto, scoraggiato e la mia presenza fisica lo dimostrava.
Cornelia, per quanto molto preoccupata, aveva per me affettuose parole d’incoraggiamento.
“Non prendere le cose al tragico – mi diceva- vedrai che tutto si sistemerà.”
Un impresario decoratore al quale mi presentai per chiedergli lavoro,mi fissò con diffidenza,
squadrandomi da capo a piedi, accentuando il mio imbarazzo. Il mio aspetto non gli ispirava
fiducia. Difatti la nuova dolorosa situazione in cui mi trovavo, mi aveva reso più titubante e
indeciso del solito (Cancellato: ero immusonito con una faccia da povero diavolo). Ad un
tratto mi chiese a bruciapelo: “Quale prezzo mi fareste per un pannello di m.2 x 3,50, con
quattro figure a grandezza naturale, su fondo di paesaggio?”
La domanda formulata così mi parve sciocca Ma non volevo tralasciare occasione di avere un
po’ di lavoro, non dovevo rinunciare. Riflettei un momento a pensare e la risposta che gli
diedi fu altrettanto sciocca che la sua domanda. Esposi un prezzo che era basato ( e non poteva
esserlo) su un ragionamento più analitico che positivo.
“Cinquecento pesos.”
“Usted no conoce el pretio de los frijoles(Lei non conosce il prezzo dei fagioli) – mi disse e
mi sbatté maleducatamente la porta in faccia! Gli avrei volentieri somministrato due
schiaffoni, ma invece me ne andai mortificato, brontolando: “Mascalzone, maleducato,
screanzato, bestione!..
In quel momento una frase di mio padre affiorò alla mia mente; “Non è nell’arte che tu potrai
far fronte alle necessità della vita”.
Ma qui il caso era un altro, coll’arte sinora avevo potuto provvedere il necessario per la mia
famiglia. Se il parroco avesse fatto il suo dovere tutto sarebbe andato bene.
Altri miei tentativi per cercar lavoro, ebbero esito negativo, ma non umiliante. Ero disperato,
stanco e avvilito!
Mi rivolsi all’ingegner Aubry che aveva per me molta simpatia. Gli esposi il mio caso ed egli
mi diede, con brevissime parole, un buon consiglio.
“Scriva al vescovo”.
Così feci e dopo una settimana fui chiamato dal parroco che saldò il mio conto, fino all’ultimo
centesimo. Mi chiese scusa del ritardo, auspicò ogni bene per me e per la mia famiglia e le sue
ultime parole furono: “Che Dio la benedica”.
Così si rasserenò il nostro cielo e tutto andò a posto. La sera di quel bel giorno Cornelia era
alla finestra ad attendermi. Eravamo d’accordo che appena comparso in fondo alla Calle de las
flores, se le cose si eran risolte bene, avrei alzato le due braccia sventolando il fazzoletto. E
così feci.
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Cornelia mi rispose per dimostrare tutta la sua gioia, agitando un telo bianco, almeno quattro
volte più ampio del mio fazzoletto.
Tutti i patemi d’animo che dovetti subire durante l’esecuzione del lavoro e soprattutto dopo,
mi avevano causato un po’ di esaurimento nervoso. Mi sentivo fiacco, privo di iniziativa,
svogliato e malinconico.
Cornelia, impensierita, decise di prenderci un po’ di riposo in un posto tranquillo, in
campagna. La Signora Inclan ci consigliò di recarci a Saguaro, un paesino non lontano da
Toluca ove ella era già stata e vi si era trovata bene.
Ci andammo e ci piacque. Alloggiammo in una piccola locanda, condotta da due giovani
coniugi spagnoli. La denominazione Saguaro di quel villaggio , aveva origine dai boschi di
saguari e cactus che coprivano una vicina zona collinare.
Curiose e strane piante i cactus e i saguari! Colla singolarità delle loro forme assumono
talvolta apparenze umane: di guerrieri con elmo e cimiero, di danzatori nei più impensati
atteggiamenti. Di saguari se ne vedono molti che sorpassano l’altezza di 19 metri.
La fioritura è veramente spettacolare, a forma di mazzi, oppure a
fiori isolati sparsi a caso sul tronco e sulle ramificazioni. I fiori
carnosi, bianchi rossi e viola hanno la parte centrale di un bel
giallo zafferano.
Come il banano assorbono e trattengono molta acqua ed è per questo che pesano molto. Ve ne
sono di quelli a fusto diritto, rigato verticalmente con solchi a coste spinose e robuste
ramificazioni laterali, incurvate verso l’alto e sormontate da una specie di grande cresta,
suddivisa in tanti boccoli di diverse dimensioni che visti a distanza possono sembrare un
elmo con pennacchio e cimiero. Altri invece hanno robusti rami lunghi che scendono verso il
suolo, sinuosi come serpenti.
Interessante il grande cactus di forma arrotondata, senza rami. Sembra un enorme nido, con
coste rilevate, verticali e regolarmente disposte; ogni costa è guarnita di ciuffi spinosi; nel
centro di questa specie di grande nido, si vedono numerosi grossi frutti, di cui gli scoiattoli
terragnoli, che in quei boschi abbondano, sono molto ghiotti.
Trascorrevo con Cornelia lunghe ore in quelle attraenti boscaglie, godendo di tante bellezze e
curiosità, offerteci dalla natura e da noi mai viste.
Infinite altre specie di cactus di dimensioni minori, frammiste le une alle altre, con splendide
fioriture varianti tra il bianco, il giallo, il rosso e il viola formavano una deliziosa tappezzeria.
Non era raro l’incontro con grosse lepri, tra l’ombra di quei cactus in fiore. Questi animali
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vestiti di grigio punteggiato in bruno con zampe e ventre chiari, portano sulla breve coda un
ciuffo di peli neri e le enormi orecchie rosee all’interno, sono contornate sugli orli, da una
filettatura pure essa nera.
Gli scoiattoli terragnoli hanno invece il dorso bruno con due rigature bianche ai fianchi, la
coda è ampia e lunga, curva all’insù. Hanno una sorprendente agilità.
In minor numero si aggiravano tra i saguari e i cactus i “pècari”, della famiglia degli ungulati,
che ricordano un po’ il cinghiale, ma di dimensioni molto minori;il loro peso raramente supera
i 20 kg. Molti piccoli mammiferi, rettili, uccelli tra i quali è tipico quello chiamato dai
messicani “Paisano”, velocissimo, col becco lungo e appuntito, vorace divoratore di serpi, topi
e lucertole passano le ore calde del giorno, sotto l’ombra delle piante.
Il nostro soggiorno in quel curioso e tranquillo ambiente, sebbene di breve durata, mi rimise in
perfetta salute e anche Cornelia ne ritrasse grande giovamento.
Ripresi a lavorare nelle chiese di Queretaro e di Toluca. Feci visita al Signor Anglada
(conosciuto all’albergo Gambrinus) nella sua vasta tenuta agricola con allevamento di
bestiame equino e bovino
Un’importante coltivazione di mais occupava centinaia di ettari di superficie. Bovini e cavalli
bradi animavano una pianura senza fine e alcuni charros nei loro tipici costumi, facevano
volteggiare, lacci per imprigionare i cavalli che volevano catturare. Era emozionante vedere
quegli animali ribellarsi, impennarsi, scalciare e curvare la groppa a difesa della loro libertà.
La nostra vita aveva ripreso un ritmo tranquillo. Io trovavo anche il tempo di rievocare con la
pittura le mie lontane foreste paraensi e i suoi mansueti indi. Cornelia esprimeva il suo punto
di vista e le sue amorevoli critiche sui miei dipinti e ci facevamo ottima compagnia.
(Cancellato : ogni tanto, per fare un po’ gli spiritosi) giocavamo anche a raccontarci delle
barzellette, ma, il più delle volte erano talmente prive di contenuto umoristico, che ci facevano
ancor più ridere di quelle veramente riuscite. Era il momento di ridere, bisognava ridere ad
ogni costo. Ho notato che ai giovani capita spesso di trovare il ridicolo anche dove non c’è e,
senza una ragione, senza un motivo plausibile, ridono e ridono solo perché, in quel dato
momento, sono predisposti alle manifestazioni di allegria.
La Signora Inclan, stretta da affettuosa amicizia per Cornelia veniva spesso a visitarci colla
Signora Rass, moglie del console russo il quale aveva, tempo addietro acquistato un mio
quadro, e davanti ad una tazza di caffè o di té passavamo il tempo in liete conversazioni.
Nella Capitale circolavano voci su presunti moti rivoluzionari, diretti contro il governo del
Presidente Porfirio Diaz. Non essendovi libertà di stampa, poco si poteva sapere dai giornali;
ma era evidente che qualcosa di anormale stava accadendo. C’era in città un inusitato
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movimento di truppe; specialmente della guardia nazionale e della polizia. Nella popolazione
circolava un senso di sfiducia e di sgomento che si ripercuoteva sugli affari e sul commercio.
Eravamo allora nell’anno 1909.
Si sapeva che in varie città della Federazione vi erano stati scontri colle forze governative,
suscitati da Francisco Madero, Nella capitale erano rigorosamente vietati gli assembramenti,
molti negozi avevano chiuso i battenti per mancanza di vendite. Quelli di commestibili,
invece, non arrivavano a servire il pubblico ché, in previsione di carestia, s’affrettava a far
provviste. La situazione si aggravava giorno per giorno. Non c’era più speranza di trovar
lavoro.
Per noi non c’era altro da fare che trasferirci subito altrove. Ma dove ? Io pensai di ritornare a
Belem. Lì avevo molti amici e larghe possibilità di lavoro, se non nel campo dell’arte,
sicuramente nel commercio.
Decidemmo che, prima di lasciare la nostra abitazione, sarei partito io solo e dopo aver trovato
a Belem una conveniente sistemazione, Cornelia mi avrebbe raggiunto. (Cancellato: In un
primo tempo rifiutai di partire). La Signora Inclan, la moglie del Console russo e il Console
stesso, convennero che era più prudente non abbandonare la casa di Messico. Anzitutto
dubitavamo che il movimento rivoluzionario in atto potesse svilupparsi; avevamo fiducia nelle
forze del governo. E poi ritenevamo necessario che Cornelia affrontasse il viaggio quando io
fossi certo che a Belem le avrei assicurata una situazione sicura e una casa accogliente. Ne
convenni anch’io, sebbene colle mie riserve sentimentali.
Del resto, pensavo, le cose si risolveranno presto e in questo breve tempo Cornelia sarebbe
rimasta in buone mani, sotto l’affettuosa protezione di quelle buone persone, che ci
dimostravano la loro leale amicizia. Da questo lato ero tranquillo, Cornelia non sarebbe stata
sola e non le mancava una discreta disponibilità di denaro.
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AVVENTURE E DISAVVENTURE
DI UN GENOVESE A NEW YORK
Il distacco fra noi fu doloroso e commovente.
Col treno raggiunsi Vera Cruz e poi New York, da dove con il
piroscafo sarei partito per Belem, ma il viaggio fu sospeso perché il
piroscafo fu mandato in bacino per lunghe riparazioni.
Nessuno sapeva quando si sarebbe messo in viaggio, anzi, si presumeva una lunga sosta. I
quattrini che avevo portato con me erano pochi.
In attesa della partenza, per non gravare con le spese, era
necessario trovare un qualsiasi lavoro.
Entrai in una piccola trattoria vicina al porto per pranzare. Le mie due valigie le avevo
depositate in una pensione ove mi sarei recato per dormire.
Conduceva la trattoria un genovese che, mi parve, come ligure, un po’ toppo espansivo.
Comunque non mi dispiaceva parlare un po’ con un mio concittadino. Si sedette al mio tavolo
e tra un boccone e l’altro, parlammo di Genova e poi di Messico e infine gli dissi che ero
pittore e che mi sarebbe stato caro, per non stare in ozio, trovare un lavoro, magari di breve
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durata, nell’attesa che il piroscafo si mettesse in viaggio per Belem.
“Ma guardi che combinazione! – mi disse – proprio ieri il signor Ferrando che ha un hotel a
Fort Lee, nel Jersey, mi ha chiesto se conoscevo un pittore, che potesse eseguire un lavoro
nella sala da pranzo, che sta rimettendo a nuovo. Non perda l’occasione. Vada subito. Scrisse
l’indirizzo su un foglietto: “Ferrand Hotel - Fort Lee - Jersey City. Mi spiegò che dovevo
attraversare il ponte Brooklyn e poi prendere l’autovia che va a Fort Lee.”
Vi andai subito e giunsi prima di sera
Il proprietario dell’Hotel era di Chiavari, un grassone, sanguigno con un ventre sporgente sul
quale si posava una catena d’oro con orologio. I suoi occhi sfuggenti promettevano poco di
buono. Mi condusse nella sala da pranzo, ove c’erano cavalletti, tavolati e attrezzi da muratore.
“Voglio quattro nature morte negli angoli del soffitto. Quanto mi prendete per questo lavoro?
Riflettei per un po’ e gli dissi “Quaranta dollari”.
“Cominciate domattina, il lavoro è urgente”.
“Va bene – replicai - domattina presto ritorno con i colori e le tavolozze”.
“Non c’è bisogno, c’è tutto qui”.
Difatti mi condusse in uno stanzino ove c’era una tavolozza, un buon assortimento di colori a
tempera, spatole, pennelli e tutto l’occorrente per dipingere.
“Ma qui c’è già un mio collega, non vorrei che gli dispiacesse la mia intrusione” dissi.
“Non occupatevi di ciò che non vi riguarda. Vi occorre il necessario per dipingere, qui c’è
tutto. E ora basta” E mi lasciò con quelle parole.
Lo cercai per salutarlo. (Cancellato: Volevo non far tardi per rientrare alla pensione e
dormire). Ero stanco.
“Vi ho fatto preparare dove dormire “ e mi fece e mi fece accompagnare da un cameriere sul
solaio, ove c’era un misero lettino con materasso duro non più alto di tre dita e un solo
lenzuolo di un bianco equivoco. Mi ricordava il letto dell’isola Maddalena.
“Marca male-, pensai. - Per fortuna me la sbrigherò presto con le nature morte”. Scesi per
cenare; mi servirono una minestrina in brodo, un po’ troppo salata, per il mio gusto, una
fettina di arrosto con insalata e un po’ di frutta cotta.
Anche il conto lo trovai salato, per il mio gusto. Rimasi un po’ a tavola, fumai una sigaretta e
me ne andai nel solaio per dormire. Ero stanco, ero triste, mi mancava la mia Cornelia e poi il
contrattempo della mancata partenza per Belem, mi causava delle serie preoccupazioni. Mi
rendevo conto che le cose si protraevano troppo a lungo e chissà quando avrei rivisto la mia
compagna.
Nella notte dormii ben poco, le zanzare che mi volavano attorno erano troppo aggressive e il
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rumore dei topi che si rincorrevano sul pavimento di legno non conciliava certamente il
sonno.
Mi alzai al mattino presto. In quel vasto solaio c’erano altri due lettini come il mio. Da un
finestrone si vedeva un cortile contornato da un alto steccato di legni appuntiti. In un angolo
una baracchetta che doveva essere un pollaio, due grandi cataste di legno e pochi striminziti
alberelli.
Sugli scalini che immettevano al piano rialzato, forse alla cucina, erano posati alcuni vasi di
terracotta con piantine striminzite.
Scesi per cominciare il mio lavoro. Al bar dell’albergo presi un caffè e un panino e poi salii
con pennelli e colori sul tavolato e iniziai la prima natura morta.
Stetti tutto il giorno, eccetto l’ora di pranzo, su quel tavolato traballante. Dipingere un soffitto,
colla faccia girata in su è un lavoro duro, che stanca e favorisce il torcicollo.
Il signor Ferrando veniva ogni tanto a guardare quel che facevo e se ne andava quasi subito
senza dir parola.
Quando ebbi finite le quattro nature morte, le osservai attentamente dal di sotto. Erano quanto
mai banali di un verismo che poco aveva di artistico. Dimostravano la logica espressione del
mio stato d’animo.
Pensai che forse, proprio perché erano di un disgustoso verismo, sarebbero piaciute al signor
Ferrando. E fu così. Stette un po’ a guardare. “Va bene” e non mi disse altro.
Il mio compito era finito e rimasi in attesa dei 40 dollari pattuiti. Mi trattenni nell’albergo,
certo che da un momento all’altro il signor Ferrando avrebbe saldato il conto.
Nell’attesa scrissi una lunga lettera a Cornelia, dipingendo in color di rosa le notizie che le
davo. Perché amareggiarla! e dandole il nuovo mio indirizzo.
Affrancai e deposi la lettera in una coppa dove gli ospiti dell’albergo mettevano la
corrispondenza da spedire.
I soldi non vennero e allora glieli chiesi.
“Giovanotto – mi disse – lo so io quando devo pagare. Nessuno mi ha mai chiesto dei
pagamenti così affrettati”.
La mia insistenza non servì a nulla.
“Mi dica allora quando posso ritornare”.
“Non avete bisogno di ritornare, perché rimarrete dove siete”,
Non afferrai il senso di quelle parole e insistetti dicendo che, avendo finito il lavoro, intendevo
andarmene.
“Sappiate che la porta del mio albergo è aperta per quelli che vogliono entrare, ma non per
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tutti quelli che vogliono uscire. E ora poche storie. Se non volete il peggio, andate in cucina
da mia moglie e mettetevi ai suoi ordini, (Cancellato: Mi disse queste parole stizzito e
battendo pugni sul tavolo). Mi sentii affluire il sangue al capo; la mia prima reazione fu quella
di avventarmi su quel tipaccio e di tempestarlo di pugni, ma in un attimo di riflessione, mi
apparve l’immagine di Cornelia e ciò mi fece desistere da commettere un atto inconsulto e di
imprevedibili conseguenze.
Mi diressi verso la porta d’uscita per andarmene; ma un tipaccio di ripugnante aspetto non mi
lasciò uscire, mi spinse indietro con una brutale manata sul petto, ritentai di avvicinarmi
all’uscita, ma quell’individuo mi mise le mani addosso e con un parole minacciose e violenti
spintoni, , poco mancò che mi buttasse a terra..
Il tumulto dei pensieri che attraversavano la mia mente era indicibile.
“Ma cosa succede? Dove sono? Che gente è questa?
Non potevo capacitarmi di quanto stava accadendo e violenti sentimenti di rabbia e di
vendetta, si svegliarono in me. Mi sentivo crudelmente umiliato e avevo gran voglia di
piangere. A poco a poco mi calmai e comincia a ragionare e a riflettere con me stesso.
“Fui vilmente ingannato dal padrone della trattoria di New York, evidentemente d’accordo con
quel farabutto di Ferrando. Si tratta né più né meno che di un basso coercitivo sfruttamento di
mano d’opera.
Ero, tutto sommato, in balia di un gangster. Ogni mia ribellione sarebbe stata inutile e
pericolosa.
Non mi restava altro che fingere di accettare la situazione con la speranza di poter evadere da
quell’ignobile carcere. La fuga, attuare una fuga!. Avrei dovuto evitare di attirarmi delle
antipatie, che mi avrebbero posto in una situazione ancor più difficile. Seppi padroneggiarmi,
(Cancellato: Con la maschera della finzione sul volto andai in cucina). Mi presentai alla
moglie del proprietario, dicendole: “Signora, sono ai suoi ordini”.
“Come vi chiamate””
“Manlio” risposi.
“Ebbene Manlio, il lavoro che dovrete fare abitualmente è questo: al mattino vi alzerete alle
cinque e farete un’accurata pulizia ai pavimenti. In quell’armadio ci sono le scope e gli
strofinacci. Alle 7 vi darò il caffè, poi scenderete nel cortile a far pulizia al pollaio. Non
dimenticate mai di mettere acqua negli abbeveratoi e che questi siano sempre puliti.
Spaccherete la legna che vedete accatastata, ma in pezzi non più lunghi di 20 cm. (Cancellato:
se no non entrerebbero nella bocca delle stufe, l’accetta è là vicino alla scaletta). Alle undici
pranzerete e finito di mangiare, continuate a spaccar legna, perché l’inverno qui è rigido e
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con quattro stufe ce ne vuole molta. Questo sarà il lavoro di ogni giorno e se vi sarà
qualcos’altro da fare ve lo dirò di volta in volta. Alle sette di ogni pomeriggio vi darò la cena.
Ci siamo intesi? Vi raccomando buona volontà e sveltezza!”
“Va bene, ho capito” dissi.
Scesi nel cortile e cominciai a spaccar legna. Era un lavoro che non avevo mai fatto e lo
trovai pesante e duro, più duro dei rami di quercia che dovevo spaccare.
Nei primi giorni credevo di non potercela fare, ma di mano in
mano che il mio spirito si offuscava e una specie di abbrutimento
lo invadeva, i miei muscoli si rinvigorivano e il lavoro materiale
divenne meno faticoso.
Intanto i miei capelli e la barba crescevano disordinati e lunghi.
Dissi all’albergatore che dovevo uscire per recarmi dal
parrucchiere,.
“State benissimo così, volete forse portare a spasso la ragazza” Si
permetteva di fare oltre che il despota, anche llo spiritoso, quel
bestione!
Chiesi al barista se avesse da prestarmi un rasoio. Me ne prestò uno con molta malagrazia.
Riuscii a radermi, tagliuzzandomi in diverse parti del viso.
“Avrei fatto meglio la lasciarmi la barba” mi dissi guardandomi allo specchio. Il viso nudo,
con le sue profonde rughe e le guance incavate metteva troppo in evidenza il mio dramma
interno. Ero smunto e invecchiato.
La porta d’uscita era sempre vigilata da quel tal bruto. L’occasione propizia alla fuga non si
presentava mai e questo deprecabile stato di cose si protraeva ormai da circa due mesi. C’era
da impazzire dalla disperazione. Mi sentivo estremamente debole, avevo dei frequenti
capogiri.
Gli alimenti che mi passava la moglie dell’albergatore erano troppo scarsi ed io ero denutrito.
La signora Ferrando, di una sordida avarizia, limitava le mie porzioni e vendeva tutte le
rimanenze dei pasti dei suoi clienti a un allevatore di suini. Lesinava anche la nutrizione alle
galline e al cane che trascinava le sue ossa, quasi scoperte, nel cortile e che fu il solo amico in
quella dolorosa circostanza, Ci guardavamo profondamente e lungamente negli occhi , e come
ci si capiva!
Con molta circospezione, ogni tanto sottraevo delle uova dal pollaio, e, grazie a questi miei
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obbligati furti, riuscivo a resistere alle fatiche giornaliere e alle frequenti notti insonni. Difatti
dormivo poco e male. Il tetto del solaio, coperto di tegole, trasmetteva nella notte tutto il calore
del sole assorbito di giorno e centinaia di zanzare accrescevano le mie sofferenze.
Una sera, al momento di coricarmi sentii che sul solaio c‘era qualcuno. Un rumore di passi
pesanti rimbombava sul pavimento. Mi si avvicinò un robusto giovanotto, mal vestito, con
scarponi chiodati. Dalle poche parole che ci scambiammo, seppi che era un muratore
bergamasco fuggito clandestinamente dall’Italia. Non ne volli sapere di più, gli diedi la buona
notte e mi coricai. Costui durante le ore notturne parlava forte da solo. Probabilmente sognava.
La notte seguente un urlo terribile mi svegliò di soprassalto. Era il bergamasco, forse sotto
l’incubo di tormentosi rimorsi, che gridava: “No, non volevo ucciderlo! Perdonami, Maria
!Perdonami!. Poi tornò un tragico silenzio.
Che pena, che spavento, che tristezza mi attanagliava il cuore !
Mi sentivo troppo solo e da Cornelia, da tempo, non avevo notizie.
Il mattino dopo mi giunse dal Messico una lunga lettera affettuosa e desolata ad un tempo.
Non intendeva che la nostra lontananza si protraesse oltre e mi annunciava che si sarebbe
presto messa in viaggio per raggiungermi.
Una domenica, mentre ero intento a pulire il pavimento della sala, un uomo, anziano,
decorosamente vestito, mi rivolse la parola e mi resi subito conto che era mosso da un senso d
pietà. Mi chiese qual era il mio mestiere e come mai mi ero adattato a fare un lavoro tanto
umile.
(Cancellato: gli dissi che ero un pittore e gli feci vedere le nature morte del soffitto, che egli
apprezzò per quel che non meritavano.) Gli descrissi allora la mia odissea a cominciare dalla
mia partenza da Messico e m’avvidi che era rimasto molto impressionato. Quest’uomo era una
falegname e si chiamava Angelo. Veniva a Fort Lee da varie settimane per essere pagato da
Ferrando per una completa fornitura di mobili per la sala da pranzo.
Mi venne vicino e mi disse all’orecchio: “Non rimanete qui, non è un posto per voi.”.
“Non mi lasciano uscire” dissi.
Allora mi spiegò che dietro lo steccato in fondo al cortile, oltrepassando un prato, avrei trovato
la strada che scende a Jersey City e che ogni mezz’ora vi transitava l’autobus; e che la fermata
era lì a pochi passi. Mi informò che l’autobus iniziava il servizio per gli operai al mattino
molto presto.
“Domani mattina alle 6 io vi aspetterò alla prima fermata di Jersey City” e scrisse su di un
foglietto che mi consegnò la denominazione di detta fermata.
“Non rimanete qui. Fuggite! - replicò - Sarò ad attendervi!
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E con queste parole ci salutammo. Rimasi meravigliato, commosso e perplesso perché le
sofferenze che mi avevano crudelmente inflitte mi avevano reso circospetto e diffidente. Ci
sarà questo Signor Angelo? Perché tanto interesse per me? Vedevo intrighi e insidie dovunque.
Però riflettevo che peggio di qui non sarei stato da nessuna parte, Avrei quindi tentato.
Il mattino del giorno dopo prima delle 5 ero in cortile. A quell’ora tutti dormivano. Scrutai
dappertutto guardingo e silenzioso, col timore di essere sorpreso. Scalare lo steccato non era
per me un’impresa facile. Era alto non meno di tre metri e mezzo, meno male che non avevo
bagagli. Appoggiai una scala a pioli contro lo steccato e con sforzi inauditi, in rapporto al mio
stato di debolezza, riuscii a sollevare il mio corpo alla sommità delle punte aguzze dei paletti e
mi lasciai scivolare dall’altra parte sino a cadere per terra con un bel tonfo e con qualche
graffiatura alle mani.
Attraversai di corsa il prato, compreso tra il cortile e la strada e mi avvicinai alla fermata
dell’autobus. La fuga era riuscita! Ero salvo!
Presi posto sull’autobus e dopo un breve tragitto scesi alla fermata indicatami.
Angelo, appoggiato al cofano della sua piccola utilitaria, era là che mi aspettava. In quel
momento non era più per me Angelo, il falegname; ma un Arcangelo inviatomi dal cielo!
Mi invitò a salire sull’auto e raggiungemmo la parte bassa di Jersey City, attraversata da
numerosi binari della ferrovia.
L’abitazione di Angelo era una modesta villetta che sorgeva in un piccolo appezzamento di
terreno in parte coltivato a orto. Al pianterreno aveva il suo garage e laboratorio di
falegnameria. Al piano rialzato, l’abitazione, piccola, modesta ma pulita e comoda.
Mi presentò a sua moglie e a suo figlio, di ventidue anni, studente universitario, che mi
accolsero affabilmente. Ero molto confuso. Sapevo di essere male in arnese, sapevo che la
biancheria che portavo era sudicia e il mio unico vestito stropicciato e unto.
Auspicavo che si presentasse presto il momento di potermi tuffare in una vasca da bagno. Ai
capelli e alla barba avrei pensato dopo.
Un caso di telepatia?
Non avevo terminato di formulare quel pensiero che già la moglie di Angelo mi diceva:
“Guardi, il bagno è lì” - e mi diede un asciugamano, un accappatoio e un pigiama. - La
biancheria e l’abito li farò lavare dalla lavanderia e frattanto, nell’attesa dei suoi indumenti,
indossi questi, sono di mio figlio” e mi consegnò un camiciotto e un paio di pantaloni.
Quella semplice spontanea accoglienza mi commuoveva, ma mi sentivo anche mortificato: ero
ridotto come un pezzente.
Incolpavo me stesso: sono stato troppo impulsivo, troppo credulone, troppo fiducioso. Con un
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po’ più di accortezza e se avessi vagliato con calma le chiacchiere dell’esuberante genovese
della trattoria, questa dolorosa disavventura l’avrei potuta evitare.
Scrissi subito a Cornelia comunicandole il nuovo indirizzo. Nella stessa mattinata Angelo mi
sistemò in una piccola camera mobiliata, poco lontano dalla sua casa e nel pomeriggio mi
trovò anche il lavoro in un grande caffè-bar. Nel salone dei biliardi, in una ventina di losanghe
del soffitto, dovevo dipingere delle statuine a tutto rilievo, bianche su fondo azzurro. Non mi
preoccupai se il lavoro era o non era artistico, ma fui lieto di poterlo fare. La paga fu fissata in
5 dollari al giorno. Ma anche qui il diavolo doveva metterci una buona parte della sua coda!
Al quarto giorno di lavoro due signori dei Sindacati mi chiesero la tessera – che io non avevo.
“Senza tessera non si lavora “ dissero. Dovetti smettere. L’impresa mi consegnò 20 dollari.
Mi affrettai ad informare Angelo il quale avrebbe provveduto alla mia iscrizione ai Sindacati.
Mi accompagnò intanto da un suo vicino che aveva una modesta palazzina in via di
ultimazione. Mancavano le filettature, ad imitazione di cornici nei soffitti. Ero dispostissimo a
fare anche questo lavoro e mi conformai alla paga più modesta di 3 dollari al giorno.
Era trascorsa appena una settimana dalla mia evasione da Fort Lee e quel triste periodo mi
sembrava già lontano come avvolto in una nebbia, come se avessi fatto uno strano crudele
sogno.
Chiaro e vivo era, invece, in me lo sguardo profondo e triste, invocante una carezza, di quel
povero cane malnutrito, colle ossa quasi scoperte e relegato in un angolo del cortile.
Al mondo vi sono molte emerite canaglie, bisogna purtroppo riconoscerlo, ma vi sono anche, e
in maggior numero, delle anime generose, con spiccati sentimenti umani, basati sulla bontà e
sulla comprensione. Di queste ultime, intelligenti e sensibili, nel corso della mia lunga vita ne
ho incontrate molte.
E’ forse questa constatazione che alimenta il mio ottimismo.
Domenica a mezzogiorno, Angelo, di ritorno da Fort Lee, ove si era recato per la consueta
visita al suo debitore: mi diede la grande, sensazionale notizia: “E’ arrivata vostra moglie. Vi
attende a Coney-Island. L’emozione e la gioia che provai sono indicibili. Piangevo e ridevo
allo stesso tempo.
Ciò che ora posso raccontarvi, fu così strano che sembra inverosimile, direi quasi miracoloso e
non potreste crederlo se non vi assicurassi che quello che sto per dirvi è assolutamente vero
A volte basta un attimo, una parola, un felice breve incontro, per evitare una catastrofe, una
brusca svolta nella nostra vita per allontanare drammatiche situazioni con conseguenze
irreparabili.
Se Angelo, per qualsiasi ragione, non avesse potuto recarsi, quella domenica a Fort Lee, tutto
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sarebbe crollato nella mia vita. Cornelia sarebbe stata respinta al punto di partenza, cioè al
Messico, che in quei giorni era teatro di sanguinosi scontri armati tra i seguaci di Madero e le
forze del governo Diaz, inoltre, non avendo più l’alloggio, si sarebbe trovata in seri imbarazzi,
anche di carattere economico.
Ma bastò un attimo, un felice attimo, perché queste tristi congetture non avessero più ragione
di essere.
Un rappresentante della Beneficenza Spagnola, istituita a favore dei viaggiatori trattenuti in
aspettativa a Coney Island, si trovava a Fort Lee per chiedere il mio nuovo indirizzo; proprio
nello stesso momento che Angelo era là e questo fu miracoloso.
Angelo, edotto dello scopo della visita dello spagnolo, lo attese fuori dell’albergo e gli disse di
tranquillizzare mia moglie, che l’indomani, lunedì, si sarebbe recato a Coney Island per
prelevarla.
Una disposizione di legge dello Stato di New York prevede che, in mancanza dei familiari,
all’arrivo dei viaggiatori provenienti dall’estero, non sia concesso loro di entrare in città, non
solo, ma siano rimandati dopo 5 giorni di attesa da Coney Island, al paese di origine
[provenienza]. Cornelia si trovava appunto in questo caso.
(Cancellato: Al momento che giunse a New York io non mi presentai a bordo del piroscafo a
riceverla. La lettera che mi indirizzò a Fort Lee, in cui fissava il giorno del suo arrivo, non
l’ho avuta. Forse quei “signori” dell’albergo, com’era già capitato altre volte, non si erano
fatti premura di consegnarmela o forse non ero più là. Ecco perché Cornelia fu trasferita a
Coney Island ove da quattro giorni mi attendeva in preda a tormentose ansie e vive
preoccupazioni).
Lunedì mattina presto ero a Coney Island. L’incontro con Cornelia,come potete immaginare, fu
patetico. In un lungo abbraccio tra singhiozzi e lacrime, c’erano tutte le nostre pene e la nostra
gioia. Finalmente eravamo insieme! Quante cose avevamo da dirci!
La cameretta dove dormivo era sottotetto ed eccessivamente calda e troppo piccola con un
lettino ad una piazza. Bisognava trovare un alloggetto più confortevole e lo trovammo, anzi lo
trovò Angelo in Thorne Street non lontano da casa sua. I proprietari, i coniugi Smith, avevano
a pianterreno un negozio di commestibili e abitavano al primo piano, a noi fu assegnato il 2°
piano. Era vuoto.
In quel momento la nostra situazione era questa: soldi ne avevamo ben pochi, ma ci bastavano
per pagare un trimestre di affitto e affrontare i primi giorni.
Il lavoro non mi sarebbe mancato, sempre che mi fossi adattato a quel che capitava; dovevo
rinunciare a priori alla speranza di eseguire lavori artistici. (Anche questa rinuncia contribuiva
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ad accentuare le mie sofferenze)
Ciò ce maggiormente ci preoccupava e ci addolorava, era la mia poca salute. L’accumularsi di
tante emozioni, così crudeli, aveva fortemente scosso il mio sistema nervoso, con conseguente
esaurimento, Ero denutrito e mi sentivo di una debolezza estenuante.
Il problema dell’arredamento dell’appartamentino che ci sembrava insolubile, fu invece risolto
facilmente, grazie all’intervento di Angelo (vero, autentico angelo!) che ci presentò ad un
grande emporio di Jersey City e a seguito di una sua fideiussione verbale, ci fu inviato a casa,
tutto il necessario per rendere il nostro appartamentino ben fornito e accogliente.
Il vero nome del nostro padrone di casa non era Smith, bensì Sanguineti; proveniva dalla
campagna chiavarese. Avrà avuto le sue personalissime ragioni per adottare il cognome Smith
– e non toccava a noi di voler sapere il perché.
Non era capace di fare una O con la canna. Paragonando la sua ignoranza con la mia, mi
sentivo un “dottorone”.
Teneva però la contabilità dei suoi affari in modo originale, tutto suo. Il portone della bottega
era crivellato da piccolissime incisioni fatte colla punta di un temperino, piccole croci, righette
orizzontali o inclinate o verticali, altre a curva, puntini circoletti etc. etc. Ognuno di quei segni
aveva per lui un significato preciso. Il tale segno, indicava un pagamento da farsi, quell’altro la
data in cui doveva effettuarsi e così via. Tutte le operazioni, le scritturazioni, tutta la catena dei
libri contabili, col metodo “Smith”, diventavano inutili.
Sua moglie, la Signora Carolina, che preferiva bere l’Wiski nei bicchieroni, assicurava che,
con quel sistema, la ditta funzionava perfettamente.
I coniugi Smith avevano un figlio diciottenne che non studiava più, lavorava poco, ragazzo
alto e robusto. Erano tutti e tre buone persone e ci trattarono con rispetto e deferenza.
Il tempo correva, l’inverno era alle porte. Io passavo da un lavoro all’altro, spinto dal dovere,
ma di mala voglia. Faceva freddo.
Tra le mie forzate occupazioni, alcune dovevo svolgerle all’esterno e i raffreddori si
succedevano ai raffreddori; la tosse aumentava e tutto andava per il peggio a causa del mio
esaurimento. Non sopportavo più il minimo sforzo. Passai le giornate coricato a letto o sdraiato
su di una poltrona e i miei malanni sfociarono in una forma più acuta. Cornelia ne fu molto
impressionata e vagliando la realtà della situazione in cui ci trovavamo, scrisse a mio padre
una lunga commovente lettera, mettendolo al corrente dello stato della mia salute.
(Cancellato: Io capivo che la nostra situazione sarebbe stata insostenibile, senza il mio
lavoro. Intuivo le sofferenze di Cornelia, che m’avrebbe dato l’animo per sollevarmi e queste
considerazioni aggravavano il mio stato.)
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Venne un dottore che consigliò il mio ritorno in patria.
Le ricorrenze natalizie si approssimavano e il freddo era intenso; i candelotti di ghiaccio, con
frange di ghiaccioli, incrostate nei vetri delle doppie finestre, sembravano stalattiti. Proprio il
22 dicembre, compleanno del nostro matrimonio, ricevemmo un cablogramma:
“Recatevi German Lloyd. Viaggio pagato. Papà”
Era la risposta alla lettera di Cornelia.
Bastarono quelle sei parole, per darmi un grande sollievo e un po’ di speranza. Abbracciai
Cornelia e suggellammo così la nostra gioia.
Nei giorni che seguirono mi sentii meglio, avevo la sensazione di riacquistare un po’ di forza.
Venne Natale e attenendoci alle consuetudini locali, quel giorno lasciammo la porta d’ingresso
spalancata a chiunque si presentasse.
Il primo a farci gli auguri fu il vicino di ballatoio, un sarto napoletano che mi offerse un
cocktail di sua composizione e con quello brindammo. Venne anche George per informarci
che sarebbe tornato nel pomeriggio con la fisarmonica.
Nel pomeriggio, difatti, tornò George, il sarto e un pecoraio irlandese con alti stivaloni e un
pesante mantello sulle spalle. Erano già tutti e tre abbastanza alterati dall’alcol.
Svuotarono le bottiglie che avevamo disposte sul tavolo, per non contrastare le usanze, e non
tardarono ad essere completamente ubriachi.
Io non ero nel loro stato, ma quasi. Data la mia debolezza e non essendo dedito a simili
libagioni, bastava ben poco a rendermi un po’ più che brillo.
George si sedette e cominciò a suonare la fisarmonica e, bisogna dire, che la suonava bene
(Cancellato: e nelle condizioni alterate in cui si trovava, non c’era da aspettarselo). Il sarto
e il pecoraio, cantavano, stonavano, ridevano e salterellavano forse credendo di ballare;
(Cancellato: a momenti uno o l’altro, sembrava che stessero per crollare a terra, poi si
rimettevano in equilibrio.) L’irlandese, che sprizzava allegria da tutti i pori ci faceva lunghi
discorsi con voce alterata. Noi non capivamo la sua lingua (Cancellato: ma per lasciargli
capire che lo seguivamo con interesse) ridevamo consenzienti e lui dimostrava di essere
pienamente soddisfatto.
(Cancellato: Il sarto continuava a sgambettare disordinatamente, diceva che stava ballando
la tarantella, ma evidentemente si sbagliava.)
Ad un tratto la musica si affievolì, riprendeva, cessava, finché finì tutto. George era là, sulla
sedia, teneva ancora tra le mani la fisarmonica, ma la testa gli penzolava da un lato e poi a
poco a poco si piegò su sé stesso, scivolò sul pavimento e rimase profondamente
addormentato.
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Si sarebbe detto che il sarto, invasato, non si accorgeva che la musica taceva perché
continuava, molto compreso, i suoi ritmi di falsa tarantella.
Il pecoraio, sempre beato e sorridente proseguiva il suo lungo, interminabile discorso,
accompagnandolo con amichevoli manate sulle mie spalle (Cancellato: e forse per supplire
alla mancanza della musica alzava a dismisura il tono rauco della sua voce.)
Arrivò la madre di George, anch’essa ubriaca e chiamò il figlio per la cena
(Cancellato: Nella sala echeggiò il grido; “George! George! Vieni giù,la cena è pronta. Era
sua madre che lo chiamava, Cornelia si affacciò sul ballatoio e disse : “Signora Carolina, suo
figlio dorme”. Allora venne su; anch’essa era ubriaca.”
Appena vide George, sdraiato a terra, cominciò ad emettere grida disperate: “George è morto!
George è morto!”
Era talmente abbandonato nel sonno che non sentì i dolorosi richiami di sua madre, che
continuava a ripetere :” George è morto!”
Richiamato e impressionato dalle grida della donna, venne suo marito e coll’aiuto
dell’irlandese, George fu trasportato in casa sua.
L’unica persona che seppe conservare intatta la sua dignità in quel caos, fu Cornelia, la saggia
Cornelia che assistette a quella scena, come semplice spettatrice, partecipando a quella mal
combinata festa solo con bonaria tolleranza.
Il poco liquore che, contro le mie abitudini avevo bevuto, agiva in me e se non ero proprio
ubriaco, ben poco si mancava,
Le urla della Signora Carolina m’impressionarono: ”Povero, caro George - pensavo- è morto”
e mi sporsi alla ringhiera del ballatoio, per vederlo un’ultima volta, mentre lo portavamo giù.
Le mie gambe troppo deboli, non mi sostennero, caddi e rotolai giù per la scala a chiocciola .
Sentii attorno a me molte voci concitate. Mi accorsi di quanto era accaduto, quando mi trovai
deposto sul mio letto.
Smith mi palpava , mi tirava ora una gamba, ora un braccio.
“Faccio male? diceva. Mi picchiettava con le dita distese lo sterno e le costole: “Faccio male?
Ripeteva. “No”.
Ma quando prese tra le mani il mio braccio sinistro: “Sì, mi fa male ! “ gridai.
“Una lussazione al polso” – disse Smith.
Cornelia che temeva il peggio, si rasserenò e mi consolava.”Poco male! E’ niente, non
t’impressionare.”
Smith continuava a svolgere diligentemente le sue indagini e ripreso il mio braccio tra le
mani, lo stiracchiò, lo massaggiò con una certa perizia. Mi faceva però molto male.
122
“Tutto è fatto – disse – lo tenga al caldo “. Mi fecero una fasciatura.
La Signora Carolina, non più allarmata per George, diceva:” Mio marito se ne intende; ha fatto
l’infermiere”.
In pochi giorni tutto era passato e non mi rimaneva che un leggero fastidio alla mano.
Non so spiegarmi il perché, ma è un fatto che, dopo la bella notizia di mio padre, l’inconsueta
bevuta d’alcol e il capitombolo dalle scale, quasi tutti i miei malanni sparirono.
Il mio morale era alto, mi ritornò l’appetito e la voglia di scherzare, con grande gioia di
Cornelia. Quanti spaventi, quante alternative tra bene e male, per un motivo o per un altro le
ho fatto passare!
Non l’ho, però, mai vista accasciata o scoraggiata! Era sempre battagliera, pronta ad affrontare
energicamente qualsiasi evenienza, per terribile che fosse. Non si arrendeva mai!
Alcuni giorni dopo decidemmo di recarci alla Compagnia di Navigazione “Germamn Lloyd” a
New York per informarci sulla data della partenza del piroscafo e sulle eventuali formalità da
seguire.
La tosse mi era sparita e mi sentivo abbastanza bene. Ma faceva un freddo intenso e
affrontammo con circospezione la salita che da Thjorne Street conduce alla grande strada che
sfocia al ponte di Brooklin. Una spessa crosta di ghiaccio copriva il suolo e sul ghiaccio era
cosparsa cenere e sabbia; fiancheggiavano la salita grosse corde tese per aggrapparsi, onde
evitare pericolosi scivoloni
Soffiava un vento terribile e il freddo era polare. Non ce la facemmo a proseguire il cammino e
tornammo a casa.
(Cancellato: Non c’è stato più bisogno di recarci alla compagnia per le informazioni
desiderate. Il nostro vicino, il sarto, dovette casualmente recarsi a New York per ragioni di
lavoro e ci riferì che il piroscafo “Berlino” sarebbe partito alla volta di Genova il 5 gennaio
nel pomeriggio.
Il mattino di quel giorno ci congedammo da quella semplice, buona gente e quando
salutammo Angelo, nella stretta di mano che gli diedi, c’era una buona parte del mio cuore e
tutta la mia riconoscenza.
Eravamo dunque in procinto di iniziare un altro viaggio. Mentalmente feci un bilancio relativo
alla nostra permanenza di cinque anni nell’America centrale e in quella del Nord.
Dal punto di vista materiale, economico e contabile quel periodo lo chiudevamo
indiscutibilmente con una situazione fallimentare.
Difatti io rimpatriavo con poca salute e a tasche vuote. Bazzicando poi sempre tra compatrioti
nel Jersey, non riuscii nemmeno a imparare la lingua inglese.
123
Se, invece, vogliamo tener conto dei valori morali e spirituali che avevamo acquisiti, allora
direi che potevano rappresentare un bilancio con un buon attivo per la formazione del nostro
carattere, alla quale concorsero indubbiamente le delusioni, le dolorose avventure, le
situazioni umilianti, i lunghi contatti con genti diverse. Tutto questo valse a formare una
potente difesa a protezione del nostro essere. Le svariate esperienze vissute, ci fecero
conoscere il grande valore dello spirito e la schiacciante superiorità di questo sulla materia.
Il piroscafo “Berlino” salpò da New York il 5 gennaio nel pomeriggio, con mare molto
agitato. Ben pochi erano i passeggeri che si vedevano sulla tolda e nelle sale, Quasi tutti
soffrivano il mal di mare, Cornelia compresa, Io, invece, sebbene ancor debole ero tra i pochi
che ne erano immuni.
Non ho proprio nulla da dire su questo viaggio. “Tempo sempre brutto e basta!”.
124
DALLE IMMAGINI SU TELA
ALLE IMMAGINI SU CELLULOSA
Approdammo a Genova il mattino presto.
La vista della “Lanterna” e del Colle di Carignano suscitò in noi commozione e lacrime. Sulla
banchina d’attracco c’erano ad attenderci il caro Carlino (mio cognato), i miei fratelli Alfredo
e Tullio ormai ventiduenne. Alfredo già da alcuni anni era tornato dalla “Cachuela Esperanza”
sul rio Beni, per ragioni di salute. Presentai Cornelia ai miei fratelli e tutti insieme, eccetto
Carlino [nella versione dattiloscritta è citato il nome “Ernesto”] ci recammo in casa da
Papà. Che ci accolse con visibile commozione. Anche la sua quarta moglie Ermelinda ebbe per
125
noi gentili parole. In casa v’erano delle novità. Un altro fratellino mi attendeva (Cancellato:
figlio dell’ultimo matrimonio di mio padre) e l’altra novità era il fidanzamento di mia sorella
Ofelia col dottor Belgrano.
Durante il pranzo descrissi succintamente a mio padre le peripezie attraversate in Messico e
nell’America del Nord, omettendo quelle che si riferivano al tempo che trascorsi a Forth Lee.
Non ritenni opportuno intrattenerlo su di un argomento tanto doloroso e io stesso preferisco
non rievocarlo.
Finito il pranzo, mi chiamò in disparte, si sedette alla sua scrivania e mi disse:
“Ho fissato per voi due un appartamentino ammobiliato in Via Casaregis. Potrete abitarlo a
cominciare da questa sera. Cornelia, nella lettera che mi scrisse da Jersey, mi espose la vostra
critica situazione economica…”
“Difatti la mia malattia e poi…” interloquii.
“Sta zitto,- proseguì - e lasciami finire. Io ti presterò, intendi bene, ti presterò ventimila lire,
affinché tu possa provvedere alle necessità della tua vita indipendente. Spero che Cornelia,
che è assennata ed ha il buon senso che a te è sempre mancato, saprà consigliarti per ben
impiegare questo denaro. Ma ti ripeto: questo è un prestito, non è un regalo. Non fisso una
data per la restituzione, se non potrai presto, sarà per più tardi, ma devi restituirmi il mio
denaro”.
Lo ringraziai e, naturalmente gli assicurai la restituzione appena possibile.
L’appartamentino al piano rialzato in un caseggiato nuovo di Via Casaregis, piacque a Cornelia
e anche a me. I mobili erano antiquati, ma regnava dovunque la pulizia. C’era lo sfogo di un
bel giardinetto fiorito.
Nei giorni che seguirono Cornelia dedicò le sue cure per una comoda sistemazione, apportando
delle varianti nella disposizione dei mobili e sgombrando una saletta che trasformò in uno
studio da pittore.
Rividi alcuni miei amici. De Albertis lavorava sempre nello stesso studio a S. Francesco
d’Albaro. Anche il mio maestro De Servi era là in Vico Chiuso Curletto e lo studio attiguo al
suo era frequentato da numerosi allievi.
Con la salute e la tranquillità riacquistai la piena lucidità del mio spirito trasportato dalla
fantasia. Vagavo nelle foreste paraensi e nelle immense pianure messicane, ove vedevo, come
se li avessi davanti agli occhi, quei cavalli selvaggi in corsa, colle criniere al vento. Dimenticai
le penose disavventure sofferte e mi riproponevo di recuperare il tempo perduto in altre
occupazioni a danno della mia pittura e non passò molto tempo che già avevo nello studio
alcuni quadri finiti e altri in lavorazione.
126
L’amministratrice del nostro piccolo capitale era Cornelia. Era lei che provvedeva a tutte le
esigenze della famiglia e che decideva sul da farsi, cercando di non intaccare troppo il
gruzzolo di cui disponevamo. Quel che significava trovarsi senza soldi, lo sapevamo, perciò
Cornelia spendeva con molto giudizio. Io, invece, forse per la facile abbondante disponibilità
che ebbi nella mia adolescenza a Belem, stentavo ad adattarmi alla rinuncia di cose inutili e
superflue. Facevo però tutto il possibile per assecondare Cornelia, ma non sempre vi riuscivo.
Non ero certo senza difetti. Ho sempre fumato come un turco: sigarette, sigari (e ora la pipa) e
non mantenni mai le promesse di moderarmi (Cancellato: Impestavo l’aria di fumo, senza
riguardo per quelli che avevo e che ho intorno.) Non ho mai capito come si possa essere
ordinati, e non ho mai saputo moderare certi miei impulsi che a volte rasentavano
l’incoscienza. La mia distrazione era (ed è) quasi proverbiale. Credulone, indeciso, titubante,
sempre fiducioso anche quando non era proprio il caso di esserlo. Per questo spesso mi sono
trovato impigliato in situazioni indesiderate, dalle quali non sapevo come uscire. E oltre a
quelli che ho enumerato, chissà quanti altri difetti dovrei aggiungere e che non so di avere. .
Capirete, quindi, quale difficile compito si sia assunta Cornelia (per mantenermi sulla giusta
via). Tanto più che dovendo trattare con un tipo a volte docile e mansueto come un agnellino,
ma spesso anche ribelle, indomito, violento, selvaggio.
Ma non voglio che vi formiate di me una errata opinione. Non sono soltanto imbottito di
difetti; ho anche qualche qualità. Ho amato ed amo il lavoro e al contrario dell’amico De Negri
che avrebbe cancellato la parola “lavoro” da tutti i dizionari, attribuendole un senso deleterio,
per me, invece ha un valore altissimo e vorrei che fosse apprezzato da tutta l’umanità. E’ ben
raro che qualcuno mi abbia visto o mi veda in ozio. Dipingevo, scrivevo, leggevo, mi dedicavo
allo zoo, facevo dei commerci, del giardinaggio, questa mia qualità alla quale tengo molto è
valida ancor oggi, ché a volte, oltre le mie svariate occupazioni non esito a prendere scopa e
strofinacci per pulire a fondo il mio studio (questo l’ho imparato a Fort Lee). Sono anche
volonteroso, tenace, quasi testardo nel perseguire costantemente il mio ideale che è la pittura e
ho lottato accanitamente contro gli ostacoli che ad esso si opponevano. Sebbene un po’ tardi
sono riuscito nel mio intento, come vedrete in seguito.
Ho sempre sentito il culto della famiglia. Ero, come si dice un “casalingo” e mi spiaceva star
lontano da casa, Sin da fanciullo cercavo un vero, profondo duraturo affetto, quell’affetto che
Cornelia ha riversato totalmente su di me, senza riserve.
Del mio spirito di iniziativa ve ne ho già dato delle prove: ricordate, per citare un esempio,
l’acquisto di quella grossa partita di castagne paraensi? E vero che, a conti fatti, l’esito di
quell’audace impresa è stato disastroso; ciò non toglie che l’iniziativa l’ho avuta. E quell’altra
127
d’iniziare la formazione di un piccolo autentico zoo,non è stata bella?
Mi è sempre piaciuto affrontare il rischio, tentare, lottare coll’incertezza, anche quando ero
coscio dei pericoli che mi si paravano davanti. “La peggior lotta è quella che non si fa” dice un
proverbio spagnolo. Dalle lotte non si esce sempre vincitori, ma preferivo perdere la partita
piuttosto che far parte del grande numero di quelli che mi piace chiamare “piagnoni,”
(Cancellato: che hanno sempre bisogno della protezione altrui che non sanno o meglio non
vogliono far nulla a loro rischio o pericolo, che si lasciano spingere di qua o di là, come una
pecora nel branco, senza la fatica di fare un piccolo ragionamento col proprio cervello,
evitando, per quanto possibile, ogni sforzo personale, addebitando poi agli altri, e mai a loro
stessi, le difficoltà e le pene che li tormentano. A ma pare che a costoro manchi la virilità.
Non ho mai desiderato la protezione altrui. Ho sempre cercato di ragionare col mio cervello,
addebitandomi, se del caso tutte le responsabilità. Mi accorgo che l’elenco delle mie qualità
sta superando quello dei miei difetti, e siccome mi dispiacerebbe essere giudicato immodesto
e presuntuoso, cambio argomento.
********
Esposi certi miei dipinti dalla Signora Salvetti al Caffè della Borsa e ne vendetti
qualcuno. Allestii una mostra alla ”Promotrice di Belle arti” e non ho però venduto nulla.
“E’ difficile provvedere coll’arte alle necessità della vita” mi aveva detto con ragione mio
padre. Dovevo ammetterlo.
Era nostro vicino di casa il noto capocomico Romolo Solari, della compagnia del teatro
comico dialettale piemontese. Non lavorava più, ma era lucido, vivo e pieno di giovanile
entusiasmo. Aveva a carico la moglie, la Signora Rosetta anch’essa brava, intelligente artista,
la cognata, il macchinista della compagnia e sua moglie. Cinque persone che dovevano
sbarcare il lunario. E vecchiaia e miseria male si conciliavano.
(Cancellato: Allora non c’era l’INPS; i vecchi, se ne avevano, tanto meglio per loro, e quelli
che no, dovevano pensare da soli all’animo loro, dovevano “arrangiarsi”. Quelle erano le
norme vigenti si quell’epoca).
Il loro giardino confinava col nostro, diviso da una ringhiera di ferro. Era in quel giardino che
c’intrattenevamo spesso a fare lunghe chiacchierate. Si parlava del più e del meno.
Solari ci raccontava la sua interessante carriera artistica che aveva purtroppo concluso in
miseria, dopo aver distribuito tanta gioia a migliaia di spettatori.
Noi gli descrivevamo i nostri viaggi e ci ascoltava con palese interesse.
Nacque tra noi una viva simpatia e i nostri colloqui divenivano sempre più frequenti.
128
Da certe frasi che talora sfuggivano al Solari e dalle confidenze che la Signora Rosetta faceva
a mia moglie, capimmo che le loro condizioni economiche erano precarie. Erano però molto
dignitosi e a noi, che ormai sapevamo in quale triste situazione si trovavano, facevano tanta
pena.
Nell’anno antecedente al nostro incontro, Solari fu in procinto di associarsi con un giovane
avvocato, neolaureato. Lo scopo della società sarebbe stato di proiettare dei film in quei centri
fuori città, ove ancora non esisteva il cinema. Solari, sua moglie e sua cognata avrebbero
perfezionato e ampliato lo spettacolo, coll’aiuto di una farsa, di un monologo o qualcosa di
simile. Il presunto socio aveva già raccolto un buon quantitativo di pellicole e Solari da parte
sua, e chissà con quale sacrificio, aveva acquistato un motore a scoppio e una dinamo per
produrre energia elettrica ove non ci fosse. La famiglia del giovane avvocato e quella della sua
fidanzata erano contrarie a quel progetto e fecero il possibile perché non fosse attuato. La sua
fidanzata desiderava che esercitasse unicamente la sua professione e la società non fu
costituita. Le pellicole rimasero al Solari a risarcimento delle spese da lui sostenute e a
compenso del tempo inutilmente perduto.
Tutte le speranze di Solari erano legate a quel motore e alle pellicole che possedeva.
”Se riuscissi a trovare qualcuno che intervenisse con un piccolo capitale io mi salverei –
diceva – e senza alcun dubbio il denaro sarebbe ben impiegato”. Lo diceva con piena
convinzione.
Anche noi ritenevamo che se l’impresa fosse effettuata e ben condotta, avrebbe certamente
avuto esito positivo.
In casa a tu per tu, ne riparlammo. Cornelia trovò allettante l’invito a cooperare in una simile
impresa e vi avrebbe aderito volentieri “perché -diceva – anche ammesso che i guadagni
fossero modesti, il nostro gruzzolo resterebbe intatto”.
E io pensavo che avrei potuto dipingere in tutta tranquillità, senza preoccupazioni di carattere
economico.
“Prima però di dare la nostra esplicita adesione – osservò assennatamente Cornelia, - è
necessario avere da Solari spiegazioni precise ed esaurienti sull’inizio e lo svolgimento di
quella nuova attività e sapere, grosso modo, l’importo delle spese occorrenti”. A seguito di
ciò, fatte le necessarie nostre riflessioni gli avremmo dato un risposta.
(Cancellato: “Vedi – le dissi – la contabilità che ho imparato a Belem, mi sarà in questo
caso, molto utile. Terrò io i libri sempre aggiornati”.
“Scusa tanto, ma non mi fido della tua contabilità” intervenne Cornelia. Sei troppo
distratto”. )
129
Le nozioni di contabilità apprese a Belem potevano essermi molto utili in quell’occasione, ma
la saggia Cornelia pareva non avere eccessiva fiducia.
Solari ci espose dettagliatamente ogni cosa.
“Io ho già pensato a quel che bisogna fare per la buona riuscita di questa combinazione. Ad
Albissola Marina, possiamo avere la concessione gratuita per due mesi del teatro “Ernesto
Rossi”. Pertanto le spese iniziali si limiterebbero al consumo di poca benzina, per azionare il
motore, un po’ di réclame consistente in pochi manifesti murali, alla stampa dei blocchetti
numerati per i biglietti d’ingresso e alle spese di alloggio e vitto. Spese di manodopera non ve
ne sarebbero state. Della distribuzione dei biglietti e della cassa se ne sarebbe occupata sua
cognata Rosetta. Ognuno di noi avrebbe avuto una determinata incombenza”.(Cancellato: il
mio macchinista sa maneggiare il proiettore e s’intende di elettricità.) E giacché siamo in
argomento, io propongo la divisione degli utili netti, in due parti uguali: una per voi e una per
noi.
Io intervenni con uno dei miei soliti impulsi.
No – dissi – la divisione degli utili netti in due parti non l’approvo. Voi darete la prestazione
d’opera, l’apporto delle complete attrezzature, che anch’esso costituisce un capitale. Pertanto
la divisione degli utili, deve essere fatta in tre parti: due per voi e una per noi.
Il capo comico Solari si alzò e venne ad abbracciarmi con un gesto molto teatrale. Purtroppo
recitava anche nella realtà.
La società fu costituita alla buona, senza atti notarili, eravamo soci di fatto, come dicono i
legali, e a sanzionare l’avvenimento brindammo con una bicchierata d’Asti spumante.
In previsione che si rendesse difficile, come difatti lo era trovare in altri centri locali liberi e
adatti al nostro scopo, ordinammo alla ditta “Firpo e Morasso” un salone prefabbricato in
legno, con paratie divisibili e smontabili per facilitarne il trasporto. Il tetto doveva essere
costituito da un grande tendone impermeabile, come quello di un circo equestre.
Ad Albisola Marina ci sistemammo in una pensione modesta, ma ordinata e pulita. C’era del
buon pesce fresco, della carne tenera, della frutta appena colta e un vinetto stuzzicante e
traditore delle vicine colline di Ellera. Un vecchio, noto avvocato del foro di Savona, che si
serviva di due bastoni, perché le gambe non lo reggevano più, veniva spesso per una
chiacchierata con Solari, suo amico di vecchia data. L’avvocato Testa, così si chiamava, faceva
spesso dello spirito, era mordace, sarcastico e si divertiva a fare delle burle di cui deteneva il
primato.
Anch’io fui una delle sue vittime. Nel teatro mancavano posti a sedere. Occorrevano almeno
una trentina di sedie da disporre nello spazio vuoto tra l’ultima fila delle poltroncine e la porta
130
d’ingresso.
L’avvocato Testa si rivolse a me e molto seriamente disse:
“Sa dove può trovarle? Dal signor Gelindo: abita in quella casa bianca lì davanti. Vada a
nome mio, ma stia attento, si rivolga a lui, non ad altri, se vuol ottenere le sedie. E’ un tipo
magro, alto, di una settantina d’anni. Si assicuri di parlare con lui personalmente. Si ricordi,
si chiama Gelindo”..
Mi diressi subito verso la casa bianca. Proprio davanti alla porta di un negozio stava seduto un
vecchio che rispondeva esattamente alla descrizione fattami dall’avvocato.
“Scusi – gli dissi - ho il piacere di parlare col Signor Gelindo?” Questi montò su tutte le
furie. Si alzò di scatto e cominciò ad apostrofarmi:‘Maleducato, ignorante, Gelindo sarete voi,
non io! Io sono il Signor Gerolamo e voglio essere rispettato! Levatevi dai piedi”. Tentai di
scusarmi, di spiegarmi, ma non ci fu niente da fare. Si riteneva talmente offeso che nulla
sarebbe valso a calmarlo.
“Com’è andata? Ha ottenuto le sedie?”– mi disse l’avvocato appena mi vide.
Alla sua piccante burla e a salvaguardia della mia dignità, opposi una bugia minuziosamente
elaborata.
“Era seduto davanti alla porta del suo negozio – dissi – L’ho individuato subito: magro, alto
di circa settant’anni. ‘Scusi ho il piacere di parlare al Signor Gelindo? Vengo da parte
dell’avvocato Testa’, gli dissi, e lui molto gentilmente: ‘E’ l’avvocato che mi chiama Gelindo
per far lo spiritoso, ma il mio nome è Gerolamo. In cosa posso servirla? S’accomodi, mi
disse, posso offrirle qualcosa?. Era spiacente di non potermi prestare le sedie. Le aveva
vendute per togliersi un ingombro. E’ stato, però,molto, molto gentile.”
Così gli raccontai la mia bugia e l’avvocato rimase deluso perché la sua burla non aveva avuto
successo.
Iniziammo la proiezione di un film umoristico con Max Linder protagonista. Vi assisté un folto
pubblico. Solari chiuse lo spettacolo con un monologo, che fece sbellicare dal ridere e che fu
coronato da scroscianti applausi.
Io ero molto contento, non tanto per il promettente buon inizio dal lato economico, ma
soprattutto per la gioia e la commozione che riempiva il cuore di quel caro vecchietto e di sua
moglie. Per loro quel successo, quegli abbondanti applausi rappresentavano la continuazione
dei trionfi dei tempi passati.
Tutto andò bene per una quindicina di giorni, poi il diavolo ci mise la coda!
Una perdita di benzina dal motore si allargò sul pavimento del proscenio; forse un fiammifero
buttato a caso o un mozzicone di sigaretta acceso diede inizio ad un incendio. Vi fu una grande
131
confusione e una fuga di quasi tutti gli spettatori (Cancellato: non mancò qualche scenetta
di panico femminile) ma per fortuna non vi furono conseguenze o danni. Due pescatori
buttarono sabbia sulle fiamme e con un copertone le soffocarono.
Solari preoccupato e in preda ad una impressionante esaltazione, corse davanti allo schermo e
ad alta voce raccomandò la calma. “Non temete, non c’è alcun pericolo! State calmi, tutti
calmi!”
A volte, anche nei momenti più drammatici, non manca una nota di umorismo. In teatro,
proprio in quel momento in cui Solari con enfasi raccomandava accoratamente la calma, non
c’era più nessuno.
Il peggio venne il giorno dopo. In municipio si radunò d’urgenza la giunta che emise
all’unanimità l’ingiunzione di immediato sfratto, a salvaguardia dell’incolumità dei cittadini
albisolesi.
A nulla valsero i buoni uffici dell’avvocato Testa per revocare quella drastica decisione.
Dovemmo sospendere le proiezioni.
L’idea di provvedere ad una assicurazione contro l’incendio, non ci era neanche passata per la
mente. Pertanto non c’era alcuna speranza di poter continuare.
In attesa della consegna da parte della falegnameria “Firpo e Morasso” del salone
prefabbricato, ci trattenemmo ancora qualche giorno ad Albisola. La nostra comitiva passava
lunghe ore seduta al caffé, immusonita e annoiata. Le ripetute battute di spirito dell’avvocato
Testa languivano, senza far ridere nessuno.
Io dipinsi qualche bozzetto di marina, di barche sulla spiaggia al sole, e pensavo tra una
pennellata e l’altra, che il nuovo salone avrebbe fatto rinascere in tutti noi le illusioni e le
speranze perdute.
*******
Ottenuta la concessione municipale di un appezzamento di terreno vicino alla spiaggia di
Lavagna nel chiavarese, vi fu montato dalla stessa ditta “Firpo e Morasso”, il salone ordinato,
Era bellissimo, in legno di pino americano e in conformità delle vigenti disposizioni di legge,
quattro erano le porte di sicurezza.
Eravamo tutti contenti e rianimati. Ma il pagamento della relativa fattura, secondo
l’espressione di Cornelia, fu un crudele salasso al nostro modesto gruzzolo. Però io non me ne
davo pensiero. “Bisogna vedere le cose con un certo senso di larghezza” dicevo a Cornelia
“Chi non semina non raccoglie”.
132
Le poltroncine erano 200 lucide, ch’era un piacere vederle.
Tutto era pronto e demmo il via alle proiezioni. L’afflusso del pubblico fu discreto, anche se
non come quello di Albissola. Però per la prima sera non avevamo ragione di lagnarcene.
Il nostro pubblico era formato da una categoria di persone molto modeste.
Ricordo che una sera una donna a piedi scalzi si presentò allo sportello dei biglietti d’ingresso
con un bimbo al collo e altri tre tra i sette e i 10 anni e chiese un solo biglietto.
(Cancellato: “Mi scusi - le disse la cognata di Solari ) Per il piccolo che tiene in braccio
non c’è nulla da dire, ma per gli altri tre deve prendere i biglietti”.
“Ma, signora, - replicò costei – le assicuro che questi tre dormiranno appena dentro e quindi
più di un biglietto non voglio”
Intervenne Solari, mi strizzò l’occhio e appoggiando una mano sulle spalle di quella donna le
disse “Per questa sera va bene così, entri pure”. Ed entrarono tutti senza biglietti madre
compresa.
Notammo, guardando il pubblico delle sere seguenti, che i frequentatori del cinema erano
pescatori, operai, artigiani, tutta gente di umile condizione.
Della ricca borghesia, numerosa a Lavagna, come in tutto il chiavarese , non si vedeva
nessuno. Pare che la ragione fosse da ricercare nell’economia spinta all’estremo, che per quei
signori, arricchiti in America, costituisce una norma inderogabile di vita. I maligni poi dicono
(ma io non posso ammettere che sia vero) che questi signori, sempre in omaggio al culto del
danaro, seduti in piazza sulle panchine, leggono il giornale (Cancellato: comprato da uno di
loro e se lo fanno passare l’un l’altro), comprato il giorno prima da Caio, il giorno dopo da
Sempronio e vanno così a turno. Mi pare impossibile che si possa organizzare la pitoccheria
sino a tal punto…
Nelle sere che seguirono gli incassi si mantennero discreti. Bastavano per le spese di famiglia
più un modesto avanzo
Non riuscivamo però ad accantonare nulla per il previsto graduale ammortamento del capitale.
Solari se ne rammaricava. Per me andava bene così.
Durante la giornata me ne stavo a dipingere tranquillamente nel mio studio e Cornelia mi
teneva compagnia.
Alla sera ci trasferivamo a Lavagna e vedevamo la proiezione dei film per lo più umoristici,
(Cancellato: e ci facevamo n po’ di buon sangue), partecipando all’allegria del pubblico.
A guastar le cose, venne però un fatto singolare e preoccupante che ci tolse la serenità.
Un indiavolato vento di tramontana che si alternava con raffiche rabbiose di venti di mare,
gonfiava la assi che componevano i pannelli del salone. Il mare si calmò e la secca violenta
133
tramontana continuò a infuriare per alcuni giorni, tanto che le assi dei pannelli, incastrate una
all’altra si restrinsero talmente che dal di fuori si poteva benissimo vedere e anche chiaramente
lo schermo delle proiezioni. Gravissimo guaio! Da quelle larghe fessure, pericolose correnti
d’aria attraversavano la sala mentre il pubblico si godeva gratis llo spettacolo, appoggiato alle
paratie esterne del locale. All’interno non c’era nessuno. Non sapevamo come avremmo potuto
rimediare la situazione.
Pensammo di far applicare da un falegname locale dei listelli in modo da coprire le fessure. Fu
un lavoro lungo e di rilevante spesa di manodopera. La sera di riapertura, davanti alle porte
d’ingresso c’era molta gente, ma nessuno entrava. Forse aspettavano con la speranza che si
riaprissero le fessure.
Le cose decisamente si mettevano al male e come se non bastassero le angosciose emozioni
provate, ecco che un avvenimento ben più crudele ci colpì, inesorabilmente, annullando tutte le
nostre illusioni e le nostre speranze!
Eravamo a tavola a consumare la nostra cena, quando un giovanotto del paese entrò di corsa
nel ristorante, gridando a tutta voce:
“Sciu Truccu! U ventu u ghe porta a baracca in maa. Scia vegne a vedde!”
(Cancellato: Corsi alla spiaggia e mi diressi verso il salone seguito da Solari e da tutti i
commensali.)
Lo spettacolo che si presentò ai nostri occhi era terrificante. Tutto il fabbricato contorto e
abbattuto al suolo, le assi divelte e rotte, alcuni pannelli galleggiavano sulle onde del mare e il
telone che copriva il tetto si era trasformato in un enorme cencio sbatacchiato dal vento. Solari
pianse come un bambino. Non sapevo cosa dirgli per consolarlo. Anche la Signora Rosetta e
Cornelia erano desolate.
“Non c’è male che per ben non venga” dissi loro. “Non scoraggiatevi!”
Così finì miseramente anche questa impresa!
Quando un artista spinto dalla miseria e da situazioni insostenibili, deve occuparsi di faccende
estranee alla sua professione, tutto gli andrà fatalmente male. Il destino è crudele e non tiene
conto delle buone ragioni che lo hanno costretto a così dure lotte.
Nelle annotazioni contabili alla voce “profitti e perdite”, invece di segnare delle cifre, scrissi
“tutto perduto”.
Questa è la dolorosa storia di una “Società di fatto”.
Tornammo a casa mogi mogi.
Io continuai a dipingere e con Cornelia ripresi a fare nuovi progetti per l’avvenire.
Solari non si arrese, Tramite l’avvocato Testa ottenne ancora dal Municipio di Albissola
134
Marina, la disponibilità del Teatro “Ernesto Rossi” per una serie di rappresentazioni, colla
collaborazione di sua moglie, di sua cognata e coll’aiuto del suo macchinista.
Era ovvio che le sue recite non avrebbero suscitato incendi ed è per questo che il Municipio
non esitò a favorirlo.
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Dai fratelli Nino e Peppino Cominetti ricevevamo spesso lunghe lettere. Auspicavano vederci
presto a Parigi dove essi, incaricati da un editore, creavano nel loro studio di Rue d’Orchampt
composizioni, motivi e disegni per copertine e riviste.
Per un pittore, dicevo a Cornelia, è quasi un dovere conoscere Parigi, e lei, fantasiosa, amante
di novità e di avventure, sperava che si presentasse una occasione propizia, per recarci in
quella “Ville Lumière!
L’occasione venne più presto di quanto non potessimo immaginare.
Una sera ,al Caffè Milano, tra i nostri amici c’era il pittore Luigi Paradisi, che doveva ripartire
per Parigi. Ci assicurò che per chi aveva voglia di lavorare, là non sarebbero mancate le buone
occasioni.
“Puoi fare delle mostre nelle gallerie d’arte; dei manifesti murali, che sono ottimamente
pagati dalle industrie e dalle ditte commerciali; puoi dedicarti all’illustrazione, alla
scenografia, alla decorazione in genere. Sono tante le porte aperte agli artisti che hanno delle
capacità”.
Le parole di Paradisi accesero la nostra fervida fantasia. Parigi era nelle nostre mani.
“Faremo delle grandi cose a Parigi e con la tua arte otterrai la notorietà che meriti”
Cara Cornelia, tu con la tua bontà e la stima che hai per me, mi daresti il Paradiso, ma io credo
che la notorietà e il successo a cui aspirano gli artisti, più che al loro merito, siano dovuti a
circostanze e occasioni favorevoli.
Ci recammo a salutare mio padre e i familiari. Con Carlino facemmo un bel pranzetto d’addio,
alla fine del quale egli cantò la romanza del”Pescatori di perle” di Bizet. Ci congedammo dai
nostri vicini Solari. Le rappresentazioni di Albissola avevano avuto un risultato positvo e il
loro morale era alto.
Partimmo con Paradisi, accompagnati alla stazione da molti amici del Caffé Milano.
A Torino salì con noi il noto caricaturista Ezio Manfredini, collaboratore dei due giornali
“Rire” e “Sourire” editi a Parigi e si fece viaggio allegramente. Giungemmo alla Gare de Lyon
a sera inoltrata.
(Cancellato: Cornelia ed io ci alloggiammo in una camera mobiliata, vicina a quella di
Manfredini e un po’ stanchi dal viaggio, ce ne andammo a dormire.)
Nella mattinata del giorno seguente accompagnati da Manfredini ci recammo a salutare i
Cominetti.
Attraversata la Piazza Clichy e Pigalle, salimmo la Rue Lepic e bussammo alla porta del loro
studio al pianterreno di Rue Dorchampt.
Venne ad aprire Nino: Peppino stava lavorando. Vi fu uno scambio di affettuosi abbracci e poi
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domande e risposte a non finire. Erano passati non meno di cinque o sei anni dall’ultima volta
che ci eravamo visti e molte cose avevamo da dirci.
Vidi il grande quadro di Peppino “I conquistatori del sole”. Era veramente un’opera di rilievo e
rispondeva bene alla descrizione che me ne aveva fatto a Firenze. Mi piacque molto “La sosta”
con fantastiche luci verdi e azzurre su un cupo misterioso fondo di notte. Per la preziosità dei
colori e il potente senso di drammaticità era notevole il “Il matrimonio, tomba dell’amore”.
Tuttavia non potevo ammettere il concetto che lo aveva ispirato; le mie opinioni sul
matrimonio erano in pieno contrasto con quelle di Peppino.
Lo studio di Cominetti era aperto a tutti e vi affluivano persone delle più disparate condizioni
sociali.
Tra i più assidui erano da notarsi: Lagarrigue, attore del teatro Sarah Bernhardt, colla sua
amica Juliette, indossatrice da Doucet; il noto scrittore belga Van Hoffel, i ricchi coniugi
polacchi Krosciusko, il pittore toscano Fraticcioli colla sua inseparabile chitarra, il profugo
russo Rankoff, il professore di belle arti Piccoli, convertito alla pittura e caricaturista al “Ruy
Blas”, il pittore (allora futurista) Gino Severini, la piccola sartina Suzanne, amica di Piccoli e
un giovane tipografo (non ne ricordo il nome) sempre desolato e piangente per dispiaceri
amorosi.
Dai coniugi Krosciusko i Cominetti s’attendevano un gesto generoso, quale l’acquisto di un
piccolo quadro. Avrebbero potuto farlo. Ma una battuta del marito stroncò quella speranza
(Cancellato: non trovò di meglio che mettere fuori questa sua discutibile opinione) “Gli
artisti mi piacciono così, immersi nella loro costante miseria; sarebbe proprio un peccato se
non fosse così. La miseria è il loro profumo”.
Van Hoffel, autore di molti romanzi fra i quali “La petite Anna” e “Aline” era anche un abile
schermitore e tutti i suoi gesti scattanti, sembravano azionati da una potente molla. Quando mi
raccontava qualche vivace vicenda della sua vita, gambe e braccia avevano movimenti così
rapidi e decisi che io temevo stesse per infilzarmi.
Lo spunto per il suo ultimo romanzo “Mireille” (Cancellato: “Aline”, è dovuto alla
conoscenza che fece) glielo diede una fanciulla conosciuta al Moulin de la Galette, che si
chiamava Mireille ed era nota a Montmartre come “rat d’hotel”. Era una bella figliola
sedicenne, bionda, sfacciata, incosciente e cinica. Van Hoffel se ne invaghì perdutamente e col
miracolo della sua penna seppe modellarla trasformandola così bene (Cancellato: mettendo in
luce tante qualità che non aveva, ) da un essere comune e volgaretto (quale in realtà era,
seppe trasformarla) in una eroina degna di ammirazione.
Lagarrigue aveva una perfetta espressiva dizione e ci allietava interpretando dei brani del
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poema epico “Alceo” di Nino Cominetti e brani di poesie di Baudelaire.
(Cancellato:L’infondata gelosia nei riguardi della sua buona amica Juliette, lo spingeva a
volte a trascendere ad espressioni ed atti indegni, da lui stesso poi deprecati. Juliette, figlia
di un pescatore algerino, era bella ed elegante, di natura riservata e di principi morali.
L’amava e lo perdonava).
Rankoff viveva nella più squallida miseria, bonario e simpatico, trovava nell’ambiente degli
artisti conforto e aiuto, ma il suo costante protettore era il pittore Fraticcioli. Il sabato e la
domenica, quando le terrazze dei caffè dei grandi boulevard erano più affollate del solito, con
un cappellaccio a cencio, una mantellina sulle spalle e la sua chitarra, si avviava, seguito da
Rankoff, sui boulevards. Era dotato di una bellissima voce, cantava deliziosamente e
accompagnandosi colla chitarra cantava canzoni e stornelli toscani; poi si avvicinava ai
tavolini a raccogliere i soldi che quasi tutti divertiti da quel pittoresco spettacolo gli davano
volentieri.
Versava il contenuto nella tasca di Rankoff e, passando da un caffè all’altro, con questa sua
benefica prestazione, Fraticcioli assicurava al suo protetto, i viveri per tutta la settimana.
(Cancellato: Di tutta la nostra compagnia i più eleganti erano Lagarrigue e Piccoli.
Quest’ultimo vestiva all’ultima moda e il suo aspetto era signorile e distinto. Piccoli voleva
molto bene alla sua piccola Susanne che però se lo meritava. Sembrava una giapponesina;
cantava bene, con una vocetta sottile, armoniosa, le canzoni allora in voga e infondeva
commozione ai suoi uditori Lavorava come “deuxiéme main”quando le forze lo
consentivano, e quando il lavoro c’era, cioè saltuariamente, presso una grande sartoria,
con una paga minima e il suo pranzo doveva limitarsi ad una tazza di cioccolato e due
panini, consumati al bar quando doveva svolgere il lavoro lontano da casa
Le continue privazioni in rapporto al suo delicato fisico le furono fatali. La denutrizione
apri le porte all’etisia e pochi anni più tardi alla morte Quando, invece, lavorava vicino a
casa, se Piccoli aveva qualche soldo in tasca, il pranzo poteva essere un po’ più abbondante;
in caso contrario era la fame per tutti e due.)
Eccettuati i coniugi Krosciusko, Van Hoffel, Severini e Lagarrigue, tutti gli altri frequentatori
dello studio Cominetti, e purtroppo io e Cornelia compresi, (il nostro famoso gruzzoletto era
ormai sparito) lottavamo con ben poco successo contro le insidie della miseria.
Chi provvedeva a salvare gli amici dall’inedia, nei momenti più cruciali era Nino. Egli godeva
della simpatia e della fiducia di un friggitore svizzero di Rue Lepic, che gli concedeva largo
credito. Patate e salsicce di Tolosa erano in qualunque momento a disposizione di Nino.
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“Non vi date pensiero, pagherete quando le cose andranno bene” gli diceva il friggitore
mentre gliele avvolgeva nella carta.
Nello studio eravamo tutti in attesa. Eccolo che arriva! Nino entrava silenzioso e compunto,
come se partecipasse ad un rito religioso, disponendo il pingue pacco su di uno sgabello al
centro dello studio e noi tutti attorno. Le sedie erano soltanto tre per le persone di maggior
riguardo. Le altre si accoccolavano sul pavimento o rimanevano in piedi. Nino fungeva da
moderatore. Ad ognuno spettava una salsiccia e due fette
di pane. Per le patate bisognava pensare anche agli altri, non solo a sé stessi, Quella era la
regola da rispettare. Se qualcuno si serviva allargando troppo le dita per far la preda grossa
sulle patate, Nino interveniva con un colpetto sulla mano del trasgressore.
“Non ci sei tui solo, se hai fame c’è del pane” diceva. Difatti di quei filoni lunghi che fanno i
fornai parigini ce n’era ancora quasi mezzo metro. L’acqua si poteva bere a volontà. A turno
nella stessa tazza, Nino ci serviva un buon caffè.
Di regola doveva essere pagato subito, a contanti, ognuno di noi doveva sborsare un soldo. Se
qualcuno fingeva di frugare nelle proprie tasche inutilmente, c’era chi lo toglieva d’imbarazzo
pagando per lui. Vino non ce n’era ma cantavamo in coro una “Chanson a boire”.
A Cornelia e a me piaceva quell’ambiente dove regnava poesia e fraternità, ma io non sapevo
adattarmi a vivere in ozio. Le famose porte aperte a tutti quelli che hanno voglia di lavorare e
per gli artisti che hanno delle capacità alle quali faceva cenno Paradisi a Genova, erano tuttora
ermeticamente chiuse.
Feci qualche piccolo lavoro, ma di ben poca importanza e malpagato: sei etichette per barattoli
di marmellata. con colori a tempera: (ciliegie, fragole, pere, susine, albicocche e pesche) per
una società di prodotti alimentari. Ma per vivere ci voleva altro!
***********
Ogni tanto m’incontravo con Modigliani in un bar di Place de
l’Opèra (se ben ricordo, Bar Ferrari), uno dei pochi gestito da un
italiano, ove si poteva gustare un buon caffè. A Modigliani, però,
più del caffè piacevano i liquori, e quando si trovava senza soldi
in tasca (ciò avveniva assai spesso) offriva al barista un suo
disegno in cambio di un misero bicchierino di liquore.
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Modigliani allora svolgeva la sua vita nel quartiere latino, per
questo i nostri incontri non erano frequenti. Quelle continue
velenose bevute e l’invito sessuale di molte graziosissime donne
invaghite del suo bel portamento fisico, aggravarono il suo stato
di salute, già minato da una affezione polmonare. Egli non
possedeva le virtù di Sant’Antonio, né del casto Giuseppe e non
seppe pertanto rifiutare quegli appassionati inviti, che lo
condussero alla sua prematura fine.
Sua moglie, che aveva per lui una dedizione materna, nutrita da
un eccezionale affetto, non poté rassegnarsi alla tragica perdita e
non seppe trovar miglior soluzione che quella del noto Suicidio.
Ora di questo geniale infelice pittore rimangono, ad eternarlo
nella storia dell’arte, i volti espressivi di tante belle donne, dal
lungo collo, innestato su esili colli che fungono da piedistallo.
Forse sono i ritratti di alcune di esse, che, coll’arma della
sensualità lo hanno ucciso.
Tra gli anni 1907 e 1914, il cubismo, il futurismo e altre minori
innovazioni, s’insinuarono nel campo dell’arte e diedero luogo a
infinite, animate, contestazioni e discussioni, tra gli artisti
d’allora. Opinioni pazzesche e paradossali, scivolanti spesso nella
volgarità, incombevano sulle loro riunioni.
Ricordo che in una sera del 1910, nello studio dei Cominetti,
m’incontrai con Severini e Gris: il primo già nelle file di Marinetti,
il secondo innamorato del cubismo. C’erano anche Lepape,
giovane pittore, protetto dal generoso Poiret, Iribe, Fauconnet
anch’essi collaboratori del grande sarto.
Era appunto Fauconnet il direttore della nota “Ditta Martine”, per
la quale creava nuove forme e nuovi indirizzi. Erano presenti
141
quella sera anche Max Jacob e Apollinaire.
Le convinzioni e la certezza che il pittore Gris dimostrava, con
larghi gesti, che il cubismo avrebbe aperto la sola via da seguire,
non erano ammesse da Severini, che affermava energicamente:
“Solo il futurismo dominerà il mondo”. Tra i due la discussione
divenne rovente e si mutò in aspra disputa.
Apollinaire con ostentata dignità, a testa alta, con belle parole
soffiava sul fuoco, ora a favore del cubismo, ora del futurismo e
invitò i contendenti a stringersi la mano e a suggellare una
alleanza al fine di fondere le due tendenze ed usare un solo
rivoluzionario linguaggio per esprimerle entrambe. A convalidare
la sua proposta, esaltava le compòsizioni del pittore Leger, nelle
quali s’intrecciavano espressioni futuriste e cubiste.
Com’era da aspettarci l’invito di Apollinaire non fu accettato da
nessuno dei due contendenti.
A Poiret piacevano la pittura e i pittori, ma detestava il cubismo,
perché troppo cerebrale e a Picasso diceva di non capire le sue
nuove opere: ma apprezzava Vlaminch, Derain, Dunoyer de
Seconzac, Van Dongen ai quali comperava quadri.
Per quanto riguarda il futurismo fu lo stesso inventore Marinetti a
rinnegarlo e a decretarne la fine, pochi anni dopo la nascita,
ammettendo i fini esclusivamente culturali, perseguiti al suo
inizio e deprecandone le deviazioni, con tendenze politiche, che
si manifestarono in seguito.
Comunque quella serata fu spettacolare e molto interessante: che
impeto, che vivacità, che foga, nell’esprimere ognuno le proprie
opinioni!
Io facevo le mie riflessioni , senza intervenire nella mischia, per
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ovvie ragioni : prima tra esse, la mia indecisione, il mio
temperamento ruminante, che prima d’ingoiare il boccone, deve
masticarlo e rimasticarlo a fondo e lentamente e poi, perché, nato
genovese, avrei stentato a trovare parole adatte a ben esprimere i
miei pensieri.
Comunque, ruminando, analizzavo le parole degli altri e
conclusi, che per fare un lungo, audace salto al fine di sorpassare
un profondo fosso, occorre essere dotati di un vigoroso apparato
muscolare e di gambe lunghe e flessibili. Senza di che ci si casca
facilmente dentro, senza speranza di salvezza. Bisogna quindi
rinunciare all’esibizionismo, che generalmente è alla base di
simili azzardate imprese.
Perché, mi chiederete, l’impressionismo, duramente contrastato al
suo insorgere, non è caduto nel fosso? Anzitutto, vi rispondo,
l’impressionismo era di conformazione atletica: meravigliosa
muscolatura, gambe elastiche ed occhi penetranti. E se le opere di
quei vigorosi atleti, sono ancor oggi sempre più apprezzate e
ricercate è anche perché, anziché deporre una pesantissima pietra
sull’arte del passato, hanno saputo, con lodevole intelligenza,
aggiungere ad essa la luce del sole e in più le forme nuove che
esigeva l’evolversi dei costumi del loro tempo.
*********
Verso sera dallo studio di Cominetti, si vedeva passare un omino piccolo, magro, con una
sciarpa svolazzante che gli avvolgeva il collo. Aveva due occhio vivacissimi. Era Max Jacob.
Con passo leggero e incerto, in preda all’etere, sembrava volesse spiccare il volo. Io credo che
se un colpo di vento lo avesse investito in pieno, sarebbe salito in cielo.
Era figlio di un sarto bretone; là i sarti erano anche ricamatori, e nella sua prima giovinezza
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Max Jacob lo fu anche lui. Studioso, intelligentissimo e arguto non tardò ad imporsi nel mondo
della letteratura con scritti poetici di spiccata originalità.
L’ultima sua pubblicazione d’allora fu “La còte”, raccolta di canti popolari celtici in lingua
originaria, con relativa traduzione in francese. Nel mondo degli intellettuali ebbe un ottimo
successo.
Gli fui presentato da Cominetti e a sua volta Max Jacob mi presentò un giovane pittore,
Maurice Hensel, che lavorava presso il grande sarto Paul Poiret. Non tardammo a divenire
buoni amici.
Hansel doveva partire tra pochi giorni per il servizio militare.
“Sareste disposto a sostituirmi presso Poiret, durante la mia assenza” mi disse.
“Perché no, ben volentieri” replicai.
Il giorno dopo mi presentò a Paul Poiret e fui assunto ad ottime condizioni. Orario dalle 10
alle 12 – e dalle 15 alle 17. Quattro ore di lavoro al giorno. Compenso 400 franchi mensili,
Il mio compito era quello di insegnare ad un gruppo di ragazzine la tecnica e l’uso dei colori a
tempera. Poiret aveva lanciato, per i tessuti stampati, la moda di disegni infantili a colori
vivacissimi, con decisa esclusione dell’”abilità”, della capacità e delle forme tradizionali. Per
questa ragione preferiva la mano d’opera inesperta. Io ero libero di fare ricerche e creare
motivi a mio piacimento.
Cornelia era felice per la mia assunzione da Poiret. Vi immaginate che cuccagna!? Io avrei
avuto parecchie ore della giornata da dedicare alle mie foreste, ai miei indi, ai miei sogni. E a
Cornelia non sarebbe mancato più il necessario
Paul Poiret, oltre alla sartoria con annesse grandi, lussuose sale d’esposizione per la sfilata
delle indossatrici aveva il reparto profumeria in un fabbricato attiguo “Profumeria “Rosine”
(nome di una sua figlia) e, in un altro caseggiato più vasto, l’arredamento, sotto il nome
dell’altra sua figlia “Martine”. Architetti e pittori facevano progetti per il moderno
arredamento delle case, che dopo l’approvazione di Poiret passavano ai costruttori per
l’esecuzione.
La clientela di Poiret era formata dall’élite degli intellettuali parigini e stranieri e dell’ambiente
teatrale. Anche D’Annunzio, ai tempi del suo “San Sebastiano” era un assiduo cliente di
Poiret.
Per Isadora Duncan, la famosa ballerina, incaricato da Poiret, modellai nel suo grande studio
da ballo di Neuilly due sopra-porte, tradotte poi in ceramica da un artigiano di Rue du Paradis.
Una tragica fine ebbero le due figliole della nota ballerina e pochi anni dopo lei stessa ebbe lo
stesso destino
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Anch’io, come gli architetti e i pittori del reparto di arredamenti “Martine” facevo delle
ricerche e degli esperimenti. Servendomi di una pasta di mia composizione (Cancellato:
materia plastica detta “fausse barbotone” alla quale aggiunsi segatura, carta macerata e
caseina, di facile modellazione ) decorai con bassi rilievi un pannello di legno e lo coprii con
sovrapposizioni di vernici colorate che rendevo morbide e semiopache con levigature
accurate, usando il tripoli [Ndc. “Polvere di roccia sedimentaria costituita da gusci di
diatomee e da scheletri di radiolari che si presenta come una sostanza farinosa di colore
bianco, giallognolo o rossiccio]
Poiret ne fu entusiasta e questa mia trovata diede origine ad un reparto per mobili decorati con
rilievi e dai tessuti stampati fui trasferito in Rue du Faubourg St. Honoré in un vasto locale
della casa di arredamento “Martine” e mi fu affidata la direzione di quel reparto.
Poiret decise di partecipare ad una mostra di arredamento da allestire nel Principato di
Monaco, presentando una camera matrimoniale, completa di accessori colle nuove decorazioni
a rilievo.
Nel laboratorio di Faubourg St. Honoré avevo altri mobili in corso di lavorazione. Quelli
destinati alla mostra li decoravo, nelle ore libere, nello studio che avevo affittato in Rue
Lamartine, sino dall’inizio della mia assunzione da Poiret. Mi aiutava Cornelia, entusiasta
anch’essa del nuovo genere di lavoro, e anche Piccoli, che in quel momento si trovava in
bolletta nera. La piccola Suzanne ci faceva compagnia, sdraiata sul divano.
Per essere puntuali nella consegna, dovemmo lavorare sino alle ore piccole della notte e tutto
si concluse bene e in tempo, con soddisfazione di Poiret e nostra.
*********
Ricordi lontani e cenni biografici raccolti sulla vita del
“Magnifico “ Poiret, si presentano alla mia memoria, ravvivati da
tutta la mia ammirazione e anche, purtroppo, da grande
tristezza, per quanto riguarda la fine di questo straordinario
uomo.
Era di solido aspetto, barbuto, con gli occhi un po’ sporgenti e lo
sguardo penetrante e autoritario. Nel XX secolo, rivoluzionò la
moda e liberò la donna da busto e stecche, annullò cuscinetti e
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inutili imbottiture, allungandone la linea e trasformandola in
una “ninfa” sottile, sportiva, pettinata alla maschietto” e vestita
con bei tessuti di colori vivaci. Creò così “lo stile di un’epoca”.
Tutti i colori dolci, lavati e insipidi, molto di moda alla “belle
époque”, li sostituì con vibranti rossi, gialli d’oro, verdi, violetti,
azzurri intensi, che valsero ad animare tutto il resto.
Nel 1911 lanciò la “jupe-culotte – la gonna pantalone – che suscitò
grande scandalo.
Poiret nacque a Parigi il 20 aprile 1879 e non ancora
quindicenne iniziò i suoi schizzi per la moda che immaginava di
destinare alle attrici celebri o a lontane principesse. Suo padre,
negoziante di stoffe, non vedeva di buon occhio l’inizio di una
carriera artistica e lo sistemò, con il titolo accademico di
“Baccelliere” in tasca, presso un venditore di ombrelli! Ma nel suo
tempo libero il giovane Poiret continuò a creare disegni e schizzi
che presentò alla nota “couturiére” dell’epoca Mme. Cheruit, la
quale li apprezzò e ne acquistò qualcuno. Questo successo lo
indusse a presentarsi a diversi altri sarti, allora in auge. Ebbe da
Doucet il primo colpo di fortuna della sua vita. Questo sarto, tra i
più dotati di Parigi,ammirò lo straordinario spirito inventivo di
quel giovane di 18 anni, e senza indugio, lo assunse alle sue
dipendenze. Sarah Bernhardt e Rejane, di notorietà mondiale,
scelsero i disegni di Paul per gli abiti da indossare in teatro
Alcuni anni dopo fondò una società per la stampa di tessuti. Creò
una scuola d’arte decorativa, allo scopo di sfruttare sui tessuti
stampati disegni infantili, con esclusione di abilità tecnica e di
concetto. Si occupò anche dell’arredamento della casa, nello stile
suo, già ampiamente diffuso. A questa attività diede lo stesso nome
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di sua figlia “Martine”. La mia collaborazione nella casa Poiret
era divisa tra la direzione tecnica della scuola, frequentata da
ragazzine di età non superiore ai dieci anni ,e la creazione di
elementi decorativi per l’arredamento.
La confezione di vestiti, la sfilata delle indossatrici, il deposito
dei tessuti e un reparto per la profumeria avevano sede in un
palazzo della Rue Faubourg Sant’Honoré. La fama e la ricchezza
di Poiret, raggiunsero vette altissime.
Indimenticabili furono le fantastiche feste,ispirate all’oriente, che
Poiret intitolò “Mille e due notti” le quali gli valsero, sulla stampa,
l’appellativo di “Poiret le magnifique” e l’afflusso di un
eccezionale numero di suoi clienti, del fior fiore degli
intellettuali, di molti stranieri e uomini politici di alto rilievo.
La guerra del 1914 fece crollare crudelmente tutto quel vasto e
felice complesso di bellezze, di creazioni geniali, frutto di un solo
cervello d’uomo, volitivo e fattivo.
La fine di Paul Poiret , il magnifico, colpito da un crudele morbo,
fu penosa, misera e umiliante, forse anche a causa dell’eccessiva
sua generosità e dalla sua imprevidenza per l’avvenire.
In un breve messaggio inviato al direttore di “Chez Maxim’s”, ove
per lungo tempo aveva fastosamente accolti numerosi suoi
invitati, scrisse “J’ai faim”.
Morì il 28 aprile 1944.
*********
La situazione che eravamo riusciti a crearci era troppo bella perché potesse durare.
Scoppiò la guerra del 1914!
147
Venne la mobilitazione generale e lo scompiglio nella popolazione, l’assassinio del socialista
Juarez, manifestazioni, scontri fra dimostranti e polizia. Poi reparti di gendarmi a cavallo
dispersero i rivoltosi e la vita in città riprese uno svolgimento in apparenza normale.
L’opinione dei più era che la guerra non avrebbe avuto una lunga durata e anche noi due la
pensavamo così, anzi, eravamo convinti che, dopo una breve parentesi, forse di qualche mese,
sarebbe tornata la pace per tutti.
Approfittammo quindi della temporanea interruzione del lavoro per concederci qualche giorno
di vacanza. Avevamo bisogno di un po’ d’aria pura, di un po’ di verde.
Le valli di Meaux, attraversate dalla Marna, offrivano dei deliziosi panorami e decidemmo di
partire per Meaux.
“Avete il “lasciapassare” e le vostre carte di riconoscimento?” Ci disse il nostro vicino di
ballatoio, il pittore Henry Lejeune.
“Sì, le abbiamo “ risposi.
Io avevo un semplice permesso di soggiorno e immaginavo che quello fosse sufficiente in ogni
evento. Partimmo con una valigetta e con la mia scatola di colori. Giunti nelle vicinanze di
Meaux alcuni agenti di pubblica sicurezza, salirono sul treno a verificare i documenti dei
viaggiatori.
Grazie alla nostra incuranza per ciò che succedeva nel mondo, non sapevamo che Meaux era in
zona di guerra.
Il mio permesso di soggiorno non fu tenuto in alcun conto.
“Non siete in regola, seguitemi al comando militare “ ci disse un ufficiale.
Scendemmo alla stazione e lo seguimmo. Al comando fummo interrogati a lungo e un militare
perquisì le nostre persone e il nostro bagaglio. Il capitano mi chiese che cosa intendevo fare
con i miei colori. Gli spiegai che desideravo dipingere qualche paesaggio.
“E voi venite in zona di guerra a dipingere i paesaggi?”
“Non sapevo che Meaux fosse in zona di guerra” risposi un po’ allarmato.
Cornelia mi disse piano “Siamo proprio sfortunati. Chissà ora che cosa ci capita. Addio
ferie!”
L’ufficiale che ci interrogava era un corso e per quanto Cornelia avesse parlato sottovoce, capì
perfettamente e per consolarla le disse:
“Non capita niente, signora, ma tornate a Parigi col primo treno.
Accompagnati da un militare, che ci consegnò un “foglio di via”, salimmo sul treno e
ritornammo a Parigi, dove ci accolse una pioggia fitta, fitta. Rientrare in Rue Lamartine?
Proprio no. Lejeune ci avrebbe presi in giro. E Cornelia non intendeva rinunciare alle nostre
148
vacanze.
“Se a destra si va in zona di guerra, noi andremo a sinistra”.
E ci dirigemmo alla Gare de Luxembourg dove acquistammo due biglietti per Le Veaux de
Cernay. Ma non trovammo alloggio, e intanto pioveva e pioveva… proseguimmo con un altro
treno per Boulet-le-Trou, a pochi chilometri dalle Veaux de Cernay, ove, ci dissero, era
probabile trovare una camera. (Cancellato: difatti la trovammo a pochi passi dalla stazione).
Ma che camera! E, infatti, era un locale che sembrava una bottega,.Vi si entrava alzando una
saracinesca e non c’erano finestre. Un misero lettino a una sola piazza, un vecchio cassettone,
tre tondelli di ferro ritorto che sostenevano un catino incrinato e la brocca per l‘acqua,
costituivano l’arredamento. Di sotto la saracinesca si insinuavano alcuni rivoletti d’acqua
piovana che si allargavano su buona parte del pavimento. La luce era quella di una candela,
che, per precauzione in tempo di guerra si doveva accendere a saracinesca chiusa. Come il
destino volle, passò quella notte e al mattino seguente, quando alzammo la saracinesca, ci
salutò una giornata bella radiosa. C’insegnarono la via da seguire per raggiungere Cernay-la-
Ville, ove il paesaggio, ricco di corsi d’acqua, di folti boschi di betulle, offriva, col sontuoso
castello dei Rothschildt, un meraviglioso spettacolo.
Vi giungemmo seguendo un sentiero che saliva su di una collina verdeggiante, con greggi di
pecore e di bovini al pascolo. Le gocce della recente pioggia, trattenute dalle erbe dei prati,
brillavano come gioielli sotto i primi raggi del sole. Quel meraviglioso spettacolo ci fece
dimenticare le disavventure del giorno prima. Dopo un percorso di poco meno di un’ora,
raggiunta la sommità della collina, , una breve discesa ci condusse a Cernay-la-Ville. Era
veramente un bel posto!
Trovammo una linda cameretta, in casa di un operaio che lavorava in una cava di pietre.
(Cancellato: il comodo dell’uso della cucina non ci fu concesso.) Dovevamo perciò prendere
i pasti fuori.
C’era una trattoria in paese (Cancellato: ma né a me né a Cornelia passò per il capo l’idea di
servircene) la disdegnammo. Volevamo essere liberi; mangiare se, come e quando ne
avessimo avuto voglia, all’ora che più ci faceva comodo e non volevamo assoggettarci a
cambiar abito per presentarci in mezzo alla gente.
Viste le cose com’erano, ci fornimmo dei seguenti utensili di cucina: 1 caffettiera, 1 pentolino
per la minestra, un tegamino per la pietanza, 2 fondine, una tazza per il caffè, 1 bicchiere, 2
cucchiai, 2 forchette, 1 coltello a testa. Questi oggetti erano per noi più che sufficienti.
In quel paesino c’erano due botteghe di commestibili e un macellaio.
Acquistavamo ogni giorno i viveri che ci occorrevano e li mettevamo cogli utensili da cucina,
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in un sacco da montagna e c’inoltravamo cantando, nei boschi di betulle.
All’ora del pranzo, con tre grosse pietre, formavamo un fornello e con ramoscelli secchi il
combustibile.
A volte le pietanze cotte nel tegamino, avevano un po’ il sapore del fumo, ma le trovavamo
buone lo stesso. Le stoviglie si lavavano colla sabbia fine, nell’acqua di un limpido ruscello.
Scoprimmo nel folto del bosco una scogliera sporgente che faceva da tetto ad una profonda
cavità, che all’occorrenza poteva essere un ottimo rifugio, in caso di pioggia e di cattivo
tempo. E fu proprio in quella piccola caverna, sotto le foglie secche di betulla che
nascondemmo, per mantenerla asciutta, la legna e i nostri utensili da cucina.
Eravamo felici. In quell’accogliente angolino passavamo il tempo a leggere o a far siesta dopo
i pasti, divertiti dalle acrobazie degli scoiattoli rossi che a pochi passi da noi, s’inseguivano
con rapide corse a spirale, attorno ai tronchi degli alberi.
Al mattino presto e al tramonto di quasi tutti i giorni facevo dei bozzetti di acque correnti tra le
scogliere coperte da licheni, o tra ciuffi di felci ombreggiate dalle folte chiome delle betulle.
Soggetti semplici ma ricchi di colore.
Erano passati velocemente 15 giorni di quella vita serena senza crucci e senza problemi.
Bisognava mettere giudizio e rientrare a Parigi.
Prima di lasciare Cernay-la-Ville, demmo un’occhiata, un po’ più da vicino, al castello, che
come tutti i castelli francesi, offriva dei complessi architettonici imponenti che suscitavano
sensazioni di lontani misteri.
Nei boschi che li circondavano, tra alte piante di diverse essenze, i fagiani, le quaglie e le
pernici, non disturbate dai cacciatori,che allora erano intenti a puntare i fucili contro i tedeschi,
spiccavano il volo sfoggiando i colori dei loro piumaggi. Su per le lievi colline, anche le lepri e
conigli selvatici, non più impauriti da cani e da spari, si radunavano in gruppi tra le brughiere.
Ci parve strano, rientrando a Parigi, che nel breve tempo della nostra assenza, la città avesse
subito una così evidente trasformazione: moltissimi i negozi chiusi, penuria e rincaro dei
viveri, combustibile per riscaldamento quasi introvabile, delittuosi accaparramenti di derrate
alimentari, borsa nera in vergognosa funzione.
I bollettini di guerra estremamente scoraggianti, ansiose madri e spose disperate in lacrime.
Così si presentava Parigi in quel tempo.
Poiret, indossata la divisa di capitano fu tra i primi a partire interrompendo bruscamente ogni
attività della sua ditta. Quasi tutto il suo personale maschile fu chiamato alle armi. Quelli che
non partirono, anziani, vecchi e donne rimasero in balìa di una triste situazione economica e
anche noi non tardammo a subire la stessa sorte. Per fortuna, avevo partecipato quasi ogni
150
anno alle mostre indette dalla Soc. des Artistes Indipendents, alla quale ero anche iscritto come
socio e beneficiai pertanto di un modesto assegno mensile, corrisposto dalla Società ai suoi
affiliati espositori. Inoltre, in collaborazione con Cornelia, decoravamo piccoli oggetti in
legno, scatolette, piccoli pannelli, ninnoli, coppe, ciotole, vasetti di vetro.
Grazie all’iniziativa di Madame Clemenceau, Madame Clenet Bayard e altre famiglie note
dell’aristocrazia francese, furono allestite alcune mostre e molti di quei piccoli oggetti furono
venduti.
E’ doveroso riconoscere che l’interessamento dell’alta società parigina alla situazione degli
artisti fu vivo e generoso e confermò l’alto grado di civiltà raggiunto e conservato da quel gran
popolo.
In ogni quartiere della città furono istituiti dei refettori, sempre a favore degli artisti, ove con
una spesa minima si poteva consumare un pasto, modesto, ma sufficiente.
Parigi era sotto l’incubo dei bombardamenti di aeroplani da caccia o di Zeppelin, che ogni
tanto spargevano il terrore nell’inerme popolazione, sganciando bombe.
L’armata tedesca fu fermata quasi alle porte di Parigi,e ciò valse a rialzare il morale e a
infondere un po’ di speranza nella popolazione.
Molti negozi riaprirono i battenti e lo stesso Poiret rimise in attività, sebbene ridotta, la sua
ditta. Io ripresi da “Martine” alcuni lavori rimasti in sospeso. Il momento però non poteva
essere più sfavorevole alla produzione artistica di lusso. La ditta lavorava in perdita col solo
intento di non abbandonare le proprie maestranze.
La guerra imperversava da oltre due anni e le previsioni ottimistiche di molti cedettero il posto
al nero pessimismo di tutti.
Il periodo dell’inverno del 1916 fu eccezionale: la Senna era gelata. Io fui colpito da una
violenta polmonite accompagnata da una forma influenzale e fui costretto a letto per ben 45
giorni, con alta e persistente febbre. Mancava il combustibile e la stufa era spenta. Per avere 10
kg, di pessimo carbone, Cornelia doveva recarsi a Place de l’Operà a far la coda per ore,
esposta a un freddo intenso e più di una volta le capitò che dopo l’interminabile, cruda
aspettativa, arrivato il suo turno, le dicessero che non c’era più carbone, che era tutto esaurito.
Il dottore che mi aveva in cura mi consigliò il rimpatrio al più presto perché, disse,
coll’imperversare del freddo, una eventuale ricaduta poteva essermi fatale.
Cornelia avrebbe terminato i lavori che mi ero impegnato di ultimare. Il mio vicino pittore
Henry Lejeune, col quale avevo stretto ottimi rapporti di amicizia, mi assicurò che l’avrebbe
aiutata, nel caso che durante l’esecuzione dei lavori si fossero presentate difficoltà.
151
Durante il decorso della malattia mia cugina Enrichetta che
risiedeva a Parigi, mi faceva frequenti e affettuose visite, e le sue
prestazioni mi erano di grande conforto, perché dettate da
un’anima generosa e gentile.
Dei due suoi figli, René è l’unico vivente, con Margherita sua
affettuosa moglie. Con questa esemplare coppia di studiosi che
posseggono una rara sensibilità per l’arte e per la natura sono
tuttora in continua corrispondenza e intercorre tra noi una
spiccata affinità di sentimenti, di aspirazioni, di affetto
Gli altri miei cugini Etienne e Denise, il primo conduce una
galleria d’arte, e Denise, musicista geniale e appassionata,
conferma che sull’intera famiglia di questi miei cugini, aleggia
la sensibilità e tutto ciò che è altamente spirituale.
**********-
Immagino che molti tra voi, miei cari amici, si chiederanno come mai, dopo il mio lungo
soggiorno a Parigi, non abbia nulla da dire sui veri, grandi valori e le attrattive che presenta
quella grande città. Che non mi sia commosso davanti alla grandiosità dei suoi monumenti:
(Louvre, Palais Royal, Notre Dame, Pantheon etc. etc.) opere che tanto interesse hanno sempre
destato tra gli intellettuali e gli studiosi. Che non sia stato affascinato dalle attrattive della
grande moda, del Moulin Rouge, del Lapin Agile, del Moulin de la Galette, dei numerosi
ritrovi notturni sui boulevards con i loro lussuosi ristoranti che costituiscono la felicità di
milioni di epicurei.
E’ naturale che questo mi abbia dato grandi emozioni, ma vi dirò, a mia discolpa, che si
contano a centinaia gli scrittori, gli autentici capaci scrittori che hanno descritto abilmente e
con profonda conoscenza, quella città, da cima a fondo e con tanta dovizia di particolari, che
leggendo uno di quegli scritti sembra di avere Parigi sul palmo della mano e lo hanno fatto in
modo così esauriente che sarebbe inutile e superfluo quel che io potrei dire.
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DI NUOVO A GENOVA
Partii molto triste e debolissimo. Oltrepassata Torino la temperatura si fece più dolce e arrivato
a Genova, il clima era primaverile.
Avevo ben pochi soldini tasca e a mio padre non avrei certamente osato chiedergliene.
Dovevo mettermi a lavorare, ma le mie forze erano poche. Avrei dovuto seguire un regime di
alimentazione sana e nutriente. Come fare?
Affittai una bottega in via Francesco Pozzo, ove mi sistemai alla meglio. Decorai un po’
faticosamente alcuni pannelli di legno col mio procedimento e li misi in vista nella vetrina
della mia bottega. Un ingegnere si soffermò lungamente ad osservarli e mi ordinò una camera
da letto per la sua bambina, versandomi un buon acconto. Mi recai subito in una trattoria e
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consumai un ottimo pranzo. L’appetito per fortuna non mi mancava e ciò valse a rimettermi in
forze, abbastanza presto.
Dopo quella cameretta, arredai lo studio di un mio collega, allora capitano di fanteria, in
congedo illimitato, per ferita riportata al fronte.
Fu lento, troppo lento nel corrispondermi le mie spettanze. Dovetti attendere più di tre mesi
per avere il saldo e pertanto le mie condizioni economiche divennero nuovamente disastrose.
Avrei dovuto ricorrere all’aiuto della famiglia o dei parenti ed è proprio quel che non volli fare
e che non ho fatto.
A Genova non c’era Nino Cominetti a salvarmi con la salsiccia e le patate prese a prestito e
nemmeno i refettori per artisti, come a Parigi.
A Cornelia scrivevo solo le parti belle delle mie vicende: buone ordinazioni, decorazioni
riuscitissime e apprezzate dai clienti; ma tacevo sulla razione di due brodini Maggi e di due
michette di pane al giorno.
Per l’apertura di una ”Galleria di arte antica e moderna” a Genova, fu bandito un concorso
nazionale per un cartellone. Partecipai anch’io! Il tema fissato era appunto”Galleria d’arte
antica e moderna” che io svolsi, alternando in bizzarra composizione motivi tradizionali ad
altri ultramoderni. Avevo però ben poca speranza di riuscire tra i premiati.
I concorrenti erano 150! “Comunque - mi dissi – non si sa mai”
Il pittore Lejeune mi scrisse informandomi che l”Exposition d’un groupe d’artistes des
Indipendants” inaugurato nel mese di aprile 1917 alla galleria Goupil, ove io esposi due
quadri, era stata chiusa nel mese di giugno.
Nelle recensioni della stampa fui notato da due grandi critici parigini G. Moreau e G de Cordis.
Il primo scrisse: “Dans la peinture de Manlio Trucco il y a de la folie et de la sagesse”.
Il secondo “Manlio Trucco s’est montré crèateur, artiste sensible, doué de qualités esthetiques
dignes de la hauteur de sa pensée. Son style d’une belle sobrieté de lignes, mais d’une couleur
admirablement nuancèe, est un des meilleurs de l’époque”
Mi sentii lusingato che due noti critici parigini si fossero soffermati sui miei quadri, ma ero
soprattutto fiero di aver esposto accanto a pittori non più viventi, ma presenti colle loro famose
opere:Cezanne, Gauguin, Rousseau, Seurat, Toulouse-Lautrec, Van Gogh, e altri in vita come:
Matisse, Lejeune, Maurice Denis, Marcel Lenoir, Adilon Redon, Serusier e altri.
Gli “Indipendenti” iniziarono le loro esposizioni nel 1886 in traballanti baracche presso il
Pavillon de Flore e più tardi furono obbligati a sloggiare. Passarono a Rue Grenelle, alla
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Terasse des Tuilleries, infine occuparono con immense tende il Quai d’Orsay; ma nel 1917
furono accolti principescamente nei lussuosi saloni della famosa Gallerie Goupil, ciò che
costituì un grande meritato successo.
Ecco che mi giunse inaspettato e improvviso un telegramma della mia salvatrice: “Arrivo
domani mattina ore 11. Cornelia”.
Giunse a Genova in perfetto orario. Ci trovammo reciprocamente malandati e molto pallidi,
ma animati da tanto coraggio.
Insieme ci saremmo presto rimessi in forma e avremmo fatto grandi cose.
Un bel pacchetto di banconote francesi, ricevute dalla ditta “Martine” a saldo del nostro lavoro
contribuì a darci un po’ di serenità.
Incoraggiato dalla presenza dell’ “angelo custode” e rimesso in buona salute, ripresi a
dipingere e la mia mente ritornò a vagare ora nelle sconfinate pianure messicane con i suoi
cavalli selvaggi, ora nelle fitte foreste paraensi con i suoi mansueti indi.
Alla sera ci radunavamo al Caffè della Borsa, con gli amici che ancora non erano stati chiamati
alle armi.
Un giorno, mentre discutevamo animatamente dei nuovi indirizzi dell’arte, entrò nel caffé lo
scultore Giglioli. Si sedette al nostro tavolo e mi disse: “La giuria ha assegnato il primo
premio al tuo cartellone” Subito pensai che scherzasse, ma quando mi assicurai che era
proprio vero, non potei esimermi dall’offrire a tutta la comitiva una coppa di spumante,
Le cose andavano bene. Eravamo contenti. Ci volevamo bene. Cosa avremmo desiderato di
più?
Ma un vago timore si celava dentro di me; sapevo per le dure esperienze vissute che questa
nuova, piccola oasi di serenità, sarebbe presto stata travolta, come lo fu sempre
inesorabilmente nel passato. Cosa si presenterà a demolire la nostra serenità?
Difatti le mie apprensioni si dimostrarono fondate. Non passò nemmeno una settimana che i
territoriali della mia classe vennero chiamati a prestar servizio.
Fui arruolato nel 78° battaglione di fanteria e inviato al “Forte dei Ratti” sovrastante la città. Vi
rimasi pochi giorni.
Un pomeriggio sul tardi un tenente mi mandò in un negozio situato ai piedi della montagna, ad
acquistare dei legacci per le sue scarpe e un vasetto di brillantina. Siccome sarei rientrato al
forte, al calare dell’oscurità, mi fu segnalata la parola d’ordine che avrei dovuto ripetere alla
sentinella di guardia.
Al mio ritorno, già in prossimità della caserma del forte, la sentinella gridò il tradizionale “Chi
va là!”.
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La parola d’ordine l’avevo dimenticata e inutilmente cercavo di spiegare ad alta voce chi ero e
dove ero diretto. Udii in lontananza delle voci e poco dopo la luce di una grande lanterna si
posò sul mio volto. Udii il caporale di giornata che diceva: “Che ti prende, zoticone, vuoi
mettere in subbuglio il forte? Vieni su” e scrisse il suo rapporto.
Il giorno dopo fui rinchiuso in un angusto stanzino, ove rimasi due giorni e due notti a pane e
acqua e il mio letto era un duro tavolaccio – ma la parola d’ordine non venne più alla mia
memoria.
Rimasi altri due giorni al Forte dei Ratti, passeggiavo su e giù per il cortile della caserma,
senza ricevere ordini da nessuno. Poi mi fu consegnato un biglietto stampato che misi in tasca
senza leggerlo, e accompagnato da un caporale, scesi in città e prendemmo il treno che ci
condusse ad Arenzano. Ero atteso da un altro caporale, in una casermetta che sembrava un
appartamento. Vi rimasi undici giorni nel più completo ozio. Non avevo nulla da leggere;
temevo morire di noia! I pochi militari che occupavano quella casermetta (se così si può
chiamare) facevano delle interminabili partite a carte, bevendo e bestemmiando.
Io mi domandavo, senza trovare risposta, cosa avevo fatto al Forte dei Ratti e cosa facevo ad
Arenzano.
Un giorno lo chiesi ad un capitano che entrò accompagnato da un tenente.
“Sei qui in aspettativa” mi rispose e poi mi chiese qual era la mia professione.
“Pittore, - gli dissi –pittore Trucco.
“Allora giù c’è un altro tuo collega, il pittore Clara. Io sono lo scultore Morera” e poi
trascrisse le mie generalità su di un taccuino tascabile.
Il giorno dopo da Arenzano fui trasferito in Piazza d’armi a Genova, al 78° battaglione di
fanteria di cui facevo parte, e aggregato poi alla 2° Compagnia del Genio Militare. Mi
mandarono a Bogliasco, ove rividi il capitano scultore Morera, che m’informò che ero
assegnato al mascheramento dei ponti, in qualità di caposquadra, senza gradi, colla paga
giornaliera di lire 2,50.
“Tu dovrai eseguire scrupolosamente i miei ordini: sei contento? disse.
“Signorsì” risposi.
“Quando siamo da soli, lascia da parte il ‘signor sì’, e diamoci del tu” replicò egli.
La squadra di soldati a mia disposizione era formata da 2 carpentieri, 2 falegnami, 2
imbianchini, 1 muratore e cinque manovali. In tutto 12.
La nostra casermetta era vicina alla spiaggia. I viveri ci venivano corrisposti in natura e
dovevamo arrangiarci per cucinarli. Gli utensili occorrenti al lavoro, legname per impalcature,
assi, colori, scale a pioli etc. etc. erano depositati in un magazzino sottostante alla casermetta.
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Dagli Uffici del Genio Militare mi trasmisero un bozzetto colla riproduzione fedele del ponte e
un altro con l’aggiunta di masse raffiguranti alberi, cespugli, casette etc. al fine di nascondere
il passaggio dei treni e dissimulare le arcate. Accompagnava i bozzetti un foglio con diffuse
dettagliate indicazioni a cui dovevo attenermi. Non mi dispiaceva quel lavoro; era un po’ come
fare della scenografia in grandi dimensioni.
Destinai i miei uomini, ognuno alla sua mansione: i carpentieri a formare le impalcature e a
stendere le assi a terra sul cui piano io tracciavo col carbone le parti da ritagliare colla sega e
questo era compito dei falegnami; i quali poi collegavano e rinforzavano le assi con listelli
trasversali. Intervenivo poi con l’aiuto dell’imbianchino, a tinteggiare sommariamente quelle
superfici nei colori prestabiliti, a base di calce e fissati coll’aggiunta di latte.
I manovali con carrucole e corde le sollevavano sulle impalcature che venivano poi fissate con
bulloni sulle staffe di ferro previamente cementate dal muratore.
Presenziava ai nostri lavori molta gente del paese. Alcune donne, senza dir parola, col loro
aspetto manifestavano la miseria e le intime preoccupazioni che le travagliavano. Tenevano in
braccio o per mano piccoli bimbi tristi, smunti, con occhi cerchiati. Su quelle faccine sbiancate
era evidente l’anemia e la denutrizione.
Gli alimenti scarseggiavano e specialmente il latte per i piccini.
Io non potevo rimanere indifferente a quel triste spettacolo e mi sentii in dovere, spinto dal più
elementare sentimento di umanità, a fare qualcosa per quella povera gente.
Ogni mattina un camioncino veniva a portarci i viveri della giornata e assieme a quelle derrate,
un bidone da 20 litri di latte che doveva essere mescolato alla calce e ai colori per fissare le
tinteggiature.
Più della metà di quel latte lo distribuivo alle donne del paese che avevano bimbi in tenera età.
Ero conscio di mancare alla disciplina e al mio dovere di soldato, ma non potevo sottrarmi ad
un dovere assai più importante ch’era quello di essere umano. Per supplire, quando occorreva,
alla mancanza di latte, aggiungevo ai colori della caseina.
A Bogliasco divenni popolare, godevo della schietta simpatia della popolazione che mi trattava
con confidenza, come se io fossi uno di loro e a me faceva piacere.
Parlando con uno di loro esprimevo il mio rammarico di non poter disporre, nelle ore libere, di
un locale ove avrei potuto ritirarmi a dipingere.
Mi venne incontro una vecchietta.
“Ve la do io una camera, venite a vedere se va bene”.
Era una piccola stanza, ma con buona luce e spazio sufficiente per il cavalletto e i miei colori.
“Va benissimo – le dissi – quanto devo darle?’
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“Quanto dovrete darmi? Non mi fate di queste domande, perché allora non combiniamo
niente”.
Apprezzai molto la sua generosità spontanea e non sapevo più come ringraziarla. Uscì, ma
non tardò a ritornare sui suoi passi.
“Dimenticavo dirvi una cosa – mi disse – le vedete quelle bottiglie? Quelle non sono lì per
guardarle, sono lì per berle; i bicchieri e il cavaturaccioli eccoli là” e se ne andò in fretta,
senza darmi tempo di mettere una parola.
Da Bogliasco a Genova la distanza era breve, ma non potevo recarmi da Cornelia tanto spesso
quanto avrei desiderato, perché il lavoro e la responsabilità verso i soldati della mia squadra,
mi impedivano di assentarmi. Ma Cornelia non si rassegnò a starmi lontana. Venne a
Bogliasco, cercò una camera mobiliata con uso di cucina e la trovò presso un contadino
dall’aspetto rozzo e burbero, con grandi baffoni grigi che gli rasentavano il mento. Il suo nome
era Gerolamo, ma tutti in paese lo chiamavano Giun. Sua moglie, anch’essa anziana, era
Luigina, una donnetta piccola, magra fornita di un lungo naso.
Si rivelarono due buone persone intelligenti e generose (Cancellato: sebbene press’a che
analfabete).
La loro casetta, bianca alla calce, era sul ciglio di una mulattiera in salita, tutta sassi e buche,
cintata da un muricciolo di pietre sovrapposte a secco, che la delimitava dai grandi prati
inclinati e divisi a fasce, ove pascolavano le mucche del Giun. Nella stalla isolata dalla casa se
ne contavano dieci. La conigliera era poco distante e più in basso vi era il pollaio con una
trentina di livornesi bianche che razzolavano nel terreno smosso. Molti pulcini di pochi giorni,
correvano rasentando il suolo del pollaio, come se avessero le rotelle sotto le zampine.
Dietro la stalla e ai lati si susseguivano in salita, quasi a raggiungere il cielo, fasce su fasce,
coperte da ulivi a non finire. L’agiatezza di Giun e di sua moglie proveniva da quelle mucche
e da quegli ulivi. Sui bordi delle fasce basse prosperavano il rosmarino, la salvia, il basilico e
al piano delle stesse Giun coltivava le bietole, gli spinaci, il prezzemolo, i carciofi e le patate;
qualche cespuglio di meravigliose rose e di gerani s’erano intrufolate tra quegli ortaggi, chissà
come e perché: ma ci stavano molto bene. Per i fiori a Bogliasco non esiste l’inverno.
Luigina, verso sera, rannicchiata per terra davanti ad un grande mastello di legno a forma
conica, largo in basso e stretto in alto, armata di un pestello a lungo manico, sbatteva il latte
dentro a quella rudimentale zangola sino a trasformarlo in denso burro, che divideva poi in
tante pallottole e che con un abile colpo della mano prendevano una forma ovale allungata.
Due volte alla settimana metteva in una grande cesta burro, uova, prezzemolo e altri prodotti
dell’orto, se la caricava sul capo e dalla collina scendeva sino alla strada carrozzabile, saliva
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sul tranvaietto a cavalli e si recava a Genova a vendere ai negozi di commestibili i prodotti
della sua terra.
Ritornava con un pollo arrosto, carne, farinata e altro che comperava dai suoi clienti per far
loro una cortesia. Né a lei, né a Giun piacevano i cibi raffinati, preferivano entrambi la zuppa
di cavoli neri con patate o il minestrone di verdure fresche.
Luigina, incurante, deponeva ogni cosa sui sacchi dei fagioli o delle semenze e riprendeva i
suoi lavori. I gatti, intanto, ne facevano scempio, riducendo tutto in spazzatura e se lo
portavano via azzuffandosi tra di loro.
Ricordo il giorno in cui Giun, con un cappellone a cencio, di remota fabbricazione, e un paio
di scarponi di vitellone chiodati, se ne andò sino a Torriglia (a una trentina di Km) con i suoi
passi cadenzati e lenti, valicando alte colline, su ripidi impervi sentieri, con la sua mucca
“Bianchina” che lo seguiva legata ad una cordicella.
Ritornò il giorno dopo: legata alla corda non c’era più la “Bianchina”, ma un vitello. Aveva
fatto il cambio con un mercante di Torriglia.
La casa di Giun, come lo studio di Cominetti, era aperta a tutti; ai cacciatori di passaggio, ai
villeggianti, ai barboni e ai mendicanti.
A questi non rifiutava mai l’alloggio nel fienile, previa la raccomandazione di non accendere
fiammiferi. Un piatto di minestrone e un tazzone di latte con pane, c’era sempre per loro. Se un
barbone….[Ndr. la frase non è completata]
Aveva in casa una buona provvista di legacci, di lucido da scarpe, di fettucce, di Almanacchi
del Chiaravalle che acquistava dai barboni di passaggio, anche senza averne bisogno.
“Bisogna ungere la ruota dei poveri diavoli!” diceva.
Si dice che i contadini sono avari. Giun e Luigina non lo erano affatto. Lavoravano da una luce
all’altra non tanto per guadagnare denaro, quanto per l’amore che avevano per la loro terra, per
mantenere viva la gioia di veder prosperare le loro mucche e le loro colture, così come un
artista vive e gode del suo lavoro lontano da ogni calcolo interessato.
Cornelia si trovava ottimamente tra loro. Erano così buoni e di delicati sentimenti che le
rendevano il soggiorno felice. La scarsità e l’alto costo dei viveri a Genova erano stati per lei
oggetto di serie preoccupazioni.
In casa del Giun era ben altra cosa, c’era abbondanza e varietà di viveri e tutto a prezzi
dell’anteguerra.
Luigina trovava il tempo per cuocere nel suo forno in muratura il pane fatto da lei e non era
raro che fra un pane e l’altro, trovasse posto una grande sfogliata che era la sua specialità
Quando, talvolta a sera, mi recavo da loro ero accolto molto affabilmente. Giun era una
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persona di sentimenti elevati. Generoso, comprensivo e di una rettitudine morale adamantina.
Anche se non trovava tempo per recarsi a messa, la domenica, non mancava di essere un vero
cristiano; caritatevole per sentimenti innati, sapeva confortare i sofferenti e trovare sempre
attenuanti per chi commetteva azioni riprovevoli
”Non bisogna subito scagliare la pietra a chi a sbagliato – diceva - a volte noi stessi siamo
vittime di un impulso che non siamo in grado di frenare e che ci fa commettere una colpa
contro la nostra volontà”.
Il mascheramento del ponte di Bogliasco era, si può dire, ultimato.
Lassù, sull’impalcatura con qualche pennellataccia, accentuavo il volume di qualche cipresso e
sotto un gruppo di persone facevano i loro commenti. Un giorno una voce acuta di giovane
donna gridò:
“Pittoooore !”
“Cosa volete?” gridai a mia volta e lei proseguì.
“Mi piace il cipresso, sembra proprio vero, ma avete dimenticato una cosa?”
“Quale cosa?” chiesi.
“Le palline” replicò. Fu una risata generale. Per accontentarla, aggiunsi al cipresso un buon
numero di palline.
“Va bene così?”
“Volete mettere ? Adesso ha cambiato faccia” disse.
Ma un giorno, nell’ordinare nel magazzino le scorte di legname, caddi malamente a terra da
una scala a pioli e mi lussai il piede sinistro.
Il capitano Morera e un sergente erano presenti per ricevere in consegna i materiali rimasti.
Visto che si trattava di un incidente di una certa gravità, mi fecero portare all’ospedale militare
di Recco.
E’ proprio in quell’ospedale che ho conosciuto il dottor Angelo Mantero, medico chirurgo che
prodigava le sue cure ai degenti, e col quale il destino volle che stringessi una profonda
amicizia che durò circa quarant’anni ed ebbe una sensibile influenza sul decorso della mia vita.
Morì nel 1958 e il dolore mio e di Cornelia per quella perdita fu grande.
In tutte le imprese che ho iniziato dopo il servizio militare, Mantero mi è sempre stato vicino
ad incoraggiarmi, a consigliarmi, a proteggermi e ad intervenire energicamente se qualcuno
tentava di far troppo i propri affari a mio danno. Così gli angeli miei protettori furono due,
questo di Recco e quello di Jersey City. A meno che l’angelo fosse sempre lo stesso, sotto
differenti spoglie.
Ho constatato con gratitudine e anche con rammarico, come non solo Cornelia, ma anche
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Mantero e altri miei fedeli amici, sentissero il dovere di proteggermi, di tutelarmi e di aiutarmi,
per prevenire in tempo il danno che mi sarebbe derivato da qualche mia repentina errata
iniziativa (Cancellato: evitandomi di buttarmi fiduciosamente nei pasticci).
Ho detto anche con rammarico, perché non torna certo a mio merito se alla mia mezza età e
purtroppo ancor oggi, ho bisogno di tutela come se fossi un bimbo. Ciò vuol dire che contro di
me c’è qualche ingranaggio che non funziona.
La moglie di Mantero era una personcina fine, delicata; suonava il piano e il violino e adorava
il suo Angelo.
Lei e Mantero insistettero per ospitare Cornelia nella loro meravigliosa villa a Mulinetti,
circondata da uliveti e aranceti. Dalla sommità della collina, dove sorgeva, si presentava il
monte di Portofino a mare colla sua felice sagoma; la ridente vallata di Ruta e, verso ponente,
la costa della riviera si allungava sino a perdita d’occhio.
Mantero impulsivo e immediato nel prendere una decisione, mi fece salire sulla sua macchina
e via! Sino a Bogliasco, a prelevare Cornelia; così a coltivare l’albero della nostra amicizia,
eravamo in quattro.
Tra le altre buone persone che ebbi occasione di conoscere in quell’ospedale vi fu il capitano
medico Rotondo, che lo dirigeva.
Molto gentilmente volle allestire una mostra di una ventina di miei quadretti nella grande
corsia del fabbricato. Se ne occupò personalmente. Provvide a diramare inviti alle sue
conoscenze e alle persone più in vista del paese e mise tanto impegno a valorizzare i miei
lavori e la mia persona, che, uno dopo l’altro i miei quadretti furono tutti venduti.
Conobbi, sempre all’ospedale, il sergente Don Capurro, eminente teologo, umile, semplice
come un bambino. Aveva proposto per la beatificazione Padre Italo, un religioso ligure di alto
merito. M’incaricò di eseguire un ritratto a olio, in grande formato, di quel reverendo. Le
sembianze dovevo ricavarle da una sbiadita fotografia. Per quanto sia poco piacevole fare un
ritratto di grandezza naturale a colori, col solo aiuto di una fotografia, misi tanta buona
volontà, nell’intento di accontentare Don Capurro, che vi riuscii. Sebbene fosse mia intenzione
fargli omaggio del mio lavoro, tanto insistette, che non mi fu possibile respingere il suo
signorile e generoso compenso.
**************
Mantero e la signora Bianca, io e Cornelia eravamo seduti nella sala di soggiorno. Cornelia e
la Signora Bianca singhiozzavano; io e Mantero, molto preoccupati, stavamo in silenzio.
Nella mattinata di quello stesso giorno, avevamo ricevuto entrambi l’ingiunzione a presentarci
al nostro reparto: io al 78° battaglione fanteria in Piazza d’armi; Mantero non ricordo dove,
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entro il 20 ottobre 1918.
Sapevamo che quelle chiamate avevano lo scopo di rinforzare il nostro fronte. Mantero si
affrettò a prendere le opportune disposizioni in vista dell’imminente partenza. Le nostre mogli
sarebbero rimaste assieme a Villa Mulinetti.
Ma un grande, inaspettato avvenimento cambiò repentinamente la triste nostra situazione e ci
liberò dall’incubo che gravava su di noi.
Proprio in quei giovani vi fu la firma dell’armistizio!
Il foglio di congedo immediato lo ebbi pochi giorni dopo.
(Cancellato: Ero finalmente libero di affrontare nuove lotte e sbizzarrirmi in altre iniziative.
Cornelia vigilava, pronta a frenare le mie ottimistiche valutazioni, nel caso mi si fosse
presentata l’occasione di iniziare qualche nuova impresa. Anche Mantero mi teneva
d’occhio, ma non sapeva cosa avrei potuto fare e, in verità, non lo sapevo anch’io.)
A togliermi da quello stato di incertezza e di dubbi prematuri fu l’invito rivoltomi dal Dr. A.
Vassallo di Bogliasco, titolare della “Vetreria artistica”, per l’esecuzione di due cartoni per
vetrate. Il mio angelo custode Mantero mi accompagnò ma il suo intervento fu superfluo; non
si presentò nessun colpo da parare, perché gli accordi presi col Dott. Vassallo furono
improntati alla massima correttezza. Eseguii nella vetreria stessa due cartoni di grandi
dimensioni; uno rappresentava “San Giorgo a cavallo che uccide il drago” e l’altro un
“Giardino fiorito”.
Durante il periodo dedicato a questo lavoro, tornai da Giun e da Luigina, dove mi raggiunse
Cornelia.
Ritornammo a far progetti su ciò che avremmo fatto per l’avvenire. La frase pronunciata da
mio padre: “Non è coll’arte che tu potrai fa fronte alle dure necessità della vita”, la sentivo in
tutta la sua crudele verità. Infatti il momento che attraversavamo non era certo propizio alle
manifestazioni artistiche.
“Comunque – dicevo a Cornelia – qualcosa dovrò ben fare”. E qualcosa feci.
Ci trasferimmo a Genova. Affittai una bellissima camera mobiliata con uso di cucina ad
Albaro, in Via San Nazaro e uno studio in Via Guerrazzi. Iniziai il mio lavoro disegnando
mobili di forme modernissime, valendomi delle esperienze fatte a Parigi da Poiret. Scelsi i
disegni che più mi piacquero e li affidai, per una accurata esecuzione, a un abile falegname.
Col mio procedimento e con bizzarri motivi, usando materiali di prima qualità, trasformai quei
mobili in originali preziosi oggetti di lusso. Cornelia collaborava con splendido entusiasmo e
tutto andava per il meglio.
Gli amici venivano ogni tanto a trovarmi e il mio speciale lavoro destava in essi curiosità e
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ammirazione.
Vennero i anche i fratelli Peppino e Nino Cominetti, tornati da Parigi.
Bisognava riconoscere al poeta Cominetti, il merito di essere stato un intelligente, entusiasta
animatore; con viva sensibilità per la ricerca e la realizzazione di nuove forme, e colle sue
persuasive parole, mi fu in quel momento di valido appoggio. Fu lui ad indurmi a esporre i
miei mobili e, convinto assertore delle mie modeste capacità, si adoprò che i miei motivi e le
piccole efficaci invenzioni fossero introdotte nel campo della ceramica e tanto fece che vi
riuscì.
In quel periodo la ceramica artistica era, in Italia, in evidente decadenza, limitata alla
riproduzione infelice dei vecchi stili.
Debbo essere grato a Cominetti che mi presentò al poeta Angelo Barile il quale mi accolse
gentilmente nella antica fabbrica paterna di ceramiche, mettendo a mia disposizione personale
e attrezzature.
La fabbrica era situata ad Albisola Capo, vicino al mare.
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L’ULTIMO VOLO
“IL VOLO DELLA FENICE”
Angelo Barile si interessò molto alla mia produzione e ne fui lusingato, perché nell’ambiente
dei miei colleghi era noto per i suoi raffinati gusti. Eseguii per lui alcuni mobili che ancor
oggi conserva nella sua casa.
In quella fabbrica feci i miei primi esperimenti di ceramista e non tardai ad ottenere dei
risultati molto soddisfacenti. Il fuoco esaltava la bellezza dei colori e le brillanti morbide
vernici ne aumentavano la preziosità e il fascino. Il mio entusiasmo si mutò in una vera e
propria passione; pensavo a tutto quel che avrei potuto fare nel vasto campo della ceramica.
I mobili che avevo finiti, grazie a Cornelia e a Nino, furono esposti in Via XX Settembre,
assieme ai primi miei saggi di ceramiche e ad alcune mie tempere.
L’esito fu molto lusinghiero. Oltre alle buone vendite, ebbi delle proposte di associazione per
lo sfruttamento della mia produzione. Le mie condizioni economiche mi spinsero a entrare in
trattative con uno dei proponenti, mentre l’amore alla mia assoluta indipendenza frenava le
mie pericolose iniziative. Consigliato dall’amico Mantero e da Cornelia, che anelava ad una
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vita serena e tranquilla, riuscii in bel modo a svincolarmi dall’eventuale associazione, che del
resto non avrebbe avuto un buon reddito commerciale, non essendovi nel mio lavoro i
presupposti necessari all’industrializzazione. E poi avevo bisogno di tempo libero per la mia
pittura e per le mie ricerche nel campo della ceramica.
Mi trattenni ad Albisola in un modesto alberghetto ove conobbi il giovanissimo pittore Ivos
Pacetti, anch’egli, come me, inseguitore di chimere. Intelligentissimo e volonteroso, superò
situazioni difficili, con tenacia e coraggio e uscì vittorioso da tutte le lotte che dovette
affrontare.
Perseguendo con costanza il suo ideale conquistò uno dei primi posti nell’industria delle
ceramiche artistiche e alte e ben meritate onorificenze.
(Cancellato: Dirò in seguito quel che Pacetti fece all’occasione di una recente mostra di
pittura. [Nota: segue la parola “vedere!..., - [ma sul tema Trucco non vi ritorna più]
Cornelia mi disse che il pittore Cornelio Geranzani, durante il decorso della mia mostra a
Genova, si era soffermato con vivo interesse sulla mia produzione e che sarebbe stato lieto di
conoscermi. Mi misi in contatto con lui e, sebbene, come già ho detto, amassi molto la mia
libertà d’azione e la mia indipendenza non osai scartare a priori le proposte che mi fece per dar
vita ad una piccola fabbrica di ceramiche a carattere prettamente artistico
Era preferibile associarmi ad un mio collega, che stimavo, piuttosto che ad un uomo d’affari.
Almeno, non so se a torto o a ragione, io la pensavo così.
Geranzani si sarebbe dedicato all’interpretazione di soggetti mitologici e religiosi attenendosi
alle forme tradizionali. Io mi sarei sbizzarrito in ricerche ed invenzioni di forme risolutamente
moderne.
La società fu costituita nel 1921 e la denominammo “Fenice”
Ciascuno di noi, in parte uguale, versò in ditta una modesta quota, ma sufficiente per far fronte
alle spese di sistemazione.
Non era ancora trascorso un anno dalla fondazione della ditta, che già la nostra produzione era
apprezzata e riconosciuta con onorificenze e medaglie d’oro, alle mostre a cui partecipammo.
L’intelligente assidua prestazione d’opera delle nostre mogli ci sollevava dai lavori di ordine
tecnico che erano eseguiti da un tornante, da uno sfornaciante, da un verniciatore, un manovale
e alcune signorine. Tutto andava bene. Ma (c’è sempre un ‘ma’ che si insinua come un
vermiciattolo nei petali di una rosa). Ma, dicevo, il recondito scopo di Geranzani era di avviare
bene la lavorazione per cedere il suo posto ad un nipote che si aggirava in fabbrica. Questo suo
nipote, però non dimostrava la minima inclinazione all’arte della ceramica, non solo, ma
quando lo zio lo invitava ad interessarsene e ad impegnarsi in qualche lavoro, si stizziva
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(Cancellato: e in quel pochissimo che faceva) ed era palese la malavoglia e la noia.
Geranzani molto deluso e nella certezza di non poter raggiungere lo scopo prefisso, mi
manifestò il suo desiderio di ritirarsi dalla ditta. Gli restituii il capitale che vi aveva investito e
ci separammo da buoni amici. Così a dare un impulso artistico alla produzione rimasi io solo
e continuai, senza deviazioni ad imprimerle quelle caratteristiche moderne che a me piacevano.
Lo studio e l’interesse che avevo dedicato alle ceramiche
precolombiane degli Aztechi, durante il mio soggiorno in Messico,
mi furono di grande utilità e potei anche valermi con profitto di
quelle tecniche semplici e al tempo stesso così efficaci.
Ricordate quel che ho fatto a Belem per liberarmi dalla monotonia della vita sedentaria, dalle
pratiche d’ufficio e dalla contabilità? Ebbene, gli spiritelli maligni in fecero di nuovo un
brutto scherzo. Mi tesero una trappola così ben dissimulata, che ci cascai dentro. E mi son
trovato (Cancellato: contro la mia volontà) impegolato tra libri contabili da aggiornare,
noiose pratiche amministrative, fasci di fatture e corrispondenze da evadere.
Aumentando la notorietà della ditta si stringevano le catene che mi relegavano in ufficio. Era
un enorme peso al quale non potevo sottrarmi. Anche Cornelia era oberata di lavoro e doveva
mettere a dura prova i suoi nervi per provvedere a tutto il resto.
Dovetti aumentare il personale. I locali ove si svolgeva il lavoro erano insufficienti, c’era
urgente bisogno di maggior spazio. Attraversavamo un periodo di disagio e di disordine e,
appunto per la ristrettezza dei locali, la produzione andava a rilento.
La situazione s’accentuò e divenne addirittura allarmante in seguito all’inaspettato
insediamento i fabbrica dello scultore Arturo Martini.
Mi fu presentato dall’architetto Labò e lo accolsi fraternamente.
Martini voleva fare in ceramica dei gruppetti a soggetto sacro, mitologico e profano. Incapace
di controllare i suoi istinti primordiali, senza fare complimenti senza pensare che avrebbe
potuto ostacolare il normale lavoro della fabbrica, cominciò ad impartire ordini al personale.
Molti erano mobilitati e dovettero mettersi a sua disposizione, e finì per creare un vero caos.
La situazione divenne per me molto imbarazzante.
Il mio impulso fu quello di reagire, opponendomi a quella sua incosciente e indisciplinata
irruenza, ma quando vidi i suoi gruppetti modellati con tanta bravura e così originali, capii che
dovevo lasciargli fare quel che voleva e mi sentii subito disarmato.
Ancora una volta l’arte e lo spirito ebbero la meglio sulle considerazioni di ordine pratico.
Dipinsi molto volentieri il suo grande presepio e i molti gruppetti che furono poi cotti nelle
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mie fornaci. Provai un vero piacere a seguire col pennello i volumi di quelle figurine
tratteggiate con sorprendente sintesi, ove l’audace e originale composizione e la naturalezza
dei movimenti era accompagnata dalle significative espressioni dei volti, appena
magistralmente accennati.
Due suoi presepi e tutti i gruppetti a soggetto vario, sono stati per la prima volta, tradotti in
ceramica nella “Fenice”, colla mia affettuosa fraterna collaborazione.
Caro Martini! Ho qui sott’occhio le lettere che mi hai scritto da Parigi e mi soffermo su queste
tue frasi che sono rimaste incise nel mio cuore:
“questa fabbrica era sorta con alti ideali e poi deve chiamarsi “Fenice” perché la fabbrica
che li crea è questa, non solo, ma dà gratuitamente anni di esperienza e fatiche che si
potrebbero chiamare impagabili.
T’invierò domani altri modelli. Sono contentissimo che tutto ciò sia uscito bene dal fuoco,
tanto i tuoi bei vasi e le mie “Vie Crucis”, che sono curiosissimo di vedere. Ciao, ciao, ciao,
mi manca la tua cara compagnia, ma spero rivederti presto…
Per meglio evidenziare l’estrosa e la complessa personalità del
Martini, trascrivo qui il contenuto di due lettere che egli mi inviò
in quel periodo :
Da Anticoli Corrado:
“Caro Trucco, sono qui da una settimana e lavoro come un negro
per l’americano.
Ti ho spedito una lunga pezza di tessuto rustico di lino, che queste
belle donne tessono per far le lenzuola. Tu, vestito di bianco stai
bene. Fatti fare un bel giaccone con ampie maniche, i pantaloni
larghi in cintura e stretti alla caviglia. Mettiti qualcosa in capo,
un turbante, una corona o magari uno straccio. Così sullo sfondo
della tua grotta nera, tra i canti delle tue allieve, il (sic)
scintillio e i riflessi delle tue belle ceramiche, tu sembrerai davvero
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quel che sei: un re da favola.
Mi manca il tuo mondo. Ti abbraccio e salutami la tua signora.
Firmato Tuo Martini.
+++++
Da Parigi:
Non basta saper dipingere, caro Trucco; per acquistare notorietà e
fama devi scendere in piazza, travestito da clown, col viso
impiastricciato di bianco, nero e rosso e gridare a tutto fiato che
la più bella pittura è la tua.
Serviti del megafono, che la tua voce sia udita anche dai sordi. So
che non sei capace di far questo e finirai tranquillamente, senza
notorietà e senza gloria, nel folto delle tue grandiose foreste
amazzoniche, tra i tuoi indi e le vaste distese d’acqua, ove, sta pur
certo nessuno verrà mai a interrompere il tuo sogno e ben pochi
sapranno che sei esistito-
Un affettuoso abbraccio
Firmato Martini
Troppo presto ci hai lasciati, caro Martini! Avevi ancora molto da dirci; della tua stupenda
fiaba ce ne hai raccontato solo una parte.
**********
Ed ecco che comparì lo scultore Francesco Messina, il mio amico dei tempi un po’ lontani di
Genova, del Caffè Milano.
Non tocca a me fare l’apologia di questo grande artista, Le sue opere e i suoi grandi meriti,
noti a tutti, parlano e parleranno sempre di lui. Il suo “curriculum vitae” è un alto esempio di
virtù e moralità.
Messina non aveva l’irruenza e la paradossale loquacità di
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Martini. Il tumulto dei suoi sentimenti, della sua fervida
immaginazione e i semi del suo genio, erano dentro di lui e li
esternava nelle sue possenti opere, ove tutte le espressioni dei
sentimenti umani, sono magistralmente descritte.
Il giovane che ho conosciuto a Genova, di poche parole, poco
socievole, aveva nei suoi occhi malinconici, una espressione
profonda, indecifrabile e, già allora, s’intuiva che qualcosa di
grande lievitava nel suo animo. Quel che ha saputo fare, con le
sue sole forze, ha del prodigioso. Io sono fiero d’essere suo amico.
Non so se Messina e Martini già si conoscessero prima di quell’incontro ad Albisola, ma
ricordo che in quel periodo intercorreva tra loro una fraterna alleanza spirituale.
Più tardi ebbi l’occasione e la gioia di tradurre in ceramica alcune opere di Messina.
Questi felici incontri ravvivarono la latente passione per la mia arte e auspicavo che venisse il
tempo di potermici dedicare totalmente.
La situazione migliorava e peggiorava allo stesso tempo. Il buon nome della produzione della
“Fenice” si estendeva. Giungevano dalle maggiori città italiane e dall’estero importanti
ordinazioni.
L’architetto Giò Ponti mi suggerì di esporre un gruppo delle mie ceramiche alla Triennale di
Milano.
L’esito non poteva essere più lusinghiero. Alla “Fenice” fu conferita la medaglia d’oro e tutte
le ceramiche esposte nel mio stand furono acquistate in blocco dalla grande ditta Altman di
New York.
Ciononostante lo scontento di Cornelia e mio aumentava perché ci rendevamo
conto che, nostro malgrado, la produzione della ceramica
perdeva qual carattere artistico artigianale a cui noi tanto
tenevamo, per entrare in un campo prettamente industriale.
Pertanto io accarezzavo l’idea di trovare qualcuno disposto a
rilevare questa nostra attività.
Per mancanza di spazio dovemmo trasferire la fabbrica in un vasto fabbricato in Via Aurelia e
quel trasferimento fu causa di nuove preoccupazioni. S’impose la sistemazione di nuovi grandi
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forni, l’impianto di riscaldamento, la pavimentazione nuova di tutto il vasto pianterreno,
l’ammodernamento delle attrezzature e l’ulteriore aumento delle maestranze.
Per far fronte alle incombenti, pressanti, crudeli mansioni amministrative e contabili dovetti
ricorrere all’aiuto di un ragioniere e di una signorina. C’era per me tanto da impazzire!
Sarà forse per colpa degli spiritelli maligni o del destino o più probabilmente della mia totale
mancanza di chiaroveggenza (Cancellato: o del mio scarso buon senso o per quel che più vi
piace, sta però il fatto che le cose avevano preso una tale brutta piega che mi era) , ma la
situazione diveniva sempre più insostenibile e io mi vedevo preclusa ogni via d’uscita.
Cosa fare per tagliar la corda?
Mi venne un’idea: Prepararci prima un gradevole rifugio, un’oasi tranquilla, ove stabilirci
definitivamente, non appena ci fosse possibile, districarci da quel ginepraio e da quella crudele
prigionia (Cancellato: che sotto certi aspetti, mi riportava alla mente Fort Lee).
L’amico architetto Labò disegnò per la mia casa un progetto semplice, ma con felici trovate
architettoniche.
La costruzione della palazzina in un bell’appezzamento di terreno confinante con la via
Aurelia fu per noi un piacevole diversivo e pregustammo la gioia di quando l’avremmo
occupata.
Il tempo passò rapido: l’abitammo nel 1928. Questo fu il primo passo per preparare la nostra
fuga dalla “Fenice”, il secondo fu più ambizioso.
Volli una bella, grande sala da esposizione con ampie vetrine sulla via Aurelia, volli anche i
locali per impiantarvi la lavorazione personale della ceramica. Sebbene con non pochi sacrifici
e con un certo ritardo sulle mie previsioni, il mio desiderio fu realizzato.
Nella palazzina avevo un accogliente studio per la mia pittura, che più di ogni altra cosa
occupava la mia mente. Attiguo alla sala d’esposizione c’era il mio laboratorio, dove senza
assilli, in tutta calma, avrei creato nuovi motivi e nuove tecniche per la ceramica. Accanto a
me c’era sempre Cornelia, attenta e vigile, pronta a infondermi coraggio qualora venisse a
mancarmi.
L’unico problema (problema di difficile soluzione) era quello di sganciarmi dalla “Fenice”.
Ma ecco che arriva il nostro Angelo protettore sotto le sembianze del dottor Angelo Mantero.
Venne accompagnato dal signor Vittorio Daglio, suo amico.
Intavolammo una lunga conversazione che, guidata da Mantero, sfociò sulla eventuale
cessione della mia azienda. Il Signor Daglio non escluse la possibilità di esserne il rilevatario,
non per lui stesso, ma per il maggiore dei suoi figli che, prossimo alle nozze, desiderava
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sistemarsi.
Pochi giorni dopo difatti ritornò accompagnato dal figlio Ernesto e durante gli ulteriori
colloqui e trattative, io, nel timore di non raggiungere l’agognata soluzione, non tenni in alcun
conto, né del capitale che vi avevo investito, né del buon nome della “Fenice”, né
dell’avviamento. Mi accontentai della divisione materiale in due parti, di tutte le esistenze in
esse, compresi i debiti e i crediti: una parte per il Signor Daglio e una parte per me.
Sono certo che qualsiasi altro al mio posto avrebbe trovato una definizione più vantaggiosa;
ma ognuno, secondo le circostanze e i momenti che si presentano, agisce a modo suo.
Ciò che mi premeva in quel momento era di concludere presto con un foglio di “libera uscita”,
sancito davanti al Notaio (Cancellato: aveva per me un valore inestimabile).
Ernesto Daglio divenne unico titolare e proprietario della “Fenice”.
E poi io nero contento che la “Fenice” fosse guidata da lui, giovane molto assennato,
intelligente, volonteroso e non gli mancava il necessario senso pratico e positivo, che era,
invece, purtroppo assente in me.
Finalmente eravamo liberi! Festeggiammo l’avvenimento con Mantero e Giun.
Cominciammo a lavorare quasi allegramente, creando intorno a noi un clima di tutta serenità e
il mio lavoro che non aveva nessun carattere industriale mi dava molta soddisfazione.
(Cancellato: canterellando, fischiando e lasciando libera corsa alle nostre spontanee risate).
Non avevamo personale fisso. Ogni tanto ricorrevamo alla indispensabile prestazione d’opera
del tornante che veniva nelle ore libere e poi se ne andava per i fatti suoi. A tutto il resto
pensavamo noi con l’aiuto di Ida una fedele nostra ex impiegata della “Fenice” ( e mia
intelligente allieva).
Attraversammo un nuovo felice periodo di beata tranquillità, non disgiunto da rilevanti
manifestazioni morali (Cancellato: anche quelle di carattere economico erano consolanti).
La migliore, la più riuscita mia riproduzione di ceramiche è uscita, senza dubbio da questi
ultimi modesti impianti. Il mio nome era divenuto assai noto e molti furono i visitatori della
mia sala d’esposizione.
(Cancellato: Restituii a mio padre (un po’ in ritardo) a mezzo di assegno bancario, le
ventimila lire avute in prestito molti anni addietro ed ecco la sua risposta: “Sono contento
che tu, sebbene in ritardo, abbia fatto il tuo dovere. Ti restituisco l’assegno, che allego alla
presente; Vorrai, coll’importo dello stesso offrire a nome mio, a Cornelia, un regalo di suo
gusto. Mi congratulo con te augurandoti che la migliorata tua situazione economica si
mantenga ferma”)
Ora disponevo di molto tempo da dedicare alla pittura. Conclusi alcuni grandi quadri ispirati
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dai sogni e dai ricordi della mia adolescenza.
Le cose andavano troppo bene perché potessero durare. Il mio innato ottimismo fu
bruscamente offuscato da un fatale avvenimento: scoppiò l’ultima crudele guerra con tutti i
suoi orrori!
Questa volta non si dovevano incolpare gli spiritelli, ma piuttosto Marte colle sue potenti armi
che si divertiva a scorazzare da una parte all’altra del mondo, lanciando fuoco e fulmini su
questa povera umanità, spargendo sciagure, fame e lutti, un po’ ovunque.
L’inevitabile carestia l’abbiamo provata anche noi, ma non eravamo certo i soli a soffrire.
All’umanità quasi intera (Cancellato: ad una gran parte degli albisolesi, per l’una o per altra
causa) toccò uguale o peggiore sorte. Ad Albisola poi non essendo una zona agricola
(Cancellato: all’infuori di qualche oliveto e di pochi ortaggi, non si poteva contare sui
cereali)) non toccò sorte migliore. Per difesa contro questo stato di cose zappai e seminai a
grano il mio piccolo terreno, ma quando raggiunse quasi la maturazione, un vento di
eccezionale violenza e pioggia di lunga durata, mutarono in orizzontale la naturale posizione
verticale del grano; le spighe avvizzirono e marcirono dove si erano coricate.
Avevo contemporaneamente preso in affitto, a poca distanza dalla nostra abitazione un lotto di
500 mq, di terreno al riparo dai venti e vi seminai grano “mentana”, ma anche gli uccelletti
avevano fame e il raccolto finì quasi tutto nei loro becchi e la mia parte fu ridotta a pochi
chili. Si vede che le mie iniziative di agricoltore erano destinate a non aver successo. Dopo
infiniti, disastrosi avvenimenti, noti a tutti, ritornò la pace e la speranza.
Malgrado quella lunga, estenuante parentesi, io e Cornelia rimanemmo in assetto di guerra, ma
per riprendere un’altra battaglia: la nostra, quella dura, lunga battaglia in cui fummo
impegnati, con alterne vicende, per grande parte della nostra vita. Ne uscimmo finalmente
vincitori!
Ampliai la costruzione del mio laboratorio con grandi sale, locali adatti per eventuali
esposizioni e ci siamo finalmente assicurata una vecchiaia tranquilla a coronamento di oltre
sessant’anni di lotte durissime, di patemi d’animo, di illusioni e delusioni continue, nel decorso
tumultuoso di questa nostra vita. L’ideale, accanitamente perseguito, fu alla fine raggiunto. Un
po’ tardi, anzi troppo tardi! Ma che importa? Vittoriosi lo siamo!
Interrompemmo la lavorazione della ceramica e io potei
dedicarmi unicamente alla mia pittura, nello studio che avevo
preparato. E’ li che nacquero i quadri che maggiormente
apprezzo: “La leggenda delle Icamibias”.”Il lago di Arary”,
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“Foresta col gatto tigre”, “Ritorno da caccia” e altri, sempre
ispirati al suggestivo ambiente amazzonico, ricostruito a
distanza, con elementi non veristi, chiari ricordi e misteriosi
sogni, che confermano la prodigiosa ricettività degli anni
dell’adolescenza. Non so se sarò riuscito a raggiungere in pieno il
risultato che mi ero prefisso, ma so di aver lavorato con grande
amore, con poca fretta, usando una tecnica analitica, che ritenni
indispensabile alla descrizione di quell’intricato fantastico
mondo e che, dopo tutto, ha
dato origine ad un nuovo mezzo di espressione.
173
COMMIATO
Nel chiudere questo racconto, rivolgo un affettuoso saluto e ringraziamento a tutti i miei cari
amici in vita o trapassati che tanto hanno fatto per noi e per valorizzare il mio lavoro. A
dissipare e ad annullare le voci che oggi corrono sulla presunta incomprensione tra giovani e
vecchi, io sono lieto di poter affermare che tra i numerosi miei amici, anche recentemente la
più grande comprensione e il più valido e spontaneo appoggio e aiuto lo abbiamo proprio
avuto dai giovani.
174
Prima di iniziare il nostro ultimo viaggio senza ritorno, abbiamo voluto sancire in modo
preciso la nostra volontà di destinare queste nostre sale e locali a Museo per accogliere oltre i
miei quadri e a talune mie ceramiche alcuni dei preziosi gioielli che i miei colleghi, questi
cari mangianuvole, pittori, scultori e ceramisti hanno sparso con tanta generosità su questa
bella terra ligure.
Ciò varrà a mantenere sempre accesa una fiammella in omaggio all’Arte!
Albisola Capo, 31 dicembre 1973.
===================================================
[Il 4 gennaio del 1974 muore Cornelia ad Albisola e pochi mesi dopo, il 15 novembre, Manlio
Trucco muore a Genova . Entrambi sono sepolti nel Cimitero “La Pace” di Albisola. Sulla
lapide ci sono solo i nomi].