Vendetta e giustizia nella tragedia e nella commedia greca III lezione:
Medea (431 aC) di Euripide --> vendetta
Sergio Zangirolami
e voce recitante
Università della Terza Età Montebelluna aprile-maggio 2012
Euripide (in greco, Ευριπίδης; in latino, Euripides) (Salamina, 23 settembre 480 a.C. – Pella, 406 a.C.) fu un drammaturgo greco antico.
È considerato, insieme ad Eschilo e Sofocle, uno dei maggiori poeti tragici greci.
Di Euripide si conoscono novantadue drammi; sopravvivono diciotto tragedie di cui una, il Reso, è generalmente considerata spuria, e un dramma satiresco, il Ciclope.
I drammi superstiti sono 29:
Alcesti (Ἄλκηστις / Alkestis) del 438 a.C.;
Medea (Μήδεια / Mèdeia) del 431 a.C.;
Ippolito (Ἱππόλυτος στεφανοφόρος / Ippòlytos stephanophòros) del 428 a.C.;
Gli Eraclidi (Ἡρακλεῖδα / Herakleìdai);
Troiane (Τρώαδες / Troàdes) del 415 a.C.;
Andromaca (Ἀνδρομάχη / Andromàche);
Ecuba (Ἑκάϐη / Hekàbe) del 423 a.C.;
Supplici (Ἱκέτιδες / Hikétides), del 414 a.C.;
Ione (Ἴων / Ion);
Ifigenia in Tauride (Ἰφιγένεια ἡ ἐν Ταύροις / Iphighèneia he en Taùrois);
Elettra (Ἠλέκτρα / Helèktra);
Elena (Ἑλένη / Helène) del 412 a.C.;
Eracle (Ἡρακλῆς μαινόμενος / Heraklès mainòmenos);
Fenicie ( Φοινίσσαι / Phoinìssai) del 410 a.C. circa;
Oreste (Ὀρέστης / Orèstes) del 408 a.C.;
Ifigenia in Aulide (Ἰφιγένεια ἡ ἐν Αὐλίδι / Iphighèneia he en Aulìdi) del 410 a.C.;
Le Baccanti (Βάκχαι / Bàkchai) del 406 a.C.;
Ciclope (Κύκλωψ / Kùklops) (dramma satiresco);
Reso (Ῥῆσος / Rèsos) (probabilmente spuria).
Da un Saggio di Gennaro Tedeschi dell’UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRIESTE 2010, ricaviamo una lunga citazione:
Euripide appare distaccato dalla polis non perché fu un cittadino
meno impegnato di Eschilo, ma perché il suo impegno fu
qualitativamente diverso: egli operò in un periodo di straordinari
mutamenti economici, sociali, politici, etici e culturali, nei
confronti dei quali si mostrò piú sensibile di Sofocle.
La grandezza di Atene dal tempo delle guerre persiane si era
accresciuta sia con il rafforzamento della democrazia, di cui Pericle
dal 461 a.C. divenne il piú autorevole esponente, sia con il
progressivo espansionismo della sua politica imperialista.
Gli Ateniesi si preoccuparono di giustificare la loro egemonia
elaborando una storia partigiana della loro polis, secondo la quale la
superiorità della politeia democratica appariva tra l'altro fondata su
principî etici innati: il rispetto della giustizia, la temperanza, la
modestia, il disprezzo delle mollezze e degli agi, la deferenza per i
padri, la venerazione delle divinità.
Il sapiente in quel contesto doveva considerarsi innanzi tutto un
cittadino al servizio della comunità e mediatore di quelle virtú su cui
poggiavano le istituzioni patrie.
l'elogio dell' ισότης (eguaglianza) e della μετριότης (giusta misura)
declamato dalla nutrice, l'esaltazione di Atene cantata dal Coro,
che ci testimonia la sua profonda adesione alla concezione periclea
della polis, gli interventi di Medea sulle spinose questioni relative
alla condizione della donna e dei sapienti propugnatori di nuove
dottrine.
I continui riferimenti alla società del suo tempo mettono in
evidenza quanto fosse immerso nella realtà politica, culturale e
sociale, e con quale sensibilità reagisse ai mutamenti che
avvenivano all'interno della polis.
In Euripide non sono piú i valori eroici a emergere, anzi essi
vengono sviliti nella dimensione del quotidiano in cui si trovano ad
agire i personaggi.
La vicenda di Medea diventa la storia di una donna barbara,
proveniente dalla Colchide, una terra lontana e incivile: è una
persona diversa e, cosa ancor più grave, una maga che Giasone ha
preso in sposa per proprio tornaconto.
Nella città di Corinto, Medea insieme ai suoi figli è vilmente
abbandonata quando il capo della spedizione argonautica riceve
l'offerta di contrarre matrimonio con la figlia del sovrano Creonte e,
di conseguenza, il trono.
La protagonista si trova in balìa di un avverso destino lontana dalla
terra natale, senza un parente che possa aiutarla, in terra straniera,
dove nessun amico la può consolare.
Priva del conforto di tutti, disperatamente sola, dà sfogo alla
propria implacabile collera, infliggendo ai nemici una durissima
punizione.
Dopo avere causato la morte della nuova moglie di Giasone e del
re Creonte, pur combattuta interiormente e logorata fino all'estremo
dall'amore materno, mette in atto il disegno di uccidere i figli per
colpire il fedifrago Giasone nel modo piú crudele possibile.
In definitiva la tragedia, nella quale il tradizionale dato cultuale
della vicenda emerge soltanto nel finale, si accentra sul motivo del
talamo abbandonato, sulla lacerazione dell'unità amorosa tra
Giasone e la protagonista.
Medea trasforma la propria passione in un'implacabile aggressività,
che contrasta drammaticamente con l'amore materno nei confronti
dei figli.
Cosí, dopo tante prove di affettuosa devozione e di incondizionato
amore, l'odio pervicace, subentrato all'impulso erotico, la porta a
dominare gli eventi.
Alla fine con la sua forte aggressività la protagonista ha il
sopravvento su Giasone, la cui condotta durante tutto il dramma si
rivela sostanzialmente subalterna e passiva.
Questo contrasto fa altresí emergere l'opposizione tra due antitetici
sistemi di valori, in cui la nozione di giustizia si estrinseca in
formule e interpretazioni inconciliabili:
Giasone antepone al diritto coniugale e interpersonale quello della
parentela, poiché ricerca per sé e i figli una vantaggiosa condizione
sociale attraverso il matrimonio con la figlia del re Creonte;
Medea, invece, agisce appellandosi al codice della giustizia
reciprocitaria secondo cui il consorte deve pagare la pena per non
avere tenuto fede all'impegno coniugale.
Forte di questa concezione, condivisa anche dal Coro, lei applica la
lex talionis, ma al tempo stesso si rende colpevole di ύβρις
(prepotenza, tracotanza) poiché, sfidando le norme sociali e la
pubblica opinione, supera la giusta misura coinvolgendo nella
vendetta anche vittime innocenti.
Il dramma non propone un effettivo sbocco positivo, in quanto si
chiude paradigmaticamente con la messa in evidenza del senso di
una realtà in piena crisi e al tempo stesso con la manifestazione
della natura divina di Medea che, come deus ex machina, fonda il
culto dei suoi figli e stabilisce i riti in loro onore a Corinto.
In alcune opere composte tra i secoli XII e il XIII, la donna colchide
fu evocata come emblema della spietata perversione femminile,
secondo la concezione, diffusa in quell'epoca e divulgata in molti
scritti, secondo la quale la donna era causa e origine di ogni male.
Tuttavia, pur essendo considerata in talune opere donna innamorata
e appassionata (Herbort von Fritzlar, Liet von Troje, 1195 ca.),
ideale di eroina (Konrad von Würzburg, Der Trojanerkrieg), donna
forte e generosa, moglie leale, giovane intelligente dallo smisurato
sapere, maestra in tutte le scienze e arti liberali (Jean le Fèvre, Livre
de Loesce, 1380-1387), o allegoria della salvezza cristiana (Ovide
moralisé, 1291-1328),
non ne tacquero lo scellerato infanticidio né Jean de Meung nella
seconda parte del Roman de la Rose (1270 ca.), né Giovanni
Boccaccio nel XVII capitolo del De mulieribus claris (De Medea
regina Colcorum, 1361), né infine la medesima de Pizan nell'Epistre
au Dieu d'Amours (1399).
Dante Alighieri nel XVIII canto dell'Inferno mise Giasone tra i
seduttori nell'ottavo cerchio delle Malebolge per avere ingannato
Ipsipile e Medea (vv. 86-96).
il francese Jean Anouilh (1910-1987) in Médée (1946), una pièce
noire rappresentata a Bruxelles due anni dopo, trasferí nel mito
temi e figure a lui care: a Giasone, arreso al quieto vivere dopo
peripezie di ogni sorta, che gli hanno fatto prendere coscienza dei
limiti, entro cui è costretta la propria esistenza, si oppone Medea,
che in ogni circostanza ricerca la libertà da ogni compromesso e
dagli obblighi della vita borghese.
Quando la protagonista si avvede delle profonde differenze, che la
separano dall'uomo con cui ha trascorso gli ultimi dieci anni della
sua vita, uccide se stessa e i propri figli nel rogo del suo
carrozzone da zingara.
Ancora in Italia nel 1949 Tatiana Pavlova portò in scena la tragedia
in due tempi La lunga notte di Medea dello scrittore calabrese
Corrado Alvaro (1891-1956), con le musiche originali di Idelbrando
Pizzetti.
Al pari del dramma di Anouilh, la Medea di Alvaro scaturiva
dall'esperienza dolorosa delle persecuzioni razziali avvenute durante
la guerra da poco conclusa.
Nel dramma la protagonista si presenta come esule e straniera,
irriducibilmente diversa, pertanto esclusa e respinta dalla comunità
che la ospita.
Con l'intento di rimuovere la colpa da Medea, lo scrittore chiama in
causa inevitabili e determinanti ragioni esterne, quali il pregiudizio
razziale e l'intolleranza umana degli abitanti di Corinto.
L'infanticidio scaturisce da un esasperato senso di pietà materna, da
un'estrema necessità di proteggere e di amare.
il regista poeta e scrittore Pier Paolo Pasolini creò nel 1969 una
trasposizione cinematografica della tragedia euripidea, girandola
nella laguna di Grado, nella quale l'atleta Giuseppe Gentile
impersona Giasone e la cantante soprano Maria Callas interpreta il
ruolo della protagonista.
In conclusione si deve prendere atto della straordinaria vitalità che
una tra le protagoniste dell'immaginario letterario della cultura
occidentale ha avuto e continua tuttora ad avere in special modo
nella drammaturgia, da quella greco-romana a quella contemporanea
(si pensi agli adattamenti americani, africani, asiatici), non soltanto
grazie al capolavoro euripideo ma anche per merito di quanti, in tutti
i tempi e in tutte le culture hanno imitato, parodiato, emulato,
rielaborato l'opera del grande tragediografo greco.
http://www.sslmit.units.it/crevatin/Documenti/Medea2010.pdf
La scena si svolge a Corinto, a sud della Grecia, dove Medea, nata
nella lontana Colchide, ai confini con la Turchia e l'Armenia, suo
marito Giasone ed i loro due figli vivono tranquillamente.
Medea ha aiutato il marito nell'impresa del vello d'oro,
abbandonando così il proprio padre, Eeta.
Il vello d'oro era, secondo la mitologia greca, il vello di ariete d'oro
capace di volare, che Ermes donò a Nefele e che fu, in seguito,
rubato da Giasone.
Dopo dieci anni, però, Creonte, re della città, vuole dare sua figlia
Glauce in sposa a Giasone, dando così a quest'ultimo la possibilità
di successione al trono.
Giasone accetta, abbandonando così sua moglie Medea.
brano n.3 Sarah Ferrati con Annibale Ninchi 1958
- incontro con Egeo (2.29’-7.20’)
branbrano n.1 con la Callas, film di Pasolini 1969 - piani di
vendetta (- 1.35’)
Vista l'indifferenza di Giasone, malgrado la disperazione della
donna, Medea medita una tremenda vendetta.
Fingendosi rassegnata, manda in dono un mantello alla giovane
Glauce, la quale, non sapendo che il dono è pieno di veleno, lo
indossa per poi morirne fra dolori strazianti.
Il padre Creonte, corso in aiuto, tocca anch'egli il mantello,
morendo.
brano n.2 con M.Angela Melato 1989
- incontro con Giasone (5.25’- 6.20’)
Ma la vendetta di Medea non finisce qui.
Per assicurarsi che Giasone non abbia discendenza, uccide i figli
avuti con lui, condannandolo all'infelicità perpetua.
Vediamo qualche verso con cui Medea si rivolge alle donne di Corinto, generalizzando a tutte le donne la sua esperienza :
Fra quante creature han senso e spirito,
noi donne siam di tutte le piú misere.
Ché, con profluvii di ricchezze prima
dobbiam lo sposo comperare, e accoglierlo
- male dell'altro anche peggiore - despota
del nostro corpo. E il rischio grande è questo:
traduzione di Ettore Romagnoli
se sarà tristo o buon: ché separarsene
non reca onore alle consorti, né
repudiar si può lo sposo.
Quando in casa si cruccia, un uomo può
uscir di casa, e presso un coetaneo,
presso un amico, cercar tregua al tedio:
noi, di necessità, sempre allo stesso
uomo dobbiamo essere intente.
Dicono
che passa in casa, e scevra dai pericoli
la nostra vita, e invece essi combattono;
ed hanno torto: ch'io lo scudo in guerra
imbracciare vorrei prima tre volte,
che partorire anche una sola.
con un giudizio che considera colpevole l’intera vita della donna:
E poi,
donne nascemmo, al bene oprare inette,
ma d'ogni male insuperate artefici.
Giasone le rinfaccia il bene che ha ricevuto da lui:
Che mi salvassi, qual ne sia la causa,
male non fu; ma dalla mia salvezza
piú ricevesti che non desti; e adesso
te lo dimostrerò.
Primo, ne l'Ellade
abiti adesso, e non in terra barbara;
e sai giustizia, e l'uso delle leggi,
e non l'arbitrio della forza;
e tutti
gli Ellèni sanno che sei dotta, e sei
venuta in fama: se abitato agli ultimi
confini avessi della terra, niuno
fatto di te parola avrebbe.
e infine l’orribile strazio, con lo scempio dell’uccisione dei figli, verso cui Medea si intenerisce mentre si prepara ad ucciderli:
O figli miei, porgete
la vostra mano, alla madre porgetela,
in tenero commiato. O dilettissima
mano, o sembiante, o capo dilettissimo
dei figli, o nobil volto, a voi sorrida
fortuna; ma laggiú: ché tutto il padre
quassú v'ha tolto.
ma la passione tradita deve ottenere uno sfogo nella vendetta, anche la più atroce:
Su, dunque, àrmati, o cuor. Ché indugi? è vile
non far ciò che bisogna, anche se orriblle.
Su, sciagurata mano mia, la spada,
stringi la spada, e muovi a questo truce
termin di vita, non esser codarda,
né dei fig1i pensar che d'ogni cosa
ti son piú cari, e che li desti a luce.
Questo sol giorno i figli tuoi dimentica,
e poscia piangi. Anche se tu li uccidi,
cari sono essi, e sciagurata io sono.
O abbracci soavissimi,
morbida cute, ed alito soave
dei figli! Andate, andate! Io non ho forza
di piú guardarvi, e son vinta dai mali.
Intendo ben che scempio son per compiere;
ma piú che il senno può la passione,
che di gran mali pei mortali è causa.
Biblio:
Friedrich Nietzsche “La nascita della tragedia”, Adelphi 2011
Cinzia Bearzot “La giustizia nella Grecia antica”, Carocci 2011
Euripide “Medea”, testo greco a fronte, Bur 2010