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ANDREA STRACCHI

COLPO SECCO

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COLPO SECCO Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-630-1 Copertina: Immagine Shutterstock.com

Prima edizione Dicembre 2013 Stampato da

Logo srl Borgoricco – Padova

Questo romanzo è opera di fantasia, ogni riferimento a fatti o personaggi è da ritenersi puramente casuale.

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Ogni pezzente fa affari con il mondo. E finisce per pagare a rate un divano o una ragazza.

(The Clash)

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Accendere lo schermo del televisore era come infilare un ago nella vena più grande del mio braccio sinistro. Sentire il composto chimico che entra nella pelle, penetra e bru-cia, sale. Fino ad arrivare al cervello. E poi l’esplosione. Come il primo disco dei Velvet Underground. Da lasciarti senza fiato. E io di fiato ne avevo poco. Bastava a malapena a sostenermi in vita. Sostenere? Che cazzo c’era da sostenere? Tanto valeva lasciarsi andare in orizzontale sul letto e aspettare. Con i pensieri liberi di rincorrersi e di susseguirsi senza una logi-ca. Il problema era che a volte l’attesa poteva diventare troppo lunga. Insostenibile. Attendere mi innervosiva. E così finivo sem-pre per rialzarmi. Avevo quarantadue anni, sei mesi e sei giorni. Ancora pochi per un uomo normale. Troppi per chi come me ne aveva già le palle piene. L’unica scorciatoia possibile richiedeva però troppo coraggio. Una delle tante cose che mi mancavano. Il coraggio. Qualcuno si sarebbe ostinato a dire il contrario. Uno come me, veterano delle guerre arabe e della campagna di Siria, non poteva essere un vi-gliacco. Il mio mestiere era uccidere. Eppure ero sempre stato convinto che il mio fosse un lavoro come un altro. Da fare con attenzione, precisione. Il coraggio però era un’altra cosa. Vale invece ne aveva avuto anche troppo. Per fare un salto di trentacinque piani serviva un fegato da cacciatore di mine. Io solo

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all’idea di lasciarmi andare nel vuoto stavo male. Mi sentivo gira-re la testa. Era l’idea di non avere una possibilità d’uscita. Quan-do sei lì che precipiti e la tua morte si avvicina sotto forma di a-sfalto stradale, non puoi far altro che cacarti nelle mutande e spe-rare che non ti arrivi fino alla testa. Punto. Ancora la tentazione di accendere la TV. Quella maledetta scato-la ammazza cervelli. Il miglior sostitutivo dell’eroina. Anzi, della blue sky. Come la chiamavano i tossici alla moda dei quartieri pu-liti. Quelli che potevano permettersela senza troppi problemi. Chiusi gli occhi e provai a pensare di essere da un’altra parte. Su una spiaggia, come quelle dove i miei genitori mi portavano quando ero bambino. Ricordavo ancora perfettamente la sensa-zione dell’acqua fredda, salata, sulla mia pelle. Il misto di paura ed eccitazione quando le onde mi coprivano fin sopra la testa. Riaprii gli occhi di scatto. Il mare era lontano, irraggiungibile. Come tutte le cose belle. Ok, l’aveva voluto lei. Mi alzai e spostai la rotella in posizione “on”. Un leggero sfrigolio elettrico e poi lo schermo prese vita. Televisore vintage. Vecchio di quarant’anni. Forse anche qualco-sa in più. Le prime immagini furono quelle di uno spot pubblici-tario. Cibo per scimmie. Scimmie domestiche. Bella stronzata le scimmie domestiche. Meglio un cane. Continuavo a preferirlo nonostante le ricerche di mercato avessero stabilito che il cane era fuori moda. Off. Da sottosviluppati. Le scimmiette invece po-tevi vestirle da cow-boy o da Zorro. Potevi portarle a spasso te-nendole per mano come fossero bambini pelosi. Che stronzata. Potendo avrei sicuramente preso un cane. Ma non potevo. La mia vita non me lo permetteva. Cambiai canale. Un film di gangsters. Un vecchio film con J. Ga-bin. Un film francese, di quando ancora i francesi erano francesi, gli italiani erano italiani e in Inghilterra si parlava inglese. Prima della grande “Casa Europa”. Senza frontiere, senza barrie-re. Una sola patria, un solo presidente, un solo grande esercito. Molto prima dell’apocalisse e della fine di un’era.

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Misi sul telegiornale della sera. Canale A. Il canale statale. Quel-lo più vicino al governo. Il conduttore era un giornalista dalla faccia da idiota che sorrideva mentre introduceva le principali no-tizie del giorno. Accanto a lui l’altra conduttrice. Una rossa dall’aria sexy che faceva l’occhietto senza alcun pudore rivolta alla telecamera. Omicidi, crisi economica, inondazioni all’est, attentati in Suda-merica, nuovi rimedi contro gli effetti delle piogge acide. Cosa avevano da essere così allegri? Ancora scontri tra polizia e militanti anti-qualcosa. I nostri tran-quillizzanti scontri quotidiani. La certezza che la giornata era sta-ta una delle tante. Vale avrebbe detto che ero un qualunquista. Che gli ideali nobili-tano. Servono a dividere gli uomini dagli animali. Gli ideali sono tutto. Conoscendomi le avrei riso in faccia e lei si sarebbe incaz-zata. Come al solito avremmo passato la notte a discutere di poli-tica. Del resto per lei la politica era quasi tutto. La sua politica, i suoi ideali. Mi ero impegnato, giuro. Ma non ero mai arrivato a capirla completamente. Mi ero sforzato. Per amor suo mi ero sforzato come un matto. Niente da fare. La scintilla non scattava. Lei era incazzata con tutto e tutti. Io no. Mi accontentavo. Mi ba-stavano le piccole cose quotidiane. Mi bastava la certezza di non dover più andare in guerra. Mi bastava lei. Bella testa Vale. Lo dicevano tutti e forse lo pensavano sul serio. Io però ero ancora qui. In vita, anche se qualunquista. Lei invece se ne era fuggita dalle sue responsabilità. Verso il mondo. Verso i compagni. Verso di me che l’amavo. Nonostante quello che pote-vo averle detto, io l’amavo. Corsi verso il vecchio mobile alla destra del mio letto. Provai ad aprire il cassetto centrale ma come al solito la chiave mancava. Nella mia pazzia, l’avevo nascosta dentro a una scatola di scarpe. Il mio futile, idiota tentativo di impedirmi di aprire quel cassetto con facilità.

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Mi precipitai sulla scatola come in preda a una crisi d’astinenza. Ero in crisi d’astinenza. Astinenza dai suoi occhi. Finalmente la chiave. Corsi di nuovo al cassetto e l’aprii. Frugai sotto i fogli, le cartoline, le lettere. Finalmente trovai la busta con le sue foto. La guardai. Il suo viso sorridente. Le piccole rughe ai lati degli occhi che tradivano le forti emozioni vissute. Le labbra. Le labbra che avevo baciato ma che non ero mai riuscito a imprimere nel mio cervello. I capelli tagliati corti, forse troppo. Quella era Vale. La persona che mi aveva segnato per sempre. Che mi aveva preso e poi abbandonato lungo la strada. Forse per lei ero sempre stato solo un passatempo. A volte divertente, altre volte difficile da sopportare. Da tollerare. Così simili ma in fondo così diversi. Rimisi a posto le foto. Non aveva senso continuare a ferirsi in quel modo. Vale non c’era più.

* * * Mangiai il contenuto dell’ultima scatoletta di carne secca arric-chita con fibre e proteine. Un pasto talmente rivoltante da farmi desiderare di non avere le papille gustative. Guardai con disprez-zo il coglione raffigurato sulla confezione. Un asiatico abbronza-to e sorridente. Sicuramente gioiva pensando a un altro fesso che c’era cascato e aveva mangiato quella merda chimica. Dovevo decidermi a uscire e a fare la spesa in qualche supermer-cato super fornito di beni a lunga scadenza. Solo che non avevo voglia di alzarmi dal letto e di vestirmi. Di varcare la soglia di ca-sa e di allontanarmi dalla mia bottiglia di whisky di bassa qualità. Scoppiai a ridere. Ridevo e ripensavo a quando da ragazzo legge-vo decine di romanzi gialli. Il protagonista era sempre un detecti-ve alcolizzato, drogato. Ridotto a uno schifo. E io che mi chiedevo se fosse possibile avere sempre come rife-rimento per una storia, un personaggio così improbabile.

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Improbabile un cazzo. Ero diventato la copia vivente di uno dei peggiori detective di uno dei miei peggiori libri. Peccato che sulla porta di casa mia non ci fosse una targhetta in ottone con su scritto “Investigatore Privato”. Non assomigliavo a Humphrey Bogart e la mia vita non era Il Grande Sonno. Ero un ex soldato. Un esperto di missioni definite “difficili” nei rapporti segreti che i miei superiori si scambiavano. Niente che richiedesse una particolare forza o abilità con le armi. Le mie e-rano missioni da fantasma. Mi intrufolavo nei luoghi strategici dove nessuno avrebbe mai provato a entrare. In genere rubavo segreti militari. Ogni tanto mi capitava di eliminare un ufficiale nemico o qualche scomodo burocrate. Un killer. Un valoroso combattente che aveva trascorso sedici anni tra la sabbia e le ma-cerie di quello che fino a vent’anni prima era il maledetto Medio Oriente e ora era un enorme cimitero di guerra. La mia arma pre-ferita era il coltello e proprio per quel motivo era l’unica che non avrei mai più usato in vita mia. Mi alzai con uno sforzo disumano e mi infilai sotto la doccia. Un getto d’acqua gelida per provare a risvegliarmi dal torpore. Mi insaponai forte la testa, i capelli rasati. Massaggiai la cute con forza, utilizzando l’intera superficie dei miei polpastrelli. Mi ri-lassai. Passai la spugna su tutto il corpo e mi purificai momenta-neamente con quel rito serale. La doccia era un modo come un altro per passare del tempo. Per trascorrere quei venti minuti che mi aiutavano ad arrivare alla conclusione della serata. Non avevo nulla da fare. Solo aspettare che succedesse qualcosa. Qualcosa che mi portasse via da quella totale apatia e dal desiderio di autodistruzione. Non potevo più continuare così, rischiavo di impazzire. In qualche modo dovevo alzarmi e ricominciare a vivere come una persona normale. Ave-vo vissuto altri momenti difficili e ne ero sempre uscito fuori. E questo non sarebbe stato peggiore degli altri.

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Provai a ricordare come mi sentivo molti anni prima. Quando ne avevo appena diciotto. Quando avevo ucciso, del tutto inconsa-pevolmente, il mio primo uomo. Fortunatamente il cellulare squillò e mi distolse dai miei pensieri. Impiegai qualche secondo per afferrarlo e come prima cosa guar-dai lo schermo. Numero sconosciuto con prefisso diplomatico. Risposi e ascoltai tutto quello che aveva da dirmi l’uomo dall’altra parte. Dissi di sì un paio di volte e no almeno cinque. Tutto qui. Quando finì la comunicazione lasciai cadere il cellulare sul letto e mi ci tuffai accanto. Forse la mia vita stava per subire una scossa positiva. E finalmen-te avevo un nuovo lavoro.

* * * Scesi dal bus urbano dopo quattro ore di viaggio e respirai a pieni polmoni. Sunrise era un quartiere fastidiosamente pulito. Non ci capitavo da almeno un paio d’anni e la prima cosa che notai fu la totale as-senza di rifiuti ammucchiati lungo i marciapiedi e di quell’odore di rancido misto a merda che assaliva le mie narici ogni volta che giravo per la città senza filtri nasali. Un’esagerazione secondo molti; l’aria era inquinata ma non fino a quel punto. Evidente-mente avevo un olfatto particolarmente sviluppato. In ogni caso lì i depuratori d’aria funzionavano benissimo. Intorno a me uomini vestiti di tutto punto e donne bellissime. La chirurgia estetica per entrambi i sessi prosperava in quartieri co-me quello. Nasi, zigomi, culi, tette. Tutto perfetto. Mi sembrava di essere entrato nel set fotografico di una rivista di moda. Quelle patinate di una volta, quando la carta serviva ancora per i giornali e non solo per pulirsi il sedere.

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Non mi sfuggirono neanche i tizi vestiti come se fossero dei nor-mali uomini d’affari ma che si guardavano intorno alla ricerca del minimo segnale di confusione non autorizzata. Guardie private. Uno dei lavori più richiesti ultimamente. Un paio di volte ero sta-to anche tentato di mandare il mio curriculum a una di queste a-genzie di sicurezza. Ma poi ci avevo ripensato. Correvo il serio rischio di trovarmi a proteggere chi avrei volentieri visto morto. Sul palazzo a vetri di fronte a me stavano proiettando un messag-gio del premier. “…sarà solo con l’impegno e il sacrificio da parte di tutti noi che usciremo dalla crisi economica e finalmente…” Mi infilai le auricolari e accesi il lettore portatile di musica liqui-da. Nei miei timpani partì No fun degli Stooges e sorrisi soddi-sfatto. Il suono della chitarra mi tranquillizzò come neanche un bicchiere di whisky invecchiato un secolo sarebbe riuscito a fare. Bella sensazione sul serio. Qualcosa che fino a qualche tempo prima avrei ottenuto solo iniettandomi merda nelle vene. Mi incamminai lungo la dodicesima con passo svelto e le mani in tasca. Era una strada lunga e ordinata con ristoranti giapponesi alternati a negozi di abiti in pelle. Per quanto mi riguardava odia-vo sia il sushi sia i pantaloni attillati in vera pelle di vacca finta. Le persone che incrociavo sorridevano. Avevano il volto disteso. Non come nel mio quartiere dove tutti camminavano con la testa bassa. Come se dovessero per forza fissarsi la punta delle scarpe. Chissà se era solo una messa in scena o se erano felici davvero. All’incrocio con la Kennedy svoltai a sinistra e arrivai al numero centonove. Un palazzo vecchio stile di una decina di piani e un ingresso con i vetri antiproiettile oscurati. Spensi la musica e sco-prii con sorpresa che non c’erano praticamente rumori di fondo. Niente auto, niente schiamazzi. Silenzio assoluto o quasi. Solo da lontano giungeva, a riprova che il mondo non si era improvvisa-mente fermato, il suono di una sirena. Probabilmente un’ambulanza.

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Feci il primo passo in avanti e come per miracolo l’ingresso si aprì. Due guardie private mi vennero incontro e mi fecero cenno di fermarmi. Obbedii senza fare obiezioni e per agevolarle alzai le mani. Mi perquisirono con attenzione e mi scansionarono con un microchip-detector. La dilatazione innaturale delle loro pupille e i loro movimenti un po’ troppo scattosi mi fecero capire immediatamente che avevano fatto uso di droga. Dopo aver appurato che non ero armato e che non ero imbottito di esplosivo sottocutaneo, mi chiesero chi stessi cercando in quel palazzo. Evidentemente non sembravo il tipico frequentatore di una strada come quella. La mia risposta non sembrò sul momento suscitare in loro la mi-nima reazione. Poi si allontanarono da me di un paio di passi e mi fecero cenno di entrare, indicandomi perfino dove avrei potuto trovare l’ascensore. Li ringrazia pur non avendone motivo e li superai con la schiena dritta. Odiavo passare per quello che si lasciava intimorire. Non c’erano riusciti gli hashashín in Siria, figuriamoci due guardie private. Entrai in ascensore fischiettando e smisi solo quando ne uscii. Eccomi là. Al decimo piano di quel lussuoso palazzo per ricchi uomini d’affari. Sentii un formicolio lungo la schiena. Un segnale, un avvertimen-to. Feci finta di niente e suonai alla porta di quello che sarebbe stato il mio nuovo cliente: Mr. Avrahm. Probabilmente, sperai nella mia forzata ingenuità, era il classico uomo d’affari rispettato e padre di famiglia irreprensibile. Non mi piaceva. Aveva i baffetti sottili che andavano di moda dieci anni prima. Il vestito scuro che indossava aderiva perfetta-

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mente alle sue spalle da atleta. Portava lenti a contatto grigie che gli davano l’aria di un predatore. Dall’arredamento non riuscii a capire se quella fosse un’abitazione o semplicemente il suo studio. In ogni caso tutto, dai mobili agli schermi al plasma, fino ai dipinti appesi alle pare-ti, era di valore. Si sentiva della musica classica provenire da un’altra stanza. Forse Bach. L’aria sapeva di pino marino. Evi-dentemente era un patito di profumatori d’ambiente. La vetrata alla mia sinistra si affacciava su un cortile interno con alberi e fontane. Avrahm mi invitò con un gesto della mano ad accomodarmi su una poltrona color rubino e dall’aria costosa. Mi adagiai con cau-tela, come se potessi romperla. Scoprii che era anche comoda. «È un piacere conoscerla Mr. Bitto» esordì lui. Anche la voce non mi piaceva. Troppo calda. Al telefono non ci avevo fatto caso ma ricordava quella di un vecchio attore… «Se si sta chiedendo dove ha già sentito questa voce, mi permetto di aiutarla a ricordare. George Clooney. Un attore americano di qualche anno fa. Avere la sua voce mi è costato sessantamila euro e un’operazione fastidiosissima alle corde vocali. Ma il risultato finale mi gratifica enormemente.» Registrai la sua vanità. Poteva essere un tasto sul quale far leva in futuro. «Vuole sapere perché l’ho chiamata? Vuole capire perché, tra i cinquantasei milioni di abitanti che dicono abbia questa maledetta città, ho chiamato proprio lei?» Rimasi in silenzio. Non sembrava avesse bisogno di una spalla per continuare con il suo monologo. «È stata una sua vecchia conoscenza a farmi il suo nome.» Diede un colpetto di tosse, probabilmente in sostituzione del rullo di tamburi. «Il colonnello Bukker.» Sorrise, godendosi tutto lo stupore che il mio volto stava sicura-mente trasmettendo. Bukker era in un certo senso il mio maestro.

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L’uomo che mi aveva raccolto dal buio di una cella e mi aveva allevato come un guerriero. Trasformandomi in un assassino. «Credevo fosse morto» confessai. «Non è morto. Gode di ottima salute. Anzi, ora che con l’esercito dell’Unione ha chiuso, è diventato una sorta di consulente per la mia azienda.» «Posso sapere di cosa si occupa lei?» «Un tempo amavo definirmi imprenditore. Ma era prima della Guerra, quando ancora ci si poteva concedere un titolo pomposo come quello.» «E ora come si definirebbe?» «Esportatore di occasioni.» «Mi sembra un po’ vago» dissi con franchezza. Mi sorrise come se stesse sorridendo a un bambino che ha appena chiesto se esiste Babbo Natale. «Credo che l’esatta natura del mio lavoro sia ininfluente rispetto al motivo della sua presenza qui.» «Coraggio allora» lo esortai con tono infastidito «mi dica perché sono qui. Al telefono è stato un po’ avaro di dettagli. E soprattut-to cosa le ha detto Bukker sul mio conto?» Alzò lo sguardo verso il soffitto. Per un istante credetti che stesse cercando una inesistente macchia di umidità. I suoi modi plateali mi davano sui nervi. E l’aver sentito quel nome di certo non mi aiutava. «Mi ha parlato molto bene di lei. Mi ha detto che sa fare bene il suo mestiere. Che i suoi lavori sono sempre rapidi e puliti. Senza controindicazioni.» «Sicuro che non le stesse parlando di un’aspirina?» Non sorrise alla mia battuta. Forse non l’aveva neanche capita. Si avvicinò a una vetrinetta e ne tirò fuori due bicchieri e una botti-glia di cognac Napoleon. Valore attuale, circa duemila euro a bot-tiglia. Così almeno avevo sentito dire. Lo versò con eleganza. Senza badare alla quantità di cognac che mi stava regalando. Almeno questo lo apprezzai.

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«La sua tariffa esattamente qual è?» chiese improvvisamente. «Dipende da quattro cose.» «La prego, non mi tenga sulle spine. Le elenchi pure senza timo-re.» Mandò giù una sorsata di cognac facendo poi schioccare la lin-gua. Io, per non esser da meno, lo imitai. Era la prima volta che bevevo vero cognac in vita mia. Non male. Anche se continuavo a preferire il single malt. Mi passai il pollice sulle labbra per a-sciugarle. Poi lo annusai. Scoprii che anche cognac non era niente male. «Per prima cosa devo sapere chi sto per uccidere. Poi voglio sa-pere come questo morto inconsapevole si fa proteggere. Sempre che sia uno previdente che tende a circondarsi di guardie del cor-po. Terzo voglio capire che tipo di vantaggio ne verrà a lei. Quar-to se sto per uccidere un tipo simpatico o antipatico. Nel primo caso il costo aumenta di qualche euro. Ovviamente di uccidere donne e minorenni non se ne parla nemmeno.» Finalmente si concesse un sorriso. Risultava comunque sgradevo-le. «Non sta per uccidere nessuno. Deve solo recuperare un oggetto al quale tengo particolarmente.» «Non sembra così complicato come lavoro. Potrebbe mandarci anche un pony express. Le costerebbe meno.» «È in una cassaforte all’ultimo piano dei vecchi Magazzini Cain. Quartiere Blackcentral, zona infestata dagli spaventapasseri.» Come se mi avesse detto che la cosa che dovevo recuperare era in cantina e che lui aveva solo paura dei topi. Avvertii una fitta al fianco destro ma rimasi immobile. «Allora sto per uccidere qualche povero cristo vestito di stracci e alla ricerca di carne umana.» «Potrebbe non essere necessario. Se sarà bravo e fortunato.» «Già, ma nel mio lavoro raramente si riesce a far tutto senza il minimo intoppo. Quella zona poi è al di là della Barriera. Sorve-gliata giorno e notte dai soldati.»

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«Controllano chi ne esce, non chi vi entra. Specialmente se si viaggia in auto.» «Vorrei comunque uscire, dopo essere entrato» dissi come se si stesse parlando di organizzare uno scherzo. «Uscirà, non si preoccupi. La macchina che le fornirò ha una tar-ga che può tranquillamente circolare anche in prossimità della Barriera. Poi le basterà prendere una delle strade secondarie me-no controllate. Ce ne sono almeno un centinaio e io posso fornirle l’esatta ubicazione di ognuna di esse.» Lo stronzo sapeva il fatto suo. E io, anche se non era propriamen-te il mio tipo di lavoro, potevo comunque approfittarne. Se non altro per qualche giorno avrei avuto per la testa pensieri diversi dal solito. E la mia sanità mentale ne avrebbe tratto giovamento. «Per una cosa simile, non pensi di spendere meno di ventimila euro» dissi sparando grosso di proposito. Trattare sul prezzo come se stessi vendendo un’auto usata non mi era mai piaciuto, ma volevo vedere fino a che punto il signor oc-chi grigi era disposto ad arrivare. «I soldi non sono un problema» esclamò con una punta d’orgoglio «domani la farò contattare dalla mia segretaria che le darà le informazioni necessarie al recupero e le confermerà un bonifico di cinquemila euro in suo favore. Quando tutto sarà fini-to, avrà i restanti quindicimila.» «Veramente con il lavoro che faccio non è mai troppo prudente usare un conto bancario. Si lasciano troppe tracce in giro. Quando lavoro preferisco i contanti.» «Bene» rispose senza scomporsi «nessun problema. Mi attenda solo un minuto.» Uscì dalla stanza e mi lasciò solo. Ne approfittai per rilassarmi sulla poltrona e per godermi con gli occhi il lusso che mi circon-dava sorseggiando il mio cognac. Quando tornò stringeva tra le mani una mazzetta di banconote. Belle, ordinate, con tanto di fascetta a trattenerle insieme. Come nei vecchi film di gangster.

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Andò verso un piccolo tavolino vicino alla porta d’ingresso e da un cassetto tirò fuori una busta da lettera. Mi guardò prima di la-sciarvi cadere dentro il denaro. «Lei è un tipo che ama fare tutto alla svelta, non è così?» chiesi. «Non posso permettermi di perder tempo. Tutto qua.» Tornò a sedersi e per qualche istante restammo a fissarci. Aveva l’aria compiaciuta. Sperai che la mia invece apparisse seria e pro-fessionale. «I Magazzini Cain sono abbandonati dal giorno delle esplosioni» dissi quasi sottovoce e con fare distratto «si è ricordato solo ora di volere questo oggetto?» «Solo ora ho capito dove trovarlo. Leopold Cain era mio socio in affari.» «Mi ricordo di lui. Morì volando fuori dal cinquantesimo piano del suo grattacielo se non ricordo male. I giornali se ne occuparo-no a lungo.» «Si suicidò senza fornire spiegazioni. Ricorderà anche questo.» «Vagamente. Ma del resto a chi importa ora?» «Già, a chi importa?» Sorrise, convinto di avercela fatta a convincermi. Ogni minuto che passava lo trovavo più fastidioso. «Esattamente di che tipo di oggetto stiamo parlando?» «Di preciso non lo so. Forse un hard disk portatile. Oppure un vecchio DVD. Una chiave USB. Lei mi porti tutto quello che tro-va.» Finii il bicchiere di cognac in un unico ultimo sorso. Lo stomaco mandò di rimando una fiammata che mi sciolse i pensieri. «È un tipo idealista?» mi chiese improvvisamente. Quella domanda mi spiazzò. Mi riportò alla mente Vale. «Sì certo, sono pieno di ideali. Il mio ideale più grande porta la quarta di reggiseno e le calze autoreggenti.» Il suo sorriso si allargò mostrando i denti dritti e completamente bianchi. «Allora abbiamo gli stessi ideali.»

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«Probabile. Ma sono sicuro che lei riesce a permetterseli e io in-vece no.» «Non si sottovaluti. Con il lavoro che fa non può concedersi una simile debolezza o rischia di lasciarsi superare dalla concorren-za.» «Be’, a quanto pare ho ancora chi mi fa pubblicità. E a mia insa-puta per giunta.» «Bukker ha un debole per lei. Mi sorprende che non siate buon amici.» «Purtroppo lo associo a un periodo non molto felice della mia vi-ta. Le confesso che ho impiegato anni prima di smettere di so-gnarmelo la notte.» Rise. Come se la mia fosse stata una battuta. Si alzò e venne a stringermi la mano. «Allora? Posso considerarla un mio momentaneo dipendente?» Sì, pensai. Mi aveva comprato. Con un sorriso, un bicchiere di cognac e qualche euro in contanti. E così che fanno gli uomini d’affari. Scelgono il loro campione e lo comprano. Infischiando-sene dei loro ideali.

* * * Mia madre non la vedevo più da almeno cinque anni. E a me non dispiaceva affatto. Sapevo che stava bene, che viveva in un ap-partamento nella zona nord di Trinity Village e che passava la maggior parte del suo tempo insieme a delle sue nuove amiche conosciute in una qualche chiesa di non ricordavo più quale con-fessione. Mio padre era morto di cancro quindici anni prima. Si era risparmiato il grande botto, la conversione religiosa di mia madre e la mia depressione cronica con tossicodipendenza incor-porata. Manu non sapevo nemmeno se fosse ancora vivo. Non avevo neanche una persona alla quale chiedere un prestito di compagnia. Il mio unico amico, l’ultimo rimasto, era Samir, che

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di solito a quell’ora era già talmente drogato da non essere in gra-do di fare conversazione con nessuno. Avrei dovuto cercarmi un barbone in vena di cazzate con il quale passare la serata discutendo della guerra, di auto ormai introvabili e di quando si giocava ancora il campionato di football. Il vento freddo e insistente preannunciava pioggia. Una di quelle belle nottate autunnali in cui il massimo è di potersi infilare sotto un piumone caldo ad ascoltare Chet Baker e la sua tromba. In at-tesa di addormentarsi o di trovare la paranoia giusta. Sì, era quello che avrei fatto. Mi attendeva una splendida nottata. Prima però avevo bisogno di una bottiglia di supporto. Cambiai marciapiede e mi avviai verso la quinta strada. I pochi lampioni funzionanti stavano iniziando ad accendersi, proiettando inquietanti ombre sull’asfalto. Evitai una pozzanghera d’olio che mi avrebbe indelebilmente ro-vinato le Dr. Martens. Scavalcai quel che restava di una carcassa di scooter e mi fermai quando un branco di cani randagi mi tagliò la strada correndo senza prestarmi particolari attenzioni. Ero stanco e avevo fretta così, per fare prima, decisi di tagliare per la Preston Avenue e di passare per il Luna Park. Le ragazze erano già tutte in strada, sorvegliate a pochi metri di distanza dai rispettivi papponi. I loro vestiti aderenti e lucidi ri-flettevano le luci sopra gli ingressi dei monolocali. Affrettai il passo, ma non potei fare a meno di notare una ragazza di colore che mi sorrideva scoprendosi il seno. Sorrisi a mia vol-ta, scacciando via a fatica la voglia di fermarmi ad ammirarla più da vicino. Tornai a guardare davanti a me, appena in tempo per evitare di finire addosso a un tizio che stava contrattando con una ragazza dai capelli rosso fuoco. Un asiatico con la testa rasata e coperta di tatuaggi mi passò un volantino. Diedi uno sguardo e vidi che da Mama Lao c’erano delle interessanti promozioni. Una ragazza per un’ora intera a soli sessanta euro. Appallottolai il volantino e lo lasciai cadere in ter-ra.

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«Hei Brian, dove vai così di corsa?» Conoscevo quella voce e soprattutto ricordavo bene il corpo della ragazza che mi stava chiamando. Finsi di non averla sentita. «Brian, andiamo. Non ti sei divertito l’ultima volta?» Davanti a me una comitiva di uomini in abiti eleganti era in coda per entrare nel Furs, il locale sadomaso. Passai attraverso la fila aiutandomi con le braccia e continuai per la mia strada. Passare in quella zona non era stata una buona idea. Il mio passo veloce divenne una blanda corsetta serale. Finalmente sbucai a Wayne Square. Mi fermai e mi guardai in-torno come se fino a qualche secondo prima fossi stato inseguito da un branco di lupi affamati. Mi strinsi addosso la giacca e percorsi gli ultimi metri che mi se-paravano dall’unico bar del mio isolato. Visti i recenti sviluppi, potevo permettermi di spendere un po’ di più per una signora bottiglia. Entrai e mi guardai intorno. Dentro c’erano solo due nordafricani che parlavano animatamente in una lingua incomprensibile. Era-no seduti a un tavolino con dei bicchieri pieni di qualcosa di ver-de davanti a loro. Il sottofondo era a base di musica elettronica a volume un po’ troppo alto per i miei gusti e luci colorate sparate al ritmo dei bassi. Del resto era ciò che richiedeva la moda del momento. Andai verso la barista. Si chiamava Aki, era carina. Dietro di lei uno schermo grande quanto un tavolo da ping pong mandava vi-deo colorati che solo a guardarli mi veniva il mal di testa. Mi vide e sorrise. Quando ci fu solo il bancone a dividerci, si sporse verso di me. Immaginai lo avesse fatto solo per poter a-scoltare quello che avevo da chiederle. «Ciao Brian» disse praticamente a dieci centimetri dal mio orec-chio con il suo sensuale accento giapponese. «Ciao Aki. Poco lavoro stasera?»

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«È sempre così a quest’ora. La maggior parte dei clienti arriva sul tardi.» «Perché tutto questo baccano per nulla allora?» chiesi indicando una delle casse stereofoniche appese alle pareti. Aki alzò le spalle. «Il boss vuole così. La musica ad alto volume è il suo concetto di marketing.» Vidi il suo viso allontanarsi dal mio e il suo corpo tornare per in-tero dietro al bancone. Lasciò dietro di sé una scia di buon pro-fumo che inspirai con gioia. «Cosa posso darti?» mi chiese praticamente urlando mentre ini-ziava a sistemare dietro sé bicchieri di vari formati. «Mi porto via un paio di toast al pollo e formaggio e una bottiglia di whisky. La migliore che hai.» «Festeggi qualcosa?» «No. Ho solo deciso di far pace con il mio fegato e per una volta voglio trattarlo bene.» «Bene, aspettami qua allora.» Mi lasciò solo per un paio di minuti. Quando tornò mi guardò soddisfatta. «Può andar bene un bottiglia di Laphroaig?» «Alt!» esclamai accompagnando il tutto con un plateale gesto della mano «hai pronunciato il nome giusto. Morivo dalla voglia di bere del Laphroaig.» «Lo immaginavo» rispose sorridendo «ormai ordiniamo whisky invecchiato solo per te.» «Dovresti provarlo.» «Forse un giorno… in ogni caso c’è da chiedersi come sia possi-bile che non esistano più delle vere bistecche e invece il whisky sia ancora prodotto come una volta.» «Una vera fortuna. Non trovi?» «Non lo so» ammise lei «anzi a dire il vero trovo fastidioso il fat-to che…» «No, ti prego.»

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La bloccai sapendo già dove sarebbe andata a parare e chi quel discorso mi avrebbe riportato alla mente. «Come vuoi» rispose con aria poco convinta ma almeno non infa-stidita «il cliente ha sempre ragione. E del resto qui serviamo al-colici e non bistecche. Quindi non posso lamentarmi.» Mise tutto in un sacchetto di cartone e prese la mia carta di credi-to. «Però una cosa almeno lascia che te la dica» aggiunse con espres-sione seria. «Avanti» la esortai guardandola dritta negli occhi. «Dovresti puntare più sulla qualità del cibo che su quella del whisky.» «Già. Ma un po’ di dieta non può farmi male. I toast vanno più che bene.» «A me sembri in forma» ironizzò lei. Fui lusingato dal complimento. Ammesso che lo fosse. «Sei un tipo strano» ammise «sembri preso dai tuoi pensieri ma sono convinta che con la chiave giusta…» «Ne sono convinto anche io» dissi interrompendola ancora una volta «ma per il momento nessuno ha quella chiave.» Lei sembrò non far caso alla mia scortesia. Sorrise e mi restituì la carta. «Buona serata allora.» «Anche a te» risposi mentre uscivo. Sì, il suo accento giapponese mi faceva impazzire. Se solo non avessi avuto ancora Vale stampata nel cervello…

* * * Mi svegliai all’alba, e la prima cosa che feci fu di mettermi da-vanti allo specchio grande della camera da letto. Completamente nudo. Fissai le cicatrici che segnavano il mio corpo. Fortunata-mente erano poche.

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Ripensai alle loro storie. A cosa le avesse provocate. A quali er-rori avevo commesso per lasciarmi ferire in maniera indelebile. Il mio rito prima della missione. Prima di ogni missione. Dalla più banale fino alla più complessa. Il mio modo di prepararmi a una giornata particolare. Una giorna-ta di violenza, ma soprattutto di accortezza. Consapevole che il minimo errore poteva costar caro. Feci una doccia con acqua tiepida e mi tagliai le unghie dei piedi e delle mani. Poi mi vestii e uscii per un giro. Il solito giro. Sem-pre lo stesso quando c’era da fare un lavoro. Colazione abbondante a base di uova e pancetta in una caffetteria nella parte sud del quartiere, una lunga passeggiata distensiva se-guendo un percorso del tutto casuale che mi avrebbe portato pri-ma a Redneck Park e poi di nuovo dalle mie parti, pranzo leggero in un fast food vietnamita nel quale servivano le migliori polpette di alghe di tutta la zona e per finire ancora una breve passeggiata fino a casa. Poi sarei rimasto seduto, guardando fuori dalla fine-stra. Senza più mangiare, senza più bere, senza più ascoltare mu-sica. In attesa della notte e del momento di entrare in azione. Di-menticandomi per un po’ di tutta la merda che mi circondava e illudendomi di essere un vero uomo.

* * *

L’ultima volta in cui ero stato veramente soddisfatto di quello che facevo, avevo diciotto anni. Portavo i capelli lunghi, l’orecchino e un accenno di barba. Vestivo come un rocker di cinquant’anni prima. Eravamo in auto, bloccati nel traffico del pomeriggio, lun-go le strade di Trinity Village. Io, Manu e Duke. Tre figli della borghesia, con un CD dei Ramones a tutto volume, una bottiglia di birra da divedersi e l’aria di chi non ha nulla di meglio da chie-dere alla vita. Liberi come il vento. Non ricordo bene se la nostra spensieratezza

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combaciasse anche con un po’ di felicità. Però non ci lamentava-mo di nulla. Passavamo le giornate ascoltando musica, fumando erba e parlando di ragazze che non avremmo mai sedotto. Tutto qua. Molto meno responsabili dei nostri coetanei che studiavano e si costruivano un futuro. Questo lo sapevamo bene. Noi però del fu-turo ce ne fregavamo. Per noi contava solo il presente. E il presente era fatto dei soldi guadagnati con piccoli furtarelli, del garage di Duke dove andavamo a nasconderci, dei nostri geni-tori che ci credevano impegnati con i corsi di recupero. I cari vec-chi valori di mamma e papà non ci avevano contagiato. La nostra incoscienza tutto sommato ci aiutava però a crescere. Le situazioni in cui spesso ci trovavamo richiedevano attenzione e serietà. Molto più che per preparare un esame di economia. Consegnare dieci grammi di hashish fuori da un locale non era del tutto sicuro. Così come rubare l’incasso della giornata in una lavanderia di Southcentral. Il proprietario poteva essere armato, poteva reagire. Poteva scapparci il morto. Insomma, i nostri soldi erano sudati. Per questo eravamo fieri di noi stessi. Camminavamo a testa alta. La nostra banda. Eravamo solo noi tre. Non volevamo altri. Ba-stavamo a noi stessi. Quel pomeriggio stavamo andando a un appuntamento. Un tale ci aspettava a casa sua per un lavoro e noi eravamo in ritardo. Duke lo aveva conosciuto qualche tempo prima a casa di suoi amici. Gli aveva parlato di noi e di quanto eravamo affidabili. Della no-stra professionalità. Manu si era incazzato con Duke per questa cosa. Andare da un estraneo e raccontare quello che facevamo era stato da scemi. Duke però si era detto sicuro che non ci sarebbero stati problemi. Anzi, quel tizio era interessato e probabilmente in futuro avrebbe avuto dei lavori da offrirci. Pochi giorni dopo si era fatto risentire e ci aveva invitati a casa sua. E ora noi stavamo andando. Senza sapere cosa ci avrebbe chiesto. Senza sapere quali rischi avremmo dovuto affrontare.

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Senza sapere che entrando in quella casa le nostre vite sarebbero cambiate per sempre. L’appartamento era squallido e buio. Lo era almeno il salone nel quale eravamo. Un divano, alcune sedie mal ridotte. Una scriva-nia coperta di fogli sui quali spiccava un vecchio modello di PC. Una libreria con pochi libri e molti CD. L’aria aveva un forte o-dore di chiuso misto a fumo ma dopo un po’ le mie narici si abi-tuarono e smisi di sentirlo. L’uomo era sui trent’anni. Vestito in maniera trasandata. Maglio-ne verde slargato, jeans scoloriti, scarpe nere. Aveva la barba lun-ga e i capelli tagliati corti. Rossi. Portava gli occhiali. Si chiama-va Roberto. Guardò me e i miei amici per alcuni istanti, poi ci fece un cenno verso il divano. Io e Duke ci sedemmo, Manu restò in piedi. Sembrava volerlo sfidare. Senza motivo. Solo non si fidava di lui. Lo guardava con quei suoi occhi da demonio. Che sprizzavano odio. Li avevo visti troppe volte quegli occhi. Quando guardava i suoi genitori, quan-do guardava i suoi insegnanti del liceo. Una volta anche mentre guardava me, dopo una lite furiosa per banali questioni da dodi-cenni. Io e Manu eravamo cresciuti insieme. Avevo imparato a capire il suo rifiuto di ogni cosa che gli venisse imposta. Il rifiuto per l’autorità, per il più anziano che cerca di consigliarti. Manu era un individualista. Senza bisogno di guida. Solo con la sua rabbia e la sua fantasia. Anche io ero superfluo. Solo che ero il suo migliore amico. E lui era il mio. L’uomo parlò. «Le voci che mi sono arrivate sul vostro conto sono lusinghiere.» Si accese una sigaretta e assaporò la prima boccata. Noi rima-nemmo in silenzio. Attendendo che continuasse, come se ci tro-vassimo di fronte a un giudice in procinto di comunicare la sen-tenza.

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«Voglio dire, lusinghiere per chi come voi, e come me del resto, non è proprio attento e rispettoso verso le leggi di questo cazzo di posto.» Scoreggiò rumorosamente. Con naturalezza. Come se avesse sba-digliato o si fosse semplicemente grattato il naso. Nessuno di noi commentò. «Ho bisogno di ragazzi come voi. Di gente di cui ci si può fidare. Che passa inosservata e che sa come gestire una consegna. Bada-te bene, non sto parlando di roba da liceali. Di porcherie del ge-nere.» Si alzò e si avvicinò alla finestra, dandoci le spalle. Rimase in silenzio per almeno un minuto. Poi tornò a guardarci anche se sembrava ancora assorto in altri pensieri. «Posso offrirvi da bere?» chiese con tono cortese. Rifiutammo tutti e tre. Non avevamo voglia di bere. Volevamo solo che continuasse, e fortunatamente lo fece. «Si tratta di una busta» disse. «Solo una busta?» Duke era sorpreso. Come noi del resto. Solo che io e Manu ci sforzavamo di rimanere impassibili per darci un tono da profes-sionisti. «Esatto. Solo una busta. Di quelle che normalmente si usano per inviare dei libri per posta. Sì, una bella busta da libri. Con tanto di imbottitura.» «Mai spedito un libro in vita mia» commentò Manu. Stavo per chiedergli di non fare il polemico inutilmente quando sentii aprirsi una porta. Era quella alla mia sinistra. Mi girai giusto in tempo per vederla entrare. Dimostrava sedici, forse diciassette anni. Seppi dopo che ne ave-va diciotto. Aveva lunghi capelli biondi che le arrivavano sotto le spalle. Occhi che apparivano in alcuni momenti verdi, in altri co-lor nocciola. Una bocca che sembrava disegnata dalla matita di

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un pittore rinascimentale. Il corpo magro ma incredibilmente sen-suale. Si passò una mano tra i capelli e ci studiò per un istante, poi sen-za dir nulla si mise a sedere in terra. Le gambe nude incrociate e una lunga maglia di lana rossa a ricoprirle il busto. Era cambiata l’atmosfera. Erano cambiati i suoni, gli odori. Perfino la lumino-sità era diversa. «Lei è Vale. Vive con me.» E con questo il signor Roberto aveva chiuso ogni discorso. Sentii morire contemporaneamente i sogni e le speranze mie e dei miei amici. L’ingresso di questo essere tanto splendido da sembrare una no-stra proiezione immaginifica ci aveva elettrizzato. L’ultima frase dell’uomo ci aveva riportato sulla terra. Decisi di tornare al lavo-ro che ci attendeva. «Continua, dacci altri dettagli.» Roberto mi guardò dritto negli occhi. Come se quello che stava per dirmi significasse non poter più tornare indietro. «La busta vi verrà consegnata tra qualche giorno. Sempre se ac-cetterete. Dovrete conservarla con attenzione per un paio di gior-ni. Senza aprirla. Senza neanche guardarla troppo. Dopo di che avrete le istruzioni per lasciarla in un posto sicuro. Non dovete sapere altro. Non vi serve sapere altro.» «Quanto ci guadagniamo?» «Duemila euro.» «Per me va bene.» «Anche per me.» «Io non ci sto!» «Manu, ma cosa ti prende? È una stronzata di lavoro.» «Non è una stronzata. Questo tizio la fa tanto semplice. Una busta del cazzo dice lui. Ma pur sempre una busta piena di pasticche, cocaina o di qualche altra porcheria. E da consegnare dove? A chi? E farsi prendere significa finire in galera per almeno dieci anni.»

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«Dai Manu cosa cavolo stai dicendo? Abbiamo fatto di peg-gio…» «Il tuo amico ha ragione» intervenne Roberto «è molto pericolo-so. Potreste finire in grossi guai se vi prendessero.» «Manu. Ce la caveremo bene. Non fare il vigliacco, non è da te.» Pronunciai quella frase senza riflettere. Sapevo perfettamente di averlo appena ferito. Ma la colpa non era stata mia. Era l’eccitazione per il compito che usciva fuori dai soliti furtarelli o dal piccolo spaccio. E soprattutto era la presenza di quella ragaz-za. Non volevo tirarmi indietro o mostrare i miei dubbi davanti a lei. Volevo anzi ostentare sicurezza, arroganza. Volevo attirare l’attenzione su di me. Manu mi guardò con odio. Si sentiva tradito e accusato. Senza di-re una parola andò alla porta, ci guardò un’ultima volta e se ne andò. Provai a fermarlo ma l’uomo mi bloccò. «Lascialo andare. Gli passerà presto.» «Non credo. Lo conosco bene.» «Questo influirà sulla vostra decisione?» Guardai Duke che fece un rapido segno di assenso con la testa. «No, non influirà con la nostra decisione. Due o tre non c’è diffe-renza. Faremo il lavoro. E ora, se non ti dispiace, puoi dirmi dov’è il bagno?» Avevo bisogno di svuotare la vescica. Ma soprattutto dovevo iso-larmi per riprendere aria senza mostrare quello che stavo provan-do. Che nello specifico era un improvviso senso di euforia misto ad ansia. Entrai nel piccolo bagno inevitabilmente a destra in fon-do al corridoio. Mi sciacquai viso e mani con l’acqua fredda. Mi guardai allo specchio. Avevo gli occhi spiritati. Eccitati. Uscii e mi trovai Vale davanti. Immobile. Le voci di Roberto e Duke mi arrivavano lontane, come se stessero discutendo in un altro appartamento mentre in realtà erano solo a pochi metri da me, nell’altra stanza. Vale mi guardava. Splendida. Avevo voglia di toccarla, di strin-gerla, di fare l’amore con lei. Sono sicuro che lo capì.

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«Lo fai per i soldi e basta vero? Non è per giocare al piccolo gan-gster.» Non risposi. Lei si avvicinò ancora. Con il suo viso perfetto a un paio di cen-timetri dal mio. Poi le sue labbra si poggiarono sulle mie. Le di-schiuse leggermente e con la sua lingua sfiorò il mio labbro supe-riore. Io rimasi immobile. Pietrificato. Lei entrò nel bagno alle mie spalle. Niente sarebbe più stato come prima.

* * * Cercai Manu nei soliti posti che frequentavamo. E onestamente non è che fossero molti. Niente, di lui non c’era traccia. Nessuno lo aveva visto. Il cellulare era perennemente spento. Duke era si-curo che sarebbe stato lui a farsi vivo. Ma io volevo trovarlo. Vo-levo fargli capire che ero suo amico. Non volevo essere rintrac-ciato, volevo trovarlo per primo. Magari avremmo litigato, ci sa-remmo scontrati a brutto muso o addirittura presi a pugni sul na-so. Ma tra amici le cose si risolvono anche così. Evitai di farmi vivo con sua madre. Lei mi odiava. Io la detesta-vo. Punto. Qualcuno, non ricordo più chi, mi disse che potevo trovarlo al Vi-cious. Un locale di Southcentral che tutte le sere proponeva ru-morosissimi concerti punk. Per me, che Manu frequentasse quel posto era una novità, ma non avevo altre carte da giocarmi. Passai un paio di volte senza successo. Alla terza lo trovai. Mi sedetti accanto a lui al bancone e ordinai una birra scura. A-spettai di averne bevuta mezza pinta prima di rivolgergli la paro-la. «Perché ti ostini a essere così orgoglioso?» Si girò e mi guardò come se avessi detto una scemenza. «Non lo faccio apposta. Sono fatto così e basta.»

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Mi accesi una sigaretta ma dopo due rapidi tiri la spensi nel por-tacenere che avevo alla mia sinistra. Mi portai le dita al naso. Annusai. «Quando avrò quarant’anni le mie dita saranno macchiate indele-bilmente di giallo e sapranno di nicotina. Un schifo bello e buo-no.» Manu mi guardò sorridendo. «Fumi troppo per uno di diciotto anni.» «Che vuoi farci? Le sigarette mi danno un’aria da duro.» Ridemmo insieme. «Io ho smesso invece. Non voglio arrivare a trent’anni senza ave-re più il fiato per correre.» Lo guardai interdetto conoscendo la sua avversione per qualsiasi tipo di sport. «E dove dovresti correre a trent’anni?» chiesi. «E chi lo sa? Magari lontano dal coltello di qualche marito tradi-to.» Ridemmo più forte. La pace era stata fatta. O almeno così spera-vo. «Quella ragazza sarà la nostra rovina» disse improvvisamente «è lei a preoccuparmi, più del lavoro che quel tizio vuole affidarci.» Abbassai lo sguardo verso la mia pinta, fissando la schiuma bian-ca che risaltava sullo scuro della birra. Sapevo benissimo che aveva perfettamente ragione. Ma nulla al mondo, in quel momento, mi avrebbe fatto cambiare idea. Non avrei mai rinunciando al lavoro, passando da vigliacco. E soprat-tutto non avrei mai rinunciato alla possibilità di poterla rivedere. Finii la birra e mi girai verso il locale. Volevo prender tempo. Guardai i manifesti appesi alle pareti. Vecchi concerti dei Sex Pi-stols, dei Clash e dei Crass. Alcuni forse erano originali. La clien-tela era per lo più composta da ragazzi della nostra età o poco più grandi.

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Guardandoli provai un senso di superiorità nei loro confronti. Io stavo per fare il salto di qualità nel mondo del crimine. Loro sa-rebbero rimasti lì a vedere delle imitazioni di Strummer e Jones. Tornai a voltarmi verso Manu. «La ragazza non c’entra ora. Abbiamo un lavoro da fare e duemi-la euro da dividerci.» «Già, ma duemila euro finiscono presto.» «È vero, ma per un week end da ricordare sono più che sufficien-ti.» «Quando la smetteremo di pensare solo a come spassarcela nel week end successivo Brian? Quando?» «Non ti capisco. Spiegati meglio.» «Cosa c’è da spiegare? È evidente.» «Non ne sono così sicuro» dissi, pur sapendo che tutto era chiaro anche per me. Solo che non volevo ammetterlo. «Provo a spiegartelo» sospirò Manu come se lo facesse solo in nome della nostra amicizia e non perché ne avesse voglia «sono mesi, forse anni che facciamo dei lavori di merda per pochi euro. Pensi ne valga la pena?» «Credo di sì.» «E invece no, cazzo!» Colpì il bancone con un pugno e il barista si girò a guardarci. Abbassammo entrambi lo sguardo sulle nostre pinte ormai vuote. Quando tornò a dedicarsi ai suoi bicchieri da lavare, noi tornam-mo a parlare. «Brian» riprese Manu «noi dobbiamo fare in modo che rischio e guadagno siano inversamente proporzionati. Mi segui?» «Temo di no.» Stavolta era vero. «Coraggio, fai uno sforzo. Parlo di lavori con poco rischio e gua-dagni consistenti. Ecco cosa intendo. Noi invece corriamo ogni volta il rischio di finire ammazzati e per poche centinaia di euro. È da pazzi.» «Ok mi rendo conto. Ma non sarà semplice fare come dici tu.»

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«Proviamoci almeno! Il lavoro che quel Roberto ci ha offerto, è da coglioni. Ed è pagato una miseria.» «È vero. Forse siamo stati ingenui, ma ormai abbiamo dato la no-stra parola.» «Anche davanti alla ragazza, vero?» «Sei dei nostri?» chiesi io evitando volutamente di rispondere al-la sua domanda. Lui sembrò pensarci su anche se ero convinto che conoscesse già la risposta. «Certo che sono dei vostri. Da soli fareste sicuramente qualche casino.» «Perfetto allora» commentai con sollievo. Restai solo con i miei pensieri per qualche minuto. Poi decisi di riprendere il discorso, anche se alla larga. «Perché pensi che il lavoro che ci ha dato quel tizio sia pericoloso e mal pagato?» «Perché se fosse una cazzata, lo farebbe qualcun altro.» «Possiamo sempre controllare cosa ci sarà nella busta che prende-remo. E se quello che vedremo dovesse non piacerci… be’, arri-vederci e grazie.» «No Brian, no. Una volta accettato un lavoro, si porta a termine secondo le regole.» Eccolo là Manu. Scorbutico, lunatico, ma professionale fino alla fine. Il vero gangster era lui. Io e Duke solo due pallide imitazio-ni. Mi alzai dallo sgabello e dopo aver lasciato sul bancone i soldi per pagare gli mollai una pacca sulla schiena. «Andiamo a dirlo a Duke e lasciamo questo posto prima che qualche gruppo di impasticcati con la cresta arancione inizi a suonare.»

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* * * Una delle cose peggiori che poteva capitarti in quella cazzo di metropoli, era di attraversare la zona di Blackcentral, o ciò che ne restava, dopo il tramonto. Guardai il mio segnatempo. Erano le due di notte. Peccato non poter fare certi lavori di giorno, ma una delle regole non scritte del mio mestiere prevedeva che si entras-se in azione solo con il buio. Come se l’oscurità potesse proteg-gerti più di una giacca in kevlar. E io avevo deciso di adeguarmi, pur essendo ben consapevole che a volte un po’ di luce, se da un lato poteva esporti più facilmente alla vista del nemico, dall’altro ti aiutava a non farti sentire del tutto in trappola. Un po’ come mi stavo sentendo io in quel momento. Camminavo in preda all’ansia, cercando di percepire ogni minimo rumore at-torno a me. Quella era zona di spaventapasseri: mutanti mangia carne. Meglio, per loro, se umana. E devo dire che diventare il protagonista di un film horror del secolo precedente non era tra le mie aspirazioni per quella sera. Resti di edifici disabitati ormai da anni e in gran parte crollati e-rano l’unico panorama disponibile insieme alle carcasse d’auto. Una nebbiolina umida, che sembrava salire dal terreno, contri-buiva all’atmosfera tetra. La mia mano destra scivolò all’altezza della fondina. La pistola era al suo posto e ciò mi fece sentire meglio. Accelerai il passo. Il palazzo dove una volta c’erano i Magazzini Cain non era distante, ma dai vecchi ingressi della metropolitana poteva in qualsiasi momento uscire la mia condanna a morte. Alcuni lampioni lungo la strada funzionavano ancora. Una delle cose incredibili di quella città. Il cellulare vibrò. Era Samir. Decisi di rispondere anche se la mia voce poteva allertare qualcuno. «Cazzo vuoi? Non sono al ristorante, dovresti saperlo.»

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«Eravamo rimasti d’accordo che ti saresti messo in contatto con me ogni otto minuti. Ne sono passati quindici da quando sei sceso dalla macchina.» La voce di Samir arrivava chiara come se si trovasse alle mie spalle. «Scusami amico, ma non voglio far troppo casino. Sono quasi ar-rivato. Almeno spero.» «Continuo a non capire perché sei dovuto per forza arrivare lì a piedi.» «Te l’ho già spiegato. Arrivare sul posto con la macchina signifi-cava avvisare tutto il quartiere della nostra presenza. Mi sento più tranquillo così.» «E io? Devo sentirmi tranquillo?» «Be’, direi di sì» risposi sorridendo «se vedi avvicinarsi qualcuno che non conosci, metti in modo e allontanati. Ma poi ricordati di passare a riprendermi.» «E va bene viso chiaro. Ma stai attento. Devi solo svuotare quella cazzo di cassaforte senza farti ammazzare.» Chiusi la comunicazione senza rispondere. Samir riusciva sempre a farmi innervosire. Provai a respirai a fondo, cercando di non pensare al fatto che in quella parte di città l’aria era più inquinata che in una latrina di Chinatown e che io non avevo i filtri al naso. Al momento comunque lo stato di salute dei miei polmoni non era in cima alla lista delle cose delle quali mi dovevo preoccupa-re. Caddero delle sottilissime gocce di pioggia. Pioggia acida, corro-siva a lungo andare. Passai la mano sulla testa e provai inutilmen-te ad asciugarmela. Alla fine tirai su il cappuccio della felpa anche se così facendo avevo la sensazione che il mio campo visivo si riducesse di mol-to.

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Continuai ad avanzare. Finalmente riuscivo a scorgere l’estremità dei Magazzini Cain spuntare da dietro quello che restava di un palazzo. Accelerai leggermente l’andatura preso dal senso di euforia per essere arrivato indenne alla meta. Quasi arrivato, per l’esattezza. Dovevo ancora percorrere circa trecento metri. Voltai l’angolo e i Magazzini Cain furono di fronte a me. Questa volta per intero. Rimasi per un istante immobile a guardare quella struttura che si era miracolosamente salvata dal bombardamento. Come se i colpi del nemico l’avessero evitata di proposito. Mi avvicinai all’ingresso. L’imponente porta a vetri era chiusa solo per metà. Evitai di farmi domande inutili, regolai i miei occhiali notturni su luminosità zero ed entrai. Dentro era rimasto tutto come se fosse stato l’ultimo giorno di saldi. Vestiti da uomo ordinati e prezzati, articoli sportivi, scarpe accu-ratamente esposte su vetrinette ormai impolverate. Non sarebbe stato male tornare da quelli parti con un furgone da riempire. Po-tevo provare ad aprire un negozio di abiti vintage a Trinity Villa-ge, dove gli appassionati di quel genere di cose non mancavano di certo. Alcuni cartelli appesi alle pareti indicavano che per i vestiti da donna e quelli da bambino bisognava prendere le scale mobili o gli ascensori e andare tra il nono e il tredicesimo piano. Peccato che l’energia elettrica in quel posto non c’era più da almeno do-dici anni. FINE ANTEPRIMA.Continua...


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