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Daniela Franceschi, Iran e Arabia Saudita: rivalità geopolitica, non religiosa, giugno 2018.

(Articolo in corso di pubblicazione su Storia in Network e Storico.org)

Dopo sette anni, la guerra civile siriana ha raggiunto un livello di complessità geopolitica

estremamente elevato a causa del coinvolgimento di attori importanti del Medio Oriente, come Iran

e Arabia Saudita, la cui rivalità sta permeando anche altri conflitti dell’area, in particolare nello

Yemen, in Iraq e in Libano.

La rivalità esistente tra Iran e Arabia Saudita è molto complessa da spiegare. Il conflitto viene

generalmente descritto come prodotto del diverso background confessionale; il presente contributo si

basa invece sull’assunto che il nucleo di questa rivalità risieda nella competizione per l’influenza, il

potere e la sicurezza in tutta la regione.

Più precisamente, l’Arabia Saudita è una potenza che si basa sullo status quo regionale, ha

forti legami con le Nazioni occidentali, mentre l’Iran ha cercato spesso un cambiamento

rivoluzionario in tutta l’aria del Golfo e del Medio Oriente, vedendo negli Stati Uniti il suo più

acerrimo nemico. Pertanto, l’Arabia Saudita considera l’Iran una minaccia, intento a rovesciare

l’ordine politico del Medio Oriente, ordine politico adatto a garantire gli interessi sauditi. Nel

contempo, gli iraniani ritengono che i sauditi stiano attivamente cercando di mantenere l’Iran

vulnerabile, circondandolo di regimi ostili e di basi militari americane. Così, intrappolati nel dilemma

della sicurezza, l’Iran e l’Arabia Saudita vedono la competizione per la leadership regionale nei

termini di un gioco a somma zero: più potente è l’Iran, più l’Arabia Saudita si sente vulnerabile, e

viceversa.

A peggiorare il contesto, l’emergere della primavera araba nel 2011 ha creato una nuova

ondata di tensioni e di diffidenza reciproca, in cui entrambi gli Stati hanno cercato di salvaguardare i

propri interessi nazionali facendosi coinvolgere nella politica interna degli altri Paesi della regione,

impiegando notevoli risorse per condure “guerre per procura”. Entrambi, quindi, hanno alimentato la

guerra civile in Siria, che rischia di trasformare la carta geografica del Medio Oriente, stimolato la

violenza nel frammentato Iraq e aumentato le fratture settarie nei fragili Libano e Yemen. Di

conseguenza, il Medio Oriente sta subendo un’epoca di cambiamenti rivoluzionari in cui la tensione

non è mai stata così elevata come è attualmente.

Molte ricerche si sono focalizzate sulle differenze ideologiche tra il reazionario wahabismo e

lo sciismo rivoluzionario, datando l’inizio della contrapposizione alla morte del profeta Maometto.

Nadav afferma che entrambi i Paesi sostengono di essere lo Stato modello, leader del mondo

musulmano. Da parte sua, l’Iran adotta un modello statuale teocratico guidato da una ideologia

islamista che ha sviluppato un quadro democratico. Il sistema politico iraniano si basa sull’ideologia

del dodicesimo iman che, scomparso nell’874, un giorno tornerà come il Mahdi; fino al suo ritorno,

la popolazione deve sottostare ai religiosi sciiti, che hanno la funzione di colmare lo iato esistente tra

autorità civile e religiosa.

Analogamente all’Iran, l’Arabia Saudita vede il proprio sistema politico come quello ideale.

Tuttavia, ne consegue una monarchia ereditaria che conferisce un potere illimitato al regnante, che

deve essere un discendente del primo monarca saudita, Abdul Aziz Ibn Saud. La dinastia saudita non

ha familiarità con la democrazia e basa il suo potere sul wahabismo, un ramo conservatore dell’Islam

sunnita che risale al Diciottesimo secolo, quando Mohammad Ibn Abd al Wahab fondò il movimento

wahabita.

Nader ritiene che la divergenza principale tra Arabia Saudita e Iran non risieda solamente

nelle diverse strutture politiche, ma anche nella percezione di possedere il diritto di condurre il mondo

musulmano e nell’ideologia totalitaria e suprematista che vogliono esportare. Venetis sviluppa questo

tema e spiega che l’Iran crede nella leadership del “velayat el Fakih”; Letteralmente velayat-

e faqih significa “governo tutelare del giureconsulto”: è il principio fondante della dottrina

khomeinista, secondo cui a guidare la comunità spirituale e politica deve essere un alto esponente

religioso esperto della legge islamica, il vali-ye faqih, fino alla comparsa del dodicesimo imam.

Seguendo questo principio, l’Iran vede il suo futuro attraverso il prisma della sua gloriosa storia

nazionale, totalmente diversa da quella dei Paesi creati dalla Gran Bretagna nel Golfo. Il clero

iraniano crede che gli Stati- Nazione dovrebbero essere sostituiti da emirati islamici poi riuniti sotto

un sultanato che segue la loro legge islamica. Bazzi spiega ulteriormente come questa ideologia si

opponga direttamente alla rivendicazione di leadership regionale saudita, che ha all’interno del suo

territorio due città sante, Mecca e Medina. La dinastia saudita acquisisce una legittimità politica

aderendo al principio di epoca medievale secondo il quale i musulmani devono obbedire ai loro

governanti senza alcuna contestazione fin tanto che questi applichino correttamente le leggi

islamiche.

Nahas sottolinea che, mentre la dinastia saudita si vede come l’unica leadership legittima del

mondo musulmano, l’Iran ha continuato a sfidarne la legittimità per decenni, in particolare, dopo la

rivoluzione islamica del 1979. Infatti, il nucleo ideologico della rivoluzione iraniana è la resistenza

islamica. L’Iran crede nella conduzione di uno scontro vitale contro l’imperialismo e l’estremismo

religioso. La Repubblica Islamica ha lavorato per forgiare un’immagine di resistenza e indipendenza

che supera le divisioni etniche e promuove un approccio popolare antisionista, antiamericano e anti

estremista nella regione. Inoltre, l’ideologia politica iraniana non si rivolge solamente ai musulmani

sciiti, ma a tutti i musulmani. Infatti, l’ideologia politica fondata da Khomeini aveva come fine la

promozione di un’unità pan-islamica; il modello khomeinista di governo religioso e la denuncia del

patrimonio coloniale occidentale erano un messaggio universale. Pertanto, le élite clericali iraniane

credono che il loro mandato di Governo non sia limitato dai confini geografici e che il loro potere e

la loro influenza debbano essere estesi ai Paesi della regione. Allo stesso modo, Ali Shariati riteneva

che i Paesi del Terzo Mondo avessero bisogno, in primo luogo, di una rivoluzione popolare per

mettere fine alla dominazione coloniale e rivitalizzare la loro cultura e identità; secondariamente, di

una rivoluzione che eliminasse lo sfruttamento, la povertà e il capitalismo. Moaddel afferma che

Shariati si riferisse alla “Nezam-e Tawhid”, società unita, nella convinzione che il messaggio del

profeta non concernesse solamente l’istituzione di una religione monoteistica, ma anche

l’unificazione della popolazione attraverso la virtù pubblica e la buona volontà comune.

A tal fine, l’Iran è sempre stato pronto a sostenere i movimenti islamici e i gruppi di insorti

che si allineavano con i suoi obiettivi. All’inizio della primavera araba, l’Iran ha ospitato la prima

conferenza internazionale sul “risveglio islamico” a Teheran, che ha visto la partecipazione di più di

700 delegati provenienti da 84 Paesi. Durante la conferenza, l’ayatollah Ali Hosseini Khamenei ha

insistito sulla necessità per il Governo islamico di rovesciare i dittatori e le monarchie arabe, tra cui

quelle di Giordania, Bahrain e Arabia Saudita. Secondo Crooke ciò ha condotto l’Iran direttamente

al conflitto con l’Arabia Saudita, che non ha mai temuto i carri armati iraniani ai suoi confini quanto

i concetti rivoluzionari incorporati nel pensiero politico iraniano e la loro possibile diffusione in tutta

la regione. Cronin riassume tale contrapposizione nei termini di “clericalismo contro monarchia”,

“populismo contro elitarismo”, “regionalismo contro peninsularismo”, “sciismo contro sunnismo” e

“anti-occidentalismo contro pro-occidentalismo”.

La rivalità tra Arabia Saudita e Iran ha rivitalizzato un antagonismo settario per la vera

interpretazione della leadership nel mondo islamico.

Dal punto di vista storico, il consolidamento della dinastia al-Saud nel 1928 fu l’inizio delle

relazioni saudite-iraniane. Tuttavia, un incremento delle relazioni diplomatiche ha avuto luogo

soltanto dalla metà degli anni Sessanta, quando re Faysal in Iraq fu rovesciato nel 1958 dai

nazionalisti. Temendo ulteriori rivolte populiste contro le dinastie monarchiche della regione, lo shah

Muhammad Reza Pahlavi e il re saudita avviarono delle consultazioni reciproche per coordinare le

loro politiche regionali. Le relazioni tra le due monarchie furono rinforzate su questa base.

Prima della rivoluzione iraniana, i principali interessi comuni che univano l’Arabia Saudita e

l’Iran riguardavano la sfida all’onda socialista e nazionalista dei Paesi confinanti, per garantire un

flusso stabile di petrolio e gas, aumentare la ricchezza attraverso le esportazioni, e preservare la

stabilità dei rispettivi regimi. Alle divisioni settarie non era data una importanza significativa durante

l’esistenza di strutture di governo similari che perseguivano una politica estera e interna di favore.

Tuttavia, questa armonia finì presto nel 1979, quando l’ayatollah Khomeini spazzò via il

regime dello shah e stabilì la prima repubblica islamica del mondo moderno. Khomeini mise in

discussione la legittimità delle famiglie regnanti dei vicini sceiccati arabi e promosse apertamente la

sostituzione di quei regimi con un Governo islamico. È interessante rilevare come la Repubblica

Islamica iraniana adottasse una politica estera aggressiva con l’obiettivo di diffondere la rivoluzione

nei Paesi musulmani vicini, opponendosi contemporaneamente al patrimonio coloniale occidentale.

Questo drastico cambiamento nella politica estera iraniana e il successo della rivoluzione

rappresentavano tutto ciò contro cui la famiglia al-Saud e lo Shah avevano combattuto. Khomeini

aveva fatto appello molto chiaramente alle popolazioni degli Stati arabi del Golfo per rovesciare le

rispettive monarchie, sostenendo che l’Islam e le monarchie ereditarie erano incompatibili, accusando

al-Saud di non avere alcuna legittimità per proteggere i luoghi sacri. La rivoluzione era una minaccia

diretta per la forte influenza dell’Arabia Saudita nel Medio Oriente, e per la famiglia al-Saud stessa.

L’atteggiamento militante adottato dall’Iran ha ulteriormente deteriorato i rapporti

relativamente cordiali tra i due Paesi. Allarmata dall’aperta ostilità del regime islamico iraniano,

l’Arabia Saudita ha risposto attraverso la definizione di un Consiglio di cooperazione del Golfo nel

1981 e di un patto di sicurezza per contrastare la nuova minaccia iraniana. Inoltre, i Paesi del

Consiglio di sicurezza del Golfo hanno intensificato le loro alleanze militari con gli Stati Uniti e

coordinato il sostegno finanziario e arabo all’Iraq durante la guerra Iran-Iraq degli anni 1980-1988.

Di conseguenza, per oltre dieci anni dopo la rivoluzione del 1979, la sfiducia ha dominato i rapporti

tra i due Paesi, portando alla rottura delle relazioni diplomatiche nel 1988 e alla nascita di una aspra

rivalità per il potere e l’influenza nella regione.

Nel momento in cui gli inglesi si ritirarono dal Golfo nel 1971, gli USA divennero il nuovo

supporter della regione. Congiuntamente con i Paesi del golfo, hanno definito la sicurezza nei termini

di un equilibrio di potere. Nel 1970, perseguendo la “politica dei pilastri gemelli”, gli Stati Uniti

assegnarono allo Shah di Persia e all’Arabia Saudita la funzione di garanti dello status quo della

regione. Tuttavia, dopo la rivoluzione islamica, uno dei due pilastri cadde con il crollo del regime

iraniano. Molto presto, con l’inizio della guerra tra Iran e Iraq, gli Stati del Golfo, sostenuti dagli Stati

Uniti, hanno dovuto sostenere l’invasione dell’Iran da parte di Saddam Hussein nel settembre del

1980, poiché il regime baatista era il principale protettore degli interessi arabi e la loro prima linea di

difesa contro l’Islam rivoluzionario.

Si ritiene che la rivalità tra Iraq e Iran risalga ai decenni di scambi di colpi sul corso d’acqua

di Shat al Arab, inoltre, il conflitto si sarebbe intensificato quando Teheran tentò di esportare la sua

rivoluzione islamica in Iraq. Minacciato, Saddam Hussein invase l’Iran per sfidarne l’ambizione

egemonica, impadronendosi della ricchezza petrolifera e di una parte del territorio lungo il confine

tra Iraq e Iran. La guerra tra i due rivali sarebbe durata otto lunghi anni.

Venetis sostiene che la guerra Iran-Iraq sia stata il risultato della politica del rifiuto di Teheran

da parte dei Paesi arabi. Sentendosi totalmente isolato, l’Iran poteva formare delle alleanze soltanto

con la Siria, la Libia, lo Yemen del Sud e Hezbollah in Libano (1982).

Il supporto dell’Arabia Saudita all’Iraq durante la guerra per prevenire la diffusione della

rivoluzione islamica ha ulteriormente deteriorato le relazioni saudite-iraniane. Riyadh aveva anche

sostenuto economicamente l’Iraq con un prestito di quaranta miliardi di dollari per rafforzare il suo

esercito. Ariel osserva che tale scelta rappresentava il nucleo dell’ordine triangolare della regione, in

quanto alleanza strategica che permetteva all’Arabia Saudita di circondare l’Iraq contenendo l’Iran.

Inoltre, con l’intensificarsi della guerra, l’Arabia Saudita ha esercitato pressioni economiche

aggiuntive contro l’Iran. Infatti, reagendo all’offensiva iraniana verso il porto iracheno di Fao, i

sauditi inondarono i mercati internazionali di petrolio durante il 1985 e il 1986, provocando un crollo

dei prezzi. Questa politica ha ulteriormente danneggiato l’economia iraniana e ridotto i ricavi in un

periodo di forti spese per la difesa. L’influenza dell’Arabia Saudita sui prezzi del petrolio mondiale

avrebbe continuato a definire il rapporto di forza tra i due Paesi negli anni a venire.

Il rapporto tra l’Arabia Saudita e l’Iran raggiunse un vicolo cieco nel 1987 quando alcuni

pellegrini iraniani protestarono contro la famiglia al-Saud; gli scontri causarono centinaia di morti da

entrambe le parti. I due Paesi si accusarono a vicenda per l’incidente, seguito dalla decisione iraniana

di boicottare l’Haji, il pellegrinaggio annuale alla Mecca, in Arabia Saudita negli anni seguenti. Alla

fine, nel 1988, i due Stati interruppero le relazioni diplomatiche.

Ciò nonostante, l’invasione irachena del Kuwait nel 1990 avrebbe portato grandi cambiamenti

nella regione, spostando, ancora una volta, le alleanze triangolari del Golfo. Marissa Allison scrive

che l’invasione del Kuwait ha reso l’Iraq una minaccia condivisa, costringendo l’Iran a moderare le

sue posizione nei confronti dell’Arabia Saudita per unirsi contro il perseguimento dell’egemonia da

parte di Saddam Hussein.

Katzman aggiunge che la morte di Khomeini e l’ascesa di Ali Akbar Hashemi Rafsanjani nel

1989 come nuovo Presidente iraniano hanno giocato un ruolo importante nel modificare la politica

estera iraniana nel Medio Oriente rendendola più pragmatica. Infatti, sotto Rafsanjani, l’Iran ha

abbandonato il suo obiettivo di cambiare i Governi dei paesi del Golfo e ha cercato invece di

recuperare le relazioni diplomatiche con i suoi vicini arabi. L’Iran aveva l’obiettivo strategico di

esortarli ad abbandonare i loro dispositivi di sicurezza con gli Stati Uniti e a formare un’alleanza

alternativa per la sicurezza regionale.

Cercando di normalizzare le relazioni con gli Stati vicini, Rafsanjani ha considerato

l’importanza dei rapporti con l’Arabia Saudita in termini di proventi del petrolio. A metà degli anni

Novanta, il prezzo del petrolio è sceso a meno di 10 dollari a barile danneggiando sia l’Arabia Saudita

sia l’Iran. I due rivali hanno lavorato al superamento delle loro differenze per migliorare le loro

relazioni per una migliore politica di gestione del petrolio greggio e delle quote di produzione

all’interno dell’OPEC. Questa collaborazione ha portato a prezzi del petrolio più elevati dopo il 1999.

Sorprendentemente, come scrive Habibi, il cambio di leadership e gli interessi economici

condivisi hanno raffreddato l’animosità tra i due Paesi. Egli mette in evidenza che, nel 1997, dopo la

nomina a Presidente di Mohammad Khatami, l’Iran ha ospito la riunione annuale dell’Organizzazione

della Conferenza Islamica, un segno di riconciliazione tra l’Iran e i suoi vicini del Golfo. Il recupero

dei rapporti era dovuto anche al crescente potere del principe ereditario Abdullah, che gestiva la

politica estera dell’Arabia Saudita dal 1995 e cercava di rafforzare i legami del regno con l’Iran.

Visite reciproche sono state ristabilite quando l’ex Presidente iraniano Rafsanjani si recò in visita

ufficiale in Arabia Saudita nel 1998; la prima volta la rivoluzione del 1979.

Gli anni Novanta hanno visto una fase di riavvicinamento tra l’Arabia Saudita e l’Iran; dovuto

al cambiamento di obiettivi di politica economica ed estera iraniana e al fatto che il regno saudita si

sentiva meno minacciato dalla Repubblica Islamica. Tuttavia, persistevano le differenti basi

ideologiche e la concorrenza politica ed economica, e poco dopo gli eventi mutevoli della regione

avrebbero spinto il rapporto tra Arabia Saudita e Iran al limite, ancora una volta.

Fino alla fine degli Novanta e nei primi anni Duemila, la rivalità tra Arabia Saudita e Iran fu

silente. Beauchamp ritiene che l’Iran avesse possibilità limitate di sfidare l’ordine politico saudita ed

era troppo concentrato sulla imminente minaccia irachena di Saddam Hussein. Shahram sostiene che

l’Arabia Saudita è stata a suo agio con “la politica occidentale del doppio contenimento di Iraq e

Iran”. Le forze irachene furono espulse dal Kuwait, e le seguenti sanzioni, la no-fly zone e i

bombardamenti americani e inglesi sull’Iraq avevano completamente eliminato la minaccia di

Saddam dalla regione. Tuttavia, la decisione degli Stati Uniti di invadere l’Iraq nel 2003 per

rovesciare Saddam Hussein e il suo Governo erano cattive notizie per l’Arabia Saudita in quanto

rimuoveva uno dei principali attori della regione e apriva la strada all’Iran per sfidare l’ordine

esistente. Questo ha portato alla dissoluzione del sistema di potere triangolare in cui le tre grandi

potenze del Golfo, Iran, Arabia Saudita e l’Iraq si equilibravano l’un l’altra. Infatti, la struttura

precedente è stata sostituita da una struttura bipolare che ha posto l’Iran e l’Arabia Saudita

direttamente l’uno contro l’altro.

Inoltre, la rimozione di Saddam ha distrutto l’equilibrio nazionale iracheno, creando così una

nuova base di competizione tra Arabia Saudita e Iran. Infatti, l’Iran ha colto l’opportunità di rafforzare

i gruppi militanti sciiti pro-iraniani in Iraq, cercando di sostituire Saddam con un regime sciita

amichevole. La caduta del regime baatista era vantaggiosa per Teheran per consolidare un rapporto

con la neonata “democrazia”, in cui il 65% della popolazione è sciita. Gli sciiti iracheni, insieme ai

curdi, una minoranza a lungo oppressa dai baatisti, hanno avuto un ruolo di primo piano nella politica

irachena, con l’assistenza iraniana. Proprio per questo l’Arabia Saudita è diventata sempre più

preoccupata per la crescente influenza dell’Iran e dei suoi alleati sciiti nel mondo arabo, soprattutto,

dopo l’elezione nel 2006 degli sciiti al Governo. Di conseguenza, i Primi Ministri Ibrahim Jafari e

Nouri al-Maliki sono stati accettati con freddezza dalla Lega Araba e le relazioni tra l’Iraq e gli Stati

arabi non sono ritornati al livello precedente il 2003.

I timori sauditi furono riassunti nel settembre 2005, quando il Ministro degli Esteri, il principe

Saud al-Faisal, affermò che gli Stati Uniti stavano consegnando l’Iraq all’Iran senza motivo. Pertanto,

l’Arabia Saudita ha modificato il suo obiettivo principale, intervenendo nelle dispute regionali nel

Libano, in Palestina e nello Yemen. Il principale driver delle relazione saudite-iraniane è diventato

una lotta per plasmare l’equilibrio regionale del potere. Tra i tanti, Wehrey ritiene che durante questo

processo le differenze settarie siano state utilizzate come misura per delegittimarsi l’un l’altro.

Certamente, egli scrive, la divisione sunniti-sciiti acquisisce importanza quando si tratta della

leadership ed è incoraggiata o sottovalutata come mezzo in un gioco geopolitico più grande; tuttavia,

le differenze settarie non sono state la causa principale del deterioramento delle relazioni tra Arabia

Saudita e Iran. Per Wehrey, è il contesto storico che ha modificato le loro relazioni.

Nel 2011, un’ondata di proteste popolari ha colpito il Maghreb chiedendo la cacciata di

dittatori a lungo al potere. Il successo delle rivolte in Tunisia, Egitto e Libia ha scosso l’equilibrio di

potere esistente nella regione e ha sollevato i timori dei non legittimati governanti vicini.

Duran spiega che i sauditi sono sempre stati in ansia per la propria presa sul potere, ed è per

questo che sono stati tra i primi a temere la diffusione delle proteste politiche sul loro territorio. Da

un lato, hanno dovuto affrontare una nuova ondata di democratizzazione che ha rimosso Mubarak in

Egitto, uno dei principale alleati arabi nella regione, aprendo la strada per la presa del potere da parte

dei Fratelli Musulmani. Duran afferma che la combinazione di democrazia e politica islamista ha

sfidato il ruolo dell’Arabia Saudita come leader del mondo musulmano sunnita, presentando un

modello alternativo islamico sunnita alla monarchia saudita. Pertanto, al-Saud ha accolto con favore

il colpo di stato militare del generale Abd al-Fattah al-Sisi nel luglio del 2013. D’altro canto, al- Saud

ha dovuto affrontare una resistenza sciita al suo interno; la popolazione sciita in Arabia Saudita è

stimata intorno al 10%.

Per Gause, a differenza dell’Arabia Saudita, il rovesciamento di Hosni Mubarak in Egitto ha

eliminato un avversario chiave per gli iraniani e la primavera araba li ha aiutati a responsabilizzare

le comunità sciite nei vicini Stati arabi, in particolare nel Bahrain. In realtà, i leader iraniani hanno,

in un primo momento, considerato la primavera araba come espansione della loro ideologia e una

continuazione della loro rivoluzione islamica. Tuttavia, Teheran ha male interpretato l’attrattiva del

suo modello di governance, sottovalutando la resistenza regionale verso una leadership straniera.

L’Iran non è riuscito ad attuare alcune interferenze politiche significative negli Stati arabi nel 2011,

quindi, si è spostato rapidamente per la difesa dei suoi principali alleati in Siria e in Libano, coinvolti

in caotiche guerre civili.

Il rapporto tra l’Arabia Saudita e l’Iran è peggiorato dato che ciascuno supportava le parti

opposte dei conflitti in corso. Per esempio, in Siria, l’Arabia Saudita ha sostenuto i ribelli che

combattevano l’alleato dell’Iran, Bashar al-Assad, mentre l’Iran ha appoggiato Assad con aiuti

militari per preservarne il potere. Analogamente, quando la maggioranza sciita ha protestato contro

la monarchia sunnita in Bahrain, l’Arabia Saudita, temendo l’influenza iraniana, ha sostenuto la

brutale repressione dei manifestanti del Bahrein in fine di preservare la famiglia regnante al-Khalifa.

Le tensioni tra i due rivali hanno avuto un’escalation quando Riyadh ha accusato Teheran di

aver orchestrato le rivolte della popolazione sciita nel Bahrein. Jahner spiega che l’Arabia Saudita

non si preoccupava per un intervento iraniano, ma temeva l’effetto dei movimenti di liberazione sciiti

sulla proprio minoranza sciita. In realtà, i movimenti in cerca di libertà in tutta la regione sono stati

l’occasione per l’Iran di espandere la propria influenza e stabilire alleanze. Inoltre, non era chiaro in

quali mani sarebbe finita la leadership della regione, considerando il vuoto di potere che le rivolte

avevano creato, tuttavia, la severa risposta saudita alle proteste politiche ha contribuito a lanciare la

propaganda iraniana contro l’illegittimità saudita e la sua brutalità in tutta la regione.

Steinberg ritiene che la situazione politica delle comunità sciite nei paesi del Golfo e negli

Stati arabi era ed è ancora una grande fonte di attrito che ha bisogno di una speciale comprensione

strategica. In effetti, la minoranza sciita in Arabia Saudita è sempre stata politicamente,

economicamente e culturalmente discriminata perché ha respinto il Governo saudita. È importante

rilevare che la maggior parte della minoranza sciita vive nella provincia orientale dell’Arabia Saudita,

dove si trovano le principali raffinerie e giacimenti petroliferi del Paese. Per paura, la politica

dell’Arabia Saudita verso la minoranza sciita è stata guidata più dal pregiudizio, secondo il quale gli

sciiti nazionali sono settari filo-iraniani, e non dagli orientamenti politici attuali.

Queste politiche hanno portato ad una seconda ondata di manifestazioni contro la monarchia

saudita nel luglio del 2012, con slogan come “Abbasso al-Saud” e “Morte ad al-Saud”. Per peggiorare

le cose, il Governo saudita ha risposto arrestando Baqir al-Nimr, uno studioso di religione e leader

popolare dell’opposizione sciita anti-monarchia, che ha criticato continuamente il Governo e richiesto

riforme politiche. Analogamente al-Saud ha accusato l’Iran di spingere le proteste per destabilizzare

la sicurezza interna dell’Arabia Saudita. La percezione della minaccia nazionale e regionale ha

guidato la politica saudita durante la primavera araba e ha avuto conseguenze critiche nazionali in

quanto ha portato il Governo a respingere ferocemente le richieste dell’opposizione sciita.

La scelta saudita e del Bahrein di non integrare i cittadini sciiti ha reso i giovani dimostranti

vulnerabili al supporto straniero, elargito soltanto dall’Iran. Kinninmont sostiene che le minoranze

sciite in altri Paesi del Golfo, come l’Oman e il Kuwait, sono più integrate, e spiega che, a seguito

della loro integrazione, i Governi temono meno che siano manipolate per essere utilizzate come punto

d’appoggio per stimolare la dissidenza. Per Kinninmont, nel suo insieme, l’influenza iraniana sulla

comunità sciita è sopravvalutata sia dall’Arabia Saudita sia dall’Iran. In realtà, sono le circostanze

politiche locali e le opportunità che i sistemi politici locali prevedono per l’inclusione delle

popolazioni sciite che determinano queste differenze di comportamento politico. In altre parole, nei

Paesi in cui gli sciiti sono più integrati, l’Iran ha meno influenza su di loro, perché non favoriscono

la parte iraniana quando il contesto politico nazionale è a loro favorevole.

La suscettibilità dell’Arabia Saudita verso la sollecitazione delle proteste da parte iraniana nei

Paesi vicini ha raggiunto anche lo Yemen, dove l’Iran ha sostenuto le proteste degli Houthi. L’Arabia

Saudita ha considerato necessario reprimere ogni tentativo di diffondere la rivoluzione nelle zone di

confine. In primo luogo, l’Arabia Saudita ha abbandonato la sua relativa passività in politica estera

per condurre un allineamento inter-arabo come contrappeso alla minaccia iraniana nello Yemen.

Per l’Iran, lo Yemen non era un punto nodale della politica di sicurezza, tuttavia l’instabilità

del Paese più povero del mondo arabo è stata percepita come un’opportunità per acquisire un potere

supplementare nei confronti dell’Arabia Arabia.

In breve, all’inizio della primavera araba, l’Iran aveva una linea vincente, mentre i sauditi

avevano scelto una linea difensiva, in particolare quando la caduta di Mubarak sembrava essere

un’altra battuta d’arresto per i loro sforzi di contenere l’influenza iraniana. Tuttavia, attraverso

l’indebolimento del regime siriano, l’Arabia Saudita sperava si spezzasse l’asse della resistenza

formata da Siria, Libano e l’Iran. Il caos generato dalla primavera araba era l’unica possibilità per i

Sauditi di limitare l’influenza iraniana. La Siria è diventata così centrale per l’Arabia Saudita che, nel

2012, ha iniziato a sostenere la rivolta. Pertanto, il modo in cui la crisi siriana si concluderà,

determinerà chi avrà vinto questo round per la conquista dell’influenza.

Il crescente squilibrio di potere nella regione ha favorito l’animosità tra l’Iran e l’Arabia

Saudita. Infatti, dalla caduta di Saddam nel 2003 l’equilibrio regionale si è rotto. Il nuovo Governo

in Iraq ha stabilito collegamenti diretti e legami con l’Iran a discapito degli interessi sauditi nel Paese.

Riyadh ha ritenuto che la caduta del “muro” iracheno avrebbe fornito all’Iran l’occasione per creare

nel Levante quello che viene definito “l’asse della resistenza”. L’Iran ha quindi avuto un accesso

completo ai suoi alleati in Siria, dove Teheran ha lavorato per mantenere il Presidente Bashar al-

Assad al potere durante la guerra civile, estendendosi al Libano, dove il suo alleato Hezbollah ha una

forte base, e diffondendo similmente la sua influenza nello Yemen, dove i ribelli Houthi continuano

a lottare per il controllo della politica yemenita.

Guardando la mappa del Medio Oriente, è chiaramente visibile l’amplificazione

dell’influenza dell’Iran negli ultimi anni. Questi interventi continui nei conflitti regionali hanno

fornito all’Arabia Saudita dei seri motivi per preoccuparsi.

L’espansione iraniana ha creato un accerchiamento dell’Arabia Saudita in un momento in cui

gli Stati Uniti hanno cominciato a disinteressarsi del Medio Oriente per concentrarsi sull’Asia

Orientale come nuovo imperativo strategico. Inoltre, la primavera araba ha fatto sì che i sauditi si

rendessero conto che l’intimidazione iraniana non era solo esterna, ma anche una minaccia

esistenziale interna. Quindi, la famiglia reale ha visto la necessità di assumere un atteggiamento

proattivo nelle materie concernenti la sua sicurezza. Al-Saud aveva cercato di riequilibrare il potere

nella regione al fine di evitare un’egemonia iraniana che consolidasse anche un dissenso interno.

L’intervento militare saudita in Bahrain per schiacciare le proteste contro la loro monarchia era una

prova di irrazionalità saudita nel prendere le misure necessarie per impedire la sua caduta. Infatti,

come l’equilibrio di potere continuava a cambiare a favore dell’Iran, la politica estera saudita è stata

sempre più guidata da una sensazione di urgenza sulla base di una convinzione paranoica che il suo

crollo fosse imminente. Secondo Durani, nel 2015 le importazioni per la difesa avevano raggiunto la

cifra di 6,5 miliardi di dollari.

Da parte sua, l’Iran si è impegnato nell’estendere la sua forza militare convenzionale.

Matthew McInnis indica che in breve tempo Teheran avrà forze aeree e terrestri idonee ad operare

oltre i suoi confini. Tuttavia, l’Iran non può raggiungere il predominio aereo o distribuire grandi

formazioni di combattimento all’estero; i missili balistici sono stati l’essenza della sua strategia

militare per sopperire a tale mancanza, anche se i missili non hanno testate di precisione e non possono

essere guidati per distruggere obiettivi avversari. Pertanto questi missili sono utilizzati come

deterrenti nei confronti dei Paesi del Golfo e di Israele. Le capacità difensive missilistiche dei Paesi

del Golfo, d’altra parte, sono migliorate con l’assistenza degli Stati Uniti, ma la loro efficacia contro

un attacco iraniano non è ancora garantita. Anche se la maggior parte dei Paesi del Golfo ha sviluppato

una difesa aerea e navale migliore, l’Iran è consapevole della loro completa dipendenza dal sostegno

americano per quanto concerne l’intelligence, la ricognizione, la comunicazione, logistica, e la

formazione per condurre qualsiasi operazione militare nel futuro. McInnis sottolinea come l’Iran

continui ad espandere le sue capacità asimmetriche per aumentare il costo di eventuali azioni militari

future per i Paesi del Golfo Persico. Osserva, inoltre, come l’Iran continui ad investire in piccole

barche armate, missili cruise di difesa, sottomarini, veicoli aerei senza equipaggio, e in altri sistemi

che potrebbero sfidare le capacità dei Paesi del Golfo e degli Stati Uniti per esercitare un potere nel

Golfo Persico.

Allo stesso modo, i recenti divieti di navigazione internazionale sullo Stretto di Hormuz

nell’aprile e nel maggio del 2015, dimostrano che l’Iran cerca di ricordare al mondo la sua capacità

di controllare il contesto regionale. Per Teheran, l’equilibrio convenzionale di potere nel Golfo

Persico rimarrà nel breve termine un gioco difensivo e coercitivo e la modernizzazione nei prossimi

decenni delle sue forze missilistiche, di difesa aerea, navali e terrestri potrebbe farne una vera e

propria potenza militare in grado di sfidare direttamente gli Stati del Golfo.

In aggiunta alla sua potenza militare competitiva, il territorio e la popolazione iraniane sono

immensamente maggiori di quelli di qualsiasi altro Stato arabo del Golfo. La sua economia, la scienza

e la tecnologia sono anche più avanzate e diversificate. Questi fatti sollevano le preoccupazioni dei

sauditi riguardo alla loro vulnerabilità di fronte al crescente potere dei loro vicini.

Secondo Bruno, l’accordo di Vienna sul programma nucleare iraniano ha alimentato

ulteriormente la rivalità strategica tra l’ayatollah e al-Saud. Gli iraniani riceveranno investimenti

dall’Europa e dai Paesi emergenti, compresa la Cina. La famiglia reale saudita teme che il rilascio di

risorse economiche renda Teheran un gigante regionale che può utilizzare ogni crisi per perseguire i

suoi obiettivi politici e militari. L’Iran detiene già una leadership in crescita nel Medio Oriente

nonostante il danno causato dalle sanzioni economiche. La sua vera forza risiede nell’interno, in

quanto è la più stabile nazione musulmana in Medio Oriente. L’Iran è esistito all’interno dei suoi

confini attuali per migliaia di anni ed è riuscito a mantenere sotto controllo le sue minoranze. Inoltre,

anche se è governato da chierici, l’Iran ha meccanismi elettorali democratici dalla rivoluzione del

1979. Van Buren osserva che, a differenza dell’Arabia Saudita, i leader iraniani non si preoccupano

di una possibile rivoluzione islamica perché l’hanno già sperimentata.

Inoltre, Salehzadeh scrive che Ali Khamenei ha diviso il potere tra diverse élite, come il Corpo

delle Guardie rivoluzionarie (IRGC), l’esercito della Repubblica Islamica dell’Iran, i servizi di

intelligence e il Basij. Tra questi gruppi vi è una lotta per il potere e per i proventi del petrolio. Ogni

gruppo cerca di preservare il sistema dominante presente nel Paese, perché tutti insieme con il loro

leader Ali Khamenei sono come una nave; se un pezzo si rompe, la nave intera affonda. Per questa

ragione, tutti gli interessi sono subordinati al mantenere l’attuale regime politico e l’unità interna.

Friedland esplicita che, al fine di salvaguardare il suo sistema statuale, l’Iran applica

generalmente un soft power. Tenta di diffondere la sua influenza attraverso i legami con religiosi

sciiti nella regione, finanzia le cause umanitarie e politiche, l’acquisto di armi, l’addestramento per i

militanti, favorisce il commercio, l’attività diplomatica e l’influenza culturale. Tuttavia, l’Iran sembra

avere ancora una lunga strada da percorrere per avere successo nel presentarsi come leader del mondo

islamico.

Fare in modo che l’Iran non ottenga questa leadership è l’obiettivo dell’Arabia Saudita. Il suo

obiettivo principale è diventato frenare il potere. Riyadh ha scelto di riequilibrare l’influenza iraniana

attraverso una strategia sfumata invece che con una apertamente conflittuale. Attualmente i Paesi del

Golfo hanno scelto una politica strategicamente difensiva e tatticamente offensiva per bloccare l’Iran,

attraverso l’attuazione di una guerra di coalizione che utilizza le forze aeree per sostenere le forze di

terra. Questa competizione senza fine tra l’Arabia Saudita e l’Iran per il potere regionale e l’influenza

sta infiammando ulteriormente l’area mediorientale.

È interessante soffermarsi anche sulle opposte alleanze di Iran e Arabia Saudita. Durante la

Guerra Fredda la maggior parte dei Paesi apparteneva al blocco occidentale o al blocco orientale. Nel

suo articolo Salehzadeh riconosce che, nel 1979, seguendo i principi di Khomeini, l’Iran ha tentato

di evitare di costruire una politica estera che inclinasse verso uno dei campi. Tuttavia questo non è

stato possibile, grazie alle buone relazioni dell’Iran con il campo “orientale”, in particolare con la

Russia, il vecchio regime dell’Unione Sovietica e la Cina. Questi due Paesi restano i principali alleati

dell’Iran, nonostante il fatto che Teheran sia uno Stato membro della Movimento Non Allineato e

abbia una propria agenda politica. Queste alleanze servono all’Iran per contrastare l’influenza

occidentale crescente nella regione del Maghreb e portare avanti il suo programma nucleare.

La Russia è un membro permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e un

membro del P5+1, ed ha appoggiato il Joint Comprehensive Plan of Action sul programma nucleare

iraniano. La Russia è anche un alleato strategico nella lotta dell’Iran per mantenere Assad al potere.

La Russia è stato il principale fornitore di armi convenzionali e tecnologie missilistiche all’Iran.

Analogamente, ha fornito anche il combustibile per il reattore nucleare per usi civili a Bushehr; un

progetto da cui la Russia riceve significativi ricavi. Nel gennaio del 2015, i due alleati hanno firmato

un memorandum d’intesa sulla cooperazione in materia di difesa, in cui rientravano anche le

esercitazioni militari.

Le sanzioni contro la Russia del 2014 hanno contribuito a rafforzare l’allineamento dei due

Paesi in quanto entrambi si considerano bersagli delle sanzioni occidentali. Ambedue hanno accusato

gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita di cospirare contro di loro e di utilizzare la diminuzione dei prezzi

internazionali del petrolio per fare pressione sulla loro economia. Katzman spiega inoltre che il

Consiglio di cooperazione degli Stati arabi del Golfo, d’altra parte, ha scelto l’alleanza con il campo

occidentale. Infatti, dopo il ritiro britannico dalla regione del Golfo, gli Stati Uniti hanno svolto il

ruolo di protettore dei Paesi del Golfo. Da allora, ogni Paese si è impegnato negli accordi militari e

di sicurezza bilaterali con gli Stati Uniti, ben consapevole che l’Iran ha 1.100 miglia di costa sul Golfo

Persico e sul Golfo dell’Oman; le monarchie del Golfo ospitano un numero significativo di forze Usa

presso le loro strutture militari e acquistano equipaggiamenti militari dagli Stati Uniti, tra cui la

tecnologia di difesa missilistica. Le loro strutture sono fondamentali per eventuali operazioni aeree

degli Stati Uniti contro l’Iran nell’eventualità di un conflitto regionale.

Salehzadeh osserva come attraverso l’aiuto saudita, gli Stati Uniti possano essere considerati

come un Paese confinante con l’Iran che sorveglia gli affari interni ed esteri della regione, tra cui le

relazioni dell’Iran con i suoi vicini. Questa presenza militare straniera accanto ai confini iraniani è

una minaccia esistenziale per Teheran. I leader iraniani sottolineano come le grandi dimensioni della

presenza militare degli Stati Uniti nella regione del Golfo Persico li esponga a un possibile attacco

nel caso di errori di calcolo militare o travisamento delle politiche iraniane nella regione. L’obiettivo

principale di Iran era convincere gli Stati del Golfo ad abbandonare la loro dipendenza dai poteri

esterni e stabilire accordi di sicurezza collettiva. Tuttavia, gli Stati del Golfo hanno rifiutato una

collaborazione collettiva sotto una leadership iraniana e si sono avvicinati al campo occidentale.

Prima della primavera araba, si erano formati due assi, l’uno contro l’altro. Da un lato, un

campo pro-USA, guidato dall’Arabia Saudita, tra cui la monarchia conservatrice del Re Abdullah II

di Giordania e il regime autocratico di Hosni Mubarak in Egitto. Dall’altra parte, l’asse anti-

statunitense era guidato dall’Iran e comprendeva la Siria, la formazione libanese Hezbollah, Hamas

e il governo iracheno di recente formazione. Tuttavia, lo scoppio improvviso del Primavera araba

all’inizio del 2011 ha disorganizzato e interrotto l’asse anti-Iran. La caduta di Mubarak ha dato potere

ai Fratelli Musulmani in Egitto, che rapidamente hanno migliorato le relazioni con l’Iran a spese

dell’Arabia Saudita. Per la prima volta dalla rivoluzione del 1979, le navi iraniane avrebbero potuto

attraversare il Canale di Suez nel loro cammino verso i porti siriani. Tuttavia questo avvicinamento

non è durato a lungo, non appena il Governo dei Fratelli Musulmani è stato rovesciato da un colpo di

stato militare. Allo stesso modo, gli alleati siriani e libanesi dell’Iran sono stati scossi dagli ultimi

eventi, rendendo più difficile per Teheran garantire la sopravvivenza dell’“l’asse della resistenza”.

Mentre l’ambiente politico regionale si è trasformato, l’Iran ha visto la necessità di una

riconciliazione con i suoi vicini arabi per salvaguardare la propria egemonia. L’Iran era consapevole

che non avrebbe mai potuto ottenere la leadership del mondo musulmano se non poteva garantire la

sicurezza dell’area mediorientale.

Inoltre, Teheran ha cercato di espandere la sua influenza politica instaurando rapporti con

ciascuno dei suoi vicini del Golfo. Per lo più ha cercato di attuare dei gesti diplomatici, degli accordi

economici e commerciali, e la cooperazione militare. Meno spesso, ha usato la sua autorità religiosa

sciita per raggiungere le minoranze sciite.

L’approccio iraniano verso ogni vicino è differente ed è caratterizzato da diversi fattori

politici, economici, geografici, e storici indipendentemente dalle loro differenze settarie. Il Qatar per

esempio, ha mantenuto storicamente buoni rapporti con l’Iran, con il quale condivide il controllo sul

più grande giacimento di gas del mondo. L’Oman, che ha una grande importanza strategica per l’Iran,

è anche considerato uno dei Paesi del Golfo più vicino a Teheran. In effetti, il 40% delle forniture di

petrolio del mondo ogni giorno passa dallo stretto di Hormuz. In aggiunta a questo, i principali canali

delle acque profonde e le rotte marittime sono nelle acque dell’Oman. Inoltre, le 200 miglia di costa

dell’Oman rappresentano un hub commerciale chiave sia per il Golfo Persico settentrionale sia per le

regioni dell’Oceano Indiano. Allison osserva come l’Oman non sia mai stato governato

dall’Inghilterra, non sia un membro dell’OPEC, ed abbia contribuito a condurre relazioni commerciali

e diplomatiche con l’Iran, indipendentemente dalla loro differenza settaria

Tutto il processo di creazione delle alleanze, sia dell’Iran sia dell’Arabia Saudita, ha

attraversato le linea di faglia settarie per raggiungere i loro alleati regionali.

La politica estera iraniana ha affrontato i vincoli di un Medio Oriente in cui né i persiani né

gli sciiti sono la maggioranza. Che si trattasse di prima o dopo la rivoluzione iraniana, l’Iran ha

cercato in generale alleanze strategiche, non settarie. Tuttavia, dalla nascita della Repubblica Islamica

e dall’inasprimento della politica di contenimento da parte dell’Occidente e del Golfo, l’Iran ha avuto

un ristretto numero di partner da selezionare. Ayub spiega che invece di adottare una politica

esclusivamente sciita, l’Iran ha cercato di costruire partenariati con i Paesi e gli attori non statali che

condividono il suo risentimento per l’ordine regionale e la percezione di minaccia alla sicurezza

interna. Attraverso questo approccio, l’Iran si è trovato più vicino al sunnita Hamas, allo sciita

Hezbollah e al regime laico alauita di Assad. Analogamente, la recente vicinanza con l’Iraq non è

semplicemente finalizzata alla costruzione di un rapporto con il secondo più grande Paese a

maggioranza sciita; la vicinanza a Baghdad ha come fine il mitigare le minacce da uno Stato vicino

e il trovare alleati all’interno di uno Stato a maggioranza sciita. Ma, come le tensioni e i conflitti

diventano altrove sempre più divisi secondo linee confessionali, l’Iran si è trovato sempre più

vincolato nella sua capacità di costruire relazioni con i gruppi non-sciiti.

Tuttavia, il marchio iraniano sciita sarà costantemente una carta perdente nella sua lotta per

la leadership religiosa di un mondo musulmano che è al 90% sunnita. Gli stessi sciiti non sono così

uniti come sembrano. Per la maggior parte di loro, la loro identità e i loro interessi si basano più sulla

loro origine etnica che sulla loro confessione religiosa. Gli sciiti iracheni, per esempio, hanno scelto

il loro interesse nazionale durante la guerra Iran-Iraq ed erano pronti a uccidere i loro compagni sciiti

in Iran e viceversa. Allo stesso modo, i gruppi militanti sciiti in Libano, Amal e Hezbollah, si sono

scontrati durante la guerra civile nel Paese. Allo stesso modo, gli Houthi zaydi sciiti nello Yemen

hanno combattuto il Governo di Ali Abdullah Saleh, uno zaydi, diverse volte tra il 2004 e il 2010,

poi, nel 2014, hanno catturato la capitale Sana’a, con il supporto del deposto presidente Saleh. La

condivisione di una comune identità sunnita non ha eliminato le lotte di potere tra i musulmani sunniti

sia che si tratti di un Governo laico o religioso. I sauditi, i Fratelli Musulmani e la Turchia e i gruppi

sunniti regionali sono bloccati in un conflitto sul ruolo politico dell’Islam nel mondo sunnita. Anche

all’interno dello stesso campo salafita ci sono divisioni gravi.

Una gestione efficace degli alleati regionali richiede una ideologia transnazionale e

connessioni politiche che rendano il target potenziale aperto ad un rapporto. Queste connessioni sono

ora più forti della potenza militare convenzionale per manovrare il corso della politica regionale.

Secondo Bazoobandi, le relazioni Iraq-Iran sono il miglior esempio di queste connessioni. Inoltre, in

Iraq, l’Iran è penetrato nel Governo appena nato per mantenere una forte coalizione favorevole e in

grado di fornire un ampio sostegno agli obiettivi di Teheran nell’area. Attraverso questo processo,

l’Iran cerca di contrastare l’influenza di altri concorrenti nel Paese compresa quella dell’Arabia

Saudita, che a sua volta sostiene i gruppi sunniti in tutto l’Iraq. Così Baghdad è diventata un punto

strategico per l’Iran nella regione, ha fornendo opportunità con cui contrastare l’influenza saudita.

L’Iraq ha aiutato l’Iran ad eludere le sanzioni internazionali più dure. In effetti, l’Iraq è

diventato il secondo partner commerciale dell’Iran dopo la Turchia, uno dei maggiori investitori nel

settore delle costruzioni del turismo religioso, nel settore energetico e in quello bancario.

Anche l’influenza nel Libano ha una rilevanza strategica per l’Iran a causa dei suoi confini

con la Palestina, il suo atteggiamento nei confronti di Israele e l’accesso al Mediterraneo per gli

obiettivi economici e geopolitici. I rapporti tra il Libano e la Siria sono sempre stati buoni dopo

l’istituzione della Repubblica Islamica. Khomeini ha visto lo sciismo libanese come un partner

fondamentale negli sforzi iraniani per esportare la sua rivoluzione nella regione. Per questi motivi e

come risposta all’invasione israeliana in Libano, Teheran ha offerto il suo supporto agli sciiti libanesi

e ha contribuito a fondare Hezbollah nel 1982.

Le priorità delle alleanze strategiche iraniane prevedono anche una forte collaborazione con

la Siria. Anche se il Governo siriano è laico e segue la confessione alauita, che è un lontano ramo

dell’Islam sciita, l’alleanza dell’Iran con il governo di Bashar è stata la più resiliente in Medio Oriente

a causa dei loro interessi comuni a lungo termine. Da parte sua, l’Iran considera la Siria l’alleato più

affidabile nella regione che può offrire aiuti strategici per affrontare qualsiasi potenziale aggressione

militare israeliana e per influenzare gli sviluppi in Libano e in Palestina, e probabilmente anche nel

Mediterraneo orientale. Inoltre, durante la guerra Iran-Iraq, l’Iran è stato isolato dagli altri Paesi arabi

e la Siria era l’unico alleato arabo al suo fianco. Questa posizione non è frutto semplicemente della

simpatia tra sciiti e alauiti. In realtà, Iran e Siria hanno una alleanza strategica di lunga data, in parte

a causa della loro comune animosità nei confronti di Saddam Hussein. Il mantenimento di una grande

alleanza con la Siria ha anche fornito all’Iran un canale sicuro per la spedizione di beni commerciali

e militari, che sono divenuti particolarmente importanti dopo le sanzioni contro Teheran nel 2011.

L’Iran ha beneficiato anche della sua alleanza con la Siria per entrare nei mercati

internazionali. Nel febbraio del 2013, Iran, Iraq e la Siria hanno firmato un accordo sulla costruzione

di un gasdotto, attraverso il quale il gas naturale dell’Iran sarebbe trasportato attraverso l’Iraq fino

alla Siria e venduto sui mercati europei. L’Iran considera la Siria come una sua estensione strategica

che non può permettersi di perdere. Ecco perché il corso degli avvenimenti in Siria e l’esito delle crisi

sono diventati così importanti per Teheran. Se l’alleanza Iran-Siria si rompesse, l’influenza e

l’autorità della Repubblica Islamica nella regione crollerebbero e l’Iran non sarebbe più in grado di

minacciare Israele, l’Arabia Saudita e i suoi alleati.

Per contrastare le alleanze dell’asse iraniano, l’Arabia Saudita ha cercato di rafforzare la

cooperazione con gli Stati del Golfo. Tuttavia, le aspirazioni saudite per una leadership sulla parte

meridionale del Golfo non hanno incontrato una risposta favorevole da parte degli altri Paesi del

Golfo per disaccordi militari e monetari. Con il peggiorare delle relazioni con l’Iran, l’Arabia Saudita

ha cercato di stabilire nuove alleanze nella regione con la Turchia, l’Egitto e gli Stati africani

confinanti.

Arabia Saudita e Iran continuano a considerarsi a vicenda come minacce. L’Arabia Saudita

percepisce che l’Iran sta cercando di ribaltare un ordine politico del Medio Oriente che è adatto ai

suoi interessi; mentre gli iraniani credono che il regno saudita stia lavorando per mantenere l’Iran

vulnerabile. Così le due potenze cadono in un dilemma di sicurezza. Come uno di loro aumenta la

spesa per la difesa o sostiene un conflitto regionale per procura al fine di proteggere se stesso da una

minaccia percepita, l’altro vede questa misura di difesa come minaccia e reagisce di conseguenza.

Entrambi si sentono in dovere di intraprendere delle azioni per garantire la propria sicurezza e

finiscono per intimidire la loro controparte aumentando le probabilità di conflitti futuri. I sauditi e gli

iraniani stano attuando delle strategie politiche a somma zero; più potente appare l’Iran, più

vulnerabili si sentono i sauditi e vice versa. La logica difensiva iraniana spiega il suo supporto ai

conflitti in Paesi come la Siria e lo Yemen. Tali supporti iniziano a sembrare cruciali. L’Arabia

Saudita percepisce l’aiuto iraniano per gli Houthi nello Yemen come un tentativo di creare il caos nei

vicini confini sauditi. Nel frattempo, l’Iran vede il supporto dell’Arabia Saudita ai ribelli in Siria

come un mezzo per privarla di un importante alleato e circondarlo di regimi aggressivi. La migliore

risposta per l’Arabia Saudita è stata quella di bombardare gli Houthi nello Yemen mentre l’Iran ha

inviato più truppe e consiglieri militari in Siria.

Come conseguenza della paura costante negli ultimi anni, l’Arabia Saudita e l’Iran sono stati

sempre più coinvolti in una serie di conflitti “per procura”, in quanto le trasformazioni degli ordini

politici nella regione hanno dato l’opportunità a queste due potenze di competere per l’influenza. Iran

e Arabia Saudita hanno avuto come obiettivi, per proiettare il loro soft power nella regione, Stati

frammentati che affrontavano gravi problemi politici interni. La loro concorrenza ha esacerbato una

serie di contenziosi esistenti nella regione, dal momento che le due potenze sostenevano i fronti

opposti.

I loro impegni al di là dei propri confini si sono intensificati quando hanno attivamente fornito

sostegno militare e paramilitare ai loro alleati contrapposti in Siria e in Iraq, come così come nel

Libano e nello Yemen. Il sostegno agli alleati generalmente include spedizioni di armi, fornitura di

consulenti, formazione delle milizie militari e paramilitari e finanziamento. La lotta è chiaramente

per la direzione della politica interna nel Medio Oriente più che una competizione prettamente

militare.

Il rovesciamento di Saddam Hussein nel 2003 ha dato all’Iran la possibilità di modificare il

suo rapporto con l’Iraq. Questo è stato un evento promettente e minaccioso per Teheran. In realtà,

l’Iran temeva che l’Iraq potesse diventare un alleato armato degli Stati Uniti in modo tale da

completare l’accerchiamento militare dei suoi confini. Pertanto, ha cercato di controllare gli sviluppi

nel suo vicino lavorando con i Partiti sciiti iracheni, le forze sciite emergenti e i curdi, inoltre, in

misura minore l’Iran ha supportato anche i gruppi sunniti. L’Iran ha utilizzato i suoi rapporti di lunga

data con i politici chiave iracheni, i Partiti e i gruppi armati, e il suo soft power nella sfera economica,

religiosa, per affermarsi in Iraq. Principalmente, l’obiettivo politico iraniano era quello di unire i

Partiti sciiti iracheni in modo che potessero tradurre il loro peso demografico in influenza politica

consolidando il controllo sul Governo.

La maggior parte degli attuali membri sciiti delle élite politiche in Iraq, come le famiglie

Hakim e Sadr, ha trascorso il periodo dell’esilio in Iran. Oggi non solo hanno stretti legami con

Teheran, ma cercano anche di mantenere una collaborazione reciproca; vedono l’Iran come un

supporto culturalmente familiare e forte alle prime luci dell’alba del loro dominio politico in Iraq.

Infatti, durante l’esilio, l’Iran li ha aiutati nell’organizzazione del Supremo Consiglio della

Rivoluzione Islamica in Iraq (ISCI), costituito a Teheran nel 1982, con base in Iran fino al

trasferimento in Iraq nel 2003. Allo stesso modo, le Guardie Rivoluzionarie hanno organizzato le

Brigate Badr, l’ala militare del Supremo Consiglio che ha combattuto fianco a fianco con le forze

iraniane durante gli otto anni della guerra. Dopo il 2003, migliaia di miliziani Badr sono entrati nel

sud dell’Iraq dall’Iran per proteggere i confini meridionali iraniani. L’Iran ha inviato 2.000 Guardie

Rivoluzionarie e paramilitari in Iraq del sud dietro le colonne corazzate degli Stati Uniti nel marzo

del 2003 e gli iraniani hanno preso il controllo di Bassora prima che gli Usa potessero arrivare anche

a Baghdad. Molti uomini dell’organizzazione Badr sono stati poi integrati nelle forze di sicurezza

irachene, in particolare nell’esercito e nel Ministero dell’intelligence e dell’organizzazione delle forze

speciali interne.

Il Partito islamico Dawa, fondato nel 1957, ha avuto il sostegno iraniano durante le ultime

fasi della sua esistenza sotterranea in Iraq. Dopo il 2003, il Dawa ha aderito al processo politico

nazionale. Tuttavia, aveva un potenziale limitato a causa della sua milizia armata. Il leader del Partito,

Nouri al-Maliki, è stato poi selezionato dal più potente Supremo Consiglio e dai sadristi come scelta

di compromesso per la carica di Primo Ministro nell’aprile del 2006. Gli alleati di Teheran hanno

quindi svolto un ruolo chiave nel plasmare la costituzione del 2005 e le nascenti istituzioni politiche

irachene. Anche se l’Iran ha utilizzato la carta settaria per guadagnare influenza in Iraq, il suo

sostegno agli alleati sciiti iracheni non era basato solo sulla condivisa solidarietà religiosa e sulla

comune opposizione al regime di Saddam Hussein, ma anche sul riconoscimento che questi gruppi

islamici potessero assegnare all’Iran un risultato migliore di quello offerto da raggruppamenti

nazionalisti laici, come la coalizione Iraqiyah di Ayad Allawi, un Partito nazionalista più laico, la cui

base politica comprendeva molti nazionalisti arabi ed ex sostenitori del regime che si opponevano

fortemente all’influenza iraniana in Iraq. Con l’aiuto iraniano, una lista sciita congiunta, l’Alleanza

irachena unita (UIA), ha gareggiato nelle elezioni parlamentari del 2005. L’alleanza includeva l’ISCI,

il Partito dell’organizzazione Badr, il Dawa, il Partito islamico Fadhila, e altri piccoli Partiti sciiti

iracheni, che hanno goduto di diversi livelli di supporto da parte dell’Iran. L’Alleanza ha ottenuto la

maggioranza dei voti in entrambe le elezioni, e ha quindi svolto un ruolo importante nella definizione

della costituzione irachena e nei seguenti Governi. L’UIA è stata sostenuta anche nelle gennaio del

2005 elezioni da un’autorità sciita religiosa irachena, l’ayatollah Ali al-Sistani, nonostante le sue

differenze con l’establishment religioso di Qom per quanto riguarda la dottrina del governo clericale

(Velayat-e faqih).

Pur promuovendo il suo soft power nell’Iraq, l’Iran ha anche cercato di influenzare la rete

clericale sciita a Najaf. Teheran ha finanziato i chierici politicizzati a Qom. Teheran segue questo

metodo non solo a causa delle convinzioni religiose e politiche, ma anche perché ritiene che la

promozione della solidarietà con gli sciiti del mondo gli garantirà il loro sostegno in caso di un

possibile attacco contro l’Iran. Sostenendo i chierici iraniani a Qom che promuovono la sua ideologia

di Governo clericale (velayat-e faqih), piuttosto che i chierici di Najaf, che promuovono un ruolo

clericale più limitato in politica, l’Iran cerca di controllare la rete sciita internazionale.

La morte dell’ayatollah Hussein Fadlallah, nel 2010, un influente religioso libanese addestrato

a Najaf, e le cattive condizioni di salute di Ali al-Sistani, il membro della scuola di Najaf e il principale

marja, importante per quasi l’80% di tutti gli sciiti del mondo, rende la scuola Najaf più vulnerabile

alla influenza iraniana. In questo modo, l’Iran acquisisce influenza in Iraq e cerca di stabilire per se

stesso un ruolo importante nella vita politica, economica, e religiosa di Najaf.

L’Iran ha lavorato anche per preservare i suoi legami di vecchia data con i principali Partiti

curdi dell’Iraq, tra cui il Partito Democratico Curdo (KDP) e l’Unione Patriottica del Kurdistan (PUK)

per fissare la sua influenza in alcune zone del nord dell’Iraq. I guerriglieri curdi peshmerga hanno

combattuto a fianco dell’Iran contro le forze irachene durante la guerra Iran-Iraq, e, reciprocamente,

Teheran ha armato il PUK durante il suo combattimento con il KDP dal 1994 al 1998. L’Iran continua

a godere di stretti legami con il PUK e KDP e con il Governo regionale del Kurdistan (KRG) con

sede a Irbil. L’Iran ha rapidamente sviluppato legami economici bilaterali con il KRG che incontrano

le esigenze di Irbil per quanto riguarda lo sbocco sul mare e l’accesso ai mercati, mentre l’Iran

potrebbe ottenere prodotti combustibili raffinati e tecnologia. Questa alleanza ha aiutato l’Iran a

eludere in parte la sanzioni internazionali.

Indubbiamente, l’Iran ha contribuito a stabilire molte delle milizie sciite che hanno

combattuto gli Stati Uniti nel periodo 2003-2011. La maggior parte di questi gruppi si è trasformata

in organizzazioni politiche tra il 2011 e il 2014. L’Iran ha fatto in modo che alcuni di questi gruppi

sostenessero le forze di sicurezza irachene (ISF) contro lo Stato Islamico. Le milizie con cui l’Iran

lavora più a stretto contatto in Iraq includono As’aib Ahl Al Haq (Lega delle Giusti), Kata’ib

Hezbollah (Brigate Hezbollah), e l’Organizzazione Badr. L’esercito del Mahdi di Moqtada Al Sadr

(rinominato Brigate della pace nel 2014) è stato sostenuto ampiamente dall’Iran durante il periodo

2003-2011, ma ha cercato di prendere le distanze dall’Iran dopo le recenti campagne contro lo Stato

Islamico.

L’Arabia Saudita, dall’altro lato, era pessimista su tutta la situazione in Iraq dopo l’invasione

americana nel 2003. Per lo più, ogni tentativo saudita per lanciare relazioni con i gruppi sunniti arabi

o le fazioni in Iraq avrebbe potuto mettere i sauditi in una posizione discutibile, dato che andavano a

sostenere fazioni contrarie agli alleati americani. Per questo, Riyadh ha mantenuto la comunicazione

con i Partiti iracheni, arabi e curdi, sunniti e sciiti, tribali e urbani, ma non è riuscita a favorire il tipo

di relazioni stabilite dall’Iran.

In altri conflitti regionali i sauditi hanno sviluppato stretti legami con vari partiti, per lo più

attraverso aiuti finanziari, sostegno diplomatico e talvolta con aiuti militari diretti, al fine di

controllare i conflitti e salvare i propri interessi. Nel caso iracheno Riyadh ha mantenuto la sua

passività come gli Stati Uniti richiedevano per impedire il consolidamento dell’influenza iraniana in

Iraq. Come l’Iran continuava a consolidare la sua influenza sui gruppi sciiti, l’Arabia Saudita ha avuto

un momento difficile nella portare avanti la sua modalità paternalistica di trattare gli alleati della

comunità araba sunnita, a causa della loro identificazione con il ceppo salafita del jihadismo che

aveva preso di mira il regime saudita. Tuttavia, quando il movimento di Al-Sahwa (Risveglio) è

apparso nel 2006, l’Arabia Saudita ha finalmente trovato un alleato iracheno ostile all’intervento

iraniano. Pertanto, in collaborazione con gli Stati Uniti, Riyadh ha sostenuto il movimento al-Sahwa.

Inoltre, per affrontare il peso demografico della maggioranza sciita alle elezioni, Riyadh ha

sostenuto il candidato Iyad Allawi, leader del Partito Iraqiya, che era stato Primo Ministro del

Governo di transizione iracheno durante il biennio 2004-2005. Anche se Allawi era sciita, il suo

Partito era stato costruito basandosi su una coalizione trasversale multietnica che si basava sul

nazionalismo iracheno. Il Partito non ha avuto dei risultati positivi nelle elezioni del 2005, ma il

malcontento pubblico verso il Primo Ministro Nuri al-Maliki ha aiutato Allawi a vincere le elezioni

parlamentari del 2010. I sauditi lo hanno sostenuto finanziariamente e attraverso i media. Il Partito ha

ottenuto una pluralità di seggi. Tuttavia, con il sostegno iraniano, Maliki è stato in grado di tenere

insieme i Partiti sciiti e conservare la premiership. Di conseguenza, l’influenza saudita è stata ridotta

a un mero simbolo. L’Arabia Saudita ha rifiutato di ricevere al Maliki a Riyadh per le visite ufficiali

di inviare un ambasciatore a Baghdad.

L’Iran ha cercato di influenzare il risultato delle elezioni parlamentari irachene nel 2005 e nel

2010, e le elezioni provinciali del 2009, con il finanziamento e la consulenza dei suoi candidati

preferiti. Dopo le elezioni del 2010 ha stabilito una strategia politica post-elettorale centrata sulla

prevenzione della nascita di un Governo da parte di Allawi. A tal fine, tutte le principali liste sciite

sono state invitate a Teheran per incontri, dove la SLA e l’INA sono stati incoraggiati a formare una

coalizione, che avrebbe portato alla formazione dell’Alleanza Nazionale (NA) nel maggio del 2010.

Per molti osservatori, l’Iran sta perdendo l’Iraq a favore degli Stati Uniti o di un Governo appoggiato

dai sauditi, il che significherebbe una battuta d’arresto per la sua ricerca di influenza regionale e

potrebbe costituire una grave minaccia per la sicurezza dei suoi confini.

A seguito della partenza nel 2014 di Nouri Al Maliki, l’Arabia Saudita ha accolto con favore

l’arrivo del nuovo premier iracheno Haider Al Abadi. Allo stesso modo, l’Iran ha cessato di sostenere

il suo ex alleato al Maliki appena si è reso conto della portata di entrambe le opposizioni nazionali e

internazionali quando Mosul è caduto in mano allo Stato Islamico. L’Iran ha avuto un altro punto di

vantaggio nei confronti dell’Iraq nel 2014 quando Obama ha rifiutato in un primo momento di aiutare

l’Iraq contro l’ISIS, che ha iniziato una marcia verso Baghdad a giugno. In quel momento critico,

nessun Paese si è offerto di aiutare il governo iracheno, se non l’Iran. Teheran ha inviato consulenti

e armi che hanno permesso all’Iraq di respirare e di evitare la caduta di Baghdad. Nell’offensiva su

Tikrit, sono stati mobilitati 20.000 miliziani sciiti. Paradossalmente, l’ascesa dello Stato Islamico ha

rafforzato l’influenza iraniana. La brutalità e la spietatezza dello Stato Islamico hanno permesso ai

consiglieri iraniani di gestire efficacemente le milizie sciite in Iraq e in una certa misura l’esercito

iracheno, e costretto gli Stati Uniti ad usare la loro potenza aerea in tandem con le forze di terra

guidate dall’Iran.

La competizione tra l’Iran e l’Arabia Saudita ha coinvolto anche il Libano, dove entrambi

hanno intensificato le divisioni tra le fazioni politiche libanesi. Questa divisione risale all’assassinio

dell’ex primo ministro Rafiq Hariri il 14 febbraio 2005, che ha portato all’emergere di un campo di

battaglia politico tra i pro-Iran e Assad, “Alleanza 8 marzo” e il pro-Golfo e Arabia Saudita “Alleanza

14 marzo”.

Da un lato, l’Alleanza 8 marzo si è formata dopo le elezioni dell’8 marzo, quando migliaia di

sostenitori pro-Siria e pro-Hezbollah hanno protestato per le dimissioni del Primo Ministro filo siriano

Omar Karami. L’alleanza è principalmente una coalizione che comprende il Movimento libero

cristiano maronita, il movimento sciita Amal e Hezbollah. Dall’altro, l’Alleanza 14 Marzo, formata

anch’essa nel 2005, prende il nome dalle proteste anti-siriane che hanno avuto luogo il 14 Marzo

2005 segnando il mese di commemorazione dall’assassinio di Rafiq Hariri. Guidati dal sunnita

Movimento del Futuro di Saad Hariri, il Alleanza 14 marzo è una coalizione politica di Partiti uniti

dalla loro presa di posizione anti-siriana, anti-iraniana e dalla opposizione all’Alleanza 8 marzo.

Guidata anche da Michel Moawad, figlio del Presidente René Moawad e leader del movimento per

l’indipendenza, così come dai membri delle Forze cristiane libanesi e da altre figure come Amine

Gemayel, Presidente del Partito Kataeb ed ex Presidente della Repubblica del Libano. Blanchard

osserva come il sistema confessionale abbia prodotto strane alleanze, tra cui la più recente coalizione

di Governo che collegava Hezbollah, la milizia sciita e il Partito politico, considerata dagli Stati Uniti

una Organizzazione terroristica, insieme ai Partiti di sinistra e alle fazioni cristiane filo-siriane.

La maggior parte dei Partiti libanesi si basa su sette, ma è legata ai propri interessi regionali.

Come dimostra la collaborazione tra il Partito sunnita Mustaqbal (il Movimento Futuro) con i sauditi,

e la dipendenza dei principali Partiti sciiti, di Amal e Hezbollah dall’Iran. L’Alleanza 14 marzo ha

accusato l’Alleanza 8 marzo di essere alle dipendenze dei rispettivi regimi di Iran e Siria. L’Alleanza

8 marzo ha accusato il rivale di essere una coalizione fantoccio guidata dall’amministrazione

americana e finanziata dal Governo saudita.

Appoggiando i rivali del suo alleato, il Movimento 14 marzo dominato dai sunniti, l’Iran

ritiene che Riyadh stia cercando di vanificare la sua influenza sul Libano. Nel 2005, sembrava che

Riyadh avesse inferto a Teheran una battuta d’arresto con il ritiro delle forze siriane dal Libano e la

vittoria della coalizione 14 marzo nelle elezioni parlamentari successive. Tuttavia, gli alleati libanesi

dell’Arabia Saudita non sono stati in grado di frenare Hezbollah ed entro l’inizio del 2011 l’Alleanza

14 marzo aveva perso la sua maggioranza parlamentare, ed alcuni dei suoi elementi si erano uniti ad

Hezbollah e ai suoi alleati per rimuovere Saad al-Hariri dalla premiership.

Hezbollah, il più significativo alleato dell’Iran nella regione, è una forza importante nella

politica libanese. I leader iraniani affermano che Hezbollah è una conseguenza della rivoluzione

iraniana del 1979, che l’Iran ha sostenuto politicamente, finanziariamente e militarmente dalla sua

creazione. Il finanziamento continuo e la fornitura di armi ad Hezbollah sono finalizzati a rafforzare

il ruolo sciita nella società libanese, consentendogli di acquisire più potere nell’arena politica

libanese. Inoltre, nel 2006 dopo la guerra di Hezbollah contro Israele, l’Iran ha finanziato le attività

di ricostruzione in Libano.

Secondo fonti israeliane, l’Iran ha fornito a Hezbollah più di 100.000 razzi e missili, alcuni in

grado di raggiungere Tel Aviv dal sud del Libano, così come artiglieria tecnologicamente avanzata,

artiglieria con funzionalità anti- nave, anticarro e antiaerea. Dopo la rivoluzione islamica, l’Iran

riteneva che sua ideologia si sarebbe diffusa oltre l’Iran, e ha attivamente cercato di esportarla in

Libano. Quando l’Iran era ancora in alle prese con la guerra con l’Iraq, nel 1982 inviò 1.500 delle sue

Guardie Rivoluzionarie nella valle della Bekaa in Libano. Le Guardie reclutarono e formarono

giovani uomini di gruppi sciiti libanesi, tra i quali Amal e Hezbollah, per difendere gli sciiti del

Libano contro Israele e proiettare l’influenza iraniana. Attualmente, Hezbollah mantiene un ampio

sostegno in tutto il Libano e detiene 14 dei 128 seggi del Parlamento. Hezbollah è diventato il più

potente movimento politico in Libano, la cui forza militare è cresciuta in modo significativo, tanto

che la sua ala paramilitare è considerata più potente dell’esercito libanese.

Le recenti elezioni legislative in Libano hanno segnato la vittoria di Hezbollah, un segnale

molto preoccupante per l’Arabia Saudita e gli Stati Uniti che considerano il “Partito di Dio”

un’organizzazione terroristica.

Dalla primavera araba, Hezbollah ha aiutato l’Iran nel sostenere il Governo siriano durante

il conflitto contro l’opposizione, intervenendo apertamente nella guerra civile siriana per conto del

governo di Assad. Hezbollah sta combattendo per conto dell’Iran contro l’opposizione e i ribelli

sostenuti dall’Arabia Saudita. Il suo coinvolgimento nel conflitto siriano ha intensificato le tensioni

tra il Libano e l’Arabia Saudita. Infatti, nei primi mesi del 2016, guidati dall’Arabia Saudita, i Paesi

del Golfo hanno formalmente etichettato Hezbollah come un’organizzazione terroristica sollecitando

i loro concittadini a lasciare il Libano.

Allo stesso modo, le tensioni tra l’Arabia Saudita e l’Iran e tra i loro alleati in Libano sono

aumentate dall’inizio del conflitto in Siria. Tali tensioni si sono ulteriormente amplificate dopo che il

re Salman è salito al trono saudita e ha perseguito una politica estera assertiva. Riyadh ha offerto 4

miliardi di dollari di aiuti alle forze armate libanesi, come parte del suo sforzo per preservare

l’influenza nel Paese e provocare Hezbollah, che è stato piuttosto critico verso l’aumento degli

investimenti sauditi nell’esercito libanese. Tuttavia, Al-Saud dichiarò di aver annullato la sua

fornitura di aiuti, offerti nel tentativo di rafforzare l’esercito e renderlo più adatto ad operare in modo

indipendente da Hezbollah. Il regno saudita e i suoi alleati hanno spiegato che la loro decisione aveva

lo scopo di eliminare l’influenza di Hezbollah nella politica estera libanese. L’Arabia Saudita sta

giocando un gioco particolare in Libano, volendo punire e indebolire Hezbollah e il suo supporter

iraniano.

L’intervento russo e iraniano in Siria ha aumentato la rabbia saudita verso Hezbollah.

L’obiettivo di Riyadh in Siria è quello di sbarazzarsi dell’Iran, ma Hezbollah ha come obiettivo quello

di resistere. Pertanto, la frustrazione con Beirut è cresciuta costantemente nel regno saudita. A

peggiorare le cose, il Libano non si è unito a un consenso della Lega Araba che condannava l’Iran

per l’attacco all’ambasciata saudita a Teheran all’inizio di gennaio. Per incalzare il Libano, Riyadh

ha risposto sospendendo il programma di 3 miliardi di dollari per l’acquisto di armi francesi per

l’esercito libanese e annullato il progetto di 1 miliardo di dollari per l’assistenza al servizio di

sicurezza interno del Libano. Inoltre, ha inserito Hezbollah e altre organizzazioni ad esso collegate

nella lista delle organizzazioni terroristiche. In contrasto, il gruppo 8 marzo ha difeso l’Iran e ha

esortato per un appoggiò più forte all’Iran come bilanciamento dell’equilibrio regionale. Gli Stati

amici dell’Arabia Saudita riconoscono la forza di Hezbollah in Libano e non hanno il coraggio di

sfidarlo direttamente. L’espulsione dell’Iran dal Libano è un obiettivo troppo lontano per la

diplomazia saudita e sconfiggere Hezbollah non è così facile.

A questo punto, lo scenario di pressioni saudite in Libano contro Hezbollah sembra

irrealistico. L’Alleanza 14 Marzo non sembra avere abbastanza potere per reprimere gli sforzi di

Hezbollah e il braccio di ferro Riyadh con il Governo libanese imponendo delle sanzioni economiche

potrebbe estendere la crisi presidenziale. La sopravvivenza economica libanese dipende

principalmente dal Golfo e una guerra indiretta tra Riyadh e Teheran porterebbe il Paese sull’orlo del

caos politico.

Lo scoppio delle rivolte della primavera araba in Siria ha condotto il Paese in una guerra

civile che sta coinvolgendo sempre più attori regionali. Le potenze confinanti avrebbero molto da

perdere e quindi hanno avviato un patronato sulle parti in conflitto nel quadro della loro più ampia

lotta regionale per la supremazia. Questo confronto ha portato l’Iran, l’Iraq, e l’Hezbollah libanese a

fianco del regime di Assad, e l’Arabia Saudita, il Qatar e la Turchia a supporto dei ribelli.

Con il protrarsi della crisi siriana, una guerra “per procura” ha cominciato ad emergere

coinvolgendo attori regionali e internazionali. I sauditi ed i loro alleati hanno cominciato a fornire

materiale bellico e sostegno finanziario all’opposizione siriana. Nel frattempo, l’Iran, si è sentito in

dovere di dare pieno sostegno al regime di Assad, dato che la crisi in Siria stava offrendo ai suoi rivali

regionali una grande possibilità per indebolire il suo potere e la sua influenza nel Medio Oriente.

L’assistenza che è stata fornita al regime siriano da parte dell’Iran includeva petrolio e aiuti

finanziari, supporto di intelligence, attrezzature militari e munizioni, armi di piccolo calibro, armi e

artiglieria pesante, specialisti tecnici e ufficiali per formare e condurre le forze siriane, e l’invio delle

unità della Forza Quds per condurre operazioni di terra.

Un notevole supporto è stato dato alle Brigate Baath, una milizia fedele al partito Baath di

Assad. Il comandante del Corpo delle Guardie della rivoluzione islamica Mohammad Ali Jafari ha

annunciato che l’Iran sostiene al-Assad finanziariamente, politicamente e diplomaticamente e che le

forze speciali Quds dell’esercito sono da tempo presenti in Siria. Nel mese di giugno del 2015, Staffan

de Mistura, l’inviato speciale delle Nazioni Unite in Siria, stimava che l’aiuto dell’Iran alla Siria, tra

aiuti militari e economici, ammontasse totalmente a circa 6 miliardi di dollari all’anno.

Da parte sua, l’Arabia Saudita ha patrocinato tutti gli insorti utilizzabili per la causa anti-

iraniana. L’obiettivo strategico che guidava la politica estera saudita era rovesciare Assad

indebolendo, di conseguenza, Iran e Hezbollah. In effetti, Al-Saud mirava a rinforzare alcuni elementi

tra i ribelli, in modo che, se e quando Assad fosse caduto, tali elementi avrebbero controllato ciò che

rimaneva dello Stato siriano. A tal fine, l’Arabia Saudita non si è focalizzata solo sulla fornitura di

assistenza materiale e finanziaria, ma ha cercato di migliorare lo status e le capacità dell’opposizione

politica ad Assad, e in particolare della Coalizione Nazionale per la Rivoluzione Siriana e delle forze

di opposizione.

Inizialmente, il regno saudita ha patrocinato la frangia meno settaria dei gruppi ribelli,

l’Esercito Libero Siriano (FSA), e altri gruppi che hanno mantenuto una certa distanza dai Fratelli

Musulmani. Quando il FSA non ha ottenuto i risultati desiderati, i sauditi hanno spostato il loro

appoggio a gruppi combattenti salafiti apertamente più settari. I sauditi hanno iniziato a sostenere la

formazione del Fronte Islamico nel 2013, ma ancora rifiutando di sostenere Jabhat al-Nusra e l’ISIS,

e i gruppi di combattimento sunniti pubblicamente legati ad al-Qaeda. Riyadh ha scommesso su due

tipi di ribelli siriani che non sono considerati politicamente radicali e che non avrebbero chiamato

alla disobbedienza verso i governanti musulmani. Il primo è un alleato occidentale non islamico e il

secondo sono gruppi di orientamento salafita. L’Esercito Libero Siriano rientra nella prima categoria,

sotto il Supremo Comando militare guidato dal generale Salim Idris, mentre Ahrar al-Sham e simili

gruppi salafiti rientrano nella seconda categoria.

Riyadh vede il conflitto siriano come un’opportunità per frenare l’espansione dell’influenza

iraniana nel Medio Oriente. La risposta dell’Arabia Saudita e dei suoi alleati regionali ha confermato

i peggiori timori dell’Iran che l’obiettivo degli Stati del Golfo fosse indebolire la Repubblica Islamica

più che cacciare Assad dal potere. Sia l’Arabia Saudita sia l’Iran hanno investito troppo nella guerra

in Siria per tornare indietro; ciò ha sempre accecato i due rivali e li ha condotti a errori strategici senza

fine, infatti, entrambi sono caduti in un circolo di ambizioni a somma zero. Da un lato, l’Europa e gli

Stati Uniti sono allineati al fianco dei ribelli e sono d’accordo sulla necessità di un cambio di

leadership in Siria, alimentando le speranze di vittoria, ma offrendo un sostegno materiale modesto.

La Russia, d’altra parte, ha fatto del suo meglio per garantire che l’Occidente non apportasse alcun

cambiamento al regime siriano.

Anche l’Iran vede il conflitto siriano come un gioco a somma zero, in cui la caduta del regime

di Assad potrebbe significare la nascita di un nuovo regime anti-Iran che si appoggia su un ordine

politico regionale fondamentalmente ostile verso Teheran. Così, l’Iran non rischia solamente di

perdere un alleato importante, ma anche il sostegno a Hezbollah e quindi la sua influenza sul Libano

e sulla questione arabo-israeliana. Teheran dovrebbe confrontarsi con la nascita di una mezzaluna

sunnita filo-occidentale, che si estende dalla Turchia alla Siria, la Giordania, l’Arabia Saudita e gli

Emirati Arabi Uniti. Per questi motivi l’Iran non può perdere la sua prima linea di difesa contro gli

sforzi combinati dai suoi nemici regionali per isolare e rovesciare la Repubblica Islamica come parte

di una strategia a lungo termine. Lo scenario che l’Iran teme di più in Siria è la sostituzione del regime

con un altro strettamente alleato al rivale regionale di Teheran, l’Arabia Saudita. Oltre che cercare di

conservare il suo potere e l’influenza nel Levante, la strategia iraniana ha anche una componente di

difesa. L’opposizione siriana ora ha la capacità di prendere il controllo di aree del confine est dell’Iraq

ed aumentare la tensione tra il Governo dominato dagli sciiti a Baghdad e gli insorti sunniti. Pertanto,

l’Iran teme davvero che se il regime di Assad fosse deposto lo stesso potrebbe accadere in Iraq.

Il conflitto siriano potrebbe alimentare ulteriormente le ambizioni sunnite in Iraq e portare

alla disgregazione del Paese tra sciiti, sunniti e le regioni curde minacciando la sicurezza nazionale

iraniana, provocando problemi interni, soprattutto nelle regioni curde e arabe al confine con l’Iran.

Pertanto l’Iran ha iniziato ad interpretare ogni opposizione o atto stranieri come una minaccia diretta

o indiretta alla sua sopravvivenza, e come parte di una grande strategia o cospirazione per rovesciare

la Repubblica Islamica

L’alleanza tra Iran e Siria è di grande importanza geopolitica; chi arriva a controllare il Medio

Oriente deve prima prevalere sulla Siria e chi controlla Damasco o ottiene la sua alleanza potrebbe

isolare altri Stati arabi e avere un ruolo di leadership nella regione. Teheran si trova ad affrontare una

scelta obbligata con due opzioni difficili. La prima è quello di scegliere di rimanere a fianco del suo

più prezioso e antico alleato arabo e quindi essere visto come ipocrita e opportunista da parte delle

masse del mondo arabo-musulmano. La seconda è quella di essere neutrale e astenersi dal sostenere

il regime di Assad, senza alcuna garanzia di avere la fedeltà del nuovo Governo dopo la presa del

potere a Damasco. Date le attuali circostanze, l’Iran ha dovuto scegliere la prima opzione. Tuttavia,

l’Iran si rende conto che non può durare per sempre. Il suo interesse per un dialogo politico e una

possibile soluzione diplomatica è aumentato negli ultimi anni. Teheran ha anche iniziato a costruire

una milizia in Siria conosciuta come Al-Jaysh al-Sha’bi, composta da fedelissimi del regime, alauiti,

e altri gruppi, al fine di garantire che ogni futuro nuovo regime non sia in grado di controllare l’intera

Siria. In caso di perdita del suo alleato siriano, l’Iran vuole fare in modo che l’Arabia Saudita non

possa strumentalizzare la Siria contro la Repubblica Islamica nella sfida per il potere regionale.

Nel 2015, i sauditi hanno annunciato la formazione di un’alleanza militare di circa 30 paesi

musulmani, tra cui Egitto e Turchia, per combattere il terrorismo internazionale. La coalizione è stata

vista dalla Russia e dall’Iran come finalizzata a rafforzare la leadership dell’Arabia Saudita e

contrastare i loro sforzi nella regione.

L’Arabia Saudita ha recentemente minacciato di intervenire direttamente in Siria, infatti, un

funzionario militare saudita ha annunciato agli inizi di febbraio del 2016: “Il regno è pronto a

partecipare a tutte le operazioni di terra che la coalizione potrebbe accettare di svolgere in Siria”.

La rivalità geopolitica tra Iran e Arabia Saudita ha trovato anche un altro conflitto regionale

in cui dispiegare la sua distruttività, la guerra civile nello Yemen.

Lo Yemen, il Paese più povero del mondo arabo, che confina con il regno saudita e occupa

gran parte della punta sud-occidentale della penisola arabica, è diventato una delle aree in cui gli

interessi iraniani sembrano scontrarsi con quelli sauditi. A partire dal loro regionale campo di

battaglia in Siria e in Iraq, lo Yemen si è rivelato essere un’altra prima linea fondamentale nella

competizione per la supremazia.

Dopo le rivoluzioni gemelle nello Yemen settentrionale e meridionale, e la rivoluzione

islamica in Iran, la Repubblica Araba dello Yemen del Nord (YAR) ha mantenuto buoni rapporti con

l’Arabia Saudita a causa della loro reciproca opposizione all’Iran. Nello stesso tempo, il PDRY, lo

Stato socialista che è succeduto al dominio britannico nel sud è diventato più vicino a Teheran a causa

della loro comune opposizione al colonialismo occidentale e al potere delle monarchie del Golfo.

Dopo l’unificazione, i rapporti con lo Yemen sono stati stabiliti attraverso la presidenza di Ali

Abdullah Saleh, generalmente favorevole a mantenere legami con qualsiasi Stato che potesse servire

i suoi interessi, anche se Saleh era più favorevole al vicino saudita.

La vera crisi yemenita è iniziata con la rivoluzione del 2011 che ha messo fine al Governo di

Saleh dopo 33 anni di regime. Nel novembre 2011, sotto le pressioni dell’Arabia Saudita e degli Stati

Uniti, Saleh è stato costretto a firmare un accordo in cui cedeva l’autorità al Vice Presidente Abed

Rabbuh Mansur Hadi. Mansur Hadi ha avuto molte difficoltà nell’unire la litigiosa arena politica del

Paese e non è riuscito a sfidare le minacce provenienti sia da Al Qaeda nella penisola arabica sia dai

militanti Houthi che stavano conducendo una rivolta nel nord. Infatti, dopo che l’onda della

primavera araba ha colpito il Paese, gli Houthi sono aumentati, espandendosi e raggiungendo la

capitale yemenita nei primi mesi del 2015. Questo movimento militare e politico ha preso il controllo

di Sana’a dopo aver fatto pressioni sul Presidente di transizione Mansour Hadi, il nuovo alleato chiave

saudita nello Yemen, affinché si dimettesse. Nato come movimento revivalista per la forma Zaydi

dell’Islam sciita, quasi unicamente presente nel nord dello Yemen, gli Houthi si sono trasformati negli

ultimi dieci anni in una milizia formidabile. Secondo i diplomatici di Riyadh, Washington e Londra

il gruppo è sostenuto da Teheran come parte dei suoi sforzi per espandere la propria rete di alleati in

tutta la regione.

Nei mesi successivi, gli Houthi hanno dichiarato di aver preso il controllo del Governo, sciolto

il Parlamento e installato un Comitato rivoluzionario guidato da Mohammed Ali al-Houthi. Il

Presidente Hadi è fuggito a Aden, dove si è dichiarato unico Presidente legittimo e ha invitato i

funzionari governativi fedeli e i membri delle forze armate ad unirsi a lui. Il 27 marzo 2015, Hadi ha

lasciato il Paese nel momento in cui le autorità saudite hanno iniziato attacchi aerei sugli Houthi.

L’Iran ha un interesse strategico a lungo termine nello Yemen; collocato sulla punta sud-occidentale

della penisola del Golfo, lo Yemen è un paese litigioso, mal governato, vicino al confine meridionale

dell’Arabia Saudita. Inoltre, gli sciiti in Yemen potrebbero servire a Teheran come base

potenzialmente amichevole per operazioni contro l’Arabia Saudita. Giocando la carta Houthi, l’Iran

potrebbe anche cercare di fare pressione sui sauditi per le questioni riguardanti l’Iraq e la Siria o

promuovere i suoi sforzi per minare il Regno dalla suo confine sud.

Il coinvolgimento dell’Iran nello Yemen non è una novità e risale al regime di Saleh. Mentre

in passato, questo coinvolgimento è stato percepito come un fenomeno minore che comportava

spedizioni di armi ai ribelli in Yemen, oggi sembra avere una importanza strategica. Dal 2012, le

forze di sicurezza degli Stati Uniti hanno aumentato la loro cooperazione con il governo yemenita per

bloccare le spedizioni di armi iraniane nello Yemen e nel mese di luglio del 2012, il Ministero degli

Interni yemenita ha rivelato la scoperta di un gruppo di spie iraniane con sede a Sana’a e arrestato un

ufficiale della Guardia rivoluzionaria iraniana con l’accusa di esserne stato il capo. Inoltre, un

tribunale yemenita ha condannato i membri dell’equipaggio di una nave che stava trasportando armi

dall’Iran, catturato dalla Guardia Costiera yemenita e dalla US Navy in un’operazione congiunta nel

gennaio del 2013 e accusato di collaborare con l’Iran e di contrabbando di armi.

Il coinvolgimento iraniano nello Yemen permette all’Iran di dimostrare la sua forza regionale

e la portata della sua influenza militare. Le spedizioni di armi iraniane destinate agli Houthi non sono

molto significative rispetto alle armi che già raggiungono lo Yemen, in particolare il nord, ma

permettono a Teheran di acquistare influenza nel Paese e sfidare l’egemonia dell’Arabia Saudita nella

penisola. L’Iran non supporta soltanto gli Houthi, ma cerca anche di rafforzare la sua influenza su

altre fazioni yemenite, tra cui il movimento separatista del sud. Il Governo yemenita afferma che

l’Iran ha anche cercato di minare la Conferenza Nazionale per il Dialogo, che aveva lo scopo di creare

un consenso nazionale e risolvere la crisi yemenita. Nel 2013, l’ambasciatore iraniano a Sana’a ha

incontrato il capo del braccio politico del movimento Houthi per diverse volte al fine di persuadere

gli Houthi a ritirarsi dalla Conferenza.

Per i sauditi, il poroso confine meridionale di 1.770 km che condivide con lo Yemen rende la

posta in gioco molto alta. L’Arabia Saudita è diventata una facile preda per Teheran da penetrare e

manipolare. Per queste ragioni, i sauditi hanno fornito importanti aiuti finanziari e militari al Governo

centrale yemenita, e conducono attacchi di terra e aerei contro gli Houthi. Ciò che è accaduto e

potrebbe accadere a sud del loro confine è una questione di estrema gravità per la sicurezza nazionale,

soprattutto ora che il futuro dello Yemen è in questione. L’instabilità nello Yemen significherebbe

dare all’Iran un solido punto d’appoggio nella penisola, una eventualità che i sauditi non possono

permettersi, infatti, la possibile vittoria degli Houthi nella creazione di uno Stato sciita filo-iraniano

significherebbe un accerchiamento iraniano dell’Arabia Saudita. Tuttavia, gli Houthi non sono legati

all’Iran come Hezbollah, e il sostegno finanziario combinato con le operazioni militari dell’Arabia

Saudita sono finalizzati a tagliare le forniture iraniane e potrebbero mitigare la minaccia generale.

Le preoccupazioni geopolitiche dell’Arabia Saudita riguardano soprattutto il controllo della

costa yemenita e il corridoio marittimo (stretto di Bab al-Mandab) che dà accesso al Mar Rosso.

Infatti, il 4% del petrolio globale, in gran parte dell’Arabia Arabia, passa attraverso lo stretto di Bab

al-Mandab, quindi i porti lungo lo stretto sono di grande importanza strategica per i sauditi. Anche se

non è così importante come lo Stretto di Hormuz, lo stretto di Bab al-Mandab è di vitale importanza

per la capacità dell’Arabia Saudita di raggiungere i mercati energetici globali. Per Riyadh, la presa

degli Houthi sulla costa occidentale dello Yemen significa dare libero accesso al Mar Rosso all’Iran,

un fatto che potrebbe aiutarlo a continuare la fornitura di armi ai suoi alleati locali, mantenere un

presenza contigua nei pressi dello stretto di Bab el-Mandeb e ottenere l’accesso al Canale di Suez e

al Mediterraneo. I massicci bombardamenti sauditi sullo Yemen sono una prova che l’Arabia Saudita

farebbe di tutto per controllare la città di fronte allo stretto di Bab el-Mandeb, lo stretto tra i corsi

d’acqua strategicamente più importante del mondo.

Vedendo gli Houthi come principali alleati iraniani, l’Arabia Saudita ha messo in campo tutti

i suoi sforzi per isolarli diplomaticamente, strangolarli economicamente e indebolirli militarmente. A

loro volta, gli Houthi hanno rifiutato di accettare il Presidente filo-saudita Hadi ed hanno offerto

100.000 dollari per la sua cattura. Gli Houthi sono meno dipendenti da Teheran rispetto ad Hadi ed

ai suoi alleati verso Riyadh, ma la situazione del Paese e la loro relativa autonomia li hanno spinti a

sollecitare il sostegno finanziario e politico iraniano.

Anche se l’Arabia Saudita ha giustificato l’intervento in nome della sicurezza, è chiaro che la

priorità assoluta è creare un equilibrio di potere tra i due campi del conflitto yemenita; gli sciiti Houthi

si sono uniti all’ex presidente yemenita Ali Abdullah Saleh contro l’Arabia Saudita e le truppe

governative. Il conflitto è più di una complicata lotta interna di natura settaria. Le operazioni militari

offrono la possibilità al re Salman bin Abdulaziz Al Saud di dimostrare la sua indipendenza dagli

Stati Uniti, così come la leadership militare del suo Paese nella regione come complemento alla forza

economica. Inoltre, re Salman è salito al trono solo dal gennaio del 2015, ma è vecchio e debole; ciò

rende i suoi figli e nipoti più desiderosi di utilizzare il conflitto in Yemen per posizionarsi in vista del

prossimo passaggio generazionale nella casa reale saudita.

In conclusione di questo articolo, è importante soffermarsi anche sugli effetti dell’accordo di

Camp David firmato dall’Iran e da cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle

Nazioni Unite e dalla Germania (P5+1) sul programma nucleare iraniano. L’accordo è stato una svolta

per Teheran che ha accettato di sospendere il suo programma nucleare in cambio della fine delle

limitazioni al petrolio iraniano, delle sanzioni economiche e dell’embargo sulle armi. L’accordo ha

aperto la strada per investimenti esteri diretti e permetterà all’Iran di partecipare all’economia globale.

Allo stesso modo, l’accordo aumenterà il commercio del Paese e il PIL, reintegrerà l’Iran nei mercati

globali, e aprirà alla cooperazione con altri Stati nel sistema internazionale. L’Iran probabilmente

utilizzerà questa nuova forza economica e l’accesso alle armi per sostenere i suoi alleati ed estendere

la sua influenza regionale.

Senza sforzi da parte degli Stati Uniti, che sotto la Presidenza Trump hanno deciso di recedere

dall’accordo, e della comunità internazionale per ridurre le tensioni tra l’Arabia Saudita e l’Iran, si

approfondirà la loro lotta di potere. Anche se la minaccia di un Iran in possesso di un un’arma nucleare

è stata ridotta, l’Arabia Saudita si sente sempre più intimorita da un Iran che utilizzerà probabilmente

la sua nuova forza economica per diventare la nuova potenza egemone regionale. Infatti, numerose

delegazioni europee di alto livello hanno visitato l’Iran dopo che il Joint Comprehensive Plan of

Action è stato perfezionato, la maggior parte delle quali comprendeva dirigenti aziendali che

cercavano di riprendere i rapporti commerciali con Teheran.

Nonostante gli effetti delle sanzioni, l’Iran è ancora la diciottesima più grande economia del

mondo, ha grandi riserve di petrolio e gas, inoltre, è il più grande produttore di auto in Medio Oriente,

e la maggior parte dei suoi 80 milioni di cittadini è istruita. Questi fattori rendono attraente Teheran

per gli investimenti esteri; infatti, nonostante la decisione del Presidente Trump di recedere

dall’accordo, l’Unione Europea si è schierata per il suo mantenimento.

La decisione del Presidente statunitense dovrebbe in parte diminuire i timori che avevano

colto l’Arabia Saudita di un Iran nuovo alleato strategico degli Stati Uniti in una regione fortemente

compromessa dalla violenza settaria.

La rivalità geopolitica a somma zero tra Arabia Saudita e Iran non potrà che causare una

ulteriore destabilizzazione del già fragile equilibrio mediorientale.

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