Diritto Civile Contemporaneo
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Anno IV, numero I, gennaio/marzo 2017
LA «RATIO» DEL PROVVEDIMENTO DI ASSEGNAZIONE DELLA CASA FAMILIARE ED I LIMITI DELLA DOMANDA CONGIUNTA DI DIVORZIO
Carlo Petta
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La «ratio» del provvedimento di assegnazione della casa familiare ed i
limiti della domanda congiunta di divorzio
di Carlo Petta
Con l’ordinanza in commento il Tribunale di Palermo (ord. 23 dicembre 2016) ha
opportunamente respinto una domanda congiunta di cessazione degli effetti civili
del matrimonio alla luce di una interpretazione assiologicamente orientata dell’art.
337 sexies c.c. volta a tutelare l’interesse della prole.
Nel provvedimento, si legge, infatti, che i ricorrenti, al punto n. 2) della domanda,
avevano disposto che il diritto al godimento della casa familiare (sull’argomento si
rimanda, per tutti a M.G. CUBEDDU, La casa familiare, Milano, 2005), attribuito
alla (ex) moglie, sarebbe venuto meno qualora quest’ultima avesse instaurato una
nuova convivenza more uxorio. Risulta evidente che una siffatta pattuizione avrebbe
comportato un nocumento all’interesse del figlio alla conservazione dell’habitat
familiare, implicando un automatismo che, seppur all’apparenza confermato dal
dato meramente testuale dell’art. 337-sexies c.c., è stato escluso dalla stessa Corte
costituzionale (Corte cost. 30 luglio 2008, n. 308, di cui infra).
L’ordinanza rappresenta una rara ipotesi di rigetto della domanda congiunta di
cessazione degli effetti civili del matrimonio, sul cui contenuto il sindacato
giudiziale è alquanto ridotto ed essenzialmente limitato alla rispondenza delle
condizioni all’interesse dei figli, in forza dell’art. 4, comma 16, l. n. 898 del 1970.
La decisione è pertanto foriera di spunti interessanti involgenti il sindacato
dell’organo giudicante sulla domanda congiunta di divorzio e, per l’effetto, la ratio
e le vicende del provvedimento assegnativo nonché l’indisponibilità dell’interesse
abitativo ascrivibile ai minori. Tutti questi elementi, nell’ordine riportato, saranno
sinteticamente analizzati nel presente lavoro.
Si segnala all’attenzione del lettore che la decisione suscita, pur tuttavia, talune
perplessità sotto l’aspetto strettamente processuale, di cui si dirà nella parte finale
del commento.
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L’interpretazione assiologicamente orientata dell’art. 337-sexies c.c. posta in essere
dal Tribunale di Palermo risulta condivisibile e conforme alla giurisprudenza,
anche costituzionale, formatasi sul punto che ha avuto il merito di superare il
mero dato letterale della norma al fine di dare attuazione ai valori espressi dalla
Carta fondamentale, quale, su tutti, il principio personalistico (per tutti, P.
PERLINGIERI, La personalità umana nell’ordinamento giuridico, Camerino-Napoli,
1972, p. 133 ss.) che, nel caso concreto, trova attuazione con l’effettiva tutela del
minore nella crisi della famiglia.
Il collegio ha quindi ben utilizzato il potere di sindacato al fine di tutelare
l’indisponibile interesse abitativo della prole, indubbio fondamento del
provvedimento assegnativo, leso dagli accordi raggiunti dai coniugi in sede di
divorzio. Siffatta espressione del potere negoziale, infatti, pur essendo stata
ampiamente valorizzata dalla normativa più recente, incontra taluni limiti quale
quello di cui in discorso.
In materia divorzile, l’art. 4, comma 16, l. n. 898 del 1970 prevede, in maniera
innovativa rispetto alla disciplina posta dalla richiamata legge prima della riforma
del 1987, la possibilità per i coniugi di richiedere congiuntamente il divorzio. La
domanda congiunta deve contenere “compiutamente le condizioni inerenti alla prole ed ai
rapporti economici”, ma, ai sensi dell’art. 4, comma 16, ultima parte, l. n. 898 del
1970, allorquando il tribunale ravvisi un contrasto tra le condizioni indicate dai
coniugi e gli interessi dei figli, si passa all’ordinario processo di cognizione di cui al
comma 8 della richiamata disposizione (G. MONTELEONE, Manuale di diritto
processuale civile, 7° ed., Padova, 2015, II, p. 436).
L’organo giudicante chiamato a valutare l’accordo raggiunto dai coniugi in sede di
divorzio ricopre dunque un ruolo particolarmente delicato, dovendo verificare
non soltanto la liceità delle condizioni ivi contenute ma anche la loro
meritevolezza in termini di conformità assiologica all’ordinamento. In caso di
esito negativo, come detto, la legge divorzile prevede il passaggio dal più celere
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procedimento in camera di consiglio all’ordinario processo di cognizione al fine di
ponderare adeguatamente gli interessi coinvolti.
Con specifico riferimento all’assegnazione della casa familiare, posto che
quest’ultima è disposta in favore dell’interesse materiale e morale alla continuità
abitativa dei figli, è evidente che ogni clausola, per quanto concordata tra i coniugi,
inidonea a tutelare quello specifico interesse abitativo non può superare il
sindacato dell’organo giurisdizionale, essendo il presupposto in materia
rappresentato dalla “non disponibilità, da parte dei coniugi, del destino dell’immobile quando
in esso risiedano dei figli minori, atteso che le norme le quali ne disciplinano i criteri di
assegnazione – nella separazione personale e nel divorzio – trascendono la volontà dei consorti e,
tutelando gli interessi preminenti della prole, posseggono una natura imperativa” (G.
GIAIMO, Norme imperative e negoziazione assistita nelle controversie familiari. Il ruolo degli
Avvocati e del Pubblico Ministero, nota a Trib. Palermo – Proc. Repubbl. decreto 13
maggio 2016, n. 79, in Dir. fam. pers., 2016, 4, p. 1061 ss.).
Partendo dall’assunto che la domanda congiunta di divorzio rappresenta senz’altro
una manifestazione del potere negoziale che l’ordinamento riconosce ai privati (tra
le ultime, Cass. 20 agosto 2014, n. 18066, in Nuova giur. civ., 2015, 2, p. 163), il
giudice, in simili casi, deve valutare la rispondenza della regola dei privati ai
principi ed ai valori del sistema ordinamentale, considerato nel suo complesso, per
mezzo di un’interpretazione sistematica ed assiologica. Come sostenuto da
autorevole dottrina, infatti, qualsiasi atto di autonomia negoziale, sia esso tipico o
atipico, deve sempre essere sottoposto ad un controllo di meritevolezza che “in un
sistema come il nostro fondato su valori forti, su norme imperative inderogabili, s’impone
all’interprete. Non basta che l’atto sia lecito, ma necessita che esso, anche se tipico, sia meritevole
di tutela in quel contesto particolare”, e per l’effetto “l’atto negoziale è valido non tanto perché
voluto ma se, e soltanto se, destinato a realizzare, secondo un ordinamento fondato sul
personalismo e sul solidarismo, un interesse meritevole di tutela” (così, P. PERLINGIERI, Il
diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italo-comunitario delle fonti, Napoli,
2006, I, p. 348).
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Egualmente, anche l’organo collegiale o monocratico chiamato a valutare le
condizioni contenute nella domanda congiunta di divorzio deve porre in essere il
giudizio di meritevolezza dell’atto negoziale con particolare riferimento agli
interessi ascrivibili ai figli secondo quanto prescritto dalla legge divorzile ed in
conformità ai valori dell’ordinamento.
Acclarata la fondamentale importanza del sindacato dell’organo giudicante in
questa fase del procedimento, l’intervento giudiziale, in relazione all’accordo
raggiunto dai coniugi, si pone non già sul piano degli effetti, ma su quello della
fattispecie: da un coordinamento tra gli artt. 337-ter, comma 2, 147, 148, 158,
comma 2, c.c., 6, comma 2, l. n. 898 e 30 Cost., infatti, “risulta ineliminabile il
sindacato del giudice su tali accordi quale coelemento perfezionativo della fattispecie” (G.
FREZZA, Trascrizione delle domande giudiziali [Art. 2652-2653], in Cod. civ. Comm.
Schlesinger-Busnelli, Milano, 2014, p. 324).
Si ritiene opportuno porre all’attenzione del lettore che in questo settore si è
assistito ad una recente attenzione da parte del legislatore.
Già ai sensi dell’art. 337-ter, comma 2, c.c. (introdotto dall’art. 55, comma 1, d.l.
154 del 2013) il giudice “prende atto, se non contrari all’interesse dei figli, degli accordi
intervenuti tra i coniugi”, ribadendo così il rinnovato ruolo centrale dell’autonomia
privata al fine di regolare i doveri di cura e mantenimento nei procedimenti, anche
contenziosi, relativi al rapporto genitori-figli, quali separazione, divorzio, nullità
del matrimonio e cessazione della convivenza more uxorio.
Di recente, poi, il d.l. 12 settembre 2014, n. 132 (convertito con modificazioni
dalla l. 10 novembre 2014, n. 162) ha introdotto la negoziazione assistita da
avvocati quale strumento consensuale di separazione o divorzio, applicabile anche
alle coppie con figli minori o maggiorenni non autosufficienti (sull’istituto, cfr. S.
DELLE MONACHE, Profili civilistici della « negoziazione assistita », in Giust. civ.,
2015, p. 118 ss.). Pur prevedendo un controllo da parte del pubblico ministero
sull’accordo raggiunto dai coniugi, la recente riforma ha rappresentato un’intensa
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privatizzazione delle vicende familiari che tende a superare il delicato equilibrio tra
negozialità e controllo giurisdizionale presente nelle discipline di separazione e
divorzio, laddove l’intervento del giudice era necessario al fine di modificare lo
status coniugale (G. CARAPEZZA FIGLIA, Assegnazione della casa familiare e
interessi in conflitto, in G. CARAPEZZA FIGLIA – J. R. DE VERDA Y
BEAMONTE – G. FREZZA – P. VIRGADAMO [a cura di], La casa familiare
nelle esperienze giuridiche latine, in Quaderni di « Diritto delle successioni e della famiglia »,
Napoli, 2016, p. 107 ss.; sui riflessi della nuova disciplina sull’assegnazione della
casa familiare, cfr. L. TULLIO, Casa familiare e accordi tra i coniugi nella crisi della
coppia, in La casa familiare nelle esperienze giuridiche latine, cit., p. 121 ss.; sulla
privatizzazione del diritto di famiglia, per tutti, G. FERRANDO, Introduzione, in
G. FERRANDO [diretto da], Il nuovo diritto di famiglia, I, Matrimonio, separazione e
divorzio, Bologna, 2007, p. 3 ss.).
Per valutare compiutamente l’esercizio del potere di sindacato sulla domanda
congiunta di divorzio da parte del Tribunale di Palermo, allora, si procederà con
l’analisi della ratio del provvedimento assegnativo e le relative ipotesi di
decadimento dal beneficio abitativo con particolare riferimento alla sentenza della
Corte costituzionale n. 308 del 2008 (Corte cost. 30 luglio 2008, n. 308, in Giur.
it., 2009, p. 1155 ss.), i cui principi di diritto sono stati opportunamente applicati
nell’ordinanza in commento.
Ai nostri fini, considerati i numerosi interventi legislativi in materia, risulta
preliminarmente opportuno individuare la normativa di riferimento.
L’art. 106, comma 1, lett. a) del d. lg. n. 154 del 2013 prevede l’abrogazione
dell’art. 155-quater c.c., il cui dispositivo è stato integralmente trasfuso nell’art.
337-sexies, comma 1, c.c., mentre l’art. 98, comma 1, lett. b) del menzionato
decreto non abroga, egualmente, l’art. 6, comma 6, l. n. 898 del 1970, che contiene
le norme sull’assegnazione della casa familiare nei procedimenti di divorzio.
L’art. 337-sexies c.c., tuttavia, si applica, in forza dell’art. 337-bis c.c., ai casi di
“separazione, scioglimento e cessazione degli effetti civili, annullamento, nullità del matrimonio e
nei procedimenti relativi ai figli nati fuori dal matrimonio”.
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Il metodo legislativo utilizzato – non dissimile da quello che aveva portato
all’introduzione delle disposizioni sull’affidamento condiviso della l. n. 54 del 2006
– ripropone una difficoltà interpretativa nei procedimenti di divorzio legata al non
semplice coordinamento tra la disciplina introdotta dal decreto del 2013 e la
previgente normativa specifica in materia divorzile, di cui all’art. 6, comma 6, l. n.
898 del 1970, che il legislatore non ha espressamente abrogato.
Con riguardo all’art. 4, comma 2, l. n. 54 del 2006 si contendevano il campo due
orientamenti le cui argomentazioni risultano attuali a seguito dell’intervento
legislativo del 2013 (per un’analisi più dettagliata del contrasto si rimanda a G.
GIACOBBE e P. VIRGADAMO, Il matrimonio, II, Separazione personale e divorzio, in
Tratt. dir. civ. Sacco, 3, Le persone e la famiglia, Torino, 2011, p. 112 ss.).
Da una parte vi è la c.d. tesi abrogazionista che si divide tra chi ritiene che la
previgente disciplina sia stata integralmente abrogata (E. ZANETTI VITALI, La
separazione personale dei coniugi, [Art. 155-155-sexies cod. civ., artt. 708-709-ter c.p.c.,
artt. 3-4 l. 8 febbraio 2006, n. 54] in Cod. civ. Comm. Schlesinger-Busnelli, Milano,
2006, p. 58) e chi ne ipotizza un’abrogazione tacita per incompatibilità tra
disposizioni (L. NAPOLITANO, L’affidamento dei minori nei giudizi di separazione e
divorzio, Torino, 2006, p. 234). Altra parte della dottrina, al contrario, ritiene che la
disciplina previgente non sia stata abrogata dall’intervento del legislatore
assistendosi, pertanto, ad una estensione di disciplina e ad un necessario
coordinamento tra norme (F. GAZZONI, Assegnazione della casa familiare e
trascrivibilità della domanda giudiziale, in Dir. fam. pers., 2008, p. 752).
Ricostruito il quadro normativo e passando a talune caratteristiche del
provvedimento assegnativo rilevanti in relazione al provvedimento in commento,
ai sensi dell’art. 337-sexies c.c. “Il godimento della casa familiare è attribuito tenendo
prioritariamente conto dell’interesse dei figli”.
Il tenore letterale, come osservato in premessa, è il medesimo dell’abrogato art.
155-quater c.c., il quale, dal canto suo, rappresentava una decisa innovazione
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rispetto al previgente art. 155, comma quarto, c.c., in forza del quale l’abitazione
della casa familiare spettava “di preferenza e ove sia possibile” al coniuge affidatario
della prole. La riforma del 2006 recepiva così tutti i principi consolidati nel diritto
vivente formatosi sotto la vigenza dell’art. 155, quarto comma, c.c. (come
novellato dall’art. 36 l. n. 151 del 1975) e ribaditi dalla giurisprudenza della Corte
costituzionale (ex plurimis, Corte cost. 27 luglio 1989, n. 454, in Foro it., 1989, I,
3336; Corte cost. 13 maggio 1998, n. 166, in Corriere Giur., 1998, 8, p. 957; Corte
cost., 21 ottobre 2005, n. 394, in Foro It., 2007, 4, 1, p. 1083).
Qualora se ne postuli la vigenza, anche ex art. 6, comma 6, l. n. 898 del 1970 si
tutelano, in via principale, gli interessi della prole, ma nell’ipotesi di divorzio il
giudice deve valutare in ogni caso, stante la funzione polifunzionale della norma,
le condizioni dei coniugi e le ragioni della decisione (G. FREZZA, Mantenimento
diretto e affidamento condiviso, Milano, 2008, p. 154): in questa diversa prospettiva,
l’abitazione della casa familiare potrebbe configurarsi quale modalità di
adempimento dell’obbligo di mantenimento. Per l’effetto, la giurisprudenza, anche
a fronte dell’evoluzione ordinamentale in materia, ha negli anni disapplicato, e di
fatto abrogato, la norma (su tutte, Cass. 1 dicembre 2004, n. 22500, in Giust. civ.
Mass., 2005).
Per quanto concerne la ratio dell’istituto in esame, per costante giurisprudenza,
anche sotto la vigenza degli abrogati artt. 155, comma quarto, e 155-quater c.c.,
l’assegnazione della casa familiare risponde all’esigenza di garantire l’interesse dei
figli alla conservazione dell’ambiente domestico, inteso come centro degli affetti,
degli interessi e delle abitudini in cui si esprime e si articola la vita familiare, al fine
di evitare loro l’ulteriore trauma di un allontanamento dal luogo ove si svolgeva la
loro esistenza e di assicurare una certezza e una prospettiva di stabilità in un
momento di precario equilibrio familiare (così, Cass., 10 giugno 2005, n. 12295;
negli stessi termini, Cass. 11 giugno 2005, n. 12382, entrambe in Guida al dir.,
2005, n. 28, p. 71 ss.).
Al fine di tutelare opportunamente tale interesse, la stessa Corte costituzionale
aveva esteso la tutela dell’esigenza abitativa anche ai figli di genitori non coniugati
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sotto la vigenza dell’abrogato art. 155 c.c. che non prevedeva espressamente
siffatta ipotesi (Corte cost. 13 maggio 1998 n. 166, cit.; Corte cost. 21 ottobre
2005, n. 394, cit.). Ad opinione della Corte, infatti, “la mancanza di una specifica
norma che regoli le conseguenze, riguardo ai figli, della cessazione del rapporto di convivenza di
fatto dei genitori non impedisce allora di trarre da una interpretazione sistematica delle norme in
tema di filiazione la regula iuris da applicare in concreto, senza necessità di ricorrere
all’analogia, né ad una declaratoria di incostituzionalità. L’interprete è infatti al cospetto di un
sistema perfettamente coerente con i principi costituzionali, nel quale è già contenuta la norma che
gli consente di regolamentare, ex latere filii, le conseguenze della cessazione della convivenza di
fatto: la linea di guida cui egli deve attenersi è l’interesse del figlio alla abitazione, come al
mantenimento, correlato alla posizione di dovere facente capo al genitore” (così, Corte cost. 13
maggio 1998 n. 166, cit.)
Essendo, dunque, tutelato l’esclusivo interesse abitativo della prole, questo risulta
senz’altro indisponibile rispetto agli eventuali accordi raggiunti dai coniugi in sede
di separazione o divorzio.
Il provvedimento di assegnazione non ha alcuna funzione perequativa tra le
situazioni patrimoniali dei coniugi e non è subordinata, allo stesso modo, ad
interessi di natura economica, conformemente alla gerarchia dei valori che ispira il
vigente ordinamento, quale, su tutti, quello prevalente della persona umana, ivi
compresa la personalità dei figli ex artt. 2 e 30 Cost.
L’assunto è ribadito dal fatto che, per l’orientamento assolutamente maggioritario,
il diritto sulla casa non potrebbe mai rappresentare una forma di mantenimento in
favore del coniuge più debole a tutela del quale sono destinati unicamente gli
assegni previsti dalla legge, onde la concessione del beneficio in parola resta
subordinata all’imprescindibile presupposto dell’affidamento dei figli minori o
della convivenza con figli maggiori economicamente non autosufficienti (così,
Cass. 3 marzo 2004, n. 12309). Come è stato sottolineato, d’altronde, “in assenza di
figli l’abitazione spetta (…) al proprietario e non al coniuge più debole, la cui debolezza rileva
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solo ai fini della fissazione dell’assegno, avendo l’art. 156 carattere eccezionale, come confermato
anche dall’art. 337-sexies, anche perché, altrimenti, l’assegnazione potrebbe risolversi in
un’espropriazione, essendo legata alla vita dell’assegnatario, con violazione dell’art. 42 Cost.,
mentre, per i figli, il termine certo è quello dell’autosufficienza, con riferimento anche all’art. 30
Cost.” (F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 2015, p. 397).
Se da una parte risulta imprescindibile il requisito dell’affidamento, il giudice,
dall’altra, ex art. 337-sexies, comma primo, c.c., dell’assegnazione comunque “tiene
conto nella regolazione dei rapporti economici tra i genitori, considerato l’eventuale titolo di
proprietà”, potendo così l’organo giudicante modulare l’assegno di mantenimento
eventualmente a favore dell’assegnatario tenendo in debita considerazione gli
indubbi vantaggi sul piano economico del titolo di godimento del bene immobile.
Pur rimanendo ferma la tendenziale preminenza dell’interesse indisponibile della
prole a mantenere la continuità abitativa nella crisi della famiglia, correttamente il
legislatore ha utilizzato il termine “prioritariamente” a fronte dei possibili altri valori
di rilevanza costituzionale che potrebbero entrare in conflitto, con la conseguente
rilevanza di diversi parametri che, nel caso concreto, rivestono una valenza
superiore rispetto al beneficio che possa derivare ai figli dalla permanenza nella
casa familiare, come nel caso in cui il genitore proprietario sia portatore di
handicap ovvero gravemente infermo (sul punto, T. AULETTA, sub art. 155-
quater, in L. BALESTRA [a cura di], Della famiglia, I, Artt. 74-176, in Comm cod. civ.
Gabrielli, Milano, 2010, p. 728 ss.; si rimanda inoltre, per i riferimenti
giurisprudenziali, a G. CARAPEZZA FIGLIA, op. cit., p. 112). Sotto questo
peculiare aspetto, una possibile rilettura personalistica dell’istituto in esame,
recentemente avanzata in dottrina, potrebbe dare rilievo anche ad interessi
esistenziali diversi dalla conservazione dell’habitat, facenti capo al minore o agli
altri protagonisti della crisi familiare, “interessi che, nell’ammettere una pluralità di livelli
di soddisfazione, non devono essere valutati in astratto, ma bilanciati, nel caso concreto, allo
scopo di individuarne relazioni di preferenza e di compatibilità” (G. CARAPEZZA
FIGLIA, op. cit., p. 103).
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Per quanto concerne i limiti temporali e la durata massima del provvedimento di
assegnazione, l’art. 337-sexies c.c., non specificando alcunché a livello letterale,
autorizza l’interprete a ritenere che la tutela dell’interesse abitativo dei figli
prescinda da limiti di età e sia, piuttosto, funzionalizzata, anche per quanto
riguarda il termine certus an incertus quando dell’assegnazione, al raggiungimento di
un’autosufficienza economica ed esistenziale della prole domiciliata nella casa
familiare (G. FREZZA, Mantenimento diretto e affidamento condiviso, cit., p. 154), ferma
la modificabilità in ogni tempo del provvedimento stesso per fatti sopravvenuti.
Il legislatore, già a partire dalla formulazione dell’abrogato art. 155 quater c.c., ha
espressamente previsto all’art. 337-sexies, comma primo, c.c., quali cause di
decadenza del beneficio, che il diritto venga meno qualora l’assegnatario non abiti
più o cessi di abitare stabilmente nella casa familiare, o conviva more uxorio o
contragga nuovo matrimonio. La giurisprudenza, tuttavia, ha ulteriormente
individuato altre cause di estinzione, rispetto a quelle previste, quali: la
riconciliazione dei coniugi, la morte dell’assegnatario, l’assegnazione a questi
dell’immobile in proprietà esclusiva in sede divisionale, l’estinzione del titolo di
godimento del bene (ad esempio, per scadenza del termine dell’usufrutto, della
locazione, del comodato) (G. CARAPEZZA FIGLIA, op. cit., p. 119).
La previsione di ipotesi di revoca apparentemente automatiche dell’assegnazione
in caso di convivenza more uxorio ovvero di matrimonio da parte dell’affidatario (di
cui all’allora art. 155 quater c.c., oggi art. 337-sexies c.c.) aveva indotto nel 2007 la
Corte d’appello di Bologna ed i Tribunali di Firenze e Ragusa a sollevare,
attraverso diverse ordinanze, questione di legittimità costituzionale. Le censure dei
giudici a quo si sostanziavano, essenzialmente, sulla critica all’operatività
automatica della revoca senza alcuna possibilità per il giudice di valutare l’effettiva
rispondenza della stessa all’interesse della prole.
La Corte costituzionale, con sentenza interpretativa di rigetto (Corte cost. 30
luglio 2008, n. 308, cit.), ha ritenuto la questione non fondata.
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Da una disamina della giurisprudenza in materia di assegnazione, la Corte osserva
che l’intera disciplina che qui ci occupa gravita intorno all’interesse del minore alla
continuità abitativa, riflesso dei doveri genitoriali di mantenimento (di indubbia
rilevanza costituzionale) che si sostanziano, nello specifico, “nell’assicurare ai figli la
idoneità della dimora, intesa quale luogo di formazione e sviluppo della personalità pisco-fisica
degli stessi”.
Dal contesto normativo e giurisprudenziale emerge che non solo l’assegnazione
della casa familiare, ma anche la cessazione della stessa “è stata sempre subordinata,
pur nel silenzio della legge, ad una valutazione da parte del giudice di rispondenza all’interesse
della prole”.
Ne deriva, nelle conclusioni della Corte, che l’art. 155-quater (oggi 337-sexies), c.c.,
ove interpretato letteralmente, non è funzionale alla tutela della prole e pertanto
“la coerenza della disciplina e la sua costituzionalità possono essere recuperate ove la normativa
sia interpretata nel senso che l’assegnazione della casa coniugale non venga meno di diritto al
verificarsi degli eventi di cui si tratta (instaurazione di una convivenza di fatto, nuovo
matrimonio), ma che la decadenza della stessa sia subordinata ad un giudizio di conformità
dell’interesse del minore”.
Se da un punto di vista argomentativo l’ordinanza in commento risulta, come in
più punti emerso, senz’altro apprezzabile e coerente con le motivazioni addotte
dalla Corte costituzionale in relazione alla concreta tutela dell’interesse ascrivibile
al minore, è opportuno segnalare, seppur sinteticamente, che la stessa non è
esente da critiche sotto l’aspetto processualistico per aver infine disposto, in
maniera irrituale, la rimessione della causa sul ruolo “allo scopo di consentire la
comparizione personale dei coniugi e di verificare la disponibilità di questi ultimi a rimodulare, in
forza di quanto sopra esposto, le condizioni della domanda congiunta di cessazione degli effetti
civili del matrimonio”.
Difatti, come premesso nel secondo paragrafo, in forza dell’art. 4, comma 16, l. n.
898 del 1970, qualora il tribunale ritenga che le condizioni relative ai figli
formulate all’interno della domanda congiunta di divorzio siano in contrasto con
gli interessi degli stessi, il procedimento da camerale diventa ordinario di
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cognizione di cui al comma 8 (sul procedimento di divorzio, in generale, cfr. M.A.
LUPOI, Procedimento di sperazione e divorzio, in Enc. dir., Annali I, Milano, 2007, p.
956 ss.).
Del rinvio operato dall’art. 4, comma 16, l. n. 898 del 1970 sono state date due
diverse interpretazioni (G. GIACOBBE e P. VIRGADAMO, op. cit., p. 159).
Secondo un primo orientamento, il rinvio comporterebbe la rimessione degli atti
al Presidente del Tribunale per dare corso alla procedura ordinaria e, in primo
luogo, per l’adozione dei provvedimenti urgenti (F. TOMMASEO, La disciplina
processuale del divorzio, in G. BONILINI – F. TOMMASEO, Lo scioglimento del
matrimonio [art. 149 e L. 1° dicembre 1970, n. 898], in Cod. civ. Comm. Schlesinger-
Busnelli, Milano 2010, p. 313 ss.).
Ad avviso di un secondo orientamento, la norma legittimerebbe il collegio
all’adozione dei provvedimenti urgenti poiché, ove il legislatore avesse voluto
rimettere le prosecuzione del procedimento al Presidente del Tribunale, avrebbe
più coerentemente fatto rinvio ai commi 5 o 7 del richiamato art. 4 e non già
direttamente al comma 8 (M. DOGLIOTTI, Separazione e divorzio, Torino, 1995, p.
175). Certa dottrina, poi, ammette la possibilità per il tribunale di pronunciare
sentenza non definitiva di divorzio, nel caso di conversione del rito (A.
FINOCCHIARO e M. FINOCCHIARO, Il divorzio, in Diritto di famiglia, III,
Milano, 1988, p. 348; F. CIPRIANI, La nuova disciplina processuale, in F. CIPRIANI
e E. QUADRI [a cura di], La nuova legge sul divorzio, Napoli, 1988, II, p. 340).
Il primo degli orientamenti riportati appare tuttavia preferibile dovendosi, dunque,
“ripercorrere l’iter procedimentale (…) senza che ci sia la possibilità di pronunciare, in sede
camerale, la sentenza non definitiva sulla sola domanda di divorzio, poiché tale decisione
dev’essere preceduta necessariamente dalla fase presidenziale” (così, F. TOMMASEO, op.
cit., p. 483).
Alla luce degli orientamenti sopra riportati, appare evidente che la decisione del
Tribunale di rimettere la causa al ruolo suscita non poche perplessità sia da un
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punto di vista formale, non prevedendo nulla in tal senso la l. 898 del 1970 (e
rivelandosi pertanto il provvedimento in commento avulso dal tessuto legislativo),
sia da un punto di vista funzionale, dovendosi in questi casi disporre la
comparizione innanzi al Presidente del Tribunale, essendo necessaria tale
formalità nel procedimento ordinario, secondo quanto prescritto dalla disciplina
speciale in materia divorzile.
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Questa Nota può essere così citata:
C. PETTA, La «ratio» del provvedimento di assegnazione della casa familiare ed i limiti della
domanda congiunta di divorzio, in Dir. c iv . cont ., 25 gennaio 2017