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CRISTINA BO

DOPO IL CAFFÈ

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DOPO IL CAFFÈ Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-557-1 Copertina: Immagine fornita dall’Autore

Prima edizione Giugno 2013 Stampato da

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2010

Settembre, Lunedì 6 Ore 7.45 Il lunedì mattina il bar era sempre particolarmente affollato: studenti uni-versitari pronti ad affrontare le lezioni del mattino, lavoratori di ogni età ed estrazione sociale che si godono un caffè prima di gettarsi nella settimana lavorativa, qualche signore anziano con le cartelline degli esami medici cu-stodite gelosamente sotto braccio. Andrea volava da un lato all’altro del bancone servendo caffè e cappuccini a raffica. A malapena intravedeva i volti degli avventori che dinanzi a lui afferravano le tazzine, le svuotavano in pochi sorsi e correvano fuori. Settembre era appena iniziato, nonostante il caldo fosse ancora quello di agosto, la folla al bancone rappresentava un chiaro segno del fatto che l’estate fosse definitivamente finita. Quando anche gli studenti tornavano a domandare la caffeina necessaria ad arrivare all’ora di pranzo, Andrea sen-tiva la frenetica vita milanese scorrere ancora più veloce e intensa. Non avrebbe saputo dire quanti caffè aveva servito quella mattina, quante voci con preziose indicazioni sulla loro colazione gli erano rimbalzate ad-dosso. Macchiato freddo, lungo, amaro, poca schiuma, ristretto... «Ciao Andre, me lo fai un cappuccino?». Una voce conosciuta nel vortice delle otto di mattina, una voce che lo fece sussultare. Il barista volse il capo di scatto e vide un uomo sulla quarantina, in giacca e cravatta, appoggiato con il gomito al bancone di marmo. Improvvisamente la giornata gli sembrò illuminarsi di una luce diversa. «Guarda chi si vede! Finite le vacanze?» domandò con leggerezza mentre azionava la macchina del caffè. Francesco sospirò leggermente a quella domanda e si passò una mano tra i capelli brizzolati con fare esausto. «Diciamo che son contento di tornare in ufficio». Andrea si voltò posando il cappuccino sul bancone dinanzi al suo interlo-cutore. «Il solito stakanovista! Sei stato via solo due settimane!» scherzò il barista, concedendosi mezzo minuto di tregua dal caos del mattino, da dedicare a lui.

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Due lunghissime settimane, avrebbe voluto aggiungere. Gli erano mancati quegli occhi castani sorridenti, contornati da una rete di piccole rughe d’espressione. Eppure quella mattina, nonostante le labbra sottili di Francesco fossero piegate in un sorriso, lo sguardo dell’uomo tradiva un velo di malinconia. Andrea se ne accorse immediatamente e a confermare quella sensazione fu la risata amara che seguì il suo commento. Le riflessioni del barista furono interrotte dalla voce stridula di una ragazza, che gli ripeté per la terza volta il suo ordine. «Impegnato come al solito, vedo! Non ti faccio perdere altro tempo allora» commentò Francesco mentre sorseggiava il cappuccino bollente. A malincuore Andrea dovette tornare a volgere la sua attenzione alle ri-chieste dei clienti. Preparò i tre caffè macchiati più veloci della storia e, con un gesto malde-stro, li depositò sul bancone. Nella foga per poco non travolse la cameriera, che era venuta a recuperarli per portarli ai tavolini affollati. Quando si voltò nuovamente verso l’uomo, Francesco aveva finito la sua bevanda calda e si stava pulendo le labbra con un tovagliolo di carta, pre-parandosi a uscire. «Aspetta!». Andrea richiamò la sua attenzione, pescò una brioche dalla ve-trina e la infilò in un sacchetto per porgergliela. «Offre la casa, credo che tu oggi abbia bisogno di zuccheri». Francesco si lasciò sfuggire un lieve sorriso mentre allungava la mano sini-stra verso la busta di carta. «Non ti posso nascondere niente, vero?». Il barista fece spallucce consegnando il piccolo regalo all’uomo. Nell’istante in cui Francesco varcò l’uscio del bar per immergersi nel caos cittadino, Andrea si preparò a sostenere il sorriso complice e malizioso di Federica, la cameriera che si era tenuta accuratamente in disparte fino a quel momento. «Ricominciamo con i sospiri?». Andrea annuì debolmente, passando uno straccio umido lungo il bancone per togliere alcune briciole invisibili. «Che c’è, Andre?» domandò la ragazza mentre osservava l’uomo incuriosi-ta dal suo sguardo pensieroso, ignorando per qualche istante le ordinazioni insistenti dei clienti sempre più di fretta. Il barista rifletté ancora qualche istante, prima di appoggiarsi pesantemente con i gomiti alla superficie di marmo. «Non porta più la fede».

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Ore 8.10 Francesco varcò la porta dell’edificio asettico e professionale con passo spedito. Salutò cortesemente uno per uno i colleghi che incrociava lungo il tragitto, ma tirò dritto verso la sua scrivania, evitando faticosamente di ri-spondere a qualsiasi domanda sulle sue sedicenti vacanze. «Ma non ti sei abbronzato nemmeno un po’?». «Hai finito di riposarti mentre noi sgobbiamo?». Nel momento in cui posò la valigetta sulla superficie di legno e prese posto sulla poltrona da ufficio, trasse un sospiro di sollievo. Ma quando si allungò sulla scrivania per accendere il monitor del compu-ter, il suo sguardo cadde involontariamente sulla piccola cornice di plasti-ca, che stazionava lì da quasi dieci anni ormai. Fissò la foto che conteneva come se la vedesse per la prima volta. Eccolo lì. Aveva i capelli più scuri, gli occhi meno stanchi e la pelle più tirata, ma era indubbiamente lui. Un grande sorriso radioso illuminava il volto del Francesco stampato sulla carta da foto, mentre teneva per mano una donna dai lunghi capelli biondi, un allegro viso rotondo e gli occhi resi sottili da una risata. In mezzo a loro c’era una bambina, con un costumino rosso pieno di sabbia bagnata e un grande pallone da spiaggia stretto tra le mani, come un tesoro preziosissimo. Francesco sospirò mentre chiudeva la foto nel cassetto con un gesto rab-bioso. Intanto il computer era riuscito a caricare l’immagine neutra e impersonale che aveva messo come sfondo del Desktop. Osservò per qualche istante lo schermo luminoso. Da quanto tempo aveva smesso di metterci foto perso-nali? Da quando il suo piccolo mondo privato aveva iniziato ad andare in pezzi? Probabilmente da molto più tempo di quanto lui riuscisse ad accettare. Chiuse gli occhi pochi secondi. Per le prossime otto ore non sarebbe esisti-to altro che il lavoro. Aveva un disperato bisogno di chiudere la mente a qualsiasi pensiero che non riguardasse i numeri, le scadenze e gli orari. Aprì la valigetta in cerca dei documenti che aveva abbandonato da qualche settimana. La prima cosa che vide però non furono gli spessi fascicoli di dati, ma un piccolo sacchetto di carta dall’odore dolce. Lo prese in mano e, sentendo il calore della brioche ancora tiepida al suo interno, le labbra dell’uomo si piegarono nel primo sorriso sincero della giornata.

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Ore 11.50 Martina alzò gli occhi dalle sottili righe stampate tra le quali si era persa diverse ore prima. Doveva aver smarrito completamente il filo, dal mo-mento che non ricordava nemmeno quale fosse l’argomento del capitolo che stava divorando pagina dopo pagina. Ma in fondo, come poteva pretendere di concentrarsi con tutto quello che le era successo negli ultimi giorni? Seduta sul pavimento a gambe incrocia-te, con un pesante libro di testo in grembo aperto a metà, la ragazza fece scorrere lo sguardo sulla piccola stanza nella quale era cresciuta. Ora tutto ciò che rimaneva del suo modesto rifugio erano quattro valige cariche di ricordi, che aspettavano pazientemente in un angolo il momento di essere trascinate fuori. Tutta la casa era completamente in subbuglio, sua madre andava avanti e indietro riempiendo valige con oggetti e vestiti che, fino a poco prima, nemmeno si ricordava di possedere. Era come se avesse una fretta incredi-bile di cancellare dall’appartamento anche il minimo segno della famiglia che ci aveva abitato per vent’anni. Curiosamente Martina non serbava rancore nei confronti di sua madre. An-che se non aveva mai capito cosa avesse portato quella donna integerrima e fedele a innamorarsi di un uomo che non fosse suo marito, e non era nem-meno sicura di volerlo sapere. Sapeva solo che erano anni ormai che la situazione in casa era diventata insostenibile. Inizialmente le liti infuocate ed estenuanti tra i suoi genitori erano cresciute gradualmente di frequenza e intensità fino a diventare quasi pericolose, poi improvvisamente erano state sostituite da una gelida indifferenza. E solo un mese: fa il colpo finale. Enrico era saltato fuori quasi dal nulla, eppure Francesco non era sembrato particolarmente sorpreso. Non che non avesse sofferto. Aveva pianto lacrime amare e si era quasi rotto le nocche contro le pareti, quando Angela aveva infine deciso di chiedere il divorzio. Martina sospirò profondamente prima di chiudere il libro di scatto. Allun-gò una mano verso la tazzina di caffè, depositata sul pavimento accanto al letto, che si rivelò inesorabilmente vuota. Era orgogliosa di sé per come fosse riuscita a continuare i suoi studi e ad avvicinarsi passo dopo passo alla laurea, ormai imminente, nonostante tut-to. Forse chinare la testa sui libri era stato il solo modo che aveva trovato per sopravvivere a quella situazione delirante, mantenendo la sanità menta-le. Il suo cellulare vibrò rumorosamente nella tasca dei jeans e un messaggio di Samuele le strappò un sorriso.

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“Domani sera porto la mia quasi dottoressa al cinema e stavolta non accet-to un No. Ti passo a prendere alle otto. =)” Eppure non riusciva a togliersi dalla testa il pensiero di suo padre. Era tornato in ufficio solo quella mattina, dopo aver passato le sue vacanze a firmare lunghe trafile di documenti. Per attestare la richiesta di separa-zione, per dividere il conto corrente da quello di sua moglie, per togliere l’intestazione comune della casa familiare ad Angela... Da quelle fredde pratiche burocratiche era uscito ancora più devastato ed esausto, Martina non osò immaginare in che stato si sarebbe trascinato in un appartamento vuoto. Enrico sarebbe passato a prendere i bagagli suoi e di sua madre verso le due del pomeriggio, Francesco non aveva neanche insistito affinché aspet-tassero che tornasse dall’ufficio per lasciare definitivamente l’abitazione. Martina si alzò, infilò il libro in una delle valige parcheggiate lungo la pa-rete vuota e guardò l’orologio che portava al polso: mezzogiorno. Uscì dalla stanza dirigendosi verso lo sgabuzzino per afferrare le scarpe e infilarsele in pochi gesti affrettati. Temporeggiò qualche istante davanti al grande specchio dell’ingresso, controllando lo stato dei suoi capelli. In quel momento Angela uscì dalla cucina con le braccia cariche di borse di plasti-ca, piene di chissà quali oggetti inutili che riteneva indispensabile trasci-narsi nella casa del suo nuovo uomo. «Stai uscendo?» domandò stupita e vagamente in allarme, guardando la figlia che si apprestava ad aprire la porta di casa. «Tranquilla, la mia roba è già pronta e ti prometto che tornerò in tempo per l’arrivo di Enrico. Vado a pranzo fuori». «Con Samuele?». «Con papà». Martina non lasciò alla madre il tempo di dire nemmeno una parola, infilò l’uscio e si chiuse la porta alle spalle. Ore 12.40 Le dita dell’uomo danzavano sulla tastiera del computer veloci e precise. Da quando si era seduto alla scrivania, alle otto di mattina, Francesco non aveva ancora staccato gli occhi dalle lunghe file di dati, nemmeno per an-dare in bagno. Non si era neanche accorto che fosse arrivato mezzodì, nep-pure i morsi della fame erano in grado di distrarlo. I colleghi erano passati accanto alla sua postazione lavorativa durante tutta la mattina, cercando di scambiare quattro chiacchiere amichevoli, ma tutto l’ufficio si era accorto ben presto che Francesco alzava gli occhi solo per ascoltare e rispondere a domande strettamente lavorative. Il suo sguardo era concentrato e completamente assorto, terminava una pra-tica dietro l’altra a ritmo sempre più sostenuto.

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Il suono del cellulare, proveniente dalla tasca, lo fece quasi sobbalzare. Per qualche minuto rimase incerto sul da farsi: la suoneria era quella riservata ai membri della famiglia. Non aveva voglia di sentire la voce di Angela, che gli chiedeva dove aves-se nascosto l’ennesimo soprammobile regalato loro dalla suocera anni pri-ma. Appoggiò i gomiti sulla scrivania e affondò il viso tra le mani, lasciando che la suoneria acuta e stridula risuonasse per la grande stanza, mescolan-dosi con il trillo di altri mille telefoni. Quattro ore di lavoro ininterrotto, ed era bastato il suono ritmico di un mo-tivetto scontato a farlo scontrare nuovamente contro un muro gelido di ras-segnazione. Quando il cellulare smise di suonare Francesco rialzò lo sguardo e si stro-finò gli occhi con forza. Non ora! Avrebbe avuto tempo quella sera per piangersi addosso e sapeva che lo avrebbe fatto. Venne il turno del telefono fisso, che teneva sulla scrivania, di suonare. Questo non lo turbò più di tanto, aveva suonato tutta la mattina e non ave-va portato altro che domande su scadenze e percentuali di risparmio. Con leggerezza alzò la cornetta e la portò all’orecchio. «Francesco Pirovano, responsabile acquisti» rispose con professionalità per l’ennesima volta in vent’anni di lavoro. «Non si risponde più al cellulare?».La voce di Martina lo sorprese. «Mi hai chiamato? Ho paura di non averlo sentito, scusami. Il primo giorno è sempre un delirio» si giustificò mollemente, non avendo il cuore di dire alla figlia “Pensavo fosse tua madre.” «Lo so, signor impiegato del mese. Pensi di avere mezz'ora per portarmi a pranzo?». Francesco si accorse inaspettatamente di sorridere. «Certamente...». «Meno male! Perché sono davanti al tuo ufficio. Scendi che ti aspetto». Ore 14.30 Angela lanciò l’ennesima occhiata nervosa al grande orologio giallo che troneggiava al centro della parete del salotto. Camminava avanti e indietro per la stanza, senza riuscire a darsi pace. Un vago senso di ansia e paura le stringeva lo stomaco in una sottile morsa. Paura... ma paura di cosa? Ormai il passo più difficile lo aveva fatto! Ave-va finalmente trovato il coraggio di parlare con Francesco e dirgli tutta la verità. Dirgli di come avesse sofferto incatenata in un matrimonio sempre più soffocante, di come avesse trovato conforto e compagnia tra le braccia di un altro uomo, e di avere finalmente deciso di dedicarsi totalmente al

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suo nuovo amore. Non avrebbe voluto fare del male al marito, ma era ine-vitabile e lo sapeva bene. Francesco era un uomo adulto, avrebbe affrontato la cosa in un modo o nell’altro. A preoccuparla veramente era la sua bam-bina. La sua bambina di ventidue anni. «Angela, ti prego, fermati! Mi sto stancando solo a guardarti!» la rimpro-verò dolcemente Enrico che, seduto sul divano, osservava i movimenti del-la compagna. «Avrebbe dovuto già essere qui! È in ritardo e abbiamo ancora un sacco di roba da caricare in macchina!». L’uomo si alzò dal divano per avvicinarsi ad Angela, le prese le mani e la guardò negli occhi dolcemente. «Mi dici cosa ti preoccupa? È solo andata a pranzo con suo padre, cerca di capirla». Angela sospirò profondamente appoggiando il viso sul petto del compagno e chiuse gli occhi. «Non lo so, ho come una strana sensazione». «Cosa potrebbe mai succedere?». «Che Francesco me la porti via». Enrico sorrise comprensivo, prima di stringere la donna tra le sue braccia. «Devi cercare di stare calma. Sarà qui a momenti e caricheremo le sue va-lige in macchina. Il traffico del centro è terribile a quest’ora e i pullman sono continuamente in ritardo». «Ma sì, hai sicuramente ragione tu». Angela sorrise dolcemente mentre al-zava il volto e socchiudeva gli occhi per ricevere un bacio delicato e rassi-curante. Fu in quel momento che Martina aprì la porta di casa. L’immagine durò non più di pochi istanti: vide sua madre tra le braccia di Enrico. La vide serena, rilassata, si lasciava coccolare come non faceva da tempo immemore con il marito. Sua madre era felice. In quel caldo abbraccio si incastrava alla perfezione e sembrava aver trovato il suo posto nel mondo. In un istante seppe cosa fare. Era così semplice, così scontato. Ore 19.30 Il sole si stava avviando verso l’orizzonte, le giornate iniziavano già ad ac-corciarsi. Federica stava girando le sedie sui tavoli e un forte odore di de-tersivo impregnava ogni angolo del locale. Andrea stava calcolando l’incasso della giornata, segnando scrupolosamente ogni spesa ed entrata su una piccola agenda. La ragazza alzò gli occhi sul suo datore di lavoro e gli regalò uno sguardo di vaga curiosità, del quale Andrea si accorse immediatamente.

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«Che c’è?» domandò il barista, anche se poteva benissimo immaginare quale sarebbe stato l’argomento della discussione. «Cosa intendi fare ora?» chiese Federica, con una punta di malizia nella voce. Andrea riabbassò immediatamente lo sguardo sulle banconote che stava contando, tornando a sfogliarle una per una. «Non so, credo che ordinerò una pizza e guarderò un film» rispose in un mormorio distratto. La ragazza sbuffò divertita avvicinandosi e gettò i gomiti sul bancone per guardare l’uomo dritto negli occhi. «Non ci provare Andrea! Sai benissimo a cosa mi riferisco!» esclamò con tono divertito, senza dare tregua al bari-sta che si girò di scatto per afferrare una lattina di birra, probabilmente solo allo scopo di evitare il suo sguardo inquisitore. Ma Federica non intendeva retrocedere di un solo passo. «Oh andiamo! Ormai hai trentacinque anni suonati! Non puoi continuare a comportarti come una ragazzina timida! Tira fuori le palle!». Per poco ad Andrea non andò di traverso la frizzante bevanda alcolica. «Federica!». «Che c’è? Cos’ho detto? Preferisci continuare a rannicchiarti sotto le co-perte sognandolo mentre viene a prenderti su un cavallo bianco?». Andrea arrossì fino alla punta delle orecchie. Per poco non rovesciò la bir-ra su tutto il bancone nell’atto di posare la lattina con un gesto deciso. «E cosa pretendi che faccia? Innanzitutto non è detto che sia nuovamente single, e poi anche se fosse, è appena uscito da un matrimonio, con una donna!»concluse con un lieve colpo di tosse e si schiarì la gola, improvvi-samente asciutta, con un sorso di birra. «Ma scusa le cose cambiano, non sai nemmeno perché sia finita con la moglie! Magari lei lo ha trovato a letto con un bel giovanotto!» scherzò Federica cercando di far tornare il sorriso ad Andrea, ma con poco succes-so. «Il che sarebbe ancora peggio...» mormorò il barista in risposta lanciando la lattina vuota nel cestino. Federica si morse la lingua rendendosi conto di aver ecceduto, come suo solito. Si girò appoggiando la schiena al bancone per volgere uno sguardo distrat-to alla vetrina che dava sulla strada. Un sorriso divertito le piegò le labbra. «Parli del diavolo...». Andrea alzò gli occhi a sua volta e vide Francesco attraversare il marcia-piede a passi lenti e svogliati, quasi trascinati, con lo sguardo perso nel vuoto. Un brivido leggero gli corse sotto la pelle, mentre si trovava involontaria-mente a trattenere il respiro.

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L’uomo dall’altra parte del vetro si accorse di essere osservato e incrociò lo sguardo con quello del barista. Gli sorrise alzando una mano e passò oltre senza fermarsi. Andrea sorrise a sua volta e ricambiò il saluto, mentre il suo viso si illumi-nava di una luce radiosa. Federica ridacchiò sommessamente guardando il barista. «Che c’è da ridere?» «È solo che dovresti vederti quando c’è lui. Ti brillano gli occhi». Per la seconda volta in pochi minuti, Andrea arrossì violentemente, chiuse la cassa e spense le luci con fare sbrigativo e seccato. «Fammi il favore e vattene a casa». La cameriera non se lo fece ripetere due volte e in pochi passi fu sulla por-ta. Mandò un bacio con la mano all’amico prima di uscire per lasciarlo solo, immerso nel buio, con le parole della ragazza che gli risuonavano in testa. “Sono davvero messo così male?” Francesco passò oltre al piccolo bar e il sorriso di cortesia sparì dal suo volto. Girò l’angolo ed entrò nel parcheggio, dove aveva abbandonato la macchina quella mattina. Insieme al sole era scesa anche una leggera brez-za che lo fece rabbrividire, infilò una mano in tasca e pescò le chiavi dalla cucitura nella stoffa. Era inutile temporeggiare, prima o poi sarebbe dovuto tornare a casa. Sapeva che non avrebbe più trovato la tavola apparecchiata, i borbottii di Angela su quanto si fosse fermato in ufficio, l’abbraccio di Martina prima di correre fuori da Samuele. Perfino le liti serali con la mo-glie gli sarebbero mancate, incredibile. Non si apprezza mai quello che si ha finché non lo si perde. Non ci aveva mai creduto, fino a quel momento. Si sedette al posto di guida e regolò lo specchietto retrovisore, che per un attimo rifletté i suoi occhi. Oh Signore! Davvero era andato in giro tutto il giorno con quello sguardo da cane bastonato? Si fece pena da solo. Con un gesto rapido infilò le chiavi nel cruscotto e avviò il motore. La strada verso casa passò in un secondo. Non gli era mai sembrata così breve, ora che non aveva alcuna fretta di arrivare. Parcheggiò la macchina in garage, si fermò a controllare la posta e salì lentamente le scale fino al secondo piano. Quella serie di piccoli gesti quotidiani, che aveva fatto al-meno un milione di volte, lo indussero a credere, per un istante, che non fosse cambiato assolutamente nulla. Ma nel momento in cui infilò le chiavi nella serratura trasse un profondo respiro. Tanto valeva prepararsi subito al silenzio, alla solitudine, e adesso che le due donne della sua vita se ne erano andate abbandonandolo al suo destino, cosa avrebbe fatto? Lui da solo in quella casa colma di ricordi? In quella casa in cui, in un tempo remoto, era stato felice?

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Finalmente si decise a far girare la chiave. La porta non era chiusa, e la ser-ratura scattò al primo giro. Impossibile! Vuoi vedere che se ne sono andate dimenticando pure di chiudere? Spinse la porta e un inatteso calore lo avvolse, i termosifoni erano tiepidi, la luce era accesa e la voce della televisione parlava sullo sfondo del suo stupore. Trattenne il fiato mentre chiudeva la porta con un colpo, attraversò di corsa il salotto e fece irruzione in cucina. Rimase immobile qualche istante sulla soglia a osservare Martina distratta dal telequiz, mentre il sugo nel pentoli-no scoppiettava bollente. La tavola era apparecchiata, la pasta era già stata scolata e il profumo di cibo e vita si propagava per tutta la casa. «Martina...» mormorò Francesco a mezza voce, come se temesse di vederla sparire da un momento all’altro. La ragazza si voltò di scatto verso il genitore, accorgendosi solo in quel momento della sua presenza. Gli rivolse il più semplice dei sorrisi. «Era ora! Ancora qualche minuto e sarebbe stato tutto da buttare». Francesco avanzò nella stanza stranito, fissando la figlia con sguardo in-credulo, una piccola e flebile speranza si fece lentamente strada nel suo cuore. «Cosa ci fai qui?». «Pensavi davvero di liberarti di me così facilmente?» rispose la ragazza con un sorriso complice mentre spegneva il fuoco sotto al pentolino. «Che vuoi dire?» «Che sono maggiorenne, e posso scegliere liberamente dove vivere e con chi. E ho scelto di restare qui con te. Sempre che tu lo voglia». Francesco lasciò cadere a terra la valigetta da ufficio e abbracciò la figlia con tutta la forza che aveva. «Cosa fai papà, ti metti a piangere adesso?». Ore 22.15 Sullo schermo scorrevano lenti i titoli di coda, accompagnati dal motivo strumentale che aveva risuonato per tutto il film. Andrea, sdraiato sul divano, lasciò cadere l’ultima crosta di pizza sul cartone appoggiato al pavimento. Con un tocco sul telecomando spense il televisore, mentre controllava la posizione delle lancette sul suo orologio. Erano solo le ventidue, come al solito la sera il tempo non passava mai. Rifletté qualche istante sul film che aveva appena visto, cercando di decidere se gli fosse piaciuto o no, ma non era nemmeno sicuro di averlo seguito fino alla fine. Continuava a pensare alle parole pronunciate da Federica solo qualche ora prima. Sul momento lo avevano punto nel vivo e

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aveva reagito, come al solito, indignandosi e chiudendosi a riccio. Ma ora il silenzio aleggiava nel suo appartamento e non aveva più scuse per rimandare la riflessione. Aveva trentacinque anni compiuti, un piccolo bar vicino al centro di Milano, un bilocale in affitto a Cinisello Balsamo e una serie di misere e vuote relazioni alle spalle. Passava le sue serate sgranocchiando qualcosa davanti alla tv e, con la scusa di dover aprire il bar alle prime luci del mattino, andava a letto presto. Ma in fondo sapeva benissimo che la realtà era che, una volta abbassata la saracinesca, fino al momento di alzarla nuovamente, non aveva niente da fare. L’idea di un giorno libero quasi lo spaventava, poiché quando non era al bar si rendeva veramente conto di non avere nient’altro nella vita oltre al lavoro. Scosse la testa cercando di liberare la mente. Aveva passato fin troppo tempo a rimuginare e rimestare innumerevoli volte i suoi ricordi e le sue scelte, e aveva imparato che non serviva a nulla. Eppure non poteva fare a meno di produrre mille pensieri, sempre più elaborati e inutili. La sua mente fece un salto logico azzardato e, come al solito, si ritrovò a pensare a Francesco. Per tutto il giorno l’immagine della sua mano sinistra priva dell’anello nuziale lo aveva ossessionato e, come sempre, non era stato in grado di dirgli niente. Tutti i giorni Francesco entrava nel suo bar, scambiava due parole e correva via. L’impiegato conosceva a malapena il suo nome, Andrea non era nemmeno sicuro che il giorno dopo sarebbe tornato. Immaginò se stesso, intento a scrutare la porta giorno dopo giorno, aspettando un paio di occhi castani e un sorriso di circostanza. Per tanto tempo l’unica cosa che Andrea aveva potuto fare era stata cercare di smettere di pensare a lui. Quale scelta aveva? Si era invaghito di un uomo sposato. Ma non poteva certo impedire a Francesco di ordinare un cappuccino in un bar e, maledicendosi ogni volta che succedeva, Andrea continuava a sobbalzare di emozione quando sentiva la sua voce. Patetico! Si alzò svogliatamente dal divano e gettò il cartone della pizza nella pattumiera. Stava per avviarsi verso la camera da letto, quando il telefono fisso prese a suonare, infrangendo il silenzio della stanza. Andrea afferrò il cordless distrattamente e se lo portò all’orecchio. «Pronto?». «Pronto... parlo con Andrea Molteni?» domandò una voce maschile, che in un primo momento non gli suggerì nulla, esitante e quasi timorosa. «Sono io, chi parla?». «Sono Daniele… Beretta…». Andrea sgranò gli occhi, gli mancò il respiro e si lasciò cadere nuovamente sul divano. Per qualche secondo non riuscì nemmeno ad articolare una parola.

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«... ti ricordi di me?» domandò la voce dall’altra parte dell’apparecchio. Certo che si ricordava, come avrebbe potuto dimenticare? «Sì che mi ricordo. È che non mi aspettavo di sentirti». «Lo so, quanto tempo sarà passato? Dieci anni?». Quindici per l’esattezza. «Sì, all’incirca. A cosa devo la chiamata?». «Il fatto è che... mi sono trasferito a Milano. E ho voglia di rivederti».

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Martedì 7 Ore 6.05 Il sole aveva appena fatto capolino sulla città, le lunghe ombre della notte ancora stentavano a ritirarsi totalmente nel loro angolo per lasciare posto alla luce quando Daniele, stufo di rigirarsi nel letto, decise di alzarsi. Si stiracchiò stancamente, non aveva dormito quasi per niente quella notte. Una miscela confusa e disordinata di pensieri lo aveva ossessionato fino all’alba. In punta di piedi, facendo meno rumore possibile, uscì dalla camera per andare a chiudersi in bagno. Si chinò verso il lavandino e sciacquò il viso con l’acqua fresca. Non era ancora certo di avere fatto la cosa giusta, ma ormai era andata. Un sorriso sottile ed emozionato gli increspò le labbra, ieri sera aveva davvero chiamato Andrea, dopo quindici anni aveva sentito la sua voce. Non gli sembrava vero. Lo aveva divertito il modo in cui l’uomo si era stupito, nello scoprire con chi stava parlando. Certo che non si aspettava di sentirlo, come avrebbe potuto? Forse, se avesse saputo chi c’era dall’altra parte del telefono, Andrea non avrebbe neanche risposto. Possibile che gli serbasse ancora rancore? Daniele non sapeva cosa aspettarsi dall’incontro fissato con lui per quel pomeriggio, eppure si accorse di non vedere l’ora di rivederlo. Improvvisamente una smaniosa curiosità e una placida emozione s’impadronirono di lui. Quindici anni. Chissà com’era cambiato Andrea. Se lo ricordava in jeans, con i capelli biondi tagliati corti e una maglietta sportiva sempre troppo larga. Alzò la testa e fissò la propria immagine allo specchio, si passò una mano sulla fronte, tirando le piccole rughe che si erano andate formando sul suo viso con il passare del tempo, i suoi capelli avevano perso lucentezza e il suo sguardo era più stanco e velato. Chissà se Andrea sarebbe stato deluso dal suo aspetto. E chissà con che volto e con quante rughe lo avrebbe rivisto quel giorno. Ore 6.30 Andrea fece scorrere le tazzine sotto l’acqua calda una per una, mentre le riponeva ordinatamente in fila sotto al bancone, pronte per l’utilizzo. An-cora mezzora e avrebbe aperto il bar. E allora sarebbero tornate le cascate di voci e di ordinazioni, da sbrigare il più in fretta possibile. Respirò a fon-

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do l’aria del mattino, mentre si godeva la tranquillità del locale, stranamen-te silenzioso. «Buongiorno, capo!».La porta si aprì di colpo, accompagnando l’ingresso trionfale di Federica. Fine della pace. «Buongiorno»la salutò Andrea, sollevando appena lo sguardo dalle sue preziose tazzine. «La tua allegria è sempre contagiosa!» scherzò la ragazza per andare ad abbracciarlo e baciarlo sulla guancia. «Tutte le mattine con 'sta storia dei baci!» sbottò Andrea allontanandosi per andare sul retro, a controllare le brioche nel forno. Federica sbuffò fintamente offesa, sedendosi sul bancone con un salto. «Lo so che non è da me che li vorresti, ma in mancanza d’altro dovrai ac-contentarti». Andrea tornò nella stanza scuotendo il capo. «Invece di fare la spiritosa ascoltami, oggi abbiamo un problema. E scendi da lì, che ho appena pulito!». Federica scese di malavoglia e rivolse la sua attenzione alle sedie, che era-no ancora girate sui tavoli. «Dimmi tutto! Che succede?». Andrea temporeggiò qualche istante, fingendo di controllare la macchina del caffè. «Non è che hai un’amica o un amico interessato a lavorare qui per qualche ora? Ho un impegno per pranzo». La cameriera interruppe immediatamente la sua operazione di ordine per voltarsi di scatto e fissare con sguardo inquisitore il suo datore di lavoro. «Hai un impegno?». «È quello che ho appena detto!». «Tu?». «È così difficile da credere?». «Sì!». Andrea sospirò incassando il colpo. Non poteva darle torto. «Beh, oggi ce l’ho». «Che impegno?». L’uomo roteò gli occhi estenuato, prima di rispondere con un sospiro. «Devo vedere un fornitore, va bene?». «Non prendermi in giro! I fornitori li incontri sempre qui!». «Non questo!». Federica sorrise divertita, vedendo che il suo piccolo interrogatorio im-provvisato stava dando i suoi frutti. Lo scintillio curioso che brillava negli occhi della ragazza fece capire ad Andrea di non avere scampo. Prima o poi glielo avrebbe fatto sputare fuori, quindi tanto valeva confessare.

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«E va bene. Mi vedo con un... amico, diciamo». Il volto della cameriera si illuminò mentre sentiva profumo di novità stuz-zicanti. «Un amico?! Oddio, è il tuo impiegato modello? Ti sei deciso a chiedergli di uscire?». Andrea la guardò inarcando un sopracciglio, scettico, facendole capire quanto fosse fuori strada. «E quando glielo avrei chiesto, di grazia?» Federica dovette dargli ragione e annuì mentre l’entusiasmo si attenuava leggermente. «Ma... se non è lui, allora chi è? Quanti altri begli uomini hai in ballo a mia insaputa?». «Oh guarda! Milioni!» rispose il barista ironico, scuotendo il capo. «Non mi hai ancora risposto! Chi è quest’uomo misterioso?». «Non sono fatti che ti riguardano! Tu preoccupati solo di trovare qualcuno per oggi pomeriggio!». La ragazza portò la mano destra alla fronte esibendosi in un saluto militare. «Sissignore! Ma non credere che sia finita qui!». «Non ci ho sperato nemmeno per un secondo». Ore 7.15 Francesco studiò la propria immagine allo specchio, mentre il rasoio scivo-lava sulla sua pelle portandosi via la schiuma da barba e i peli ribelli del primo mattino. Si sciacquò il volto e spalmò il dopobarba sulla pelle liscia. Sorrise nel sentire quel penetrante profumo da uomo: era un regalo di Mar-tina, lo aveva ricevuto in occasione del suo quarantesimo compleanno. «Sei un bell’uomo, anche se inizi a invecchiare! Quindi vedi di rimanere tale!» aveva scherzato la ragazza solo qualche mese prima. Francesco te-neva in modo particolare a quel dopobarba, e lo centellinava usandolo solo nelle occasioni speciali. Quel giorno però decise di fare un’eccezione e lo mise, anche se doveva andare solo in ufficio. Gli era sempre piaciuto dedicarsi qualche piccola attenzione davanti allo specchio, più per amor proprio che per pura vanità. Eppure, quando quella mattina si era alzato e aveva guardato la sua immagine riflessa, si era reso conto di quanto si fosse trascurato da quando Angela aveva rivelato di ave-re una relazione con un altro uomo. Nell’ultimo mese aveva rinunciato a pettinarsi con cura, a radersi regolarmente e al dopobarba. Quando finì la breve operazione di toeletta il suo viso sembrava un altro, si sentì quasi più giovane. Ma probabilmente questo non era dovuto né al dopobarba,né al pettine. I lineamenti del viso, rimasti corrucciati e tesi per troppo tempo, quella mattina erano rilassati.

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Soddisfatto di sé uscì dal bagno e indossò la camicia fresca di bucato. Mentre faceva scorrere le dita tra le asole infilando uno per uno i bottoni al loro posto, sentì il cellulare di Martina suonare dalla sua camera. Era sicuro che la figlia stesse ancora dormendo, con un sorriso divertito, si chiese come avrebbe preso quella sveglia inattesa. Pochi minuti dopo, mentre Francesco si stava dedicando alla cravatta, una Martina spettinata e assonnata si trascinò fuori dalla sua camera, striscian-do i piedi sul tappeto del salotto. «Buongiorno raggio di sole!» la salutò il genitore ironico. Martina si stropicciò gli occhi, ancora incollati dal sonno, prima di alzare lo sguardo sull’uomo. «Buongiorno papà... ma come siamo belli stamattina»constatò la ragazza con soddisfazione, mentre si avvicinava al genitore per raddrizzargli la cravatta e sistemargli il colletto rimasto sollevato. «Tu invece sembri passata sotto a un camion». Martina sbuffò sonoramente e trattenne un grosso sbadiglio. «Non era mia intenzione svegliarmi a quest’ora. Infatti adesso credo che tornerò a dormire». «Chi ti ha buttato giù dal letto?». «Una mia amica. Sembra che nel bar in cui lavora questo pomeriggio ci sarà carenza di personale, così mi ha chiesto se mi va di darle una mano e guadagnare qualche soldo». Francesco annuì pensieroso mentre si infilava la giacca. «Dov’è questo bar?». «Se ho capito bene, non lontano dal tuo ufficio». Ore 13.10 Daniele si tormentava le mani divorato dalla tensione, aveva lo stomaco completamente chiuso all’idea che Andrea sarebbe arrivato da un momento all’altro. Sarebbe arrivato, vero? Alzò nervosamente la manica della camicia, per la centesima volta, sco-prendo l’orologio per controllare l’ora. Aveva solo dieci minuti di ritardo, non era il caso di agitarsi. Il cameriere passò di nuovo domandandogli se fosse pronto per ordinare. «Come le ho detto, sto aspettando una persona» rispose per la terza volta, sempre più spazientito. Daniele scrutava la sala con apprensione, il suo sguardo saltava di angolo in angolo. Con un profondo sospiro bevve lentamente un sorso di acqua fre-sca.Quando posò il bicchiere sul tavolo, lo vide. Andrea stava parlando con un cameriere, non dava segno di aver ancora individuato il suo tavolo.

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Era più alto, più robusto, portava i capelli meno folti e più ordinati. Ma era decisamente lui. Daniele sospirò emozionato quando, finalmente, lo sguardo dell’uomo in-crociò il suo. Si alzò per andargli incontro con un grande sorriso. «Andrea! Ce l’hai fatta!». Il barista lo tenne a distanza porgendogli la mano, nella ricerca di una stret-ta formale. «Ti avevo detto che sarei venuto». Daniele parve leggermente deluso da quel distacco, allungò a sua volta la destra e gli strinse la mano. Andrea fissò l’uomo che aveva dinanzi con sguardo neutrale e sobbalzò quando questi, invece che lasciare andare la sua mano, la strinse ancora più forte per poi tirarlo verso di sé, avvolgen-dolo in un abbraccio inaspettato. «Non formalizziamoci, sono quindici anni che non ti vedo! Fatti abbraccia-re». Andrea, colto alla sprovvista, ricambiò l’abbraccio con imbarazzo e fu sol-levato quando Daniele fece un passo indietro, riguadagnando le distanze. «Ti trovo davvero bene. Nonostante sia passato tanto tempo non hai perso il tuo fascino» esclamò Daniele, scannerizzando con lo sguardo il suo in-terlocutore. Andrea arrossì leggermente, facendo finta di non aver sentito, prese posto al tavolo e affondò il naso nel menù. Daniele fece altrettanto, mentre trat-teneva un sorriso divertito e commosso. Non era cambiato di una virgola. «Scusa il ritardo. Ho voluto aspettare che arrivasse la mia sostituta prima di lasciare il bar». «Lavori in un bar?». «È mio» si affrettò a precisare Andrea con una punta di orgoglio. «Tu in-vece cosa fai?». «Lavoro all’ufficio postale. Sono stato trasferito in una sede qui in città di recente». Andrea abbassò lo sguardo sulle proprie mani e si fissò le nocche per qual-che istante, un mormorio appena percettibile sorse dalle sue labbra mentre continuava a tenere gli occhi bassi. «E dimmi... come vanno le cose a Briosco?». Daniele lo scrutò con uno sguardo incuriosito. «Dovresti saperlo da te, i tuoi non abitano ancora nella tua vecchia casa?». Andrea sospirò e alzò sull’interlocutore uno sguardo velato, vagamente malinconico. «Non li vedo né li sento da una vita. Saranno quasi quattordici anni, or-mai». Daniele improvvisamente parve sulle spine. Come una coltellata gli balenò nella mente l’immagine di una donna, accasciata su una sedia in lacrime e

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di un uomo che afferra una lampada, per scagliarla contro un Andrea molto più giovane. L’immagine sparì quasi subito, fu come un lampo in mezzo alla notte, ma gli lasciò addosso un senso di vergogna tale che avrebbe voluto nasconder-si sotto la tovaglia. Andrea si accorse del suo sobbalzo e un sorriso amaro gli piegò le labbra. «Sentirti mi ha fatto fare un bel tuffo indesiderato nel passato». Daniele si sentì incredibilmente a disagio, un nodo gli strinse la bocca del-lo stomaco. Allungò una mano fino a toccare quella di Andrea, posata sul tavolo, il quale però con uno scatto la ritrasse evitando il contatto. «Davvero sei ancora in collera con me?» domandò Daniele con amarezza. Andrea sospirò e si prese qualche istante prima di rispondere. «Non lo so... ma non puoi ricomparire dal nulla, dopo quindici anni, e a-spettarti che non sia cambiato niente». «Lo so, avevo solo voglia di rivederti. Mi sei mancato da morire, da quan-do mi hai lasciato...». Andrea si concesse una piccola risata a denti stretti mentre riportava lo sguardo sull’uomo. «Da quando ti ho lasciato? Hai dei ricordi confusi al riguardo, mi sembra». Daniele scosse il capo e si passò una mano sugli occhi, mentre cercava di riordinare le idee. «Basta così! Ci siamo fatti abbastanza male tu e io. Non sono qui per ria-prire vecchie ferite». Andrea annuì dovendogli dare ragione, che importanza poteva avere or-mai? «Solo una cosa voglio chiederti ancora, e ti prego di non mentirmi! Sei mai riuscito a dir loro la verità?». Daniele sorrise tranquillo, fissando l’uomo dritto negli occhi. «Sì, l’ho fatto. Mi dispiace solo di averci messo tanto». Andrea sospirò sollevato mentre involontariamente si rilassava, appog-giandosi allo schienale della sedia, come se si sentisse realmente a suo agio solo in quel momento da quando era arrivato. Daniele sorrise e riportò l’attenzione sul menù. «Non roviniamoci l’appetito con questi discorsi!». Ore 18.38 Federica lanciò uno sguardo all’orologio e notò che l’orario di chiusura si stava avvicinando rapidamente. Martina intanto stava tornando al bancone con un vassoio carico di tazzine e bicchieri sporchi, incrociò lo sguardo pensieroso dell’amica e la osservò incuriosita, mentre faceva scivolare le stoviglie da lavare nella schiuma. «Qualcosa non va, Fede?».

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«Eh? No, tutto a posto! Mi stavo solo chiedendo dove sia finito Andrea. Aveva detto che sarebbe tornato dopo pranzo, ma è tutto il pomeriggio che non si fa sentire». Martina si appoggiò al bancone e dedicò tutta la sua attenzione alle rifles-sioni dell’amica. Gli unici clienti presenti in quel momento si stavano pi-gramente dirigendo all’uscita, poteva permettersi di distrarsi. «Sei preoccupata?». «Ma no, non è quello. È solo che non è da lui. Mi dispiace di averti tenuta qua fino a sera». Martina fece spallucce e sorrise compiaciuta: «Meglio per me, mi pagate a ore!». «Questo è vero!».La ragazza portò l’ennesimo sguardo all’orologio. «Senti se vuoi andare fai pure, tanto ormai mancano venti minuti alla chiusura, posso anche sbrigarmela da sola». Martina scosse il capo alla proposta dell’amica. «Mio padre lavora qui vicino, mi passa a prendere lui quando esce dall’ufficio. Intanto ti faccio compagnia». «Ma non devi uscire con Sam stasera?». «Sì, ma l’ho già avvisato del ritardo. Non ti preoccupare». «Ormai quant’è che state insieme voi due?». Martina sorrise involontariamente mentre rispondeva con un filo di voce felice. «Sono due anni e mezzo a dicembre». Federica scosse il capo divertita.«E non ti sei ancora rotta?». «La tua è tutta invidia!»sbottò la ragazza piccata. Federica trattenne una risata nel vedere la reazione dell’amica e fece per replicare, quando il suo sguardo si posò per caso sul marciapiede dinanzi alla vetrina dove notò una figura familiare avvicinarsi a grandi passi al lo-cale. «Guarda chi è tornato!» esclamò Federica, pensando subito a quanto An-drea avrebbe voluto essere presente in quel momento. Martina le regalò uno sguardo stupito. «Conosci mio padre?». La cameriera si voltò di scatto verso di lei. «Tuo padre?». In quel momento Francesco fece il suo ingresso nel locale semideserto, con un sorriso stanco. «Io sono arrivato: il bar è quello laggiù» esclamò Andrea indicando il pic-colo locale dall’altra parte della strada. «Ma come, di già?» domandò Daniele sorridendo divertito all’uomo che aveva accanto. «Di già?! Hai un bel coraggio! Io sarei dovuto tornare a lavoro subito dopo pranzo».

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«È stato così brutto prendersi il pomeriggio?». Andrea sospirò dovendo ammettere che non lo era stato per niente. Si era presentato all’incontro pieno di riserve, dubbi e incertezze. Ma con il pas-sare delle ore si era accorto di divertirsi, e a ogni bicchiere di vino e aned-doto del passato il tempo era scivolato via sempre più velocemente. Alla fine era andato a passeggio per Milano con Daniele fino a sera, e aveva trovato veramente piacevole la sua compagnia. Nonostante ciò, una strana sensazione d’incertezza lo aveva accompagnato per tutto il pomeriggio, appostandosi in un angolo della coscienza, ma senza mai sparire del tutto. Attraversarono la strada e, una volta sul punto di separarsi, Daniele sorrise timidamente guardando l’uomo accanto a lui. «È stato bello vederti, sono stato bene». Andrea, senza una valida ragione apparente, arrossì e abbassò lo sguardo. «Anch’io» ammise con un mormorio. «Mi piacerebbe vederti ancora» lo incalzò Daniele avanzando un passo au-dace verso l’uomo. Andrea non rispose nulla e tenne lo sguardo basso, o-stinatamente fisso sulla punta delle scarpe. Non riusciva a pensare a nessu-na risposta sensata da dargli, non in quel momento. «Mi chiamerai?». «Non lo so... forse...». Daniele annuì, comprendendo che non poteva aspettarsi nulla di più. «Allora, spero tanto di sentirti presto». Andrea alzò lo sguardo su di lui per prepararsi a salutarlo, e Daniele ne ap-profittò per appoggiare le proprie labbra sulle sue a tradimento. Fu appena un tocco, leggero e per nulla invasivo ma Andrea si sentì come se lo avesse attraversato una scarica elettrica. Durò meno di un secondo, subito dopo Daniele si allontanò da lui, senza dire una parola, e voltandosi sparì nel crepuscolo in pochi attimi. Andrea era ancora stordito e confuso quando si voltò verso la vetrina del bar, quello che vide gli fece desiderare di essere inghiottito dal marciapie-de. Francesco era appoggiato al bancone, con una lattina tra le mani e uno sguardo indecifrabile puntato su di lui. Ore 19.05 «Potevi dirmelo che il bar di cui parlavi era quello di Andrea» esclamò Francesco con tono leggero e apparentemente casuale, senza spostare lo sguardo dalla strada. Martina distolse l’attenzione dal notiziario che stavano trasmettendo alla radio, per volgere gli occhi chiari sul genitore, dal sedile del passeggero ne scrutò lo sguardo concentrato e pensieroso. «Non sapevo che lo conoscessi. Non ero mai stata in quel bar prima di og-gi».

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«Ah! Quindi non conosci il gestore?». «Andrea? Ci ho scambiato appena due parole oggi pomeriggio, prima che andasse via». Francesco annuì meditabondo, per poi lasciare che la voce della radio tor-nasse a regnare padrona nell’abitacolo. «E tu, invece?» domandò Martina, incuriosita dalle domande dell’uomo. Francesco fece spallucce ed emise un sospiro di sufficienza prima di ri-spondere. «Mah, tutto quel che so è che fa ottimi cappuccini, e che ogni tanto mi re-gala una brioche». «Perché me lo hai chiesto, allora?». «Non so se lo hai notato, ma stasera l’ho visto fuori dal locale in compa-gnia di un uomo». «E allora?». «Non ne sono sicuro, ma credo che si siano baciati» esclamò Francesco ri-chiamando alla mente la scena, sempre più perplesso. La ragazza rimase in silenzio qualche istante prima di annuire, come se la notizia non la sorprendesse per nulla. «La cosa non mi stupisce. Fede mi parla spesso di lui, che gli piacciano gli uomini non è certo un segreto. Ma a te cosa importa?». Francesco si affrettò a scuotere il capo. «Niente! Solo... non lo sapevo!». Martina si rilassò sul sedile, mentre portava lo sguardo fuori dal finestrino con fare distratto. «Non pensavo che ti interessassi di gossip, ma pettegolezzo per pettegolez-zo sembra che il nostro barista abbia una cotta mostruosa per uno dei suoi clienti. Forse è l’uomo con cui è uscito oggi». Francesco emise un verso indecifrabile, mentre guardava con rimprovero la figlia. «Non mi piacciono questi discorsi, possiamo lasciar perdere?». Martina scosse le spalle con noncuranza. «Sei stato tu a iniziare!». «Va bene, va bene. Ma adesso finiamola, ok?». «Cosa ci faceva Francesco qui, a quest’ora?» domandò Andrea osservando la cameriera con gli occhi sgranati. Il barista era paonazzo e respirava a fa-tica tra una parola e l’altra. Federica lo guardò stranita senza smettere di asciugare i bicchieri. «È venuto a prendere Martina». Andrea si lasciò cadere su una sedia e affondò il viso tra le mani, si sentì le guance incandescenti tra i palmi sudati. «Ma proprio sua figlia dovevi chiamare!?». Federica sbuffò sonoramente gettando lo strofinaccio bagnato sul bancone.

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«Cosa ne potevo sapere io?! Ti sembro una veggente? Si può sapere che ti prende?». «Ma tu dove stavi prima? Non hai visto cos’è successo? Daniele mi ha ba-ciato!». Federica scosse il capo sorridendo divertita. «Baciato, che parolone, roba da educande... comunque dove sta il proble-ma?». «Francesco ci ha visti!». La cameriera abbandonò le sue mansioni per concentrarsi unicamente sull’uomo che aveva davanti, fissò l’amico con uno sguardo furbo e quasi malizioso. «E quindi?». Andrea mormorò qualcosa di indefinito, mentre si girava dandole la schie-na e appoggiandosi con le spalle al tavolino dinanzi al quale era seduto. «Tanto tu e Francesco non uscite insieme, o sbaglio?». «No...». «E mi sembra che tu abbia già detto che non intendi farti avanti con lui». «Ecco...». Federica sorrise divertita guardando la nuca del proprio interlocutore. «Quindi che t’importa se ti vede con un altro?». «Beh, pensavo solo che...». «Se hai paura di avvicinarti a una porta, che ti frega se è aperta o chiusa?». Andrea sospirò passandosi una mano tra i capelli e si volse nuovamente verso l’amica. «Non sei troppo saggia per fare la cameriera?». «Saggia io? Non dire cretinate. Sei tu a essere stupido!» Andrea annuì dovendo ammettere che aveva ragione, era davvero un idio-ta. Non riusciva a definirsi in nessun altro modo.

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Mercoledì 8 Ore 6.32 Martina aprì gli occhi alla luce pallida del mattino, un grigio chiarore sbir-ciava dietro le tende della stanza. Si permise di indugiare qualche istante tra il sonno e la veglia, mentre il calore delle coperte avvolgeva la ragazza, che sotto le lenzuola indossava ben poco. Il silenzio sonnolento delle prime ore del mattino gravava sulla camera, solo il respiro pesante di Samuele lo disturbava. Martina volse uno sguardo verso il ragazzo che dormiva profondamente al suo fianco.Stretti l’uno tra le braccia dell’altra avevano finito per addor-mentarsi nel piccolo letto singolo della ragazza. Lievemente preoccupata, Martina guardò la sveglia sul comodino. Aveva appena venti minuti per far sparire il ragazzo, prima che suo padre si svegliasse. Iniziò a scuotere Samuele dolcemente sussurrandogli il suo nome all’orecchio, finché non aprì gli occhi. «Buongiorno amore...» mormorò la ragazza sorridendogli mentre il ragaz-zo si esibiva in uno sbadiglio ben poco composto. «Ma che ore sono?» grugnì Samuele,«Ma che... è mattina?». Martina annuì mentre scivolava fuori dal letto. «Sì, e prima che mio padre si svegli, sarai fuori di qui!». Samuele sembrava capire a malapena dove si trovasse, si passò una mano tra i capelli spettinati e sbadigliò nuovamente. Ma nel momento in cui Martina abbandonò le coperte, parve svegliarsi di colpo e piantò uno sguardo malizioso sulla ragazza. «Devo proprio andarmene?». Martina rise mentre fingeva imbarazzo e indossava la prima cosa che pescò nell’armadio. Afferrò i pantaloni e la maglietta del ragazzo e glieli lanciò addosso. «Piantala di fare il cretino e mettiti qualcosa addosso, sei nudo come un verme» ironizzò la ragazza mentre frugava tra i cassetti, alla ricerca di biancheria pulita. Samuele sbuffò sonoramente alzandosi a sua volta, per poi avvicinarsi a Martina cingendola con le braccia. «Ehi, fermati un momento scheggia, non mi hai ancora dato il buongiorno» scherzò mentre le depositava sulle labbra una serie di piccoli baci. Martina sorrise mentre si lasciava coccolare dal ragazzo. Teoricamente l’appuntamento della sera prima non sarebbe dovuto durare fino al mattino,

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ma la ragazza non sembrava particolarmente dispiaciuta di averlo invitato a salire approfittando del fatto che fosse tardi e che sicuramente suo padre già dormisse. Ma aveva troppo senso del pudore nei confronti del genitore per ammettere deliberatamente che Samuele aveva passato la notte nel suo letto. Lo scroscio della doccia li fece sobbalzare e Martina spinse via il ragazzo. «Cazzo, è già in piedi! Ti vuoi muovere a vestirti?». Samuele stordito e ancora assonnato raccolse i suoi abiti e iniziò a indos-sarli, con una lentezza che la ragazza trovò estenuante. Quando finalmente il ragazzo fu pronto sembrava uno zombie: con i capelli all’aria, i vestiti stropicciati e le profonde occhiaie che contornavano gli occhi rossi di son-no. Martina si avvicinò alla porta e la aprì quel tanto che bastava per sbirciare in salotto. «Via libera!» annunciò con un filo di voce mentre sgusciava fuori dalla stanza, esortando Samuele a seguirla. Ma non appena il ragazzo mise il na-so nel soggiorno, Francesco uscì dal bagno in accappatoio. «Buongiorno papà!». Martina chiuse di colpo la porta della sua stanza e un tonfo sordo e doloroso risuonò per la casa silenziosa. La ragazza sorrise nervosamente al genitore, fingendo di non aver sentito nulla. Francesco squadrò la figlia perplesso. «Buongiorno. Come mai già in piedi?». Martina fece spallucce, sfoderando il sorriso più innocente del mondo. «Ehm... devo andare all’università fra poco, ho un gruppo di studio!» im-provvisò, cercando di essere convincente. «Anche tu ti sei alzato presto stamattina!». Francesco si passò un asciugamano tra i capelli, mentre ascoltava la figlia. «Non ho dormito molto bene stanotte. E comunque ho del lavoro arretrato da ieri, preferisco arrivare un po’ prima» spiegò mentre tornava in camera sua per iniziare a vestirsi. Martina annuì e rimase impalata dinanzi alla porta, chiedendosi se avesse rotto il naso al povero Samuele. Francesco tornò in soggiorno qualche minuto dopo. Senza nemmeno alzare lo sguardo su Martina, si concentrò totalmente sul nodo della sua cravatta, studiando la propria immagine allo specchio. «Dì a Samuele che se volete fare colazione dovrebbe esserci un po’ di caffè nella dispensa, forse ci trovi anche dei biscotti». Martina sgranò gli occhi sperando di aver sentito male, mentre scorgeva un sorriso divertito nell’immagine riflessa del padre. «M-ma io...». Francesco non le badò e attraversò la stanza a grandi passi, aprì la porta e volse uno sguardo di sfida alla figlia.

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«Stasera io e te facciamo i conti» esclamò seriamente mentre si chiudeva la porta alle spalle. Ore 7.15 Andrea osservava il liquido scuro e amaro scendere lentamente dalla mac-chinetta del caffè per depositarsi nella tazzina. I suoi occhi si chiudevano dal sonno, sentì che avrebbe potuto bere di gusto ogni singolo millilitro di caffeina nera che aveva preparato quella mattina. Fortunatamente era ancora presto per le prime colazioni, il momento di maggiore affluenza sarebbe iniziato a breve, ma per ora poteva permettersi di temporeggiare dietro al bancone mentre serviva i primi clienti della giornata. Non aveva chiuso occhio per tutta la maledetta notte, non aveva fatto altro che pensare... pensare... e pensare ancora. Non sapeva cosa aspettarsi da Francesco, per un istante desiderò di non vederlo comparire per quel gior-no. E poi c’era Daniele, che aspettava una sua telefonata... cosa avrebbe fatto? Stranamente era stato davvero bene il giorno prima, per qualche ora si era ricordato perché si fosse innamorato di lui, tanti anni fa. Era stato rischioso rivederlo, davvero voleva farlo rientrare nella sua vita? Se la meritava una seconda chance? In fondo era passato tanto di quel tempo che... «Andrea! Quella tazzina non arriverà magicamente al bancone, neanche se la fissi per tutto il giorno» lo rimproverò Federica, per poi spostarlo dalla macchina del caffè con uno spintone poco delicato e riprendere il lavoro dove lo aveva lasciato il barista. Andrea scosse il capo cercando di costringersi a svegliarsi, la ragazza gli rivolse uno sguardo impietoso. «Vai a lavarti la faccia, in queste condizioni sei solo d’impiccio». «Delicata come al solito, Fede, a volte mi chiedo chi sia il capo tra i due». «Sei tu ovviamente! E adesso fila in bagno, riprenditi alla svelta e afferra un vassoio. Se ti lascio al bancone oggi non ci salviamo più!» esclamò la cameriera con il tono autoritario di un generale al fronte. Andrea non osò obiettare e si trascinò fino al bagno, dove l’acqua fresca sul viso gli diede un leggero sollievo. Era inutile pensarci in quel momento, i suoi problemi potevano aspettare l’orario di chiusura. Si asciugò il volto e uscì dal bagno, più deciso che mai ad affrontare la giornata. Ma non fece in tempo a tornare alla sua postazione che la porta del locale si spalancò e Daniele fece il suo ingresso. «Che ci fai tu qui?» esclamò stranito dal centro della stanza, con un tono di voce che fece voltare diverse persone. Daniele si girò verso di lui e gli dedicò un sorriso radioso.

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«Prendo il caffè, cosa vuoi che faccia in un bar a quest’ora?». Andrea lanciò uno sguardo a Federica, la quale annuì comprensiva. Il bari-sta si avvicinò a grandi passi verso l’uomo e, dopo averlo afferrato per un braccio, lo trascinò di peso nella piccola stanza sul retro. «Quanta impazienza. Non vedevi l’ora di restare soli?» scherzò Daniele mentre Andrea chiudeva la porta, per isolarli dal resto del locale. Ma il barista non era in vena di battute, si voltò verso di lui osservandolo con uno sguardo stranito. «Allora, dimmi cosa vuoi». Daniele lo fissò qualche istante, prima di rispondere in un sussurro. «Ti ho pensato tutta la notte, dovevo rivederti». Andrea arrossì e sospirò nervosamente. «Perché fai così lo svenevole?». «Perché ti piace!» rispose l’uomo con il sorriso malizioso di chi la sa lun-ga. Andrea si morse un labbro e abbassò lo sguardo prima di continuare. «Non avevi detto che avresti aspettato una mia telefonata?». «Avevo paura che non l’avresti mai fatta». «In effetti ci ho pensato». «Non posso permetterlo. Andrea...». Daniele fece un passo verso l’uomo, gli prese le mani e piantò i propri occhi nei suoi. «Devi darci un’altra pos-sibilità! So di aver sbagliato in passato, non mi sono mai perdonato di aver-ti fatto scappare. Ma non sono più il ragazzino incoerente e bugiardo che conoscevi, sono completamente diverso! Permettimi di presentarti il nuovo Daniele, ti prego!». Andrea sospirò mentre cercava di evitare lo sguardo penetrante dell’uomo. «Perché ti sei fissato in questo modo con me? Neanche io potrei essere lo stesso di allora. Probabilmente sei attratto solo da un bel ricordo». «No, tu non sei di certo lo stesso. Allora eri un ragazzo ingenuo, intimidito dal mondo e confuso. Sei cresciuto, ho bisogno di conoscerti per vedere cosa è rimasto di quel ragazzo che ho amato e cosa potrei amare dell’uomo che sei ora. Se non avrò la possibilità di scoprirlo lo rimpiangerò tutta la vita». Andrea non seppe cosa rispondere, quello sguardo dolce e supplichevole lo commosse. Purtroppo per lui Daniele ci sapeva fare con le parole, aveva sempre saputo come prenderlo. Per un momento Andrea si sentì come se non fosse cre-sciuto per nulla. Come se fossero ancora i due ragazzi che, nascosti nell’ombra di un cortile, scoprivano com’era bello stringersi l’uno con l’altro. Daniele avvicinò il suo volto a quello dell’uomo che aveva dinanzi e, quando le loro labbra si toccarono, Andrea pensò che questo bacio non somigliava neppure vagamente a quello della sera prima.

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Francesco posteggiò la macchina al solito parcheggio e si diresse a grandi passi verso il bar. Lo fece istintivamente, i suoi piedi vi si diressero per propria volontà obbedendo alle regole dell’abitudine, prima di rendersene conto era entrato nel locale e si era avvicinato al bancone. Quando Federica si voltò verso di lui, sembrò quasi stupita di vederlo. «Buongiorno! Oggi è venuto prima del solito!» lo salutò cordialmente mentre si preparava a ricevere la sua ordinazione. Francesco sorrise alla ragazza mentre si appoggiava alla superficie di marmo. «Buongiorno, Andrea oggi non c’è?» domandò perplesso scrutando il loca-le con lo sguardo, senza riuscire a scorgere il barista. Federica parve sulle spine. «Sì, è sul retro. Vuole che glielo chiami?». «No, no. Non disturbarlo, ci mancherebbe, ero solo curioso. Mi fai un cap-puccino?». «Certo, arriva subito» rispose la ragazza, apparentemente sollevata per il cambio di discorso, e tornò a concentrarsi sulla macchina del caffè. «Come sta Martina? Le è piaciuto lavorare qui?» domandò Federica men-tre aggiungeva la schiuma di latte al caffè. «Oh, sì, ha detto che è stato divertente». «Questo solo perché non lo fa tutti i giorni» scherzò la cameriera mentre serviva l’uomo. «Possibile!» acconsentì Francesco con un sorriso divertito. In quel momento la piccola porta dietro al bancone si aprì e ne uscì Andre-a, seguito a ruota da un uomo. Francesco lo fissò perplesso per qualche istante, prima di alzare una mano in segno di saluto. Il barista al vederlo parve terribilmente a disagio, distolse lo sguardo e bo-fonchiò un saluto ben poco chiaro, per poi dedicarsi a finte mansioni to-talmente inutili, come cambiare continuamente la disposizione delle brio-che esposte nella vetrinetta. Daniele alternò lo sguardo tra i due prima di inchiodarlo su Francesco. Lo osservò con curiosità e un malcelato astio, così intensamente che l’impiegato dovette abbassare gli occhi sul cappuccino. Era abbastanza sveglio da accorgersi della curiosa reazione di Andrea alla vista di quell’uomo. Inoltre, nell’istante in cui lo sconosciuto lo aveva salu-tato, il barista si era scostato da lui, come se volesse fare intendere una to-tale estraneità nei suoi confronti, ma lo aveva fatto in modo istintivo, quasi casuale, come se non ne avesse nemmeno intenzione. Andrea parve non rendersi conto di nulla, tenne la testa china sulla vetrina delle brioche anche quando Daniele si avvicinò a lui per sussurrargli, in modo perfettamente udibile a tutti i presenti: «Allora ci vediamo domani sera, ti chiamo io», mentre teneva gli occhi fissi su Francesco, come se vo-lesse spiare una sua possibile reazione.

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Senza capire per quale ragione, l’impiegato si sentì a disagio sotto lo sguardo indagatore dello sconosciuto e finse totale indifferenza, cercando di obbligarsi a guardare esclusivamente i granelli di zucchero caduti acci-dentalmente sul piattino. Andrea annuì debolmente senza neanche voltarsi verso il suo interlocutore. Daniele non si diede per vinto e lo baciò delicatamente su una guancia prima di fare il giro del bancone per dirigersi all’uscita. Francesco seguì i movimenti dell’uomo fino alla porta, e vide che anche Daniele non lo perse di vista un solo istante, regalandogli uno stranissimo sguardo che interpretò quasi come un avvertimento. Ore 10.30 Il suono del cellulare risuonò acuto nel silenzio della stanza, raggiunse Samuele e infranse il sonno profondo nel quale era scivolato qualche ora prima. Il ragazzo aprì faticosamente gli occhi e allungò una mano verso il comodino afferrando il cellulare. Le dieci e trenta del mattino. Spense la sveglia del cellulare e si rigirò nel letto, l’idea di alzarsi non lo sfiorò neppure per un istante. Sospirò amara-mente da sotto il cuscino, al pensiero di poter restare a letto senza preoccu-pazioni, in quanto non aveva nulla da fare. A ventisei anni è davvero frustrante. Il suo contratto presso il call center era scaduto solo due giorni prima e ov-viamente non gli era stato rinnovato. Nonostante avesse passato la notte a casa di Martina, e quindi avesse dor-mito ben poco, nonostante la sveglia poco delicata sopraggiunta alle prime luci del mattino, nonostante fosse stato buttato fuori di casa dalla sua ra-gazza, sempre più turbata dalle parole del padre e fosse crollato sul suo let-to pensando di poter dormire fino a sera... nell’istante in cui questi pensieri lo raggiunsero, la voglia di dormire gli passò completamente. Con un gesto seccato si liberò dalle lenzuola e si trascinò giù dal letto. Era ora di ricominciare, per l’ennesima volta doveva rimettersi a mandare cur-riculum, a pregare per una risposta, a sperare di poter ottenere un qualsiasi lavoretto gli permettesse di pagare l’affitto del minuscolo bilocale che di-videva con suo fratello. Si passò una mano tra i capelli cercando di scaccia-re quei pensieri dalla mente, avrebbe trovato sicuramente un lavoro, dove-va trovarlo! Senza preoccuparsi di vestirsi si trascinò in cucina, dove trovò Roberto con la testa china su un grosso libro dall’aria pesante e decisamente noiosa. «Buongiorno» lo salutò il ragazzo senza alzare gli occhi dalla sua lettura. «E’ rimasto del caffè?» domandò Samuele passando oltre il tavolo e diri-gendosi alla caffettiera speranzoso. «Penso di sì».

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«Ancora sui libri? Tra te e Martina finirete per fondervi le meningi». Roberto sorrise posando un indice a metà della pagina che stava leggendo, per non perdere il segno. «Se tutto va bene ti basterà una sola sessione per vedere laureato tuo fratel-lo e la tua donna in un colpo solo». «Per quello non vedo l’ora! Almeno vedrò sparire tutti questi libri da casa nostra e da casa sua». «Cambiando discorso: ieri sera non ti ho sentito rientrare, sei tornato sta-mattina?». «Sì, sono uscito con Martina, quando l’ho riaccompagnata a casa mi ha in-vitato a entrare... è stata una bella serata, ma ci siamo addormentati. Mi so-no svegliato solo stamattina, poco prima di essere buttato fuori dopo che il padre ci ha scoperti». Roberto ridacchiò divertito dal racconto del fratello, ma il sorriso si spense dal suo volto quasi immediatamente, per lasciare il posto a uno sguardo e-stremamente serio. «A proposito di Martina...». Samuele si sedette al tavolo, dinanzi a lui, con una tazzina di caffè tra le mani. «Cosa?» domandò incuriosito dallo strano tono del fratello. «Ieri sera stavo ripulendo la stanza da letto, è incredibile dove possono ar-rivare i tuoi calzini sporchi!». «E allora?» Roberto infilò una mano nella tasca dei jeans e ne estrasse una scatoletta rivestita di morbida stoffa blu. «Che cosa significa questo?» Samuele scattò in piedi, sporgendosi verso il fratello per strappargli il pic-colo oggetto dalle mani. «Ma che cazzo fai? Ti metti a frugare tra le mie cose?». «Non lo farei se tu fossi più ordinato, ma non cambiare discorso ora! Che intenzioni hai?». Samuele sospirò profondamente mentre tornava a sedersi, posò lo sguardo sulla scatolina che aveva tra le mani. Fece scattare la chiusura e un piccolo anello d’oro bianco brillò su un cuscinetto. «Secondo te?».

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Venerdì 10 Ore 22.50 Andrea affondò la faccia nel cuscino e provò l’istinto di usarlo per soffo-carsi da solo. Cercò di controllare i battiti del proprio cuore, che come un pazzo martellava sotto lo sterno fino a rischiare di scoppiare. Trasse lunghi e profondi respiri, lasciando che i suoi muscoli si rilassassero sotto le len-zuola mentre venivano attraversati dal ricordo fresco di una scarica di libi-do misto alla sensazione di angoscia e senso di colpa. Si era a fatica reso conto di quello che stava succedendo, gli sembrava di svegliarsi solo ora da una stato di confusione e leggerezza. Non si era mai creduto tanto facile, eppure era successo. E non c’era voluto nemmeno molto. Andrea si vergognò di se stesso mentre volgeva lo sguardo verso l’uomo che giaceva al suo fianco. Daniele fissava il soffitto con un sorriso soddisfatto, come se fosse in pace con il mondo. Per qualche istante lo invidiò profondamente, quanto avrebbe voluto rilas-sarsi e godersi l’intimità con lui senza pensieri. Eppure non ci riusciva, sentiva di aver fatto qualcosa di profondamente sbagliato, o di aver sempli-cemente sbagliato tutto. Daniele si girò verso di lui e gli regalò un sorriso compiaciuto, quasi vitto-rioso. Non disse nulla, semplicemente gli si accostò cercando un abbraccio caldo. Andrea lo lasciò fare mentre si appoggiava con la testa al suo petto e sospirava accarezzandogli il torace delicatamente. «Quanto mi sei mancato» mormorò Daniele mentre chiudeva gli occhi e si rilassava accanto all’uomo. «Anche tu...» rispose Andrea, ma il suo tono sembrò quasi titubante, insi-curo. Daniele alzò la testa e lo guardò dritto negli occhi. «Non devi sentirti in imbarazzo, non con me» lo rassicurò dolcemente. Il barista annuì cercando di restituirgli un sorriso rilassato, in cuor suo fu felice del fatto che il compagno avesse frainteso l’incertezza con la quale aveva pronunciato quella frase. In quel momento si accorse di non volere altro che uscire da quel letto, al-lontanarsi da quello sguardo e dalle braccia di Daniele. Il senso di colpa gli divorava lo stomaco come un parassita famelico, non riusciva a fare a me-no di odiare se stesso. «Ehm... so che avrei dovuto farlo quando sei entrato, ma... ehm... posso of-frirti qualcosa? Un caffè?».

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Domandò con leggerezza mentre si scostava dall’abbraccio dell’uomo e scivolava fuori dal letto. Daniele parve stupito e leggermente infastidito da quella piccola fuga, ma non disse nulla e rimase tra le coperte mentre osservava Andrea che si infi-lava velocemente una maglietta e un paio di pantaloni. «No, grazie. Non puoi fare a meno di servire caffè?!» scherzò l’uomo fa-cendogli cenno con la mano e con gli occhi di tornare tra le lenzuola, in-sieme a lui. «Hai ragione. Allora perché non usciamo a bere qualcosa? La notte è gio-vane, sono solo le undici!» ribatté Andrea ignorando l’invito silenzioso. Voleva togliersi da quella situazione, da quell’intimità. Proporgli di uscire gli sembrò una buona scelta, aveva bisogno di schiarirsi le idee, magari di parlargli. Senza le sue mani provocanti intorno al proprio corpo. Daniele sgranò gli occhi all’affermazione di Andrea e scattò seduto. «Come? Sono già le undici?». Improvvisamente parve sulle spine, in pochi istanti saltò giù dal letto e ini-ziò a ispezionare la stanza alla ricerca dei suoi vestiti. «Che succede? Qualche problema?» domandò Andrea, incuriosito da quel-la strana reazione. «Eh? No. Figurati, niente di che. Solo che... ecco si è fatto tardi. Domani devo alzarmi presto. M-meglio che torni subito a casa» rispose Daniele senza smettere di raccogliere indumenti e iniziando a vestirsi alla velocità della luce. Andrea si rese conto che forse avrebbe dovuto proporgli di dormire da lui, sarebbe stata la cosa più sensata da fare, eppure l’idea non gli andò a genio per nulla. Non aveva nemmeno voglia di chiedergli spiegazioni sulla sua improvvisa premura di scappare. Pochi minuti dopo Daniele si stava infilando la giacca ed era pronto per uscire. Andrea lo accompagnò all’ingresso e gli aprì la porta. «Allora... buonanotte». Daniele attraversò l’uscio e si girò verso l’uomo per prendere il suo viso tra le mani e baciarlo con passione e dolcezza. «Buonanotte, Andrea. Ci sentiamo presto». Andrea annuì cercando di non guardarlo negli occhi. Aspettò pazientemen-te l’arrivo dell’ascensore prima di chiudersi la porta alle spalle e appog-giarcisi con la schiena. Con Daniele parve uscire dall’appartamento anche la pressante sensazione di angoscia e disagio, ma non il senso di colpa. No, quello rimase piantato nel suo petto come un chiodo arrugginito. Andrea sospirò profondamente e cercò di schiarirsi la mente, di dare un nome a quella sensazione spiacevole che lo attanagliava. Perché si faceva così ribrezzo? Perché si disgustava tanto? La risposta era tanto semplice quanto nauseante.

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Per tutta la sera, e soprattutto dal momento in cui avevano iniziato a toc-carsi, non aveva smesso per un solo istante di pensare a Francesco.

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Sabato 11 Ore 3.47 Fu il lieve scricchiolio del palchetto a svegliare Enrico. L’uomo aprì len-tamente gli occhi nel buio della notte, ancora incerto se si trattasse di sogno o di veglia, e si girò lentamente verso sinistra. Ma non vide il viso di Ange-la affondato nel cuscino accanto a lui. Stranito e leggermente confuso alzò lo sguardo e vide nell’ombra la figura della donna, seduta sul bordo del let-to. Sembrava fissare un punto indefinito nel vuoto, gli occhi chiari erano persi nel nulla, come se stessero scrutando qualcosa di molto lontano. «Amore?» mormorò sottovoce allungando una mano verso la spalla della compagna. Angela in un primo istante sussultò nel sentire quel contatto, come se non se lo aspettasse, ma subito dopo parve rilassarsi. Appoggiò la mano su quella dell’uomo e se la sentì stringere dolcemente. «Va tutto bene» rispose in un flebile sussurro, quasi come se non stesse parlando con lui, ma con se stessa. Enrico si mise a sedere e la fece voltare dolcemente. «Cosa c’è? Perché stai piangendo?» domandò prendendole il viso tra le mani. Angela alzò lo sguardo su di lui, appoggiò la fronte sulla sua e si lasciò ac-carezzare dal calore del suo respiro. «Non è niente. Solo un po’ di nostalgia». «Nostalgia di cosa?» domandò l’uomo con la voce incrinata da un timore improvviso. Angela percepì immediatamente la preoccupazione del compagno, appog-giò le labbra sulle sue e ne accarezzò il viso. «Non temere, non vorrei essere in nessun altro posto in questo momento». «Quindi non ti manca... Francesco?» domandò Enrico con voce sottile, la figura del marito di Angela lo spaventava. Quasi non osava pronunciare il suo nome, come se il solo farlo potesse evocarne la presenza. Angela scosse il capo e appoggiò la testa sulla spalla dell’uomo. «Non tornerei mai indietro. Ma non posso dire di non avere rimpianti». «Che vuoi dire?». «Ogni tanto mi chiedo come sarebbero andate le cose se, in momenti come questo, mi fossi voltata verso di lui. Se lo avessi guardato negli occhi quando ero ancora in tempo per leggerci qualcosa di diverso dall’indifferenza».

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Francesco socchiuse gli occhi nel buio, intorno a lui le ombre degli oggetti che lo circondavano somigliavano a presenze maligne intente a vegliare sul suo sonno disturbato. Si girò pesantemente su un fianco e tirò le coperte fin sopra la testa, chiuse gli occhi e fece di tutto per svuotare la mente. Eppure Morfeo tardava a concedergli il suo caldo abbraccio. Un’altra notte insonne, l’ultima di una lunga serie. Sbuffò sonoramente mentre scostava le coperte e si metteva seduto. Si prese la testa fra le mani, fissando un punto indefinito nel buio. Nervosismo, angoscia, confusione... quanto avrebbe voluto sapere che cosa lo tormentava. Lo sguardo cadde involontariamente sul lato sinistro del letto. Il cuscino era intatto, le coperte erano ancora tirate e le lenzuola terribilmente fredde. Con la mano accarezzò le coltri ordinate, percepì un vuoto doloroso e pun-gente che lo trafisse come uno spillo in mezzo al cuore. Aveva passato anni a detestare la sagoma di Angela che dormiva al suo fianco, girata di schie-na per non guardarlo. Aveva odiato quegli occhi chiari che preferivano sof-focare le lacrime nel cuscino, piuttosto che girarsi a incrociare i suoi. Al-lungò una mano verso la schiena della moglie e la posò sulla sua spalla in-vitandola dolcemente a voltarsi. Ma la sagoma si dissolse nell’istante in cui la toccò, tornando a confondersi nel buio della notte. Francesco sospirò mentre un dolore sordo e amaro risaliva dal suo stomaco per emergere con rabbia lungo la gola. Tardi, era troppo tardi. Come aveva fatto a non accorgersene in tempo? Una lacrima solitaria scivolò lungo la sua guancia lasciandosi dietro una fredda e umida scia. Aprì la strada a moltissime altre gocce di dolore, che iniziarono a colare come pioggia dai suoi occhi scuri. Per giorni, mesi, anni Francesco non aveva provato altro che rabbia. Un dolore acuto e prepotente che gli logorava i nervi e la mente. Era la prima volta che si sentiva così... vuoto... La rabbia era svanita, ora c’era solo una profonda tristezza. Se ne era andata. A che serviva odiarla? Non la biasimava nemmeno per averlo abbandonato. Provava solo una triste e fredda solitudine e sapeva di non poterne dare la colpa a nessuno, se non a se stesso. Il tocco sulla porta della sua stanza da letto lo fece sobbalzare, alzò lo sguardo appannato dalle lacrime sulla soglia che si stava aprendo lenta-mente. «Papà? Ti senti bene?».Un sussurro, appena udibile. Martina infilò pruden-temente la testa nella stanza. Nell’ombra la sagoma della ragazza gli ricordò terribilmente quella di An-gela. La stessa altezza, la stessa corporatura e, anche se ora non poteva ve-derli, gli stessi occhi chiari.

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«Sto bene. Torna a dormire» rispose con un mormorio tremante. Si accorse immediatamente che la sua voce era incrinata, ma fece finta di nulla e si sdraiò girando le spalle all’uscio. Sentì la porta chiudersi, respirò a fondo immaginandosi la figlia attraversa-re il salotto per tornare in camera sua. Invece le lenzuola dietro di lui fru-sciarono mentre la ragazza si infilava nel letto, al suo fianco. Francesco sentì Martina accostarsi a lui, mentre con un braccio gli cingeva l’addome. Il calore della ragazza scaldò immediatamente le coltri fredde. Francesco si sciolse in un pianto tetro e profondo, e non si preoccupò più di nascondere i suoi singhiozzi. «Va tutto bene, papà».


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