FORMARE, CONNETTERE, INNOVARE
Come consolidare il cluster ICT pratese
Rapporto di ricerca
Marco Betti
Alberto Gherardini
ù
3
Introduzione. La prima candelina del cluster pratese dell’Ict
Il secondo report sul cluster Ict pratese si pone inevitabilmente in stretta continuità con
il rapporto redatto lo scorso anno. Quella ricerca permise infatti di gettare luce su un
fenomeno allora poco conosciuto: la presenza a Prato di un grappolo di imprese
afferenti al cosiddetto settore dell’information e communication technology.
Nel descrivere il fenomeno, sul piano della sua consistenza numerica e su quello delle
caratteristiche delle imprese e degli imprenditori, quel rapporto aveva messo in
evidenza l’evolversi di una trasformazione significativa per la città ma non certo insolita
per un sistema economico avanzato come quello pratese. L’Italia, la Toscana e Prato
hanno partecipato al cambiamento radicale che, a partire dagli anni ’80, ha condotto
alla smaterializzazione e alla digitalizzazione delle attività produttive, nonché
dall’orientalizzazione della value chain. In questo scenario, meccanismi spontanei di
competizione e adattamento, presenza di fattori contestuali che hanno agevolato la
localizzazione, come la disponibilità di immobili a basso costo e centralità rispetto
all’area metropolitana, oltre a fenomeni di costruzione comunitaria delle competenze
specifiche e imprenditoriali, hanno condotto alla gemmazione di una molteplicità di
imprese specializzate nella produzione e fornitura di prodotti e servizi come quelli Ict,
potenzialmente in grado di innescare il cambiamento nei sistemi produttivi locali.
In un contesto come quello pratese, riconosciuto per la densità di attività produttive e
per il suo tasso di imprenditorialità, la nascita di imprese dell’Ict non poteva che
prodursi a un ritmo intenso. Nel 2009 si contavano a Prato 2.100 addetti a unità locali
afferenti a settori che possono essere inclusi nel così detto global digital market, un
aggregato di specializzazioni composto da attività manifatturiere, di servizio e di
produzione di contenuti legate a stretto giro con le tecnologie dell’informazione e della
comunicazione. Il cluster di 821 unità locali censite dall’Istat nel 2009 era evoluto
seguendo alcuni trend internazionali tipici di questi settori: iniziale nascita di imprese
dedicate alla costruzione di hardware; graduale smaterializzazione del settore, con
conseguente specializzazione nei servizi informatici e nella programmazione di software
e, infine, con l’avvento dell’economia internet-based, progressiva compenetrazione delle
imprese del settore Ict da parte dei portatori di competenze specialisticiche, come
video-maker, professionisti nel multimedia, ma anche copy writer o altre figure di
4
esperti, in grado di riempire le pagine web di contenuti appetibili a consumatori
telematici onnivori.
Nel 2009, l’80,5% dei 2.100 addetti pratesi era impiegato nei servizi Ict, sia in segmenti a
più scarso valore aggiunto – come l’elaborazione dei dati, le attività di hosting o la
realizzazione di portali web – sia in una fascia più alta della catena del valore – come nel
caso della produzione di software. Rispetto all’area metropolitana, la specializzazione
pratese risultava dunque meno legata alle attività dell’Ict manifatturiero (es.
fabbricazione di apparecchiature di telecomunicazione) e, allo stesso tempo, meno
esposta all’integrazione tra consulenti informatici, programmatori, ottimizzatori di
ricerche web e produttori di contenuti. In particolare, il sistema locale del lavoro di
Firenze non solo contava 10 volte gli addetti pratesi, ma la loro distribuzione era più
spalmata nel sottogruppo manifatturiero e in quello dei contenuti da digitalizzare.
D’altra parte, se la maggiore attrattività del capoluogo toscano per redattori di contenuti
non rappresentava una novità (vista anche la nota presenza di un cluster di attività
editoriali e l’attrattività che le città d’arte e quelle di scala metropolitana esercitano su
questo tipo di figure professionali e sui creativi), un’analisi georeferenziata l’Ict
manifatturiero metteva in luce la sua collocazione nell’area del sistema locale del lavoro
fiorentino confinante con quella pratese. In altre parole, se visto da più lontano il cluster
pratese, specializzato prevalentemente nei servizi informatici, può trovare
specializzazioni complementari nell’area vasta della Toscana centrale.
A partire da questo quadro abbiamo anzitutto cercato di valutare la consistenza del
cluster utilizzando i dati del Censimento dell’industria e dei servizi del 2011. Per quanto
concerne le imprese, nel 2011 si contavano 728 aziende, principalmente legate alla
fornitura dei servizi e, con una distanza maggiore, dei contenuti; marginale risultava
invece la manifattura. Spostando l’attenzione agli addetti la situazione non cambia: il
cluster occupava poco meno di 1.800 lavoratori, l’81% dei quali veniva impiegato nei
servizi. Si tratta di una situazione in linea con quella del 2009 che sembra mostrare
come, durante la crisi economica, nonostante la contrazione del numero di imprese, il
sistema locale non abbia modificato la propria struttura produttiva.
Tabella 1 - Imprese e addetti dell'ecosistema digitale
Sll FI Sll PO Sll PT
Imprese Addetti Imprese Addetti Imprese Addetti
Contenuti 758 1.892 144 270 69 149
Manifattura 95 3.646 21 70 4 24
Servizi 1.572 6.325 563 1.457 206 571
Totale 2.425 11.863 728 1.797 279 744
Fonte: Istat, Censimento Industria e Servizi 2011
5
Utilizzando una stima1 dei dati Istat del 2009 possiamo inoltre descrivere la recente
evoluzione delle imprese e degli occupati all’interno dei singoli settori2. Rispetto al 2009,
infatti, si osserva una contrazione delle attività a minor valore aggiunto (come
l’elaborazione di dati, la fornitura di portali web e le attività di hosting) che, come
abbiamo visto, caratterizzavano il sistema locale di Prato, mentre crescono le attività più
pregiate, come la produzione di software o la consulenza informatica. Con le dovute
cautele possiamo quindi osservare un consolidamento delle attività a maggior valore
aggiunto.
Fig. 1 – Ecosistema digitale, addetti alle imprese del SLL di Prato. Confronto 2009-2011
Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat, Censimento Industria e Servizi 2011 - Asia
A questo proposito, dobbiamo mettere in evidenza due elementi rilevanti. Il primo, di
natura quantitativa, si concentra sul numero di imprese e di occupati nei tre territori
presi in esame. Come possiamo notare, nel contesto metropolitano, il ruolo di vertice è
1 I dati Asia 2009 erano infatti riferiti alle unità locali. Così, per poter confrontare i dati sulle unità locali del
2009 con quelli sulle aziende del Censimento 2011, abbiamo ipotizzato una sostanziale stabilità del rapporto tra unità locali e imprese a partire dai dati Asia 2006. Nonostante il confronto non permetta una comparazione completa delle aziende presenti, esso può comunque rappresentare una stima utile per comprendere le trasformazioni intervenute nel biennio 2009-2011. 2 Concentrandosi solamente su 2 settori (62: produzione di software, consulenza informatica e attività
connesse; 63 elaborazione dei dati, hosting e attività connesse, portali web), un andamento simile può essere riscontrato anche a partire dai dati della Camera di Commercio.
6
occupato dal sistema locale del lavoro (Sll) di Firenze. Questo risultato non deve tuttavia
trarre in inganno. Abbiamo prima anticipato come tra le città di Prato e Firenze esista
uno spazio intermedio dove si concentrano numerose imprese (soprattutto della
manifattura3) che, pur appartenendo dal punto di vista statistico al Sll fiorentino, sono
localizzate in una posizione intermedia. Ciò significa che per indagare il fenomeno
dell’ecosistema digitale, le lenti amministrative non sembrano le più adeguate in quanto
incapaci di cogliere le dinamiche metropolitane. Il secondo punto, invece, ha una natura
prevalentemente qualitativa: in altre parole, oltre al numero delle imprese contano
anche le loro caratteristiche in termini di ampiezza dei mercati, specializzazione e
innovatività. In questa prospettiva, non potendo limitarci ai soli valori assoluti, abbiamo
cercato di mettere in evidenza alcuni dati sulle prospettive di bilancio e sulle proprietà
delle reti – formali e informali – che le aziende strutturano tra loro. Queste analisi
mostrano come, tutto sommato, le imprese che affollano i segmenti di maggiore qualità
dei servizi Ict siano riuscite, meglio delle altre, a superare la crisi economica recente.
Le indicazioni del censimento trovano conferma anche nei risultati della survey
somministrata lo scorso anno alle aziende Ict dell’area metropolitana Firenze-Prato-
Pistoia, in cui risultava che più della metà delle imprese pratesi coinvolte mostrava
fatturati crescenti rispetto a quelli pre-2007, anno a cui convenzionalmente è fatta
risalire la crisi economica, e che le stesse avevano floride prospettive di crescita. D’altra
parte, il saldo mostrato dai dati Istat tra il 2009 e il 2011 è negativo. Circa il 5% delle
imprese del cluster pratese hanno infatti cessato la loro attività, specialmente nei servizi
informatici a minor valore aggiunto. In questo caso, il combinato disposto di contrazione
della domanda locale e aumento della concorrenza, tipico dei periodi di crisi economica,
ha prodotto una selezione tra imprese più forti e competitive e imprese meno
dinamiche e quindi più esposte alla concorrenza. Del resto, questa “doppia velocità” non
ci stupisce particolarmente. Già con la distinzione tra imprese imbrigliate e imprese
predatrici, utilizzata nello scorso rapporto, si voleva distinguere tra aziende con una
spiccata dipendenza dalla domanda locale e aziende più indipendenti, più connesse con
settori dinamici (come la meccatronica o le telecomunicazioni) e, di conseguenza, meno
suscettibili alla grave crisi economica della città. I dati 2011 mostrano dunque che
all’interno del cluster Ict le imprese viaggiano a due velocità differenti: quelle che sono
riuscite a specializzarsi in nicchie di mercato hanno saputo trovare sbocchi nazionali e
internazionali mentre le altre hanno perso posizioni di mercato.
3 Per fare un esempio, il dato sulla manifattura nel SLL di Firenze comprende una grande azienda nel comune
di Campi Bisenzio che occupa buona parte dei soggetti operanti nel settore.
7
Il tema delle politiche, tra passato e futuro.
Il rapporto del 2011 aveva messo in evidenza come il cluster Ict fosse cresciuto in
assenza di una guida istituzionale, capace di rappresentare e sostenere le nuove aziende
del settore. A questo proposito, gli imprenditori lamentavano la scarsa attenzione che gli
attori collettivi (associazioni di categoria e governi locali) avevano dedicato a questo
nuovo tipo di imprese. Ciò non significa tuttavia che nel tempo non siano state
sperimentate politiche pubbliche innovative, volte a sostenere la trasformazione del
sistema locale. Il tema del cambiamento tecnologico non è infatti nuovo per le aree di
piccola impresa come quella di Prato. Già negli anni settanta, con la nascita di
Tecnotessile e del Consorzio Centro Studi, e nei decenni successive, con le riflessioni
sulle politiche per l’innovazione4, si erano accesi i riflettori sulle trasformazioni del
distretto e, in particolare, sulle strategie di riaggiustamento e sulla diffusione delle
tecnologie informatiche all’interno dell’industria tessile5. I limiti più rilevanti delle
politiche locali derivavano però dal fatto che ogni intervento aveva come principale
interlocutore le aziende tessili del territorio, ponendosi quindi in una posizione di
strumentalità rispetto alla specializzazione tradizionale. In altre parole, le politiche
pubbliche, seppur di ampio respiro, non sono state focalizzate sulla promozione di un
settore autonomo e in parte scollegato da quello tessile, ma hanno favorito azioni
congiunte che nel tempo hanno legato le aziende Ict locali agli andamenti del comparto
manifatturiero.
Tra gli interventi di maggiore interesse, sia per il respiro strategico che in termini di
innovazione istituzionale, il progetto Sprint (Sistema Prato Innovazione Tecnologica),
promosso da Enea, UIP, CNA e Associazione mandamentale dell’artigianato pratese, ha
rappresentato un caso di assoluta rilevanza. Il progetto nasce nel 1983 con lo scopo di
“favorire l’innovazione tecnologica e organizzativa del sistema economico e produttivo
dell’area”. Tre sono le linee di intervento. La prima, definita “Progetto telematica”,
intendeva dotare Prato di “una rete di servizi telematici per facilitare la circolazione delle
informazioni tra gli operatori locali e fra questi e alcuni interlocutori esterni”. Gli esiti,
anche a causa dei conflitti tra i soggetti operanti nel sistema locale, non sono stati
tuttavia soddisfacenti. La seconda linea di intervento riguardava invece il “Progetto
Infratecnologia”. In questo caso, l’obiettivo era quello “di introdurre nel sistema
produttivo pratese soluzioni avanzate […] sviluppate anche in ambiti diversi dal tessile”.
Infine, per quanto concerne le iniziative promosse nel campo della R&S, possiamo
4 Isfol (1988), Le relazioni industriali nelle aree innovative in Italia. I casi di Tecnocity, Tecnopolis e Sprint,
Roma, Franco Angeli. 5 Bellandi M. e Trigilia C. (1991), Come cambia un distretti industriale: Strategie di riaggiustamento e
tecnologie informatiche nell'industria tessile di Prato, In “Economia e Politica Industriale”, vol. 70, pp. 121-
152, Roma, Franco Angeli.
8
menzionare il Progetto Cad, la robotica, il Progetto Tintoria e quello Energia-Ambiente.
L’avvio delle attività previste è stato tuttavia molto più lento di quanto ipotizzato,
ottenendo scarsi risultati dal punto di vista concreto6.
Poiché i contributi precedenti hanno messo in evidenza alcune criticità riconducibili a
situazioni di stallo e di lock-in del sistema locale, nello scorso rapporto, a partire dalla
letteratura sul settore, avevamo indicato alcuni suggerimenti di policy utili per
consolidare il cluster pratese e favorire la crescita di quello metropolitano. Tra gli
interventi presentati, avevamo richiamato la necessità di consolidare il tessuto
produttivo esistente, anche valorizzando le risorse economiche locali non utilizzate. Il
passo successivo è stato quello di provare a discutere tali suggerimenti coinvolgendo
direttamente gli imprenditori all’interno di focus group. L’obiettivo di questo rapporto,
infatti, è quello di fornire un quadro di interventi che, a partire dalle analisi di contesto,
risulti coerente con le aspettative delle imprese. Agli incontri hanno quindi partecipato
imprenditori differenti ma riconducibili ai due tipi di imprese prima richiamati: da lato
troviamo le imprese “predatrici” (descritte nel primo capitolo), ovvero aziende con reti
più lunghe e con una minore dipendenza dalle specializzazioni locali e, dall’altro, le
imprese “imbrigliate” (presentante nel secondo capitolo) che mostrano invece una
maggiore simbiosi con il territorio. Si tratta, in questo caso, di aziende più dipendenti dal
tessuto produttivo locale e quindi più soggette alle evoluzioni della congiuntura
economica.
I temi affrontati nei confronti sono stati principalmente tre. Il primo, che ha messo al
centro la dimensione territoriale, aveva l'obiettivo di sviluppare un ragionamento sui
punti di forza e debolezza del territorio a partire dalle caratteristiche delle singole
imprese. Il secondo, invece, ha cercato di descrivere le criticità del mercato del lavoro
locale affrontando, più in generale, il tema della formazione (sia secondaria che
universitaria). Il terzo tema, infine, si è focalizzato sulle innovazioni non realizzate. In
altre parole, abbiamo chiesto agli imprenditori di parlare dei progetti ritenuti meritevoli
ma che, per cause interne, legate alla struttura e l'organizzazione aziendale, o esterne,
connesse con le caratteristiche del territorio, non sono stati portati a termine. Ragionare
sull'innovazione non realizzata consente infatti di affrontare il tema delle politiche per il
consolidamento del cluster. L'ultimo focus group, integrato da una serie di interviste in
profondità, ha infine riguardato il tema delle competenze degli studenti e, più in
generale, della formazione (capitolo tre). Il confronto con gli imprenditori ha infatti
confermato alcune criticità già emerse nel precedente rapporto a proposito delle
caratteristiche delle risorse umane presenti sul territorio. In questa prospettiva, la
presenza di competenze (sia di base che trasversali) non adeguate e il fragile legame con
il mondo delle imprese degli istituti superiori e dell’università, compromettono da un
6 Isfol op. cit., pp. 130-156
9
lato, il consolidamento e la crescita del settore e, dall'altro, ridimensionano le chance
occupazionali e la propensione all'imprenditorialità degli studenti. Il rapporto si
conclude con alcuni suggerimenti di policy che, a partire dalle caratteristiche istituzionali
del contesto, si sviluppano lungo tre assi di intervento: formazione, connessione,
innovazione.
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1. Un ecosistema per le imprese predatrici
Le imprese dell’information e communication technology del contesto pratese possono
essere classificate in quattro tipi ideali a seconda del loro posizionamento lungo due
assi: da un lato, la quota di mercato extralocale posseduta in confronto alla quota locale,
dimensione questa evidentemente condizionata dall’esposizione dell’azienda rispetto al
settore tessile-abbigliamento; l’altra dimensione polarizza invece l’età dell’impresa e
dell’imprenditore. Questo secondo indicatore aiuta non soltanto ad approssimare la
solidità economico-finanziaria dell’azienda, ma anche l’appartenenza cognitiva degli
imprenditori a mondi tecnologici in continua evoluzione, da approcci hardware based,
ad altri software based, per arrivare a quelli internet and mobile based. Già nel
precedente rapporto, due dei quattro tipi costruiti con l’esercizio tipologico accennato,
quelli delle imprese con quote di mercato extralocale superiori alle quote locali, sono
stati etichettati come imprese predatrici, locuzione che evoca la propensione di queste
imprese alla crescita e alla conquista di nuovi mercati. All’interno di questo gruppo,
seguendo la seconda dimensione proposta, si può poi distinguere tra un binomio di
imprese meno recenti, che negli anni hanno saputo crescere fino a divenire player
nazionali, e una nuvola di altre imprese, anch’esse fortemente competitive anche al di
fuori del contesto pratese, ma di più recente costituzione.
Le imprese predatrici sono pertanto caratterizzate da una maggiore propensione
all’innovazione, da una forte specializzazione in nicchie di mercato, dall’impiego di forza
lavoro qualificata, da un’organizzazione aziendale più terziarizzata, ovvero più attenta
alla ricerca e sviluppo, al marketing e alla distribuzione di prodotti e servizi. Queste
attività imprenditoriali hanno subito meno di altre la crisi economico-finanziaria e,
seppur in un quadro di minore espansione rispetto al passato, manifestano prospettive
di crescita nel medio periodo. Le imprese meno giovani, fondate negli anni ’80, sono
quelle più consolidate, tanto da avere un numero di dipendenti superiore alle 100 unità
e un fatturato di una decina di milioni di euro. Una delle due imprese che fanno parte di
questo gruppo ha meritato in passato premi nazionali per l’innovazione, che ha
riconosciuto la trentennale attività di distribuzione e assemblamento di hardware e
soluzioni sistemiche complesse. L’altra è un’impresa localizzatasi solo di recente a Prato,
è quotata in borsa, vanta un’intensa attività di ricerca e sviluppo, molteplici
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collaborazioni con centri di ricerca regionali e extraregionali e, infine, dispone di
collaborazioni privilegiate con grandi clienti nazionali e internazionali. Le imprese più
giovani sono ovviamente più piccole, sia come personale che come fatturato,
nonostante questo sia in molti casi consistente e in forte crescita. Si tratta di leader
nazionali nei linguaggi di programmazione, di imprese di sviluppo di software e firmware
open source per grandi imprese italiane, di imprese leader nell’informatica applicata ai
beni culturali, di aziende strategicamente specializzate nelle applicazioni mobili e nello
sviluppo di gestionali per imprese del settore finanziario. Non mancano infine
webdesigner che, sfruttando la loro vena creativa e le loro relazioni, estendono la loro
presenza anche su mercati nazionali ed esteri.
Per quanto diverse, specialmente sul piano delle disponibilità finanziarie e della capacità
di investire in attività di ricerca, queste imprese hanno molti aspetti in comune: dalla
necessità di beni collettivi che possano accrescerne la competitività al bisogno di un
sistema formativo che sappia adattarsi progressivamente all’evoluzione tecnologica.
Inoltre, le aziende mostrano una forte esigenza di competere attraverso processi
innovativi che passano sia da vie interne e che da vie esterne.
Di seguito riporteremo i risultati di un focus group realizzato con 7 imprenditori afferenti
a questo idealtipo di imprese e di 10 interviste in profondità realizzate con gli
imprenditori tra il 2012 e il 2013.
1.1. Forza e limiti della città degli stracci
Gli imprenditori danno un giudizio positivo del contesto industriale pratese:
estremamente flessibile, con un’elevata cultura imprenditoriale, dotato di buoni servizi,
facilmente accessibile da tutta l’area metropolitana, con disponibilità di spazi industriali
a costi ridotti. Alcune delle imprese più innovative si sono localizzate nell’area pratese
per poter sfuggire ai costi di congestione di Firenze (es. traffico, costo degli affitti e degli
immobili industriali). Inoltre, contrariamente alla sua dimensione effettiva, Prato è
percepita come una città piccola, dove le persone si conoscono e le relazioni tra
imprenditori sono strette. Questa percezione, sicuramente riconducibile all’intensità di
relazioni tra la moltitudine di imprenditori che hanno da sempre costituito l’elemento
distintivo della storia distrettuale della città, innesca, tuttavia, delle attese relazionali
che non trovano riscontro nella realtà. Le collaborazioni effettive tra le aziende del
cluster Ict, e tra queste e le altre aziende nel contesto pratese, non sono infatti intense.
Le aziende più isolate, ma estremamente connesse sul piano regionale e nazionale, sono
soprattutto quelle che si sono localizzate solo di recente nell’area pratese. Il carattere
intangibile dei servizi Ict permette infatti loro di servirsi del territorio come di una
piattaforma per la conquista del mercato metropolitano e nazionale. Viceversa, le
imprese fondate dagli imprenditori locali gestiscono reticoli densi, sia sul piano locale
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che su quello extra-locale. Tuttavia, difficilmente le reti sociali corte, generatesi per
appartenenza ad una comunità distrettuale, si sono fino ad oggi trasformati in occasioni
di collaborazione industriale fattiva.
“Io è tanti anni che conosco Riccardo, ogni volta che ci si vede si dice
facciamo qualcosa insieme, ma ogni volta non si riesce, perché ognuno è
concentrato sul suo.” [imprenditore 5].
“Che ci conosciamo è vero ma da lì a fare collaborazione è un altro discorso.
Che esista la relazione non significa che ci sia collaborazione” [imprenditore
1].
“La conoscenza personale è elevata, ma vi è poi difficoltà a condividere i
progetti di business quindi a fare sinergie qui all’interno del territorio
pratese” [imprenditore 2].
La scarsa capacità di mettersi in relazioni di mercato non è tuttavia dovuta alla chiusura
aprioristica delle imprese a collaborazioni esterne. Solo in un caso abbiamo riscontrato
una strategia di autosufficienza e autopoiesi, ovvero un affidamento esclusivo sulla
capacità delle risorse interne nel rinnovare le sfide provenienti da commesse esterne di
imprese esigenti. Al contrario, le imprese predatrici sperimentano continuamente
collaborazioni con altre imprese. Gli esempi nel contesto pratese sono molteplici: si ha il
caso della collaborazione sistematica tipica di chi costruisce regolarmente partenariati
per rispondere a bandi pubblici nazionali per la valorizzazione di plessi museali; relazioni
più strutturate tra imprese che appartengono alla stessa holding , collaborazioni tra
imprese e professionisti del settore – locali e extra-locali – volti a soddisfare i picchi del
mercato e la carenza di competenze non disponibili.
Si possono poi elencare le relazioni tra il contesto produttivo le università e i centri di
ricerca che riguardano sia la formazione e il reclutamento di giovani qualificati sia le
attività di ricerca e sviluppo congiunta. Date le caratteristiche delle politiche pubbliche
regionali in materia di innovazione, che recentemente hanno finanziato
sistematicamente la costituzione di partenariati di impresa e università, in questi ambiti
la dimensione relazionale è spesso mediata dalla disponibilità di finanziamenti pubblici.
In proposito, alcuni degli attori ascoltati mettono in luce che questi progetti hanno
spesso il limite intrinseco del carattere strumentale delle collaborazioni:
“Io ho partecipato [a un bando], c’è un obiettivo e richiede competenze
diverse, finito il bando si torna a casa. […] Si fa squadra, ma il progetto viene
segmentato da A a Z, ma poi io faccio da A a B e le mie competenze
rimangono lì. Te ti agganci con i tuoi fili al mio output e poi si va avanti:
questa non è collaborazione, non crea sinergia, si spezzetta un progetto, è
una logica di messa a sistema di un progetto, ma è una collaborazione
strumentale” [imprenditore 7].
14
O, in alternativa, manifestano apertamente la tipica difficoltà a conciliare le diverse
esigenze degli attori che partecipano al finanziamento:
“Il problema dei progetti congiunti è che sono sempre un compromesso, è
questo il limite vero, non è uno strumento che per tutti è chiaro che deve
portare a supportare qualcosa che va sul mercato. I compromessi sono tra le
esigenze aziendali e quelle di ricerca delle università […]. Tante volte questi
progetti rappresentano per l'università, che in questo momento sta
passando una situazione difficile, delle occasioni per finanziare assegni di
ricerca, che va anche bene, l'azienda è disposta a investire, ma poi dipende
da quel è il risultato. A noi interessa il time to market” [imprenditore 5].
Le imprese confermano, tutto sommato la loro natura di attori relazionali, ma hanno
ben chiaro che il capitale sociale che detengono, così denso in una realtà distrettuale
come Prato, potrebbe fare da leva per opportunità più ampie, in grado di superare le
collaborazioni ordinarie. Per tale ragione, le imprese predatrici esprimono
esplicitamente l’esigenza di un soggetto esterno che sappia orchestrare queste reti,
possa dare loro continuità agli accordi presi e, infine, che abbia una funzione di
forecasting tecnolgico.
“Serve qualcuno che dia continuità, che sia incentivato a coinvolgere le
aziende a proporre progetti e non che si fermi a una collaborazione come
adesso, che sento Riccardo alle 7 di mattina e mi dice: proprio te, c’ho un
progetto che ti può coinvolgere. Serve un esterno che dia una certa
continuità” [imprenditore 1 ].
“La relazionalità personale va bene, proviamoci, andiamo a cena insieme, è
comunque importante perché ci da credibilità e autorevolezza, ma quello
che serve è una relazionalità a livello di impresa, che serve a collaborare
verso un obiettivo che qualcuno ci dice sia quello giusto” [imprenditore 5].
Le potenzialità per l’attivazione di queste relazioni sono poi elevate nella misura in cui il
timore di comportamenti opportunistici non scoraggia la propensione alla
collaborazione di queste aziende. Trattandosi di imprese molto specializzate
(verticalizzate nel linguaggio degli intervistati) non sembrano avere preoccupazione nel
svelare le proprie capacità:
“Noi non abbiamo segreto industriale, anzi, da un lato facciamo R&S per
altre aziende, dall’altro adottiamo la logica dell’open source formando
centinaia di persone all’utilizzo di alcuni linguaggi” [imprenditore 3].
“Noi abbiamo competenze verticali, confrontarci con altre competenze
potrebbe essere utile per avviare nuove collaborazioni” [imprenditore 4].
“Se io devo condividere con un competitor i miei asset a maggior valore
aggiunto certamente ho timore, non lo faccio […]. Se poi i devo condividere
con qualcuno con cui non ho niente da spartire allora ho timore. Ma se si ha
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un obiettivo comune nel quale il gioco non è a somma zero allora va bene
[…].Gli obiettivi e i mercati sono talmente vasti che la paura della
competizione è veramente stupida” [imprenditore 5].
Viceversa il problema del free riding sembra porsi maggiormente per le imprese meno
mature. In particolare, queste sembrano maggiormente esposte al timore che altri
possano defraudarle della loro idea. Questo atteggiamento di chiusura da parte delle
imprese più giovani alle collaborazione strategiche è amplificato quando si tratta di
collaborare con imprese più grandi, non percepite come pari. Questo tipo di
collaborazioni sono invece fortemente cercate da imprese consolidate, che vedono nella
collaborazione per vie esterne con giovani imprese innovative una strada per accrescere
la loro competitività:
“Per noi è davvero difficile mettersi si in partnership con molte startup,
piccole imprese che fanno ricerca all’interno dei poli o degli incubatori. Anzi
di solito queste imprese sono chiuse nel mettere sul tavolo le loro
competenze, proprio per paura della grande impresa possa sfruttarle. La
difficoltà della relazione con queste strutture è questa: i piccoli hanno un
tasso di innovazione elevato ma hanno paura, le grandi hanno grandi
competenze commerciali ma magari una carenza nell’innovazione nella
capacità di fare ricerca e sviluppo che tanto costa all’imprenditore”
[imprenditore 2].
Anche in questo caso appare dunque centrale la presenza di un mediatore che sappia
generare fiducia tra imprese di diversa dimensione. Tuttavia, le imprese oggi non
riescono a individuare nel contesto degli attori pubblici locali dei soggetti in grado di
svolgere questo ruolo. Già nel rapporto 2012 si era più volte messo in una sfiducia
generalizzata verso le istituzione locali. Da un lato, alle associazioni di categoria non è
quasi mai riconosciuta la capacità di aggiungere fattori di competitività al settore.
Dall’altro, gli attori del governo locale sono tacciati di eccessivo conformismo rispetto
all’identità tessile della città o, nel caso in cui questi effettuino cambi di passo nella
promozione dell’innovatività, le loro iniziative sono giudicate scarsamente efficaci.
“C’è un progetto per un laboratorio tecnologico nel Creaf. Ma c’è una
polemica politica incredibile, destra contro sinistra, che a noi non interessa.
Abbiamo mandato una proposta concreta scritta, su richiesta del Creaf,
dicendo che siamo disponibili a prendere in affitto 500 metri quadrati per
occuparlo con le nostre strutture; eravamo disponibili ad usare aule e
auditorium, fare eventi. Insomma, animare un carrozzone con un servizio
utile. Ma non ci hanno nemmeno risposto alla mail e adesso, a distanza di
mesi, continuo a leggere sul giornale che la struttura non è pronta
[imprenditore 3].
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Alla sfiducia nei confronti dei governi locali si aggiunge una diffusa percezione di
inadeguatezza delle istituzioni formative, sia secondarie che terziarie, oggetto specifico
del prossimo paragrafo.
1.2. Un’offerta formativa che guarda al passato
Quando le imprese sono messe a confronto con il tema delle organizzazione formative il
giudizio di inadeguatezza sulla loro attività è unanime. Il primo degli aspetti a essere
criticato è la capacità delle scuole e delle università di ridefinire i programmi didattici per
adeguarsi ai mutamenti del mercato.
“Il Buzzi c’è sempre stato e rimarrà quello. Sforna periti tessili su un mercato
in cui di periti tessili non se ne riesce più a inglobarne. Ci vorrebbero
veramente scuole flessibili, che si adattano. Che cosa chiede oggi il mercato?
Meno periti tessili e più periti informatici” [imprenditore 6].
“Se a Prato si palesa un settore come l’Ict, in modo naturale dovrebbero
ridursi, per esempio al Buzzi, le sezioni del tessile tradizionale e aumentare
naturalmente quelle dedicate all’informatica” [imprenditore 7].
Il secondo punto di critica è invece specificamente collegato al tipo di competenze
impartite agli studenti di medie superiori e università, queste sono infatti ritenute poco
attinenti a quanto oggi è richiesto nelle aziende.
“Noi abbiamo fatto fare stage a studenti del Dagomari, sono arrivati con
conoscenze completamente da resettare. Sapevano il web perché vanno su
facebook ma non conoscono cosa vuol dire fare il web. Gli ho chiesto dove
erano arrivati a scuola, mi hanno detto Access, un database. Se gli fai
vedere un telefono lo sanno usare perché hanno lo smartphone, ma non
sanno di programmazione. Escono di lì ed è come se non avessero fatto
nulla. Da un Dagomari, io l’ho fatto vent’anni fa, mi aspetto che insegnino
quello che viene utilizzato fuori, la parte mobile, ma anche lo stesso web, in
ogni caso qualcosa che poi fuori trovano. [imprenditore 1].
“Il problema è trovare risorse qualificate. Le università italiane sono ottime
ma non molto pratiche. Quando uno esce, se non si è dedicato per conto suo
allo studio di altre cose, non sa fare niente. Alcune volte prendiamo stagisti,
anche molto ben laureati, con l’intento di formali e assumerli, ma dopo 3-6
mesi, quando escono dallo stage sono ancora molto acerbi” [imprenditore
3].
“Il problema è che oggi non sono assolutamente preparati sul modello, sono
magari preparati su Java ma non hanno fatto il Cloud, che è una modalità
diversa, che è un paradigma diverso, non hanno sicuramente l’orientamento
al tipo di mercato che dobbiamo seguire oggi. Poi certe volte manca proprio
la conoscenza della tecnologia in sé” [imprenditore 5].
17
“Noi puntiamo più su laureati con competenze diverse in campo umanistico:
storici dell’arte, gente che sa scrivere, ci servono grafici, sviluppatori
software. Ci servono anche figure molto specializzate, come l’exibit designer,
ma quelle si trovano soltanto all’uscita da un master che forma 40 persone
l’anno in Italia [imprenditore 6].
Gli imprenditori che hanno partecipato al focus group delle imprese predatrici
segnalano poi che la distanza tra ciò che è impartito a scuola e quanto invece serve nel
mercato del lavoro cresce più che progressivamente. Ritengono infatti che
l’avanzamento tecnologico repentino che caratterizza il settore Ict crei un abisso tra un
corpo insegnante poco propenso all’aggiornamento auto-formativo e imprese che per,
mantenere la propria posizione di leader tecnologici, adottano prontamente i nuovi
linguaggi e le nuove tecnologie.
“Non è soltanto questione di non insegnare esclusivamente la teoria, ma
anche di formare rispetto alle applicazioni di tecnologie moderne. Se oggi gli
facessi un corso di programmazione mobile uno studente sarebbe
all’avanguardia, ma magari tra due anni non lo sarebbe più. I professori
devono stare dietro a queste tecnologie. L’industria del software vuole
questo. A me non serve a niente se sai un po’ di Java, andava bene 10 anni
fa, a me serve che tu sappia fare altre cose più moderne” [imprenditore 3].
“Il comitato d’indirizzo presente nelle università è fallito. […] Non mi serve a
niente il Fortress o il Pascal, e nemmeno il Java o il Phyton, se non gli insegni
il modello di funzionamento della rete. Prima dobbiamo vedere se i
professori sono preparati, se non lo sono dovremmo preparare prima loro.
Facciamoli venire in azienda […]. Noi siamo disposti a fare un investimento
sui professori, basta che insegnino bene” [imprenditore 5].
La selezione del personale è dunque meno basata sulla presenza di competenze
acquisite durante l’università o la scuola superiore, quanto per le competenze trasversali
che i candidati mostrano. Prima tra tutti la passione e la capacità di imparare.
“Noi notiamo una scarsa preparazione a livello di base, sulle tematiche.
Quello a cui puntiamo è la curiosità rispetto all’argomento, ma anche altre
attitudini, come lavorare in team, essere orientati agli obiettivi, lavorare in
termini di business. Al di là dell’eccellenza e del genio, che è difficile da
trovare, cerchiamo persone che abbiano voglia di imparare” [imprenditore
2].
“Io assimilo scuole e università, che hanno pregi e difetti comuni. Sono
convinto che la persone che escono dall’università o dalle superiori non sono
in grado di lavorare. Non valgono né i 40mila né i 20mila euro che li
paghiamo, non producono davvero la cifra che costano. Chi ha la
preparazione opportuna è chi ha la passione personale, che fa cose in più,
dove le cose in più non sono la teoria ma la pratica, conoscere gli strumenti,
18
i metodi di sviluppo e soprattutto le tecnologie moderne, sa fare una app
mobile, eccetera. Queste cose qui non vengono insegnate […]. Per cui
nessuno che sia uscito da ingegneria o da un ITI è stato in grado di essere
assunto dalla nostra azienda a meno che non avesse la passione personale”
[imprenditore 3].
“Quindi è importante che lo studente abbia le basi generali, che poi io
formo. Il vero problema è portare una persona in azienda che costa 40mila
euro l’anno. Io gradirei una persona che arriva neutra con i rudimenti di
base e con una grossa capacità di apprendere, che abbia un costo al primo
anno che gli permetta di farsi il suo progetto di vita […], ma senza il costo
così importante per il conto economico [imprenditore 7].
Le imprese predatrici impiegano dunque molte risorse per la formazione del loro
personale. Per questa ragione, alcune di loro hanno anche contribuito ad avviare
percorsi di formazione associata: un’impresa ha svolto corsi all’interno del Master in
Multimedia dell’Università di Firenze attraverso cui ha potuto selezionare alcuni dei
migliori studenti per posizioni di stageur; un’altra ha trovato il proprio personale dopo
essere stata coinvolta nelle attività formative della Scuola Superiore di Tecnologie
Industriali di Firenze, una terza sta invece cercando di sopperire alla carenza di personale
qualificato facendosi capofila di una cordata di imprese da coinvolgere, su iniziativa della
Cna locale, in un corso di alta formazione finanziato dalla Provincia e organizzato dal
Polo universitario di Prato.
Anche il tema strettamente connesso con il reclutamento rappresenta una criticità per le
imprese ascoltate. I centri per l’impiego e le agenzie interinali non rappresentano infatti
degli interlocutori adeguati per la selezione di personale qualificato. Le assunzioni
avvengono prevalentemente attraverso selezioni di personale che invia il proprio
curriculum direttamente sul sito dell’azienda o attraverso annunci che l’azienda stessa
inserisce su portali specializzati. In altri casi, il personale è messo alla prova con
attraverso stage concordati con istituzioni formative. Per quanto riguarda gli strumenti
di incontro tra domanda e offerta organizzati dalle università (es. Career day), le imprese
dell’Ict che li utilizzano considerano queste occasioni come delle modalità discrete per
concentrare gli sforzi di selezione di nuovo personale. D’altra parte, un’impresa che vi
partecipa con regolarità, lamenta una scarsa efficacia dello strumento in termini
capacità di selezionare personale adeguato. Se l’intermediazione formale tra università e
imprese manifesta molti limiti, lo scambio sembra funzionare in misura maggiore a
livello informale. Gli imprenditori che hanno mantenuto contatti con le università in cui
si sono formati hanno nel tempo consolidato un legame diretto con i ricercatori che
permette loro di entrare in contatto con gli studenti migliori. Anche nel caso in cui gli
imprenditori siano privi di reticoli con gli accademici, cosa molto frequente tra
imprenditori che non sempre sono laureati, i canali informali sono preferiti a quelli
formali. Si tratta sempre di canali comunitari che, a differenza di quelli basati sulle
19
comunità professionali universitarie, non promuovono mercati del lavoro localizzati, ma
passando spesso per portali web, alimentano un’offerta di lavoro extra-locale. Il limite di
questi canali, e da qui lo shortage di competenze palesato dalle imprese, è che la
collaborazione continuativa con questi soggetti è soggetta alla disponibilità di trasferirsi
a Prato, città che, secondo gli intervistati, è poco attraente per queste professionalità. Vi
è dunque richiesta di una strategia di rafforzamento del cluster Ict, anche in termini di
visibilità nazionale, che abbia anche l’effetto indiretto di rendere maggiormente
appetibile lo spostamento di forza lavoro qualificata.
1.3. L’innovazione nel cassetto
La modalità attraverso cui le imprese predatrici perseguono attivamente la generazione
di prodotti e processi innovativi ha consistenti elementi di variabilità. Una prima frattura
all’interno di questo gruppo di imprese passa ovviamente per la dimensione di impresa.
Le imprese più grandi e strutturate hanno la possibilità di avviare una varietà maggiore e
un numero più consistente di linee di ricerca e sviluppo.
“Noi siamo quei pazzi con la ‘p’ maiuscola che spendono tantissimo in
ricerca e sviluppo. Noi abbiamo investito in ricerca e sviluppo la maggior
parte delle risorse delle marginalità che abbiamo avuto la fortuna e la
bravura di fare. Lo facciamo attraverso laboratori interni, collaborazione
esterne, anche con un dottore di ricerca fisso al Cnr e progetti con varie
università” [imprenditore 5].
“Noi spendiamo tanto in ricerca e sviluppo, oggi abbiamo cinque progetti di
ricerca a livello di Ministero delle Attività Produttive e Ministero dello
Sviluppo Economico, oltre ad altri progetti internazionali. […] Siamo sempre
stati visionari […] un po’ per genesi, perché siamo nati da progetti di ricerca
che hanno creato dei prodotti che poi hanno trovato mercato. […] Nel nostro
settore non ci si può fermare” [imprenditore 6].
Al contrario le imprese più piccole manifestano un’enorme difficoltà a investire in
progetti innovativi che non corrispondono alle esigenze strette delle richieste di breve
periodo dei clienti.
“La nostra azienda è una start up avviata in un momento economico
difficilissimo. Per mancanza di liquidità e di fondi e mancanza di personale al
momento non riusciamo a sviluppare nuove idee. Il problema è essere
piccoli” [imprenditore 7].
“Noi abbiamo dei progetti che riteniamo innovativi nel cassetto, non siamo
riusciti a realizzarli perché siamo una piccola azienda, ci mancano le risorse
economiche” [imprenditore 1].
“Di idee ce ne vengono tante […] purtroppo dobbiamo occuparci delle cose
che ci sono attualmente, quelle per cui abbiamo dei clienti attivi. Creare
20
nuove soluzioni di prodotti, o nuovi progetti, richiede uno sforzo economico
non indifferente e io devo far quadrare i conti” [imprenditore 4].
Un’altra dimensione che permette di distinguere tra i possibili approcci all’innovazione
riguarda il grado di specializzazione dell’impresa in nicchie di mercato. Un’elevata
specializzazione permette ad alcune di queste di padroneggiare, o addirittura
determinare lei stessa, gli avanzamenti tecnologici e, di conseguenza, l’innovazione
incrementale di prodotti o servizi maturi. Infine, una terza dimensione riguarda
l’adesione a forme di innovazione chiuse o aperte. Come abbiamo già descritto, alcune
imprese hanno rapporti privilegiati con università e centri di ricerca toscani, che
utilizzano per svolgere progetti di ricerca congiunti o presidiare alcune specializzazioni
tecnologiche. In altre circostanze l’innovazione è comunque collaborativa, ma prescinde
dai centri di ricerca. Da un lato, è l’innovazione orientata al cliente che genera prodotti e
servizi taylored. In questo caso l’abilità sta nel saper ingegnerizzare richieste che
provengono da grandi clienti esterni, siano essi Telecom, BTicino o il Ministero
dell’Istruzione Università e Ricerca o altre grandi imprese extra-locali. Dall’altro, si tratta
di un’innovazione che matura nelle comunità informatiche internazionali, composte da
sviluppatori che collaborano in modalità open source.
Le difficoltà che queste imprese incontrano sono pertanto legate a fattori di diversa
natura. Le imprese che non hanno difficoltà a investire somme ingenti in R&S
individuano quale principale ostacolo all’innovatività l’imprevedibilità delle traiettorie di
mercato.
“Anche nel nostro caso abbiamo un reparto di innovazione e tecnologia che
è addetto a pensare idee innovative, ma abbiamo la difficoltà sia dovuta
all’investimento economico da fare e anche alla mancanza di un’analisi a
priori sul posizionamento nel mercato dell’innovazione, a volte si lascia
spazio all’impulso, e poi non ci chiediamo se serve al mercato” [imprenditore
2].
“Noi abbiamo un’innovazione fortissima nell’ambito dell’Internet of things,
sul quale lavoriamo da tempo, che comincia anche a essere
commercialmente valida. Abbiamo provato […] a introdurla a livello di
Telecom come piattaforma per i loro utenti. E’ piaciuta tantissimo ma
troviamo le resistenze nel far capire la tecnologia. Lo scoglio più grande per
un’innovazione tecnologia che interessa al mercato e farla capire al
mercato. Spesso siamo troppo avanti rispetto alla cultura dei decision maker
che la devono adottare, non rispetto al mercato, ma rispetto a chi la deve
adottare […]. E’ un problema culturale” [imprenditore 5].
Il tema della presenza di una domanda poco sensibile all’evoluzione tecnologica e alle
potenzialità dell’introduzione delle nuove tecnologie all’interno dei processi produttivi
riguarda anche la domanda pubblica:
21
“Questo è un paese bloccato, nel nostro settore, la cultura, se ci sono da fare
dei tagli lì fanno lì, [… è un] paese che non investe in cultura e beni culturali,
quando invece dovrebbe essere il primo settore nazionale” [imprenditore 6].
Al contrario, le imprese più piccole ritengono che il loro potenziale innovativo potrebbe
essere accresciuto con un più semplice accesso al credito.
“La città è piena di imprenditori, e sappiamo che questi hanno molte risorse,
magari messe lì da una parte perché stanno aspettando non si sa cosa. Ho
provato a presentare loro la mia idea loro ma la prima cosa che mi hanno
chiesto è dopo quanti mesi sarebbero rientrati, non sanno neanche di quello
che si parla. Ho provato anche il crowdfunding […] ma il progetto è ancora
nel cassetto” [imprenditore 1].
“Insieme a una cinquantina di persone abbiamo fato partire l’iniziativa per
riportare una banca nella città di Prato, che non si chiama Fatebenefratelli,
ma che sarà un istituto che crederà nelle persone, nei progetti, nei giovani e
nelle start up e adotterà un modello di business per ridurre le sofferenze e
dare modo ai progetti innovativi e interessanti di partire” [imprenditore 7].
Nonostante queste diverse esigenze da parte dei differenti tipi di impresa, la discussione
interna al focus group ha fatto emergere come la questione del credito sia secondaria
rispetto a quella della cultura aziendale che può agevolare, o meno, l’accesso al credito
e, in ultima istanza, il successo di progetti di innovazione. Buona parte degli imprenditori
sono infatti convenuti sull’idea che la disponibilità di credito, seppur rilevante in un
paese in cui le istituzioni di venture capital sono rare, è un fattore secondario rispetto
alla capacità di individuare idee effettivamente in grado di trovare mercato e,
soprattutto, alla capacità dell’imprenditore di presentare a possibili investitore un’idea
declinata in modo tale da mettere in luce l’effettività del potenziale successo
commerciale.
“Io credo che il problema non sia l’accesso al credito […]. Primo non c’è una
visione, per cui tutte le innovazioni che vengono proposte non si capisce
dove possono andare a finire. […] Da me arrivano [delle persone] con delle
idee che per loro sono eccezionali ma io […] chiedo subito il business plan.
Perché questo dimostra come hai pensato l’idea e come il mercato la possa
ricevere, perché dal punto di vista dei costi è molto facile, ma spiegarlo sul
versante dei ricavi è difficile. […] Allora cosa ci vuole: […] ci vuole
sicuramente un’idea tecnologica, ma serve anche dargli un minimo di
struttura, servono degli step di produzione, marketing, ma c’è anche la parte
del personale e dell’organizzazione che non sono banali […]. Il credito non è
un problema” [imprenditore 5].
La messa in produzione di nuove idee attraverso il ricorso al finanziamenti esterni è
complicata dalla cultura imprenditoriale che, anche per le imprese più piccole del
settore Ict, biasima la cessione della quota di maggioranza della propria impresa. Alcuni
22
di questi imprenditori chiedono infatti l’intervento di fondi di venture capital o di
business angel senza però essere disposti ad accettare che agli investimenti effettuati da
queste società corrispondano quote della società su cui la società di venture intende
scommettere.
[imprenditore 7]: “Io ho partecipato ad un progetto di consulenza di
business angel […] per rilevare un’azienda. In un processo di questo tipo a
quello che ti ascolta cosa gli rimane in mano?”
[imprenditore 5]: “Una percentuale della start up. Una quota che può
variare dal 30 al 40 o al 60%. Dipende dallo stadio di avanzamento dell’idea
[…].”
[imprenditore 7]: “[…] entrare in una logica di start up vuol dire togliere un
po’ dell’amore che hai nel tuo progetto e vederla in un’ottica business. […]
per iniziare questo percorso serve fare una riflessione personale e culturale
che ti porta a dire che l’azienda non è un fine ma un mezzo […].”
[imprenditore 5]: “Oggi è difficile pensare che un’idea la si può portare
avanti da solo. Io ho un’azienda, che l’ho fondata io, ma oggi ho però altri
soci con cui ho condiviso il capitale. Oggi io ho solo un quarto del capitale
[…] L’azienda che ho fondato 15 anni fa era di dimensioni minimali, eravamo
3-4 persone, cento per cento mia, oggi ho una società quotata che ha
potenzialità di diventare leader di mercato. Se la vivi in modo padronale non
andiamo da nessuna parte, serve una logica imprenditoriale.
[imprenditore 1]: ”Se non si ragiona in termini imprenditoriali non si
collabora!”
Questo stralcio di dibattito serve a mettere in luce la complementarietà tra di imprese
che, pur accomunate da una spiccata propensione all’innovazione, subiscono l’effetto
della differenza dimensionale. La grande impresa, che ha le risorse finanziarie per
effettuare attività di ricerca per vie interne e che collabora con altre grandi aziende –
con il ruolo di clienti, fornitori o collaboratori di fase – o con università e centri di ricerca,
ha tutto l’interesse a entrare in contatto con giovani imprese innovative, che grazie alla
loro freschezza hanno maggiore propensione a sviluppare idee nuove. D’altra parte
quello che serve a queste imprese più giovani è proprio la possibilità di sviluppare l’idea
in tempi utili affinché una competizione internazionale piuttosto serrata non bruci sul
tempo la sua immissione sul mercato. In questa fase la collaborazione di una grande
impresa, interessata a esplorare nuovi segmenti di mercato, può senz’altro
rappresentare una risorsa sia in termini di risorse finanziare - la cui contropartita è
inevitabilmente la cessione di alcuni asset – ma anche da risorse immateriali, come i
suggerimenti da parte di chi conosce più da vicino le caratteristiche dei clienti e, più in
generale, dei mercati e le modalità attraverso cui un’idea può percorrere la strada fino
23
all’industrializzazione senza perire nel tratto di percorso intermedio, per l’appunto
conosciuto come death valley dei progetti imprenditoriali.
1.4. Conclusioni: il fabbisogno delle imprese predatrici
Il panorama Ict pratese è molto frastagliato, anche all’interno del gruppo delle imprese
predatrici si sono riscontrate differenze relative prevalentemente legate alla dimensione
d’impresa e alla specifica nicchia in cui le imprese si sono specializzate. Nonostante ciò
sono emerse delle indicazioni chiare da parte delle imprese sui fattori che potrebbero
accrescere la competitività particolare, come quella dell’intero cluster.
In primo luogo, appare evidente la difficoltà dell’agglomerazione locale di creare
sinergie. Le attività collaborative sono infatti prevalentemente di natura extra-locale e
basate sulle catene di clienti e fornitori. Manca invece quell’ibridazione territoriale di
natura intersettoriale che potrebbe sviluppare innovazioni al margine e fare da leva per
l’attivazione nel mercato del capitale sociale già disponibile degli imprenditori locali.
Tuttavia, per dare continuità e garanzie alle imprese preoccupate da possibili
comportamenti opportunistici è espressa la richiesta per un soggetto terzo, legittimato
nella sua capacità di indirizzo tecnologico e nella possibilità di dare valore a risorse
relazionali prodotte all’interno del cluster e tra questo e altri contesi vicini.
In maniera complementare è inoltre emersa l’esigenza di uno o più soggetti, che aiutino
le start up o le imprese più piccole a trovare la strada per l’accesso al credito. Si tratta di
ruolo da broker che svolga la funzione di acceleratore d’impresa. Diversamente dalla
funzione di mediazione delle relazioni questa funzione non dovrebbe essere
necessariamente svolta da un soggetto terzo. Da questo punto di vista è infatti emersa la
possibilità di una forte integrazione tra il ruolo delle imprese predatrici più grandi e
quello delle start up, già costituite o di possibile nuova costituzione.
Infine, è incontrovertibile l’insoddisfazione delle imprese per le competenze
attualmente disponibili sul mercato del lavoro specializzato. Tra le indicazioni più
condivise troviamo sicuramente una maggiore sintonia tra percorsi formativi secondari e
terziari ed esigenze delle imprese e la formazione continua dei formatori rispetto
all’evoluzione tecnologica.
Si tratta di tre tipi di fabbisogni distinti che possono essere perseguiti con un ventaglio di
strumenti molto ampio il cui approfondimento è riservato al quarto capitolo.
24
25
2. Le imprese imbrigliate. Tra radicamento e competitività
Come abbiamo anticipato nel capitolo precedente, con aziende “imbrigliate” ci riferiamo
alle imprese che presentano un maggiore legame con il contesto locale sia per quanto
concerne la percentuale di fatturato riconducibile al settore del tessile-abbigliamento sia
rispetto alla quota di clienti localizzati all’interno del territorio provinciale o
metropolitano. In questa prospettiva, la forte vicinanza al contesto locale e il numero
ristretto di reti “lunghe” rende queste aziende più dipendenti tanto dalle dinamiche
congiunturali quanto dai limiti strutturali delle imprese del distretto. All’interno di
questo insieme possiamo inoltre distinguere le imprese sulla base dell’anno di
fondazione e dell’età dell’imprenditore. Sono infatti presenti aziende storicamente
radicate, o comunque legate a precedenti esperienze riconosciute nel contesto locale, e
imprese più recenti.
Il richiamo ai rischi del territorio non deve tuttavia trarre in inganno. Molte di queste
imprese hanno infatti maturato legami fiduciari e competenze specifiche che le rendono
leader in precise nicchie di mercato. Tuttavia, il forte legame con un preciso settore o la
vicinanza con le aziende locali condiziona in maniera peculiare le strategie aziendali, le
dinamiche innovative e le modalità di finanziamento.
Tali limiti siano stati nel tempo affrontati ricorrendo a strumenti ad hoc (come nel caso
del progetto SPRINT), volti a incrementare il know how informatico delle imprese e delle
pubbliche amministrazioni. Nonostante ciò, in presenza di risultati non in linea con le
aspettative, gli imprenditori sono stati costretti ad affrontare i rischi legati alla
dipendenza dal territorio in maniera autonoma. In altre parole, in assenza di una precisa
regia istituzionale, le innovazioni organizzative sono state prevalentemente di tipo
incrementale, piuttosto che sistemico, con riadattamenti in prevalenza guidati dalla
domanda.
“Siamo cresciuti in maniera esponenziale fino a qualche anno fa ma non
avevamo una forza commerciale. Fino a ieri abbiamo, fortunatamente,
subito la domanda, ci venivano a cercare […] È stato un bene ma anche una
colpa, perché potevamo fare investimenti diversi e governare e non subire la
crescita” [imprenditore 11].
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Sebbene di fronte al continuo mutamento delle esigenze delle imprese locali una simile
evoluzione abbia sicuramente consentito lo sviluppo di risposte eterogenee e flessibili,
consentendo così la sopravvivenza e la specializzazione delle aziende informatiche,
queste “strategie adattive” sembrano oggi rappresentare un limite esplicito. È tuttavia
interessante notare come, anche per aziende così radicate, le strategie organizzative
abbiamo comunque reso le imprese informatiche sempre più autonome, consentendo
così la nascita di un settore che, seppur in parte ancora strumentale al settore tessile-
abbigliamento, presenta oggi una maggiore autonomia.
Le debolezze delle imprese che emergono dai focus group sono per lo più legate a un
mercato ristretto e popolato da aziende di piccole dimensioni che richiedono risposte
dinamiche e flessibili. In altre parole, per quanto concerne le difficoltà interne, queste
aziende ripropongono i limiti tipici dei sistemi basati sulle PMI, dove l’estrema
dinamicità si associa alle criticità dimensionali e all’incapacità di raggiungere quella
massa critica necessaria per fare “un salto di qualità”.
L’obiettivo del focus, che nel complesso ha coinvolto sei imprese, non era tuttavia quello
di confermare alcuni elementi già emersi nel precedente rapporto, quanto piuttosto di
mettere in evidenza le debolezze del contesto locale e i possibili interventi per
migliorare la competitività e l’attrattività del territorio. A questo proposito, le difficoltà
incontrate dai partecipanti possono essere così sintetizzate:
• scarsa visione dei soggetti locali, imprese e amministratori, sul settore. Con
ripercussioni negative sugli investimenti (per quanto concerne le imprese) e, più in
generale, sul rinnovamento imprenditoriale;
• Collegamenti limitati tra i diversi operatori del settore, che ridimensionano la
possibilità di collaborazioni tra imprese ICT operanti in specializzazioni differenti ma
integrabili, e tra queste e le aziende manifatturiere, sia locali che metropolitane;
• mancanza di infrastrutture telematiche adeguate;
• assenza di credito finalizzato;
• capitale umano e mercato del lavoro locale.
Questi elementi di staticità vengono gradualmente ridimensionanti quando dalle criticità
si passa al confronto sui punti di forza.
La discussione ha infatti consentito di evidenziare le potenzialità latenti del territorio,
favorendo l’acquisizione di una maggiore consapevolezza da parte dei partecipanti
rispetto alle prospettive di crescita. Così, dopo un iniziale pessimismo connaturato con la
crisi economica globale, le difficoltà strutturali delle imprese distrettuali e gli
investimenti decrescenti nel tempo da parte delle pubbliche amministrazioni, è
27
maturata la consapevolezza delle opportunità collegate al settore in sé e delle
potenzialità di crescita nel rapporto con le imprese locali.
Allargando lo sguardo al contesto metropolitano, infatti, gli imprenditori hanno
sottolineato come la presenza di una potenziale domanda, che supera i confini del
tessile, possa rappresentare un bacino interessante per sopperire alla chiusura di alcuni
segmenti di mercato nel sistema locale.
Come discuteremo meglio nelle prossime pagine, simili considerazioni richiamano
interventi differenti. Da un lato, emerge la richiesta di strategie che consentano di
allargare il bacino dei potenziali clienti, aumentando l’autonomia delle imprese dal
tessuto produttivo tradizionale, dall’altro, vengono sottolineate le opportunità inerenti
ad una maggiore integrazione con il tessile-abbigliamento. Si tratta, in altre parole, di
strategie che potrebbero consentire di allungare le reti a livello metropolitano e
rinforzare le interdipendenze a livello locale, migliorando così la competitività delle
imprese manifatturiere pratesi.
Per quanto concerne gli elementi di criticità, il focus group evidenzia come l’attuale
costruzione degli strumenti di incentivazione e, più in generale, dei bandi pubblici, sia
spesso inadatta per risolvere le esigenze delle imprese. Anche il sistema della
formazione e il funzionamento del mercato del lavoro vengono percepiti come punti
deboli. Questi temi, sui quali torneremo successivamente, anticipano una necessità che
diventerà manifesta nel confronto: per queste imprese, infatti, più che la questione dei
clienti è fondamentale il ruolo della forza lavoro.
Le criticità del mercato del lavoro locale ne influenzano anche la fluidità: l’elevato costo
del lavoro ridimensiona infatti la possibilità delle imprese di investire in formazione,
mentre l’assenza di figure con solide competenze di base tende a irrigidirne la
circolazione.
“Le persone le abbiamo create negli anni e questo costa. Se uno va via, c’è
da spararsi” [imprenditore 12].
Così, nonostante le opportunità di mercato, il binomio alto costo del lavoro/scarsa
preparazione produce effetti perversi tanto per i lavoratori quanto per le imprese,
diminuendone le prospettive di crescita. Ma il tema della qualità della forza lavoro non
riguarda solo le competenze di base. Dal confronto emerge come molti giovani che
escono dalle scuole superiori non siano in grado di rapportarsi con le imprese. Manca, in
altre parole, un set di competenze trasversali che stimoli gli imprenditori a immaginare
progetti di investimento in giovani neo-diplomati. In ogni caso, il rapporto tra istruzione
e imprese - coinvolgendo anche soggetti come le università - si configura come una
questione di portata più generale.
Anche spostando l’attenzione sulla dotazione infrastrutturale, emerge un giudizio meno
roseo sulla qualità delle infrastrutture. Nel precedente rapporto avevamo messo in
28
evidenza come la ricchezza delle connessioni telematiche, in particolare la presenza
della banda larga, fosse una delle ragioni che potevano spiegare la presenza di imprese
ICT. Il confronto tra imprenditori richiama invece il tema della centralità urbana. Per
molti soggetti, infatti, la copertura – una volta usciti dal perimetro della città - risulta
spesso carente con conseguenze negative soprattutto per le esigenze dei clienti. Emerge
comunque la consapevolezza che la questione della connettività, qui intesa in senso
ampio, rappresenta un tema di rilevanza nazionale. In assenza di interventi specifici,
quindi, il vantaggio competitivo del tessuto pratese sembra essere destinato ad erodersi
nel tempo, con ripercussioni negative in termini di fatturato (riducendo le opportunità di
mercato) e di competitività del territorio (aumentando le barriere all’ingresso).
I temi della formazione e della dotazione infrastrutturale diventano quindi cruciali per
consentire alle aziende ICT di sfruttare a pieno le opportunità derivanti dalla
localizzazione all’interno di un contesto - come quello metropolitano - che si
contraddistingue per elementi di vantaggio come la diffusa imprenditorialità e
l’eterogeneità settoriale.
Ciò solleva due questioni rilevanti. Anzitutto, come noto, l’ecosistema digitale riguarda
imprese che operano in quasi tutti i segmenti produttivi, spaziando dalla produzione di
software, hardware e contenuti7, alla fornitura di servizi. In questo quadro, il contesto
metropolitano rappresenta un’area particolarmente attraente8. In secondo luogo, la
diffusa imprenditorialità rappresenta un fattore di vantaggio ben noto tra gli operatori
del settore.
7 Come illustrato nel precedente rapporto, le recente riflessioni sui confini dell’ICT hanno portato ad
estenderne la definizione oltre le classiche ripartizioni tra manifattura e servizi, includendo così anche le
attività di produzione e comunicazione dei contenuti dell'informazione (es. video, testi, fotografie, musica,
giochi, ecc) [Ocse 2011, OECD Guide to Measuring the Information Society 2011,
www.oecd.org/publishing/corrigenda]. In quest'ottica, una crescente enfasi è posta sulla filiera del prodotto
digitale, creato e diffuso da imprese di servizi che precedentemente non erano formalmente inserite nel
comparto Ict, siano esse produttrici di e-content o di pubblicità on-line [Agcom 2011, Autorità per le garanzie
nelle comunicazioni (2011), Relazione annuale 2011 sull'attività svola e sui programmi di lavoro,
www.agcom.it ; Assinform 2012, Dall'Ict al global digital market. Rapporto Assinform 2012,
www.assinform.it]. 8 La georeferenziazione delle unità locali attive nel settore dell'Ict nei comuni più centrali dell'area
metropolitana ha infatti consentito di rappresentare in maniera distinta la manifattura, i servizi e i contenuti
Ict, mostando la presenza di un "centro tecnologico", che è Firenze, e di una periferia, rappresentata dal
territorio pistoiese. In questo scenario Prato assume una posizione intermedia, risultando debole per attività
manifatturiere e forte per servizi Ict. [Betti, Gherardini, Manzo, 2012, Il cluster ICT pratese. Rapporto di
ricerca.
http://marketing.provincia.prato.it/wp-content/uploads/2013/10/ICT-a-Prato-rapporto-ricerca.pdf, 12].
29
“A un occhio più attento, le potenzialità di intervento di chi fa il nostro
mestiere sono di più di quelle che si pensa che ci siano. Non è solo il tessile
come possibile settore ma è molto più variegato. Basta muoversi, conoscere
per trovare spiragli dove fare investimenti. Per me, che ho iniziato a farlo in
proprio, è stata una sorpresa. Non me l’aspettavo. È una cosa che deve essere
considerata” [imprenditore 10].
Più in generale, la questione dell’imprenditorialità richiama le caratteristiche del
contesto istituzionale.
“Ho notato la grande imprenditorialità, anche in senso negativo, dei pratesi.
Il saper fare impresa. C’è un grosso potenziale che può svilupparsi. […] Il
pratese è un imprenditore nato. Ha voglia di fare impresa” [imprenditore
12].
È inoltre interessante osservare come il tema della concorrenza non venga percepito
come un pericolo. Analogamente a quanto sottolineato a proposito dell’utilità delle reti
di connessione come strumento per allargare il mercato, la competizione tra le imprese
viene percepita come sostanzialmente positiva.
Si tratta di un risultato singolare. Spesso, infatti, la nascita di nuove imprese è
considerata un fattore di rischio che potrebbe generare una competizione di costo, con
effetti negativi sullo sviluppo del settore. Tuttavia, in questo caso, la competizione, oltre
ad allargare il mercato, sembra influenzare le aspettative delle aziende, favorendo
l’adozione di scelte strategiche.
[imprenditore 9]: “(La concorrenza) ci spinge ad investire in altri ambiti. A
differenziarci”.
[imprenditore 11]: “Oppure a non investire, specializzandoci”.
Regolare la concorrenza significa anzitutto ridurre le asimmetrie informative e i
comportamenti opportunistici, favorendo l’integrazione tra specializzazioni. In questa
prospettiva, le opportunità derivanti dall’elevata densità ed eterogeneità
imprenditoriale, rendono le imprese più consce del ruolo che la concorrenza, se ben
regolata, può offrire per migliorare l’efficienza e favorire la specializzazione,
ridimensionando così le posizioni di rendita.
Di conseguenza, tra gli elementi più richiamati emergono le esigenze di “connessione”
tra le imprese. I partecipanti, infatti, sottolineano la necessità di interventi per favorire
conoscenza tra le diverse specializzazioni. Si tratta spesso di strumenti soft che,
sfruttando le caratteristiche “abilitanti” delle tecnologie ICT, possono favorire la
diffusione delle informazioni rispetto al core business delle singole realtà imprenditoriali
e quindi lo sviluppo di nuove partnership.
“Spesso il difetto non è la dimensione ma la non conoscenza. […] sono venuto
a conoscenza di realtà vicine e questo ha creato non delle concorrenze ma
30
delle sinergie. […] ho scoperto che sono molti di più i casi di specializzazione
(qualcosa di analogo ma direzionato in campi diversi) che di concorrenza e
quindi è difficile che ci si pesti i piedi. Si crea una concorrenza per noi e per il
mercato. Le imprese possono scegliere tra eccellenze senza affidarsi a
tuttologi” [imprenditore 10].
A differenza di molte specializzazioni tradizionali, infatti, le aziende presenti richiamano
la necessità sinergie dal basso senza un diretto riferimento al ruolo degli incentivi,
spesso percepiti in maniera negativa.
“Faccio parte di una rete di imprese. Siamo 6 aziende dislocate in Toscana. Il
principio di base è stato questo: mettiamoci insieme con competenze diverse
per vincere bandi pubblici” [imprenditore 8].
Pare quindi emergere un effetto distorto nell’utilizzo dei fondi, dove il finanziamento,
più che favorire la realizzazione di progetti innovativi, sembra finalizzato a
ridimensionare i gap di conoscenza, richiamando così la necessità “di politiche per
connettere”. A questo proposito, un intervento che spesso viene proposto, anche
attraverso l’utilizzo di finanziamenti pubblici, è quello dell’incentivazione delle reti di
impresa.
“La rete di imprese è primo un bisogno di conoscenza tra le aziende. […] Se ci
si conosce si collabora, se non ci si conosce non si collabora. I rappresentanti
delle categorie dovrebbero lavorare a questo” [imprenditore 8].
Più in generale, è il tema della formulazione dei bandi per i finanziamenti pubblici che
sembra essere inadeguata.
“I finanziamenti pubblici creano problemi e drogano il mercato. Francamente
ho avuto più esperienze di inquinamento che vantaggi” [imprenditore 10].
“Questo meccanismo del ‘io sono io e lui è lui e facciamo la cosa insieme.
Quanto ci guadagno io? Oggi non esiste collaborazione, ogni industriale è lui.
Deve essere superata l’aggregazione strumentale” [imprenditore 8].
Inoltre, la presenza di incentivi distorti, genera effetti perversi, dirottando le risorse
verso investimenti poco remunerativi in termini di competitività e crescita delle imprese.
“Magari per il bando fai di tutto per entrare a pedate nel progetto quanto in
realtà ti serve solo un pezzettino. Ti vai a infilare in consorzi di imprese dove
ognuno vuole fare qualcos'altro. La forzatura nasce lì. Il finanziamento
servirebbe dopo: ci si incontra, metto l’idea, associamo le competenze e le
tecnologie, troviamo il finanziamento e poi facciamo la start up. Andare nel
senso contrario a volte è una forzatura. Aziende che partecipano a bandi mi
hanno detto devi fare questo e quest'altro e ti infilano in delle cose”
[imprenditore 11].
Tale consapevolezza emerge anche dall’osservazione delle reazioni dei partecipanti. Il
giudizio, che pare essere unanime, riflette l’elevata specializzazione dei soggetti.
31
Ciò consente di chiarire meglio un aspetto che abbiamo introdotto nella parte iniziale.
Con imprese “imbrigliate” non si intendendo infatti aziende meno competitive ma
piuttosto realtà imprenditoriali dipendenti in misura maggiore dal contesto locale. Così,
nonostante il legame con sistema economico locale possa rendere le imprese più
influenzate dalla congiuntura economica, la vicinanza al sistema produttivo ha permesso
loro di maturare una specializzazione tale da ricavare delle piccole nicchie in specifici
segmenti di mercato.
Così, proprio perché l’innovazione viene interpretata come un processo di costruzione
sociale, “accanto alle necessarie politiche per slegare le imprese da lacci e laccioli,
occorre pensare anche a politiche per connettere, per promuovere la mobilitazione e la
cooperazione efficace tra i soggetti locali: la formazione di buone reti per l’innovazione”9
. Una prima implicazione di policy viene quindi individuata nella presenza di un
“soggetto terzo” capace di favorire la creazione di reti tra imprese dal basso. È in questo
ambito che il set di interventi soft può integrarsi con scelte più complesse, come la
definizione di spazi fisici dedicati alle imprese.
“Senza nessun soggetto terzo non è possibile. Nessuna azienda andrà mai di
sua spontanea volontà a cercare dei colleghi” [imprenditore 10].
“Servirebbe un incontro dove non c’è un tema di fondo, come oggi, una
riunione dove le attività ICT si trovano, in tutte le loro forme, vedi chi
partecipa, selezioni chi ti interessa e ti incontri senza nessun obbligo. Ma se
non c’è un catalizzatore non funziona” [imprenditore 11].
Naturalmente le modalità di connessione e la definizione dei soggetti interessati variano
a seconda delle aziende e del tipo di relazione che esse intrattengono con i diversi
soggetti, pubblici e privati. Una sostanziale convergenza emerge però rispetto al ruolo
delle associazioni di categoria.
“Le associazioni di categoria dovrebbe favorire lo scambio dei contatti e
creare un evento per favorire liberi scambi” [imprenditore 11].
“Quando si parlava di enti terzi ho in testa due soggetti. Le associazioni di
categoria, se ben guidate, potrebbero essere l'attore principale. Altro ente
terzo, che dovrebbe farne la propria bandiera, è la parte formativa, università
e mondo della scuola. Dovrebbe essere un vanto associare il mondo delle
imprese con la formazione. Sarebbero gli attori ideali” [imprenditore 10].
In conclusione, quello che il confronto guidato sembra far emergere è la presenza di una
serie di opportunità latenti legate al contesto locale. Oltre agli interventi strutturali,
9 Trigilia C. (2007), La costruzione sociale dell’innovazione : economia, società e territorio, Firenze, Firenze
University Press.
32
inerenti al costo del lavoro, alla qualità e alla manutenzione delle infrastrutture e alla
questione della burocrazia, i partecipanti sottolineano la necessità di superare un
approccio tradizionale all’incentivazione delle aggregazioni per puntare su interventi più
leggeri legati alla diffusione della conoscenza rispetto alle caratteristiche e alle
competenze delle singole imprese. Ciò consentirebbe di realizzare nuove sinergie dal
basso, non distorte dal sistema degli incentivi pubblici, che consentano di sfruttare a
pieno le opportunità di mercato derivanti da un contesto come quello metropolitano,
dove convive un insieme eterogeneo di imprese e dove forte è l’attitudine
imprenditoriale.
Tali opportunità possono però essere colte soltanto se, assieme alle esigenze di
conoscenza e connessione, vengono affrontate le questioni degli investimenti in capitale
umano, del mercato del lavoro e della formazione, discusse nel prossimo paragrafo.
2.1. Formare professionisti per formare nuovi imprenditori
Nel primo paragrafo abbiamo visto come il coinvolgimento di alcune figura professionali,
quando presenti, rappresenti per le imprese un vero e proprio investimento, con rischi e
ritorni spesso non calcolabili a priori.
Il confronto ha inoltre messo in evidenza come le competenze, sia tecniche che
trasversali, siano spesso inadeguate comportando una riqualificazione consistente dei
nuovi assunti. Parliamo, in questo caso, soprattutto di neodiplomati ma molte delle
conclusioni sul rapporto tra formazione e impresa possono essere estese anche ad altri
soggetti, come le università e i centri di ricerca. L’ultima dimensione indagata ha infine
riguardato il metodo di reclutamento e, in particolare, il ruolo delle agenzie interinale
come soggetti di mediazione.
Per quanto concerne le competenze di base, anche nei confronti degli studenti più
motivati, i giudizi sono spesso molto negativi. Nella maggioranza dei casi le imprese
osservano infatti uno scarto marcato tra le competenze richieste e la preparazione, cui si
affianca un uso spesso inconsapevole degli strumenti informatici che limita fortemente
la collocabilità dei soggetti.
“Non c'è una formazione di base” [imprenditore 12].
“Mi servirebbe personale con una formazione minima di base […] con costi
accessibili e che potrei formare. Se partissero da uno è un conto, potrei
pensarci, ma oggi partono da meno due” [imprenditore 13].
Anche la carenza di competenze trasversali viene ritenuta un limite significativo. Molti
dei diplomati (ma un discorso simile potrebbe essere esteso anche ai laureati) non
hanno precedenti esperienze - più o meno strutturare - di lavoro e ciò influisce
33
negativamente sulla loro attitudine non soltanto a lavorare in gruppo oppure a ragionare
per obiettivi ma anche a gestire i tempi e i modi dello stare in azienda.
Naturalmente le questioni legate al rapporto tra scuola e impresa sono note e dibattute.
Tuttavia, quello che qui preme sottolineare è il fatto che sembra sussistere uno spazio di
sperimentazione per interventi volti a ridurre la distanza tra le richieste specifiche delle
imprese e la formazione delle scuole.
Approfondiremo il tema nei prossimi capitoli, quando esporremo i risultati di un focus
group con gli istituti superiori dell’area pratese. Conviene comunque anticipare alcuni
elementi che riteniamo particolarmente rilevanti per migliorare alcuni aspetti della
formazione.
Le considerazioni degli imprenditori mettono infatti in evidenza tre dimensioni peculiari.
La prima riguarda la forma mentis degli studenti. Spesso infatti quello che viene
evidenziato è l’assenza di una concezione di fondo rispetto alle esigenze e le potenzialità
del settore.
“Non si tratta di conoscere un linguaggio ma di imparare a programmare”
[imprenditore 10].
“Nell’informatica non importa il linguaggio, conta la forma mentis. Serve una
preparazione specifica per il settore […]. L’informatica è talmente ampia e
sfaccettata che servono competenze ampie” [imprenditore 11].
Ciò ha effetti negativi non soltanto sulle possibilità di formazione durante i percorsi di
alternanza scuola/lavoro o sulle chance occupazionali, ma impatta anche sullo sviluppo
delle autonome capacità di immaginare propri percorsi di imprenditorialità. Il ruolo della
forma mentis e, più in generale, dell’impostazione rispetto al mondo dell’ICT, diventa
ancora più evidente se pensiamo al fatto che uno dei meccanismi che contribuisce a
spiegare le ragioni della localizzazione delle imprese nell’area pratese era legato alla
presenza di una comunità open source, a partire dalla quale sono nate alcune delle
aziende più innovative.
In questa prospettiva, stimolare la creatività e la curiosità degli studenti, valorizzandone
le attitudini, può essere utile per ricreare quelle condizioni che negli anni passati hanno
portato alla creazione della comunità open source pratese10. A differenza del passato,
però, tali spinte creative possono oggi essere raccolte e valorizzate da un tessuto di
imprese locali, rendendo così spendibile quella che spesso viene considerata solamente
una passione. Agire sulla forma mentis, valorizzando le attitudini degli studenti, significa
10
Come già emerso nello scorso rapporto, il ruolo della comunità open source è stato determinante nel creare quel clima di apertura favorevole all’innovazione: “Il movimento nacque negli anni ’90 con Linux che per noi rappresentò una forza di liberazione” [Impresa predatrice].
34
quindi stimolare l’imprenditorialità, con conseguenze rilevanti per la crescita e la
competitività dell’intero cluster.
La seconda dimensione, strettamente connessa con la precedente, riguarda invece
l’abilità e l’utilizzo dei nuovi prodotti hardware e software. A questo proposito, gli
intervistati sottolineano una scarsa consapevolezza nell’utilizzo degli strumenti, con
effetti negativi sulla capacità di modificare gli stessi per adattarli alle proprie esigenze. Si
tratta, in altre parole, di un “irrigidimento cognitivo” che consente un utilizzo soltanto
passivo o statico delle nuove tecnologie.
“Spesso ho parlato con dei ragazzi che mi hanno detto: caspita, io so
programmare, conosco il linguaggio. Questa era la loro visione del mondo
della programmazione. Quindi inculchi un concetto anche sbagliato, che quel
lavoro si fa sapendo quella cosa e basta. L'idea che abbraccio un settore, e
quindi mi devo tenere aperto, e imparare ogni giorno cose nuove, non passa.
E secondo me è fondamentale per qualsiasi mestiere” [imprenditore 10].
Analogamente a quanto ipotizzato in precedenza, una possibile soluzione potrebbe
essere legata alla valorizzazione della creatività degli studenti attraverso appositi
strumenti hardware, contest o luoghi dedicati alla sperimentazione, oltreché con una
differente strutturazione del rapporto tra docenti e imprese.
L’ultima dimensione riguarda infine il tema delle competenze “di ingresso”. Gli
intervistati, infatti, oltre all’approccio cognitivo e alla disponibilità a rimettere in
discussione i propri schemi di riferimento, richiamano la necessità di una formazione ad
hoc per rapportarsi con il mondo dell’impresa. Non si tratta in questo caso di formazione
di base in senso stretto ma di un set di competenze che consenta di essere subito
operativi in azienda.
“Ho avuto dei ragazzi che a livello creativo, per il lavoro che faccio io,
avevano doti e idee chiare. Ma magari le facevano a lapis. Uno che esce dalla
scuola superiore che entra nel mondo del lavoro deve saper lavorare al
computer. Magari le idee ci sono e anche la predisposizione, ma che esca
fuori un creativo che sappia lavorare solo sulla carta non mi serve nulla
perché ovviamente il primo passo nel mondo del lavoro è impaginare, fare un
ritaglio. Sono competenze tecniche, di creativo non c'è niente. Ma per entrare
nel mondo del lavoro serve questo” [imprenditore 13].
Come emerso, l’assenza di strumenti “di ingresso” ridimensiona in maniera consistente
sia la capacità degli studenti di esprimere le loro potenzialità sia la possibilità delle
imprese di fare un investimento nella formazione di un nuovo lavoratore.
“Sarei molto contento di dedicare una parte del tempo alla formazione di
altre persone altre a quelle che già ci sono. È impossibile pensare di vivere sui
concetti che ho imparato, serve anche per apprendere” [imprenditore 10].
35
Per quanto riguarda il reclutamento, infine, emerge come la dicotomia pubblico-privato
sia in parte fuorviante. Se è vero che nessuno dei soggetti partecipanti ha intrattenuto
rapporti o utilizzato le strutture dei centri per l’impiego, sancendo di fatto l’incapacità
del settore pubblico di fare matching per queste realtà produttive, allo stesso tempo
emerge la difficoltà delle agenzie di lavoro interinale nel reclutare e formare i profili più
adatti.
“Il problema principale è che non sanno minimamente di cosa si tratta, [per
loro] l’informatico, che ripari un pc o sviluppi un programma è lo stesso. E
invece no. È come un ingegnere meccanico messo a saldare un componente
elettronico. C’è troppa approssimazione” [imprenditore 10].
“Non hanno personale interno preparato per fare selezione, non solo
nell’informatico. Raccolgono curriculum e ti spediscono. Fine, questo è il loro
lavoro” [imprenditore 9].
Si tratta di limiti rilevanti, che impediscono di usufruire di personale adeguato durante i
picchi produttivi e per lo sviluppo di progetti specifici. Inoltre, come già emerso nel
precedente rapporto, i canali di reclutamento sono diversi, basati principalmente su
annunci on line e approfondite selezioni, piuttosto che su tradizionali forme di
intermediazione.
Anche in questo caso sembra emergere la necessità di un soggetto terzo che si occupi di
valorizzare i curriculum e che intervenga per soddisfare le competenze più richieste dalle
imprese. Come emerge dalla letteratura, infatti, la disponibilità di manodopera
qualificata si caratterizza per essere un bene collettivo locale11.
Dal confronto emergono inoltre due criticità: la prima chiama in causa il costo elevato
dei c.d. “cacciatori di teste”, specializzati nel reclutamento di particolari figure, mentre la
seconda ha a che fare con l’assenza o l’opacità di reti di freelance o consulenti. In questo
caso, infatti, il rischio è quello di una concorrenza al ribasso tra professionisti, con effetti
negativi sulla struttura delle imprese. A tal proposito, analogamente a quando
evidenziato in precedenza, la presenza di un luogo dedicato, rinforzando la dimensione
relazionale e la diffusione delle informazioni, potrebbe contribuire a evitare una
competizione di costo e comportamenti opportunistici.
Il richiamo ad un luogo istituzionalizzato di confronto potrebbe poi sopperire alla
debolezza identitaria della categoria. Dal confronto emerge in maniera palpabile il senso
11
Si tratta di beni che le singole aziende non sono in grado di produrre (o non hanno interesse a farlo) in
maniera adeguata ma dai quali dipende la competitività di ciascuna di esse. Alla categoria dei beni collettivi in
senso stretto, oltre alla disponibilità di manodopera qualificata, possiamo anche la presenza di infrastrutture
logistiche e di comunicazione [Trigilia, 2005, Sviluppo locale. Un progetto per l'Italia, Bari-Roma, Laterza, pp.
12-13]
36
di frustrazione derivante da una rappresentanza parziale del settore sui tavoli
istituzionali.
“Noi non siamo esistiti, fino a poco tempo fa, non c’era rappresentanza”
[imprenditore 8].
“Concordo pienamente. Manca il riconoscimento del nostro settore, non
siamo né carne né pesce, siamo gli operai del 2000, quelli che fanno. I
commercianti e gli industriali hanno la loro rappresentanza. Manca un
legame importante che siamo noi informatici che alla fine non abbiamo
rappresentanza, contratto nazionale di lavoro, una rappresentanza che dica
cosa ci serve” [imprenditore 11].
A questo proposito, una maggiore consapevolezza delle imprese, unita alle politiche
“per connettere” prima richiamate, potrebbe favorire il consolidamento di una
regolazione comunitaria, basata sulle competenze e sulla reputazione, utile per
migliorare la circolazione di informazioni e fiducia12.
L’ultimo elemento del sistema formativo chiama in causa le istituzioni universitarie e i
centri di ricerca. In questo caso, però, il giudizio rimane “sospeso”. Da un lato, infatti,
molti dei partecipanti hanno avuto rapporti diretti con entrambe le istituzioni o le
percepiscono come potenziali interlocutori privilegiati, dall’altro, però, gli imprenditori
rilevano un certo disinteresse da parte del mondo accademico e, talvolta, una sorta di
concorrenza che, posizionandosi a monte del processo innovativo e sfruttando una
posizione di vantaggio in termini di riconoscimento, viene percepita come rischiosa.
Torna dunque con forza, almeno per quanto concerne il secondo punto, il tema della
rappresentanza e dell’identità: in assenza di un riconoscimento istituzionale, infatti, le
singole imprese corrono il rischio di sentirsi abbandonate nel confronto con i centri di
produzione e diffusione del sapere. In questi casi, inoltre, il ruolo delle università e del
Pin può trasformarsi da partner a concorrente.
“Spesso le università con molta volontà vanno per la loro strada. Tirano fuori i
loro spin off, le loro aziende - che conosco - anche fatte da professori, che
però hanno difficoltà a entrare nel mercato, perché l’idea è buonissima, il
software eccezionale, ma quando vai ad applicarlo nel mondo realtà ti
manda un aggancio, un pezzettino o tutto il resto. […] Questo è il problema. È
vero che (a Pisa) è nato tutto dall’Università […] Ma non basta. Altrimenti è
12
Tra i diversi modelli regolativi, infatti, oltre al ruolo dello stato e del mercato, possiamo individuare quello
delle associazioni e della comunità. Naturalmente il mix regolativo varia a seconda dei concreti contesti
istituzionali, tuttavia, per questo tipo di aziende - e di fronte alla difficoltà di regolare il settore attraverso il
binomio stato/mercato e alle necessità di rappresentanza e condivisione -, il ruolo della regolazione
associativa e di quella comunitaria potrebbe integrare il tradizionale schema incentivi/intervento pubblico.
37
l’università che si arrocca e si convince di detenere il sapere. Servirebbe un
collante tra la ricerca, che in Italia c’è e siamo bravi, e l’impresa. Manca una
relazione stretta con l’impresa. Siamo su mondi diversi. Il Pin è nato con
questo obiettivo, un’associazione tra università e imprenditori che doveva
intervenire nel tessuto” [imprenditore 11].
“Sul mondo Ict non c’è stato l’influenza del Pin, si è messo in concorrenza con
noi, concentrandosi sulle aziende finali. Ci hanno saltati. Noi non siamo
esistiti, fino a poco tempo fa, non c’era rappresentanza” [imprenditore 8].
“Concordo pienamente. […] Altrimenti IT for Fashion diventa un mio
concorrente perché ha dei legami diretti con le aziende, ha un marchio e
viene ascoltato. […] Serve una rappresentanza che unisca coloro che per i
propri scopi utilizzano la tecnologia e che ci rappresenti a pieno”
[imprenditore 11].
Nonostante ciò, emerge la consapevolezza della necessità di instaurare rapporti più
continui con tali strutture.
“L'idea è quella di ricominciare a prendere contatti con il Pin […]. I tempi sono
cambiati, non puoi crescere e mantenere 40 (dipendenti) se hai una
proposizione esterna […] L'idea è quella di riprendere contatto sia con le
istituzioni universitarie sia con altre aziende e quindi cominciare a vedere se
sono possibili collaborazioni o richiedere formazione di un certo tipo (il pin è
nato per soddisfare richieste specifiche). E quindi chiedere formazione per un
settore che si sta allargando molto” [imprenditore 11].
“La nostra azienda non lo può fare, per questo servono i centri di ricerca”
[imprenditore 8].
“Oggi è impensabile che le imprese facciano R&S, per questo sono nate le
start up, per sopperire e trovare qualche sovvenzione. Potrebbe esserci
l’opportunità che l’università sia più attiva e propositiva nei confronti delle
aziende per forme di collaborazione. Non il contrario” [imprenditore 11].
Anche in questo caso, però, riemerge il tema della formazione e la necessità di un
ambito concreto di confronto. Per queste aziende, infatti, il ruolo dell’Università non è
soltanto connesso con la produzione di ricerca. La realizzazione di partnership
strutturate passa infatti dall’integrazione tra ricerca, trasferimento tecnologico e
formazione, anche a partire da concrete esperienze di collaborazione che, negli anni
passati, hanno prodotto buoni risultati.
2.2. Innovazione e sviluppo: vorrei ma non posso
L’ultima dimensione indagata riguarda la “mancata innovazione”; ci siamo chiesti cioè
per quali ragioni le aziende partecipanti non siano state in grado di portare a
compimento alcuni progetti. Interrogarsi sui limiti – aziendali o del territorio – alla base
38
dei prodotti non ultimati significa, in altre parole, immaginare un set di interventi che
consentano di mettere in produzione alcune idee già selezionate.
Dal confronto emergono tre questioni rilevanti. Anzitutto, il tempo da dedicare ai nuovi
prodotti, che si configura come una risorsa scarsa, con effetti negativi sulla competitività
complessiva del territorio.
“Il tempo, il lavoro corrente ti occupa talmente tanto per fare le cose bene””
[imprenditore 9].
“Le idee ci sarebbero, ma il tempo….ho sempre più lavoro ma meno pagato”
[imprenditore 13].
“Il tempo è un mancato guadagno” [imprenditore 12].
Tutto ciò costringe le aziende a ragionare secondo un calcolo costi/benefici di breve
periodo, evitando quindi di seguire alcune produzioni potenzialmente innovative ma
non immediatamente applicabili.
“Poi gli investimenti dipendono da quanto posso raccogliere. Pensa a Skype.
Se ho un prodotto che costa zero e dico che tra tre anni lo vendo a tot non è
possibile” [imprenditore 11].
Possiamo così introdurre il secondo elemento: la scarsità di risorse umane adeguate. In
questo caso, però, ci riferiamo soprattutto all'assenza di ”mediatori” per il reclutamento
di tecnici e professionisti. È interessante notare come i partecipanti sottolineino come le
esternalizzazioni non si realizzino non per la mancanza di fiducia tra soggetti, quanto
piuttosto per limiti aziendali che potrebbero essere ridimensionati dalla fornitura dei
c.d. “beni di club”13.
Infine, viene evidenziato il problema del credito. A questo proposito dobbiamo
sottolineare come la questione del finanziamento venga ritenuta rilevante ma non
preminente. Ciò può essere interpretato ricorrendo ad alcuni elementi già emersi: da un
lato, esiste la consapevolezza delle numerose opportunità dei mercato mentre,
dall’altro, proprio perché i progetti da portare avanti sono scelti a partire dai limiti
descritti – e quindi dalla scarsa possibilità di ricorrere a collaborazioni esterne per
sopperire alla mancanza di tempo – la dimensione finanziaria non sembra centrale fino a
quando non si introduce il tema di ciò che non si è riusciti a produrre.
“L’innovazione possiamo farla se troviamo un progetto o una necessità […]
(poi) facciamo rete, perché tanto le banche i soldi non ce li danno […].
13
I beni di club o categoriali sono beni il cui utilizzo è limitato ad alcuni gruppi. Tali beni, come nel caso dei servizi alle imprese o servizi per lo smaltimento di rifiuti per un settore produttivo particolarmente inquinante, possono essere il frutto della cooperazione tra soggetti economici ed estendersi, come nel caso della formazione, anche al mondo del lavoro.
39
Dobbiamo guardare al contrario, se guardiamo l’accesso al credito non
faremo mai innovazione forte” [imprenditore 11].
Come avevamo già messo in evidenza nel precedente rapporto, i limiti collegati con il
finanziamento bancario potrebbero essere superati ricorrendo a nuovi strumenti, come
il crowdfunding. Si tratta tuttavia di pratiche recenti e ancora poco diffuse in Italia.
“L’equity sta nascendo ora. Ed è l’unico modo, io ci credo. […] Per ora il
crowdfunfing è stato per cose molto artistiche, dal film, al video, al sociale,
non è ancora coniugato all’attività di produzione. Noi ci stiamo lavorando,
vorremmo qualcosa che colleghi, il crowdfunding per alle attività produttive”
[imprenditore 11].
In conclusione, quello che emerge dai focus grup è la presenza di un insieme di imprese
dinamiche e con buone prospettive di crescita. A differenza delle PMI manifatturiere
queste aziende mostrano una maggiore sensibilità nei confronti sia della necessità di
promuovere strategie collaborative sia rispetto al rapporto con le università e i centri di
ricerca, percepiti come soggetti chiave per consentire il consolidamento e la crescita del
cluster ICT. Tale collaborazione, favorita dal particolare settore di riferimento, potrebbe
consolidarsi soltanto attraverso un’azione sistemica che consentisse ai soggetti di
conoscersi tra loro e che incentivasse la creazione dal basso nuovi progetti.
Come abbiamo sottolineato nel precedente rapporto, il cluster pratese è cresciuto in
autonomia, all’ombra della crisi del distretto e senza una precisa “guida” istituzionale.
Tutto ciò, rappresenta oggi un problema. Il tessuto imprenditoriale locale mostra infatti
segnali di vitalità che devono essere sostenuti per favorirne il consolidamento e la
crescita, attraverso azioni di marketing territoriale, la produzione di beni collettivi e lo
stimolo di una nuova imprenditorialità. Tutto ciò richiede un impegno consapevole degli
attori collettivi locali nonché risorse adeguate. In altre parole, via via che lo sviluppo
procede, diventa più importante la “capacità di coordinamento consapevole e
intenzionale tra i diversi soggetti, e in particolare l’interazione tra attori collettivi
(governi locali, organizzazioni di rappresentanza degli interessi, associazioni)14”.
14
Trigilia (2005), op. cit, p. 21
40
41
3. Consolidare il cluster Ict: formare, connettere, innovare
Nei capitoli precedenti abbiamo descritto i due mondi dell’Ict pratese: quello delle
imprese predatrici, competitive su mercati extralocali, e quello delle imprese imbrigliate
in strategie di sopravvivenza al declino del distretto tessile. Per quanto diversi, questi
due mondi hanno molti punti di contatto. In questo capitolo si farà riferimento alle loro
somiglianze e differenze al fine di declinare un percorso di fertilizzazione dell’ecosistema
digitale pratese. Coerentemente con l’impianto di questa ricerca, la strategia qui
proposta è il risultato del confronto tra gli imprenditori e di discussioni con le scuole
secondarie pratesi, con rappresentanti di agenzie formative e dell’università. Tale
strategia può essere declinata in assi di intervento che, se resi operativi, potrebbero
contribuire ad eliminare le strozzature che impediscono al cluster Ict locale di decollare
definitivamente e, più in generale, aggiungere un altro tassello alla strategia di
diversificazione della specializzazione produttiva del contesto pratese. Gli assi individuati
sono tre: l’asse del formare, l’asse del connettere e l’asse dell’innovare. Per quanto il
perseguimento degli obiettivi di ciascun asse possa avvenire indipendentemente dalla
realizzazione degli altri due, la natura strettamente interrelata delle differenti
dimensioni fa sì che un intervento integrato sulle tre misure potrebbe creare delle
sinergie sul versante degli output e risparmio di risorse sul versante degli input. Per
rendere intellegibili le misure contenute in ciascun asse nel testo si farà ricorso ad
alcune buone pratiche nazionali e internazionali che, da tempo, si stanno
sperimentando nei paesi economicamente più sviluppati.
3.1. L’asse del formare
3.1.1 Il possibile contributo delle scuole al cluster Ict
Per comprendere il ruolo dell’istruzione secondaria nel formare competenze per il
settore Ict, alcuni rappresentanti di sei scuole superiori15 pratesi sono stati messi a
confronto sulle impressioni che gli imprenditori hanno dei giovani diplomati e degli
15 Le scuole che hanno partecipato sono l’ITIS Tullio Buzzi, l’IPSIA G. Marconi, l’ISIS Gramsci-Keynes, l’ITES P.
Dagomari, il Liceo Livi-Brunelleschi, e l’ISISS Cigognini-Rodari.
42
strumenti di alternanza tra scuola e lavoro. Gli imprenditori, infatti, da un lato, ritengono
le scuole corresponsabili dello scarso livello della formazione dei diplomati, sia di base
che specifica (ovvero quell’insieme di competenze a loro avviso necessarie per iniziare
da subito un percorso di collaborazione); dall'altro, evidenziano la carenza di
“competenze trasversali”, come l'autonomia decisionale e il rispetto dei tempi e dei
modi dello stare in azienda.
Il confronto è avvenuto attraverso la tecnica del focus group che, in questo caso, aveva
un duplice obiettivo. Anzitutto, si voleva corroborare e dare maggiore corpo all’ipotesi
della distanza tra scuola e impresa, al fine di migliorare, anche attraverso la
sperimentazione di nuovi percorsi di alternanza, le competenze degli studenti. Il
secondo obiettivo, invece, voleva interrogare i docenti sugli spazi di autonomia che i
differenti istituti hanno per valorizzare le attitudini e le passioni degli studenti, anche
attraverso un maggiore coinvolgimento di imprese e associazioni di categoria.
3.1.1.1. Migliorare le competenze degli studenti
Il focus group sulle scuole ha messo in evidenza come i docenti siano pienamente
consapevoli dei cambiamenti, sociali e antropologici, che le tecnologie informatiche e di
comunicazione producono negli studenti e di come queste trasformazioni influenzino in
maniera significativa tanto le modalità di apprendimento degli studenti quanto la
distanza cognitiva che separa docente e discente.
“Hanno una dimestichezza che noi non abbiamo. Hanno un’altra confidenza,
un altro modo. Vanno d’istinto non leggono” [insegnante scuola 2].
“Anche con gli schemi più lunghi alla lavagna funziona così, ascoltano e poi
fanno la foto. Loro sono tranquillamente abituati ad usare i computer, hanno
un altro rapporto con la tecnologia” [insegnante scuola 1].
“C’è il superamento della lingua, è una lingua diversa” [insegnante scuola 4].
Così, nonostante emerga la necessità di una solida formazione di base, sia matematica
che umanistica, i docenti percepiscono pienamente la profondità del cambiamento in
atto.
“Spesso il nostro metodo è obsoleto, non siamo più adatti, gli ultimi anni
dovremmo fare qualcos’altro” [insegnante scuola 3].
D’altra parte i docenti ascoltati tengono a introdurre delle distinzioni che superano il
semplice approccio anagrafico, individuando responsabilità ascrivibili ad alcuni
professori che, a loro avviso, influenzano in maniera negativa il livello di competenze
potenzialmente raggiungibile e la capacità di stimolare gli studenti più reattivi.
“Facciamo la nostra parte in base a come ci poniamo: possiamo essere più
vicini alla realtà o ai libri di testo. […]. Io vedo che gli ingegneri che fanno la
43
libertà professione e vengono ad insegnare a scuola con esempi pratici, cose
attuali, suscitano un certo interesse. […] Se non stimoli i ragazzi e gli fai capire
anche la soddisfazione nel superare un problema, i ragazzi preferiscono
abbandonare. Noi facciamo una bella differenza” [insegnante scuola 1].
“Poi anche noi dobbiamo auto-criticarci. Ci sono colleghi che non che non
vogliono cambiare nemmeno libro di testo. Insomma, questo è un nostro
limite” [insegnante scuola 6].
Allo stesso tempo, però, emerge anche la consapevolezza di come la scuola occupi un
ruolo di rilievo nella valorizzazione degli studenti più motivati:
“Io insegno corsi programmatori, ci sono ragazzi che hanno passione e vanno
oltre il corso e ti stupiscono. Ci sono ragazzi svegli, ma dipende dalla passione
e sono pochissimi e sempre meno” [insegnante scuola 2].
“Se ce ne sono 4-5 in una classe di 30 sono tanti. Poi dipende tanto dai
professori. I ragazzi rispondono agli stessi argomenti in maniera differente,
come resa e attenzione” [insegnante scuola 1].
Come possiamo notare, si tratta di ragionamenti già emersi nel confronto tra
imprenditori, che segnalano come i tempi siano oggi maturi per una nuova integrazione
tra scuola e impresa. Lo scarto che emerge tra le considerazioni degli imprenditori e il
confronto con i docenti è infatti più contenuto di quanto si creda: spesso, infatti, le due
realtà non conoscendosi sono esposte al rischio del pregiudizio. Analogamente a quanto
osservato in precedenza, se l'obiettivo è quello di un creare un ambiente più favorevole
al dialogo tra scuola e impresa, si palesa la necessità di un soggetto terzo, capace di
connettere mondi diversi.
A tal proposito, due sono le questioni rilevanti. Da un lato, è emersa la consapevolezza di
come la nozione allargata di ecosistema digitale possa rappresentare un nuovo terreno
di crescita anche per quelle scuole che, a causa del carattere prevalentemente
manifatturiero delle produzioni locali, sono rimaste negli anni meno recenti ai margini
della formazione. In questa prospettiva, la crescita del settore dei contenuti può
valorizzare le competenze di studenti con una formazione umanistica, letteraria o
alberghiera, come ad esempio avviene nel caso delle guide multimediali per i musei o
dei food blogger.
“Tante cose sono legate all’apparato moda, che era la nostra scuola prima.
Adesso ci stiamo formando su grafica, moda, architettura e ambiente. Chi fa
moda fa stage di 2-3 settimane e molti vengono assunti. In più noi abbiamo
un contatto continuo con le aziende […]. C’è una rete (di imprese) che deve
essere consolidata e ampliata, perché (le specializzazioni in) grafica e
ambiente (sono recenti), settori nuovi non ancora consolidati” [insegnante
scuola 4].
44
Dall’altro, viene evidenziato il ruolo delle imprese nel valorizzare le competenze e le
passioni degli studenti, anche al fine di promuovere una nuova imprenditorialità.
“C’è un diverso grado di coinvolgimento tra realtà lavorative e insegnamento
e i ragazzi vengono influenzati in maniera positiva” [insegnante scuola 1].
Si tratta quindi di potenziare le esperienze superando il generico rapporto tra scuola e
mondo del lavoro, anche attraverso l'utilizzo di un sistema strutturato di monitoraggio,
valutazione e diffusione di buone pratiche. Le imprese, infatti, hanno espresso esigenze
precise rispetto alle competenze di base, di ingresso e a quelle trasversali. Dal canto
loro, le scuole sono consapevoli dei limiti di un approccio “tradizionale” tanto
nell’insegnamento quanto nel rapporto con le aziende del territorio. A questo proposito,
una rilettura critica del tema dell’alternanza scuola/lavoro potrebbe favorire il matching
nel mercato del lavoro, aumentando così l’occupabilità dei soggetti e la soddisfazione
delle imprese. Si tratta di suggerimenti che la stessa Unione europea ha messo al centro
delle proprie riflessioni, affinché “la cultura del lavoro abbia più spazio in tutti i percorsi
di istruzione e formazione”16. L'alternanza viene quindi vista come uno strumento utile
per consentire l'acquisizione di competenze spendibili nel mercato del lavoro, per
valorizzare le vocazioni personali, gli interessi e gli stili di apprendimento e per correlare
l'offerta formativa allo sviluppo culturale, sociale ed economico del territorio (D. Lgs. n.
77/2005). In questa prospettiva, è stata oltretutto prevista la costruzione di poli tecnico-
professionali attraverso accordi di rete tra istituti tecnici, istituti professionali, centri di
formazione professionale accreditati e imprese (D. Lgs. n. 13/2013).
Ma ripensare al ruolo dell'alternanza significa anche mettere in discussione delle
pratiche consolidate nei rapporti tra singoli docenti e imprenditori. A questo proposito,
potrebbe essere interessante ragionare su una prospettiva micro che metta al centro i
singoli studenti come agenti di cambiamento. In un simile approccio, il monitoraggio e la
valutazione dei percorsi dei alternanza dovrebbe partire dai singoli studenti,
consentendo così di valutare, da un lato, lo scarto tra la preparazione fornita dalle scuole
e quella richiesta dalle imprese – con meccanismi di feedback sui programmi dei docenti
– e, dall'altro, le aspettative e le competenze trasversali apprese durante il percorso.
3.1.1.2. Ripensare l’alternanza scuola/lavoro per agire sull’imprenditorialità
Favorire la partecipazione degli imprenditori alle lezioni può essere utile per avvicinare
gli insegnamenti ai nuovi linguaggi e contenuti, per stimolare gli studenti e quindi, in
maniera indiretta, per agire sull’imprenditorialità. A questo proposito i docenti mettono
16
Indire (2013), Costruire insieme l’alternanza scuola-lavoro, pag. 4.
http://www.indire.it/scuolavoro/consultazione/?page_id=48
45
in evidenza come, la vicinanza del mondo delle imprese, anche durante i periodi di
stage, risulti rilevante.
“Con gli stage abbiamo risultati positivi. I ragazzi rispondono in maniera
migliore che in classe. Ragazzi annoiati che fanno il minimo indispensabile in
azienda fanno bene, la scuola di ora è un po’ lontana dalle esigenze dei
ragazzi di oggi che sono bloccati in aula mentre in azienda si muovono,
cambiano” [insegnante scuola 2].
“Probabilmente sentono l’importanza del periodo, perché è breve,
l’importanza dell’esperienza, la novità con persone che non conoscono. La
vivono come una nuova esperienza” [insegnante scuola 1].
Nonostante ciò, tale consapevolezza si scontra con due limiti. Il primo, di natura
organizzativa, riguarda le scuole; il secondo, di natura relazionale, si riferisce al rapporto
con le imprese. Quanto al primo punto, dal confronto tra i docenti emergono limiti
connessi con le risorse, sia economiche che organizzative:
“Mercato è flessibilità e innovazione, le scuole devono adattarsi: io vedo che
a scuola ci mancano sempre, per essere flessibili e innovativi, i soldi”
[insegnante scuola 6].
“C’è da parte dei docenti una mentalità chiusa, questo sicuramente”
[insegnante scuola 5].
“La scuola non è pronta. C’è un blocco di persone con una predisposte a non
cambiare. […] è mancata la continuità ed i nostri insegnanti non hanno
neanche cercato…si sono adeguati” [insegnante scuola 3].
“Ho visto anche un’altra cosa, tante iniziative, tante cose nuove sono sulle
spalle di pochi e spesso precari. […] Ma anche noi docenti, dobbiamo sapere
come funziona e bisogna essere formati. Spesso queste cose che sono a costo
zero vengono messe sulle spalle di chi ha voglia. Voglio essere un po’ cattivo,
chi ha le spalle coperte e sta tranquillo dice io ho il mio libro non mi rompete
le scatole e le spese le fanno i ragazzi” [insegnante scuola 1].
Tuttavia, nonostante i docenti siano ben consapevoli delle insufficienze delle strutture
scolastiche, il ridimensionamento della distanza dagli imprenditori e la creazione di un
raccordo sistemico tra mondo del lavoro e scuola, che eviti una concorrenza tra gli
istituti per stringere accordi con le imprese, pare essere oramai un'esigenza
inderogabile.
“Un po’ questo ma dall’altra parte, anche le aziende ci hanno un po’
abbandonato, sì noi li mandiamo a fare gli stage, ma ripeto, finisce lì”
[insegnante scuola 1].
“Questa flessibilità ce la deve dare anche il mondo dell’impresa […] in modo
che anche i ragazzi sentano questa vicinanza dell’impresa, dell’industria e del
mondo artigianale. Per ora siamo due cose staccate” [insegnante scuola 6].
46
Emergono allora degli spazi di collaborazione che possono avvantaggiarsi degli strumenti
dell’alternanza scuola/lavoro per sperimentare percorsi triennali di formazione. A questo
proposito, tanto le imprese quanto le scuole hanno mostrato segnali di disponibilità.
Tutto ciò potrebbe inoltre stimolare la creatività e l’intraprendenza degli studenti più
interessati. Dal confronto emergono infatti due strategie differenti ma integrabili. La
prima, ha l’obiettivo di portare l’impresa dentro le classi – e non solamente nelle scuole
- mentre la seconda, attraverso azioni specifiche, vuole valorizzare le competenze dei
singoli studenti.
“(Gli imprenditori vengono) in aula magna, con una decina di classi davanti,
quindi non c’è un rapporto più vicino, con domande, scambi. Fanno il loro
intervento, magari di 2 ore, ma molto distante” [insegnante scuola 2].
“Sì è vero, ma qualche volta l’ho pensato anche io. Li portano in aula magna,
sono 200, non sono preparati per l’intervento. Se le cose fossero fatte bene, e
anche l’intervento fosse mirato….”[insegnante scuola 3].
“Mi sembra che questo concetto dell’alternanza scuola lavoro non è stato
capito bene, anche dagli insegnanti. E quindi questi interventi di preparazione
vengono visti come una cosa remota. E questo è anche colpa della scuola che
deve innovare da questo punto di vista. Non ce l’abbiamo ancora fatta”
[insegnante scuola 6].
“C’è un lavoro di preparazione da fare che è piuttosto grosso. Se un
imprenditore viene e ci parla anche più di una volta … mi piacerebbe un
percorso più continuativo, ma va inserito in un contesto di preparazione.
Perché sennò rimane sempre fine a se stesso. Qui siamo noi scuola, ed è forse
il nostro punto debole: non siamo ancora pronti a questo” [insegnante scuola
3].
Si tratta quindi di ripensare i percorsi di incontro, con docenze specifiche e riservate ad
alcune classi, agendo allo stesso tempo, anche grazie al coinvolgimento dei docenti più
motivati, sulla valorizzazione delle attitudini degli studenti.
“Lo scorso anno hanno vinto il primo premio per la costruzione di una
bicicletta servoassistita in un contest regionale. Dietro però c’era un
ingegnere che faceva la libera professione. Sono figure che hanno
un’esperienza extrascolastica” [insegnante scuola 1].
In seconda battuta, avvicinare l’impresa alle classi può agire a livello di competenze
trasversali e di ingresso.
“Comunque i ragazzi hanno bisogno di sentir parlare persone non tanto sulla
tecnologia e i nuovi software, anche, ma hanno bisogno di capire
l’organizzazione dell’ufficio, come si fanno le cose, se la busta paga è
veramente così come hanno insegnato, le piccolezze, l’organizzazione”
[insegnante scuola 3].
47
Da un lato, infatti, anche gli studenti meno inclini al settore, possono venire stimolati
dalla presenza di imprenditori – spesso giovani – nelle classi; dall’altro, quegli stessi
imprenditori possono ridurre le asimmetrie informative con gli insegnanti, migliorando
le competenze necessarie per entrare subito in azienda.
In conclusione, dal confronto emerge la disponibilità delle scuole a intraprendere nuove
relazioni con le imprese. Così, sebbene permangano limiti organizzativi e resistenze
prevenienti da alcune figure interne, la necessità di instaurare un nuovo rapporto con le
aziende pare essere una questione inderogabile. Tale prospettiva, anche al fine di
migliorare la qualità del mercato del lavoro locale, sembra incontrare anche il favore
degli imprenditori.
Nonostante ciò, emergono, seppur in maniera indiretta, alcune criticità rilevanti. Pur
evidenziando la necessità di un soggetto di mediazione, capace di mettere in contatto
sfere diverse facendo circolare informazioni e fiducia, nessuno dei gruppi di partecipanti
ha infatti chiamato in causa i governi locali o gli attori collettivi – associazioni di
categoria e sindacati -. Si tratta di un tema rilevante perché una nuova strategia
finalizzata alla promozione di nuovi percorsi di alternanza, al monitoraggio e alla
valutazione degli esiti formativi, alla diffusione di buone pratiche e al coinvolgimento
sistemico di studenti, docenti e nuovi imprenditori non può basarsi su decisioni
individuali ma deve essere sostenuta da un approccio sistemico che coinvolga le
istituzioni nel loro complesso. In altre parole, oltre a un maggiore dialogo tra mondo
della formazione e imprese, ciò che sembra mancare è un ruolo più attivo delle
organizzazioni collettive pubbliche e private.
Infine, come abbiamo anticipato nel secondo capitolo, in una prospettiva di
consolidamento e crescita del cluster, il ruolo degli studenti può essere cruciale.
Avvicinare il mondo dell'impresa a quello della scuola e dell'università non significa
infatti favorire soltanto la diffusione di nuovi linguaggi e contenuti ma permette anche
agli studenti di intravedere una prospettiva diversa: quella dell'impresa. In altre parole,
un ripensamento dei percorsi di alternanza scuola/lavoro, la maggiore presenza di
imprenditori – sia nelle classi sia in altri ambiti dedicati a valorizzare le caratteristiche dei
soggetti più motivati -, unita alla consulenza e al sostegno – anche finanziario – di un
soggetto terzo, può stimolare la nascita di nuove aziende agendo sulla leva
dell'imprenditorialità. Si tratta quindi non soltanto di ampliare il bacino di soggetti
specializzati ma anche di immaginare come formare nuovi imprenditori.
3.1.2 La formazione professionale come vettore di innovazione
Il tema del mercato del lavoro locale non riguarda solamente i diplomati e i laureati. In
un’ottica di consolidamento del cluster e di trasferimento delle conoscenze Ict alle
imprese manifatturiere o di servizi, anche la manodopera meno qualificata, che
48
fuoriesce dal mercato del lavoro, potrebbe diventare un vettore di innovazione
attraverso percorsi formativi dedicati e focalizzati sui temi dell’Ict.
“La cosa che ci ha reso la vita difficile è che la Regione Toscana, e poi anche le
province, per la precedente fase di programmazione e quella in corso, non
hanno dato priorità al settore Ict. Passava avanti tutta la progettazione di
tipo artigianale: pasticceri, fornai, estetisti, parrucchieri e così via. Questo
anche perché c’è l’idea di fondo che chi è uscito dal mondo della produzione
tessile abbia una bassa scolarizzazione e capacità solo manuali e quindi non
possa fare un’attività concettuale come l’informatica. Abbiamo sofferto
questa mancanza di risorse e non è stato possibile crescere, rimanendo con le
relazioni all’interno del territorio e con la piccola parte di risorse dedicate
abbiamo potuto fare corsi finanziati sull’Ict” [responsabile agenzia
formativa].
In questa prospettiva, anche i soggetti attualmente al di fuori del mercato del lavoro
potrebbero trasformarsi in “promotori” capaci di trasferire nuove conoscenze a imprese
tradizionali o di piccole e piccolissime dimensioni. Tutto ciò consentirebbe di agire sul
miglioramento della competitività delle imprese locali e sull'allargamento del mercato
per lo sviluppo e la diffusione di tecnologie Ict.
“Questo perché c’è il mito che l’informatica non dia un lavoro subito, ma non
c’è solo l’informatica di base. Ci sono figure professionali che magari non
serve un corso di 40 ore ma magari un corso di qualifica di un anno. E lì si che
ci sono richieste” [responsabile agenzia formativa].
La predisposizione di bandi che possano consentire a soggetti fuoriusciti dal mercato del
lavoro di ritrovare un’occupazione e, attraverso le competenze acquisite durante i
percorsi di formazione, contribuire all’incremento della competitività delle imprese
locali richiede necessariamente un cambio di prospettiva. In questa logica, due sono gli
elementi chiave. Anzitutto, come osservato in precedenza, una simile strategia richiede
la definizione di percorsi chiari e la valutazione degli interventi da parte degli attori
collettivi. In secondo luogo, accanto agli investimenti in infrastrutture, l’intervento
pubblico può avvenire anche attraverso la programmazione di una formazione specifica
che accanto al tema dell’occupabilità affianchi quello della crescita delle imprese locali
attraverso investimenti adeguati in capitale umano.
3.1.3. I laureati in informatica: pochi quanto preziosi
Anche nell’evenienza in cui la formazione scolastica e professionale si perfezionasse
nella direzione di una maggiore focalizzazione rispetto all’ecosistema digitale pratese,
per completare e risolvere il problema della carenza di risorse umane si dovrebbe
affrontare il tema della formazione universitaria. Su questo versante si può innanzi tutto
sostenere che, attualmente, la domanda di laureati da parte delle imprese del cluster Ict
49
pratese è inferiore a quella dei diplomati e, allo stesso tempo, prevalentemente
riconducibile alle imprese predatrici. Queste ultime imputano al sistema formativo
universitario due tipi di criticità. In primo luogo, tali aziende ritengono che i programmi
universitari non siano adatti alle esigenze del mercato.
“Il problema è trovare risorse qualificate. Le università italiane sono ottime
ma non molto pratiche. Quando uno esce, se non si è dedicato per conto suo
allo studio di altre cose, non sa fare niente. Alcune volte prendiamo stagisti,
anche molto ben laureati, con l’intento di formali e assumerli, ma dopo 3-6
mesi, quando escono dallo stage sono ancora molto acerbi” [imprenditore 3].
In secondo luogo, pongono il problema della scarsità delle risorse umane. I laureati in
ingegneria informatica sono pochi, così come scarse sono le altre figure richieste da
imprese dell’Ict che non fanno riferimento alla semplici programmazione informatica.
“Noi puntiamo più su laureati con competenze diverse in campo umanistico:
storici dell’arte, gente che sa scrivere, ci servono grafici, sviluppatori
software. Ci servono anche figure molto specializzate, come l’exibit designer,
ma quelle si trovano soltanto all’uscita da un master che forma 40 persone
l’anno in Italia” [imprenditore 6].
Il primo problema entra nel merito del tipo di formazione che un’università deve fornire.
In proposito, le imprese e docenti condividono l’opinione che l’università italiana ha un
livello di professionalizzazione più basso rispetto ad altri istituti stranieri. Tuttavia, il
carattere generale e teorico della formazione universitaria, tanto criticato dalle imprese,
è difeso dai docenti perché, a loro avviso, ha l’obiettivo di fornire agli studenti quelle
basi che permettano loro di tenersi costantemente aggiornati in un panorama
tecnologico molto vasto e in continua evoluzione.
“Noi facciamo il nostro meglio, ma quello che uno studente laureato sa, a
distanza di due anni, è inevitabilmente inutilizzabile. Io ogni anno cambio il
10-20% del mio programma per andare incontro alle evoluzioni della
tecnologia, ma è una battaglia persa, sarà sempre una battaglia persa, l'Ict
va talmente veloce che anche noi si rimane indietro. L'università non deve
dunque insegnare solo il java o il nuovo java, deve insegnare a studiare bene,
da solo, è questo che sanno fare i nostri studenti, che poi si devono tenere
aggiornati da soli, leggendosi i manuali che servono. Si devono insegnare i
paradigmi, poi ogni posto di lavoro ha bisogno di linguaggi diversi”[docente
universitario].
D’altra parte, sia l’ateneo che i singoli docenti riconoscono l’insufficienza di relazioni con
le imprese, sia sul fronte della declinazione dei programmi che per migliorare
l’articolazione dei tirocini, degli stage o delle tesi di laurea. Questo problema era stato in
passato risolto attraverso l’istituzione di una Commissione di indirizzo aperta alle
imprese che aveva il compito di accrescere l’aderenza tra le esigenze del sistema
produttivo e i corsi universitari. D’altra parte, questa sperimentazione non ha avuto
50
molta “fortuna”, dato che la Commissione del corso di laurea in Ingegneria informatica
dell’Università di Firenze è stata riunita una sola volta dalla sua costituzione. Anche un
secondo strumento, di diversa natura, adottato dall’ateneo fiorentino per incrociare la
domanda con l’offerta di lavoro a valle del processo formativo, non ha manifestato
l’efficacia attesa. Si tratta del servizio di incontro tra laureati e imprese, conosciuto a
Firenze come Career Day, molto gradito dal punto di vista dei partecipanti ma
scarsamente efficace sul versante dell’Ict. Basti pensare che dei 1.544 iscritti all’evento
del 2013 soltanto 17 studenti erano laureati in ingegneria informatica o in ingegneria
dell’informazione.
Per quanto queste due criticità siano rilevanti, il problema effettivo della forza lavoro
qualificata sembra essere un altro. Dai colloqui con i docenti universitari e dai dati sugli
iscritti e gli occupati disponibili emerge infatti è una situazione di carenza strutturale
dell’offerta. Ogni anno in Toscana si iscrivono ai corsi di laurea di ingegneria informatica
circa mille studenti, di cui più della metà risultano immatricolati nell’ateneo pisano, uno
su cinque in quello fiorentino e poco più di uno su 10 a Siena. Si tratta di un bacino
piuttosto importante che, tuttavia, si esaurisce rapidamente. I dati AlmaLaurea sulla
condizione occupazionale dei laureati in Ingegneria dell’Informazione segnalano infatti
uno scenario netto quanto insolito per i laureati italiani. Nel 2011 l’Università di Firenze
ha laureato 34 studenti magistrali e 143 triennali (il 78% dei quali ha continuato il
percorso specialistico). Di questi 177 giovani, il 30% già lavorava durante i corsi
universitari, spesso svolgendo piccoli lavori utilizzando la partita iva, mentre buona
parte di quelli laureati ha trovato lavoro poco dopo la conclusione del percorso di studi.
Tra i laureati triennali, il tempo medio che intercorre tra la ricerca del lavoro e
l’assunzione è di 1,6 mesi, mentre tra i laureati specialistici questo periodo di tempo si
riduce ulteriormente a 0,9 mesi. Nel 2012, a un anno di distanza dalla laurea, solo 3 dei
34 laureati magistrali stava ancora cercando lavoro (tab 2).
I numeri presentati mostrano chiaramente che le competenze qualificate in ambito
informatico sono scarse quanto preziose. Ciò accresce la forza contrattuale dei laureati e
la competizione tra le imprese per aggiudicarsi gli studenti migliori. Gli effetti di questa
condizione insolita di questo tipo di laureati ha un duplice effetto. Da un lato, squalifica
alcuni strumenti di matching domanda/offerta di lavoro utilizzati dalla Regione Toscana,
nello specifico i tirocini retribuiti, che offrono un compenso troppo basso perché possa
essere preso in considerazione da questi neodottori. Dall’altro, fa sì che le imprese più
grandi e prestigiose, che intrattengono relazioni dirette con i docenti universitari,
precettino gli studenti migliori, offrendo loro una tesi di laurea in azienda e,
successivamente, proponendo loro un impiego retribuito. Questa condizione spiega
anche la scarsa qualità che alcuni imprenditori riscontrano nei laureati: i laureati ancora
sul mercato risultano infatti mediamente meno qualificati di quelli che lo hanno già
trovato attraverso contatti diretti o che sono attirati dalle posizioni di prestigio offerte
51
dalla grandi imprese locali e extralocali; gli strumenti di matching tra domanda e offerta
di lavoro successivi alla laurea organizzati dalle università sono strumenti spuntati in un
mercato dinamico come quello dei programmatori.
Tabella 2 - Condizione occupazionale dei laureati di Ingegneria dell'informazione dell'Università di Firenze (2011)
Laureati corso triennale (n = 143) Laureati corso specialistico (n = 34)
Lavora e non è iscritto alla specialistica 18,7% Lavora 77,4%
Lavora ed è iscritto alla specialistica 23,1% Non lavora e non
cerca
12,9%
Non lavora ed è iscritto alla specialistica 55,2% Non lavora ma cerca 9,7%
Non è iscritto alla specialistica e cerca
lavoro
3,0%
Tempo dalla ricerca al lavoro (in mesi) 1,6 0,9
Fonte: AlmaLaurea
La carenza di offerta di lavoro introduce dunque il problema di come riuscire ad attirare
laureati altre parti della Toscana o da altre regioni e, di conseguenza, apre al tema
dell’attrattività del contesto pratese per figure professionali che, anche fuori dall’area
metropolitana, riescono facilmente a trovare un’occupazione sia vicino ai contesti dove
abitano che in città più attrattive per l’Ict, come Milano, Torino, Pisa e la stessa Firenze.
Sul piano delle politiche appaiono pertanto rilevanti due tipi di misure:
tentare di accrescere il numero di iscritti alla facoltà di ingegneria dell’informazione
sensibilizzando quanto possibile gli studenti medi pratesi al settore e facendo leva
sui rendimenti occupazionali del titolo di studio;
connettere le imprese del territorio con i docenti universitari e i dipartimenti per
creare quei legami che potrebbero condurre a veicolare verso il territorio la prima
scelta dei laureati;
rendere più attrattivo il territorio, in modo tale che i giovani dell’area metropolitana
non se ne vadano altrove e che, a parità di offerta di compenso, i giovani che vivono
lontano trovino stimolante scegliere Prato come città in cui lavorare.
Per quanto riguarda invece il tema dell’inadeguatezza delle competenze dei laureati alle
richieste degli imprenditori sarebbe opportuno, da un lato, che si agisse per una
maggiore integrazione tra mondo accademico e imprese sul piano dei programmi,
azione che può passare da una maggiore pressione di quest’ultime o dei loro
rappresentanti direttamente sui dipartimenti universitari; dall’altro, per un’azione
52
congiunta delle imprese, in accordo con le università o altre istituzioni preposte, per
formare i laureati sulle tecnologie e i linguaggi programmatori più recenti e più utilizzati.
In quest’ultimo ambito si segnala l’efficacia di alcune esperienze di master universitario
(es. il Master in Multimedia proprio dell’Università di Firenze) che, anche grazie al
coinvolgimento diretto delle imprese nei corsi e negli stage, sta soddisfacendo
egregiamente le esigenze di alcune imprese pratesi più vicine questo specifico ambito
dell’Ict.
3.2. L’asse del connettere
Tra le molte cose che sappiamo delle imprese predatrici e delle imprese imbrigliate una
distinzione centrale riguarda le loro reti di relazione e la loro propensione alla
collaborazione. Per definizione, le seconde detengono una prevalenza di reti corte
mentre le prime dispongono di una mix di reti corte e lunghe e, allo stesso tempo, non
sembrano distinguere il confine tra il mercato locale e il mercato metropolitano. In ogni
caso, se pur con livelli diversi, entrambi i due tipi di impresa registrano scarsi livelli di
collaborazione all’interno del cluster.
Il grafo sotto riportato rappresenta l’insieme di collaborazione formali (archi rossi) e
informali (archi neri) che le imprese pratesi (nodi in rosso) intrattengono con altre
imprese dell’area metropolitana (rosso chiaro), regionali (giallo), nazionali (celeste) o
internazionali (blu). Anzitutto, il grafo mostra la presenza di un gruppo di imprese
isolate, ovvero aziende di piccola dimensione, con fatturati modesti, che competono sul
mercato locale facendo affidamento prevalentemente a risorse esterne. A questo primo
idealtipo di impresa se ne aggiunge un secondo, contraddistinto da aziende di piccole
dimensioni con collaborazioni di corto raggio con altre imprese prevalentemente locali,
relazioni diadiche limitate e occasionali che si compongono e scompongono a seconda
dei clienti da servire. Un terzo tipo di reticoli sociali presenti sul territorio riguarda
invece quelle imprese che hanno reti prevalentemente metropolitane composte da
imprese esterne al settore Ict; in questi casi, si tratta spesso di clienti con cui le aziende
del cluster collaborano per lo sviluppo di prodotti o servizi. Un quarto tipo di reticolo è
quello di due imprese che bypassano completamente il territorio, caratterizzandosi
esclusivamente per reti nazionali o internazionale. Infine, i reticoli più complessi sono
addensati alle imprese relazionalmente più strutturate e a cui è riconosciuta anche una
leadership tecnologica. In questo caso due delle quattro reti più articolate, localizzate al
centro del grafo, riguardano le software house tradizionalmente legate a doppio filo al
tessile pratese che, evidentemente, mutuando una modalità di funzionamento
distrettuale, possono disporre di un capitale relazionale denso e composito.
53
Figura 2 - Le reti formali e informali delle imprese del cluster pratese dell'Ict
La rete più grande è tuttavia quella che ruota attorno ad alcune imprese predatrici, che
coltivano molte relazioni informali con altre imprese locali dell’Ict, oltre che con player
di spessore nazionale. L’ultimo dei network più strutturati include infine un’impresa
locale di telecomunicazioni, che beneficia di legami lunghi con altri operatori del settore.
Sebbene le imprese isolate siano una minoranza rispetto a quelle che invece
intrattengono relazioni con altre imprese ciò che il primo grafo restituisce è un reticolo
molto frammentato. Spesso le imprese dell’Ict locale non si conoscono o, nel caso in cui
la relazione sussista, essa non compenetra la dimensione di mercato, dando vita a
relazioni commerciali, ma rimane soltanto a livello informale e limitata al “semplice”
scambio di informazioni.
54
Figura 3 - Il network formale del cluster pratese delle Ict
D’altra parte, il secondo grafo mostra come, se si prendono in considerazione i soli
legami formali, ovvero quelli che hanno dato luogo a una collaborazione fattiva tra
imprese, i network delle imprese si restringono ulteriormente (Fig. 3). In particolare,
escludendo le relazioni formali, acquista un forte valore simbolico soprattutto la
frammentazione del network delle imprese predatrici in cinque componenti (Fig. 4,
grafo di destra).
Figura 4 – La sconnessione della componente delle imprese predatrici.
Come abbiamo mostrato anche nei capitoli precedenti, la difficoltà di sfruttare
economicamente la buona dose di capitale sociale di cui i singoli imprenditori
55
dispongono è compresente a una spiccata predisposizione alla cooperazione. Si tratta di
un paradosso che, col passare del tempo, è diventato sempre più marcato. Da una parte,
la velocità crescente e costante con cui le tecnologie e i mercati dell’Ict variano nel
tempo genera uno scenario di incertezza. Un esempio delle sfide a cui le imprese di
questo settore sono costantemente esposte è facilmente rintracciabile nella celerità con
cui le interfacce touch e le applicazioni per tablet e smarthpohone si sono affermate sui
mercati internazionali. La conseguenza di questa rivoluzione continua è che, in un lasso
di tempo ristretto, ogni impresa dell’Ict ha avuto l’esigenza di aggiornare le proprie
competenze per offrire ai propri clienti una versione rinnovata dei servizi forniti. Le
imprese che hanno saputo anticipare tale capacità hanno potuto beneficiare di un
vantaggio competitivo iniziale, che però si è eroso rapidamente nel tempo. Per
affrontare l’incertezza derivante dal ritmo incalzante della tecnologia informatica le
imprese hanno pertanto bisogno di costanti aggiornamenti, ma soprattutto di flussi
informativi che anticipino le tendenze in atto. L’esigenza di connessione matura dunque
dalla volontà di agganciare ancor meglio le reti lunghe che possono veicolare
informazioni non ridondanti rispetto agli andamenti del mercato e delle tecnologie. Ma
in un contesto frammentato come quello del cluster pratese, in cui le imprese adottano
strategie di specializzazione in nicchie di mercato, connettere potrebbe anche significare
la creazione di nuove opportunità di collaborazione tra aziende che dominano segmenti
tecnologici differenti.
Un secondo fattore, che spinge gli imprenditori a propendere maggiormente per la
collaborazione più di quanto abbiano fatto in passato, riguarda una nuova percezione
del mercato che, per alcuni servizi Ict, appare potenzialmente illimitato. La facilità con
cui si possono penetrare i mercati finali fa sì che, oggi più che mai, gli imprenditori
percepiscano che l’introduzione di un’innovazione nel mercato potrebbe condurli
all’idea giusta per la conquista di nuove fette di mercato nazionali e internazionali. Nel
settore Ict, la fluidità non caratterizza infatti soltanto le tecnologie, ma anche gli attori
che via via si presentano sulla scena nazionale o internazionale e che conquistano, per
un periodo più o meno limitato, la scena internazionale. Su questo versante basti
pensare al settore del gaming, poco sviluppato a Prato, ma in grado meglio di altri di
rappresentare il fenomeno delle “montagne russe” tra le imprese informatiche. Ogni
pochi mesi folle di consumatori cercano nuovi giochi con cui sfidarsi e, in poco tempo,
giovani startupper riescono a prendersi la ribalta internazionale e costruirsi una
reputazione milionaria grazie a un’idea creativa applicata alla sfera ludica. L’ultimo caso
è quello dell’italiano Riccardo Zacconi, che sta per quotare la sua società localizzata a
Londra presso la borsa di New York, grazie al successo del suo applicativo giocato ogni
giorno da circa 9,7 milioni di utenti in tutto il mondo. La storia di Zacconi, come quella
degli inventori di giochi come Ruzzle o Angry Bird, è destinata ad essere soppiantata a
breve sulla scena mediatica da quella di altre società. L’effetto “montagne russe” non
56
significa tuttavia che l’impresa di Zacconi (King.com), così come quelle che hanno
realizzato gli altri giochi citati (MAG Interactive e Rovio), sia destinata a scomparire dalla
scena economica, si tratta infatti di imprese che potranno valorizzare la loro reputazione
con altri lanci di mercato. L’estrema dinamicità del mondo digitale, descritta attraverso
l’esempio del settore del gaming, fa sì che gli imprenditori percepiscano la domanda
potenziale pressoché come infinità. Di conseguenza la propensione alla collaborazione
rispetto a un obiettivo comune orientato alla creazione di un’innovazione di prodotto
capace di conquistare mercati fluidi non può che far gola a molti. In altre parole, il mito
del miliardario che avvia la propria attività nel garage di casa, facilita la propensione alla
ricerca dell’innovazione dirompente e, nel caso in cui non si trovino le forze all’interno
della propria impresa, alla collaborazione.
Tuttavia, quanto abbiamo riscontrato nel contesto pratese è che questo stimolo
culturale non è di per sé sufficiente a generare collaborazioni effettive. In primo luogo, le
imprese più piccole hanno difficoltà a distogliere il fuoco delle proprie attività dalle
mansione ordinarie, quelle che sono generalmente svolte con un personale
sottodimensionato per il carico di lavoro richiesto. In secondo luogo, quando le
collaborazioni si sono effettivamente realizzate esse hanno generalmente avuto natura
occasionale. Inoltre, affinché collaborazione su fattori strategici possa avvenire, la
preoccupazione di eventuali comportamenti opportunistici richiede l’intervento di
istituzioni o attori volti a generare fiducia.
Questi tre fattori (carenza di risorse, occasionalità e rischio di comportamenti
opportunistici) hanno fino a oggi scoraggiato l’instaurarsi di effettive esperienze di
collaborazione e rafforzato il paradosso sopra delineato. Questa condizione porta le
imprese alla richiesta generalizzata di un intervento di un soggetto terzo, che abbia il
compito di promuovere nuove relazioni, dare continuità alle stesse e rendersi garante di
rapporti fiduciari. Per soggetto terzo gli attori ascoltati hanno inteso soggetti differenti:
un’organizzazione costruita specificamente, un professionista della mediazione e
dell’attivazione di reti o associazioni di categoria capaci di conciliare le esigenze delle
grandi con quelle delle piccole imprese.
Oltre al ruolo di mediatore, un soggetto di questo tipo avrebbe anche il compito di
connettere le imprese Ict con altri tipi di soggetti. Come mostrano alcune buone
pratiche sulla gestione di strutture di intermediazione, questi broker di relazioni
avrebbero infatti il compito di collegare le imprese con i centri di ricerca e con aziende di
altri settori, anche tradizionali, per le quali l’Ict potrebbe funzionare da tecnologia
abilitante. La connessione con i centri di ricerca e con le imprese tradizionali non deve
essere però considerata ancillare rispetto al lavoro di networking delle sole imprese Ict.
Se sapientemente orchestrati, i legami con i centri di ricerca potrebbero alimentare i
flussi informativi, lo scambio di risorse umane e il trasferimento di tecnologie sia dalle
università alle imprese che da queste ultime verso i centri di ricerca. La creazione di
57
partenariati con aziende tradizionali avrebbe poi l’importante obiettivo di accrescere la
produttività e l’innovazione in settori che attualmente incorporano scarsi livelli di
tecnologia. In quest’ultimo caso, il mediatore assumerebbe un ruolo simile a quello del
converter, molto conosciuto anche nel distretto tessile; avrebbe cioè il compito di
convertire un’idea, sua o del committente, in un prodotto coinvolgendo una rete di
subfornitori di fiducia ed organizzando la produzione del prodotto o del servizio dalle
prime fasi di ricerca e sviluppo fino al prodotto finito.
Quanto richiesto dalle imprese è dunque un’attività di clustering che sappia trasformare
il grappolo sconnesso di imprese attualmente presenti nel contesto pratese in una rete
densa di relazioni che costituiscano l’humus per la generazione di nuove idee e la
composizione e scomposizione di partnership tra aziende differenti per specializzazione,
dimensione e settore di appartenenza. E’ evidente che i principali beneficiari di attività
di questo tipo sarebbero le imprese più piccole, per l’appunto poco capaci di impegnarsi
per strutturare meglio la loro organizzazione.
Impegni di questo tipo non sono cosa nuova per le politiche toscane. In effetti, le misure
della Regione per costruire reti di ricerca e sviluppo, da un lato, e la creazione di
centri/poli di competenza, dall’altro, sono due delle iniziative che già tentano di mettere
in rete le imprese regionali. Tuttavia, tali interventi hanno, fino ad oggi, coinvolto
scarsamente il territorio pratese, ancora focalizzato a difendere e risollevare le sorti del
proprio settore tradizionale. Nel caso delle politiche di rete poi, queste hanno
sicuramente avvantaggiato alcune imprese, anche dell’Ict pratese, che grazie ai fondi per
ricerca collaborativa hanno potuto realizzare progetti di ricerca e sviluppo altrimenti non
finanziabili. Ma l’opinione diffusa tra gli imprenditori più coinvolti è che le
collaborazione incentivate dalle politiche siano state essenzialmente strumentali al
reperimento dei fondi. L’impressione è che, specialmente per le imprese più piccole, la
partecipazione alla compagine non garantisca necessariamente un arricchimento in
termini di nuove idee, competenze o generazione di output effettivamente condivisi. Al
contrario, la costruzione di partenariati tra imprese dell’Ict, e tra queste e imprese di
altri settori produttivi, attorno a esigenze comuni e, soprattutto, l’orchestrazione di un
progetto prima di un eventuale finanziamento ex-post potrebbe scardinare la scarsa
efficacia delle politiche riscontrata dagli imprenditori. In questo caso, il contributo
pubblico potrebbe servire a finanziare in minima parte le attività di scouting da parte del
“soggetto terzo” e, semmai, a irrobustire i programmi di public procurement, volti
all’acquisto selettivo dei prodotti o servizi sviluppati da questi partenariati al fine di
agevolarne l’accompagnamento al mercato. Tale politica, oltre a sostenere la domanda
di prodotti, avrebbe anche il beneficio di accrescere la produttività e la qualità dei servizi
del settore pubblico.
Nell’ottica di una politica di clustering dal basso e finanziata prevalentemente ex-post,
particolare attenzione dovrebbe essere prestata all’organizzazione dell’intermediazione;
58
questa dovrebbe avere caratteristiche professionali specificamente connesse con la
mediazione e lo scouting, ma anche con la padronanza del settore di riferimento, cosa
che potrebbe permettergli di riconoscere, prima di altri, le potenzialità della
connessione di due attori della rete al momento non connessi.
Le buone pratiche sul tema delle attività di networking sono molteplici. Tra queste, uno
degli interventi più rilevanti dal punto di vista sistemico è quello inserito nel polo di
competitività francese Cap Digital, che aggrega le numerose imprese, grandi e piccole, e
le università della regione parigina17. Questo polo, inevitabilmente di grandi dimensioni,
persegue una specifica funzione di networking che si espleta in una molteplicità di azioni
che vanno dalla costruzione di partenariati con le università per azioni congiunte di
ricerca e sviluppo a politiche più strettamente relazionali. Queste seconde sono
perseguite attraverso un programma specifico del polo, chiamato Think Tank, che mira a
creare scambi tra le imprese in maniera trasversale rispetto alle appartenenze settoriali.
Ciò avviene attraverso vari appuntamenti: il primo è il DigiBreakfast, una discussione
animata tra attori istituzionali e industriali con frequenza bimestrale; il secondo è il
DigiEvenings, ovvero delle conferenze serali, anch’esse con cadenza bimestrale,
organizzate dal polo su un tema specifico; il terzo appuntamento è invece basato su
gruppi di discussione sulle prospettive tecnologiche (come l’internet delle cose, il
pensare transmediale, il design dell’educazione, ecc.). Infine, CapDigital organizza anche
eventi aperti ad altre imprese e si impegna a far fluire informazioni sulle tecnologie e i
mercati attraverso delle riviste generaliste e specifiche (es. e-healt, tv interattiva, ecc.) a
cui le aziende del polo possono abbonarsi a prezzi agevolati.
L’esempio sopra riportato sulle buone pratiche di connessione ha senz’altro il vantaggio
della dimensione territoriale, di scala regionale, su cui il polo opera che permette di fare
massa critica rispetto alle competenze industriali e di ricerca. Più alto il numero di
aderenti, più diversificate le imprese che vi partecipano, più estesa la rete dei contatti
con i centri di ricerca, maggiore sarà la possibilità di far veicolare all’interno della rete
informazioni e contatti non ridondanti. Per tale ragione, questo tipo di attività potrebbe
essere realizzata su scala più ampia rispetto al solo territorio pratese, ma con specifica
attenzione alle esigenze delle sue imprese che, finora, sono state invece al margine della
politica regionale dei centri di competenza.
17
Per maggiori informazioni sul polo Cap Digital e sulle sue attività si veda il sito www.capdigital.com. Per una più generale comprensione del fenomeno dei pôles de compétitivité francesi e per una loro prima valutazione si veda Duranton G., Martin P., Mayer T., Mayneris F., (2008), Les pôles de compétitivité. Que peut-on en attendre?, Éditions Rue d’Ulm/Presses de l’École normale supérieure, Paris e BearingPoint France SAS, Erdyn, Technopolis Group-ITD (2012), Etude portant sur l’évaluation des pôles de compétitivité..
59
3.3. L’asse dell’innovare
La propensione all’innovazione è sicuramente una delle dimensioni che più spiegano la
differenza tra imprese predatrici e imprese imbrigliate. Le prime hanno più chiaro
l’ambito e le opportunità per introdurre nuovi prodotti e nuovi servizi sul mercato,
anche se, come abbiamo visto poco sopra e nel primo capitolo, possono incontrare
problemi di altra natura: come la difficoltà di confrontarsi con una domanda non
preparata a recepire tali nuovi prodotti o come il disorientamento rispetto a tecnologie
che cambiano rapidamente, che cela il rischio di investire troppo, o troppo poco, in un
ambito che potrà o meno beneficiare delle “montagne russe” a cui il mercato dell’Ict ci
ha abituati negli anni più recenti. I problemi riguardano dunque l’incertezza che ruota
attorno all’investimento in innovazione. Se questo vale per le imprese più grandi, le
imprese più piccole manifestano una più consistente difficoltà a trovare risorse,
finanziarie e umane, da poter impegnare in attività di progettazione e di ricerca e
sviluppo.
Le imprese predatrici hanno ben chiaro cosa manca al contesto cittadino:
“Il problema è creare un contesto adeguato […]. Per esempio un polo
tecnologico entro cui le aziende più piccole possono essere incubate e
possono crescere poi con le aziende più grandi, con una visione di mercato.
Serve un contesto per far crescere imprese innovative, con osservatori che
indicano alle imprese dove investire. […] Dove crescere a fianco a fianco, dove
c’è un humus o una cultura comune […]. Perché oggi le occasioni non
mancano, anche remunerative, se uno non le conosce e non sa cosa fare non
le coglie e magari si mette a fare anche cose molto difficili, ma che non
portano a niente. […] Io lo farei volentieri un polo con osservatorio e venture
capital, comitato scientifico, gente matta. Se l’ambito pubblico ci mette a
disposizione gli ambienti, parlo a titolo personale, glielo offriamo noi il polo
tecnologico“ [imprenditore 5]
L’idea di uno spazio fisico che faccia da ecosistema per l’invigorimento del settore,
caratterizzato dalla presenza di servizi dedicati all’Ict, da un osservatorio sulle tecnologie
e da strutture di incubazione per giovani startup, è giudicata positivamente dalla
maggior parte degli imprenditori intervenuti, specialmente se predatori. Ciascuno dà poi
la propria interpretazione delle caratteristiche specifiche e le funzioni che questo polo
dovrebbe avere:
“Sul polo tecnologico, ognuno può avere la sua opinione, la mia è molto
rivolta alle startup […]. Per una città e per un ecosistema penso sia utile
sviluppare aziende giovani e innovative. […] Quindi non per noi ma per le
imprese più giovani. Un incentivo a quel tipo di aziende anche se non è un
incentivo diretto per le nostre imprese è un incentivo per l’ecosistema, serve a
far avere maggiore cultura informatica, incentivare la formazione di nuove
competenze, anche perché noi recentemente abbiamo assunto anche persone
60
che vengono da fuori Italia perché ci sembrava di aver esaurito il bacino di
competenze disponibili. Ma uno che deve muoversi da Roma o da Milano è
più probabile che vada a Pisa, perché c’è un polo riconosciuto, di competenze,
o verso Firenze, che è il capoluogo, ma non viene certo a Prato. Mentre
magari con un polo tecnologico che dimostri di portare innovazione, di
portare aziende interessanti, dove si fanno attività sia di business che senza
scopo di lucro, allora potrebbe essere un attrattore. Io il polo lo intendo così,
dove fare conoscenze, generare, capace di generare marketing territoriale,
che attiri competenze e denaro. Magari potrebbe essere anche un luogo che
può catalizzare le risorse private che sono state risparmiate dagli imprenditori
prima delle crisi del tessile e che potrebbero essere oggi reinvestite in
tecnologia” [imprenditore 3].
“Riguardo all’incubatore/polo tecnologico, per noi oggi è davvero difficile
mettersi in partnership con molte startup, piccole imprese che fanno ricerca
all’interno dei poli o degli incubatori. Anzi di solito queste imprese sono chiuse
nel mettere sul tavolo le loro competenze, proprio per paura della grande
impresa possa sfruttarle. La difficoltà della relazione con queste strutture è
questa: i piccoli hanno un tasso di innovazione elevato ma hanno paura, le
grandi hanno grandi competenze commerciali ma magari una carenza
nell’innovazione nella capacità di fare ricerca e sviluppo che tanto costa
all’imprenditore. Pensare a un’entità super partes che permetta di conoscere
gli skills di ciascuno di noi sarebbe importante, noi conosciamo
superficialmente le imprese del territorio ma non sappiamo come utilizzarle”
[imprenditore 2].
“Sul polo, credo che serva qualcosa, chiamatelo polo tecnologico, chiamatelo
allenatore, ma serve qualcuno che dia continuità, che sia incentivato a
coinvolgere le aziende a proporre progetti e non che si fermi a una
collaborazione come adesso” [imprenditore 1].
“Non ho rapporto con l’università, ma lo riterrei basilare per la promozione di
strumenti, miglioramenti dei processi e dei rapporti tra le aziende […], ma
progetti sostanziosi. E applicati, poi, dalle aziende che ci sono sul territorio. Se
uno chiudesse il ciclo: uno pone le esigenze e le strategie, uno propone il
progetto vedendo quello che nel mondo c’è di meglio. La nostra azienda non
lo può fare, per questo servono i centri di ricerca. Se l’università prende i soldi
per un progetto e si ferma lì, senza riportarlo sulle imprese del territorio come
attuatori o sviluppatori non c’è prospettiva. Questa catena si crea in centri
appositi. L’incubatore doveva servire a questo. Mi dispiace che un centro
come Navacchio non sia nato qui, nella più grande realtà industriale della
toscana [imprenditore 8].
“Ho conosciuto aziende che partecipano all’incubatore di Navacchio, per
quello che ho visto mi sembra un’ottima iniziativa per creare sinergie e creare
competenze e risorse tecnologiche. Noi abbiamo competenze verticali,
61
confrontarci con altre competenze potrebbe essere utile, per nuove
collaborazioni” [imprenditore 4].
In altre parole, le imprese si rendono conto che la presenza di un polo in un territorio
può avere sia effetti diretti sull’innovatività delle singole imprese che effetti indiretti, con
la creazione di un ecosistema che alimenti identità locale e, a cascata, promuova la
cultura informatica, competenze imprenditoriale, preveda spazi per il coworking e faciliti
l’attrazione di risorse umane qualificata dall’esterno. Il riferimento al polo di Navacchio è
pervadente nell’esperienza e nell’immaginario degli imprenditori, tracciando così un
termine di confronto che deve inevitabilmente essere preso in considerazione. Ma a
Prato serve davvero replicare l’esperienza dell’incubatore di Navacchio?
Oltra a veicolare e rinnovare l’immagine della tradizione pisana su scala nazionale, il
polo di Navacchio offre servizi avanzati alle imprese tecnologiche, sia incubandole e
accompagnandole per tre anni di vita, sia ospitandone di già consolidate. Offre loro
l’accesso al network interno e esterno di relazioni, a specifiche fonti di finanziamento,
forma gli imprenditori e lo staff a tecniche di marketing, comunicazione e gestione delle
imprese, ha la possibilità di fornire servizi di asilo nido, mensa, foresteria. Si tratta di una
delle esperienze più avanzate in Italia, la cui crescita è stata negli anni fortemente
sostenuta da Regione Toscana, Provincia di Pisa e Comune di Cascina, nonché dal
radicamento nel territorio di un reticolo di relazioni intense tra mondo della ricerca e
imprese prima grandi e, successivamente, di più piccola dimensione. Si tratta dunque di
una buona pratica nazionale, che affonda la sua efficacia nella specializzazione
dell’incubatore e nella sua sostanziale pubblicità. L’accordo per la realizzazione del primo
lotto (6.700 mq) è stato sottoscritto nel 1996 e ha avuto un costo di 6,46 milioni di euro
(quasi equamente diviso tra i tre partner progettuali)18. Nei successivi diciassette anni
sono stati costruiti altri due lotti, mentre l’ultimo è in fase di realizzazione. In tutti i casi
si tratta di finanziamenti regionali integrati significativamente dall’esposizione creditizia
del Polo Navacchio Spa, società per azioni con un capitale sociali di circa 10milioni di
euro suddiviso tra Provincia di Pisa (46,75%), Comune di Cascina (46,01%), BCC di
Fornacette (6,23%) e Fidi Toscana (1,01%). Siamo quindi in presenza di un’iniziativa
finanziariamente significativa caratterizzata da un’esposizione rilevante degli enti locali e
che, per consolidarsi nel tempo, ha beneficiato di tre cicli di finanziamenti dei fondi
strutturali.
Volendo classificare questa esperienza, la si può definire come un incubatore di sviluppo
economico, ovvero una dei quattro tipi definiti da Barbero et al. 19 : incubatori
universitari, orientati alla ricerca di base e privati (corporate o indipendenti). Il primo
18
Cavallo C. (2002), Il polo scientifico e tecnologico di Navacchio. www.osservatoriossup.it/ 19
Barbero J.L., Casillas J.C., Wright M., Ramos Garcia A. (2013), Do different types of incubators produce different types of innovations?, in Journal of Technology Transfer, DOI 10.1007/s10961-013-9308-9 .
62
vantaggio di un incubatore orientato allo sviluppo economico è la pazienza
dell’investitore. In altre parole, si possono investire decine di milioni di euro senza avere
la pretesa che in pochi anni l’investimento debba essere ripianato. Il secondo vantaggio
è che l’interesse perseguito dall’investimento è di natura collettiva. Nel caso di
Navacchio, i fondi investiti hanno infatti generato un ecosistema innovativo che attira
imprese, talenti e promuove l’imprenditorialità, in un contesto dove la specializzazione
produttiva tradizionale era nel settore dell’arredamento per la casa. Oltre alla pingue
disponibilità finanziaria alla base di strutture come queste, che in Italia e all’estero
godono di specifici finanziamenti nazionali, questo tipo di investimenti sconta altre due
criticità. La prima riguarda la necessità di una governance istituzionale coesa che sappia
affezionarsi e vincolarsi a un progetto di lungo periodo, sul modello di quanto hanno
fatto, nel caso pisano, dal Comune di Cascina e dalla Provincia di Pisa. In secondo luogo,
è importante che la gestione del polo sia affidata a dei professionisti del settore,
persone capaci di intravedere le traiettorie di sviluppo tecnologico, ma soprattutto abili
a creare le condizioni e le relazioni per il consolidamento delle imprese insediate e
incubate.
La domanda è se un’esperienza simile sia oggi replicabile a Prato, una città che
attualmente sconta gli effetti dell’incertezza delle politica locale, dell’incertezza
istituzionale, dovuta all’imminente riforma delle province, dell’incertezza finanziaria,
dovuta ai ritardi nella programmazione dei fondi comunitari e, infine, dell’intenzione
manifestata dalla Regione di razionalizzare i centri regionali di trasferimento tecnologico.
La somma di questi fattori porterebbe a sostenere che l’idea di un polo tecnologico
sull’Ict a Prato sia scarsamente fattibile. Per tale ragione sembra opportuno avanzare
anche delle indicazioni di policy che, per quanto second best, possano garantire
maggiori livelli di fattibilità. Questa scelta implica, innanzi tutto, la necessità di
contenere quanto possibile l’investimento immobiliare iniziale e, in secondo luogo, di
trovare delle strutture di gestione meno vincolate all’impegno finanziario delle politiche
pubbliche. La necessità di contenere l’investimento iniziale potrebbe combinarsi con lo
stallo dell’iniziativa sul Creaf di Prato, immobile ristrutturato dalle istituzioni pubbliche
con fondi europei per ospitare il polo dell’innovazione nel settore tessile. In questo caso,
se la parte della struttura di oltre 11mila metri quadri che è oggi già disponibile ma
ancora non utilizzata potesse essere dedicata al settore Ict, la prospettiva della
realizzazione del polo tecnologico potrebbe, a nostro avviso, essere realisticamente
perseguita.
Per quanto riguarda il modello organizzativo, invece, assumendo che l’interesse
mostrato dalle imprese coinvolte nei focus group sia effettivo, allora potrebbe essere
preso in considerazione un altro modello di incubazione: quello privatistico
indipendente. Gli incubatori indipendenti privati sono un tipo di incubatori solitamente
creati da gruppi di individui o imprese il cui obiettivo è, anzitutto, quello di accrescere il
63
loro giro d’affari20. In questo caso, la compagine imprenditoriale che guida le imprese
investe direttamente il proprio denaro nelle startup e ne rileva una quota di
partecipazione. Per quanto adottino un modello gestionale simile, gli incubatori
indipendenti privati si distinguono dagli incubatori strettamente privati (cosiddetti
corporate) nella misura in cui i soggetti promotori possono essere molteplici. La ratio
dell’autosostentamento di tale modello organizzativo ha a che fare con la riscossione di
contributi di servizio o con il trattenimento di una percentuale dei ricavi da imprese
incubate o parte delle loro azioni. Lo scopo degli incubatori for-profit è dunque quello di
facilitare la rapida nascita di nuove imprese attraverso la condivisione dell’esperienza
delle imprese madri con le imprese incubate. Le prime possono infatti fornire alle
seconde consulenze di mercato, validazione e partnership tecnologica, accesso a reti di
contatti, credito e garanzie, ma anche servizi che sfruttano economie di scala, come nel
caso della gestione delle risorse umane o dei compiti amministrativi.
Un esempio molto conosciuto di incubatore di questo tipo è H-Farm. Si tratta di una
struttura che ha sede nel trevigiano, in una tenuta di 1100 ettari di proprietà della
Cassamarca e che accelera imprese nell’ambito del global digital market (Web, Digital e
New Media). In coerenza con il modello appena descritto, H-Farm si propone nel doppio
ruolo di incubatore e di investitore nei progetti incubati. In altre parole, l’incubatore
fondato dall’imprenditore seriale Riccardo Donadon, oggi partecipato, tra gli altri, da
Diesel e Riello, fornisce alla startup il capitale necessario al loro avvio e, allo stesso
tempo, le affianca offrendo servizi di consulenza. Dal 2005 ad oggi H-Farm è cresciuta
incubando diverse realtà imprenditoriali, chiamate H-Companies, imprese controllate
per una parte consistente da H-Farm, ma con quote di minoranza detenute da altri
partner industriali, investitori privati ed istituzionali e i manager dell’azienda. Si tratta
dunque di un sistema di stock-option che ridistribuisce i rischi e i profitti tra gli azionisti,
al quale l’incubatore aggiunge una dimensione comunitaria e partecipativa delle
imprese basata su un approccio umanistico al fare impresa21.
I due modelli di gestione proposti, quello di sviluppo economico, simile al caso di
Navacchio, e quello privato, simile alla fattispecie H-Farm, sarebbero entrambi
applicabili al caso pratese. Tuttavia, mentre il primo modello implica un forte
investimento pubblico sia nella gestione che nella struttura in cui insediare la realtà, il
secondo modello necessita, eventualmente, solo della predisposizione di una struttura
adeguata. Si potrebbe obiettare che nel primo caso i benefici dell’operazione sarebbero
20
Grimaldi R. e Grandi a. (2005), Business incubators and new venture creation: An assessmnent of incubating models, in Technovation, n. 25 (2), pp. 111-121. 21
Sedita S.R., Pilotti L., Valentini N. (2008), Strategie e pratiche ecologiche per apprendere ad apprendere in contesti complessi e innovativi. Il matching tra cultura e comunità di pratica nel caso H-Farm. Tra meta-corporation emergente ed ecologie del valore, Working Paper n. 33 del Dipartimento di Scienze Economiche, Aziendali e Statistiche dell’Università degli Studi di Milano.
64
pubblici, mentre nel secondo solo privati. In realtà, entrambi i casi sarebbero propensi a
perseguire l’obiettivo ultimo della politica: creare un ecosistema fertile alla crescita di
nuove imprese e a dare una nuova sfaccettatura all’immagine oggi un po’ consunta della
città. E’ poi evidente che un incubatore privato, ma non di proprietà di una sola impresa,
potrebbe poi essere affiancato da un’altra struttura, che però non si dovrebbe occupare
di incubazione, ma potrebbe svolgere un insieme di altre funzioni - come la formazione
professionale e imprenditoriale, la connessione delle imprese del cluster, la
progettazione - che, come abbiamo visto, giocano un ruolo cruciale.
3.4. Conclusioni
L’obiettivo del rapporto era la raccolta e la sistematizzazione delle esigenze delle
imprese del cluster Ict di Prato, al fine di delineare una strategia di lungo periodo in
grado di consolidare il tessuto produttivo esistente, aumentandone la competitività.
L’ascolto degli stakeholder del territorio ci ha condotto a declinare la strategia di
intervento lungo tre assi: formare, connettere, innovare.
Formare. Le imprese soffrono di scarsa offerta e scarsa preparazione della forza lavoro
locale. In primo luogo, le scuole appaiono ancora poco in grado di preparare giovani
adatti al mondo Ict. Si tratta di considerazioni che trovano concordi anche docenti delle
scuole superiori, che ritengono necessario un adeguamento dei contenuti e dei metodi
di insegnamento per consentire un avvicinamento con il mondo del lavoro.
In termini di policy ciò significa agire su quattro misure:
Migliorare la qualità e la quantità dei percorsi di alternanza scuola/lavoro;
Contaminare la didattica attraverso il coinvolgimento degli imprenditori nell’attività
di insegnamento e promuovere la formazione continua portando i docenti
all’interno delle imprese;
Formare all’imprenditorialità gli studenti;
Riqualificare i disoccupati con competenze Ict.
Viceversa, per quanto riguarda i laureati, l’offerta di competenze specializzate è
decisamente inferiore alla domanda. E’ quindi necessario creare le condizioni per un
aumento dell’offerta (nel lungo periodo) e per l’attrazione di giovani da altre regioni (nel
breve periodo). Da questo punto di vista, le imprese ritengono opportuno:
Sensibilizzare gli studenti alla scelta di corsi di laurea affini all’Ict;
Connettere le imprese con i docenti al fine di influenzare i programmi di
insegnamento, alimentare legami informali per la segnalazione delle figure
più brillanti, valorizzando le esperienze di stage e tesi di laurea;
65
Promuovere alta formazione congiunta (es. Master).
Connettere. Il network del settore Ict risulta piuttosto sconnesso. Le imprese tendono
infatti a specializzarsi in nicchie di mercato e non riescono a sfruttare il capitale
relazionale di cui già dispongono per costruire possibili sinergie, utili ad affrontare il
rapido mutamento tecnologico. Paradossalmente, nonostante il numero contenuto di
legami formali, si registra oggi un’elevata propensione a nuove occasioni di
collaborazione. Per migliorare la frequenza e la qualità delle relazioni si propone:
La creazione di una figura di intermediazione terza rispetto alle imprese, in
grado di stimolare e dare continuità alle relazioni e favorire la circolazione di
informazioni e fiducia tra: imprese del cluster, imprese e centri di ricerca,
imprese del cluster e imprese tradizionali;
Di ripensare l’allocazione di parte dei finanziamenti pubblici per la creazione
di reti, in maniera tale da ridimensionare i comportamenti opportunistici. A
questo proposito, sarebbero opportune azioni di public procurement volte
cioè a trasformare il finanziamento ex-ante in acquisto ex-post dei prodotti
innovativi realizzati dalla collaborazioni tra aziende, al fine di rendere
sostenibile l’investimento privato compatibilmente con le esigenze della P.A.
Innovare. Il repentino avanzamento tecnologico non permette alle imprese più grandi di
costruirsi traiettorie lineari di sviluppo. Allo stesso tempo le aziende più piccole e le
startup hanno difficoltà a trovare risorse finanziarie per promuovere le loro idee
innovative. In questa prospettiva, viene richiamata la necessità di realizzare a Prato un
polo gestito da una compagine pubblico/privata che:
Sappia orientare le imprese rispetto allo sviluppo tecnologico e alle occasioni
di mercato;
Faccia crescere nuove startup e integri le loro tecnologie con quelle delle
imprese già esistenti;
Diventi un fattore per l’attrazione di risorse umane, imprenditoriali,
economiche dall’esterno;
Si ponga come punto di riferimento a livello metropolitano per i soggetti
interessati al settore, anche grazie alla presenza di spazi di incontro e
collaborazione, animati da figure professionalmente specializzate.
Le misure contenute nei tre assi, pur potendo essere promosse in tempi e da attori differenti,
hanno una natura integrata. Ciò fa sì che una programmazione congiunta degli interventi
potrebbe creare delle sinergie sul versante degli output consentendo, allo stesso tempo, il
66
risparmio di risorse sul versante degli input. Ciò potrebbe essere reso difficile dalla
separazione che, fino ad adesso, ha caratterizzato le linee di finanziamento dei fondi
strutturali. Considerata la scarsità delle risorse sarebbe pertanto opportuno utilizzare
sinergicamente le risorse comunitarie. In particolare, ci riferiamo alla possibile integrazione
strategica degli interventi supportabili dal Fondo Sociale Europeo (come la formazione) con
quelli promossi dal Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (come le politiche di connessione e
per l’innovazione).
Un ostacolo alla possibile implementazione della strategia qui proposta è riconducibile alla
presenza di un clima di debolezza che affligge la governance locale. Come abbiamo già
argomentato, Prato è una città che deve confrontarsi con l’incertezza della politica locale,
con livelli di governo che potrebbero presto scomparire, con l’austerità e con fondi europei
ancora da definire. Per tutte queste ragioni le forze che oggi si adoperano per consolidare
questo settore devono fare i conti con un impegno di lungo periodo, ma con interventi la cui
scelta deve essere guidata dal criterio di fattibilità e sostenibilità nel breve periodo. Tali
implicazioni ci hanno spinto ad avanzare delle proposte di policy che, per quanto possano
essere considerate delle second best, a nostro parere risultano più coerenti con le
caratteristiche istituzionali del contesto locale. In un contesto di risorse scarse, e vista
l’impossibilità di accedere a risorse straordinarie, sembra pertanto opportuno:
Evitare la duplicazione di strutture di trasferimento tecnologico, ottimizzando
così gli spazi esistenti. Il riferimento esplicito è all’utilizzo di una parte del
Creaf quale possibile contenitore del Polo tecnologico dell’Ict;
Valutare modalità di gestione dell’incubatore di imprese alternative al classico
modello di sviluppo economico, ben esemplificato dal polo di Navacchio. A
questo proposito, potrebbe essere preferito un modello privatistico-
indipendente, ovvero un’organizzazione che, sull’esempio di H-Farm, sia in
grado di canalizzare le numerose risorse economiche private presenti sul
territorio verso l’obiettivo pubblico della fertilizzazione dell’ecosistema
digitale.
Distinguere tra la funzione di incubazione, orientata al sostegno delle startup
e dell’integrazione di queste con le esigenze innovative delle imprese
predatrici, da quella di animazione/brokerage del cluster, che si configura
invece come un funzione prettamente pubblica e da esprimere possibilmente
su scala sovralocale.