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Il rafforzamento della politica locale: strumenti di governo del territorio e partecipazione attiva.
Caterina Cortese
Testo non definitivo. Si prega di non citare.
Introduzione
Il presente paper affronta una riflessione su alcuni cambiamenti intervenuti nei
governi locali rispetto alla ridefinizione delle politiche territoriali. In particolare
si analizzano le spinte che portano, allo stato attuale, a guardare al livello locale
come fruitore della Politica nazionale e comunitaria, nonché come animatore
delle policies di propria competenza. Rispetto a queste ultime, si osserva come si
tratti sempre più spesso di politiche ispirate ai principi di territorialità,
integrazione e concertazione, che nascono per governare la complessità degli
scenari territoriali (complessità economica, sociale, culturale) e che, come tali,
attraversano trasversalmente diversi settori (dalle politiche sociali alle politiche
urbanistiche, dalle politiche di sviluppo locale alle politiche ambientali). Alcune
caratteri sono comuni (processi decisionali partecipativi, apertura
dell’amministrazione pubblica nei confronti della comunità locale; attivazione
del cittadino; pluralità delle voci; innovazione istituzionale), così come alcuni
strumenti di azione sono diffusi (progetti urbani; piani di sviluppo e di recupero
dello spazio cittadino; piani sociali di intervento; piani per l’occupazione).
Tenuto fermo il rafforzamento del governo locale in un tale percorso evolutivo,
gli effetti-impatti possono essere duplici e misurabili dentro e fuori le “mura
amministrative” . Da un lato, è possibile constatare come i cambiamenti nei
processi di programmazione territoriale portano in direzione di una
democratizzazione dello spazio locale della politica, dall’altro, il nuovo modello
di regolazione delle policies ha ricadute all'interno delle amministrazioni
pubbliche in termini di capacità di progettazione, capacità di favorire l'utilizzo di
politiche di attivazione del soggetto-utente nei processi decisionali, capacità di
governare attraverso strumenti che favoriscono la partecipazione dei cittadini. A
sostegno di queste considerazioni, si riportano brevemente tre casi di studio che
mostrano in qualche modo come la politica locale sia soprattutto un campo di
esperimenti nel quale si incrociano fattori di rischio e variabili di successo.
1. Tra governance urbana e integrazione: il rafforzamento della politica locale.
L’attuale processo di riconfigurazione delle policies, che incide particolarmente
sull’istituzione governo locale, si è sviluppato per effetto di due spinte che
2
convergono di fatto verso un unico risultato: il rafforzamento della governance
urbana. Da un lato, la new political economy condotta dall’Unione Europea,
rappresenta la spinta che, dall’esterno, orienta un cambiamento nei modelli di
regolazione delle politiche pubbliche nazionali (Gualini 2005), chiamate a
rispettare le direttive europee e a promuovere interventi integrati in un’ottica di
partenariato e coesione sociale. Dall’altro, la riforma della pubblica
amministrazione in direzione manageriale e privatistica (la diffusione della nota
ricetta del New Public Management) e il decentramento amministrativo,
inaugurato dalla stagione riformatrice degli anni Novanta, spingono, dall’interno,
le autorità pubbliche italiane a ridisegnare non solo la struttura dell’azione
politica, ma anche il ruolo giocato dai policy makers locali nella pianificazione
degli interventi destinati al territorio di propria competenza (Cortese in Paci
2008:47).
Contestualmente, le dinamiche socio-culturali, le trasformazioni della domanda
sociale e la complessità delle questioni territoriali, incidono sul processo di
trasformazione delle policies, le quali oltre a fare riferimento ad un nuovo frame
normativo e programmatico, si distinguono dagli interventi tradizionali per il
fatto di nascere in assetti istituzionali multilevel, di essere spesso realizzate in
partnership tra soggetti istituzionali e non, di coinvolgere una pluralità di attori
che a vario titolo influenzano il processo decisionale, di essere orientate ai
risultati, di avvicinarsi ai cittadini e di attraversare trasversalmente più spazi di
policy o aree problematiche. Questi elementi inquadrano l’attuale necessità di
adottare politiche orientate ai risultati, politiche integrate e intersettoriali che,
anziché frammentare la complessità degli scenari attuali, guardano agli obiettivi
da raggiungere con un’ottica sistemica e generale.
Si tratta di una domanda di integrazione (Donolo 2005b) che si sviluppa su due
livelli: integrazione nel processo decisionale e integrazione nella fase di
implementazione delle politiche. Nel primo caso non si tratta solo di allargare la
maglia degli stakeholders presenti nelle arene decisionali, i quali, oltre ad essere
letteralmente portatori di interessi, sono depositari di saperi (sapere s/oggettivo e
saper fare), ma di intrecciare sapientemente aree di policies, linguaggi e
strumenti d’azione. Nel secondo caso, la finalità è quella di migliorare la
collaborazione strumentale, già presente tra ente pubblico e soggetti terzi
(partenariato economico, soggetti privati, associazioni di interesse, terzo
settore…), nella fase di realizzazione delle politiche, che non si riduca alla
creazione di una ristretta policy communities (Jordan 1990) ma che dia spazio ad
un configurazione mista di attori, più vicina al concetto di policy network
(Rodhes 1990), caratterizzata da rapporti di fiducia e di collaborazione per la co-
produzione di servizi e beni destinati al territorio.
Le caratteristiche dei nuovi modelli di regolazione locale, sviluppatisi in Italia
già a partire degli anni Sessanta ed evidenziati dagli studi di sociologia
3
economica1, trovano dunque una progressiva corrispondenza con il più moderno
concetto di governance e, nello specifico, di governance urbana. L’attualità di
questa nozione è certamente collegata agli effetti della «grande trasformazione»
intervenuta negli ultimi decenni e che in diversi modi ha spostato il baricentro
delle azioni economiche e politiche verso i contesti locali, rendendo sempre più
difficile per lo Stato mantenere un ruolo esclusivo nella regolazione pubblica di
tipo normativo e coercitivo.
Governance rappresenta quindi un neo-logismo che, a livello internazionale, ha
raccolto un profondo consenso in più ambiti di studio (scienze politiche e sociali,
economia, geografia economica, scienze giuridiche) determinando,
inevitabilmente, una natura concettuale multi-dimensionale che rende tutt’oggi
difficile una sua definizione univoca. Molto è stato scritto ma non siamo sicuri
che sia stato realizzato pienamente il tipo ideale di governance. Possiamo
ritenere piuttosto che, allo stato attuale, molti contesti locali ne siano più vicini di
quanto si potesse sperare2, vista la compresenza di elementi di government dai
quali il sistema politico italiano probabilmente non riuscirà mai a prescindere.
Non si tratta infatti di un processo semplice con esiti lineari. L’allargamento del
policy making e l’integrazione delle politiche possono rappresentare un fattore
positivo in quanto richiamano logiche di collaborazione tra le azioni ma, allo
stesso tempo, moltiplicano gli attori, gli interessi, i poteri e le istanze
particolaristiche, rischiando di causare ulteriore frammentazione (Bifulco in
Pellizzoni 2005:138). Un altro rischio può essere dato da una progressiva
riduzione delle funzioni pubbliche nella produzione di servizi che, in continuità
con le logiche della privatizzazioni, trasferisce poteri alle organizzazioni private
spostando l’ago della bilancia decisionale a favore dei loro interessi.
Tuttavia, questi rischi non possono annullare gli effetti che il governo locale
può trarre dal nuovo sistema di governance. Se rimane, quindi, necessario
verificare prima di tutto la coerenza e l’affinità tra gli obiettivi pianificati, per
evitare che la co-progettazione si riduca ad una inefficace e prolungata
discussione sulla fattibilità degli interventi, è fondamentale garantire un
coordinamento delle azioni che ne allinei il contenuto e le finalità. Tale compito
può essere svolto dal management pubblico che, di fronte alla pluralità che
caratterizza le arene decisionali, mantiene il ruolo di fondamento istituzionale
dell’interdipendenza tra le policies, di mediatore, di animatore della rete e di
garante principale del bene collettivo.
Sintetizzando, dunque, le novità caratterizzanti le nuove politiche territoriali
sono: la progressiva responsabilizzazione degli enti locali su materie di interesse
collettivo; la titolarità degli interventi sul territorio; l’integrazione di settori e
1 Vedi i lavori di Bagnasco (1977), Trigilia (1992) sulla Terza Italia e sul concetto di neo-
localismo. 2 Tanto quanto altri ne sono ancora lontani.
4
politiche tradizionalmente separate; l’avvio quasi regolare di partenariati e
coalizioni; l’utilizzo di strumenti di programmazione complessi. Politiche
integrate e governance possono rappresentare un binomio per il rafforzamento
della politica locale nella misura in cui la governance funge da meso-struttura di
supporto all’adozione di politiche complesse. L’efficacia del loro incrocio è
misurato sugli effetti, materiali ed immateriali, prodotti dalle politiche e sulle
capacità che rispetto ad esse matura il territorio.
2. Le dinamiche del cambiamento delle politiche locali nel quadro comunitario
Accanto alla spinta che abbiamo definito interna, ve n’è un’altra che, anziché
decentrare funzioni e compiti ai governi locali, li chiama ad essere interlocutori
privilegiati in materia di occupazione e welfare, sviluppo locale e crescita del
territorio. Si tratta della spinta che proviene dall’Unione Europea come
istituzione sovra-nazionale che ha aperto, attraverso programmi e fondi
comunitari, canali diretti di finanziamento, comunicazione e scambio con i
governi periferici, superando a volte l’intermediazione del livello nazionale. Si
pensi alle iniziative d’ispirazione comunitaria del precedente ciclo, che hanno
trovato seguito in quello attuale, quali Occupazione, oggi rinominato, Progress,
Leader +, Urban II (inserita nel programma Rete Urbact), Interreg III, Equal,
Agenda 21, Eurocities, attraverso i quali si evince come, sempre di più, la
dimensione locale sia quella più adatta per poter leggere le esigenze legate al
proprio territorio e per individuare i mezzi idonei a raggiungere obiettivi di
crescita, sviluppo e benessere sociale in una dichiarata ottica di coesione. Anche
in questo caso, dunque, ciò che risulta rafforzata è la capacità di attivazione e
mobilitazione che proviene dagli attori locali, istituzionali e non, i quali, alla luce
del mutato contesto normativo, programmatico e comunitario, hanno la
possibilità di ampliare la propria sfera d’azione. Le politiche europee si
mescolano a quelle nazionali (europeizzazione e cambiamento domestico) e, al
contempo, inputs esogeni costruiscono, nelle aeree periferiche, nuovi spazi di
policy attorno ai quali la classe politica locale costruisce relazioni (partenariato
economico e sociale) e approcci innovativi alle politiche di governo del territorio
(Gualini 2005).
Questa integrazione internazionale tra livelli istituzionali diversi, costituisce un
nuovo modello di policy making che è stato definito da alcuni studiosi multilevel
governance3, ovvero un processo nel quale governi sovra-nazionali, nazionali e
3 Per approfondimenti si rimanda agli studi di Hooghe, Marks (1997). Questi autori,
inizialmente affascinati dalla nozione di multilevel governance, propongono successivamente
(2003) un approfondimento sull’esistenza di due tipi di governance multi-livello caratterizzati,
l’uno, da una dispersione di autorità su un limitato numero di livelli non intersecabili
5
sub-nazionali, interagiscono e si influenzano tra di loro senza un ordine
gerarchico preciso. Altri parlano di spatial and government rescaling4 indicando
una ri-terittorializzazione e un ridimensionamento delle funzioni prima detenute
dal livello centrale, laddove i territori (in maniera più specifica il new
regionalism) divengono attori determinanti nelle strategie di governo.
Siamo comunque lontani dal proclamare la fine dello Stato, inteso come Stato
moderno,5 e concordi nell’ammettere che diversi fenomeni, in un sistema di
concausa processuale, hanno determinato un livellamento dell’autorità centrale
rendendo opportuni sistemi di regolazione economica e politica riorganizzati su
diversi livelli territoriali, ognuno con il proprio potere e la propria responsabilità
(Le Galés 1998). Potremmo dire, citando ancora Le Galés [2002:2] che «siamo di
fronte ad una governance europea, un processo in cui la maggior parte degli Stati
e alcune regioni e città, stanno giocando un ruolo e possono diventare attori
politici». Nella nuova architettura europea, le politiche locali sono
interdipendenti fra loro e, allo stesso tempo, sono collegate ai tre principali livelli
istituzionali poiché sono fortemente ispirate al frame regolativo comunitario;
rispettano la Polity nazionale e gli indirizzi regionali ma possiedono la legittimità
per prendere scelte autonome di governo sul territorio di propria competenza.
In questo senso, il dibattito sull’impatto dell’UE sulle politiche territoriali è
aperto tra coloro i quali pensano che l’«europeizzazione» comporti un
adattamento passivo (isomorfismo) e coloro che ritengono che questa generi
un’effettiva innovazione nelle politiche nazionali.6 La tendenza attuale è
comunque quella di evitare prospettive deterministiche o interpretazioni di tipo
causale, guardando alla europeizzazione con una prospettiva pluralista che la
considera come una combinazione di cambiamenti a più livelli.
Scendendo, metaforicamente, sulla scala della governance multilevel, possiamo
osservare come le politiche regionali siano quelle che riflettono maggiormente i
mutamenti nei modi di formazione delle politiche pubbliche e nei comportamenti
degli attori nel definire le strategie d’azione7 anche se «l’idea di un’Europa delle
(nonintersecting and durable jurisdiction) che richiama l’idea del federalismo; l’altro,
caratterizzato da un più ampio numero di livelli territoriali ognuno dei quali esercita in maniera
flessibile i propri compiti istituzionali (intersecting and flexibile jurisdiction). 4 Su questo tema si veda Brenner 1999; Storper 1997; Keating 1998, 2009.
5 E’ interessante riportare la definizione di Stato moderno tratta dall’enciclopedia on line
Wikipedia dove esso è definito come il processo storico di accentramento del potere a seguito
della dispersione dei differenti centri di potere indipendenti che rappresentavano le signorie
dell'Europa medievale. In un lungo ciclo storico – dal XV secolo al XXII secolo – assistiamo,
oggi, ad una tendenza opposta che restituisce potere e responsabilità ai territori periferici. 6 Il filone dell’Europeanization studies conta numerosi contributi in continua fase di espansione.
Tra gli altri si rimanda agli studi di Gualini (2005), Morisi e Morlino (1999), Radaelli (2003). 7 Attraverso una serie di tappe fondamentali, è cresciuto negli anni il ruolo di rappresentanza
delle regioni sulla scena europea. Dall’Atto unico europeo del 1986, che dota ufficialmente la
Comunità di una politica regionale, passando attraverso l’Assemblea delle Regioni d’Europa
6
regioni ha costituito più che altro una significativa ma riduttiva metafora
politica» (Gualini 2006:29).
Coinvolte in un processo di adeguamento al modello sociale europeo, le regioni
italiane sono state sì protagoniste della politica di coesione economica e sociale
iniziata con i Programmi Integrati Mediterranei (PIM) nel 1985 e proseguita con
la riforma dei Fondi Strutturali del 1988 ma, più che di un’opportunità, si è
trattato di raccogliere una sfida (Profeti 2006) che ha visto le regioni impegnate a
ridisegnare non solo la propria dimensione amministrativa e organizzativa, ma la
stessa logica d’azione da orientare verso una programmazione integrata degli
interventi8. In quegli anni, la nuova politica regionale si è tradotta in
un’opportunità e in un stimolo per proseguire in direzione di un decentramento
delle funzioni di governo che in un sistema politico tradizionalmente
centralizzato stentava ad affermarsi. Nelle parole di Keating possiamo ritrovare
la sintesi di un processo che ha visto «l’Europa rendere le politiche regionali
sempre più europeizzate, mentre la politica nazionale si è ad un tempo
europeizzata e regionalizzata» (Keating 2008:425).
Parimenti, nel processo di europeizzazione delle politiche territoriali, anche le
città assumono un ruolo fondamentale divenendo sistema d’azione privilegiato
per la formazione di una governance urbana che sembra sintetizzare gli effetti dei
principali cambiamenti intervenuti nella stagione del «post-nazionale»
(sussidiarietà orizzontale, partenariato socio-economico, programmazione
territoriale complessa, …).
Le indicazioni previste dal Quadro Strategico Nazionale 2007-20139
concentrano larga parte dell’attenzione europea sulle attività che le regioni e le
città devono realizzare in materia di programmazione integrata e sistemi sociali
urbani. La maggior parte delle priorità individuate dal QSN, nell’ambito della
strategia unitaria per la politica regionale,10
mette al centro le città come motori
(ARE), fino all’apertura di appositi uffici (bureau) di enti territoriali (comuni, province, regioni,
consorzi di comuni ecc…) a Bruxelles che curano “la politica estera” delle regioni e rendono
più fluido e costante il rapporto di biunivoca collaborazione tra questi e la Comunità Europea. 8 La politica di coesione introduce, fin dalle sue origini, obiettivi generali prestabiliti, linee
guida e procedure vincolanti per ottenere i finanziamenti. Affermando il principio del
partenariato economico e sociale, promuove una logica di intervento e una trasversalità delle
politiche. A fronte delle differenze socio-economiche che caratterizzano i diversi territori, la
politica regionale europea si ispira ad un principio di solidarietà volto a ridurre le disparità tra
regioni e a promuovere il recupero delle zone arretrate finanziando progetti ad hoc che mirano
ad aumentare l’occupazione, la crescita e la competitività di tutti i territori. 9 Cfr. Quadro Strategico Nazionale per la politica regionale di sviluppo 2007-2013, pp. 71-150.
10 Una delle novità introdotta dall’attuale programmazione comunitaria è stata la distinzione
introdotta, sia sul piano finanziario che programmatico, tra politica ordinaria e politica
regionale, che ha previsto la realizzazione di differenti documenti strategici preliminari confluiti,
alla vigilia del 2007, nel QSN, in sinergia con le priorità strategiche e gli obiettivi prefissati. «La
nuova politica regionale unitaria, finanziata da risorse aggiuntive, comunitarie e nazionali, a
7
trainanti dell’economia locale, dell’inclusione sociale e dell’occupazione, della
competitività e dello sviluppo, dell’uso sostenibile dell’energia e dell’ambiente,
proprio a voler indicare un rilancio, alla luce delle esperienze del precedente
ciclo di programmazione, della politica economica e sociale urbana.
3. Governare la complessità 3.1. Attraverso gli strumenti
L’analisi delle due spinte, di cui abbiamo brevemente descritto le caratteristiche
nei precedenti paragrafi, focalizza l’attenzione sul ruolo che il governo locale
assume nel tradurre in pratica le riforme in atto. L’imponente e a volte ridondante
produzione documentale elaborata su questi argomenti, non chiarisce sempre
quali siano le effettive intenzioni che muovono i governi locali ad adottare
strumenti di programmazione territoriale e a promuovere momenti di
concertazione territoriale. Eppure, spostandoci sul versante operativo,
osserviamo come nel bagaglio riformatore degli anni Novanta, che ha coinvolto
l’amministrazione pubblica, era compresa anche una serie di strumenti che
serviva a tradurre in pratica alcuni dei principi del “nuovo governare”. Con una
serie di provvedimenti legislativi sono state infatti perfezionate le procedure, le
finalità e i contenuti degli interventi per il governo del territorio11
e, a queste, si
sono ispirate le recenti politiche territoriali che possono essere definite
innovative perché caratterizzate da una responsabilità condivisa dal tessuto socio-
economico attorno ad un’idea di crescita collettiva; da una compartecipazione al
policy design; dall’utilizzo strategico delle risorse locali; dalla cooperazione
inter-istituzionale che persegue, non senza difficoltà, la logica della nuova
architettura politica multi-livello. A partire infatti dalla fine degli anni Novanta,
anche sulla scia dell’influsso europeo, si sente sempre più spesso parlare (e ancor
più se ne scrive) di Programmazione Negoziata (PN), una nuova etichetta che
intende «una regolamentazione concordata tra soggetti pubblici e privati per
differenza di quella nazionale (finanziata con risorse ordinarie di bilancio), è volta a garantire
che gli obiettivi di competitività siano raggiunti da tutti i territori regionali, anche e soprattutto
da quelli che presentano squilibri economico-sociali». In questa logica le politiche regionali
incidono in misura nettamente superiore sul bilancio europeo rispetto alle politiche territoriali di
cui, finanziariamente, ne sono una modesta parte. Cfr.
www.dps.tesoro.it/QSN/qsn_documentazione.asp
11
Legge 142/90 (Ordinamento delle Autonomie locali); Legge 241/90 (Nuove norme in materia
di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi); D.Lgs.
286/99; (Riordino e potenziamento dei meccanismi e strumenti di monitoraggio e valutazione
dei costi, dei rendimenti e dei risultati dell’attività svolta dalle amministrazioni pubbliche), a
norma dell'articolo 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59; D.Lgs. 267/00 (Testo unico delle leggi
sull'ordinamento degli enti locali); D.Lgs. 165/01 (Norme generali sull'ordinamento del lavoro
alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche).
8
l’attuazione di interventi diversi riferiti ad un’unica finalità di sviluppo che
richiedono una valutazione complessiva dell’attività di competenza» (Formez
2001a:17). Tra i più noti strumenti di PN, possiamo ricordare le esperienze dei
Patti territoriali e dei Contratti di area (entrambi regolati dall’art. 2 della legge
662/96), sugli esiti dei quali studiosi e operatori si sono interrogati nel tentativo
di analizzarne le cause dei fallimenti e le variabili di successo12
. Risultò così che
il ritardo nei tempi di attuazione, la lentezza delle procedure e dell’erogazione dei
contributi, la complessità normativa, lo scetticismo della classe dirigente locale e
la scarsa selettività dei finanziamenti, spinsero il dibattito scientifico e politico
italiano a mettere in evidenza i punti deboli della programmazione integrata e a
sottovalutarne le conseguenze positive. Le indagine realizzate sono riuscite,
tuttavia, a mostrare i buoni risultati ottenuti a seguito dell’attuazione di un
programma negoziato di sviluppo locale, indicando tra i fattori causali di
successo (oltre alle condizioni materiali di tipo economico): la presenza di una
leadership forte e stabile, la dotazione di capitale sociale, la forza del
partenariato, la continuità e la coerenza tra momento politico-programmatorio e
momento tecnico gestionale. Ovvero, al di là dei risultati raggiunti grazie agli
strumenti di programmazione integrata in termini di “investimenti realizzati” e
“occupazione creata”, alcune delle indagini condotte dimostrarono quanto fosse
essenziale guardare ai processi e alle dinamiche con le quali i policy makers
locali perseguivano obiettivi di sviluppo e crescita. Altri strumenti volti a
governare la complessità territoriale, che appartengono alla storia della politica
locale italiana, sono: i Programmi di Riqualificazione Urbana e di Sviluppo
Sostenibile del Territorio (PRUSST); le azioni del programma comunitario
Leader; i Gruppi di azione locale (GAL); ma anche i programmi Urban (nelle
sue varie edizioni a seguito dei cicli di programmazioni comunitaria) e le Agende
21.
Si tratta, dunque, di strumenti di intervento sul territorio nei quali convergono
politiche di sostegno all’occupazione, politiche sociali, politiche culturali,
politiche per il recupero delle periferie e per il rilancio della competitività,
politiche ambientali, ecc… Utilizzando le parole di Savino, si tratta di strumenti
a metà strada tra una programmazione socio-economica e una pianificazione
urbanistico-territoriale ma, pur sempre «strutturati in funzione di una logica di
integrazione tra risorse, soggetti e tipologie di intervento» (Savino 2003:68).
Si apre, quindi, la stagione dei piani che attraversa trasversalmente più settori di
policy nei quali si possono rintracciare le logiche di cui sopra: lo sviluppo locale
(De Rita, Bonomi 1998; Trigilia 1992, 2005), tra critiche e sfiducia, legate
soprattutto al destino seguito da molti patti territoriali, viene reinventato e
riproposto con una serie di elementi innovativi, primo fra tutti, il diretto
12
Cfr. Piattoni 1999, AA.VV. 2001; MEF-DPS 2003; Colaizzo 2000; Cremaschi 2001;
Coalizzo, Deidda 2003; Barbera 2005, Magatti et al. 2005, etc
9
protagonismo di una classe dirigente che nel frattempo si è rinnovata e ha
maturato una maggiore capacità di coordinamento della azioni sul territorio.
I piani di zona, elaborati dagli enti locali in accordo con le aziende sanitarie e
con il tessuto associativo locale, rappresentano uno degli strumenti innovativi
introdotti dalla riforma dei servizi sociali (legge quadro 328/2000) che promuove
la costruzione di un sistema integrato degli interventi e di una governance
sociale, basati sulla collaborazione tra attori istituzionali e non, sull’interscambio
e la trasversalità delle questioni sociali (assistenza, lavoro, povertà, famiglia,…)
(Pavolini 2003; Ranci 2005; Paci 2008).
La stessa pianificazione strategica delle città, costituisce un esperimento di
mobilitazione e coordinamento tra attori pubblici e privati impegnati nel
conseguimento di obiettivi di benessere e crescita locale attraverso accordi dai
contenuti multi disciplinari (Perulli 2004). Elementi fondanti di questa filiera di
strumenti sono il territorio, l’integrazione e il partenariato. Completando,
possiamo dire che, osservando una recente tipologia di «strumenti dell’azione
pubblica» proposta da Lascoumes e Le Gales [2009:24], gli strumenti, di cui qui
si tratta, possono rientrare nel tipo classificato come «Informativo e
comunicativo» ovvero strumenti che, abbracciando non solo una forma di
regolazione moderna (negoziazione), promuovono una «democrazia del
pubblico» che responsabilizza gli attori sociali che entrano a farvi parte in
maniera attiva e consapevole. Il piano-progetto, come strumento di governo
della città, può rappresentare sono solo «un’ottima arena nella quale possono
sperimentarsi forme di democrazia deliberativa» (Perulli in Donolo 2006:102)
ma anche «uno strumento di mobilitazione sociale» (Pinson in Lascoumes e Le
Galés 2009:109) nel senso che nasce e si sviluppa anche a partire da quelle forme
di espressione provenienti dal tessuto sociale, mobilitando, a sua volta, in questo
stesso tessuto, forze e risorse.
La nuova politica locale, per raggiungere obiettivi di sviluppo e innovarsi nella
direzione che la normativa ha indicato, deve misurarsi, quindi, con il proprio
territorio, definire strategie di intervento, avvicinare le politiche per renderle
interdipendenti, accogliere la mobilitazione dal basso e la partecipazione della
cittadinanza, per arricchire il processo decisionale che, sebbene diventi più lungo
e complesso, può per questa via preservare da un rischio di auto-referenzialità.
3.2. Attraverso pratiche partecipative Il progressivo trasferimento di poteri e competenze verso i governi periferici è
stato anche dettato dall’esigenza di rispondere ad una domanda sociale e ad
tessuto civile che divenivano via via più dinamici, compositi ed eterogenei. Il
complessificarsi della vita cittadina così come il moltiplicarsi degli interessi,
10
hanno richiesto un’apertura della roccaforte amministrativa in direzione del
territorio e delle sue istanze. Il coinvolgimento del partenariato e della società
civile, costituisce la vera grande novità nella politica locale che si fa più
democratica, partecipativa, inclusiva e che non cerca solo di raccogliere le
istanze che da questi attori provengono, ma li invita (riuscendo il più della volte)
ad intervenire attivamente nelle decisioni politiche. La società civile, sia nella sua
forma pura di cittadinanza attiva sia come soggetto organizzato di rappresentanza
degli interessi, acquista realmente potere nella scena politica locale e si
moltiplicano gli esperimenti di democrazia partecipativa: forum, laboratori,
tavoli, conferenze pubbliche, bilanci partecipati, ecc. Nonostante esistano dei
limiti di estensione di tali pratiche, è pur vero che negli ultimi anni molti territori
ne hanno conosciuto una buona diffusione contribuendo a contrastare il vecchio
modello decisionale tecnocratico (AA.VV. 2005). Ovvero si rende possibile la
co-produzione di scelte pubbliche attraverso pratiche sociali, e non più solo
politiche, che conferiscono ad esse una qualità certamente diversa, arricchita
com’è di elementi cognitivi e motivazionali (Donolo 2005a) specifici del
«governo della gente» (Regonini 2005). Viene spontaneo fare riferimento ad un
nuovo concetto che si è diffuso nella letteratura sull’argomento (principalmente
nelle social sciences) ovvero il concetto di empowerment13
con il quale si fa più
spesso riferimento al modo attraverso il quale il soggetto si attiva sul mercato del
lavoro per reinserirsi nella vita attiva (Barbier 2005; Paci 2005).
Ma empowerment può voler dire anche capacità di azione, responsabilità e
partecipazione che i cittadini mostrano di avere rispetto al processo di
programmazione e valutazione delle scelte politiche. In questo caso, gli effetti di
una tale trasformazione della politica locale si riflettono sui diversi settori di
policies. Appropriato è il riferimento alla legge di riforma sull’assistenza (Legge
328/2000) che affida al governo locale un ruolo di indirizzo e di attivatore delle
risorse e delle reti locali, in funzione della costruzione di un welfare di comunità
che restituisca ai cittadini un ruolo attivo e che permetta di costruire una nuova
cultura della progettazione territoriale. Di fronte al mutamento quantitativo e
qualitativo della domanda sociale, la legge quadro sull’assistenza (L. 328/00) ha
prefigurato un nuovo modello di regolazione basato sulla diffusione di pratiche
partecipative all’interno delle arene politiche (D’Albergo 2005) e di momenti di
concertazione sociale aperte ad una pluralità di attori (Terzo settore, istituzioni
varie, cittadinanza attiva, …) finalizzate alla progettazione del Piano sociale degli
interventi.
Analogamente, e forse con un policy making ancora più allargato, avviene per le
politiche di sviluppo locale che, a partire dagli anni Ottanta, in un’accezione
rinnovata che le differenzia da meri interventi di natura macro economica,
puntano prima di tutto a valorizzare le risorse preesistenti nel territorio e a
13
Sul concetto si veda il contributo di Barbier, pubblicato sul numero 1/2005 della Rivista delle
Politiche Sociali.
11
rendere gli attori locali (pubblici e privati) protagonisti di questo processo. Da
un lato, quindi, il protagonismo della classe dirigente diviene una delle variabili
che può determinare il successo di politiche integrate e strategie di sviluppo
complesse (Trigilia 2005); dall’altro, proprio la presenza di risorse intangibili
quali il saper fare locale, la propensione all’ associazionismo anziché
all’isolamento, l’identità territoriale o di comunità, una cittadinanza attiva, la
presenza di legami consolidati tra centri decisionali pubblici (enti locali) e poteri
privati (imprese), possono favorire percorsi di crescita e benessere territoriale
certamente più significativi e duraturi.
L’occasione innovativa di raccogliere istanze e iniziative da più voci e di
rendere più ampia la rosa degli interventi necessari, può essere stemperata dal
rischio di una scarsa selettività tanto degli attori quanto delle proposte, che
potrebbero dare luogo a conflittualità e dispersione delle risorse. Per questo
motivo, il ruolo della leadership politica rimane un elemento trainante forte per la
buona riuscita di forme di democrazia partecipativa. Non si può rinunciare al
requisito della partecipazione per effettuare scelte di governo, soprattutto di
livello locale. La criticità, se vogliamo, risiede nel metodo attraverso il quale
vengono definite infine le scelte (agenda pubblica), il quale consente di abbinare
l’attributo più adeguato al concetto di governance: democratica? partecipativa?
imperfetta? corporativa?...
L’aumentare del numero degli attori infatti assume una rilevanza notevole
soprattutto se analizzato in una prospettiva di governance urbana poiché è vero
che la costruzione di networks a livello locale è divenuto certamente un
indicatore di innovazione. Ma per evitare che la partecipazione sociale e la
cascata di idee siano sterili e per promuovere un percorso di crescita del
territorio, pensiamo che la responsabilità politica delle scelte debba essere
mantenuta dal policy maker. Questi infatti rimane l’interlocutore legittimo nel
complesso processo decisionale pluri-corporativo e deve assumere, al contempo,
un ruolo di animatore, mediatore e coordinatore dei gruppi di interesse.
Infine, affinché tutto ciò abbia un’incidenza nell’impianto istituzionale, è
necessario che la pubblica amministrazione avvii al suo interno processi di
innovazione e percorsi di apprendimento che consolidino positivamente i
cambiamenti intervenuti nel contesto nel quale si trova a governare.
3.3. Attraverso amministrazioni capaci
I progressivi cambiamenti del sistema costituzionale e politico, hanno prodotto
chiaramente degli effetti sull’impianto amministrativo favorendone una sua
evoluzione. Abbiamo visto, infatti, come la riforma della pubblica
amministrazione, combinata alla strategia europea orientata ad una sussidiarietà
12
organica e multilivello, abbia conferito ai governi locali maggiori poteri in
relazione a questioni strettamente territoriali. Ma, per rispondere adeguatamente
ad obiettivi di innovazione, le direttive comunitarie o le riforme istituzionali sono
condizioni necessarie ma non sufficienti a garantire risultati ottimali. Se è vero
che la Politica riconosce i governi sub-nazionali come principali attori della
programmazione territoriale, è altrettanto vero che diviene necessario, per questi
soggetti istituzionali, rinnovare e modernizzare i propri assetti organizzativi
puntando a migliorare le capacità amministrative di attuazione delle politiche e a
dotarsi di competenze professionali e specialistiche. Inizialmente, infatti la
pubblica amministrazione italiana ha manifestato quella che i teorici
dell’organizzazione definiscono la crisi di coerenza tra strategia e struttura (Zan
in Freddi 1989), laddove le spinte all’innovazione, provenienti dal livello politico
centrale, si sono scontrate con una struttura organizzativa ancora per molti versi
legata ad una concezione tradizionale di amministrazione e con una cultura
gestionale rigida, incapace di rispondere prontamente ai nuovi compiti
istituzionali.
Con l’obiettivo di accrescere le capacità della classe dirigente locale e di dare,
quindi, base alle direttive politiche degli anni precedenti, è stata avviata nel ’93
un’importante riforma di razionalizzazione dell’organizzazione delle
amministrazioni pubbliche14
e di consolidamento dell’assetto politico locale15
. Si
tratta di un corpus nuovo di norme che traina una transizione istituzionale e
modifica il modello amministrativo i cui effetti reali, specialmente nei contesti
locali, si sono resi visibili solamente negli ultimi anni. Come già detto, gli
strumenti della politica locale sono divenuti via via più articolati e, all’interno
della macchina amministrativa, si inizia a ragionare in termini di “programmi
complessi di pianificazione” attraverso i quali si cerca di rompere gli schemi dei
tradizionali strumenti. Attraverso la sperimentazione di nuovi percorsi di azione
politica, l’amministrazione (attore collettivo) si misura con il tentativo di
esprimere le sue potenzialità (capability) e di sedimentare capacità (capacity
building). Entrambi i processi, alla Sen, possono indurre le istituzioni ad
accumulare sapere e ad agire in maniera intelligente, responsabile e strategica. I
contributi degli studiosi sui processi di riforma e sull’effettiva portata del
cambiamento sono stati numerosi16
e se teniamo presente che gli enti locali, nel
giro di pochi anni, sono stati sovraccaricati di compiti e funzioni, di
responsabilità e di necessità amministrative in linea anche con le spinte che
provenivano extra-confine (globalizzazione ed europeizzazione), possiamo
14
Decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione dell’organizzazione delle
amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego), abrogato
dal decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, lett. T (Norme generali sull'ordinamento del
lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche). 15
Legge 25 marzo 1993, n. 81 (Elezione diretta del sindaco, del presidente della provincia, del
consiglio comunale e del consiglio provinciale). 16
Si veda Freddi 1989; Dente 1995, 1999; d’Albergo, Vaselli 1997; Donolo 1997; Battistelli
2002; Trigilia 2005.
13
sinceramente affermare che la riforma ha potuto avviare un miglioramento del
modello istituzionale pre-esistente e una responsabilizzazione della classe
dirigente locale. Intervenuta anche per promuovere una nuova logica di
reclutamento del personale pubblico17
, la riforma del ’93, ha avviato la
formazione di esecutivi a favore di figure non politicizzate caratterizzate invece
da competenze cosiddette “tecniche” (soprattutto per quanto riguarda gli
assessori nominati direttamente dal sindaco) e dotate di un capitale sociale
(network, appartenenza a comunità professionali, carisma, prestigio) che
favorisse i rapporti collaborativi all’interno e all’esterno dell’istituzione. Questo
ricambio del management, ha implicato anche un cambiamento culturale della
politica locale nelle direzioni di cui abbiamo già detto nei precedenti paragrafi. Si
tratta di una classe dirigente, per lo più selezionata in base a criteri di competenza
e professionalità, che mette al servizio della politica conoscenze e saperi con un
effetto di crescita dell’intero apparato amministrativo.
Consapevoli che non si possa parlare ancora di un effetto sistema e nonostante
persistano criticità tipicamente radicate nei territori (localismo, autoreferenzialità,
collusione, miopia del ceto politico), è opportuno osservare che molte
amministrazioni, presentano al loro interno, tracce di riforma, più o meno
istituzionalizzate, che consentono di identificarle come istituzioni che si
innovano perché anziché adottare un modello d’azione burocratico-verticistico,
utilizzano modelli decisionali allargati e pratiche concertative; perché hanno
avvicinato le politiche ai cittadini; perché si ispirano ad un tipo di democrazia
partecipativa; perché dispongono di una classe dirigente locale più competente
(sindaci, assessori, dirigenti sempre meno politicizzati); perché decidono le
proprie politiche; perché pongono più attenzione alla valutazione dei risultati;
perché, quindi, stanno realizzando quel cambiamento socio-culturale dal basso
che potrebbe poco a poco rendere più completo e organico il cambiamento
istituzionale.
4. Governare il territorio: alcune esperienze italiane
La politica economica europea e il modello di governance che si sta
diffondendo nelle amministrazioni pubbliche italiane portano, quindi,
ragionevolmente a pensare che l’integrazione tende a divenire un imperativo per
le politiche nazionali e, più nello specifico, per le politiche territoriali.
L’approccio migliore con il quale guardare a questo processo diviene quello della
local governance che si propone di studiare e analizzare le interazioni e le
dinamiche che, su scala locale, danno luogo a scelte di governo (Bobbio 2002a;
2005).
17
Sugli effetti che la riforma ha avuto sulla classe dirigente locale si vedano i contributi delle
ricerche di Pavolini (2003) e di Catanzaro et al. (2002).
14
Il territorio (nel suo essere spazio d’azione e di interesse per istituzione pubbliche
e, al contempo, per attori economici e società civile), si presenta come luogo
privilegiato per l’attuazione delle politiche, per misurarne più da vicino la loro
sostenibilità e coerenza. E’ nel contesto locale che si manifestano quelle diversità
socio-territoriali (Calza Bini 2001) che impongono alle istituzioni un
aggiornamento delle competenze per la ridefinizione e l’attuazione delle
politiche. L’intervento pubblico su scala locale, si alimenta di circoli dove
l’informazione viaggia immediata; attiva reticoli di attori che si conoscono,
conoscono le caratteristiche e le risorse del territorio; si avvale di attività di
negoziato che, se legittime e continue, possono andare al di là dell’attuazione del
singolo programma e mettere in moto processi virtuosi di progettazione che
garantiscono la realizzazione di una policy innovativa (di sviluppo locale, di
welfare, di urbanistica, ecc).
A valle di tale logica, dunque, non si tratta solo di stilare programmi complessi,
costruire partnership o allargare il decision making, ma anche di dare vita alle
cosiddette “istituzioni intermedie” attraverso le quali si producono beni pubblici
che via via possono promuovere quella che Amin e Thrift [2000] hanno definito,
nei loro studi di geografia urbana, institutional thickness, ovvero una densità
istituzionale che facilita interazioni frequenti tra soggetti che condividono valori
e obiettivi. Le città divengono luoghi di scambio e diffusione di know-how
intorno a questioni economiche e sociali che riguardano il territorio di
appartenenza. Diventano il luogo dove si costruiscono relazioni tra individui e,
qui, nasce spontaneo il riferimento al concetto di capitale sociale elaborato dalla
sociologia economica e utilizzato, nella sua accezione strutturale (Coleman 1990)
per definire l’insieme delle relazioni di cui un individuo, singolo o collettivo,
dispone in un determinato momento e in un dato contesto18
. La presenza di tale
risorsa incide inevitabilmente sui percorsi di progettazione territoriale
rappresentando, laddove già presente, un fattore positivo e un obiettivo da
costruire in quei territori che ne sono ancora privi.
A sostegno di queste considerazioni, si riportano brevemente tre casi di studio
relativi ad un’esperienza di Pianificazione strategica (La Spezia), di un Piano di
Zona (Municipio Roma 6) e di un Progetto Integrato (Area metropolitana di
Bari), i cui risultati concorrono a dimostrare come l’implementazione delle
novità, discusse nei precedenti paragrafi, trovano modelli di attuazione locale
che, al di là dei confini di policy, manifestano tratti comuni: leadership politica
forte; pratiche partecipative e partenariali; innovazione istituzionale e reticenze.
18
Per una trattazione approfondita del concetto di capitale sociale si rimanda a Bagnasco et al.
2001.
15
a) La Pianificazione Strategica: il caso della città di La Spezia
Nella prima metà degli anni Novanta, le città italiane, anche sull’esempio di
città europee, hanno avviato esperimenti di Pianificazione Strategica (PS) come
strumento di promozione dello sviluppo locale. Elemento caratterizzante, che fa
del PS uno strumento innovativo di governance urbana (Perulli 2004) è
l’approccio decisionale utilizzato per la costruzione dello stesso: si tratta di un
approccio fortemente partecipativo che, mediante pratiche consultive e
concertative, unifica tutte le forze presenti sul territorio in vista di un obiettivo
comune di sviluppo di medio-lungo periodo. Perciò strategico è come dire
partecipativo, aperto, condiviso19
nel tentativo di superare i tradizionali
meccanismi di rappresentanza e di delega considerati non sempre
sufficientemente rappresentativi delle istanze provenienti dalle diverse realtà
territoriali. Nel caso di La Spezia è stato possibile mediante una ricerca sul
campo20
constatare la realizzazione di una governance democratica e fortemente
partecipata, che ha fatto propri meccanismi di mobilitazione della cittadinanza,
nella sua forma pura e organizzata, e forme di policy network coinvolgendo i
partenariati nella progettazione strategica.
Lo spontaneismo cittadino, unito alla necessità di reagire alla crisi economica
che stava attraversando la città, ha favorito la formazione di uno spirito
collaborativo, di fiducia, di capitale sociale tra gli attori della comunità spezzina.
La figura del sindaco ed il suo ruolo di leadership politica, sono stati di
fondamentale importanza per la buona riuscita del processo. La complessità della
nuova progettazione, la molteplicità degli attori, la pluralità degli interessi in
gioco, necessitavano infatti di un regista unico che, legittimato dal territorio,
fosse in grado di fare sintesi delle diverse istanze, ricomporle e tradurle in scelte
operative per l’interesse comune. Da un punto di vista istituzionale, il territorio
ha saputo superare i confini amministrativi e, attraverso i nuovi strumenti di
policy, ha messo a confronto idee e proposte riassunte nei documenti di
progettazione realizzando un partenariato istituzionale allargato. Il comune ha
adottato un modello di gestione interna del processo ovvero si è dotato di un
Ufficio di piano che ha rappresentato un vettore di cambiamento della struttura
organizzativa comunale, riorganizzata anche in funzione della PS. Questo ha
favorito il travaso di competenze dai consulenti esterni (incaricati per il I PS) al
personale pubblico, al quale sono stati affidati ruoli e competenze specifiche per
guidare il processo del II PS. Anche se non è ancora possibile nel caso spezzino
parlare di una istituzionalizzazione della progettazione integrata, l’eredità si
19
Il tema della Pianificazione strategica ha suscitato negli ultimi anni l’interesse di molti
studiosi e sociologi. Tra gli altri si veda Donolo 2003, 2005; Trigilia 2005; Cantieri-
Dipartimento della Funzione Pubblica 2002 e 2006; Pugliese T. 2007. 20
La sintesi proposta è frutto di una ricerca condotta, a cavallo tra il 2007 e il 2008, ai fini della
preparazione della mia tesi di Dottorato in “Sistemi sociali, organizzazione e analisi delle
politiche pubbliche”.
16
raccoglie principalmente nella collaborazione inter-istituzionale tra comune e
provincia impegnati, allo stato attuale, nella stesura di nuovi progetti (piano per il
turismo e infrastrutture); si raccoglie all’interno degli uffici comunali grazie
all’istituzione di strutture organizzative ad hoc, che hanno moltiplicato le
capacità organizzative, progettuali e di cooperazione della macchina
amministrativa confermando l’avvio di un processo di capacity building. Anzi,
l’istituzionalizzazione di tali pratiche è vista dai testimoni ascoltati con
incertezza nel senso che si apprezzano i vantaggi della PS (e di fatto se ne stanno
diffondendo gli effetti), ma si ritiene opportuno lasciare ad essa un carattere di
processo spontaneo piuttosto che di programma politico (istituzionalizzazione
riflessa). Nonostante alcuni ritardi e il diverso orientamento mostrato dal nuovo
sindaco, nelle prospettive future, la città di La Spezia continua ad investire sul
territorio attraverso i progetti inseriti nel II PS che, allo stato attuale, sono tutti in
corso di realizzazione.
b) La programmazione del welfare locale fra arena politica e società civile: il
caso del municipio VI del Comune di Roma21
.
Come è noto, gli enti locali hanno conosciuto negli ultimi anni un cambiamento
nei modelli di regolazione delle politiche di welfare che, sebbene a distanza di
quasi dieci anni dall’introduzione della normativa di settore, si presenti come un
campo di sperimentazione territoriale differenziata, ha spinto i governi locali a
dotarsi di nuovi strumenti e nuove pratiche di azione per la definizione delle
proprie politiche sociali. La programmazione si ispira infatti ad una logica che
cerca di superare l’approccio tradizionale-assistenziale e a guardare al cittadino
non solo come utente passivo ma come co-attore del suo percorso di attivazione e
reinserimento sociale; così come è quasi ormai implicita la collaborazione,
decisionale e gestionale, tra ente locale e organismi di terzo settore che insieme
puntano a realizzare un sistema di protezione sociale integrato e dinamico.
Molte di queste tendenze sono riscontrabili nel caso del municipio VI del
Comune di Roma che, nella fase di programmazione per la stesura del primo
Piano Sociale di Zona, si è caratterizzato per essere riuscito ad attuare una
concertazione tra i diversi attori istituzionali e non. Alla fase politico-
istituzionale, seguita personalmente dall’assessore, dai i responsabili del servizio
sociale e dalle commissioni consiliari di competenza, è subentrata la fase di
programmazione partecipata vera e propria tale da far identificare il modello di
regolazione di tale municipio “a partecipazione aperta”. Sono stati organizzati
momenti di ascolto e confronto della cittadinanza sia attraverso tavoli di
discussione che focus group, ai quali hanno preso parte la cooperazione, le
associazioni di volontariato e le varie forme di rappresentanza dei cittadini
21
Cfr. Cortese C. in Paci (a cura di ), Welfare locale e democrazia partecipativa, il Mulino,
2008, pp. 133-159.
17
(comitati di quartiere, sindacati, scuole, parrocchie), coordinati dagli operatori
del servizio sociale e dal personale municipale. I diversi soggetti hanno proposto
idee, presentato istanze e progetti che sono stati rielaborati e riportati dal gruppo
tecnico del servizio sociale all’interno del Piano sociale, nel tentativo di fare di
esso la sintesi di una progettazione condivisa che sapesse raccogliere le diverse
istanze e i diversi modi per rispondere ai bisogni sociali locali. Nel Municipio VI,
l’attore pubblico ha infatti mantenuto un ruolo forte nella programmazione e
gestione della policy sociale e, nello stesso tempo, si è avvalso di una efficace
collaborazione con alcuni soggetti provenienti dal non-profit che operavano da
diversi anni nel territorio.
Tale rapporto, lontano dalla logica della “delega” crescente tipica degli anni
Ottanta-Novanta, si è presentato alimentato, invece, da un dialogo sociale costruttivo tra arena politica, organizzazioni private e società civile. In questo
senso l’applicazione dei dettami della 328/00 ha rappresentato per il municipio
un’opportunità per “strutturare” e “sistematizzare” meglio un rapporto di
cooperazione pubblico-privato già presente nel territorio22
. Lo spirito di
collaborazione unito ad un collaudato canale informale di comunicazione, diffuso
tra i diversi attori che componevano la rete dei servizi sociali, hanno fatto
emergere una delle caratteristiche principali di questo territorio ovvero la
presenza di un forte capitale sociale come risorsa per la produzione di benessere
e come vettore di una progettualità sociale nuova e più efficiente. La costituzione
di partnership per l’organizzazione degli interventi socio-assistenziali, la
diffusione di pratiche di intermediazione e di laboratori di co-progettazione,
hanno favorito l’individuazione di soluzioni migliori e certamente più adeguate
ad una domanda sociale multiforme.
Per quanto riguarda le acquisizioni interne e le innovazioni interne
all’amministrazione locale, è stato possibile constatare come, da questa nuova
esperienza di progettazione territoriale, si sia giunti ad una maggiore
consapevolezza, sia tra gli attori di livello politico sia nel gruppo tecnico del
servizio sociale, dell’utilità e dell’importanza di “andare sempre di più verso un
modello di democrazia partecipata” che da legami e rapporti di collaborazione
saltuari e meno strutturati tra i soggetti che si occupano di interventi socio-
assistenziali, porti alla costruzione di un sistema integrato e consolidato dei
servizi sociali.
Sebbene non si tratti di un percorso definito o “istituzionalizzato” è ragionevole
ammettere che il municipio in questione si muove nella direzione che la
22
I meccanismi e le forme di partecipazione del terzo settore alla fase di co-progettazione degli
interventi vantano, nel VI municipio, una tradizione che risale alla legge 285/97. La legge
sull’infanzia e l’adolescenza aveva, infatti, avviato un modello di programmazione partecipata
condivisa tra pubblico e privato che la legge 328 del 2000 ha contribuito a strutturare meglio.
18
normativa ha indicato.23
Ad ogni modo, è assodato che il coinvolgimento sempre
più frequente del mondo della cooperazione e dell’associazionismo organizzato
nella progettazione e nell’erogazione dei servizi, contribuisce alla realizzazione
di una strategia di intervento che promuove la concertazione sociale, la co-
discussione pubblica e che, allo stesso tempo, invita l’ente pubblico a mantenere
alto il suo ruolo di rappresentante dell’interesse della comunità e di mediatore di
quel sistema locale a rete dei servizi sociali.
c. La progettazione territoriale per lo sviluppo locale dell’area metropolitana di
Bari.
Ispirati ai principi delle nuove politiche per lo sviluppo locale, i Progetti
Integrati Territoriali hanno conosciuto la loro diffusione in occasione del
precedente ciclo di programmazione comunitaria quando, inseriti come elemento
costitutivo dei POR, hanno offerto alle amministrazioni locali un ulteriore
strumento volto a favorire la crescita economica e occupazionale di territori
svantaggiati (Mezzogiorno) nonché un miglioramento sociale, ambientale e
culturale. Rispetto all’utilizzo di questo strumento si apre una geografia
regionale (per non dire locale) altamente differenziata e dai risultati ancora in
corso di valutazione (Bianchi e Casavola 2008). Con il PIT (essendo strumento a
forte regia regionale) c’è un evidente tentativo di realizzare sia quella
sussidiarietà verticale, implicita nella logica dello strumento, sia una governance
orizzontale che attiva l’insieme degli attori locali verso il raggiungimento di un
obiettivo comune di sviluppo (idea forza del PIT).
Il PIT n° 3 dell’Area metropolitana di Bari rappresenta un caso a metà strada tra
una discreta implementazione degli obiettivi di sviluppo (materiali e immateriali)
contemplati nel programma e la consapevolezza, riscontrata tra i referenti in sede
di indagine24
, che la strada da percorrere, affinché si parli di crescita territoriale e
innovazione istituzionale, è ancora molto lungo. Il processo di progettazione
integrata è stato caratterizzato da un’intersecarsi di attività, competenze e ruoli
ridistribuiti tra il livello regionale e il livello locale portando a definire un
modello di governance multilevel poco fluida e a tratti conflittuale, nel quale la
regione si è interposta come regista del processo e l’ente locale, capofila del PIT,
come esecutore (appunto braccio operativo) delle azioni programmate delle quali
era responsabile unico. Migliori i rapporti orizzontali tra i comuni partner del
processo, che sono riusciti a raggiungere un buon livello di comunicazione e di
23
Questa considerazione è supportata anche dai risultati di una recente ricerca, alla quale ho
preso parte, che ha permesso di verificare la presenza di una continuità, se non politica (il
municipio ha conosciuto un cambio di giunta), almeno tecnica-gestionale che muove il
municipio verso una sempre maggiore concertazione territoriale e una collaborazione con il
non-profit per l’erogazione dei servizi. 24
Anche questo caso di studio rientra nella ricerca svolta ai fini della mia tesi di Dottorato.
19
collaborazione attorno ai programmi del PIT. La governance locale si è
dimostrata matura nel realizzare e capitalizzare i rapporti di collaborazione con il
territorio. Esito, tra i più importanti della progettazione integrata territoriale, è
stato proprio quello di “far conoscere e avvicinare” i singoli comuni che,
attraverso i numerosi tavoli di confronto, sono riusciti a formare un partenariato
istituzionale strutturato. In questo caso la leadership tecnica ha avuto un ruolo
determinante per il buon esito del PIT. Inoltre il modello di gestione interna a
carico di un dirigente comunale in qualità di PIT manager, ha favorito la
diffusione di diverse pratiche di programmazione all’interno del comune capofila
(e dei comuni partner), in particolare nello staff tecnico del sindaco o negli
assessorati più vicini alle tematiche trattate dal PIT favorendo il trasferimento di
competenze e crescita delle capacità di azione dei territori (capacity buildind).
L’innovazione più importante, sia a livello istituzionale che a livello culturale, è
stata la nascita di una configurazione istituzionale formata dai comuni dell’area
metropolitana che, allo stato attuale, si sono riuniti attorno ad un nuovo progetto
di sviluppo locale (appunto la Pianificazione strategica di area vasta), indice che,
sebbene non si possa parlare di consolidamento o continuità in senso stretto tra i
due strumenti, consente di dire che è in corso un processo di istituzionalizzazione
in fieri, che ha alimentato una propensione alla collaborazione inter-istituzionale
attorno ad un programma unitario di sviluppo locale.
5. Verso una democratizzazione dello spazio locale della politica.
Le lezioni del passato, relative ai primi esperimenti di governance (piani di
sviluppo, patti territoriali, piani di recupero urbanistico), così come le esperienze
attuali, di cui i casi brevemente esposti rappresentano alcuni esempi,
rappresentano probabilmente le basi per un processo di democratizzazione dello
spazio locale della politica inteso come luogo di incontro tra attori pubblico-
privati, di ascolto di istanze, di costruzione di prospettive di crescita e benessere
comuni a tutto il territorio. Il governo locale, in quanto attore politico collettivo,
per rendere efficace le sue azioni, deve necessariamente allargare l’arena di
policy verso configurazioni reticolari tra i diversi portatori di interesse (pubblici
e privati), che possiedono legittimità ad intervenire tanto nella fase decisionale
quanto in quella attuativa. Come accennato prima, tali forme di governo del
territorio non sono state scevre da difficoltà o da dinamiche improprie rispetto
alle logiche iniziali. Ricordando i già citati patti territoriali, Wolleb e Cersosimo
(AA.VV. 2001) hanno spiegato le cause dei fallimenti di alcune di queste
esperienze collegandole soprattutto ad una partecipazione eccessiva che aveva
troppo caricato di obiettivi e aspettative il patto per lo sviluppo. In quei casi,
l’attivismo iniziale sembrava più che altro animato da un interesse iniziale degli
attori che, di fronte ad una esperienza nuova e proficua, tendevano a partecipare
per massimizzare i propri interessi. Alcuni insuccessi sono stati legati anche ad
un’incapacità dell’attore pubblico di guidare il processo (rischiando di scivolare
20
in uno stile dirigista) o all’assenza di una leadership politica forte e autonoma che
sapesse moderare gli interessi dei partecipanti in vista di un obiettivo comune.
Tuttavia, le più recenti esperienze di programmazione urbana complessa
mostrano come non si possa ormai prescindere da una unione pubblico-privato,
stato-mercato, amministrazione-cittadino, con la differenza che la politica deve
riuscire a creare uno spazio decisionale locale alimentato da reti di
collaborazione e da un reale atteggiamento di cooperazione tra gli attori che
partecipano alle arene.
Dai casi presentati (così come dalla ricchezza bibliografica in materia), è
possibile riconoscere come queste nuove pratiche di governo per il territorio
offrano alla politica locale importanti opportunità per una sua evoluzione in
forme di una democrazia partecipativa e, nei migliori dei casi, in espressioni di
democrazia deliberativa (Pellizzoni 2005; Bobbio 2005). Questo non equivale ad
un’inclusione omnicomprensiva. Rispetto alle forme di democrazia partecipativa
che si sono sviluppate nell’ultimo periodo, pensiamo sia opportuno distinguere
tra forme di partecipazione civile spontanea poco strutturate e dai caratteri
informali (forum cittadini, laboratori di quartiere, conferenze) e forme di
aggregazione più strutturate che incidono probabilmente con maggior peso sul
decision making (è il caso di partenariati socio-economici istituiti attorno ad un
patto, un piano strategico, un progetto Agenda 21, ecc,). Tale distinzione
analitica non vuole attribuire minore o maggiore importanza alla voce dell’una o
dell’altra aggregazione, ma solo specificare che lo spontaneismo, per essere tale,
conserva il suo carattere informale e la sua voice emotiva mediante i quali
intervenire nelle scelte pubbliche. I gruppi più strutturati hanno invece un potere
di scambio maggiore e riescono pertanto, attraverso una voice strumentale, ad
intervenire più velocemente nelle questioni di loro interesse e di propria
competenza, senza per questo rappresentare necessariamente il migliore
contributo.
Queste pratiche non annullano la rappresentanza politica, anzi, invitano l’ente
locale a favorire una stabilità istituzionale di tali pratiche25
,a mantenere il suo
ruolo di enabler e, al contempo, a consolidare le competenze del sistema locale
di governance riunito attorno ad un’idea condivisa di territorio. Per dirlo con le
parole di Gbikpi [AA.VV. 2005:105] «la progressiva apparizione di una
partecipazione sempre più diretta di numerosi cittadini e stakeholders nei
processi politici decisionali fa parte di un’evoluzione generale dei modelli di
governance delle democrazie rappresentative moderne».
25
Tale stabilità e continuità, unita ad altre caratteristiche quali la specificità dell’oggetto della
discussione pubblica e il ruolo delle rappresentanze, potrebbe favorire sia una equa inclusione
sia una buona qualità del processo decisionale. Sulla questione tra “partecipazionisti” e
“deliberazionisti” vedi ricostruzione fatta da Paci [2008:17-23].
21
Questo processo di innovazione su scala locale è una delle ragioni che Bobbio
[2002a:4-5] individua a sostegno della tesi che i governi locali non devono essere
considerati governi minori poiché: sono le istituzioni pubbliche più vicine ai
cittadini; sono i principali fornitori di servizi pubblici; sono i protagonisti di un
processo di globalizzazione che indebolisce la stato nazione e rafforza il livello
locale rendendolo più autonomo e influente; occupano un ruolo strategico nella
nuova architettura istituzionale che vede la politica locale intersecata
strategicamente sia con gli altri livelli territoriali (regione, provincia e comuni)
sia con le istituzioni nazionali e sovra-nazionali (UE). Mantenendo le giuste
cautele e riconoscendo che modelli più democratici di governo locale non sono
gli effetti del cambiamento di cui stiamo scrivendo bensì processi dai confini
ancora aperti e flessibili, è inevitabile riscontrare un legame virtuoso tra
leadership politica, sviluppo di una governance democratica e sistemi di policy
partecipativa, se non altro perché entrambi trovano nel territorio la base pratica
per una loro realizzazione (Paci 2008:18). Ma attenzione. In queste arene non si
tratta di sommare e negoziare gli interessi. Ecco perché la vera portata innovativa
verso un processo di democratizzazione dello spazio locale della politica è dato
dal tentativo di assumere decisioni derivate da una discussione pubblica durante
la quale siano stati presi in considerazione tutti i punti di vista e che determini
un’adesione consapevole alla scelta finale. I governi locali, vittime riflesse della
crisi della democrazia rappresentativa che ha colpito gli stati nazionali
appesantiti da un apparato partitico ormai autoreferenziale, ospitano pratiche
politiche – concertazione, co-progettazione, inclusione, consultazione,
partecipazione – che evocano un valore intrinseco della democrazia: dare potere
di scelta al popolo. Democrazia è quindi vitalità della società civile, è espressione
libera di istanze, è collettività responsabile, è pluralità di voci, è rappresentanza
degli interessi, è politica intelligente, capace e aperta nei confronti dell’esterno, è
un’amministrazione trasparente, è una cultura riformista e moderna.
I risultati, brevemente riportati in questo lavoro e frutto di ricerche pregresse,
contribuiscono a spiegare come questo processo, sebbene non realizzi
pienamente il modello di democrazia deliberativa, può certamente favorire uno
scambio virtuoso di conoscenze e la diffusione di un sapere tra attori istituzionali,
cittadini e soggetti extra-istituzionali che, a diversi livelli, fanno parte di un
territorio del quale esprimono esigenze e programmano obiettivi in ragione di
uno scopo comune di sviluppo e benessere collettivo.
22
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