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Storia della filosofia Lezione VIII
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)
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Indice
1 Gli illuministi francesi ----------------------------------------------------------------------------------- 3
2 Rousseau e la superiorità dell’uomo selvaggio ----------------------------------------------------- 9
2.1 Antologia: la superiorita’ dell’uomo selvaggio --------------------------------------------------- 11
3 L’illuminismo italiano: vico e la “storia ideal eterna” ------------------------------------------ 18
3.1 Antologia: la storia ideal eterna --------------------------------------------------------------------- 21
4 Gli illuministi tedeschi: Kant e il “tribunale della ragione” ----------------------------------- 29
4.1 Antologia: il tribunale della ragione ---------------------------------------------------------------- 31
5 Il criticismo kantiano e la rivoluzione nella filosofia della conoscenza ---------------------- 32
5.1 Antologia: la rivoluzione nella filosofia della conoscenza -------------------------------------- 41
Storia della filosofia Lezione VIII
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are.
1 Gli illuministi francesi
Il 1600 fu l'epoca in cui si riscoprì, dopo un lungo periodo di svalutazione durato tutto il
Medioevo, la Ragione umana come strumento razionale di conoscenza.
Come ogni scoperta appena fatta vi é la tendenza ad entusiasmarsi troppo e a non vederne i
limiti: ecco allora che nel 1600 i filosofi razionalisti ripongono tutta la loro fiducia nella Ragione in
modo acritico, senza domandarsi se essa abbia dei limiti o meno.
Nel 1700, invece, ci si cominciò a chiedere se la
Ragione abbia dei limiti o meno.
L Illuminismo é certamente figlio del Razionalismo
in quanto si predilige la Ragione ad ogni altro strumento di
indagine, ma l' approccio con la Ragione stessa risulta
essere diverso, più ponderato e critico.
Ma a questo punto sembra che con l' Illuminismo si
ritorni al Medioevo perchè in fondo già San Tommaso, che
nutriva grande fiducia nella Ragione, si era chiesto fin
dove essa potesse arriv
La vera differenza tra l’ Illuminismo e il Medioevo
é che mentre per il Medioevo la Ragione é limitata da Dio stesso, per l' Illuminismo i limiti della
Ragione sono imposti dalla Ragione stessa: ad es. questo lo posso conoscere, quest' altro no. Locke,
filosofo preilluminista, definisce la Ragione come una candela che ci illumina il cammino; é sì l'
unica luce che possa illuminarci il cammino, ma rimane comunque una luce fioca, che non può
tutto.
E' anche interessante la metafora di cui si avvale il più grande filosofo illuminista, Kant,
nella “Critica alla ragion pura”, il quale afferma di aver istituito il “tribunale della Ragione”.
Tuttavia, la Ragione é contemporaneamente sia giudice che imputato: si vedono i limiti e si
dà un giudizio, ma a dare il giudizio é proprio colei che é accusata, la Ragione. Ecco allora che per
gli uomini del 1700 la Ragione non é più un qualcosa di illimitato come era per gli uomini del 160,
ma é tuttavia l' unico mezzo a nostra disposizione per conoscere la realtà.
L’Illuminismo, allora, è quel movimento culturale che si sviluppò nel XVIII secolo nei
maggiori paesi europei, determinando una svolta intellettuale destinata a caratterizzare in profondità
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la storia moderna dell’Occidente. Esso ebbe il suo centro propulsore in Francia, ma i fondamenti
teorici risalgono prevalentemente all’empirismo inglese e a Newton.
In Inghilterra il successo della rivoluzione politica consentì l’affermarsi della classe
borghese ai vertici dello Stato; mentre ciò non avvenne in Francia e nel resto dell’Europa, dove le
antiche monarchie assolute, l’aristocrazia e il clero conservavano ancora intatti i loro privilegi e le
prerogative del potere politico. Qui, dunque, lo scontro tra la borghesia in ascesa e le forze della
conservazione assunse nel ‘700 un carattere particolarmente drammatico, sfociando, alla fine del
secolo, nella Rivoluzione francese. Di tale rivoluzione, la cultura illuministica costituì una premessa
teorica essenziale: l’accesa battaglia delle idee preparò e motivò, in Francia, il passaggio alla lotta
politica e allo scontro fisico, con un’inclinazione alla radicalità dei propositi che talora scavalcò le
originarie istanze borghesi di riforma e di moderato progresso sociale.
Idea guida dell’Illuminismo fu la sovranità della Ragione e l’impegno di avvalersi della
Ragione in modo libero e pubblico ai fini di un miglioramento effettivo della vita quotidiana. Ciò
significò, per gli illuministi, assumere un atteggiamento problemizzante nei confronti dell’esistente
e di ogni tesi preconcetta, facendo valere il proprio diritto di analisi e di critica. La forza critica
della Ragione deve illuminare la mente di tutti gli uomini, liberandoli dalla millenaria sudditanza
alla superstizione religiosa e dalla sociale ed economica ai ceti privilegiati. Al centro di questa
istanza critica si pone l’idea di progresso, la convinzione, cioè, che con la moderna rivoluzione
scientifica si sia aperta all’uomo la possibilità del riscatto dal suo passato di tenebre culturali e di
sofferenze materiali. Questo concetto della Ragione come organo di verità e strumento di progresso,
implica una mutata interpretazione anche dell’intellettuale e del suo compito tra gli uomini. Per gli
illuministi, il “filosofo”, intendendo con tale espressione non solo il pensatore in senso stretto e
tecnico, ma l’intellettuale in genere, non è più il “sapiente” avulso dalla vita e dedito alle
speculazioni metafisiche, ma un uomo in mezzo agli altri uomini, che lotta per rendere più abitabile
il mondo e che si sente utile alla società. Egli porta dinanzi al tribunale della Ragione passato e
presente, politica e religione, società e costume al fine di riformare la realtà e di giovare al
prossimo, permettendo di diminuire le sofferenze degli uomini e di raggiungere la maggior felicità
possibile per il genere umano.
Strumento del progresso politico-sociale è principalmente la cultura: dalla sua diffusione
dipende il riscatto del popolo che deve prendere coscienza dei propri diritti naturali. Naturalmente
non si tratta più di una cultura esoterica, accessibile solo a pochi privilegiati, ma piuttosto si tratta di
una politica culturale che fa della diffusione delle idee il suo scopo principale. Ed è per questo
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atteggiamento che si è parlato del ‘700 come del secolo filosofico per eccellenza e col termine
philosophes sono genericamente indicati gli esponenti dell’Illuminismo francese.
Principale strumento di diffusione delle idee divennero nel ‘700 i dizionari e le enciclopedie.
Primo esempio del genere fu il Dizionario storico e critico (1695-97) di Pierre Bayle (1647-1706).
In esso viene sottoposto a severa condanna l’ottimismo metafisico di Cartesio e soprattutto di
Leibniz. In particolare, l’idea di Leibniz di una possibile conciliazione fra progresso e tradizione
religiosa, i concetti di armonia prestabilita e del migliore dei mondi possibili vengono dichiarati
illusori. Il dogmatismo religioso e metafisico viene continuamente smentito dall’esperienza,
cosicché Bayle invoca la tolleranza religiosa e la libertà di pensiero. Con arguta ironia egli
smaschera le superstizioni e le ipocrisie dell’ortodossia religiosa; sebbene si professi personalmente
religioso, riconosce che anche l’ateo può agire secondo principi genuinamente morali e denuncia gli
incredibili delitti che sono stati compiuti in nome della fede. In conclusione, il Dizionario fa uso
della critica storica per far giustizia di una tradizione ottusa e violenta, rivendicando il valore dei
fatti e i diritti della libera Ragione.
Alla storia si appella anche Charles De Sécondat, barone di Montesquieu (1689-1755) nelle
Considerazioni sulle cause della grandezza dei Romani e della loro decadenza (1734);egli era già
noto per aver pubblicato nel 1721 le argute Lettere persiane (in esse, ponendo a confronto i costumi
della Francia del tempo con i costumi orientali, si disegnava un’acuta satira dell’assolutismo
monarchico e del dogmatismo religioso).
Ma il capolavoro di Montesquieu, lo Spirito delle leggi (1748), presenta poi l’ambizioso
progetto di ricondurre il processo storico delle società umane a leggi fondamentali e universali. Tali
leggi governano il rapporto materiale che lega l’uomo alla natura, sicché Montesquieu vide per
primo che leggi e le strutture sociali rispecchiano puntualmente le condizioni ambientali,
climatiche, l’organizzazione della vita e del lavoro. Le circostanze fisiche condizionano insomma la
vita spirituale dei popoli, sebbene accanto alle cause fisiche si debba tener conto delle cause morali,
cioè dello spirito profondo di ogni popolo nel suo sforzo di adattamento e di reagire ai bisogni
dettati dalla sua naturale collocazione sulla Terra.
Da qui la riflessione di Montesquieu sulle differenti forme di governo, che egli riduce a tre
fondamentali (il governo dispotico, che si fonda sulla paura; il governo monarchico, fondato
sull’onore; il governo repubblicano, sia democratico sia aristocratico, che si fonda sulla virtù).
Queste forme di governo obbediscono a determinate esigenze fisiche e materiali e trovano in queste
una certa legittimazione. Tuttavia, nel suo sforzo di conseguire una più ampia libertà e un decisivo
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progresso, l’uomo dovrà mirare alla separazione dei tre principali poteri dello Stato (legislativo,
esecutivo e giudiziario) in persone e corpi distinti. Ove tali poteri siano invece unificati (come nella
monarchia assoluta della Francia) il cittadino è esposto fatalmente all’arbitrio, all’abuso e alla
violenza.
L’incarnazione più alta e perfetta dello spirito critico e corrosivo dell’Illuminismo è
rappresentata dalla figura di François Marie Arouet detto Voltaire (1694-1778). Ingegno duttile e
multiforme, Voltaire è autore di romanzi, opere teatrali, saggi scientifici, tratti filosofici, scritti di
alta diffusione culturale. In tutti i suoi lavori domina uno stile brillante, mordace, irresistibilmente
arguto; le sue «frecciate», le sue «battute», facevano il giro di tutte le corti e dei salotti colti europei.
Loro bersaglio era il fanatismo sotto qualsiasi forma, la rozza prepotenza dei nobili e del clero, la
doppiezza e la perfidia delle gerarchie ecclesiastiche. In breve Voltaire divenne il capo morale del
partito dei «filosofi», la massima autorità del movimento illuminista.
I suoi primi scritti (condannati e pubblicamente bruciati) esaltano il regime liberale inglese,
l’empirismo di Locke e la scienza di Newton (Lettere sugli inglesi o lettere filosofiche, 1734;
Elementi sulla filosofia di Newton, 1738). Seguono varie opere letterarie e pamphlet polemici. Del
1759 è il romanzo Candido o dell’ottimismo, nel quale si ridicolizza la tesi leibniziana del
«migliore dei mondi possibili». Nel 1764 appare il Dizionario filosofico, capolavoro di arguzia
polemica, naturalmente condannato dalle autorità. Segue nel 1765 la Filosofia della storia e poi il
Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni. Il secolo di Luigi XIV è invece il suo capolavoro
storico. Voltaire celebra l’imporsi della Ragione e della scienza nella storia. Egli ammette
l’esistenza di Dio, come creatore dell’ordine della natura; quanto all’ordine morale e sociale, però,
l’uomo stesso deve farsene carico. L’errore, l’ignoranza e la superstizione (voluti principalmente
dai preti di ogni setta religiosa per loro personale tornaconto) sono i mali che hanno sinora impedito
che l’umanità imboccasse la via di un reale progresso. Questi mali devono essere combattuti dalla
cultura dei lumi, facendo valere contro il fanatismo la saggia tolleranza della Ragione, contro i
fantasmi metafisici le solide argomentazioni della scienza e i criteri di un salutare empirismo.
A Locke e a Newton si rifà anche Etienne Bonnot, abate di Condillac (1714-1780), che è la
mente filosoficamente più acuta tra gli illuministi. Nel Saggio sull’origine delle conoscenze umane
(1746) Condillac espone la teoria lockiana della conoscenza, imponendola agli studiosi di tutta
Europa. Egli solleva tuttavia qualche riserva circa la distinzione lockiana fra la sensazione e la
riflessione. Quest’ultima, riguardando la operazioni della mente (quali il comparare, il giudicare
ecc.), accolte come fatti originari, non bisognosi di spiegazione, rischia di reintrodurre di soppiatto
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un certo apriorismo, se non delle idee, quanto meno delle facoltà della mente. Il capolavoro di
Condillac, il Trattato delle sensazioni (1754), mira a risolvere questo problema. Il suo intento è
quello di mostrare come ogni conoscenza, compresi gli atti della mente, derivi dal puro e semplice
sentire. La sensazione viene ad essere così il principio unitario che spiega tutta la natura umana, in
analogia al principio Newtoniano della gravitazione che aveva spiegato l’universo fisico. Con il
celebre esempio della statua, Condillac cerca di dimostrare l’origine dalla sensazione di ogni umana
conoscenza, sentimento o giudizio. Egli immagina una statua di marmo che è all’interno costruita
esattamente come un uomo naturale. Eliminando progressivamente la barriera marmorea ai sensi (il
tatto, la vista, ecc) Codillac mostra come il semplice apporto delle sensazioni, le loro differenze, le
tracce che esse incidono nella mente, all’inizio rigorosamente vuota e passiva, producano, senza
bisogno di ricorrere a ulteriori principi o facoltà, tutte le conoscenze e i relativi oggetti dei quali gli
uomini sono abitualmente forniti. Per tale motivo la posizione di Condillac vede definita sensismo.
Essa influenzò largamente tutto il pensiero del settecento.
Condillac non si era mai spinto oltre un sensismo puramente teorico, infatti egli era un uomo
sinceramente religioso e aveva rivendicato la distinzione cartesiana tra anima e corpo, limitandosi
ad assimilare al corpo le attività intellettive della mente. Di fatto però il suo sensismo apriva la via a
soluzioni schiettamente materialistiche, con rilevanti conseguenze sul piano morale e sociale, oltre
che su quello puramente conoscitivo. I due libri di Jiulien Offroy de la Mettrie (1709-1751),
Storia naturale dell’anima (1745) e il celebre L’uomo macchina (1748), traggono appunto queste
conseguenze. La Mettrie, che è un medico, sostiene, sulla base di varie osservazioni e argomenti,
che le facoltà psichiche dell’uomo dipendono interamente dalle condizioni corporee. L’uomo non
differisce in nulla dagli animali se non per la maggiore complessità del suo organismo e del suo
cervello, ed è come gli animali una perfetta macchina corporea. Di qui anche (nell’Arte di godere o
Scuola della voluttà,1751) l’esaltazione del piacere e la polemica contro ogni morale di tipo
religioso. Tesi materialistiche sostiene anche il libro di Claude-Adrien Elvetius (1715-1771),
Dello spirito (1758), che nonostante la condanna inflitte al suo autore, ebbe un’immensa diffusione.
Helvetius trae dal sensismo di Codillac le logiche conseguenze morali sociali: ogni uomo è
completamente plasmato dall’ambiente esterno. In partenza tutti gli uomini sono uguali, ma le
differenze di vita e di esperienza, educazione e amicizia ecc. li distinguono, secondo le varie classi
sociali. L’uomo non potrà quindi migliorare se non si mutano radicalmente le condizioni materiali e
culturali di vita del popolo. Per ottenere ciò, tuttavia, bisogna modificare le leggi e la forma dei
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governi, in particolare bisogna abbattere l’assolutismo monarchico, vera causa delle miserie e delle
depravazioni umane.
Come si vede il materialismo illuministico, movendo da considerazione teoriche sfocia
subito sul piano della politica e della critica sociale. Ne è un ulteriore esempio il libro di Paul-
Henry Dietrich d’Holbach (1723-1789), Sistema della natura, apparso sotto lo pseudonimo di
Mirabald nel 1770. Egli presenta non soltanto un sistema della natura impiantato su basi
interamente materialistiche, ma auspica anche l’avvento di una società puramente atea e naturale.
Non solo l’ateismo non si oppone alla possibilità dei valori sociali e morali, ma anzi esso è assai
superiore ad ogni forma di astratto moralismo religioso. Solo tornando ai genuina istinti naturali e a
una rivalutazione del piacere sensibile l’uomo potrà raggiungere una felicità sociale.
Ma la realizzazione più tipica della politica culturale degli illuministi fu la grande
Enciclopedia o Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri. Iniziata nel 1751 da
Denis Diderot (1713-1784) e da Jean-Baptiste Le Rond D’Alambert (1717-1783), l’opera
incontrò subito la netta opposizione dei gesuiti, delle autorità ecclesiastiche e di parte della corte
francese. Lo scoppio della guerra dei Sette anni contro Federico II di Prussia, alla cui corte, di idee
aperte e radicali, si erano via via rifugiati vari illuministi perseguitati dalla legge francese, finì per
occasionare la condanna dell’opera nel 1759.D’Alambert si ritirò allora dall’impresa che solo
Diderot continuò a difendere, salvando il materiale raccolto dalle confische della polizia. Nel 1766
Diderot ottenne il tacito consenso di riprendere la stampa dell’Enciclopedia, che fu compiuta nel
1772, in 17 volumi, più 11 tavole. Gli intenti dell’Enciclopedia sono esposti nel Discorso
preliminare scritto da D’Alambert. L’Enciclopedia si rifà espressamente all’ideale scientifico
baconiano e al concetto illuministico di progresso, che ne è la logica conseguenza. La base
filosofica assunta è quella dell’empirismo inglese di Locke e del sensismo di Condillac, mentre per
la scienza è quello newtoniano. Ma oltre a ciò riveste grande importanza l’attenzione rivolta alle
attività tecniche e artigianali, per la prima volta assurte ad argomento degno di considerazioni
filosofiche. Con chiarezza è colto il nesso tra applicazione scientifica e progresso sociale. I
collaboratori dell’enciclopedia furono molto numerosi e a ciò è dovuto il tono molto vario
dell’opera che alterna posizioni radicali ad altre di stampo tradizionale. Ma nell’insieme
l’Enciclopedia svolse la sua funzione di modello per una nuova cultura “illuminata”, rivolta al
pubblico, basata sul progresso delle scienze, delle arti tecniche e della critica storica.
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2 Rousseau e la superiorità dell’uomo selvaggio L’Illuminismo ha posto nella Ragione la vera natura dell’uomo, cioè l’ordine normativo al
quale la vita umana va ricondotta nella molteplicità dei suoi elementi costitutivi. Rousseau (1712-
1778), invece, sembra su questo punto infrangere l’ideale illuministico: la
natura umana non è Ragione, ma istinto, sentimento, impulso, spontaneità.
Il motivo dominante dell’opera di Rousseau è il contrasto tra
l’uomo naturale e l’uomo artificiale. Rousseau ritiene che i beni che
l’umanità crede di aver conquistati, i tesori del sapere, dell’arte, della vita
raffinata non hanno contribuito alla felicità e alla virtù dell’uomo, ma lo
hanno allontanato dalla sua origine ed estraniato dalla sua natura. Le scienze e le arti devono la loro
nascita ai nostri vizi e hanno contribuito a rinforzarli. Esse inoltre hanno contribuito a determinare
l’ineguaglianza tra gli uomini, ineguaglianza dalla quale nascono tutti i mali sociali. L’egoismo, la
vanità e il bisogno di dominio governano i rapporti fra gli uomini, sicché la stessa vita sociale si
regge sui vizi più che sulle virtù. Tuttavia, esplicita Rousseau nel Discorso sull’origine e i
fondamenti della disuguaglianza (1754), questa situazione in cui l’uomo si trova non è costitutiva
dell’essere dell’uomo né è dovuta al peccato originale, ma è determinata da cause estranee ed
accidentali, che secondo Rousseau sono, in primo luogo la nascita della proprietà privata, a cui si
deve lo stato di ricco e povero; poi l’istituzione della magistratura, a cui si deve lo stato di potente e
debole; infine il mutamento del potere legittimo in potere arbitrario, a cui si deve lo stato di padrone
e schiavo, che è l’ultimo grado dell’ineguaglianza.
E’ evidente che l’uomo può risalire dallo stato in cui si trova verso lo stato originario.
Infatti, la decadenza è dovuta a causa estranee ed accidentali sulle quali la volontà umana può agire.
Pertanto Rousseau intende il progresso come un ritorno alle origini, cioè allo stato di natura, cioè
alla condizione naturale dell’uomo. Ma egli non intende questa condizione come uno stato di fatto.
Nella prefazione del Discorso sulla disuguaglianza afferma:«Essa è uno stato che non esiste non
più, che forse non è mai esistito, che probabilmente non esisterà mai, ma di cui è necessario tuttavia
aver nozioni giuste per ben giudicare del nostro stato presente». Lo stato di natura è dunque soltanto
una norma di giudizio, un criterio direttivo per sottrarre l’uomo al disordine e all’ingiustizia della
sua condizione presente e riportarlo all’ordine e alla giustizia che devono essergli propri.
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La Nuova Eloisa (1761), il Contratto sociale (1762) e l’Emilio (1762) sono le opere in cui
Rousseau stabilisce le condizioni per le quali la famiglia, la società e l’individuo possono ritornare
nella loro condizione naturale, uscendo dalla degenerazione artificiale in cui sono caduti.
La Nuova Eloisa, che narra la vicenda di due giovani amanti contrastati nel loro amore dalla
volontà dei parenti e dalle convenzioni sociali, rappresenta l’affermazione della santità del vincolo
familiare fondato sulla libera scelta degli istinti naturali, contro le ingiuste prevenzioni di casta che
impediscono l’amore tra due giovani di ceto sociale differente. Per il vincolo coniugale, dunque, il
ritorno alla natura significa la libertà della scelta guidata dall’istinto.
Il Contratto sociale, invece, rappresenta la delineazione di una comunità etico-politica che
renda possibile il ritorno alla natura, e cioè a una forma di fondamentale giustizia. In tale comunità
ciascun individuo non obbedisce ad una volontà estranea, ma ad una volontà generale che egli
riconosce per propria e quindi a se stesso. L’ordine sociale non è un ordine naturale, ma tuttavia
nasce per una necessità naturale quando gli individui non sono più in grado di vincere le forze che si
oppongono alla loro conservazione. Allora risulta necessario “trovare una forma d’associazione che
difenda e protegga con tutta la forza comune la persona e i beni di ciascun associato, e per la quale
ciascuno, unendosi con tutti, non obbedisca tuttavia che a se stesso e rimanga così libero come
prima”. Questo problema è risolto dal patto che è alla base della società politica. La clausola
fondamentale di questo patto è l’alienazione totale di ciascun associato, con tutti i suoi diritti, a tutta
la comunità. In cambio della sua persona privata, ciascun contraente riceve la nuova qualità di
membro o parte indivisibile del tutto; così si genera un corpo morale e collettivo, composto da tanti
membri quanti voti ha l’assemblea, corpo che ha la sua unità, il suo io comune, la sua vita e la sua
volontà. La volontà propria del corpo sociale o sovrano è la volontà generale, che non è la somma
delle volontà particolari, ma la volontà che tende sempre all’utilità generale e che quindi non può
sbagliare. Di questa volontà sono emanazioni le leggi, che sono gli atti della volontà generale; e non
sono quindi gli ordini di un uomo o di più uomini, ma le condizioni per la realizzazione del bene
pubblico. Intermediario tra i sudditi e il corpo politico è il governo, a cui è dovuta l’esecuzione delle
leggi e il mantenimento della libertà civile e politica. Ora, i governi tendono a degenerare
opponendosi alla sovranità del corpo politico con una loro volontà particolare che si oppone alla
volontà generale. Ma i depositari del potere esecutivo non hanno nessuna autorità legittima verso il
popolo che è il vero sovrano e può destituirli quando non obbediscono alla volontà generale.
Un patto sociale stabilito a tali condizioni garantisce, secondo Rousseau, la libertà dei
cittadini perché garantisce che ciascuno dei suoi membri non obbedisca che a se stesso. Difatti la
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volontà generale non è che la volontà diretta all’interesse di tutti, e obbedendo alla volontà generale
l’individuo non subisce alcuna diminuzione o limitazione. E’ necessaria però la completa
subordinazione dell’individuo alla volontà generale perché fuori della volontà generale egli non può
avere che interessi o moventi particolari e quindi ingiusti.
In altri termini, la vera natura dello Stato non è quella di dare agli individui un sostituto
della libertà naturale, ma un’altra forma di libertà che garantisca all’individuo ciò che la libertà
naturale gli garantiva. La natura dell’uomo è libertà, ma la comunità politica non può garantire
all’individuo la libertà dell’istinto disordinato, ma solo quella di un istinto disciplinato e
moralizzato dalla Ragione.
Anche qui la natura non vale se non come norma, cioè come un criterio di ordine e giustizia.
Nell’Emilio, Rousseau chiarisce il significato e le condizioni del ritorno per l’individuo. Qui
tutto dipende dall’educazione: all’educazione tradizionale che opprime e distrugge con una
soprastruttura artificiale la natura originaria, bisogna sostituire un’educazione che si proponga come
unico fine la conservazione e il rafforzamento di tale natura. L’Emilio è la storia di un fanciullo
educato proprio a questo fine, rispetto al quale, l’opera dell’educatore deve essere, almeno in un
primo tempo, negativa, cioè non deve insegnare la virtù e la verità, ma guardare il cuore del vizio e
la mente dell’errore. L’azione dell’educatore deve essere unicamente diretta a far si che lo sviluppo
fisico e spirituale del fanciullo avvenga in modo del tutto spontaneo, che ogni sua nuova
acquisizione sia una creazione, che nulla venga dall’esterno, ma tutto dall’interno, cioè dal
sentimento e dall’istinto dell’educando. Tale principio, però, sembra contrastare, nell’opera di
Rousseau, con tutto l’insieme di artifici, accorgimenti e finzioni che il precettore ordisce da ogni
parte intorno a lui per procurargli l’occasione favorevole di determinati sviluppi. In realtà il motivo
di tale contrasto è che l’educazione, secondo Rousseau, non è il risultato di una libertà capricciosa
e disordinata, ma di una “libertà ben guidata”. Così anche nell’Emilio la natura umana non è
l’istinto o la passione nella sua immediatezza, ma piuttosto l’ordine razionale e l’equilibrio ideale
dell’istinto e delle passioni. Perciò non è una condizione primitiva di cui l’uomo sia in possesso, ma
una norma da riconoscere e da far valere; non è un fatto, ma un dover essere.
2.1 Antologia: la superiorita’ dell’uomo selvaggio PROBLEMA: come è nata la civiltà? Quale rapporto vi è fra progresso morale e progresso
tecnologico?
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TESI: l’uomo non nasce cattivo, ma lo diventa vivendo in società. Ribaltando la tradizionale
ottica interpretativa della storia, Rousseau sostiene la superiorità etica dell’uomo selvaggio. Lo stato
di natura di cui parla Rousseau, però, non si riferisce ad una precisa fase della storia umana e non
coincide affatto con la condizione delle attuali società tribali. In realtà, è una pura ipotesi di lavoro,
una categoria teorica, la risposta ad una precisa domanda filosofica: come sarebbe l’uomo se fosse
educato non dagli altri uomini, ma direttamente dalla natura stessa?
Dal Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza, Rousseau scrive:
l’obiettivo è descrivere lo stato naturale dell’uomo, precedente alla civiltà:
“O uomo...i tempi di cui parlerò sono ormai ben lontani: quanto sei mutato da quello che
eri! È, per così dire, la vita della tua specie che mi accingo a descriverti, secondo le qualità che hai
ricevuto, che la tua educazione e le tue abitudini hanno potuto depravare, ma non hanno potuto
distruggere. Vi è un’età, lo so, alla quale il singolo individuo umano vorrebbe arrestarsi; tu
cercherai invece l’età in cui desidereresti che la tua specie si fosse fermata. Scontento del tuo stato
presente per motivi che preannunciano alla tua infelice posterità scontenti anche maggiori, vorresti
forse poter tornare indietro. E questo sentimento deve costituire un elogio per i tuoi lontani
antenati, una critica per i tuoi contemporanei e un motivo di spavento per coloro che avranno la
disgrazia di vivere dopo di te...”.
La superiorità dello stato selvaggio risiede nell’armonia con l’ambiente naturale:
“Concludiamo dunque dicendo che, errando nelle foreste senza lavoro, senza parola, senza
domicilio, senza guerra e senza legami, senza alcun bisogno dei suoi simili, così come senza alcun
desiderio di nuocer loro, persino senza mai riconoscerne alcuno individualmente, l’uomo
selvaggio, soggetto a poche passioni, e bastante a se stesso, non aveva che i sentimenti e i lumi
propri a quello stato, non provava che i bisogni veri, non guardava se non quanto aveva interesse
di vedere e la sua intelligenza non faceva maggiori progressi della sua vanità”.
Nella condizione presociale non esistono progresso e storia:
“Se per caso faceva qualche scoperta non poteva farne parte a nessuno in quanto non
riconosceva neppure i suoi figli. L’arte moriva con l’inventore; non vi era né educazione né
progresso, le generazioni si moltiplicavano inutilmente e, poiché ognuno partiva sempre dal
medesimo punto, i secoli scorrevano e rimaneva inalterata la rozzezza delle età primitive, la specie
era già vecchia e l’uomo rimaneva sempre bambino...”.
La proprietà privata è all’origine della civiltà e causa prima della degenerazione
dell’uomo:
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“Il primo uomo che, avendo recinto un terreno, ebbe l'idea di proclamare questo è mio, e
trovò altri così ingenui da credergli, costui è stato il vero fondatore della società civile. Quanti
delitti, quante guerre, quanti assassinii, quante miserie, quanti orrori avrebbe risparmiato al
genere umano colui che, strappando i pali o colmando il fosso, avrebbe gridato ai suoi simili:
“Guardatevi dall'ascoltare questo impostore; se dimenticherete che i frutti sono di tutti e che la
terra non è di nessuno, sarete perduti!”.
L’instaurazione della proprietà privata presuppone una specifica cultura, sedimentata
in tempi lunghi:
“ Ma è molto probabile che ormai le cose fossero già giunte al punto da non poter più
durare come erano prima; infatti questa idea di proprietà, dipendendo da molte idee precedenti
formatesi evidentemente in momenti successivi, non si è formata di colpo nella mente umana: è
stato necessario compiere molti progressi, acquistare molte capacità e molti lumi, trasmetterli e
accrescerli di età in età, prima di giungere a questo termine ultimo dello stato di natura.
Riprendiamo dunque le cose dall'inizio, cercando di abbracciare con un unico sguardo questa lenta
successione di avvenimenti e di conoscenze nel loro ordine più naturale...”.
La danza collettiva intorno al fuoco fu probabilmente la prima occasione di socialità:
“A misura che le idee e i sentimenti si susseguono, che la mente e il cuore si esercitano, il
genere umano continua ad addomesticarsi, i rapporti si allargano e i legami si stringono. Cominciò
allora l'usanza di radunarsi davanti alle capanne o intorno ad un grande albero; il canto e la
danza, veri figli dell'amore e dell'ozio, divennero il divertimento o meglio il passatempo degli
uomini e delle donne sfaccendati e assembrati.”
La sola danza collettiva fu sufficiente a produrre subito i peggiori vizi:
“ Ognuno cominciò a guardare gli altri e a voler essere a sua volta guardato; la stima
pubblica cominciò così ad aver valore. Colui che cantava o ballava meglio di tutti, il più bello, il
più forte, il più destro o il più eloquente divenne il più considerato e fu questo il primo passo verso
la disuguaglianza e nello stesso tempo verso il vizio; da queste prime preferenze nacquero da un
lato la vanità e il disprezzo, dall'altro la vergogna e l'invidia; e il fermento prodotto da questi nuovi
lieviti dette luogo infine a prodotti funesti, alla felicità e all'innocenza”.
La difesa del prestigio sociale produsse la nascita dell’etichetta, delle leggi, della
vendetta:
“Non appena gli uomini ebbero cominciato ad apprezzarsi vicendevolmente e nella loro
mente sorse l'idea della considerazione, tutti pretesero di avervi diritto e non fu più possibile per
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nessuno di farne a meno impunemente. Nacquero così i primi doveri delle buone maniere, anche
presso i selvaggi, e ogni torto fatto volontariamente divenne un oltraggio, poiché oltre al male
derivante dall'ingiuria, l'offeso vi vedeva anche il disprezzo verso la sua persona, più
insopportabile sovente del male stesso. Fu così che, punendo ognuno il disprezzo che gli era stato
dimostrato in maniera proporzionale alla importanza da lui attribuita a se stesso, le vendette
divennero terribili e gli uomini sanguinari e crudeli”.
Questi vizi sono osservabili presso gli attuali popoli primitivi, la cui condizione non va
confusa con lo stato di natura:
“E’ questo appunto lo stadio a cui erano giunti la maggior parte dei popoli selvaggi a noi
noti; e se molti si sono affrettati a concluder da ciò che l'uomo è naturalmente crudele e che ha
bisogno di disciplina per esser addolcito, ciò lo si deve al fatto che non si erano distinte con
sufficiente precisione le idee e perché non si era osservato quanto tali popoli fossero già lontani dal
primitivo stato di natura”.
Il selvaggio naturale era superiore all’uomo moderno dal punto di vista etico:
“ In realtà nulla vi è di più dolce dell'uomo nel suo stato primitivo, allorché, posto dalla
natura a uguale distanza dalla stupidità dei bruti e dai lumi funesti dell'uomo civile, e spinto
unicamente, sia dall'istinto che dalla Ragione, a difendersi dal male che lo minaccia, egli è
trattenuto dal fare del male ad alcuno dalla pietà naturale e non vi è spinto da nulla, neppure dopo
averne ricevuto...”.
Lo sviluppo della società determinò la nascita del sistema giuridico:
“Ma va osservato che una volta nata la società, le relazioni già istituite fra gli uomini
esigevano da essi qualità diverse da quelle inerenti alla loro primitiva costituzione. Poiché la
moralità cominciava a introdursi nelle azioni umane e poiché ognuno, prima che vi fossero leggi,
era unico giudice e vendicatore delle offese ricevute, la bontà adatta al puro stato di natura non
conveniva più alla società nascente; occorreva che le punizioni diventassero più severe a misura
che le occasioni di offesa diventavano più frequenti, e il terrore delle vendette doveva tenere il
posto del freno delle leggi”.
Le prime società tribali, ancora vicine allo stato presociale, furono le più felici della
storia umana:
“In questo modo, sebbene gli uomini fossero divenuti meno resistenti e sebbene la pietà
naturale avesse già subito qualche alterazione, questo periodo di sviluppo delle facoltà umane - che
sta proprio a mezza via tra l'indolenza dello stato primitivo e la petulante attività del nostro amor
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proprio è dovette essere l'epoca più felice e più durevole. Quanto più vi si riflette, tanto più si
capisce come questa condizione fosse la meno soggetta alle rivoluzioni, fosse la più consona
all'uomo, e come egli ne sia uscito solo per un qualche caso funesto che, per l'utilità comune, non
avrebbe mai dovuto accadere. L'esempio dei selvaggi, che quasi tutti sono stati trovati fermi a
questo stadio, sembra confermare che il genere umano era fatto per restarvi sempre, che questa
condizione costituisce la vera giovinezza del mondo e che tutti i successivi progressi, se sono stati
in apparenza altrettanti passi verso la perfezione dell'individuo, in realtà hanno portato verso la
decrepitezza della specie.
Finché gli uomini si sono accontentati delle loro rustiche capanne, finché si sono limitati a
cucire i loro abiti fatti di pelli con spine o lische, ad adornarsi di piume e di conchiglie, a
dipingersi il corpo di diversi colori, a perfezionare o abbellire i loro archi e le loro frecce, a
costruire con pietre taglienti qualche canotto da pescatore o qualche rozzo strumento musicale; in
breve, finché si sono applicati soltanto a opere che un uomo poteva fare da solo, ad arti che non
richiedevano il concorso di molte mani, essi sono vissuti liberi, sani, buoni e felici, nella misura in
cui potevano esserlo secondo la loro natura, ed hanno continuato a godere tra loro delle dolcezze
di un rapporto indipendente”.
Proprietà privata e divisione del lavoro sono cause della degenerazione:
“Ma dal momento in cui un uomo ebbe bisogno dell'aiuto di un altro, non appena ci si
accorse che poteva esser utile ad un solo uomo di avere provvigioni per due, l'uguaglianza
scomparve, si introdusse la proprietà, il lavoro divenne necessario e le vaste foreste si mutarono in
campi ridenti che dovettero essere bagnati dal sudore degli uomini e in cui si vide ben presto la
schiavitù e la miseria germogliare e crescere insieme alle messi.
La metallurgia e l'agricoltura furono le due arti la cui scoperta produsse questa grande
rivoluzione. Se per il poeta furono l'oro e l'argento, per il filosofo furono il ferro e il grano a render
civili gli uomini e a portare così alla rovina il genere umano. Entrambi infatti erano ignoti ai
selvaggi dell'America che, per questo motivo, sono rimasti tali; sembra persino che gli altri popoli
siano rimasti barbari finché hanno praticato una sola di queste arti. E forse una delle ragioni
principali per cui l'Europa è stata civilizzata, se non prima, almeno più durevolmente e meglio
delle altre parti del mondo, risiede nel fatto che essa è il paese al tempo stesso più ricco di ferro e
più fertile in grano. [...]
Dalla cultura delle terre è derivata necessariamente la loro spartizione, e dal
riconoscimento della proprietà le prime regole di giustizia: infatti per dare a ciascuno il suo è
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necessario che ognuno possa avere qualcosa; inoltre, poiché gli uomini cominciavano a guardare
verso l'avvenire e si accorgevano di aver tutti qualcosa da perdere, nessuno di loro si riteneva al
sicuro dalle rappresaglie per i torti che poteva arrecare ad altri. Questa origine è tanto più
naturale in quanto è impossibile concepire l'idea di una proprietà sorta da altra fonte che non sia il
lavoro manuale; non si vede infatti che cosa l'uomo possa metter di suo più del proprio lavoro per
appropriarsi di cose da lui non fatte. Soltanto il lavoro, dando al coltivatore un diritto sul prodotto
della terra che ha coltivato, gli conferisce anche un diritto sul fondo, almeno fino al momento del
raccolto, e così di anno in anno il possesso diviene continuo e si trasforma facilmente in proprietà.
[...]
Ecco dunque tutte le nostre facoltà sviluppate, la memoria e l'immaginazione in gioco,
l'amor proprio destato, la Ragione resa attiva e la mente giunta quasi al limite della perfezione di
cui è suscettibile”.
La proprietà privata ha sviluppato l’individualismo e l’ostentazione di sé:
“ Ecco tutte le qualità naturali messe in azione, il rango e la sorte di ogni uomo stabiliti non
soltanto secondo la quantità dei beni e il potere di servire o di nuocere, ma anche secondo
l'intelligenza, la bellezza, la forza o l'abilità, secondo i meriti o i talenti; e poiché queste qualità
erano le sole che potessero attirare la considerazione, divenne tosto necessario averle o
ostentarle”.
Il bisogno degli altri ha sviluppato l’ipocrisia sociale:
“ Il proprio tornaconto richiese di mostrarsi diversi da ciò che si era realmente. Essere e
apparire divennero due cose del tutto diverse e da tale distinzione sorsero il fasto imponente, la
scaltrezza ingannatrice e tutti i vizi che ne sono il corteggio. Da un altro lato, ecco l'uomo, prima
libero e indipendente, ora assoggettato, per così dire, dalla moltitudine dei nuovi bisogni, a tutta la
Natura, e soprattutto ai suoi simili, di cui in un certo senso diviene lo schiavo, pur quando ne
diventi il padrone; ricco, ha bisogno dei loro servigi, povero, ha bisogno del loro soccorso, e
neppure la mediocrità lo pone in condizione di fare a meno di loro. Deve quindi cercare
continuamente di interessarli alla sua sorte e fare in modo che essi, in realtà o in apparenza,
trovino il loro profitto a lavorare per il suo vantaggio: ciò lo rende astuto e artificioso con gli uni,
imperioso e duro con gli altri e lo pone nella necessità di ingannare tutti coloro di cui ha bisogno,
quando non può farsi temere da essi e non trova il proprio interesse a servirli utilmente”.
L’aggressività, più o meno dissimulata, è al fondo della società civile:
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“Infine l'ambizione divorante, la brama di accrescere la propria fortuna personale, meno
per una vera necessità che per mettersi al di sopra degli altri, ispira a tutti gli uomini una trista
inclinazione a nuocersi reciprocamente, una invidia segreta tanto più pericolosa in quanto, per
riuscire con maggior sicurezza nel suo intento, essa si copre sovente con la maschera della
benevolenza; in una parola, si ha da un lato spirito di concorrenza e rivalità e dall'altro contrasto
di interessi e sempre il desiderio nascosto di fare il proprio vantaggio a spese altrui. Tutti questi
mali sono il primo effetto della proprietà e il corteggio inseparabile della nascente
disuguaglianza...”.
Le leggi che regolano la società creano un uomo artificioso, lontano dalla semplicità
naturale:
“Tale fu o dovette essere l'origine della società e delle leggi, che diedero nuovi impedimenti
al debole e nuove forze al ricco, distrussero definitivamente la libertà naturale, stabilirono per
sempre la legge della proprietà e della disuguaglianza, trasformarono un'abile usurpazione in un
diritto irrevocabile e assoggettarono da allora in poi tutto il genere umano, per il vantaggio di
qualche ambizioso, al lavoro, alla servitù e alla miseria.”
La degenerazione prodotta dalla civiltà si è estesa a tutto il pianeta:
“E’ facile vedere come la formazione di una sola società abbia reso indispensabile quella di
tutte le altre e come, per opporsi a forze riunite, fosse necessario unirsi a propria volta. Le società,
moltiplicandosi o estendendosi rapidamente, coprirono ben presto tutta la superficie della Terra, e
non fu più possibile trovare un solo angolo dell'Universo in cui ci si potesse affrancare dal giogo e
sottrarre il proprio capo alla spada, spesso mal diretta, che ogni uomo vede perpetuamente sospesa
su di sé”.
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3 L’illuminismo italiano: vico e la “storia ideal eterna”
Dopo la grande fioritura umanistico-rinascimentale, e dopo la generosa battaglia galileiana
in favore della scienza, conclusasi tragicamente, la cultura filosofica italiana del ‘600 conosce un
periodo di decadenza e di scarsa originalità. Ciò nonostante, sono vivi in Itali gli echi del dibattito
delle idee che si svolge in Europa, in modo particolare tra i letterati, i giuristi e i medici napoletani.
Nella seconda meta del ‘600 bisogna ricordare l’opera erudita di Ludovico Antonio
Muratori (1672-1750) che applicò alla ricerca storica il metodo filologico, partendo da un esame
attento e paziente dei documenti di archivio. E quasi contemporaneo del Muratori è Giambattista
Vico (1668-1744), che rappresenta una vetta altissima, quanto isolata, nella storia settecentesca del
pensiero filosofico italiano.
Le sue principali opere sono il De antiquissima Italorum sapientia ex
linguae latinae originibus eruenda (1710), in cui egli dà una prima
espressione sistematica del suo pensiero, e Principi di una scienza nuova
intorno alla comune natura delle nazioni e l’Autobiografia (1725) a cui ha
continuato a lavorare per tutta la sua vita, pubblicando nel 1730, la Scienza
nuova, che rappresenta la sua opera fondamentale.
Punto di partenza di Vico è la critica al concetto cartesiano di
evidenza e di verità scientifica. Cartesio, e prima di lui Galilei, hanno preteso di scoprire le leggi
matematiche della natura e ora il metodo geometrico sembra estendersi persino alle scienze morali e
sociali. Così facendo, essi e i loro continuatori, errano in due modi. In primo luogo, non
comprendono che il mondo degli uomini, la storia, la poesia, la retorica, non ha nulla a che fare con
le astrazione geometriche. Tutte le attività dell’uomo si fondano, per Vico, sul verosimile, compresa
la sapienza pratica della vita, e non su verità geometriche assolute e meccaniche. In secondo luogo,
le cosiddette scienze della natura sono scienze solo per modo di dire, infatti si ha vera scienza solo
quando si è in grado di produrre l’oggetto che si vuol conoscere, il vero equivale al fare: in Vico,
verum et factum convertuntur. Ma l’uomo non è in grado di produrre la natura, sicché di essa può
avere vera scienza solo Dio, che la crea. Del resto anche il principio di evidenza assoluta, indicato
da Cartesio nel cogito, si rivela all’esame un principio vuoto ed inconcludente. Infatti, avere
coscienza del proprio pensiero e della propria esistenza non significa affatto averne scienza. Anche
lo scettico, che Cartesio pretenderebbe di far tacere, non ha mai dubitato di pensare o di esistere
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come pensante; ma egli sostiene poi che ignoriamo le cause del nostro pensare e del nostro esistere
e a questa obiezione Cartesio non ha risposto e né lo poteva fare.
L’indirizzo della moderna cultura, dunque, sembra proprio trascurare quell’unica scienza
che l’uomo può e deve edificare: la scienza della storia. Se la natura è opera di Dio, il mondo civile
delle nazioni è invece opera degli uomini, sicché questi ultimi devono poterne ritrovare i principi in
loro stessi. Il metodo su cui deve basarsi la “scienza nuova”, o scienza della storia, si distingue,
secondo Vico, in due parti che egli affida alla filologia e alla filosofia. La prima deve fornire la
conoscenza del certo, cioè deve raccogliere i fatti, i documenti, descrivere i costumi, le leggi,
analizzare le lingue, ricostruire gli avvenimenti del passato; la seconda, invece, deve insegnarci il
vero, cioè deve trarre dagli avvenimenti contingenti le leggi eterne che li regolano. Filosofi e
filologi devono dunque collaborare alla edificazione della scienza nuova: i primi accertando il vero,
i secondi inverando il certo. I due aspetti del metodo corrispondono, infatti alle due facce della
storia, che per un verso è “storia ideale eterna”, cioè ripetersi di leggi costanti, per un altro è
sorgere, progredire, decadere, scomparire continuo delle nazioni civili, dei loro costumi, delle loro
precarie realizzazioni.
La storia, nelle sue leggi ideali eterne, si svolge secondo tre età o epoche; esse
corrispondono alle tre fasi dello sviluppo mentale dell’uomo, in cui prevale dapprima il senso, poi
la fantasia, infine la Ragione. Questo sviluppo psichico dell’intera umanità lo troviamo confermato
nell’individuo: il bambino, dapprima tutto avvolto nella sensazione, sviluppa in seguito la fantasia e
solo più tardi le capacità razionali. Analogamente, gli uomini, nel corso delle tre età della storia,
“dapprima sentono senza avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso,
finalmente riflettono con mente pura”. A questi tre stati psichici corrispondono tre età che Vico, con
una terminologia tratta dal Crizia di Platone, chiama degli dèi, degli eroi e degli uomini. Nella
prima età abbiamo gli uomini primitivi, di dimensioni gigantesche, tutto “stupore e ferocia” di
fronte alle forze della natura, sviluppano dal senso una spiccata fantasia. E’ tale fantasia a far
immaginare loro forze soprannaturali e divine, cioè a indurli a divinizzare i fenomeni della natura.
Hanno così luogo il mito e la poesia, infatti sono gli uomini primitivi a inventare il linguaggio e a
usarlo con straordinario vigore poetico. In questa prima età la società umana è organizzata in forma
familiare e patriarcale, su un fondamento schiettamente teocratico. Nella seconda età emerge invece
una classe aristocratica di guerrieri; in essa la fantasia ha ormai pienamente educato il senso e
prepara l’avvento della Ragione. Quest’ultima si afferma nella terza età, nella quale gli uomini “si
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uguagliano con le leggi”. La filosofia, la morale, la scienza divengono predominatrici e gli uomini
prendono coscienza della loro storia.
Secondo Vico, il corso delle tre età si ripete, dando vita ad un ricorso storico. Ogni civiltà
cioè inizia dalle barbarie e culmina nell’incivilimento; ma a questo punto decade e muore. Gli
uomini perciò ricadono nella barbarie e danno inizio ad un nuovo corso storico.
I corsi e i ricorsi non si succedono, tuttavia, meccanicamente, in un perenne circolo affidato
alle forze del caso o ad un cieco destino, ma alla base del processo storico si manifesta la
provvidenza divina: è essa a guidare la storia ideal eterna. Ma la provvidenza non condiziona in
modo deterministico il corso storico, l’uomo resta protagonista e creatore del suo destino. Vi sono
popoli, ad esempio che non escono mai dalla fase selvaggia; altri compiono solo alcune tappe del
progresso storico, tanto è che Vico ritiene che solo i Romani percorsero interamente le tre età;
infine, il ricadere nella barbarie non è così fatale da non poter esser evitato con le forze della virtù e
della saggezza. La comprensione anzi della scienza nuova, la presa di coscienza dei corsi e ricorsi
storici, è lo strumento mediante il quale l’uomo del futuro potrebbe farsi migliore alleato della
provvidenza divina e assecondarne i fini in piena chiarezza razionale. Lo potrà, naturalmente, se
saprà volerlo.
Il principale merito delle analisi di Vico sta nella originale comprensione della poesia e del
mito: l’uno e l’altro non vanno intesi sulla base di valutazioni razionali, ma come espressione
genuina di una forza autonoma dell’animo umano, cioè appunto della fantasia. Questa tesi
rappresenta il punto di partenza del moderno riconoscimento dell’autonomia dell’arte. E ancora
bisogna riconoscere a Vico il merito di aver inaugurato con le sue analisi dell’uomo primitivo, la
moderna antropologia. Infine, il nesso, nelle tre età, tra le forze psicologico-morali dell’uomo e i
caratteri della struttura sociale, verrà assunto nell’Ottocento da Conte a base della sociologia, con
evidente ispirazione vichiana. Vico è dunque il padre dello storicismo, della filosofia della storia, e
in generale delle scienze umane. Egli è effettivamente il profeta e l’iniziatore di queste “scienze
nuove”, in largo anticipo su tutta la cultura europea.
Quanto al periodo dell’Illuminismo vero e proprio, tra gli esponenti più originali della
cultura napoletana va ricordato Pietro Giannone (1676-1748), autore della Istoria civile del Regno
di Napoli (1723), in cui esamina le successive legislazioni del Regno di Napoli, e perciò è detta
“civile”, mettendo in luce le prepotenze e le usurpazioni del governo ecclesiastico, contro il quale
Giannone rivendicava l’autonomia moderna dello stato laico. Scomunicato e perseguitato, Giannone
finì i suoi giorni in carcere, ma la sua opera acquistò grande fama in tutta Europa.
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La storia, l’economia e il diritto sono le scienze a cui gli studiosi napoletani diedero i
maggiori contributi. Antonio Genovesi (1713-1769), allievo del Vico, tenne a Napoli la prima
cattedra di Economia politica istituita in Europa. La sua opera, ispirata prevalentemente
all’empirismo di Locke, mira ad una concreta analisi dei fenomeni sociali, senza prevenzioni
metafisiche o teologiche. Energico fautore di una riforma delle strutture sociali e delle leggi fu
Gaetano Filangieri (1752-1788), autore della Scienza della egislazione.
Bisogna infine ricordare il patriota Mario Pagano (1748-1799) che nei suoi Saggi politici
dei principi, progressi e decadenza della società, mostra più di tutti di far tesoro della lezione
vichiana, che egli combina con la riflessione storico-sociale di Rousseau.
Il gruppo degli illuministi milanesi fu particolarmente compatto e combattivo. Esso si
raccolse nell’ Accademia dei pugni ed ebbe espressione nel giornale “Il Caffé”. Capo morale degli
illuministi milanesi fu Pietro Verri (1726-1797), che ebbe come validi collaboratori alla sua azione
il fratello Alessandro Verri (1741-1816) e Cesare Beccaria (1738-1798). Di Pietro Verri vanno
ricordate le Riflessioni sulle leggi vincolanti il commercio dei grani (1769), in cui si sostengono
idee liberistiche, e cioè si propugna l’abolizione dei vincoli, ancora feudali, che bloccano la libera
circolazione delle merci, la libera iniziativa e la libera concorrenza.
L’opera più celebre del gruppo degli illuministi milanesi fu, però, Dei delitti e delle pene
(1764) di Cesare Beccaria, opera subito tradotta in francese e accolta con grande entusiasmo da
Voltaire e dagli enciclopedisti. Beccaria sostituisce al concetto della giustizia come espiazione del
peccato, tipico di una visione teologica della società, il concetto di una prevenzione e rigenerazione
morale. Se la giustizia deve prevenire e rieducare, sono allora inutili e assurde la pena di morte e la
tortura, e in genere tutte le crudeltà dell’apparato carcerario del tempo che Beccaria denuncia con
grande energia ed efficacia. Se fine della società è, come ritengono gli illuministi, la massima
felicità possibile dei suoi membri, la giustizia deve limitarsi a difendere tale felicità da chi la
minacci, e non deve perseguitare il reo con inumane e inutili punizioni.
3.1 Antologia: la storia ideal eterna PROBLEMA: che cosa si intende per “storia ideal eterna”?
TESI: punto essenziale della Scienza Nuova, stabilita da Vico è la descrizione della “storia
ideal eterna”, cioè di quelle leggi di sviluppo che tutti i popoli e tutte le nazioni civili si trovano
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inconsciamente a seguire e a incarnare. Tali leggi dimostrano poi il carattere divino del divenire
storico complessivo, ovvero l’azione della divina provvidenza nelle vicende umane.
Da la Scienza Nuova, Vico scrive:
“Per lo intiero stabilimento de' princìpi, i quali si sono presi di questa Scienza, ci rimane in
questo primo libro di ragionare del metodo che debbe ella usare. Perché dovendo ella cominciare
donde ne incominciò la materia, siccome si è proposto nelle Degnità, e sì avendo noi a ripeterla,
per gli filologi, dalle pietre di Deucalione e Pirra, da' sassi d'Anfione, dagli uomini nati o da' solchi
di Cadmo o dalla dura rovere di Virgilio e, per gli filosofi, dalle ranocchie d'Epicuro, dalle cicale
di Obbes, da' semplicioni di Grozio, da' gittati in questo mondo senza niuna cura o aiuto di Dio di
Pufendorfio, goffi e fieri quanto i giganti detti "los patacones", che dicono ritrovarsi presso lo
stretto di Magaglianes, cioè da' polifemi d'Omero, ne' quali Platone riconosce i primi padri nello
stato delle famiglie (questa scienza ci han dato de' princìpi dell'umanità così i filologi come i
filosofi!); - e dovendo noi incominciar a ragionarne da che quelli incominciaron a umanamente
pensare; - e, nella loro immane fierezza e sfrenata libertà bestiale, non essendovi altro mezzo, per
addimesticar quella ed infrenar questa, ch'uno spaventoso pensiero d'una qualche divinità, il cui
timore, come si è detto nelle Degnità, è 'l solo potente mezzo di ridurre in ufizio una libertà
inferocita: - per rinvenire la guisa di tal primo pensiero umano nato nel mondo della gentilità,
incontrammo l'aspre difficultà che ci han costo la ricerca di ben venti anni, e [dovemmo]
discendere da queste nostre umane ingentilite nature a quelle affatto fiere ed immani, le quali ci è
affatto niegato d'immaginare e solamente a gran pena ci è permesso d'intendere.
Per tutto ciò dobbiamo cominciare da una qualche cognizione di Dio, della quale non sieno
privi gli uomini, quantunque selvaggi, fieri ed immani. Tal cognizione dimostriamo esser questa:
che l'uomo, caduto nella disperazione di tutti i soccorsi della natura, disidera una cosa superiore
che lo salvasse. Ma cosa superiore alla natura è Iddio, e questo è il lume ch'Iddio ha sparso sopra
tutti gli uomini. Ciò si conferma con questo comune costume umano: che gli uomini libertini,
invecchiando, perché si sentono mancare le forze naturali, divengono naturalmente religiosi.
Ma tali primi uomini, che furono poi i principi delle nazioni gentili, dovevano pensare a
forti spinte di violentissime passioni, ch'è il pensare da bestie. Quindi dobbiamo andare da una
volgar metafisica (la quale si è avvisata nelle Degnità, e truoveremo che fu la teologia de' poeti), e
da quelle ripetere il pensiero spaventoso d'una qualche divinità, ch'alle passioni bestiali di
tal'uomini perduti pose modo e misura e le rendé passioni umane. Da cotal pensiero dovette
nascere il conato, il qual è propio dell'umana volontà, di tener in freno i moti impressi alla mente
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dal corpo, per o affatto acquetargli, ch'è dell'uomo sappiente, o almeno dar loro altra direzione ad
usi migliori, ch'è dell'uomo civile. Questo infrenar il moto de' corpi certamente egli è un effetto
della libertà dell'umano arbitrio, e sì della libera volontà, la qual è domicilio e stanza di tutte le
virtù e, tralle altre, della giustizia, da cui informata la volontà è 'l subbietto di tutto il giusto e di
tutti i diritti che sono dettati dal giusto.
Perché dar conato a' corpi tanto è quanto dar loro libertà di regolar i lor moti, quando i
corpi tutti sono agenti necessari in natura; e que' ch'i meccanici dicono "potenze", "forze", "conati"
sono moti insensibili d'essi corpi, co' quali essi o s'appressano, come volle la meccanica antica, a'
loro centri di gravità, o s'allontanano, come vuole la meccanica nuova, da' loro centri del moto.
Ma gli uomini, per la loro corrotta natura, essendo tiranneggiati dall'amor propio, per lo
quale non sieguono principalmente che la propia utilità; onde eglino, volendo tutto l'utile per sé e
niuna parte per lo compagno, non posson essi porre in conato le passioni per indirizzarle a
giustizia. Quindi stabiliamo: che l'uomo nello stato bestiale ama solamente la sua salvezza; presa
moglie e fatti figliuoli, ama la sua salvezza con la salvezza delle famiglie; venuto a vita civile, ama
la sua salvezza con la salvezza delle città; distesi gl'imperi sopra più popoli, ama la sua salvezza
con la salvezza delle nazioni; unite le nazioni in guerre, paci, allianze, commerzi, ama la sua
salvezza con la salvezza di tutto il gener umano: l'uomo in tutte queste circostanze ama
principalmente l'utilità propia. Adunque, non da altri che dalla provvedenza divina deve esser
tenuto dentro tali ordini a celebrare con giustizia la famigliare, la civile e finalmente l'umana
società; per gli quali ordini, non potendo l'uomo conseguire ciò che vuole, almeno voglia
conseguire ciò che dee dell'utilità: ch'è quel che dicesi "giusto". Onde quella che regola tutto il
giusto degli uomini è la giustizia divina, la quale ci è ministrata dalla divina provvedenza per
conservare l'umana società.
Perciò questa Scienza, per uno de' suoi principali aspetti, dev'essere una teologia civile
ragionata della provvedenza divina. La quale sembra aver mancato finora, perché i filosofi o
l'hanno sconosciuta affatto, come gli stoici e gli epicurei, de' quali questi dicono che un concorso
cieco d'atomi agita, quelli che una sorda catena di cagioni e d'effetti strascina le faccende degli
uomini; o l'hanno considerata solamente sull'ordine delle naturali cose, onde "teologia naturale"
essi chiamano la metafisica, nella quale contemplano questo attributo di Dio, e 'l confermano con
l'ordine fisico che si osserva ne' moti de' corpi, come delle sfere, degli elementi, e nella cagion
finale sopra l'altre naturali cose minori osservata. E pure sull'iconomia delle cose civili essi ne
dovevano ragionare con tutta la propietà della voce, con la quale la provvedenza fu appellata
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"divinità" da "divinari", "indovinare", ovvero intendere o 'l nascosto agli uomini, ch'è l'avvenire, o
'l nascosto degli uomini, ch'è la coscienza; ed è quella che propiamente occupa la prima e principal
parte del subbietto della giurisprudenza, che son le cose divine, dalle quali dipende l'altra che 'l
compie, che sono le cose umane. Laonde cotale Scienza dee essere una dimostrazione, per così
dire, di fatto istorico della provvedenza, perché dee essere una storia degli ordini che quella, senza
verun umano scorgimento o consiglio, e sovente contro essi proponimenti degli uomini, ha dato a
questa gran città del gener umano, ché, quantunque questo mondo sia stato criato in tempo e
particolare, però gli ordini ch'ella v'ha posto sono universali ed eterni. Per tutto ciò, entro la
contemplazione di essa provvedenza infinita ed eterna questa Scienza ritruova certe divine pruove,
con le quali si conferma e dimostra. Impercioché la provvedenza divina, avendo per sua ministra
l'onnipotenza, vi debbe spiegar i suoi ordini per vie tanto facili quanto sono i naturali costumi
umani; perc'ha per consigliera la sapienza infinita, quanto vi dispone debbe essere tutto ordine;
perc'ha per suo fine la sua stessa immensa bontà, quanto vi ordina debb'esser indiritto a un bene
sempre superiore a quello che si han proposto essi uomini.
Per tutto ciò, nella deplorata oscurità de' princìpi e nell'innumerabile varietà de' costumi
delle nazioni, sopra un argomento divino che contiene tutte le cose umane, qui pruove non si
possono più sublimi disiderare che queste istesse che ci daranno la naturalezza, l'ordine e 'l fine,
ch'è essa conservazione del gener umano. Le quali pruove vi riusciranno luminose e distinte, ove
rifletteremo con quanta facilità le cose nascono ed a quali occasioni, che spesso da lontanissime
parti, e talvolta tutte contrarie ai proponimenti degli uomini, vengono e vi si adagiano da se stesse;
e tali pruove ne somministra l'onnipotenza. Combinarle e vederne l'ordine, a quali tempi e luoghi
loro propi nascono le cose ora, che vi debbono nascer ora, e l'altre si differiscono nascer ne' tempi
e ne' luoghi loro, nello che, all'avviso d'Orazio, consiste tutta la bellezza dell'ordine; e tali pruove
ci apparecchia l'eterna sapienza. E finalmente considerare se siam capaci d'intendere se, a quelle
occasioni, luoghi e tempi, potevano nascere altri benefìci divini, co' quali, in tali o tali bisogni o
malori degli uomini, si poteva condurre meglio a bene e conservare l'umana società; e tali pruove
ne darà l'eterna bontà di Dio.
Onde la propia continua pruova che qui farassi sarà il combinar e riflettere se la nostra
mente umana, nella serie de' possibili la quale ci è permesso d'intendere, e per quanto ce n'è
permesso, possa pensare o più o meno o altre cagioni di quelle ond'escono gli effetti di questo
mondo civile. Lo che faccendo, il leggitore pruoverà un divin piacere, in questo corpo mortale, di
contemplare nelle divine idee questo mondo di nazioni per tutta la distesa de' loro luoghi, tempi e
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varietà; e truoverassi aver convinto di fatto gli epicurei che 'l loro caso non può pazzamente
divagare e farsi per ogni parte l'uscita, e gli stoici che la loro catena eterna delle cagioni, con la
qual vogliono avvinto il mondo, ella penda dall'onnipotente, saggia e benigna volontà dell'Ottimo
Massimo Dio.
Queste sublimi pruove teologiche naturali ci saran confermate con le seguenti spezie di
pruove logiche: che, nel ragionare dell'origini delle cose divine ed umane della gentilità, se ne
giugne a que' primi oltre i quali è stolta curiosità di domandar altri primi, ch'è la propia
caratteristica de' princìpi; se ne spiegano le particolari guise del loro nascimento, che si appella
"natura", ch'è la nota propissima della scienza; e finalmente si confermano con l'eterne propietà
che conservano, le quali non posson altronde esser nate che da tali e non altri nascimenti, in tali
tempi, luoghi e con tali guise, o sia da tali nature, come se ne sono proposte sopra due Degnità.
Per andar a truovare tali nature di cose umane procede questa Scienza con una severa
analisi de' pensieri umani d'intorno all'umane necessità o utilità della vita socievole, che sono i due
fonti perenni del diritto natural delle genti, come pure nelle Degnità si è avvisato. Onde, per
quest'altro principale suo aspetto, questa Scienza è una storia dell'umane idee, sulla quale sembra
dover procedere la metafisica della mente umana; la qual regina delle scienze, per la Degnità che
"le scienze debbono incominciare da che n'incominciò la materia", cominciò d'allora ch'i primi
uomini cominciarono a umanamente pensare, non già da quando i filosofi cominciaron a riflettere
sopra l'umane idee (come ultimamente n'è uscito alla luce un libricciuolo erudito e dotto col titolo
Historia de ideis, che si conduce fin all'ultime controversie che ne hanno avuto i due primi ingegni
di questa età, il Leibnizio e 'l Newtone).
E per determinar i tempi e i luoghi a sì fatta istoria, cioè quando e dove essi umani pensieri
nacquero, e sì accertarla con due sue propie cronologia e geografia, per dir così, metafisiche,
questa Scienza usa un'arte critica, pur metafisica, sopra gli autori d'esse medesime nazioni, tralle
quali debbono correre assai più di mille anni per potervi provenir gli scrittori, sopra i quali la
critica filologica si è finor occupata. E 'l criterio di che si serve, per una Degnità sovraposta, è
quello, insegnato dalla provvedenza divina, comune a tutte le nazioni; ch'è il senso comune d'esso
gener umano, determinato dalla necessaria convenevolezza delle medesime umane cose, che fa
tutta la bellezza di questo mondo civile. Quindi regna in questa Scienza questa spezie di pruove:
che tali dovettero, debbono e dovranno andare le cose delle nazioni quali da questa Scienza son
ragionate, posti tali ordini dalla provvedenza divina, fusse anco che dall'eternità nascessero di
tempo in tempo mondi infiniti; lo che certamente è falso di fatto.
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Onde questa Scienza viene nello stesso tempo a descrivere una storia ideal eterna, sopra la
quale corron in tempo le storie di tutte le nazioni ne' loro sorgimenti, progressi, stati, decadenze e
fini. Anzi ci avvanziamo ad affermare ch'in tanto chi medita questa Scienza egli narri a se stesso
questa storia ideal eterna, in quanto - essendo questo mondo di nazioni stato certamente fatto dagli
uomini (ch'è 'l primo principio indubitato che se n'è posto qui sopra), e perciò dovendosene
ritruovare la guisa dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana - egli, in quella
pruova "dovette, deve, dovrà", esso stesso sel faccia; perché, ove avvenga che chi fa le cose esso
stesso le narri, ivi non può essere più certa l'istoria. Così questa Scienza procede appunto come la
geometria, che, mentre sopra i suoi elementi il costruisce o 'l contempla, essa stessa si faccia il
mondo delle grandezze; ma con tanto più di realità quanta più ne hanno gli ordini d'intorno alle
faccende degli uomini, che non ne hanno punti, linee, superficie e figure. E questo istesso è
argomento che tali pruove sieno d'una spezie divina e che debbano, o leggitore, arrecarti un divin
piacere, perocché in Dio il conoscer e 'l fare è una medesima cosa.
Oltracciò, quando, per le diffinizioni del vero e del certo sopra proposte, gli uomini per
lunga età non poteron esser capaci del vero e della Ragione, ch'è 'l fonte della giustizia interna,
della quale si soddisfano gl'intelletti - la qual fu praticata dagli ebrei, ch'illuminati dal vero Dio
erano proibiti dalla di lui divina legge di far anco pensieri meno che giusti, de' quali niuno di tutti i
legislatori mortali mai s'impacciò (perché gli ebrei credevano in un Dio tutto mente che spia nel
cuor degli uomini, e i gentili credevano negli dèi composti di corpi e mente che nol potevano); e fu
poi ragionata da' filosofi, i quali non provennero che duemila anni dopo essersi le loro nazioni
fondate; - frattanto si governassero col certo dell'autorità, cioè con lo stesso criterio ch'usa questa
critica metafisica, il qual è 'l senso comune d'esso gener umano (di cui si è la diffinizione sopra,
negli Elementi, proposta), sopra il quale riposano le coscienze di tutte le nazioni. Talché, per
quest'altro principale riguardo, questa Scienza vien ad essere una filosofia dell'autorità, ch'è 'l
fonte della "giustizia esterna" che dicono i morali teologi. Della qual autorità dovevano tener conto
gli tre principi della dottrina d'intorno al diritto natural delle genti, e non di quella tratta da' luoghi
degli scrittori; della quale niuna contezza aver poterono gli scrittori, perché tal autorità regnò
tralle nazioni assai più di mille anni innanzi di potervi provenir gli scrittori. Onde Grozio, più degli
altri due come dotto così erudito, quasi in ogni particolar materia di tal dottrina combatte i romani
giureconsulti; ma i colpi tutti cadono a vuoto, perché quelli stabilirono i loro princìpi del giusto
sopra il certo dell'autorità del gener umano, non sopra l'autorità degli addottrinati.
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Queste sono le pruove filosofiche ch'userà questa Scienza, e 'n conseguenza quelle che per
conseguirla son assolutamente necessarie. Le filologiche vi debbono tenere l'ultimo luogo, le quali
tutte a questi generi si riducono.
Primo, che sulle cose le quali si meditano vi convengono le nostre mitologie, non isforzate e
contorte, ma diritte, facili e naturali, che si vedranno essere istorie civili de' primi popoli, i quali si
truovano dappertutto essere stati naturalmente poeti.
Secondo, vi convengono le frasi eroiche, che vi si spiegano con tutta la verità de' sentimenti
e tutta la propietà dell'espressioni.
Terzo, che vi convengono l'etimologie delle lingue natie, che ne narrano le storie delle cose
ch'esse voci significano, incominciando dalla propietà delle lor origini e prosieguendone i naturali
progressi de' lor trasporti secondo l'ordine dell'idee, sul quale dee procedere la storia delle lingue,
come nelle Degnità sta premesso.
Quarto, vi si spiega il vocabolario mentale delle cose umane socievoli, sentite le stesse in
sostanza da tutte le nazioni e per le diverse modificazioni spiegate con lingue diversamente, quale
si è nelle Degnità divisato.
Quinto, vi si vaglia dal falso il vero in tutto ciò che per lungo tratto di secoli ce ne hanno
custodito le volgari tradizioni, le quali, perocché sonosi per sì lunga età e da intieri popoli
custodite, per una Degnità sopraposta debbon avere avuto un pubblico fondamento di vero.
Sesto, i grandi frantumi dell'antichità, inutili finor alla scienza perché erano giaciuti
squallidi, tronchi e slogati, arrecano de' grandi lumi, tersi, composti ed allogati ne' luoghi loro.
Settimo ed ultimo, sopra tutte queste cose, come loro necessarie cagioni, vi reggono tutti gli
effetti i quali ci narra la storia certa.
Le quali pruove filologiche servono per farci vedere di fatto le cose meditate in idea
d'intorno a questo mondo di nazioni, secondo il metodo di filosofare del Verulamio, ch'è "cogitare
videre"; ond'è che, per le pruove filosofiche innanzi fatte, le filologiche, le quali succedono
appresso, vengono nello stesso tempo e ad aver confermata l'autorità loro con la Ragione ed a
confermare la Ragione con la loro autorità.
Conchiudiamo tutto ciò che generalmente si è divisato d'intorno allo stabilimento de'
princìpi di questa Scienza: che, poiché i di lei princìpi sono provvedenza divina, moderazione di
passioni co' matrimoni e immortalità dell'anime umane con le seppolture; e 'l criterio che usa è che
ciò che si sente giusto da tutti o la maggior parte degli uomini debba essere la regola della vita
socievole (ne' quali princìpi e criterio conviene la sapienza volgare di tutti i legislatori e la
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sapienza riposta degli più riputati filosofi): questi deon esser i confini dell'umana Ragione. E
chiunque se ne voglia trar fuori, egli veda di non trarsi fuori da tutta l'umanità”.
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4 Gli illuministi tedeschi: Kant e il “tribunale della ragione”
Il quadro storico-culturale entro cui si sviluppa l’Illuminismo tedesco è molto diverso da
quello inglese e francese tanto da renderne immediatamente comprensibili alcune tendenze di
fondo. Sul piano politico, l’assenza di una forte monarchia accentratrice, la frantumazione del paese
in un mosaico di Stati, la permanenza di un’economia essenzialmente agricola e feudale, avevano
permesso alla nobiltà di mantenere ben saldo il proprio potere, costringendo la borghesia, in
progressiva ascesa, a mantenersi su posizioni riformistiche di stampo moderato, che avevano
trovato nel “dispotismo filosofico” di Federico II la loro paternalistica espressione. Sul piano
culturale, la Germania, in preda a sanguinose lotte di religione tra cattolici e protestanti, era rimasta,
nel corso del Cinquecento e del Seicento, quasi del tutto ai margini del grande movimento
filosofico-scientifico che aveva attraversato le altre nazioni, risorgendo a livello europeo solo con
l’opera di Leibniz. Questi dati di base, assieme alla presenza di intellettuali legati alla scuola e al
potere costituito, e quindi non impegnati in cariche pubbliche o in battaglie civili, spiegano da un
lato la minor politicità e radicalità dell’Illuminismo tedesco nei confronti dei modelli esteri, e,
dall’altro l’indirizzo razionalistico, sistematico ed accademico delle sue principali figure, tra le quali
emerge sicuramente quella di Christian Wolff (1679-1754), il quale cerca di dare unità di sistema
alle idee di Leibniz, tenendo anche in considerazione Cartesio, Newton e la tradizione del pensiero
scolastico. Da ciò deriva una costruzione filosofico schiettamente razionalistica, che, prima della
grande critica kantiana, trovò i suoi oppositori già in Christian August Crusius (1715-1775) e in
Johann Heinrich Lambert (1728-1777), autore del Nuovo Organo (1754), in cui nega la possibilità
di una filosofia basata unicamente sulla deduzione logica e sul principio di non contraddizione: gli
oggetti della filosofia non possono dimostrarsi logicamente, ma devono essere colti mediante
l’esperienza, pertanto la scienza metafisica dell’anima, del mondo e di Dio propugnata da Wolff si
rivela del tutto illusoria.
Un rinnovamento profondo della cultura tedesca è invece realizzato da Gottfried Efraim
Lessing (1729-1781), sia in sede estetica e letteraria con il Laocoonte o sui limiti della poesia e
della pittura (1766) in cui anticipa le idee della grande rivoluzione romantica, sia in sede religiosa
ove Lessing si batte contro ogni dogmatismo tradizionale e allo stesso tempo anche contro gli
eccessi materialistici dell’Illuminismo francese, sia in sede filosofica nella quale la sua opera più
tipica è L’educazione del genere umano (1780). In questa opera la storia è interpretata come uno
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sviluppo morale dell’umanità retto dalla provvidenza divina. Le religioni storiche sono i mezzi di
tale sviluppo, le loro verità, non sono dunque eterne, ma tendono a preparare l’età finale dell’uomo,
guidata dalla Ragione universale.
Per quel che riguarda la tecnica filosofica, l’Illuminismo tedesco deve la sua originalità,
rispetto a quello inglese e francese, alla forma logica in cui temi e problemi sono presentati e fatti
valere. L’ideale di una Ragione che abbia il diritto di investire con i suoi dubbi e i suoi problemi
l’intero mondo della realtà, si trasforma nell’Illuminismo tedesco in un metodo di analisi razionale,
insieme cauto e deciso, che avanza dimostrando la legittimità di ogni passo, cioè la possibilità
intrinseca dei concetti di cui si avvale e il loro fondamento. E’ questo il metodo della fondazione
che doveva rimanere caratteristico della filosofia tedesca posteriore e che celebrò il suo grande
trionfo nell’opera di Immanuel Kant (1724-1804), il quale progressivamente si allontana dalla tesi
del Razionalismo metafisico di Wolff e dei wolffiani in seguito sia all’accoglimento del metodo di
Newton sia alla conoscenza della filosofia dell’empirismo inglese da Locke a Hume.
Il più significativo documento di questo distacco è lo scritto del 1765, Sogni di un visionario
chiariti coi sogni della metafisica in cui la metafisica di Wolf è assimilata alle fantastiche visioni
mistiche e spiritualistiche dello svedese Swedenborg perché anche essa è chiusa in un suo proprio
mondo, che esclude l’accordo con gli altri uomini. Kant ritiene che la metafisica debba in primo
luogo considerare le proprie forze e perciò “conoscere se il compito è in proporzione a ciò che si
può sapere e quale rapporto ha la questione con i concetti dell’esperienza sui quali devono poggiare
tutti i nostri giudizi”. La metafisica è la scienza dei limiti della Ragione umana: per essa, come per
un piccolo paese, importa più conoscere bene e mantenere i propri possedimenti, anziché andare
alla cieca in cerca di conquiste. I problemi che la metafisica deve trattare sono quelli che stanno a
cuore all’uomo e che cioè si limitano ai confini dell’esperienza. E’ vano credere che la saggezza e la
vita morale dipendano da certe soluzioni metafisiche. In questo scritto sicuramente già si
intravedono i capisaldi del successivo indirizzo critico.
Prima di giungere al periodo critico vero e proprio, Kant nella “Dissertazione” del 1770 De
mundi sensibilis atque intellegibilis forma et principiis, inizia a stabilire la distinzione tra
conoscenza sensibile e conoscenza intellettuale. La prima, che è dovuta alla ricettività o passività
del soggetto, ha per oggetto il fenomeno, cioè la cosa come appare nella sua relazione al soggetto.
La seconda, che è una facoltà del soggetto, ha per oggetto la cosa così come essa è, nella sua natura
intellegibile, cioè come noumeno. Nella conoscenza sensibile si deve distinguere la materia dalla
forma. La materia è la sensazione, che è una modificazione dell’organo di senso e perciò testimonia
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la presenza dell’oggetto dal quale è causata. La forma è la legge, indipendente dalla sensibilità, che
ordina la materia sensibile. La conoscenza sensibile, anteriormente all’uso dell’intelletto logico, si
chiama apparenza, e la conoscenza riflessa che nasce dal confronto, fatto dall’intelletto, di
molteplici apparenze si chiama esperienza. Dall’apparenza all’esperienza si procede attraverso la
riflessione che si avvale dell’intelletto. Kant, inoltre, riguardo alla conoscenza intellettuale, ritiene
che essa, pur nell’ambito di una serie di limiti, abbia la possibilità di cogliere le cose uti sunt, ossia
come sono nel loro ordine intellegibile (i “noumeni”), a differenza della sensibilità, che le
percepisce uti apparent, come appaiono (i “fenomeni”). Lasciando cadere questa distinzione, che lo
riportava alla filosofia tradizionale e insistendo sempre di più sui limiti della Ragione, Kant finirà,
in seguito, per porsi coerentemente nella prospettiva criticista.
4.1 Antologia: il tribunale della ragione PROBLEMA: può la Ragione analizzare se stessa?
TESI: se si assume che la conoscenza sia condizionata dagli schemi mentali preesistenti nel
soggetto, allora l’analisi critica dei fondamenti del sapere consiste in un tentativo da parte della
mente di analizzare se stessa. Questa paradossale situazione iniziale può essere illustrata con una
metafora d’ordine giudiziario: come in un tribunale in cui il giudice e l’imputato siano la stessa
persona, la Ragione, se vuole stabilire quali siano i propri limiti d’azione, deve citarsi in giudizio,
analizzare se stessa per verificare i confini della propria legalità, ossia determinare come e quando
si produce una conoscenza vera e quando l’errore.
Dalla Critica della ragion pura, Kant scrive:
solo la mente può analizzare se stessa:
“è necessario un richiamo alla Ragione affinché assuma nuovamente il più arduo dei suoi
compiti, cioè la conoscenza di sé, e istituisca un tribunale che la tuteli nelle sue giuste pretese, ma
tolga di mezzo quelle prive di fondamento, non già arbitrariamente, ma in base alle sue leggi eterne
ed immutabili; e questo tribunale altro non è se non la critica della ragion pura stessa. Con questa
espressione non intendo alludere a una critica dei libri e dei sistemi, ma alla critica della facoltà
della Ragione in generale”.
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5 Il criticismo kantiano e la rivoluzione nella filosofia della conoscenza
Il periodo “critico” della filosofia di Kant ha ufficialmente inizio con la pubblicazione, nel
1781, della prima edizione della Critica della ragion pura, a cui seguirà una seconda edizione nel
1787.
Il pensiero di Kant è definito “Criticismo” perché, contrapponendosi
all’atteggiamento mentale del dogmatismo, fa della “critica” lo strumento
per eccellenza della filosofia.
Criticare, nel linguaggio tecnico di Kant, significa, infatti,
“giudicare”, “distinguere”, “valutare”, “soppesare”, ossia interrogarsi
programmaticamente circa il fondamento di determinate esperienze umane,
chiarendone le possibilità (le condizioni che ne permettono l’esistenza), la
validità (i titoli di legittimità o non-legittimità che le caratterizzano) e i
limiti (i confini di validità).
Nell’istanza critica di Kant risulta, dunque, centrale e qualificante l’aspetto del limite, infatti
la “critica”, in senso kantiano, non nascerebbe affatto se non ci fossero, in ogni campo, dei termini
di validità da fissare. Per cui il criticismo si configura come una filosofia del limite e può venir
definito come un’ermeneutica della finitudine, ossia come un’interpretazione dell’esistenza volta a
stabilire, nei vari settori esperienziali, le “colonne d’Ercole dell’umano”, e quindi il carattere finito
o condizionato delle possibilità esistenziali, che non sono mai tali da garantire l’onniscienza e
l’onnipotenza dell’individuo.
Questa filosofia del finito non equivale, però nelle intenzioni esplicite di Kant, ad una forma
di scetticismo radicale quale quello a cui era pervenuto Hume, poiché tracciare il limite di
un’esperienza vuol dire nel contempo garantire, entro il limite stesso, la sua validità. In tal modo il
riconoscimento e l’accettazione del limite diviene la norma che dà legittimità e fondamento alle
varie facoltà umane. L’impossibilità della conoscenza di trascendere i limiti dell’esperienza diventa
così la base dell’effettiva validità della conoscenza (Critica della ragion pura); l’impossibilità
dell’attività pratica di raggiungere la santità diventa la norma della moralità che è propria dell’uomo
(Critica della ragion pratica, 1787); l’impossibilità di subordinare la natura all’uomo diventa la
base del giudizio estetico e teleologico (Critica del giudizio, 1790).
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Da questo punto di vista, la filosofia di Kant può essere considerata come la prosecuzione di
quell’indirizzo critico che l’empirismo inglese aveva seguito sin da Locke, riconoscendo i limiti
della Ragione e del mondo umano, e che l’Illuminismo aveva difeso e propagandato nel Settecento.
Tuttavia, la filosofia di Kant si distingue dall’empirismo inglese non solo per il rifiuto dei
suoi esiti scettici, ma anche per il suo spingere più a fondo l’analisi critica, cioè per un metodo di
filosofare che più che soffermarsi sulla descrizione dei meccanismi conoscitivi, etici, sentimentali
ecc., si sforza di fissarne le condizioni possibilitanti ed i limiti di validità. E si distingue anche
dall’Illuminismo per una maggiore radicalità di intenti: se l’Illuminismo aveva portato dinanzi al
tribunale della Ragione l’intero mondo dell’uomo, Kant si propone di portare dinanzi al tribunale
della Ragione la Ragione stessa, per chiarirne in modo esauriente strutture e possibilità. Kant, pur
andando oltre l’Illuminismo, resta pur sempre figlio di esso, in quanto ritiene che i confini della
Ragione possano essere tracciati solo dalla Ragione stessa, che, essendo autonoma, non può
assumere dall’esterno la direttiva e la guida del suo procedimento.
Per Kant, i limiti della Ragione tendono a coincidere con i limiti dell’uomo, per cui volerli
varcare in nome di presunte capacità superiori alla Ragione significa soltanto avventurarsi in sogni
arbitrari o fantastici. Pertanto egli si presenta come avversario risoluto di ogni specie di fideismo,
misticismo o fanatismo.
Kant, nella Critica della ragion pura, svolge un’analisi critica dei fondamenti del sapere,
spinto dalla necessità di un riesame globale della struttura e della validità della conoscenza, che gli
permettesse di rispondere in modo esaustivo alla domanda circa lo statuto di scientificità dei due
fondamentali campi del sapere: la scienza, messa in crisi dallo scetticismo radicale di Hume, e la
metafisica, che con il suo voler procedere oltre l’esperienza, con il suo fornire, nei vari filosofi,
soluzioni antitetiche ai medesimi problemi, con le sue contese senza fine, veniva ad essere sempre
più deprezzata, pur essendo sempre attuale come “perenne anelito” che porta l’uomo a trascendere
l’orizzonte del verificabile per avventurarsi in problemi che non possono in nessun modo essere
risolti da un uso empirico della Ragione.
Di conseguenza, la ricerca di Kant prende la forma concreta di uno studio teso a stabilire da
un lato come siano possibili la matematica e la fisica in quanto scienze, e dall’altro come sia
possibile la metafisica in quanto disposizione naturale e in quanto scienza.
Kant apre il suo capolavoro con un’ipotesi gnoseologica di fondo:«benché ogni nostra
conoscenza comincia con l’esperienza, da ciò non segue che essa derivi interamente dall’esperienza.
Potrebbe infatti avvenire che la nostra stessa conoscenza empirica sia un composto di ciò che
Storia della filosofia Lezione VIII
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riceviamo mediante le impressioni e di ciò che la nostra facoltà conoscitiva vi aggiunge da sé sola
(semplicemente stimolata dalle impressioni sensibili)» (C.R.P., B 1). Questa ipotesi, secondo Kant,
risulta immediatamente convalidata dalla presenza dei giudizi sintetici a priori, ossia delle verità
universali e necessarie, che valgono ovunque e sempre allo stesso modo. Infatti, pur derivando in
parte dall’esperienza, e pur nutrendosi continuamente di essa, la scienza presuppone anche, alla
propria base, taluni principi immutabili che ne fungono da pilastri. Essi sono giudizi poiché
consistono nell’aggiungere un predicato ad un soggetto; sono sintetici perché il predicato dice
qualcosa di nuovo e di più rispetto ad esso; sono a priori perché essendo universali e necessari non
possono derivare dall’esperienza, la quale, come aveva già insegnato Hume, non ci dice ad esempio
che ogni evento debba necessariamente, anche in futuro, dipendere da cause, ma che sinora, nel
passato, così è stato.
Kant, dunque, ritiene, contro il Razionalismo (che pretendeva di partire da principi a priori o
idee innate per derivare da essi tutto lo scibile, delineando un modello di sapere universale e
necessario ma sterile), che la scienza derivi dall’esperienza, ma ritiene anche, contro l’empirismo,
che alla base dell’esperienza vi siano dei principi inderivabili dall’esperienza stessa.
I giudizi sintetici a priori, quale ad esempio il principio di causalità, rappresentano
l’elemento che conferisce alla scienza stabilità ed universalità, e senza di essi la scienza non
potrebbe sussistere.
Ma Kant a questo punto si trovava di fronte alla necessità di spiegare la loro provenienza,
infatti se non derivano dall’esperienza, da dove derivano i giudizi sintetici a priori?
Per rispondere a questa domanda egli elabora una nuova teoria della conoscenza intesa come
sintesi di materia e forma. Per materia della conoscenza si intende la molteplicità caotica e mutevole
delle impressioni sensibili che provengono dall’esperienza (elemento empirico o a posteriori). Per
forma si intende l’insieme delle modalità fisse attraverso cui la mente umana ordina, secondo
determinati rapporti, tali impressioni (elemento razionale o a priori). Egli ritiene infatti che la mente
filtri attivamente i dati empirici attraverso forme che le sono innate e che risultano comuni ad ogni
soggetto pensante. Come tali queste forme sono a priori rispetto all’esperienza e sono fornite di
validità universale e necessaria, in quanto tutti le possiedono e le applicano allo stesso modo.
Un esempio attuale che ci permette di chiarire la teoria delle forme a priori è tratto dalla
cibernetica: la mente kantiana è simile ad un computer, che elabora la molteplicità dei dati che le
vengono forniti dall’esterno, mediante una serie di programmi fissi, che ne rappresentano gli
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immutabili codici di funzionamento. Per cui, pur mutando incessantemente le informazioni (le
impressioni sensibili), non mutano mai i loro schemi di ricezione (le forme a priori).
Kant in questo modo ha potuto spiegare come è possibile formulare dei giudizi sintetici a
priori intorno a qualsiasi realtà senza timore di essere smentiti dall’esperienza.
Questa nuova impostazione del problema della conoscenza implica immediatamente talune
importanti conseguenze. In primo luogo essa comporta quella rivoluzione copernicana che Kant si
vantò di aver operato in filosofia: come Copernico, per spiegare i moti celesti, aveva ribaltato i
rapporti tra la terra e il sole, così Kant, per spiegare la scienza, ribalta i rapporti tra soggetto ed
oggetto, affermando che non è la mente che si modella passivamente sulla realtà, ma la realtà che si
modella sulle forme a priori attraverso cui la percepiamo. In secondo luogo, la nuova ipotesi
gnoseologica comporta la distinzione tra il fenomeno e la cosa in sé. Il fenomeno è la realtà quale ci
appare tramite le forme a priori che sono proprie della nostra struttura conoscitiva. La cosa in sé è la
realtà considerata indipendentemente da noi e dalle forme a priori mediante cui la conosciamo e
come tale costituisce una “x sconosciuta”, che rappresenta tuttavia il necessario correlato
dell’oggetto per noi o fenomeno.
Una volta chiarita la sua ipotesi gnoseologica, Kant articola la conoscenza in tre facoltà
principali:«ogni nostra conoscenza scaturisce dai sensi, da qui va all’intelletto, per finire nella
Ragione» (C.R.P., B355). La sensibilità è la facoltà con cui con cui gli oggetti sono dati
intuitivamente attraverso i sensi e tramite le forme a priori di spazio e tempo. L’intelletto è la
facoltà attraverso cui pensiamo i dati sensibili tramite i concetti puri o categorie. La Ragione è la
facoltà attraverso cui, procedendo oltre l’esperienza, cerchiamo di spiegare globalmente la realtà
mediante le tre idee di anima, mondo e Dio. Su questa tripartizione della facoltà conoscitiva in
generale è basata anche la divisione della Critica della ragion pura, la quale si biforca in due
tronconi principali: la dottrina degli elementi, che si propone di scoprire, isolandoli, gli elementi
formali della conoscenza che Kant chiama puri o a priori, e la dottrina del metodo, che consiste nel
determinare l’uso possibile degli elementi a priori della conoscenza, cioè il metodo della
conoscenza stessa. La dottrina degli elementi si ramifica, a sua volta, in Estetica trascendentale, che
studia la sensibilità e le sue forme a priori di spazio e tempo, mostrando come su di essa si fondi la
matematica, e Logica trascendentale, che a sua volta si sdoppia in Analitica trascendentale, che
studia l’intelletto e le sue forme a priori, le 12 categorie, su cui, mostrando come su di esse si fondi
la fisica, e in Dialettica trascendentale, che studia la Ragione e le sue tre idee di anima, mondo e
Dio, mostrando come su di esse si fondi la metafisica.
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Sinteticamente, possiamo dire che l’analisi kantiana della Ragione mette capo alla scoperta
di alcune forme che appartengono al soggetto conoscente indipendentemente dall’oggetto
conosciuto. Tali forme sono perciò a priori e anche trascendentali, nel senso che impongono la loro
legge agli oggetti dell’esperienza e sono costitutive della forma dell’esperienza. Esse si distinguono
in forme del conoscere sensibile, intuizione, e forme del conoscere intellettivo, concetti e giudizi.
Le forme del conoscere sensibile sono lo spazio e il tempo. Spazio e tempo, per Kant, non
appartengono agli oggetti, ma sono nostri modi di ordinare ed unificare le impressioni materiali che
ci derivano dai sensi. Le impressioni sensibili, unificate nello spazio e nel tempo, danno luogo ai
fenomeni della nostra esperienza. La conoscenza sensibile, o intuizione, ci fornisce i fenomeni, ma
non ancora gli oggetti propriamente detti. L’intuizione, di per sé, è cieca. Peraltro essa è
indispensabile al conoscere, poiché il pensiero, l’intelletto, senza l’apporto dell’intuizione, è vuoto.
Intuire e pensare sono due modi distinti di conoscere: la sensibilità non può pensare e l’intelletto
non può intuire, cioè non può darsi da sé dei contenuti sensibili; essi devono agire insieme.
L’intelletto interviene sui fenomeni dell’intuizione procedendo a ordinarli ed unificarli in giudizi.
Ora, le forme a priori e trascendentali di ogni possibile giudizio, secondo Kant, si riducono a spazio
e tempo e alle 12 categorie, divise in quattro gruppi, le quali presiedono ai giudizi di quantità,
qualità, relazione e modalità. Queste per Kant sono le categorie dell’intelletto. Esse si trovano a
loro volta unificate nell’autocoscienza del soggetto o io penso. L’attività autocosciente o io
pensante accompagna ogni nostra intuizione sensibile ordinandola nei dodici modi delle categorie,
facendo sì che in questo modo sorgano per noi gli oggetti della comune esperienza.
L’io penso si configura dunque come il principio supremo della conoscenza umana, ossia
come ciò cui deve sottostare ogni realtà per poter entrare nel campo dell’esperienza e per divenire
un oggetto-per-noi. Nello stesso tempo, esso rappresenta ciò che rende possibile l’oggettività
(universalità e necessità) del sapere. Infatti, senza l’io penso e le categorie tramite cui esso opera,
saremmo chiusi nel cerchio della soggettività individuale e potremmo stabilire soltanto delle
connessioni particolari e contingenti. L’io penso di Kant, a differenza di quello di Fichte, non è
affatto un io creatore, tanto è vero che egli insiste inequivocabilmente sul carattere formale e finito
dell’io penso, il quale si limita semplicemente ad ordinare una realtà che gli preesiste e senza di cui
la sua stessa conoscenza non avrebbe senso.
Le forme a priori del conoscere garantiscono dunque l’universalità della conoscenza. In
quanto condizioni del darsi di ogni oggetto, esse ci assicurano a priori che, quale che sia la materia
del conoscere che incontriamo nell’esperienza, l’oggetto esperito dovrà assumere una collocazione
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spazio-temporale e fungere da punto di riferimento per un giudizio di qualità, quantità, relazione o
modalità. L’oggetto, cioè, dovrà rivestire la forma del conoscere che è propria del soggetto
conoscente umano, essendo questa la condizione universale e necessaria del suo poter essere
esperito. Le forme del conoscere sono dunque condizioni a priori e trascendentali dell’esperienza.
Così, ad esempio, la relazione di causa non è un nostro modo arbitrario di connettere le esperienze,
ma uno dei modi senza i quali l’esperienza per noi non ci sarebbe. E’ perciò necessario ed
universale che l’esperienza ci si mostri connessa causalmente. Che poi tale connessione non
riguardi le cose in sé è ovvio, ma ciò non inficia la nostra possibilità di formulare giudizi universali
e necessari sull’esperienza che noi costantemente facciamo.
Per questa via si comprende allora anche la legittimità della scienza newtoniana della natura:
le leggi matematiche della natura sono fondate sulle forme a priori del conoscere (il tempo è la
condizione della matematica; lo spazio quella della geometria), sicché la fisica cerca nella natura
ciò che il soggetto trascendentale, l’io penso gia vi ha messo inconsciamente nell’atto di conoscere
la natura. La scienza ha, ad esempio, Ragione di cercare nella natura la causa di determinati effetti;
quale sia materialmente tale causa potrà dirlo solo l’esperienza, ma che ogni effetto debba avere una
causa è un principio universale di cui siamo certi a priori, in base alle forme a priori del conoscere
umano.
L’originalità del copernicanesimo filosofico di Kant, che anziché cercare negli oggetti o in
Dio la garanzia ultima della conoscenza, la scopre nella mente stessa dell’uomo, appare così in tutta
la sua forza ed evidenza. Ma l’originalità della soluzione kantiana è consistita anche nell’intendere
il fondamento del sapere in termini di possibilità e di limiti, cioè conformemente al modo d’essere
di quell’ente pensante finito che è l’uomo. Infatti la messa in luce della validità delle categorie e
della loro portata giustificatrice nei confronti della scienza implica una simultanea delucidazione dei
limiti del loro uso possibile. Le categorie considerate di per sé, senza essere riempite dai dati
provenienti dal senso esterno o interno, sono vuote. Questo fa sì che esse risultino operanti solo in
relazione al fenomeno, inteso come l’oggetto proprio della conoscenza umana, che è sempre sintesi
di un elemento formale e di uno materiale. Di conseguenza, il conoscere, per Kant, non può
estendersi al di là dell’esperienza, in quanto una conoscenza che non si riferisca ad un’esperienza
non è conoscenza, ma un vuoto di pensiero che non conosce nulla, un semplice gioco di
rappresentazioni.
Mentre nell’Estetica e nell’Analitica, Kant ha portato a termine la dimostrazione di come sia
possibile il sapere scientifico, nella Dialettica egli affronta il problema della metafisica, giungendo
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a dimostrare la sua impossibilità di diventare una scienza. La metafisica, infatti pretende di stabilire,
non le leggi dei fenomeni, ma che cosa e come siano i noumeni, ovvero i puri enti della Ragione. In
particolare la metafisica vuol sapere se vi sia un’anima e se essa sia immortale (psicologia
razionale); se il mondo nella sua totalità sia finito o infinito, libero o necessario, ecc. (cosmologia
razionale); infine se Dio esista e come dobbiamo dimostrarlo e pensarlo (teologia razionale). Ora,
anima, mondo e Dio, secondo Kant, sono idee della Ragione; esse esprimono l’insopprimibile
esigenza dell’animo umano di unificare e regolare finalisticamente tutti i fenomeni della nostra
esperienza. Esse sono dunque idee nel senso di ideali. Ma a tali idee non corrisponde alcuna materia
dell’esperienza, alcuna intuizione. Noi non abbiamo alcuna esperienza dell’anima, ma possiamo
solo osservare il nostro io penso impegnato nell’attività di unificare i fenomeni dell’esperienza
interiore o esteriore (spaziale o temporale)e cioè impegnato nell’attività di pensarli. Ma che cosa sia
l’io penso, indipendentemente dai fenomeni, non lo sappiamo. Allo stesso modo conosciamo alcune
parti del mondo, ma il mondo nella sua totalità, l’universo, non potrà mai per principio entrare in
una nostra esperienza, che è sempre condizionata nello spazio e nel tempo. Infine, tutte le
dimostrazione dell’esistenza di Dio sono illusorie, poiché l’esistenza non è un predicato logico che
si possa aggiungere a un soggetto mediante ragionamento: l’esperienza si mostra (nello spazio e nel
tempo), non si dimostra. Ma ciò che si mostra nell’esperienza è un fenomeno, un ente contingente, e
non un essere necessario quale noi pensiamo che debba essere Dio. In conclusione, la metafisica
tratta le idee della Ragione come se fossero categorie dell’intelletto. In realtà, a differenza delle
categorie, le idee non danno luogo a conoscenza, poiché non sono forme che ordinano la materia
dell’intuizione (non vi è materia ad esse corrispondenti). Più in generale, il puro pensiero non può
giungere a conoscenze. L’uomo non possiede un pensiero intuitivo, capace di darsi da sé i propri
oggetti; il pensiero può solo ordinare i dati dell’esperienza in accordo con le categorie
dell’intelletto; ma dove non vi sono i dati dell’esperienza non vi è nulla pensare.
Per principio, dunque, la metafisica è una scienza impossibile e ciò spiega anche la sua
mancanza di progressi validi. Essa, tuttavia, risorge sempre come tentazione del pensiero, poiché il
bisogno di conoscere il noumeno e di dare un senso all’esperienza che trascenda l’esperienza è
radicato nel cuore dell’uomo, nella natura del suo sentimento.
La Ragione per Kant non serve solo a dirigere la conoscenza, ma anche l’azione. Accanto
alla Ragione teoretica abbiamo dunque una Ragione pratica, che Kant distingue in Ragione pura
pratica, cioè che opera indipendentemente dall’esperienza e dalla sensibilità, e in Ragione empirica
pratica,cioè che opera sulla base dell’esperienza e della sensibilità. E poiché la dimensione della
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moralità si identifica con la dimensione della Ragione pura pratica, il filosofo dovrà distinguere in
quali casi la Ragione è pratica e pura nello stesso tempo (ovvero morale) e in quali casi essa è
pratica senza essere pura, (ovvero senza essere morale). Questo problema viene affrontato da Kant
nell’opera Critica della ragion pratica (1787). Secondo Kant, l’uomo agisce in base ad imperativi.
Essi sono generalmente ipotetici, cioè obbediscono alla formula “se vuoi a fai b”. Tali imperativi,
meramente pratici e utilitaristici, non consentono tuttavia un giudizio morale. Questi ultimi, invece,
fa valere un imperativo del tutto incondizionato e categorico: esso non propone dei “se”, ma esige
semplicemente che si compia il proprio dovere, senza altro fine se non il dovere per il dovere. La
presenza in noi di tale imperativo è, secondo Kant, un fatto di Ragione; noi cioè ce ne troviamo
forniti di fatto, come dimostrano i nostri giudizi morali. Ciò significa allora che l’imperativo
categorico pretende che noi agiamo come se fossimo liberi, cioè non condizionati dal mondo
fenomenico al quale apparteniamo. Ciò che ci è inibito sul piano del conoscere, si manifesta invece
sotto la forma dell’imperativo morale. Esso pretende da noi una condotta quale è possibile solo a
esseri liberi, o destinati a raggiungere all’infinito tale libertà, cioè immortali, secondo una finalità
ideale di cui solo Dio potrebbe essere garante. Ma noi che dell’anima, dell’immortalità e
dell’esistenza di Dio non possiamo affermare nulla sul piano della scienza: questi concetti si
rivelano, ora, non forme del conoscere, ma postulati del giudizio morale. Nel dire “questo è bene,
questo è male” in senso morale, e cioè incondizionato, noi di fatto stiamo postulando la libertà
dell’agente, l’immortalità dell’anima e l’esistenza di un fine superiore, e cioè l’esistenza di Dio; in
caso contrario il nostro giudizio morale sarebbe assurdo. In altri termini: nel giudizio morale
mostriamo di considerare l’uomo, non come un puro fenomeno, per esempio come un animale, ma
come un essere capace di opporsi con la volontà alle contingenze naturali che sono fuori e dentro di
lui. Ma bisogna aggiungere che un’azione morale, o che aspiri ad avvicinarsi il più possibile alla
pura legge del dovere, è possibile solo se la conoscenza delle cose in sé, dei noumeni, resta per noi
inaccessibile. Ove l’uomo potesse conoscere direttamente Dio, il fine supremo dell’universo e il
proprio terreno ultraterreno, ove su tali istanze non sussistessero dubbi o incertezze, nessuno
potrebbe più scegliere di uniformarsi o non uniformarsi all’imperativo categorico, cioè nessuno più
sarebbe libero. La morale kantiana, invece, è essenzialmente una morale della libertà e insieme
dell’autonomia. Unica legge morale è la legge del dovere che parla al cuore e alla Ragione di ogni
uomo. Ogni conformità a norme esterne non sarebbe per Kant “morale”, anche se la norma
ordinasse in nome della fede o di fini superiori. Per agire moralmente l’uomo deve uniformarsi
unicamente alla voce della sua libera Ragione; è caso mai essa a legittimare le autorità esterne,
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riconoscendole consone all’imperativo categorico, e non viceversa. Di qui anche la posizione di
Kant nei confronti della religione: ogni pratica esterna, dogma o imposizione è insignificante, dal
punto di vista religioso, e negativo dal punto di vista morale. La religione è un fatto di fede
interiore, una speranza del sentimento, che, invero, non aggiunge nulla alla certezza del tutto
autonoma dell’imperativo categorico.
Come si è visto, dalla Critica della ragion pura emerge una visione della realtà in termini
meccanicistici, in quanto la natura, dal punto di vista fenomenico, appare come una struttura causale
e necessaria, entro la quale non trova posto la libertà umana. Dalla Critica della ragion pratica
affiora, invece, una visione della realtà in termini indeterministici e finalistici, in quanto si postula,
come condizione della morale, la libertà dell’uomo e l’esistenza di Dio. Dunque, da un lato
campeggia un mondo fenomenico e deterministico conosciuto dalla scienza, dall’altro un mondo
noumenico e finalistico postulato dall’etica.
Nella Critica del giudizio (1790), Kant, procedendo oltre la bipartizione tradizionale del
Settecento, studia il sentimento, facendone una “terza facoltà” ed un campo di attività autonoma. Il
sentimento si rivolge agli stessi fenomeni della natura, ma li considera, non in modo conoscitivo,
bensì in maniera riflessiva e contemplativa. Così facendo, il sentimento proietta sulla natura le sue
stesse esigenze di libertà e di finalità. Ciò accade in particolare nel giudizio estetico, che ha come
oggetto il bello e il sublime: allora noi consideriamo la stessa natura, non sotto il profilo delle sue
leggi meccaniche o delle utilità che da essa possono derivarci, (infatti il giudizio estetico è
disinteressato), ma come l’espressione di una libera armonia.
Oltre che nel giudizio estetico, il sentimento si esprime poi nel giudizio teleologico, il quale
non può fare a meno di “sentire” la presenza di un fine, di uno scopo noumenico, nell’universo.
Dove la scienza non può e non deve veder altro che contingenze e causalità meccaniche, il
sentimento avverte l’esigenza di una mente ordinatrice per la quale contingenza e necessità, libertà
e determinismo, si identificano. In ultima analisi, proprio i limiti imposti da Kant all’intelletto
consentono di cogliere, nella loro peculiarità, le due più profonde verità che guidano il cammino
dell’uomo: la verità della “legge morale dentro di noi” e la verità del “cielo stellato sopra di noi”,
ossia la verità della volontà e del sentimento.
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5.1 Antologia: la rivoluzione nella filosofia della conoscenza PROBLEMA: qual è il fondamento del sapere? Può la filosofia della conoscenza diventare
una vera scienza?
TESI: ribaltando profondamente l’approccio tradizionale della filosofia della conoscenza,
Kant afferma che l’atto conoscitivo non è affatto un adeguarsi della mente all’oggetto conosciuto.
Al contrario sono gli schemi mentali già presenti nella mente a determinare ciò che dell’oggetto
possiamo conoscere. Ne consegue un programma di ricerca innovativo: al centro della filosofia
della conoscenza devono essere poste le forme a priori della mente, universali e necessarie.
Dalla Critica della ragion pura, Kant scrive:
la filosofia deve rinnovarsi, seguendo l’esempio della fisica e della matematica:
“io dovevo pensare che gli esempi della matematica e della fisica, che sono ciò che ora
sono per effetto di una rivoluzione attuata tutta d’un colpo, fossero abbastanza degni di nota, per
riflettere sul punto essenziale del cambiamento di metodo, che è stato loro di tanto vantaggio, e per
imitarlo qui, almeno come tentativo, per quanto l’analogia delle medesime, come conoscenze
razionali, con la metafisica ce lo permette”.
Tutti i tentativi di spiegare la conoscenza come adeguamento della mente all’oggetto
conosciuto sono falliti:
“sinora si è ammesso che ogni nostra conoscenza dovesse regolarsi sugli oggetti; ma tutti i
tentativi di stabilire intorno ad essi qualche cosa a priori, per mezzo di concetti, con i quali si
sarebbe potuto allargare la nostra conoscenza, assumendo un tal presupposto, non riuscirono a
nulla”.
A fondamento della conoscenza si deve ora porre la mente stessa, non il mondo
esterno:
“si faccia, dunque, finalmente la prova di vedere se saremo più fortunati nei problemi della
metafisica, facendo l’ipotesi che gli oggetti debbano regolarsi sulla nostra conoscenza a priori; ciò
che si accorda meglio con la desiderata possibilità d’una conoscenza a priori, che stabilisca
qualcosa relativamente agli oggetti, prima che essi ci siano dati”.
Così come Copernico ha tolto la Terra dal centro dell’universo, ponendovi il Sole, al
centro dell’indagine va ora posto il soggetto osservatore:
“qui è proprio come per la prima idea di Copernico ; il quale, vedendo che non poteva
spiegare i movimenti celesti ammettendo che tutto l’esercito degli astri rotasse intorno allo
spettatore, cercò se non potesse riuscir meglio facendo girare l’osservatore, e lasciando invece in
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riposo gli astri. Ora in metafisica si può veder di fare un tentativo simile per ciò che riguarda
l’intuizione degli oggetti”.
Solo un’analisi delle facoltà conoscitive dell’uomo può implicare principi a priori:
“Se l’intuizione si deve regolare sulla natura degli oggetti, non vedo punto come si potrebbe
saperne qualcosa a priori; se l’oggetto invece (in quanto oggetto del senso) si regola sulla natura
della nostra facoltà intuitiva, mi posso benissimo rappresentare questa possibilità.”
Il rapporto fra osservatore e oggetto ammette solo due possibilità...:
“Ma, poiché non posso arrestarmi a intuizioni di questo genere, se esse devono diventare
conoscenze; e poiché è necessario che io le riferisca, in quanto rappresentazioni, a qualcosa che ne
sia l’oggetto e che io determini mediante quelle; così non mi rimane che ammettere:”
...o è la mente dell’osservatore ad adeguarsi al mondo esterno...:
“o che i concetti, coi quali io compio questa determinazione, si regolino anche sull’oggetto,
e in questo caso io mi trovo nella stessa difficoltà, circa il modo cioè in cui possa conoscente
qualche cosa a priori;”
...oppure è l’oggetto ad adeguarsi ai concetti dell’osservatore:
“oppure che gli oggetti o, ciò che è lo stesso, l’esperienza, nella quale soltanto essi sono
conosciuti (in quanto oggetti dati), si regolino su questi concetti”.
Se protagonista della conoscenza è la mente dell’osservatore, sarà allora possibile
trovare i principi a priori che regolano il suo funzionamento:
“allora io vedo subito una via d’uscita più facile, perché l’esperienza stessa è un modo di
conoscenza che richiede il concorso dell’intelletto, del quale devo presuppone in me stesso la
regola prima che gli oggetti mi sieno dati, e perciò a priori; e questa regola si esprime in concetti a
priori, sui quali tutti gli oggetti dell’esperienza devono necessariamente regolarsi, e coi quali
devono accordarsi”.
La filosofia della conoscenza deve studiare i principi a priori della mente e il rapporto
che si crea fra questi e gli oggetti:
“per ciò che riguarda gli oggetti in quanto sono semplicemente pensati dalla Ragione, ossìa
necessariamente, ma non possono esser dati punto nell’esperienza (almeno come la Ragione li
pensa), i tentativi di pensarli (devono pur potersi pensare!) forniranno quindi una eccellente pietra
di paragone di quel che noi assumiamo come il mutato metodo nel modo di pensare, e cioè: che noi
delle cose non conosciamo a priori, se non quello stesso che noi stessi vi mettiamo”.
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