Download - Tesina Rivoluzione Industriale Conseguenze
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LICEO SCIENTIFICO “G. BRUNO” Venezia - Mestre
Fabio Scaggiante
Classe VF
La Rivoluzione Industriale e le sue conseguenze sul piano
sociale e letterario
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INDICE
Introduzione………………………………………………………..p. 3
Schema di Storia………………………………………………….. p. 4
Storia……………………………………………………………….p. 5
Schema di Filosofia……………………………………………….. p. 11
Filosofia…………………………………………………………….p. 12
Schema di Letteratura………………………………………………p. 15
Letteratura…………………………………………………………..p. 16
Schema di Inglese…………………………………………………..p. 22
Inglese………………………………………………………………p. 23
Bibliografia…………………………………………………………p. 25
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INTRODUZIONE
Ho scelto di realizzare questo percorso mosso dall’interesse e dalla curiosità nei confronti
delle conseguenze di varia natura derivanti dalla prima rivoluzione industriale, i cui effetti, a
mio parere, si fanno sentire ancora oggi.
Il percorso, che ho intitolato La Rivoluzione Industriale e le sue conseguenze sul piano
sociale e letterario, parte da Storia dove analizzo nei dettagli la prima rivoluzione
industriale, mettendone in luce le conseguenze sul tessuto sociale (nascita della borghesia e
del proletariato) e le modifiche e gli stravolgimenti apportati all’ambiente.
Segue Filosofia dove espongo quelli che sono i due pensieri cardine della nuova società
venutasi a creare: quello liberista, di cui uno dei principali teorici fu lo scozzese Adam
Smith, e l’altro, opposto al primo, quello marxista, elaborato nel corso del XIX sec. da Karl
Marx insieme anche al contributo di Friedrich Engels.
Dopo aver passato in rassegna le novità del pensiero filosofico vado a toccare la sfera della
Letteratura, evidenziando come tutti i cambiamenti e le novità che mutarono la società del
XIX sec. abbiano influenzato l’opera di scrittori come Zola e Dickens, molto sensibili ai
problemi di natura sociale che danneggiarono le fasce più deboli e povere della popolazione.
Infine in Italia queste tematiche, quasi del tutto assenti nel corso dell’800 per una
concomitanza di vari motivi, vennero riprese e rivisitate in chiave moderna, solo un secolo
dopo, con Vasco Pratolini.
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Storia
La prima rivoluzione industriale
Introduzione e analisi del termine
Cronologia e aspetti della rivoluzione industriale
Fattori della rivoluzione industriale inglese
Premesse e conseguenze nel mercato estero
Le conseguenze della rivoluzione industriale
Nascita del proletariato urbano e le sue condizioni di vita
Trasformazione delle città in termini urbanistici
Trasformazioni del paesaggio
Le nuove componenti sociali e la lotta di classe
Il tramonto dei vecchi ceti sociali e l’ascesa della borghesia capitalista
La nascita del proletariato
Il movimento operaio
I sindacati come interpreti delle esigenze del nuovo ceto produttivo
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Storia
La prima rivoluzione industriale
Introduzione e analisi del termine L’espressione “rivoluzione industriale” fu consacrata nell’uso scientifico da quando figurò come titolo del
libro pubblicato nel 1886 dallo storico inglese Arnold Toynbee, ma era già comunemente impiegata da molti
decenni. Nel suo grande successo fin dall’inizio del XIX secolo è implicito un confronto con la rivoluzione
francese, di cui la rivoluzione industriale inglese era una sorta di omologo: in Francia furono sconvolte le
strutture politiche e sociali mentre in Inghilterra era toccata la stessa sorte alle strutture economiche e
produttive.
Il termine “rivoluzione” vuole suggerire una trasformazione profonda avvenuta secondo tempi
particolarmente rapidi. Per parlare correttamente di rivoluzione industriale bisogna prima di tutto mettere
bene in evidenza quelli che sono i caratteri di una società industriale in rapporto a una società agricola, al
fine di presentare il passaggio dall’una all’altra come una forte discontinuità che merita il nome di
rivoluzione , se si è prodotta in un arco di tempo relativamente breve.
Un processo di industrializzazione implica tre aspetti evidenti:
1) un ritmo di aumento della popolazione industriale piuttosto rapido, più rapido comunque del ritmo di
aumento della popolazione;
2) un tasso di crescita molto significativo nella produzione agricola, seppure inferiore a quello
industriale che dipende dalla concomitanza dell’industrializzazione con la crescita demografica, ma
in parte anche dal trasferimento della forza lavoro dall’agricoltura all’industria. Rilevante nel settore
agricolo l’aumento della produttività del lavoro fu vertiginoso in quello industriale.
3) l’aumento della produttività si spiega a sua volta con l’introduzione di macchine capaci di aumentare
la produzione per addetto in una data unità di tempo.
Accanto ai tre elementi fin qui ricordati dobbiamo porre, per avere un quadro veramente completo, anche gli
altri sette indicati dalla studiosa di storia economica Phyllis Deane:
1) l’applicazione diffusa e sistematica della conoscenza tecnologica allo sviluppo delle attrezzature
produttive;
2) l’aumento della produzione diretta ai mercati nazionali e internazionali e la corrispondente
diminuzione di quella diretta all’autoconsumo o ai mercati locali;
3) un considerevole aumento del tasso di urbanizzazione;
4) la crescita delle dimensioni dell’unità di produzione e la sua spersonalizzazione;
5) lo spostamento del lavoro dalle attività agricole a quelle che producono beni industriali e servizi;
6) l’impiego intensivo ed estensivo dei beni capitali in sostituzione e a completamento del lavoro
umano;
7) la nascita di nuove classi sociali create dalla diffusione dei nuovi mezzi di produzione, e in
particolare il proletariato urbano e i capitalisti imprenditori.
Cronologia e aspetti della rivoluzione industriale Nei primi anni del XIX secolo, dopo che la rivoluzione industriale era già stata avviata da più di una
generazione, il proletariato urbano era ancora lontano dall’essere il tipo sociale più comune di forza-lavoro e
la grande fabbrica con oltre 100 operai non aveva fatto sparire in tutti i settori la piccola industria
manifatturiera con caratteristiche ancora simili a quelle della bottega artigiana.
Quanto detto può far riflettere sull’opportunità di usare il termine “rivoluzione”, visto che solo alla metà del
XIX secolo l’Inghilterra potrà dire di aver subito una compiuta trasformazione in senso industriale.
L’inizio, fissato di solito nel ventennio 1760-80, è stato più o meno retrodatato e si è proposto un processo di
più lenta durata, che occupa almeno l’arco di tempo che va dal 1650 al 1850. Ci sono altre questioni che
fanno assumere importanza al problema della cronologia del processo di industrializzazione: ci si può
chiedere perché fu proprio l’Inghilterra il primo paese a industrializzarsi e quali furono le cause di questo
fenomeno e se ce n’è una più rilevante delle altre, poi si ci fu un settore di sviluppo industriale di punta, che
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con la sua crescita trascinò tutti gli altri, o se invece la rivoluzione industriale avvenne simultaneamente in
molti settori che si rinforzavano vicendevolmente.
Fattori della rivoluzione industriale inglese
Fattore di fondamentale importanza per lo sviluppo della Rivoluzione industriale in Inghilterra fu
l'agricoltura; infatti l'Inghilterra fu la prima ad avere una agricoltura di mercato (non per auto-consumo ma
per profitto) che, unita all'innovazione tecnologica, eliminò molta manodopera dalle campagne facendola
rifluire verso la città dove troverà occupazione nella nascente industria. Ma il fenomeno delle enclosures, per
cui molta terra demaniale lasciata al libero pascolo venne privatizzata e recintata, privò i contadini più poveri
del libero diritto di pastorizia e li spinse a trovare nuovo impiego nelle fabbriche. Altro importante fattore è
la rivoluzione agricola sviluppatasi nel corso del Settecento, che con sistemi di avanguardia, come la
rotazione programmata delle colture, agevolò lo sviluppo industriale e demografico.Le nuove tecniche di
filatura e tessitura rimpiazzarono, malgrado iniziali resistenze, il lavoro a domicilio, basato su tecniche
manuali, e portano alla costruzione di fabbriche nelle quali i nuovi macchinari venivano messi in funzione e
verso le quali converge la forza lavoro. Nasce così il capitalismo industriale.
Anche altri fattori contribuirono allo sviluppo industriale. L’Inghilterra godeva in effetti di alcuni vantaggi: il
primo era costituito dall’abbondanza delle risorse minerarie di carbone e ferro, anche se, secondo alcuni
studiosi, l’incremento del carbone e del ferro appare piuttosto un effetto che non una causa della rivoluzione
industriale. Un altro vantaggio fu la scoperta precoce di macchine che aiutarono il lavoro dell’uomo. Benché
nota fin dal XVI secolo, la macchina a vapore si sviluppò, agli inizi del XVIII secolo, con le sperimentazioni
di Savery e di Thomas Newcomen per la costruzione di pompe a vapore, utilizzate per evacuare l’acqua dalle
miniere di carbone e di rame. Fu però James Watt a costruire il primo vero modello di macchina a vapore
(1769), che divenne il simbolo della rivoluzione industriale, migliorando quella di Newcomen. Solo nel
1782, Watt chiarì come trasformare il movimento d’oscillazione in movimento circolare permettendo, grazie
anche all’apporto di John Roebuck e di Mathew Boulton, un utilizzo pratico della macchina a vapore. A
questo punto, vapore e carbone divennero gli strumenti del progresso.
La macchina a vapore
Premesse e conseguenze nel mercato estero
Infine, significativo per lo sviluppo industriale fu il commercio estero. Questo assunse un ruolo
considerevole nella rivoluzione industriale soprattutto perché procurò la materia prima costituita dal cotone
grezzo, mentre la lana, il carbone e il ferro erano tutti di produzione nazionale. Già molto tempo prima della
rivoluzione industriale lo sviluppo economico inglese era stato fortemente legato al commercio estero.
L’intero mercato britannico costituiva verso il 1770 il più vasto e integrato complesso economico del mondo;
all’interno delle isole britanniche non esistevano dazi doganali di nessun genere e la libera circolazione delle
merci era la regola assoluta.
La ricerca di una causa unica per il processo di industrializzazione inglese è destinata a non avere molto
successo. Come documenta l’analisi condotta, i fattori che portarono all’industrializzazione furono
molteplici e inoltre utilizzando la terminologia proposta nel 1960 dall’economista americano Walt W.
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Rostow possiamo dire che il “decollo” (take off) verso l’industrializzazione fu preceduto da una lunga
rincorsa nel XVII secolo e da un’accelerazione nel XVIII, anche se è nel trentennio 1760-90 che avvenne
una vera trasformazione qualitativa di tutte le strutture economiche.
Le conseguenze della rivoluzione industriale
Nascita del proletariato urbano e le sue condizioni di vita L’aumento della popolazione e più ancora la trasformazione dell’agricoltura in un sistema di tipo
capitalistico furono all’origine del nuovo proletariato industriale urbano.
Secondo una definizione generalmente accettata dagli studiosi un proletario è un uomo che non possiede
mezzi di produzione e che percepisce un salario come rimunerazione del lavoro fornito; se il lavoro diventa
una merce come tutte le altre e se esiste un mercato del lavoro sufficientemente sviluppato, il livello del
salario sarà determinato dalla situazione della domanda e dell’offerta: quando la domanda di lavoro da parte
degli imprenditori cresce, anche il salario tenderà a innalzarsi, quando c’è una eccedenza di offerta di lavoro
da parte dei salariati il prezzo del lavoro tenderà a comprimersi.
Il lavoro salariato dominava senza ostacoli in tutti i casi in cui non era richiesto nemmeno un minimo di
specializzazione. Ci fu un problema relativo all’origine sociale degli operai salariati che cominciarono a
popolare le fabbriche delle nuove città industriali negli ultimi decenni del Settecento. Inizialmente la forza-
lavoro salariata era stata spesso fornita dalla popolazione marginale dei poveri e vagabondi.
Con la legislazione inglese del Seicento, la migliore d’Europa sia per spietatezza repressiva che per
efficienza assistenziale, cominciò allora quella che è stata chiamata l’epoca della “grande deportazione” nelle
case di lavoro: ai “poveri validi”, cioè ritenuti in grado di compiere un lavoro utile, vennero sempre più
negati i sussidi della carità pubblica e si poneva loro l’alternativa di vivere nella forma più miserabile della
povertà (duramente repressa) o in reclusione negli “ospedali dei poveri”. Qui ad attenderli c’era il lavoro
coatto e condizioni di vita durissime, tanto che questi ospedali erano considerati una terribile minaccia per
chi non riusciva a trovarsi un lavoro.
Almeno per le condizioni di vita disumane e la completa sottomissione a una disciplina ferrea si può dire che
esista una certa continuità fra tali workhouses e le prime fabbriche nel senso moderno della parola.
Si può pensare che lo sviluppo dell’industria si accompagnò ad un aumento di una popolazione marginale e
sradicata: in primo luogo perché la macchina viene vista come causa diretta della proletarizzazione in quanto
consentiva una produzione a costi assai bassi e perciò mandò in rovina l’intero mondo degli artigiani,
costringendoli a declassarsi e a entrare nel mondo del proletariato.
Si ritiene inoltre che l’origine del proletariato moderno sia da ricondurre alle campagne dove, espulsi dalla
terra, un gran numero di contadini si sarebbero riversati nelle città come masse proletarizzate pronte ad
accettare le più dure condizioni di lavoro.
Il problema dell’origine del proletariato si combina con quello delle condizioni di vita degli operai delle
industrie. I salari industriali erano di solito più alti di quelli agricoli, e ciò deve indurre a credere che
l’urbanizzazione non fosse solo il risultato di un’espulsione dalle campagne, ma anche di una vera forza di
attrazione della città.
La città anonima e la fabbrica alienante resero il lavoro assai più penoso che in passato. Le prime agitazioni
operaie assunsero talora la forma della distruzione delle macchine, cui si attribuiva la responsabilità dei
buoni salari e della disoccupazione, e soprattutto simbolo di un’oppressione intollerabile.
Trasformazione della città in termini urbanistici
Per decenni gli storici hanno collegato strettamente urbanizzazione e industrializzazione: non sarebbero state
le città, ma l’industria ad attrarre strati crescenti di popolazione. Accanto a città industriali come Manchester
crebbero città assai meno industrializzate. L’afflusso in questa città si spiega ricorrendo a tendenze
economiche e sociali complesse, non esclusi gli aspetti di cambiamento della mentalità. Il miglioramento nei
trasporti permise spostamenti più rapidi di popolazione e favorì anche una maggiore diffusione tra città e
campagne di modi di comportamento e di consumo.
La crescita tumultuosa dell’urbanizzazione e della popolazione provocò profondi cambiamenti nella stessa
struttura fisica delle città. Furono costruiti interi quartieri per decine di migliaia di persone: quartieri
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generalmente monotoni e uniformi, costruiti non in base a un piano globale, ma lotto per lotto, isolato per
isolato. I quartieri si differenziavano in base ai livelli di ricchezza: venivano contrapposti quartieri poveri e
quartieri ricchi o, per meglio dire, “quartieri borghesi” e “quartieri proletari”. La differenza era visibile a
occhio nudo, e facilmente misurabile in termini sanitari.
Le grandi città apparivano doppiamente ammalate: di inquinamento e sporcizia da un lato, di crimini
dall’altro.
Qui sotto è presente un’immagine (si tratta di un’opera di Gustave Dorè) che facilmente fa capire quali
fossero le condizioni di vita presenti nei bassifondi delle città industriali.
Gustave Doré, Visione di Londra da una Ferrovia, 1872
Trasformazioni del paesaggio Non solo le città modificarono il loro aspetto come conseguenza della rivoluzione industriale ma il paesaggio
complessivo subì una trasformazione.
Le innovazioni tecnologiche che dal settore del cotone si diffusero poi a quello della lana mutarono
completamente la struttura geografica dell’industria tessile, specialmente dopo che l’applicazione della
macchina a vapore ai fusi ebbe concentrato intorno a un unico attrezzo un volume di produzione in
precedenza disperso tra molte decine di filatori rurali. La produzione di carbone di legna poteva avvenire in
qualsiasi località boscosa e l’estrazione di carbone o di minerale ferroso era diffusa in tutto il territorio
inglese. La macchina a vapore fece cadere in disuso i mulini ad acqua come attrezzi industriali della
metallurgia e consentì di spostare la produzione dalle alture, dove esistevano corsi d’acqua con sufficiente
energia, alle pianure.
La polarizzazione delle attività industriali ebbe un immediato riscontro sulla distribuzione territoriale della
popolazione. Concentrazione e polarizzazione regionale vogliono poi dire anche grande sviluppo
dell’urbanizzazione.
Se la macchina a vapore e gli attrezzi tessili meccanici crearono la fabbrica, questa a sua volta creò la città
industriale moderna, una tipologia urbana fino ad allora secondaria. Ancora più significativo è il fatto che
queste nuove città industriali nascevano spesso dal nulla, come per provare la capacità del processo di
industrializzazione di reinventare completamente la propria materia sociale.
Le nuove componenti sociali e la lotta di classe
Il tramonto dei vecchi ceti sociali e l’ascesa della borghesia capitalista L’Ottocento si qualificò ben presto come un secolo dirompente anche dal punto di vista sociale oltre che
economico e demografico: sia per i protagonisti collettivi che lo dominarono, sia per il tipo di struttura
assunto dalla società, che fu essenzialmente una società di “classi”. Il XIX secolo vide come protagonisti
sociali di primo piano le classi sociali e in particolare le classi fondamentali del moderno processo di
produzione: la borghesia e il proletariato.
Il termine “classe”, usato tradizionalmente in campo scientifico per designare gruppi di oggetti, piante o
animali, venne assumendo un significato inedito: con esso si identificarono i gruppi sociali, le parti
fondamentali della società.
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L’antico regime ragionava in termini di “ordini” o “ceti”: gruppi organici, la cui appartenenza era
immodificabile.
Invece la società di classi definì essenzialmente la collocazione sociale degli individui in base alla loro
posizione nel processo produttivo ed alla attività lavorativa svolta.
Le differenze tra i diversi gruppi sociali non erano più fissate dal diritto, ma dall’economia, ossia dal diverso
grado di disponibilità della ricchezza e degli strumenti di produzione. Questa condizione si modificava nel
corso della vita dell’individuo: si poteva salire nella scala sociale; o scendere, a seconda dei meriti, della
capacità nell’accumulare ricchezza, del buono o cattivo andamento degli affari.
La trasformazione della società di ceti e ordini in una società di classi non fu un fenomeno rapido, né
avvenne ovunque contemporaneamente. Allo sradicamento dei vecchi ordini e alla formazione di una
struttura sociale divisa in classi contribuirono diversi eventi e fenomeni: il superamento degli ordini feudali
nelle campagne, la crescita delle grandi città, lo sviluppo dei trasporti, le numerose riforme giuridiche e
politiche, e soprattutto l’industrializzazione e la nascita della moderna borghesia imprenditoriale.
A una classe sociale proprietaria delle terre e dei mezzi di produzione, la borghesia, si venne contrapponendo
una classe che, per sopravvivere, disponeva esclusivamente della possibilità di vendere il proprio lavoro: il
proletariato.
All’inizio dell’Ottocento la parola “borghese” perse il suo significato originario per designare un complesso
insieme di posizioni sociali: borghesi erano gli imprenditori industriali e i grandi finanzieri; o i funzionari e i
professionisti che vivevano nelle grandi città; oppure i grandi proprietari terrieri che avevano acquistato terre
già ecclesiastiche o feudali, o recintato terre comuni.
Tutto quello che teneva unito un ceto così particolarmente eterogeneo era il principio che la proprietà fosse la
base dell’ordine sociale e la contrapposizione ai vecchi ceti dominanti aristocratici e al proletariato
emergente.
All’interno della borghesia spicca una nuova figura sociale: l’imprenditore. Egli è l’artefice di primo piano
della rivoluzione industriale e parte integrante del nuovo regime economico caratterizzato dal libero mercato
e dalla libera concorrenza. E’ anche il proprietario d’impresa che, investendo capitale proprio, utilizzava
lavoro salariato nell’ambito di un’attività alla cui organizzazione e direzione partecipava direttamente e di
cui si assumeva il rischio (“rischio d’impresa”) e si muove in un universo dove nulla è certo né garantito da
volontà personali.
La nascita del proletariato All’articolato processo di formazione del proletariato contribuirono diversi fattori: da un lato la crisi delle
antiche strutture corporative artigianali costrinse migliaia di piccolo produttori indipendenti a lavorare sotto
un imprenditore; dall’altro la recinzione delle terre e l’espulsione dall’agricoltura della manodopera in
eccedenza, oltre alla crescita demografica, che crearono masse consistenti di vagabondi spinti verso le città
industriali. Si originò così una massa eterogenea di uomini, provenienti da condizioni sociali e aree
geografiche diverse, accomunati dalla stessa condizione di sradicamento e miseria.
All’interno delle fabbriche gli operai si trovarono dinanzi a regole di comportamento fortemente costrittive,
una lunga catena di doveri per i dipendenti e orari di lavoro uniformi e rigidi. Nacque la giornata lavorativa,
lunga anche 15-16 ore, durante la quale l’operaio si impegnava a fornire la propria capacità lavorativa sotto
la direzione del padrone.
La formazione del proletariato avvenne gradualmente e procedette per tappe segnate dallo sviluppo
tecnologico, dall’evoluzione del sistema di macchine e delle tecniche di organizzazione del lavoro.
Il movimento operaio Tra classi proprietarie e classi lavoratrici la rivoluzione industriale stabilì un confine sempre più netto e una
dura contrapposizione. Non esisteva solo una diversità nei livelli di reddito o nel tipo di funzione sociale
svolta, ma di stili di vita contrapposti e persino di possibilità di sopravvivenza differenti.
Grazie al conflitto sociale fece la propria comparsa un nuovo protagonista storico: il movimento operaio.
Tale movimento, comprendente le fasce più povere della popolazione che partecipavano subordinatamente
alla produzione industriale, non usò gli strumenti tradizionali e violenti della “politica statuale” come la
repressione, ma forme civili di protesta, come lo sciopero e la libera associazione.
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Il movimento operaio ebbe la sua culla in Inghilterra, il primo paese a essersi industrializzato, e quindi anche
il primo a sperimentare il lento, duro processo di organizzazione del proprio proletariato.
In breve tempo il proletariato, riconosciutosi come “partito indipendente” incominciò a darsi una propria
organizzazione e proprie rivendicazioni che assunsero la forma di un vero e proprio programma.
I sindacati come interpreti delle esigenze del nuovo ceto produttivo In questo conflitto sociale i sindacati ricoprirono un ruolo importante in quanto non esistevano più le
relazioni che legavano tra loro i diversi ceti assegnando a ognuno una posizione fissa e immutabile. La
redistribuzione del reddito e dei diritti si negoziava di volta in volta in base al rapporto di forza tra le varie
componenti del processo di produzione sociale.
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Filosofia
Premessa: come si è modificato il pensiero filosofico in relazione alle trasformazioni
industriali e societarie di fine Settecento
Adam Smith:
Breve descrizione della vita e delle sue opere principali
La nascita dell’economia politica: la Ricchezza delle nazioni
Karl Marx:
Breve descrizione della vita e delle sue opere principali
Il Manoscritto del Partito comunista
L’analisi dell’economia politica: il Capitale
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Filosofia
Premessa Le trasformazioni, operate dalla rivoluzione industriale, che mutarono la struttura della società e la sua
economia nel XIX secolo furono oggetto dell’analisi di un nuovo pensiero filosofico, se non meno sensibile
alle tematiche religiose o etiche in genere, certamente più attento ad elaborazioni teoriche riguardanti i
processi produttivi e le dinamiche della società.
La borghesia vide rispecchiate le proprie aspettative nella dottrina liberista di Adam Smith.
Viceversa ai problemi del proletariato si interessarono unitamente Karl Marx e Friedrich Engels.
Adam Smith (Kirkcaldy,Scozia, 1723 – Edimburgo, 1790)
Nato a Kirkcaldy, presso Edimburgo, nel 1723, Smith studiò a Glasgow con Hutcheson e, qualche anno dopo
la morte di quest’ultimo, gli succedette sulla cattedra di Filosofia morale. Nel 1763 lasciò l'insegnamento per
andare in continente in qualità di precettore privato: durante questo viaggio soggiornò a Parigi, dove entrò in
contatto con l'ambiente della fisiocrazia francese, in particolare con Quesnay e con Turgot. Ritornato in
patria, condusse a lungo vita privata, poi divenne commissario alle Dogane e infine Rettore dell'università di
Glasgow. Morì nel 1790.
Studioso di filosofia morale, Smith rintracciava nel sentimento (simpatia,interesse, ecc.) il movente dell’agire
e dell’associarsi, e nell’utile individuale e sociale il fondamentale criterio di comportamento.
Nel 1759 pubblicò la prima delle sue opere, Teoria dei sentimenti morali, dove affermava che l’uomo è
mosso e guidato nelle sue azioni dal desiderio di ottenere l’approvazione, e quindi la simpatia dei suoi simili.
Nel 1776 pubblicò le Ricerche sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni, che può essere
considerato il primo trattato organico di economia politica.
L’opera è divisa in cinque libri, che trattano rispettivamente: del rapporto fra divisione del lavoro e
produttività e della distribuzione del reddito, dell’accumulazione, dello sviluppo economico dall’impero
romano in poi in breve excursus, delle teorie economiche precedenti quella smithiana (mercantilisti,
fisiocratici), della finanza pubblica.
Testimone delle trasformazioni che investono la vita economica dell’Inghilterra – dove si stanno affermando
i meccanismi del moderno capitalismo industriale – Smith sostiene che l’elemento propulsore di ogni attività
economica è l’interesse individuale. Apparentemente, gli interessi individuali sono in conflitto: gli
imprenditori hanno interesse a pagare il meno possibile il lavoro dei loro operai; quest’ultimi, invece,
vogliono percepire il salario più alto possibile. Tuttavia, se si adotta un punto di vista generale, gli interessi
individuali sembrano comporre un tutto armonico e determinare un vantaggio generale da cui traggono
profitto anche coloro che sono apparentemente più svantaggiati.
I processi socio-economici rivestono un carattere naturale e rivelano un ordine intrinseco che non richiede
l’intervento artificiale umano. Per questo Smith asserisce che l’azione dello Stato in fatto di economia è del
tutto dannosa. Regolamentando i processi produttivi o introducendo restrizioni nella libertà di commercio,
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l’intervento dello Stato rischia di compromettere il vantaggio generale che necessariamente si acquisisce
quando si lascia che le cose seguano il loro corso naturale.
In alternativa alla politica economica del mercantilismo seicentesco – che prevedeva massicci interventi
dello Stato, soprattutto in direzione della difesa della produzione nazionale – Smith caldeggiò l’instaurazione
del più completo liberismo economico.
L’unico intervento legittimo da parte dello Stato consiste nel prelevare imposte dai guadagni privati degli
individui per garantire i servizi pubblici essenziali di beneficio a tutti. Smith ritiene che i meccanismi socio-
economici e le regole da lui illustrate in fatto di economia siano delle vere e proprie leggi, come quelle dei
fenomeni naturali.
La divisione del lavoro è la “causa principale del progresso nelle capacità produttive” dell’uomo. Essa,
fortunatamente, non è un’invenzione artificiale dell’uomo, ma si fonda sulla sua tendenza naturale a
barattare e scambiare ogni cosa, comprese le sue abilità personali. Se un individuo possiede o acuisce una
particolare abilità nel produrre un determinato manufatto, tende dunque naturalmente a scambiare
quest’ultimo – e di conseguenza l’abilità necessaria per fabbricarlo – con i manufatti prodotti da altri
individui. In questo modo ciascuno approfitta dell’abilità di tutti gli altri e, mentre produce e scambia la
propria opera pensando soltanto al proprio interesse, contribuisce di fatto al benessere generale. Emerge così
il presupposto ottimistico di Smith, per cui l’egoismo singolo si traduce nel vantaggio di tutti.
Karl Marx (Treviri, 1818 – Londra, 1883)
Marx nasce a Treviri, da famiglia di origine ebraica, malgrado ciò non fu educato alla fede in quanto il padre,
in seguito alle leggi razziali, preferì non aderire alla religione per poter esercitare la professione di avvocato.
Studiò a Bonn e poi a Berlino. Nel 1841 si laureò in filosofia. Dedicatosi alla carriera giornalistica, fu
redattore della "Gazzetta Renana" ma in seguito alla censura e in conseguenza delle sue idee rivoluzionarie si
vide costretto a trasferirsi a Parigi. Qui conobbe Engels, Proudhon, e Bakunin, ovvero anarchici e precursori
di quel più vasto e organico movimento politico che fu il socialismo (e quindi il Comunismo). Nel 1848,
assieme ad Engels (che diventerà il suo più stretto collaboratore), pubblica a Bruxelles il Manifesto del
Partito comunista. Espulso anche da Bruxelles si trasferì definitivamente a Londra, dove per mantenere la
famiglia si vide costretto ad accettare gli aiuti economici del compagno Engels. Nel 1864 fondò la Prima
Internazionale dei lavoratori, a conferma del suo attivo impegno politico in favore degli operai e delle classi
meno abbienti. Nel 1867 vide la stampa il primo libro del Capitale, la sua più celebre e monumentale opera,
pubblicata interamente in tre volumi (1885 il secondo, 1894 il terzo). Morì a Londra nel 1883.
Nel Manifesto del Partito comunista uscito a Londra all’inizio del ’48, Marx ed Engels si fecero assertori di
un nuovo socialismo – da loro definito “scientifico” in contrapposizione a quello “utopistico” dei Saint-
Simon e dei Fourier – che univa una fortissima carica rivoluzionaria a un solido fondamento economico e
filosofico. Il nucleo fondamentale del “socialismo scientifico” – nucleo che Marx avrebbe poi sviluppato
nella sua opera maggiore, Il Capitale – sta in una concezione materialistica e dialettica della storia, vista
essenzialmente come un susseguirsi di lotte di classe, di scontri fra interessi economici. I rapporti economici
costituiscono, per gli autori del Manifesto, la base portante, la struttura di ogni società. Le ideologie e le
istituzioni politiche, a cominciare dallo Stato, sono solo sovrastrutture che servono a organizzare e a
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legittimare il dominio di una classe sulle altre. Anche i regimi liberali e democratici sono l’espressione di un
dominio di classe, quello della borghesia giunta alla fase matura del suo sviluppo. Secondo Marx ed Engels,
la stessa borghesia ha svolto, nella fase della sua ascesa, una funzione rivoluzionaria. Infatti, dando via al
capitalismo industriale, ha accresciuto enormemente le capacità produttive dell’umanità ed ha abbattuto le
disuguaglianze giuridiche della società feudale. Ma, al tempo stesso, ha suscitato contraddizioni che non
riesce più a risolvere e ha prodotto il suo antagonista storico, il nuovo soggetto sociale che la soppianterà: il
proletariato. E’ infatti la logica stessa del sistema capitalistico-industriale che fa crescere continuamente il
numero dei proletari e, contemporaneamente, li riduce a una massa indifferenziata, dequalificata, e
fatalmente destinata a diventare sempre più misera e pronta alla rivolta. Ribellandosi al sistema capitalistico,
il proletariato non ha nulla da perdere “se non le proprie catene”: è dunque una classe naturalmente
rivoluzionaria, tanto più in quanto rappresenta (al contrario della borghesia) gli interessi dell’enorme
maggioranza della popolazione. Per far valere i suoi interessi, il proletariato deve organizzarsi non solo
all’interno dei singolo Stati, ma anche su scala sopranazionale, rifiutando la logica dei nazionalismi
(“Proletari di tutti i paesi, unitevi!” è il celebre appello con cui si conclude il Manifesto). Una volta
organizzata, la classe operaia profitterà dell’inevitabile crisi del capitalismo (che colpirà per primi i paesi più
industrializzati) e assumerà il potere. In una prima fase, questo potere assumerà le forme della dittatura,
necessaria per contrastare i prevedibili tentativi di reazione della borghesia e per assicurare il passaggio alla
vera società comunista: la società senza privilegi, senza classi e senza Stato, in cui verrà eliminata la
divisione del lavoro e dove le enormi potenzialità produttive saranno messe al servizio dell’intera collettività.
Tutte queste proposte e indicazioni non ebbero un seguito ampio e immediato in un movimento operaio
europeo che era ancora disorganizzato e frammentato. Le rivoluzioni del ‘48 – scoppiate in coincidenza con
l’uscita del Manifesto – se da un lato avrebbero portato in primo piano le istanze di una classe operaia
sempre meno disposta a subordinare i suoi obiettivi a quelli della borghesia, dall’altro avrebbero rivelato
quanto questa classe operaia fosse debole e isolata e quanto la stessa borghesia fosse ancora lontana dall’aver
compiutamente realizzato i suoi ideali politici.
Il fallimento dei moti di del ’48 e la lunga stasi delle lotte sociali che ne seguì, costrinsero Marx, in esilio a
Londra, a ripensare modi e tempi del processo rivoluzionario che riguardava il proletariato.
Marx, allora dedicò gran parte del suo tempo allo studio dell’economia politica e l’analisi economica
divenne sempre più la base fondamentale del suo “socialismo scientifico”. Il frutto più maturo di questa fase
del pensiero marxista fu Il Capitale, opera composta in tutto da tre volumi: il primo, pubblicato nel 1867,
contiene la teoria del valore, l’analisi dei rapporti di produzione nella fabbrica moderna e l’indagine sulle
origini storiche del sistema capitalistico; gli altri due volumi, invece, furono pubblicati da Engels nel 1885 e
nel 1894, dopo la morte dell’autore (1883).
La sua analisi ebbe come punto di partenza gli economisti classici e soprattutto Ricardo. Di
quest’ultimo egli accolse e sviluppò la teoria del valore-lavoro, giungendo all’affermazione che l’essenza
del sistema capitalistico è nello sfruttamento della forza lavoro. Il valore delle merci, egli sostiene, è dato
dalla quantità di lavoro socialmente necessario per produrle; il lavoro stesso è una merce e come tale viene
comprato e venduto sulla base del valore-lavoro che esso contiene (ossia dei costi relativi alla formazione e
al sostentamento dell’operaio). Ma la caratteristica della merce-lavoro è di produrre un valore superiore ai
propri costi di produzione, di rendere più di quanto non costi. La differenza fra il valore del lavoro e il valore
del prodotto – differenza di cui il capitalista si appropria – è detta da Marx plusvalore. L’imprenditore che,
assumendo salariati, acquista sul mercato il lavoro (la forza-lavoro secondo la terminologia di Marx) e vende
il prodotto di questo lavoro, realizza così un profitto. Da esso si forma il capitale, che si accumula e cresce su
se stesso mediante l’impiego di nuova forza-lavoro.
Contrariamente a Smith e Ricardo che consideravano il modo di produzione capitalistico come un dato
naturale e scontato, per Marx non era così, infatti il capitalismo rappresenta solo una fase ben definita nello
sviluppo storico dei rapporti di produzione, che è destinata a concludersi quando il sistema sarà distrutto
dalle sue stesse contraddizioni.
La pubblicazione del Capitale segnò una data fondamentale nella storia del movimento operaio e della
cultura occidentale. Per i lavoratori occupati nelle lotte sociali, ma non solo, Marx non era soltanto il teorico
del materialismo storico, ma anche colui che aveva analizzato profondamente i meccanismi dell’economia
capitalistica mettendone in luce le contraddizioni.
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Letteratura
Premessa: sviluppo e diffusione del romanzo nella prima metà del XIX secolo
Letteratura francese:
Premessa: caratteri generali del Naturalismo francese
Émile Zola:
Breve descrizione della vita e delle sue opere principali
Ciclo dei Rougon-Macquart
Presentazione generale di alcune opere del ciclo
Letteratura italiana:
Premessa: caratteri generali del Neorealismo italiano
Vasco Pratolini:
Breve descrizione della vita e delle sue opere principali
La trilogia: Una Storia Italiana
Presentazione ed analisi dettagliata di Metello
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Letteratura
Premessa
Nell’Ottocento il romanzo diviene il genere più diffuso e amato dai lettori. Il pubblico letterario è quasi
essenzialmente composto da lettori di opere narrative. Il romanzo soppianta la lirica, che ancora nel primo
Ottocento, nonostante la comparsa del nuovo genere, era considerata la forma letteraria più alta e prestigiosa.
Il romanzo, giudicato in precedenza inferiore per ragioni retoriche e moralistiche, viene ora considerato da
parte degli scrittori il genere per eccellenza della nuova età, lo strumento migliore per esprimere le nuove
esigenze artistiche e per rappresentare adeguatamente le dinamiche e i problemi attuali della società.
Le ragioni di questo trionfo del romanzo sono evidenti:
1) poiché è l’espressione più tipica della civiltà borghese, non può mancare la sua piena affermazione
nell’età in cui anche l’Italia si avvia a uno sviluppo moderno;
2) il romanzo, per argomenti, meccanismi compositivi, linguaggio, è il genere che meglio risponde alle
esigenze del pubblico dei lettori comuni, che si è venuto sempre più ampliando;
3) in un’età che tende al realismo, a dare un quadro globale della realtà, che ha fiducia nella possibilità
di interpretare il reale, il romanzo si offre come lo strumento espressivo più adatto: esso permette
infatti di rappresentare vaste porzioni di realtà sociale e di ordinarle in architetture rigorose mediante
la costruzione di complessi intrecci.
Il romanzo si sviluppa in forme differenti con il romanzo d’avventura alla fine del ‘700, con il romanzo
storico e realista nella prima metà dell’Ottocento, senza dimenticare la presenza di sottogeneri come il
romanzo d’appendice. E’ tuttavia il romanzo francese realista e soprattutto naturalista che arriva a sviluppare
tematiche relative alla realtà industriale.
Letteratura francese
Premessa Il naturalismo ha come basilare principio l’esigenza di un rapporto diretto dell’artista con la concreta realtà
del mondo di tutti i giorni. In campo letterario il primo teorico del naturalismo fu il francese Hyppolite Taine
(1828-1893) il quale elaborò il concetto secondo il quale la resa dei sentimenti umani in letteratura può
essere ottenuta con la stessa rigorosa imparzialità con cui le scienze descrivono e classificano i fenomeni
naturali. L’uomo viene ritenuto come strettamente determinato e dipendente dalle condizioni ambientali
(storiche, sociali) e dai fattori clinici che gli vengono trasmessi dall’ereditarietà genetica. Il compito dello
scrittore, soprattutto del narratore, è di cogliere tale rapporto di causa-effetto e di seguirlo attraverso la
concatenazione degli avvenimenti del suo racconto. È con Émile Zola che il naturalismo perviene ad una
maggiore originalità di concezioni e, attraverso l’esempio dei suoi romanzi, assume la consistenza di una
vera e propria scuola.
Émile Zola (Parigi, 1840 – 1902)
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Considerato il caposcuola del naturalismo, movimento che, come abbiamo già detto, si prefiggeva
l'osservazione imparziale e oggettiva della psicologia umana e dei rapporti sociali, soprattutto delle classi
subalterne, fino ad allora escluse dalla grande letteratura, fu coinvolto in numerose polemiche, artistiche e
non: prese le difese di Manet e degli impressionisti e si schierò con gli innocentisti nel caso Dreyfus,
scrivendo un pamphlet (Accuso !, 1898) che gli costò la condanna a un anno di prigione (vi sfuggì riparando
in Inghilterra). Dopo il primo successo, Teresa Raquin (1867), concepì il progetto di un ciclo di romanzi che
doveva prendere in esame tutti gli strati della società attraverso le vicende di personaggi appartenenti a un
unico ceppo familiare: nacquero così i Rougon-Macquart, 20 romanzi (1871-93), fra cui l'iniziale La fortuna
dei Rougon, Il ventre di Parigi (1873), La conquista di Plassans (1874), L'Assommoir (1877), Nanà (1880),
Germinal (1885), L'opera (1886), La bestia umana (1890) e il conclusivo Il dottor Pascal, spietati quadri di
vita sociale, culturale e politica. Frattanto, nel 1880 erano apparsi il saggio Il romanzo sperimentale, in cui
espose le sue convinzioni estetico-letterarie, e Le serate di Médan, una raccolta di novelle di Zola,
Maupassant, Huysmans e altri, che costituì una specie di manifesto della scuola naturalista. L'ultimo progetto
fu ancora un ciclo, I quattro vangeli, ma rimase incompiuto (Fecondità, 1899; Lavoro, 1901; Verità,
postumo, 1903) per la morte improvvisa dell'autore, causata dalle esalazioni di una stufa (ma il sospetto di un
attentato non venne mai del tutto dissipato). La sensibilità sociale e l'onestà intellettuale di Zola gli permisero
di superare i limiti del naturalismo e il facile culto del progresso. Mentre le correnti estetizzanti e decadenti
che ormai dominavano la letteratura sembravano non accorgersi neppure del problema sociale, Zola affrontò
il conflitto cruciale del suo tempo, la lotta tra classe proprietaria e proletariato, dandone una rappresentazione
potente, veritiera e impietosa.
Nella sua produzione letteraria, l’atteggiamento ideologico di Zola è decisamente progressista: da un lato
violentemente polemico verso la corruzione e l’avidità dei ceti dirigenti e verso l’ottusità interessata della
piccola borghesia, dall’altro pieno di interesse per i ceti subalterni, operai, artigiani, contadini, di cui sono
denunciate con vigore le condizioni subumane di vita. Tale atteggiamento anzi evolve da un generico
democraticismo iniziale a posizioni dichiaratamente socialiste, di un socialismo umanitario più che marxista.
Lo scrupolo dello “scienziato” impedisce però che Zola, sotto la spinta della sua simpatia ideologica, dia una
rappresentazione idealizzata e di maniera degli ambienti popolari: al contrario anzi lo induce a riprodurne
con implacabile crudezza anche gli aspetti più ripugnanti, come l’alcoolismo, la violenza, la degradazione
morale, l’esistenza ridotta a impulsi puramente animaleschi dalle condizioni miserabili in cui si svolge, dal
lavoro duro, dalla promiscuità, dalla fame.
Questo aspetto dei suoi romanzi fu quello che più colpì il pubblico contemporaneo, suscitando la reazione
violenta dei benpensanti e dei moralisti, ma assicurandogli anche, proprio attraverso lo scandalo, la fama e la
ricchezza.
I Rougon-Macquart (1871-1893)
L'opera è un ampio ciclo narrativo che intende raccontare la “storia naturale e sociale di una famiglia sotto il
Secondo Impero”. Le vicende di una intera dinastia sono analizzate come in una sorta di esperimento
scientifico per mettere in luce la nefasta influenza apportata dall'ambiente. Nel progetto di un ciclo di
romanzi, Zola trae ispirazione da Balzac con l'obiettivo dichiarato di indagare le storie dei componenti di un
medesimo nucleo, al quale applica le innovazioni derivate dalle contemporanee teorie scientifiche di Darwin
sulla selezione naturale delle specie e il determinismo, nonché i principi scientifici tratti dall'Introduzione
allo studio della medicina sperimentale di Claude Bernard.
Zola intende dimostrare le leggi dell'ereditarietà, il concetto di determinismo biologico, i condizionamenti
dell'ambiente che agiscono sui singoli ma anche sulla collettività, la cui corruzione è un prodotto della
struttura sociale. Il ciclo, attraverso le vicende dei Rougon, esplora, infatti, l'abbrutimento dovuto all'alcol e
alla miseria, la diffusione endemica della corruzione e dell'arrivismo, malattia che dal tessuto borghese
finisce per estendersi anche al proletariato. Lo scrittore in tal modo denuncia la realtà analizzandola con
lucida fedeltà, lontano sia dai toni filantropici o paternalistici di certa letteratura precedente sia da inutili
moralismi, convinto che il progresso potrà venire solo grazie ad un impegno intellettuale che sia garanzia di
verità e che sappia dare rilievo alla questione sociale.
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Il ventre di Parigi (1873)
Con Il ventre di Parigi del 1873 Zola realizza la tormentata rappresentazione corale della città vista
attraverso il suo fulcro di vita economica, le halles, ovvero il luogo del mercato e dello scambio, il simbolo
dell'arrivismo della borghesia avida e corrotta. La prima idea del romanzo, appartenente al ciclo dei Rougon,
risale al 1872. L'opera riflette con chiarezza la volontà dell'autore di esplorare la dimensione collettiva
dell'universo urbano attraverso il suo centro più rappresentativo. Le halles sono il ventre ingordo dell'urbe,
metafora delle logiche consumistiche che schiacciano la gente comune, teatro in cui si consuma il dramma
popolare. E' un romanzo, secondo il progetto dell'autore, moderno e vivo che dipinge, con i colori di una
scrittura rigorosa e determinata, l'agitazione delle strade, il movimento della gente, il peso dell'amaro e
continuo contrasto tra esagerata opulenza e diffusa miseria. Sullo sfondo della realtà cittadina si muovono
personaggi governati dalle logiche dell'interesse e dell'ambizione. Tra questi la figura di Florence, l'ex
deportato vagamente idealista, l'unico personaggio moralmente positivo, finisce anch'egli per fallire. Il
racconto corrisponde, dunque, sul piano collettivo, allo studio fisiologico della società parigina, già
sperimentato sul piano delle personalità individuali in Teresa Raquin.
L’Assommoir (1877)
Il romanzo, pubblicato nel 1877, è ambientato nella Parigi operaia, e narra una storia di alcoolismo, di
miseria e di degradazione umana.. Il titolo deriva dal nome dato in gergo alla bettola dove si beve acquavite.
Assommoir significa propriamente mattatoio: la bettola è così chiamata perché l’acquavite porta rapidamente
all’abbrutimento e alla morte gli operai che contraggono il vizio del bere.
Gervaise, venuta a Parigi giovanissima dalla provincia meridionale con l’amante Lantier, è da questi
abbandonata con due figli piccoli e vive stentatamente facendo la lavandaia. Conosce Coupeau, un operaio
lattoniere onesto e laborioso, e lo sposa. La famiglia prospera, sinchè Coupeau cade dal tetto dove lavora ad
una grondaia. Dopo l’incidente trascura il lavoro e si dà al bere; la famiglia sopravvive grazie al duro lavoro
di Gervaise, mentre Coupeau si degrada sempre più. La figlia Anna (la futura protagonista del romanzo
Nana) comincia a corrompersi nell’ambiente sordido dei sobborghi proletari. Anche Gervaise cade preda
dell’alcoolismo e muore in conseguenza di esso, dopo aver sperimentato la miseria più atroce e
l’abbrutimento totale.
Il romanzo, oltre che esempio di narrazione naturalistica, è però anche un esperimento stilistico, poiché Zola
vuol riprodurre il caratteristico gergo dell’ambiente proletario. Come afferma nella Prefazione; lo scrittore
intende “colare in uno stampo molto elaborato la lingua del popolo”.
Germinal (1885) Il protagonista del romanzo, Etienne Lantier, è il figlio di Gervaise Macquart la cui storia è raccontata nell'
Assommoir. Egli lavora in una miniera del nord; infiammato dalla dottrina di Marx, si batte per il
miglioramento delle condizioni di vita della classe operaia, cercando di guidare il movimento di protesta dei
minatori. Essi vivono in condizioni di orribile umiliazione, subiscono la fame; la loro rivolta, che presto
degenera in violenza, è sedata dall'esercito che arriva a sparare sui ribelli. Quando la lotta appare placata, la
miniera viene allagata da un anarchico con conseguenze drammatiche per i minatori intrappolati. Lantier
vede morire la donna di cui è innamorato, prima di venire salvato dopo lunghi stenti. Successivamente
tornato a Parigi, spera di poter meglio dare spazio alla sua volontà di azione rivoluzionaria con l'obiettivo di
far progredire la società verso più umane condizioni di equità sociale e giustizia.
Opera significativa di denuncia della degradante condizione dei minatori, Germinal è il frutto più incisivo
della conquistata maturità artistica dello scrittore e rappresenta anche l'ideale conclusione del ciclo dei
Rougon. In essa l'azione di protesta di Zola diviene amara constatazione delle leggi sanguinose del progresso
da cui il mondo dei minatori è come schiacciato nella sua assurda e miserevole estraneità. Tuttavia nel
racconto emerge la fiducia nel possibile trionfo finale dello spirito rivoluzionario, nella direzione di un
miglioramento complessivo della società. Non casualmente il titolo di questo romanzo, scandito dalla folla
popolare ai funerali dell'autore, per anni è stato il grido di battaglia di molte manifestazioni della classe
operaia francese.
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Letteratura italiana
Premessa Una letteratura che affrontasse temi sociali, le condizioni di miseria o di sofferenza dei ceti popolari; una
letteratura nella quale il protagonista non fosse più l’intellettuale, ma un contadino o un operaio, non si era
più avuta in Italia dopo la grande esperienza verghiana. Sarebbe troppo lungo indagarne le ragioni. Quello
che è certo è che soltanto negli anni immediatamente precedenti e immediatamente successivi alla guerra,
sulla spinta di ragioni morali (e politiche) è venuta determinandosi una ricerca tematica che in forme tra loro
ben diverse poneva in qualche modo le premesse di una letteratura sociale. I nomi di Vittorini (Il garofano
rosso e specialmente Conversazione in Sicilia), di Ternari (Tre operai), di Carlo Levi (Cristo si è fermato a
Eboli) possono costituire un’indicazione. In questo ambito si colloca l’opera di Pratolini, la più organica su
temi sociali che si sia avuta in Italia, e, in particolare, Metello.
Vasco Pratolini (Firenze, 1913 – Roma, 1991)
Nasce il 19 ottobre 1913 a Firenze, nel popolare rione di Santa Croce, che sarà più tardi l’ambiente di quasi
tutti i suoi racconti. Di famiglia modesta e allevato dai nonni per la prematura morte della madre, è
praticamente autodidatta. Nel 1930, per insanabili contrasti con la matrigna, abbandona la casa paterna,
esercitando vari mestieri e iniziando la collaborazione al Bargello, settimanale della Federazione Provinciale
Fascista Fiorentina (vi collaboravano anche Elio Vittorini e Romano Bilenchi). Nel 1938 avviene la sua
rottura col fascismo, segnata dalla fondazione del quindicinale Campo di Marte. Da allora prosegue sempre
più intensa l’attività letteraria, con l’adesione al neorealismo nel dopoguerra, fino al progetto ambizioso del
ciclo Una storia italiana, che si articola su tre romanzi (Metello, Lo scialo, Allegoria e derisione). Alla crisi
del neorealismo va forse ascritto il lungo silenzio dello scrittore nei suoi ultimi venti anni.
Di poche scrittori italiani si può dire, come di Pratolini, che siano nati per narrare, e soprattutto narrare col
romanzo. È nel romanzo che Pratolini esprime il gusto dell’ampio, della strutturazione, dell’intreccio, della
coralità dei personaggi: un gusto che è venuto definendosi in lui attraverso un continuo arricchimento di
interessi e interrogativi, e che specialmente nelle ultime opere (Lo scialo, La costanza della ragione,
Allegoria e derisione) lo ha portato a una pluralità di stili e tempi, a una frantumazione, in cui è da
riconoscere il segno della sua modernità. I suoi inizi furono dichiaratamente autobiografici, fra l’idillio e al
memoria.
Nel giro di pochi anni Pratolini fa suo il romanzo, il mezzo espressivo a lui più congeniale e non meraviglia
che dopo gli anni cinquanta, sondate la propria vicenda personale, le passioni private e civili contemporanee,
egli abbia sentito il bisogno di allargare lo spazio storico dei propri temi, per approfondirli e verificarli, e
abbia concepito il vasto disegno di una trilogia rappresentativa del processo di sviluppo della nostra società
negli ultimi ottant’anni. Appunto, Una storia italiana.
I personaggi dei suoi romanzi sono sempre, o quasi, di estrazione popolare, se pure di quel particolare
“popolo” incivilito e nutrito di storia qual è il fiorentino.
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La trilogia: Una storia italiana La trilogia occupa il posto centrale nella produzione pratoliniana e risponde a quella vocazione al romanzo
storico, alla narrazione d’ampio raggio, che è la qualità precipua del Pratolini della maturità. Partendo dalla
fine del secolo (Metello), passando agli anni più opachi e foschi del fascismo (Lo scialo) e pervenendo a
giorni più recenti (Allegoria e derisione), il ciclo è un largo affresco di vita civile, la cui ambizione
maggiore, che non sempre la critica ha saputo scorgere, sembra quella di cogliere il rapporto tra male privato
e male pubblico, di testimoniare, specie ne Lo scialo e in Allegoria e derisione, che quando una società è in
crisi entra in crisi anche l’individuo.
Un’unitaria concezione storica abbraccia e uniforma l’intera sequenza narrativa, anche se ogni libro fa parte
per se stesso, perfettamente delimitato nella sua area temporale e tematica. “Ciascun romanzo risulterà in sé
concluso, autonomo e senza rapporto, se non di circostanze marginali, con gli altri. Il filo che unisce la
trilogia è dato dal tempo…”, scriveva lo stesso Pratolini, presentando Metello.
“Metello”
La trama Scritto nel 1952, ma pubblicato nel 1955, Metello copre l’arco di tempo che va dal 1875 al 1902:
dall’adolescenza alla maturità di Metello Salani. Il romanzo ha inizio dal momento in cui Metello
quindicenne lascia la famiglia di contadini che lo ha allevato a Rendine nel Mugello e si avventura in città. A
Firenze, aiutato da un vecchio anarchico, già amico di suo padre, si procura da vivere prima come scaricatore
al Mercato, poi come apprendista muratore nell’impresa Badolati. Immesso nel clima anarchico-socialista
diffuso nella società operaia della fine del secolo soprattutto in Emilia e in Toscana, si delinea già la sua
formazione e di pari passo si realizza in lui la maturazione fisica. Di sensi svegli e vitali, dopo le prime
fugaci esperienze adolescenziali passa a un’esperienza più profonda e significativa con una donna più
anziana, più colta e benestante di lui: Viola, che gli si rivelerà poi di facili rapporti, ma tuttavia riscattata
nella sua disinvoltura amorosa dal fatto di aver voluto un figlio, forse dallo stesso Metello. E su quelle
private si innestano le vicende sociali. Il maggio del ’98 accende vie e piazze d’Italia. Il carcere in cui è
rinchiuso con altri manifestanti, serve oltre tutto a rivelare a Metello l’amore che nutre per lui Ersilia, figlia
di un compagno morto in un incidente di lavoro. Esce di carcere e la sposa. L’“educazione” del giovane
sembra compiuta. Nel legame con Ersilia, ragazza serena e forte, nel lavoro, la vita di Metello si normalizza
e procederebbe nel suo corso se i conflitti di lavoro non prendessero di nuovo il sopravvento. Ancora una
volta, per rivendicazioni salariali, gli edili scendono in sciopero, sciopero che non è come i precedenti di
facile o rapida soluzione. La battaglia sindacale si è ampliata e inasprita, sono comparsi i partiti destinati a
determinare la futura società italiana. Lo sciopero dell’estate 1902, vero e proprio conflitto tra i lavoratori
organizzati in sindacati dal Partito Socialista e il padronato organizzato in confederazioni, è lungo, duro,
penoso. La miseria e la stanchezza minano l’unità sindacale. È sempre presente il pericolo del crumiraggio,
del cedimento. In questo periodo snervante Metello ha ancora un’avventura erotica con l’Idina, un’amica
della moglie: segno della tensione, del disorientamento che il lungo sciopero provoca nella sua coscienza.
L’agitazione intanto raggiunge il culmine e Metello fa in tempo a tornare fra i compagni nel momento in cui
la polizia spalleggia l’impresa contro gli operai. L’intervento dell’ingegnere Badolati evita spargimento di
sangue, anche se in un tafferuglio alcuni operai vengono colpiti. Lo sciopero si conclude con la vittoria della
categoria. Tutto sembra finito. Ma una sera Metello ed altri, distintisi nell’agitazione, sono arrestati. Saranno
mesi di carcere, trascorsi i quali, temprato dagli eventi, acquista finalmente piena coscienza di sé, egli
riprenderà a fianco di Ersilia la sua vita di lotta e di lavoro.
Significato dell’opera Nella narrativa italiana è il primo esempio di romanzo rigorosamente ideologico, che abbia per protagonisti
un operaio e la lotta sociale. Non è un caso che, al suo apparire, trovasse disorientata la critica, che, pur
avanzando riserve (talune non esenti da motivazioni d’ordine politico), non poté tuttavia disconoscere
l’originalità di un libro che conserva ancora tutta la sua forza di rappresentazione.
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Nei momenti di conflitto lo scrittore intendeva dimostrare come i “buoni sentimenti” privati non abbiano
peso nelle controversie collettive: e infatti, una volta preso nella spirale dei suoi interessi di classe, Badolati
non esita a opporsi anche lui all’agitazione operaia e a tentare di corrompere lo stesso Metello.
Notevoli restano nel libro le pagine intime e d’amore, non staccate dal contesto della vita civile ma anzi tali
da completarla, in quell’unità di vicende private e di vicende pubbliche che, come si è detto, sono alla base
dell’ispirazione pratoliniana. Metello costituisce dunque per la verità dei suoi personaggi, per la tensione
storica, per le passioni che lo animano, un momento compiuto e di lunga durata tanto nella storia di Pratolini,
quanto nella moderna letteratura italiana.
Metello è un romanzo che guarda ai modelli del realismo e del naturalismo ottocenteschi, nella tematica
come nell’impostazione narrativa, e si rifà ad un’ideologia di sinistra programmaticamente ottimistica,
fiduciosa nel progresso del proletariato. È un tipico prodotto della stagione neorealistica, che ormai volgeva
al tramonto e al suo apparire suscitò un vasto dibattito. Metello è un romanzo che oggi rivela tutti i suoi
limiti, ma è storicamente importante, poiché riassume esemplarmente in sé la poetica del Neorealismo e
l’ideologia del populismo, che era dominante in quel periodo. Il suo impianto mira a costruire un quadro
storico attraverso figure e vicende “tipiche”, cioè i personaggi vogliono essere compiutamente delineati nella
loro fisionomia individuale, ma, attraverso il radicamento in un preciso terreno storico, puntano a divenire
rappresentanti di tutta una classe, a fornire il quadro esauriente di una società. Sono evidenti i modelli
ottocenteschi, naturalistici: la tematica dello sciopero rimanda scopertamente allo Zola di Germinal.
Dal punto di vista formale il romanzo ignora le inquietudini sperimentali di tanta narrativa novecentesca, e
riproduce moduli di narrazione molto tradizionali: il racconto in terza persona, con un affabile narratore
eterodiegetico ed onnisciente che guarda i fatti all’esterno, e talora interviene nel narrato con riflessioni,
giudizi, spiegazioni, anticipazioni del futuro, analisi degli stati d’animo dei personaggi.
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Inglese
Premessa (in italiano): caratteristiche generali della narrativa inglese nel XIX sec.
Charles Dickens:
A short description of his life and works
Oliver Twist: a short introduction of the story
Hard Times: a short introduction of the story
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Inglese
Premessa La narrativa inglese, pur attenta alla realtà sociale, è molto lontana dal Naturalismo di tipo zoliano. Le sue
caratteristiche generali sono da un lato la rappresentazione della realtà quotidiana, comune ed il rifiuto
dell’eroico (una tendenza tradizionale nella letteratura inglese); dall’altra il fine umorismo, che sa
tratteggiare una galleria saporosa di ritratti, di personaggi caratteristici, colti spesso nei loro aspetti
caricaturali e grotteschi, e si esprime in forme bonariamente conversevoli.
Charles Dickens was born at Portsmouth in 1812. When he was ten the familiy moved to London and there
he was given regular schooling until, in 1824, his father was sent to prison for debt. At the age of twelve
Charles was forced to go to work in a factory, where he stuck labels on bottles of shoe-polish. The
experience was traumatic. Prison, the poor quarters of London, life in the city streets and the other boys
working in the factory remained in his mind and profoundly influenced his life.
At the age of fourteen, he went to work as a clerk in a legal office. There he soon developed a permanent
hatred of and contempt for lawyers and the law as an institution – another major theme in his novels.
In The Posthumous Papers of the Pickwick Club (generally called The Pickwick Papers), his first novel
dealing with the adventures of a group of eccentric people travelling on the English roads, the comic and
picaresque elements are mixed.
Dickens was deeply conscious of social injustice, political incompetence, the poverty and suffering of the
great mass of people, and of the class conflicts of Victorian England; the result was an increasingly critical
attitude towards contemporary society. An example is Oliver Twist, which recounts the sufferings of an
orphan brought upon in a workhouse, who then runs away to London and joins a gang of thieves made up of
children. In Martin Chuzzlewit he attacks cruelty in boarding schools, while in Hard Times he deals with the
faults in the factory system and the harm done by the Utilitarian philosophy.
Dickens’s novels present a variety of settings: the countryside, provincial towns and industrial settlements.
However, Dickens’ most typical – or most successful – sceneries are those of London.
London life was essential to Dickens’ imagination, acting as a stimulus.
Dickens’ characters portray a vivid picture of Victorian England. They are mainly from the lower and middle
class, and their physical features, ways of dressing, moving and speaking are captured by Dickens. Upper-
class and aristocratic characters are much less well-portrayed and tend to fall into stereotypes.
As for the plots of his novels, they are all complex. They involve many characters, many parallel stories -
plot and sub-plots -, intrigue, often mystery, and incredible coincidences.
The reasons for his success are mainly the following:
The creation of vivid unforgettable characters;
A masterly use of language in the comic style;
The invention of dramatic, melodramatic and picaresque plots;
A subtle use of themes linked to social issues.
OLIVER TWIST (1837-38)
This is perhaps Dickens’ most internationally famous novel. The reasons for its popularity are apparent:
Dickens combines the sentimental, melodramatic story of an orphan child exploited by a gang of thieves –
typical of romances about crime written by the “Newgate School” of novelists, named after London’s prison
– with keen social satire and realism to tackle important social issues.
It also refers to the system of the workhouses as totally inadequate to solve the problem of the poor and of
abandoned children, only increasing their sufferings instead.
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HARD TIMES (1854)
This novel is set in Coketown, an industrial city (the fictitious name means “town of coke”, coke being a
kind of coal used in industry). It explores the related themes of the inhumanity of the factory system and of
the Utilitarianism which judged anything according to its practical value. The book is relatively short and
tightly constructed around its twin themes.
25
BIBLIOGRAFIA
Storia:
S. GUARRACINO, P. ORTOLEVA, M. REVELLI, Storia dell’età moderna, Ed.
Scolastiche Bruno Mondatori 1993
Filosofia:
AA.VV., L’UNIVERSALE La Grande Enciclopedia Tematica FILOSOFIA voll. I e II,
Garzanti Libri S.p.A., Milano 2005
Letteratura:
G. BALDI, S. GIUSSO, M. RAZETTI, G. ZACCARIA, dal testo alla storia dalla storia al
testo (voll. E, H), Paravia Bruno Mondatori Editori 2000
Per la parte di Zola è stato consultato anche il seguente sito Internet:
http://cultureeuropee.irrepiemonte.it/citta/a_zola.htm
V. PRATOLINI, Metello, Arnoldo Mondatori Editore 1974
Inglese:
A. CATTANEO, D. DE FLAVIIS, W. FARRAR, A World of Words, Carlo Signorelli
Editore, Milano 1995