Download - TRE ERRE (3R) - Quaderno Informativo N°0
03
Pag. 04 Percorso di Conoscenza e di Auto-Coscienza
Pag. 14 TRE ERRE (3R)Campagna di comunicazione sociale
Pag. 16 INSEGNAREUn sogno da realizzare
Pag. 20 Il Teatro oggi tra pedagogiae Intercultura
Pag. 22 Storia e memoria del Porrajmos per il tempo presente
Pag. 35 Un’idea Rom per uscire dalla logica dei campi nomadi
Pag. 05 Perchè Fondazione Romanì Italia
Pag. 10 Azione di sistema TRE ERRE (3R)
Pag. 31 Il disastro della “pedagogia zingara”
Pag. 38 Mi chiamo Blanka
Pag. 39 Per 30 anni non ho mai lavorato
Pag. 44 Le capriole
Pag. 46 La popolazione romanì
Pag. 41 U Chavurò, bambino emotivamente intelligente
progetto editoriale a cura di:Fondazione romanì Italia
Via Zoe Fontana, 22000131 Roma
Tel 06.41531263Fax 06.4131671
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INDICE
04
PERCORSO DI CONOSCENZAE DI AUTO-COSCIENZA
di On. Letizia La Torre
Con la campagna TRE ERRE e con la pub-
blicazione trimestrale di questo “quader-
no” informativo da parte della Fondazione
Romanì Italia si mette in moto un importan-
te percorso comunicativo e di sensibilizza-
zione, volto a far conoscere all’esterno delle
comunità rom la cultura, i valori, la storia di
un popolo troppo spesso oggetto di discrimi-
nazione.
Ma soprattutto la campagna intende rivol-
gersi all’interno delle comunità rom ed in
particolare ai bambini e ai giovani che sono
i primi a soffrirne le conseguenze e a vivere
una profonda crisi di identità, ignorando trop-
po spesso le proprie radici, la propria storia e
le proprie tradizioni che non trovano posto nei
programmi scolastici e sono misconosciute
dalla società.
Come recita la campagna: “occorre ritrova-re la ‘giusta direzione’ che per i ragazzi e le ragazze rom deve fondarsi su una riscoperta dei valori della propria cultura romanì. Solo così si potrà ricostruire un sentire interiore da cui può scaturire un nuovo rispetto di sè, il rispetto degli altri e la responsabilità delle proprie azioni”.
In questo senso, l’azione avviata ha una forte
valenza culturale ma anche sociale, perché
ben si innesta in un mondo globalizzato e
contemporaneamente tutto composto di mi-
noranze, nella accresciuta e generalizzata
mobilità dei popoli.
E sono proprio i bambini e i giovani di oggi
a cui dobbiamo fornire gli strumenti neces-
sari per “riconoscersi” in una comunità, in
una storia, in una cultura affinchè siano in
grado domani di vivere consapevolmente la
loro identità di uomini e donne consci della
propria identità e appartenenza, al di là del-
le etnie, ma in grado di “abitare” qualunque
luogo della terra.
In questo senso, la scuola ha una grande re-
sponsabilità nella formazione e nell’inclusio-
ne, accoglienza e conoscenza di minoranze
ed etnie composite. Alla scuola sono richieste
oggi coraggio, visione strategica e apertura
ai cambiamenti.
Per questo ritengo che la campagna TRE
ERRE sia molto importante in questo percorso
di conoscenza e auto-coscienza, in particolar
modo per i ragazzi e i giovani rom e possa
davvero contribuire a rendere non solo le no-
stre scuole e i nostri ragazzi, ma tutti noi più
preparati al conoscerci e all’incontrarci in un
dialogo tra i valori proposti da persone diver-
se, prima ancora che da diverse culture.
L’interculturalità si rafforza, infatti, sui motivi
dell’unità, della diversità e della loro conci-
liazione dialettica e costruttiva nella società
multiculturale, attraverso l’educazione alla re-
ciprocità e all’integrazione, in grado di forma-
re i nostri ragazzi, tutti, ad essere cittadini di
domani, costruttori della propria realtà locale
ma capaci di agire da cittadini del mondo.
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PERCHÈFONDAZIONEROMANÌITALIA?
La scelta di costituire Fondazione Romanì
Italia nasce dalla necessità di utilizzare
il miglior strumento gestionale per creare
sinergie e dare “risposte ragionate” ad esi-
genze che hanno radici profonde e che sinte-
ticamente possiamo definire come un diverso
processo cognitivo della romanipè per “ela-
borare una nuova romanipè”, basata sulla
consapevolezza:
1. di vivere all’interno di una cultura che
evolve senza sosta e che non è statica e im-
mutabile;
2. che la società moderna esige l’introie-
zione di strumenti decodificatori con i quali è
possibile interloquire con essa;
3. che il patrimonio umano e culturale della
persona sono parte integranti della società e
contribuiscono alla crescita sociale e cultu-
rale;
4. che occorre pensare in termini di inter-
culturalità per avviare processi di evoluzione
culturale dinamici, inclusivi e valorizzanti per
le culture;
5. che le dimensioni dell’incontro con le
culture diverse non possono prescindere
dell’utilizzazione consapevole di competenze
cognitive;
6. di costruire un progetto culturale ed una
diversa comunicazione sociale per avviare un
dibattito pubblico.
Di fronte alla facile e diffusa tendenza ad
elencare e denunciare i problemi, la Fonda-
zione romanì Italia si propone come strumen-
to positivo per pensare e costruire soluzioni,
non improvvisate, bensì azioni di sistema di
un progetto ampio, coerente ed inserito
in un contesto dotato di senso. Soluzioni
che rispondano ai bisogni complessivi delle
comunità, che non siano staccate e lontane
dalla società.
La Fondazione romani Italia, nella sia ac-
cezione di fondazione di partecipazione, è
aperta al contributo ed alle idee delle tante
persone/associazioni disponibili e sensibi-
li alla tematica delle minoranze etniche e
dell’immigrazione, dei diritti, della cultura,
dell’interculturalità, della crescita sociale e
culturale delle giovani generazioni.
Uno sguardo alla realtà della popolazione ro-
manì pone subito in primo piano un peggio-
ramento sempre maggiore delle condizioni di
vita delle comunità rom e sinte.
In linea generale per la popolazione romanì
si continua:
• a pensare in termini di politiche differen-
ziate, di assistenzialismo culturale e di folclo-
rismo, ignorando tutti i fallimenti del passato;
• a teorizzare l’interculturalità e l’interazio-
ne culturale e si mette in pratica il multicultu-
ralismo e la segregazione culturale;
• a giustificare il “fatalismo persecutorio”
e lo “sviluppo di una mentalità assistenziale”
da parte della popolazione romanì, si tende a
generalizzare e denunciare il disagio, l’esclu-
sione e la discriminazione senza individuare
soluzioni integrati in un contesto dotato di
senso;
• ad ignorare il patrimionio umano e cultu-
rale di gran parte della popolazione romanì,
che NON vive in soluzioni abitative segregan-
te, e costretta all’assimilazione culturale per
l’assenza di una casa comune, l’elaborazione
di un progetto culturale;
• ad utilizzare le opportunità di partecipa-
zione attiva per per esaltare o accreditare la
visibilità personale e l’autorefenzialità, che
alcune volte è “l’eccezione che conferma la
regola” degli stereotipi, troppe volte è la con-
ferma degli stereotipi.
Sembra evidente che non esista la volontà, e
spesso le competenze, per vedere le cause
reali che portano a peggiorare la condizione
della popolazione romanì, ed il “SISTEMA”,
composto da metodi-strategie-interventi, fi-
nora utilizzato non ha prodotto benefici utili
alla popolazione romanì.
Un “sistema” che sta conducendo la mino-
ranza romanì verso la delegittimazione dei
diritti, della partecipazione attiva e della di-
versità culturale romanì.
Un “sistema” che legittima l’apartheid della
popolazione romanì con proposte e soluzioni
prive di senso per le politiche sociali e cul-
turali pubbliche del terzo millennio, perchè
troppo spesso non sono inserire in un conte-
sto dotato di senso.
Un “sistema” che appiattisce la comunica-
zione sociale su stereotipi, pregiudizi e fol-
clorismo.
Con la promessa di diffondere la conoscenza
della cultura romanì si attivano progettazio-
ni che irrimediabilmente conducono verso la
conferma di stereotipi e pregiudizi negativi,
del folclorismo che producono discriminazio-
ne.
Numerosi sono gli esempi di progettazione,
anche istituzionali, che confermano gli ste-
reotipi e pregiudizi negativi della popolazione
romanì.
Non abbiamo alcun dubbio sulla buona fede
dei promotori di queste progettazioni, ma la
loro continuità pone molti dubbi.
Per poter svolgere un ruolo attivo e propositi-
vo e realizzare azioni di sistema occorre di-
sporre di autonomia, non solo da ideologie
e da lobbies, ma anche finanziaria.
L’istituto giuridico della fondazione, per sua
natura, risponde a questa necessità.
Intervenire con soluzioni adeguate basandosi
esclusivamente sui contributi dell’ente pub-
blico, fa allontanare la soluzione delle proble-
matiche.
La Fondazione, nella accezione di partecipa-
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PERCHÈ FONDAZIONE ROMANÌ ITALIA?
07
zione, risulta essere lo strumento giuridico
più adeguato per autofinanziarsi e creare
azioni di sistema.
La scelta di una fondazione di partecipazione
come aiuto agli altri per aiutare se stessi non
è solo un valore, ma un indicatore di cambia-
mento possibile.
Le Istituzioni europee sollecitano ad elabo-
rare politiche integrate, specifiche e non
esclusive, ed a migliorare la comunicazione
sociale, ma il cambiamento di metodo e delle
scelte sbagliate del passato fanno paura a
troppi opportunisti, esperti in false interpre-
tazioni e illusorie promesse.
Teoricamente a tutti i livelli è riconosciuto
che la partecipazione attiva dei rom è la stra-
tegia, efficace ed efficiente, per migliorare il
processo di percezione delle informazioni e
per mettere in discussione il modello degli
interventi di sviluppo che hanno condizionato
la nostra esistenza individuale e di minoranza
etnico lunguistica.
Praticamente i bisogni della popolazione ro-
manì sono ridotti a pura assistenza sociale.
Il tema della cultura è spostato verso una ba-
nale sopravvivenza e l’evoluzione della cul-
tura romanì è ancora un tabù, ostaggio del
folclorismo e dell’autorefenzialità, mentre la
partecipazione attiva dei rom è considerato
“un mezzo” per obiettivi occasionali, autore-
ferenziali e personali.
Si è innescato un meccanismo perverso
e confuso di ruoli che si confondono e si
sovrappongono, di strategie tecnicamen-
te mirate che NON permettono di mettere
in discussione il modello degli interventi di
sviluppo, che hanno peggiorato la comuni-
cazione sociale ed impedito di interiorizzare
corrette informazioni di base.
La mente umana ha bisogno di schemi e di
aspettative dove contenere le informazioni, e
per suddividere ed organizzare le informazio-
ni percepite utilizza gli stereotipi.
Le infinite informazioni che arrivano dalla
realtà esterna alla mente umana vengono
filtrati:
1. PASSANO alcune informazioni, altre sono ESCLUSE dalle fasi successive (sele-zione). Come vengono “trattati” le informa-
zioni distorte del mondo rom e della cultura
romanì? Come vengono selezionate tali infor-
mazioni in funzione della possibilità di inse-
rirli in un contesto dotato di senso?
2. Dopo la selezione le informazioni
prendono una struttura ed acquiscono
stabilità, vengono divisi ed organizzati in
categoria (categorizzazione). La “catego-
rizzazione sociale” si base su stereotipi, che
vengono conservati nella memoria come as-
sociazione tra la denominazione del gruppo
e le caratteristiche ad esso attribuite. Quale
categorizzazione sociale della popolazione
romanì si è strutturata dalle politiche diffen-
ziate, dall’assistenzialismo culturale, dal fol-
clorismo, senza possibilità di inserirle in un
contesto dotato di senso;
3. La fase finale del processo di perce-
zione è l’interpretazione, in cui viene as-
segnato un significato allo stimolo cate-
gorizzato. Quante false interpretazioni del
mondo rom e della cultura romanì si sono
strutturate nel passato dal processo di per-
cezione delle informazioni?
Gli stereotipi sono rappresentazioni cognitive
che hanno origine nella fase di categorizza-
zione delle informazioni.
“Gli stereotipi fanno parte del funzionamen-
to della mente umana e sono uno strumento
di economizzazione delle risorse cognitive,
finché non sconfinano verso la formazione di
dicotomie esasperate, esercitando forzature
gratuite sui fatti.”
Gli stereotipi costituiscono il nucleo co-
gnitivo del pregiudizio.
Le informazioni che smentiscono lo stereo-
tipo sono rilevate quando sono inserite in un
contesto dotato di senso, perchè la memoria
é un processo ricostruttivo interpretativo, in
cui la persona recupera o perde le informa-
zioni in funzione della possibilità di inserirli in
un quadro interpretativo dotato di senso.
Perchè Fondazione romanì Italia?
• Perchè il “sistema” utilizzato finora per
migliorare le condizioni di vita della popola-
zione romani e per l’evoluzione della cultura
romanì, non ha funzionato e non funziona; è
necessario individuare lo strumento gestio-
nale migliore per avviare il cambiamento
dell’attuale “sistema”;
• Perchè l’esclusione e la discrimina-
zione della popolazione romanì derivano
in gran parte dalla stigmatizzazione pro-
dotta dagli stereotipi che si sono strutturati
nella fase di categorizzazione delle informa-
zioni, durante il “processo di percezione”;
• Perchè NON è sufficiente unire un gruppo
di persone e/o di associazioni, più o meno
numeroso, ma condividere l’elaborazione di
una nuova romanipè per evitare una profon-
da crisi della cultura romanì, abbandonando
il modello di “resistenza etnica” di chiusura
verso l’altro, attivata dalla popolazione roma-
nì con l’intento di tutelare la propria cultura,
condizione che sta conducendo verso l’isola-
mento culturale;
08
• Perchè occorre fare un salto di qualità per
uscire dalla logica etnocentrica, pensare in
termini di interculturalità e coniugare “ugua-
glianza e differenza”;
• Perchè è necessario un diverso proces-
so cognitivo della romanipè per elaborare
una nuova romanipè.
Elaborare una nuova romanipè vuoldi-
re spingersi verso un futuro, senza negare
quando di valido c’è nella tradizione, che raf-
forzi una maggiore consapevolezza culturale
per un reciproco riesame critico, e che sappia
superare il rischio di falsi modelli che pos-
sono orientare verso una distorta coscienza
dell’essere rom.
Una nuova romanipè per rimuovere le con-
vinzioni che hanno manipolato la realtà e la
cultura romanì nel processo di percezione
delle informazioni, per riformulare l’orienta-
mento verso il futuro, per una diversa comu-
nicazione sociale, per “una riforma morale,
intellettuale e politica” della causa romanì,
per passare dal multiculturalismo all’inter-
culturalità.
La Fondazione romanì Italia è lo strumento
gestionale e progettuale per un diverso pro-
cesso cognitivo della romanipè per elaborare
una nuova romanipè, per costruire soluzioni
e motivare progetti, per assumere posizioni
proprie con l’autorevolezza che gli deriverà
dalla qualità del lavoro di cui sarà capace, per
intraprendere iniziative che non si limitino
all’elaborazione di teorie astratte, ma si di-
mostrino capaci di costruire progetti concreti,
utili ed innovatori.
09
La Fondazione romanì Italia vuole essere un
avamposto che faccia vedere concretamente
un differente modo di porsi nelle relazioni tra
gli uomini, nei rapporti tra le istituzioni, nel-
la scala delle priorità per gli individui e per i
corpi sociali.
La Fondazione romanì Italia è una organiz-
zazione nazionale con dislocazioni territoriali,
per un maggiore radicamento nei territori e
per attivare azioni di filantropia comunitaria,
una delle strategie per l’autonomia della fon-
dazione.
“La mente è come un paracadute. Funzio-na solo se si apre” (A. Einstein)
PERCHÈ FONDAZIONE ROMANÌ ITALIA?
10
Azione di sistemaTRE ERRE (3R)
Rispetto per te stessoRispetto per gli altri
Responsabilità per le tue azioni
La Fondazione romanì Italia si propone lo
scopo di “contribuire alla crescita sociale
e culturale delle giovani generazioni apparte-
nenti alle comunità romanès (rom, sinte, kale,
manousches, romanichels), favorire il benes-
sere sociale e culturale del fanciullo e del gio-
vane, superare il disagio giovanile, promuove-
re l’interculturalità e la cultura romanì.”
TRE ERRE (3R) - Rispetto per te stesso, Ri-
spetto per gli altri, Responsabilità per le tue
azioni - è un’azione di sistema della Fondazio-
ne romanì Italia, un network di comunicazione
sociale, di processi di acculturazione e di co-
munity welfare per ricercare ed evidenziare le
cause di “equivoci ed incomprensioni” verso il
fanciullo rom (e non solo) che hanno ostacola-
to “conquiste è scoperte”.
L’azione di sistema TRE ERRE (3R) è un pro-
getto culturale strutturato nello sviluppo di tre
azioni progettuali finalizzati all’elaborazione di
una nuova romanipè:
1. TRE ERRE (3R) Campagna di comunica-
zione sociale;
2. TRE ERRE (3R) Adozioni in vicinanza;
3. TRE ERRE (3R) Fuochi attivi
Le strategie per la realizzazione dell’azione
di sistema TRE ERRE (3R) sono l’etica come
norma e la partecipazione attiva e professio-
nale dei rom specifica e non esclusiva.
In brevissima sintesi le tre azioni progettuali
dell’azione di sistema TRE ERRE (3R):
1. TRE ERRE (3R) Campagna di comunica-
zione sociale per dare una risposta cognitiva
alla rappresentazione sociale negativa che si
abbatte sui bambini ed i giovani rom: i pregiu-
dizi, l’integrazione culturale ed i diritti del fan-
ciullo. Per rimuovere le convinzioni che hanno
manipolato la realtà romanì e promuovere
l’interculturalità. “L’etica della comunicazione”
come filosofia del linguaggio per disancorarsi
dalle rappresentazioni sociali negative.
2. TRE ERRE (3R) Adozioni in vicinanza:
processi di integrazione culturale individua-
lizzati attraverso l’adozione in vicinanza. Il
malessere educativo del bambino rom si ma-
nifesta con il suo inserimento a scuola, quando
vengono a mancare la conoscenza reciproca,
ovvero la corrispondenza tra i due modelli di
educazione: quello della scuola e quello della
famiglia. Di conseguenza il problema diventa
allora capire che cosa si rompe in quel mo-
mento nel rapporto tra emozione-conoscenza-
11
interazione e soprattutto quali tipi di risposte
dare.
3. TRE ERRE (3R) Fuochi attivi: La Fonda-
zione romanì Italia intende accendere piccoli
fuochi. Piccolo fuochi, non incendi. Piccoli fuo-
chi per fare luce, essere visibili ed avviare un
grande movimento. Attraverso borse lavoro la
fondazione romanì Italia intende avviare la for-
mazione di attivisti romanì in ambito sociale e
culturale, professionisti qualificati per avviare
processi di acculturazione e di comunity wel-
fare.
Le relazioni umani sono cose complicate, lo
sono perchè siamo complicati, lo siamo tutti
anche se pensiamo che siano gli altri ad es-
serlo. Manca spesso la trasparenza nei rap-
porti umani per il semplice motivo che non
riusciamo ad essere trasparenti con noi stessi,
non riusciamo ad essere onesti verso noi stes-
si.
L’essere umano fa così fatica a leggere se
stesso perchè abituato a difendersi in con-
tinuazione, prima da se stesso poi dall’altro.
Eppure riusciamo a ferire l’altro con grande
facilità, in tutti i modi e spesso senza render-
cene conto.
Ci crediamo il centro dell’universo, le nostre
piccole conoscenze ci fanno gonfiare il petto
per fare ombra all’altro o metterlo in cattiva
luce, è più forte di noi, sembra che ci sia come
una molla interiore che ci spinge a disumaniz-
zare l’altro, a farne una controfigura negativa.
Dobbiamo chiederci verso quale modello di
sviluppo umano stiamo andando?
Verso che tipo di democrazia?
Il rischio che possa profilarsi una società dove
le differenze diventano diseguaglianze e dove
la distanza aumenta tra chi è competente,
competitivo e chi non lo è diventa un rischio
concreto.
L’identificazione costante con un unico tratto
ritenuto anomalo non permette di vedere la ri-
chezza complessa dello sviluppo globale della
persona come persona.
Oggi la tendenza è di oscillare tra differen-
zialismo che esclude, separa e ghettizza e
assimiliazionismo che nega le differenze; non
dobbiamo dimenticare che siamo insieme si-
mili e diversi.
Troppo poco è stato fatto per l’evoluzione
culturale delle culture diverse, qualche volta è
ridotta all’occasionalità, estemporaneità e su-
perficialità, spesso è ostaggio del folclorismo,
dell’autorefenzialità, del personalismo.
Si è innescato un meccanismo perverso e
confuso di ruoli che si confondono e si so-
vrappongono di strategie a volte empiriche a
volte tecnicamente mirate che hanno impedito
all’opinione pubblica di interiorizzare COR-
RETTE informazioni di base.
“La mente umana è un computer la cultura è il suo software” La cultura è come siamo programmati a fare le
cose di ogni giorno, influenza il nostro modo di
comportarci, di reagire alle situazioni, di stabi-
lire la priorità delle cose.
Le culture sono dinamiche si modificano
sempre, sono i processi di acculturazione ed
inculturazione che si scelgono di attivare che
determinano il modello di adattamento.
Le dimensioni dell’incontro con le culture di-
verse sono: Conoscenza, Interpretazione,
Intervento.
Una certa tendenza nella tematica dell’inter-
culturalità collega interpretazione e intervento
nelle sfere etiche e socio affettive, mentre la
conoscenza è collegata nella sfera cognitiva.
L’interpretazione della cultura diversa può li-
mitarsi a fornire competenze culturali astratte
rispetto a comportamenti e scelte da assume-
re?
No. Perchè produce buonismo, assistenziali-
smo culturale ed apartheid.
La società tende a generalizzare e ridurre i
bisogni a pura assistenza sociale, nessun aiu-
to all’evoluzione culturale e politica, sposta il
tema dalla cultura spesso ad una banale so-
pravvivenza.
L’esclusione del popolo rom è una esclusio-
ne cognitiva perchè al posto della conoscenza
prevalgono pregiudizi e stereotipi e la diversità
culturale è esorcizzata dalle paure. Pregiudizi
e stereotipi sono usate e diffuse dall’azione
istituzionale, nascono e crescono dalle solu-
zioni sbagliate, producono repressione, razzi-
smo e discriminazione.
50 anni di politiche per la popolazione romanì
sono stati contraddistinti da: Politiche differen-
ziate, Assistenzialismo culturale, Folclorismo.
Eccessivamente è stato giustificato alla popo-
lazione romanì un “fatalismo persecutorio” e
lo “sviluppo mentalità assistenziale”. La stra-
da più semplice per autorefenziarsi.
Il disagio, l’esclusione e la discriminazione
della popolazione romanì sono stati eccessi-
vamente generalizzati e denunciati senza indi-
vidure soluzioni integrati in un contesto dotato
di senso, ignorando il patrimionio umano e
culturale di quella parte romanì che NON vive
in condizioni segreganti e che troppo spesso
deve subire l’umiliazione culturale oppure
all’assimilazione culturale per l’assenza di un
progetto culturale.
La regola è stata quella di utilizzare le opportu-
nità di partecipazione attiva per accreditare la
visibilità personale e l’autorefenzialità, oppure
“l’eccezione che conferma la regola”
degli stereotipi e dei pregiudizi.
Non esista la volontà (più che le competenze)
per analizzare le cause reali che hanno peg-
giorato le condizione di vita della popolazione
romanì, ed il “SISTEMA” finora utilizzato ha
peggiorato le condizioni della popolazione ro-
manì.
Un “sistema” che produce delegittimazione
culturale, dei diritti e della partecipazione at-
tiva.
Un “sistema” che legittima l’apartheid con so-
luzioni inserite in un contesto privo di senso.
Un “sistema” che appiattisce la comunicazio-
ne sociale su stereotipi, pregiudizi e folclori-
smo.
Le responsabilità: della Politica e dei media,
delle Comunità romanès, dei Leaders romanì,
della società civile.
Le Istituzioni europee sollecitano politiche
integrate “specifiche e non esclusive” per
migliorare il processo di percezione delle in-
formazioni e per mettere in discussione il mo-
dello degli interventi di sviluppo del passato
(che hanno condizionato la nostra esistenza
individuale e di minoranza etnico lunguistica).
Un popolo con una storia di rifiuto attiva una
“resistenza etnica” per tutelare e/o difendere
la propria cultura:
• Chiusura nei confronti dell’altro per TUTE-
LARE la sua cultura;
• Lotta armata contro l’altro per DIFENDERE
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la sua cultura;
• La scelta di chiusura verso l’altro non ha
permesso lo scambio cultiurale e quindi una
corretta conoscenza.
Questa scelta ha ostacolato una evoluzione
della cultura romanì.
Cosa fare?
Acquisire gli strumenti per essere consapevoli
di vivere all’interno di una cultura che evolve
senza sosta e che non è statica e immutabile,
fare un salto di qualità per uscire da una logica
etnocentrica, attivare scambio e confronto per
la valorizzazione reciproca, le culture solleci-
tate ad una evoluzione interculturale.
Tutto questo presuppone di pensare in termini
di interculturalità, non più di multiculturalismo.
Lo sviluppo dell’intercultura è possibile se il
patrimonio umano della persona è considerato
parte integrante della società e contribuisce
alla crescita sociale e culturale, se il suo ba-
gaglio culturale è considerato un valore.
Un radicale cambiamento passa attraverso
azioni di sistema.
Abbandonare la “resistenza etnica” di chiusu-
ra verso l’altro attivata dalla popolazione ro-
manì con l’intento di tutelare la propria cultura
per pensare e costruire soluzioni di un proget-
to culturale inserito in un contesto dotato di
senso, soluzioni ai bisogni complessivi delle
comunità che non siano staccate e lontane
dalla società.
Avviare processi di acculturazione, di comunu-
ty welfare e comunicazione sociale per:
1. spingersi verso un futuro senza negare
quando di valido c’è nella tradizione;
2. superare il rischio di falsi modelli che pos-
sono orientare verso una distorta coscienza
dell’essere rom;
3. rimuovere le convinzioni che hanno mani-
polato la realtà e la cultura romanì nel proces-
so di percezione delle informazioni.
Processi di accultutazione, Processi di comu-
nity welfare, Comunicazione sociale sono tutti
processi da attivare per definire un diverso
processo cognitivo della romanipè.
Una nuova romanipè” basata sulla consa-
pevolezza di vivere all’interno di una cultura
che evolve senza sosta che non è statica ed
immutabile, che la società moderna esige
l’introiezione di strumenti decodificatori con i
quali è possibile interloquire con essa, che è
necessario pensare in termini di interculturali-
tà per avviare processi di evoluzione culturale
dinamici inclusivi e valorizzanti per le culture.
Una nuova romanipè che rafforzi una maggio-
re consapevolezza culturale per un reciproco
riesame critico e riformulare l’orientamento
verso il futuro.
Fondazione romanì Italia
13
Azione di sistema TRE ERRE (3R)
La crisi d’identità dei ragazzi e delle ragazze
rom è sotto gli occhi di tutti.
Senza alcuna oppurtunità di interazione cultu-
rale, assistiamo a fenomeni di identificazione
extra culturale, dove i bambini ed i giovani rom
ogni giorno perdono un pezzo della loro vita
e della loro storia, e rischiano di approdare in
terreni minati, alienanti sul piano psicologico
ed identitario, dove il confine tra consentito e
non consentito salta e lascia spazio all’inquie-
tudine del nulla, un vuoto in cui penetrano i
virus della società.
Per le nuove generazioni rom il fascino che
regola la “giusta direzione” non proviene più
da un sentire interiore, cioè riflesso da un pre-
gresso culturale, ma la sorgente di attrazione
proviene dall’esterno, dai margini della comu-
nità civile, dove fonti di “lavoro” si trovano a
“buon prezzo” e dove il solo requisito richiesto
è la disperazione alla vita, la pura sopravviven-
za.
La “giusta direzione” per i ragazzi e le ragaz-
ze rom si può trovare nella riscoperta di un sé
troppo spesso negato, nell’elaborazione di un
nuovo processo cognitivo della romanipè.
Oggi la comunicazione è un tema di forte ri-
levanza sociale e culturale che incide profon-
damente nella vita delle persone e dei grup-
pi, perchè l’orizzonte cognitivo della maggior
parte dei cittadini è determinato dai contenuti
diffusi dai mezzi di comunicazione, che sono
gli artefici della creazione delle tendenze di
opinioni.
Ciclicamente ondate di notizie ed informazioni
colpiscono la popolazione romanì ed i bambi-
ni rom sono le prime vittime di un sistema
e di processi comunicativi che si nutrono di
stereotipi e pregiudizi, gli stessi che li hanno
generati.
Si accendono dibattiti, si presentano denun-
ce, si promuovono manifestazioni, si attivano
progetti, si disegnano tentativi di “sensibiliz-
zazione”, iniziative che si nutrono di stereotipi
e pregiudizi negativi, gli stessi che li hanno
generate, e che mettono in evidenza un abuso
della comunicazione e dei mezzi di informa-
zione, utilizzati in un senso strumentalmente
ideologico ed asserviti a scopi di parte.
La Campagna TRE ERRE (3R) è la risposta ra-
gionata alla rappresentazione sociale negativa
che si abbatte sui bambini ed i giovani rom,
è una articolata campagna di comunicazione,
progettata con la partecipazione attiva, speci-
fica e non esclusiva, di professionisti rom, per
decriptare stereotipi e pregiudizi, e promuove-
re l’interculturalità.
Produzione ed attività del progetto TRE ERRE
(3R):
• studioeproduzionedin.3video/spotdi
circa 60 secondi. Ciascun spot è dedicato ad
una tematica. Gli spot saranno diffusi attraver-
so le TV nazionali, locali ed europee.
• Studioerealizzazionediunacampagna
contro la romanofobia, l’odio contro le comu-
TRE ERRE (3R)Campagna di comunicazione sociale
14
nità rom e sinte. Studio e definizione di un
messaggio comunicativo incisivo della cam-
pagna. Produzione di un manifesto 6X3 che
sarà diffuso nelle diverse province Italiane
• Produzione di materiale informativo,
cartaceo e mediatico
• Ilmaterialedelprogettosaràpresenta-
to con la realizzzione di eventi (minimo 20) da
relizzare nelle diverse province dell’Italia ed in
alcune città europee, con la collaborazione di
organizzazioni rom e della società civile, isti-
tuti di ricerca, il coinvolgimento della politica,
delle istituzioni, dei media e dei rom.
La Campagna TRE ERRE (3R) avrà inizio da
Novembre 2012 e si concluderà a Dicembre
2013:
• Novembre 2012: Presentazione nazio-
nale della campagna
• Novembre 2012/Febbraio 2013 diffu-
sione del 1° video e del 1° manifesto.
• Marzo2013/Luglio2013diffusionedel
2° video e del 2° manifesto
• Agosto2013/Novembre2013diffusio-
ne del 3° video e del 3° manifesto
• Dicembre2013eventonazionale con-
clusivo della campagna TRE ERRE (3R)
Novembre 2012/novembre 2013 con la col-
laborazione delle organizzazioni rom e della
società civile sarà realizzato un evento pub-
blico in ciascuna regione Italiana, in cui sarà
presentato e diffuso il materiale della campa-
gna e saranno coinvolti a politica, le istituzioni,
i media, le comunità rom e sinte, l’opinione
pubblica.
Sostieni il progetto TRE ERRE (3R) con l’e-
rogazione di un contributo, che potrai de-
durre dal reddito imponibile: c/c postale n.
1007507740 intestato a Fondazione romanì
Italia
IBAN: IT 47 S 07601 15300 001007507740
Qualsiasi importo vorrai donare sarà un aiuto
concreto e visibile per contribuire alla crescita
sociale e culturale delle giovani generazioni.
“Con tutto il denaro del mondo non si fanno gli
uomini, li si degrada; ma con persone che do-
nano se stesse, si fa tutto, compreso il denaro,
che allora non è più padrone ma servitore”
(Abbè Pierre – Presbitero cattolico, partigiano,
uomo politico).
15
16
INSEGNAREun sogno da realizzare
Era il 1998 quando arrivai a Roma. Mi ero diplomata e dopo tanti lavoretti
avevo trovato la possibilità di un lavoro. Nel 1999 viene bandito il concorso
e tra lavoro e studio riesco ad abilitarmi all’insegnamento nella scuola dell’in-
fanzia. Iscritta nelle graduatorie abruzzesi, regione dalla quale venivo, non ero
mai stata chiamata per supplenze.
Continuavo il mio lavoro a Roma da pendolare e quando mi sposai mi inserii
nelle graduatorie del Lazio. Mai avrei pensato che da li a qualche anno avrei
avuto la possibilità di iniziare il mio percorso di insegnate.
Penso di avere l’insegnamento nel sangue come una missione da compiere.
E’ evidente che la preparazione pedagogica, didattica e metodologica non
possono che essere apprese attraverso lo studio e l’aggiornamento ma c’è un
altro fattore fondamentale che fa la differenza tra un ottimo insegnante e un
insegnante mediocre: il cuore.
Forse è retorica ma nella mia esperienza nella scuola dell’infanzia ho capito
che insegnare con amore può fare la differenza.
Ho cominciato a fare supplenze giornaliere nel 2004 alternando l’insegna-
mento a lavori nel campo informatico. Nelle mie esperienze ho avuto la pos-
sibilità di imparare ed osservare sia da eccellenti colleghe che da colleghe
meno eccellenti.
Ho imparato come il precariato ti dia la possibilità di venire a contattato con
variegate esperienze educative di essere sempre aggiornata, di porti mille
domande per poter fare un buon lavoro in quei pochi giorni che hai a dispo-
sizione.
Che soddisfazione quando anche le colleghe sono contente di lavorare con te,
ma soprattutto che emozione quando il bambino ti saluta all’uscita di scuola
sapendo che i tuoi giorni sono finiti e nella sua innocenza ti chiede “maestra
quando torni”?
Cosa ci può essere di più bello di questo?
A volte la stanchezza della precarietà mi prende e avrei voluto essere tra i
fortunati che sono riusciti ad insegnare. Se avessi preparato il concorso la-
17
INSEGNAREun sogno da realizzare
sciando il lavoro forse avrei avuto un punteg-
gio migliore ma il mio spirito di autonomia non
mi ha permesso di farlo.
Ma in tutte le cose della vita è possibile trovare
il lato positivo. Vivendo la precarietà ed ane-
lando così ardentemente di arrivare ad avere
una mia classe, quando e se, quel giorno ar-
riverà, quello che avrò ottenuto lo apprezzerò
per tutta la mia vita. La mia gavetta mi aiuterà
a rimanere fedele alla mia missione e a non
perdermi nella stanchezza e nella routine quo-
tidiana.
E’ stato un cammino tormentato che ancora
sto facendo lottando contro ostacoli che fa-
rebbero buttare la spugna ma il sogno è più
forte. Un sogno che si stava per realizzare ma
che negli ultimi mesi si è allontanato tanto. Ero
ad un soffio ed il nuovo concorso annullerà le
vecchie GM così eccomi di nuovo sui libri a
studiare nella speranza di poter superare l’o-
stacolo dei quiz. A volte lo sconforto di questa
meta che mi sfugge tra le mani, ora per una
ragione ora per un altra mi prende, ma l’amo-
re e la passione per l’insegnamento sono più
forti.
Il mio mondo Rom
Venuta a Roma ho vissuto un cambiamento
radicale della mia situazione. In abruzzo il mio
cognome ha sempre suscitato un interrogativo
“Sarà Rom?” o “Sei Rom?”.
Venuta a Roma la prima volta che qualcuno mi
ha fatto una domanda sulla mia provenienza
con mio grande stupore mi ha chiesto “Ma sei
… ” ed io attendevo la fatidica domanda …
“Rom” ed invece era “parente dei proprietari
delle Cliniche?”
Non ci potevo credere. Nonostante la mia fa-
miglia sia rispettata e conosciuta al mio paese,
se qualcuno domanda informazioni su di me
gli viene risposto “Chi? La figlia del rom?”
Immaginate quindi che sorpresa ritrovarmi
anonima tra gli anonimi.
Io ricordo i miei nonni, persone amate e rispet-
tate , persone di cuore che mai hanno rubato
ma che anzi avevano sempre un piatto pronto
per il “paesano” (gagio) che passava per caso
da quelle parti.
Ricordo nonna che tra i tanti nipoti a natale
tirava fuori dalla tasca della sua lunga gonna
50 mila lire in monete che divideva per darli ai
suoi tanti nipoti (erano gli unici soldi che ave-
va). Una nonna generosa e accogliente. Penso
mio zio più piccolo di me di un anno con cui
giocavo per i viottoli del paese.
Alcuni zii potevano essere fratelli e sorelle. In-
sieme ci prendevamo cura dei più piccoli, loro
nipoti e miei cugini. Tra di loro io ero quella che
più amava questo compito e che con piacere
si occupava sin da bambina dei bambini più
piccoli. E’ così che sono cresciuta.
Un educazione basata sull’autonomia e sull’
autosufficienza, sull’aiuto reciproco.
Un educazione che mi ha dato questo amore
per l’insegnamento. Di certo questo non basta
per far nascere una passione ma aiuta di certo
a far sbocciare quella propensione che già ti
porti dentro.
Come in una favola…..per dare alla diver-
sità un lieto fine.
IMMAGINO:
immagino che gli anni siano passati, cammino
per strada e da lontano una voce …. “mae-
stra, maestra”. Mi giro e mi trovo davanti un
uomo distinto. Lo guardo con fare interroga-
tivo. “maestra sono Giovanni si ricorda ….” e
dopo qualche parola mi dice “ora sono ” e qui
le affermazioni possono variare “Insegnate,
avvocato, dottore, commerciante.. ” ma quello
che non cambia è il risultato. Un bambino che,
pur nella sua diversità ha trovato il suo posto
nella società e la sua realizzazione nella vita.
Un successo per la scuola e per la società.
Nessun bambino ha un etichetta ma ognuno di
essi è potenzialmente capace di grandi cose
avendo cuore e menti pure ed aperte.
Ogni bambino va conosciuto per quello che è e
non per quello che rappresenta.
Mia figlia 9 anni torna a casa e mi dice “Mam-
ma, …. ha la mamma stupida perchè è venuta
piangendo per il figlio ma ha dei problemi ?”
Sono le parole della maestra che seppur un
ottima insegnante di scuola primaria ,forse
presa dallo sconforto, ha rinunciato (trasmet-
tendo questo messaggio alla classe) alla sua
missione.
Ho passato la serata a spiegare a mia figlia che
se il suo compagno ha una situazione difficile
personalmente (a livello cognitivo, affettivo ed
emotivo) e nella sua famiglia,che va capito ed
aiutato e non giudicato, evitato o allontanato.
Lotto continuamente per spiegare alle mam-
me della scuola dell’infanzia che gli stranieri
e gli immigrati non rubano il posto ai loro figli
e che se sono primi in graduatoria non è per-
chè sono immigrati ma perchè evidentemente
hanno delle situazioni problematiche.
Queste affermazioni mi toccano molto avendo
vissuto in prima persona e anche indiretta-
mente situazioni di questo tipo (di pregiudizio
e rifiuto) che hanno coinvolto persone della
mia famiglia .
Dalla mia esperienza personale e dalla mia
esperienza come insegnante ho capito che la
scuola dell’infanzia molto può fare.
Purtroppo ancora adesso la scuola dell’infan-
zia non viene considerata dall’utenza scolasti-
ca nel suo importante ruolo educativo mentre
molto potrebbe fare per garantire a tutti i bam-
bini le stesse opportunità di successo scola-
stico.
L’insegnante sa, come ci ha insegnato
Vygotskij, che lo sviluppo del bambino è in-
fluenzato dal contesto culturale e ambientale
di appartenenza. Solo conoscendolo e preget-
tando itinerari educativi che tengano conto di
queste variabili si può fare in modo che le di-
versità non diventino svantaggio.
Cosa c’è di più bello vedere quei bambini, che
grazie ad un ottimo intervento educativo già
a partire dalla scuola dell’infanzia,crescendo
riescono a sviluppare tutto il loro potenziale
cognitivo, sociale e morale e a porsi come
attori consapevoli e capaci della propria vita
nella società in cui vivono.
Purtroppo questo intervento così precoce è
attualmente di difficile attuazione sui rom che
purtroppo spesso non frequentano la scuola
dell’infanzia.
Insegnante per vocazione
Il bambino ha un grande desiderio di sapere e
di capire, tale desiderio si manifesta nelle sue
Insegnare...un sogno da realizzare
18
19
continue domande e nelle sue richieste di spie-
gazioni.
Cosa c’è di più bello di un bambino cerca in noi le
risposte alle sue domande?
La sfida educativa che ci viene posta come inse-
gnanti è di certo faticosa e piena di ostacoli ma
ci guida verso la scoperta di quanto è bello edu-
care. L’azione educativa è un gesto d’amore, una
missione i cui protagonisti sono i bambini e i loro
bisogni.
Vi è un emergenza educativa relativa a noi inse-
gnanti. Tutti noi abbiamo nella nostra mente un
insegnante indimenticabile. Quello che ci ha tra-
smesso la passione per qualcosa, la fiducia nelle
nostre capacità, la fiducia negli altri.
Quell’insegnante che ha fatto la differenza. La
crisi che stiamo vivendo può essere una grande
opportunità di rinascita ed insegnanti di questo
tipo sono necessari, forse oggi più che mai, per
costruire un paese nuovo negli schemi di pensiero
e nei contenuti.
Insegnati per passione, per vocazione, per la vo-
glia di incidere sul futuro; insegnati che siano vei-
colo del cambiamento.
Il mio sogno non è semplicemente quello di es-
sere insegnante al 100% ma di essere un inse-
gnante con cuore e passione, un insegnante ca-
pace di guardare il mondo con gli occhi dei propri
bambini.
Voglio concludere con una frase di Benedetto XVI
sugli educatori: “ L’educatore … è fragile e può
mancare, ma cercherà sempre di nuovo di met-
tersi in sintonia con la sua missione”.
20
IL TEATRO OGGI, TRA PEDAGOGIA E INTERCULTURA
Il laboratorio teatrale strumento di sviluppo dell’Intercultura
Tra le varie forme di espressione artistica, l’Arte del Teatro è quella il cui l’accadimen-
to è legato alla presenza fisica e contempora-nea, nello stesso spazio e nello stesso tempo, di due fattori, l’Attore e lo Spettatore, i quali danno vita al racconto umano.
Nell’era attuale il veicolo principale della co-municazione è il linguaggio verbale. Molti anzi credono che questo sia il mezzo più importan-te e più rilevante tra i soggetti umani.Ma non bisogna dimenticare che il linguaggio non verbale, corporeo, ha estrema importanza, in quanto l’attività gestuale, l’uso dello spazio interpersonale, la qualità della voce e lo stesso tatto funzionano tutti come sistemi comunica-tivi speciali, che influenzano le persone, alme-no a livello inconsapevole, più di quanto possa fare il linguaggio verbale. Il teatro riesce, an-cora oggi, ad esprimere tutto questo.
Diremo di più: il Teatro, inteso come una drammaturgia che pone in atto un’azione, ha evidenziato il corpo come strumento primario da cui far partire la ricerca sulle possibilità espressive dell’Attore.Per primario si intende, ovviamente, il corpo usato prima del linguaggio verbale, diciamo pure in maniera primitiva, così come lo scal-pello per lo scultore, il pennello per il pittore, la penna per lo scrittore.
Oggi il Teatro non è soltanto lo spazio dello spettacolo e del divertimento, ma crea occa-sioni propizie per la crescita culturale di coloro che lo frequentano, lo avvicinano, lo vivono di-rettamente. Un luogo di formazione e solleci-tazione alla creatività e alla riflessione su cui si innesta anche il processo di maturazione della coscienza umana e civile.
E’ da sempre lo strumento attraverso cui la so-cialità umana può indagare su di sé, sui mondi contenuti nelle miserie, negli odi, nelle passio-ni, nelle menti e nei corpi di uomini e donne, mondi che il teatro può ri-costruire e restituire.
Se partiamo da questi presupposti fondamen-tali, ci rendiamo conto che il teatro è un gran-de mezzo di educazione al rispetto dell’altro e quindi allo sviluppo dell’intercultura. Se lo immaginiamo nelle scuole, esso consen-te una pedagogia sociale, un contesto nel quale un gruppo di giovani, componenti una classe,anche se di culture e tradizioni diverse ridefinisce i modi della socializzazione vivendo in prima persona l’esperienza nuova di stabi-lire un contatto inconsueto con sè. Qui il tea-tro è necessario, come pure altrove, poiché le vite ancora sottaciute o intime abbiano la possibilità di affacciarsi ed esprimersi come esistenze vere, fatte di idee, azioni, emozioni, culture differenti.
La diversità è il valore aggiunto in un contesto espressivo e creativo volto al racconto: quello del personaggio e quello dell’attore.Attraverso il Teatro l’individuo-attore è posto in una situazione di catarsi, di attraversamento delle sofferenze; le abitudini, le incomprensio-ni della vita che vengono, attraverso la sco-perta delle possibilità espressive e l’incontro con il personaggio, affrontate, comprese, forse anche superate.
Tutte le fasi che l’attore compie, attraverso l’acquisizione dapprima di tecniche e possibi-lità espressive, successivamente di un mondo segreto o celato che vive dentro, poi con la costruzione di uno spettacolo passando per il testo, conduce ad un’abilitazione sociale che
21
gli permette di comunicare, favorendo un’of-ferta sincera che lo rende speciale agli occhi del pubblico, ma, prima ancora, dei suoi com-pagni di lavoro.E’ uno dei compiti di questa arte antica: re-stituire ad ognuno il suo statuto di soggetto creatore.
Un metodo utile per permettere una corret-ta affermazione del sé prevede un lavoro nel quale l’applicazione di una tecnica di trasmis-sione quasi meccanica di possibilità di movi-mento, favorisce un’autonomia decisionale di movimento e quindi delle proprie azioni, re-stituendogli la capacità di una ritrovata armo-nizzazione, che possa stimolare una creatività anche psico-fisica-verbale.Nel teatro, e nell’arte in genere, la nostra esperienza è sottoposta a differenti attività di percezione, a valori che scavalcano il quo-tidiano il quale diventa quasi illusorio in virtù di questa nuova rivelazione, di questo nuovo mondo, e dei rapporti originali che esso de-termina.
L’individuo che vive il teatro come atto crea-tivo, si avvicina all’unità originaria tra la vita psichica e la vita organica, proprio attraverso un uso inizialmente primitivo, poi più intellet-tuale, del corpo. L’arte teatrale è, soprattutto una pratica, un fare, un sentire. Il training rimane il momento fondamentale di questo processo ed assume un valore assoluto laddove si prevede un pro-cesso educativo. Importante nel laboratorio della scuola, come in quello della comunità, è agire per gradi, partendo non da un testo, cioè dal teatro inteso in senso letterario, ma dalle persone, dalle loro possibilità e dai linguaggi che ognuno esprime.
L’intento di un corso teatrale all’interno di un gruppo è anche quello di dare stimoli diffe-renti, affinché possa costituirsi uno spazio metafisico, flessibile, che permetta, non tanto attraverso l’acquisizione di tecniche quanto, attraverso la percezione di sé, codici espres-
sivi diversi, rapporti nuovi. Tutto questo per-mette la socializzazione , la conoscenza del sé, l’autostima, la comprensione degli altri attraverso l’interpretazione di un personaggio, la comunicazione tra culture diverse.
Intendere l’arte teatrale come strumento fon-damentale per il recupero delle identità di ognuno che possano favorire un linguaggio comune tra culture diverse, è ancora oggi la scommessa per eccellenza che il teatro si pone. La sua forza comunicativa può rappre-sentare, nell’era della comunicazione virtuale, il mezzo più importante per avvicinare gli uo-mini di ogni latitudine.
Catia de Carolis, direttore CIFAPPOttaviano Taddei, Compagnia Terrateatro
22
STORIA E MEMORIA DEL PORRAJMOS PER IL TEMPO PRESENTEUna storia della scolarizzazione dei rom e dei sinti in Italia
Luca Bravi, Università Telematica L. da Vinci di Chieti
Ad ottobre 2012 è stato finalmente inau-
gurato il memoriale tedesco dedicato al
ricordo delle almeno cinquecentomila vittime
del Porrajmos (lo sterminio dei rom e dei sinti
nel nazifascismo). E’ il momento di interro-
garsi lungo la linea sottile che lega memoria,
storia e tempo presente; soltanto questo per-
corso può far comprendere il ritardo con cui
sorge finalmente il memoriale dei rom a fianco
a quello dedicato alla Shoah.
La mia riflessione vuole quindi partire da due
interrogativi:
- Che cosa lega la conoscenza del Por-
rajmos al presente ed in particolare alla rico-
struzione della storia della progettazione edu-
cativa rivolta ai rom ed ai sinti?
- Che cosa può testimoniare oggi la rico-
struzione della storia della scolarizzazione di
una minoranza?
La ricostruzione storica di un processo di lun-
ga durata permette sempre di cogliere i para-
digmi utilizzati nell’approccio ad una tematica
ed è quindi capace di rivelare elementi positivi
e negativi, continuità e cesure conservatesi
nel tempo.
Possiamo affermare che qualsiasi cultura
maggioritaria percepisce e tende a descri-
vere la storia delle minoranze come un’altra
storia, spesso disconnessa dalla propria, fre-
quentemente in posizione oppositiva rispetto
a quest’ultima. E’ ciò che è avvenuto anche
nel caso della storia del popolo rom in Europa
ed in Italia.
Nel presente testo, cercherò invece di par-
tire da una nuova premessa. Ricostruirò le
fasi della scolarizzazione dei rom e dei sinti
in Italia sottolineando come la “loro” storia e
quella della scuola in particolare, ne testimo-
ni per prima cosa una permanenza di lunga
durata nel nostro Paese, descrivendoli come
attori di vicende che dimostrano come le sto-
rie di maggioranza e minoranze siano tessute
insieme, influenzate semmai nel loro dipanarsi
temporale dai rapporti di potere che pongono
un gruppo in posizione predominante e l’al-
tro in posizione subordinata, una condizione
che influenza anche il grado di costruzione di
una memoria sociale in grado di scardinare
stereotipi e perciò in stretta relazione con le
progettazioni sociali ed educative nel tempo
presente.
E’ da sempre la cultura maggioritaria ad avere
avuto in mano gli strumenti di costruzione dei
significati; condizione che permette anche di
elaborare etichette da applicare, con sguardo
etnocentrico, alle popolazioni minoritarie. Nel
23
caso dei rom e dei sinti questo ha significato
la costruzione di una etichetta omogenea e to-
talizzante diffusasi storicamente in Europa ed
in Italia, quella dello “zingaro” definito come
asociale, straniero e nomade (condizioni che
poi portano ad altre caratterizzazioni secon-
darie che rendono lo “zingaro” anche “ladro
per cultura” e “ladro di bambini”) (L.Bravi, N.
Sigona, 2009b).
Sono le etichette del presente, ma se la scuola
non va a scoprire ed indagare le origini di que-
ste caratterizzazioni denigranti, ogni progetto
educativo elaborato sulla base dell’immagi-
ne di uno “zingaro” rimasto nell’immaginario
diffuso come nomade ed asociale, rischia di
riprodurre continuativamente quelle immagini
che vuole distruggere, perché è da queste ul-
time che si continua a partire. Ne scaturisce
una progettazione che si aggroviglia su se
stessa e che crea un cortocircuito culturale
che alimenta lo stereotipo e il conflitto sociale.
Sappiamo oggi che i rom ed i sinti sono stimati
in circa 150.000 individui nel nostro paese, la
metà dei quali di cittadinanza italiana, perché
presenti tra noi da secoli, i primi addirittura dal
XV secolo, altri dal dopoguerra, gli ultimi arrivi
provenienti dalle terre dell’est martoriate dalla
guerra e dalla povertà. Per poter dire qualcosa
su questi gruppi l’unica possibilità è evitare la
generalizzazione ed indagare quale rapporto
i singoli gruppi presenti sul territorio abbiano
storicamente intrattenuto con la popolazione
circostante; ne scopriremmo anche casi di pa-
cifico inserimento nei contesti sociali di riferi-
mento, inclusa la scuola (lo sottolinea l’indagi-
ne europea svolta anche in Italia e conclusasi
nel 2003) (L. Piasere, 2007).
Nessuno dei rom di cui parliamo è poi noma-
de, più precisamente nessuno di essi ha un
ereditario istinto nomade, ma lo stereotipo dif-
fusosi da secoli continua a giustificare il fatto
che queste persone debbano necessariamen-
te vivere nei “campi nomadi” e se nascono
politiche abitative differenti, queste vengono
osteggiate almeno a livello popolare, perché
lo “zingaro” viene percepito come qualcosa di
“altro” rispetto alla maggioranza della popola-
zione civile.
Intanto i rom, quando possono, evitano di di-
chiararsi tali, per non trovarsi a dover combat-
tere contro l’etichetta socialmente condivisa
dello “zingaro”: evitare di dirlo è quello che
cercano di fare anche molti ragazzi rom/sinti
che frequentano le scuole, soprattutto se han-
no la fortuna di non rientrare nel cliché dello
“zingaro” previsto istituzionalmente (quello del
soggetto che vive nel campo nomadi e che ha
difficoltà finanziarie e sociali): questa condi-
zione dimostra anche che le statistiche diffuse
a livello istituzionale su questa popolazione
eterogenea vanno prese con cautela, perché
tendono a misurarne la presenza sul territorio
in base ad elementi etnicizzanti e omogeneiz-
zanti che si avvicinano più alla fantasiosa im-
magine degli “zingari” diffusa a livello popola-
re (il nomade) piuttosto che alle reali condizioni
di vita di rom e sinti oggi: un esempio sicura-
mente illuminante rispetto a questa situazione
di confusione all’interno delle stesse istituzioni
è dato dal fatto che anche nei documenti del
MIUR più recenti si continua a parlare di “inda-
gini su comunità nomadi” presso i vari plessi
scolastici seppur con il lodevole obiettivo di
voler ripensare la scolarizzazione dei rom e dei
24
sinti, riabilitando in qualche modo l’equivalen-
za rom=zingaro=nomade, un fraintendimento
con radici storiche profonde (inserire link a
http://archivio.pubblica.istruzione.it/mpi/pub-
blicazioni/2000/nomadi.shtml).
Tutto questo implicito richiamarsi di stere-
otipi all’interno di politiche che affermano
di mirare all’inclusione, spiega perfetta-
mente perché il “rom positivo” cerchi di
mantenere uno stato di invisibilità sociale
per la propria giustificabile sicurezza.
La storia della scolarizzazione dei rom in Italia
è da leggere come un frammento di una storia
tout court dei rom e dei sinti in Europa che è
stata caratterizzata da continui tentativi falliti
di rieducazione coatta da parte della cultura
maggioritaria ed è all’interno di una storia so-
ciale dell’educazione nazionale che va rielabo-
rata ed inserita.
Partiamo quindi da alcuni elenchi di nomi rin-
tracciati nei luoghi in cui sorsero i campi di
concentramento italiani per gli “zingari”.
Tra questi luoghi, Prignano sulla Secchia (MO)
fu un’area d’internamento per “zingari”.
I cognomi italianissimi riportati all’interno delle
schede anagrafiche rintracciate nell’archivio
comunale risalgono proprio agli anni della pri-
gionia e sono Argan, Bonora, Bianchi, Colom-
bo, De Barre, Esposti, Franchi, Innocenti, Mar-
ciano, Relandini, Suffer, Torre, Triberti, Truzzi.
Giacomo Gnugo de Bar (nato durante il periodo
di internamento a Prignano) racconta quanto
gli è stato narrato dai propri genitori: Era au-
tunno e la mia famiglia s’era appena fermata
al Bacino di Modena per fare la sosta dopo la
stagione delle fiere. Un mattino che piovig-
ginava, molto presto hanno sentito bussare
alle carovane, si sono svegliati e hanno visto
le carovane circondate da militari, carabinieri,
questura. Piantonarono (i militari e i carabinie-
ri) tutto il giorno e la notte intera, prendendo
il nome e il cognome a tutti, poi il mattino se-
guente, condussero tutti quanti nel campo di
concentramento di Prignano e ci portarono via
tutti i muli e i cavalli che avevamo. A Prignano
c’era il filo spinato e qualche baracca, poche
perché noi avevamo le nostre carovane. Tut-
to era controllato da carabinieri e militari che
nei primi giorni non ci facevano mai uscire. Le
guardie, due volte al giorno, facevano l’appello
e il contro appello. C’erano dei turni di un’ora
e mezza in cui le donne potevano andare al
paese a fare la spesa (P. Trevisan, 2005).
In quel campo, ricorda Giuseppe Esposti, uno
dei testimoni diretti dell’internamento a Pri-
gnano, i cosiddetti “zingari” venivano mandati
ad una scuola, nello stesso edificio degli altri
bambini, ma separati dagli altri studenti.
In Italia l’ordine decisivo per l’internamento di
rom e sinti fu firmato da Arturo Bocchini, capo
della Polizia, che l’11 settembre del 1940 in-
timava che gli “zingari”, fossero essi italiani o
stranieri, dovessero essere arrestati e chiusi
in campi di concentramento. Fu un importante
giro di vite a livello culturale: fino ad allora si
allontanavano dal regno gli “zingari” stranieri,
da quell’ordine prendeva corpo e riconosci-
mento istituzionale una categoria totalizzante:
storia e memoria del porrajmos per il tempo presente
25
se si era “zingari” non si era percepiti come
cittadini del regno; in pratica la legislazione si
allineava al già diffuso sentore popolare che
considerava lo “zingaro” uno straniero perico-
loso, anche in presenza di documenti che ne
accertavano la cittadinanza italiana (L. Bravi,
2007).
Un’altra lista di 150 “zingari” internati tra il
1940 ed il 1943 è stata rintracciata ad Agno-
ne (oggi provincia di Isernia) dove, all’interno
dell’ex convento di San Bernardino, era stato
organizzato un campo di concentramento ri-
servato a “zingari”, questa era la dicitura te-
stuale dei documenti relativi a quel luogo di
prigionia a partire dall’estate del 1941. I co-
gnomi presenti in quelle liste sono Alossset-
to, Brajdic, Bogdan, Campos, Ciarelli, Di Roc-
co, Goman, Gus, Halderas, Held, Hudorovich,
Hujer, Karis, Locato, Mugizzi, Nicolic, Rach,
Reinhardt, Rossetto, Suffer, Waeldo.
Il 3 luglio 1943 Guglielmo Casale, direttore
del campo di Agnone, riceveva risposta dalla
Regia Direzione Didattica: l’idea che aveva
espresso pochi mesi prima, quella di voler
creare una scuola interna al campo di con-
centramento per educare i figli degli “zingari”
internati era stata accolta; la maestra Carola
Bonanni, orfana di guerra ed insegnante nel-
la scuola rurale della borgata Collemarino, vi
stava già svolgendo, a titolo gratuito, lezioni
sulla disciplina e sulla storia del fascismo, allo
scopo di fare di quei bambini “zingari” interna-
ti, dei soggetti utili al regime.
Nel pomeriggio, un sacerdote provvedeva ad
insegnare loro il catechismo. Si trattava di una
«educazione intellettuale e religiosa» rivolta ai
“minori zingari” all’interno di una scuola nata
su richiesta del comandante del campo e per
interessamento della locale questura presso
la direzione didattica. La relazione redatta il
3 luglio 1943 dal direttore didattico, Cavaliere
Salvatore Bonanni, fornisce una descrizione
dell’attività scolastica degli internati di Agno-
ne:
Il 9 gennaio Vi fu l’inaugurazione della scuola
alla presenza delle Autorità locali.
Ammirai la bella aula adornata di bandierine,
con il Crocifisso, i ritratti di S.M. il Re Impera-
tore e del Duce, la carta d’Italia ed altre carte
del teatro della guerra, nonché i piccoli ragazzi
con grembiulini neri e tutti ben puliti. Le lezioni
iniziarono in una data storica e con un vibrante
saluto al Re ed al Duce.
Ho notato in diverse visite, che le lezioni hanno
avuto luogo puntualmente e che la Maestra
non è stata mai assente, recandosi al Campo
di Concentramento, alquanto distante, anche
nelle giornate fredde e di cattivo tempo, di-
mostrando passione nella scuola e di sentire
appieno il suo nobile apostolato. Infatti, invi-
tato da Voi, gentilmente, per la chiusura delle
lezioni e quindi per una prova finale, ho potuto
constatare il paziente ed intelligente lavo-
ro della Maestra che è riuscita a far parlare
il nostro bell’idioma ai ragazzi che parlavano
il loro dialetto “zingaresco”, di apprendere
tante e svariate nozioni di cultura generale,
infondendo loro amore alla nostra Patria, al
Capo della Nazione e del Governo, rispetto a
tutte le Autorità, quel senso di disciplina nei
loro doveri, e di conoscere, in qualche modo,
le grandezze e le bellezze dell’Italia fascista e
l’opera amorosa che il governo svolge anche
26
per gli internati.
Dei 21 alunni che hanno frequentato la I clas-
se, e non tutti dal giorno dell’inizio delle lezio-
ni, sono stati promossi 8, ma tutti sono stati
in grado di calcolare, rispondere con qualche
precisione alle domande, dimostrando disci-
plina ed attaccamento alla scuola. (L. Bravi,
2007)
Le lezioni finivano il 30 giugno 1943 ed otto
studenti del campo superavano l’esame finale,
ma tutti avevano imparato la lingua italiana e
dimostravano di aver appreso «uno stile di vita
civile ed il rispetto verso il governo della nostra
nazione e verso il suo capo supremo».
In generale quindi la scuola funzionava ed i
funzionari fascisti del luogo annotavano che
quei giovani abbandonavano il loro stile di vita
degradato. Lo scopo individuato per la scuola
rivolta agli “zingari” di Agnone lo si intuisce da
quella stessa relazione: A voi, poi, Sig. Com-
missario, che con cuore paterno avete voluto
ai figli degli internati affidati alla Vostra sa-
piente vigilanza, aprire il cuore e la mente con
una sana educazione italiana, perché un gior-
no questi ragazzi, intelligenti e bravini, possa-
no seguire non più le orme dei loro genitori, e
che date continua prova di ottimo e scrupoloso
funzionario, giunga il mio plauso sentito e cor-
diale.(Idem)
I piccoli “zingari rieducati” ad Agnone non fu-
rono comunque liberati, si stava infatti muo-
vendo sullo sfondo la ricerca razziale fascista
che avrebbe inserito anche i rom ed i sinti tra
i soggetti da sottoporre ad un diverso tratta-
mento per la bonifica della razza; lo aveva
affermato il professore Renato Semizzi (R. Se-
mizzi, 1939), che insegnava medicina sociale
a Trieste e lo aveva ripetuto Guido Landra in un
proprio articolo comparso su La Difesa della
Razza nel 1940, pochi mesi prima dell’ordine
d’internamento degli “zingari”:
Non avendo alcun dato per l’Italia, ci limitere-
mo a riportare alcune osservazioni compiute
da Römer in Sassonia per incarico dell’Ufficio
Politico Razziale del Partito Nazionalsocialista.
Come scrive questo autore, indipendentemen-
te dagli ebrei e dai loro meticci, vivono in Ger-
mania numerosi individui razzialmente molto
diversi dal popolo tedesco.
In primo luogo bisogna tenere presente gli zin-
gari che vivono talora in bande e talora inve-
ce dispersi in mezzo al resto del popolo. […]
Questo autore ricorda come in una località
della Sassonia, accanto a tipi che rappresen-
tavano il tipico aspetto levantino, mongoloide
e negroide, ma di cui era impossibile stabilire
con esattezza l’origine, vivevano tre famiglie
razzialmente ben identificate. La prima di que-
ste famiglie che potrebbe essere confusa con
una comune famiglia di povera gente, com-
prende invece degli zingari che vivono in ma-
niera del tutto asociale, senza alcun mestiere
preciso (G. Landra, 1940, p.11).
Il problema risultava di chiaro stampo razziale
e l’assimilazione non poteva quindi rappresen-
tare una soluzione percorribile: Questi esempi
mostrano quindi come in Europa esista tut-
tora un grave problema dei meticci che non
si limita a quello degli ebrei e che non si può
esaurire tentando l’assimilazione degli indivi-
dui della prima o anche della seconda genera-
zione. […] Ricordiamo il pericolo dell’incrocio
27
con gli zingari, dei quali sono note le tendenze
al vagabondaggio e al ladroneccio. […] Come
si sa gli zingari sono particolarmente numero-
si nell’Europa dell’est e in Spagna, tuttavia la
loro presenza negli altri paesi desta serie pre-
occupazioni soprattutto per l’incertezza che si
ha circa il loro numero effettivo (Ivi, p. 12).
Solo l’armistizio ed il successivo caos in cui
piombò il sistema concentrazionario italiano
evitarono che i fini indicati dalla scienza del-
la razza si realizzassero concretamente. In
quel momento riconquistarono la libertà non
soltanto i rom ed i sinti di Prignano ed Agno-
ne, ma anche quelli di Tossicia (Teramo) altro
luogo d’internamento di almeno 108 “zingari”
provenienti dall’Istria come pure tutti gli al-
tri rom e sinti che erano stati imprigionati nei
campi del duce sorti sul territorio nazionale.
L’ossessione rieducativa rivolta verso la mino-
ranza rom sembra quindi accompagnare co-
stantemente le vicende storiche di rom e sinti
nel loro rapporto con i non-zingari.
Tale idea appare talmente strutturata e sedi-
mentata all’interno degli schemi mentali della
cultura maggioritaria da veder riproporre lo
stesso binomio campo-rieducazione anche
all’interno di luoghi sorti per la persecuzione
o addirittura come punto intermedio verso il
genocidio.
E’ stato infatti anche il caso di Berlino-
Marzhan, campo di sosta forzata riservato agli
“zingari” sorto a Berlino nel 1936 che fu tappa
dello sterminio dei rom e sinti del Terzo Reich.
All’interno di quel campo, il sinto Otto Ro-
senberg (O. Rosenberg, 2000) fu mandato a
scuola per epurarlo dalla “cultura zingaresca”.
Da quel campo e dalle altre zone di sosta for-
zata controllate dal Terzo Reich, i rom e sinti
vennero spostati, dalla fine del 1942, per es-
sere definitivamente liquidati nello Zigeunerla-
ger (campo degli zingari) sorto ad Auschwitz-
Birkenau, il settore BIIe del campo polacco in
cui si trovava significativamente il laboratorio
di Joseph Mengele; tra i sinti sottoposti agli
atroci esperimenti del dottore di Auschwitz,
anche il testimone diretto Adolf Hugo Höllen-
reiner (A. Tuckermann, 2005). Da Auschwitz-
Birkenau passarono ventitremila rom e sinti
degli almeno cinquecentomila considerati vit-
time dello sterminio nazista.
Il Porrajmos avvenne perché gli “zingari” fu-
rono considerati dal nazismo e dal fascismo
come portatori di due caratteri ereditari ineli-
minabili: l’istinto al nomadismo e l’asocialità.
I primordi della scolarizzazione italiana dei
rom e dei sinti sono quindi da rintracciare nei
campi d’internamento voluti dal fascismo e ri-
servati agli “zingari”.
Luoghi in cui si pensava alla rieducazione di
questi soggetti contemporaneamente alla loro
classificazione su base razziale come gruppo
con fattori ereditari sconvenienti e pericolosi.
L’idea che gli “zingari” fossero pericolosi come
gruppo, perché caratterizzati ereditariamente
da asocialità ed istinto al nomadismo si unì
con un modello di rieducazione coatta che tro-
vò elaborazione implicita ed esplicita durante i
storia e memoria del porrajmos per il tempo presente
28
regimi dittatoriali europei.
In Germania il Porrajmos è stato riconosciuto
soltanto negli anni Ottanta (precedentemente
questa vicenda storica non era considerata
una persecuzione razziale, ma veniva indicata
come una politica di prevenzione del crimine
che quindi non prevedeva risarcimento delle
vittime da parte dello Stato), mentre in Italia il
primo riconoscimento a livello centrale è av-
venuto soltanto il 16 dicembre 2009 presso
la Camera dei Deputati in occasione del set-
tantunesimo anniversario della promulgazione
delle leggi razziali.
E’ dunque evidente che per i rom ed i sinti,
il periodo del post-Auschwitz è stato carat-
terizzato da un prolungato silenzio: non si è
sedimenta la memoria del Porrajmos; i rom
ed i sinti non furono ascoltati al processo di
Norimberga, quando offrirono la propria testi-
monianza non furono creduti, non ottennero i
risarcimenti dovuti alle vittime del nazifasci-
smo, restarono in una condizione di ghettizza-
zione e di negazione dei diritti che li lasciava
privi di parola. Restavano invece in servizio
presso enti pubblici i carnefici, coloro che
avevano stabilito i criteri razziali per l’invio di
rom e sinti verso i campi di concentramento
e di sterminio(tra questi Robert Ritter, Eva Ju-
stin, Adolf Würth e Sophie Erhardt) i principali
esperti della “questione zingara” che ricostru-
irono gli alberi genealogici di tutti i rom e sinti
nel Terzo Reich (furono schedati almeno venti-
mila soggetti) e che anche attraverso misura-
zioni antropometriche ne decretarono l’appar-
tenenza ad una “razza inferiore” equiparando
la “questione zingari” alla “questione ebraica”.
Lo stereotipo che dipingeva gli “zingari” come
un gruppo compatto di nomadi e asociali è ri-
masto dunque attivo e diffuso a livello di cul-
tura maggioritaria anche nel post-Auschwitz.
Siamo perciò dentro una storia della scolariz-
zazione fortemente conflittuale, perché con-
tinua ad inserirsi in un contesto sociale che
relega una minoranza dentro i confini di un’e-
tichetta etnico-razziale fasulla. Nel dopoguerra
sono infatti rimasti evidentissimi gli effetti del
silenzio e della non-memoria (L. Bravi, 2009a).
In Italia, a metà degli anni Sessanta, in condi-
zione di assoluta assenza di memoria sociale
del Porrajmos, iniziava una progettazione pe-
dagogica legata alla “prima pedagogia zinga-
ra” delineata dalla pedagogista Mirella Karpati
ed alla nascita dell’Opera Nomadi. In quel pe-
riodo si conosceva poco del popolo rom e sinti
in Italia, molti restavano gli stereotipi attivi;
l’immagine del “nomade pericoloso” fungeva
ancora da catalizzatore del nomadismo stes-
so: i rom ( spesso erano sinti italiani presen-
ti nelle zone del nord e centro Italia) dediti a
lavori ambulanti cercavano dove fermarsi, ma
venivano costantemente cacciati dai munici-
pi italiani. L’attività di ricerca della pedagogi-
sta si fondò anche sul riferimento ai testi di
Hermann Arnold, un ufficiale medico tedesco.
Nel dopoguerra Arnold era considerato un
“esperto di zingari” e nei suoi testi continuava
a proporre il controllo delle nascite della popo-
storia e memoria del porrajmos per il tempo presente
29
lazione rom e sinti attraverso l’eugenetica. Le
sue posizioni cominciarono ad essere profon-
damente criticate soltanto negli anni Ottanta,
ma fino ad allora i suoi scritti venivano letti da
chi si interessava dell’argomento “zingari” in
tutta Europa.
Nei suoi libri, egli affermava appunto la “pri-
mitività dello zingaro” e l’ “incapacità dello
zingaro di raggiungere un quoziente d’intelli-
genza normale” (Arnold, 1958); nel testo Die
Zigeuner (1965) lo stesso Arnold cita come
fonte i dati e le ricerche fatte da Robert Rit-
ter ed Eva Justin quando entrambi lavoravano
all’interno dell’Istituto di ricerca e di igiene
razziale ed ereditarietà del Reich, centro all’in-
terno del quale avevano elaborato le teorie
sulla pericolosità razziale dello “zingaro” che
avevano portato rom e sinti alla deportazione
verso Auschwitz-Birkenau (H. Arnold, 1965,
259-297); uno degli ultimi paragrafi viene de-
dicato alla confutazione delle accuse penali
rivolte proprio a Ritter e Justin nel dopoguerra
relativamente alla loro responsabilità diretta
nel genocidio di rom e sinti in Germania.
L’incipit al capitolo dedicato al “profilo psico-
logico” degli “zingari” nel primo studio di Mi-
rella Karpati sul mondo rom, intitolato Romanò
Them (1963), richiama anche gli studi di Her-
mann Arnold: Non esistono per ora studi psico-
logici sullo zingarato. Infatti mancano i mezzi e
le possibilità di rilevamento scientifici, sia per
l’inadeguatezza dei reattivi, sia per la difficoltà
di introdursi nell’ambiente zingaro e di coglier-
lo nella sua realtà. Gli studi psico-sociologici
condotti dall’Arnold, da Wernink e dallo Hae-
sler riguardano infatti l’ambiente nomade in
generale e solo di riflesso quello zingaro. Io mi
sono fondata soprattutto sull’osservazione
diretta del comportamento spontaneo, anno-
tando atteggiamenti e reazioni rilevanti nella
quasi totalità dei casi e delle persone esami-
nate (Karpati, 1963, p. 87).
In quel periodo Arnold era considerato un
esperto a livello internazionale e il testo Die
Zigeuner con la sua conclusiva difesa dell’o-
perato di Ritter e Justin durante il Terzo Reich
sarebbe stato edito soltanto due anni più
tardi; in questo senso non si può imputare
a Mirella Karpati una colpa oggettiva nell’u-
tilizzarne la bibliografia, ma questo fatto è
sintomo di un contesto sociale e culturale
da prendere in considerazione: negli anni
Sessanta era talmente assente la storia e la
memoria del Porrajmos che nel momento in
cui, anche in Italia, si comincia ad operare
con l’obiettivo dell’inclusione di rom e sinti, lo
si fa prendendo per buone le posizioni di chi
auspica l’eugenetica e considera l’asocialità
e il quoziente intellettivo inferiore alla media
come elementi caratterizzanti questo gruppo
di persone; tali erano le tesi difese da Arnold
in Vaganten, Komödianten, Fieranten, und
Briganten (Arnold, 1958).
Dott. Luca Bravi
30
Bibliografia in riferimento alle note
Arnold H. (1965), Die Zigeuner, Georg Thieme Verlag, Olten
Arnold, H. (1958) Vaganten, Komödianten, Fieranten, und Briganten; Untersuchungen
zum Vagantenproblem an vagierenden Bevölkerungsgruppen vorwiegend der Pfalz, Ge-
org Thieme Verlag, Stuttgart
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in Studi Emigrazione, XLIII (164)
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Karpati M. (1963), Romanó Them, Missione cattolica degli zingari, Roma
Karpati M., Sasso R. (1976), Adolescenti zingari e non zingari, Lacio Drom, Roma
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Trevisan P., (2005) Storie e vite di sinti dell’Emilia, Cisu, Roma
Tuckermann A. (2005), Denk nicht, wir bleiben hier! Die Lebensgeschichte des Sinto Hugo Höllen-
reiner. Carl Hanser Verlag, München 2005
storia e memoria del porrajmos per il tempo presente
31
IL DISASTRO DELLAPEDAGOGIA ZINGARALuca Bravi, Università Telematica L. da Vinci di Chieti
Dagli anni Sessanta, la politica di espulsione, adottata da quasi tutte le
città settentrionali, rendeva la vita delle famiglie rom e sinte precaria
e impediva ai bambini di poter frequentare in modo continuativo la scuola.
Fu proprio quest’ultimo aspetto a spingere un gruppo di volontari a spe-
rimentare, dapprima a Bolzano e a Milano, le classi speciali “Lacio Drom”
(“buon viaggio” nella lingua romanes), che in pochi anni diventarono oltre
sessanta e divennero la politica di Stato verso un gruppo considerato soprat-
tutto nomade e asociale; in un certo senso lo stato italiano appaltò il compito
della scolarizzazione dei rom all’esterno.
Alla base di quelle classi speciali c’era “la pedagogia zingara” che nel descrive-
re l’intelligenza dei bambini rom e sinti nel 1963 affermava che erano incapaci
di raggiungere un quoziente d’intelligenza adeguato, perciò incapaci di razionali-
tà in quanto appartenenti ad un gruppo considerato in una situazione di costante
deculturazione o addirittura privo di cultura; anche questa un’immagine dello
“zingaro” rimasta costante nel tempo e condivisa con Hermann Arnold.
Negli anni ‘60 e ‘70 “la pedagogia zingara” era diventata una base “certa” su cui
istruire insegnanti da indirizzare alle scuole speciali ed assistenti sociali, reiteran-
do di fatto l’effetto del pregiudizio relativamente a nomadismo e deculturazione dei
rom e dei sinti.
Il tema della deculturazione di rom e sinti è infatti un’altra questione centrale per ca-
pire l’impostazione pedagogica della prima pedagogia zingara e le implicite linearità
con la visione dello “zingaro” diffusa durante la seconda metà del XX secolo e che si
collega al presente; questa lettura si basa sull’idea ancora oggi diffusa che sia esistito
uno “zingaro buono” vissuto prima dell’industrializzazione.
Un soggetto che era inserito, con i suoi mestieri tipici, all’interno del sistema produttivo
e che quindi viveva in armonia con i non-zingari.
Sarebbe stata l’industrializzazione a far crollare questo “incanto” mettendo in crisi i
lavori dei rom e dei sinti e quindi non rendendoli più in grado di garantirsi la sussistenza.
32
I rom ed i sinti non sarebbero stati in grado
di adattarsi alle nuove condizioni economiche
e ne sarebbe seguita la marginalizzazione,
poi il degrado culturale ed infine la necessità
di vivere di espedienti; il passaggio che vie-
ne immaginato sarebbe quello da un periodo
aureo che fu espressione della “originaria cul-
tura zingara” ad un periodo di deculturazione
segnato dalla devastazione della cultura ori-
ginaria.
La pedagogia zingara condivideva questo tipo
di lettura e la portava alle estreme conseguen-
ze: la pedagogista si diceva convinta che la
modernità causava il costante allontanamento
dei rom dalla cosiddetta “cultura ancestrale
zingara” e che questo li avrebbe fatti dissol-
vere come popolo.
Questo tipo di lettura trova una sua linearità
con le prime teorizzazioni in fatto di “questio-
ne zingari” da parte dell’Unità d’igiene razziale
del Reich: prima che questa precipitasse de-
finitivamente nel genocidio di Auschwitz Bir-
kenau, Robert Ritter aveva proposto una netta
distinzione tra “zingari puri” da salvaguardare
e “zingari misti” da eliminare; la lettura dell’U-
nità d’igiene partiva da un contesto di studio
razziale che era evidentemente opposto alle
finalità della prima pedagogia zingara italiana,
ma l’idea che potesse in qualche modo esiste-
re una pura ed incontaminata “cultura ance-
strale zingara” era già attiva nel contesto dei
regimi totalitari.
Nel dopoguerra italiano, l’assenza di storia e
di memoria del Porrajmos a livello europeo, ha
in un certo senso riadattato alcune vecchie e
problematiche visioni sugli “zingari” ripulen-
dole dal riferimento razziale, ma lasciandole di
per sé attive e diffuse perché non si era can-
cellato definitivamente lo stereotipo.
Questo chiarisce come gli interventi educativi
attuati in Italia a partire dalla metà degli anni
Sessanta abbiano influito ben oltre la questio-
ne della scolarizzazione dei bambini, perché
hanno coniato un nuovo vocabolario ed una
nuova modalità di gestione del “problema zin-
gari” che edificò una pedagogia zingara espli-
cita (quella delle classi Lacio Drom) ed una
pedagogia implicita (quella cui si sarebbero
richiamati gli amministratori, le istituzioni, i
dirigenti dei servizi sociali).
L’idea della pedagogia esplicita pensata per
le Lacio Drom voleva innescare, attraverso i
bambini, un processo di cambiamento all’in-
terno della comunità perché, scrive un volon-
tario al tempo, «i condizionamenti tradizionali
del gruppo, quali il sesso, il culto dei morti,
la religione ecc. rendono difficile l’evoluzione
dello zingaro e la sua maturazione sociale.
Tale maturazione è ostacolata inoltre dallo sta-
to di marginalità e di inferiorità in cui si trova a
vivere il popolo nomade».
Il doppio binario che lega educazione e riedu-
cazione, intervento sui bambini e sviluppo de-
gli adulti, si palesa in un altro passaggio dello
stesso documento, dove si afferma: «A causa
della sua cultura lo zingaro è in ritardo, è un
bambino che deve essere aiutato a crescere,
a recuperare il suo gap» (L. Bravi, N. Sigona,
2007).
E’ evidente che scaturiva da queste letture
anche una pedagogia implicita, ad uso e con-
33
sumo di coloro che avrebbero dovuto proget-
tare un luogo dove far vivere rom e sinti, un
nuovo sistema di inserimento sociale, un rap-
porto pacifico tra minoranza e maggioranza.
Per queste persone lo “zingaro” era asociale,
scarsamente intelligente, nomade e primitivo;
era il gergo derivato dalla pedagogia zingara
esplicita, la stessa che parlava di gap culturale
e di nomadismo.
Negli anni Ottanta e Novanta, in Italia i mo-
vimenti a difesa dei rom e dei sinti lottavano
per ottenere un luogo in cui questi gruppi, co-
stantemente allontanati dalle città, potessero
fermarsi. Fu il momento delle leggi regionali
per “la tutela della cultura nomade” che indivi-
duarono nell’idea astratta del “campo nomadi”
il particolare luogo di residenza adatto ai rom
e sinti; questo progetto nasceva come diretta
conseguenza della percezione dello “zingaro”
come “nomade”: «Un’azione concentrica di
ordine educativo, sociale, sanitario ed econo-
mico (formazione al lavoro) - dirà ancora l’an-
tropologo Leonardo Piasere - centrata com-
pletamente sul nuovo campo sosta allestito».
Il campo sosta diventava subito il luogo stra-
tegico in cui si dovevano concentrare le azioni
rivolte all’integrazione effettiva dei rom. Per
vincere le resistenze dei nomadi fu necessa-
rio ricorrere ad un intervento da più fronti, «da
parte delle insegnanti nei corsi, da parte degli
assistenti sociali negli incontri con i capi fami-
glia» e da parte di coloro che seguivano il lavo-
ro nei cantieri dove venivano addestrati i rom e
viene verificata «la loro resistenza alla fatica».
Il campo nomadi diventa emblema ed espres-
sione degli effetti aberranti della pedagogia
zingara implicita: il campo nomadi si so-
stanziava come la soluzione abitativa per gli
“zingari” secondo l’idea che se questi erano
“nomadi” si sarebbero mossi continuamente
di campo in campo; ma lo “zingaro” pedago-
gicamente connotato era anche un “asociale”
da rieducare e dunque quei luoghi di sosta non
potevano che sorgere nelle periferie, in attesa
che la rieducazione portasse i suoi frutti; ma lo
“zingaro” era anche un soggetto pedagogica-
mente dipinto come scarsamente intelligente
ed in preda alle passioni, in pratica un primiti-
vo che non necessita di quei servizi che sono
essenziali per le persone civilizzate.
Fu così che da un contesto di tentata costru-
zione di qualcosa di “positivo”, appesantiti
ancora da una cultura maggioritaria che edi-
ficava progetti e luoghi in base allo “zingaro”
nomade immaginato della fervida fantasia oc-
cidentale, in Italia si finì per dare vita ad un
luogo che sarebbe presto diventato elemento
di segregazione e ghettizzazione.
Chi progettava non aveva uno scambio diretto
con i rom e con i sinti oggetto della propria
progettazione, li si considerava inappellabi-
li perché irrazionali ed i progetti nascevano
senza mai chiamarli in causa, considerandoli
come quei “bambini sprovveduti” che la peda-
gogia zingara aveva contribuito a descrivere.
La scuola, all’interno di questa visione, doveva
il disastro della pedagogia zingara
34
diventare veicolo per la promozione sociale e
spirituale di rom e sinti che, nel processo di
sedentarizzazione in atto, subivano un re-
gresso delineato dall’abbandono della sud-
detta vita nomade che veniva descritta come
elemento fondante della “cultura ancestrale
zingara” ormai in degrado. Si immaginava che
potesse essere la scuola ed il suo indotto a
fornire nuovi valori, tutti da mutuare dalla so-
cietà maggioritaria, essendo lo “zingaro” “in-
capace di vivere la contemporaneità”, cioè il
tempo della post-industrializzazione.
Le classi speciali concludevano la propria
esperienza negli anni Ottanta con scarsi ri-
sultati didattici e pedagogici, ma segnavano
un elemento decisivo: anche se animate da
buona volontà avevano riprodotto e trasmesso
i consueti stereotipi in fatto di “zingari”, facen-
do percepire ai non-zingari che quella mino-
ranza rappresentava un gruppo omogeneo di
nomadi e asociali da rieducare. Reinseriti nelle
classi ordinarie, montava quindi la rivolta dei
genitori che non volevano degli “zingari” come
compagni di banco dei propri figli.
La storia della scuola allora ci insegna che non
si tratta semplicemente di una questione di
didattica o di definire la popolazione di piccoli
rom e sinti in toto come segnata dalla dislessia
o da disturbi specifici d’apprendimento indivi-
duando tecniche ad hoc per intervenire.
La scuola da sola non potrà mai invertire la
rotta ed operare in senso positivo là dove i rom
e i sinti, dipinti nuovamente come nomadi ed
asociali, vengono sottoposti a continue misure
di sgombero e rimozione dal tessuto cittadino.
C’è dunque in gioco una questione culturale
prima che di didattica quando si parla di co-
struire le premesse adeguate alla scolarizza-
zione dei rom e dei sinti ed è una questione
che attiene strettamente alla scuola, perché
legata alla cultura ed alla decostruzione di
facili stereotipi rimasti attivi nel tempo post-
Auschwitz ed espressi da pedagogie esplicite
ed implicite.
Non si indirizza semplicemente alle classi al
cui interno si ha la presenza di rom e sinti,
ma è un percorso culturale rivolto a ragazze
e ragazzi del presente, al di là della propria
appartenenza etnica.
Lo strumento è la conoscenza storica, è la
fuga dalla costruzione di categorie sociali
massificanti e stereotipate tornate attualmen-
te in voga.
Ce lo insegna e ce lo ripete la legislazio-
ne relativa al Giorno della Memoria che può
anch’esso essere alla base delle linee per la
scolarizzazione al positivo dei rom e dei sinti.
Questa è la premessa per la creazione di un
contesto culturale, sociale e politico inclusivo,
che porti al riconoscimento dei rom e dei sinti
come soggetti politici attivi, in grado di sedersi
al tavolo comune della progettazione, anche
quando si parla di scuola; non più inappellabili,
non più appesantiti dall’etichetta di “nomadi”
e di “asociali”, le due medesime caratterizza-
zioni che li portarono nei campi di concentra-
mento e di sterminio, rimaste attive all’interno
dei progetti pensati per una loro rieducazione
coatta e che segnalano il più lineare dei per-
corsi d’esclusione camuffati, loro malgrado,
da forme di educazione inclusiva.
Dott. Luca Bravi
35
UN’ IDEA ROM PER USCIRE DALLALOGICA DEI CAMPI NOMADI
Idea Rom è un’associazione di promozione sociale nata a Torino da
pochi anni, con l’obiettivo di favorire l’integrazione e la partecipazione
attiva della popolazione Romanì all’interno della società italiana.
Nel territorio torinese Idea Rom è l’unica associazione formata da Rom
ed ha una forte connotazione di genere, essendo nata ad opera di un
gruppo di donne appartenenti alle diverse comunità presenti sul terri-
torio torinese. La sua Presidente è una storica mediatrice culturale di
Torino con un’esperienza ventennale nel lavoro a contatto diretto con le
varie comunità Rom torinesi.
Gran parte del lavoro dell’associazione è infatti costituito da lavoro
di campo, a diretto contatto con le famiglie e i singoli utenti. Tramite
un’azione di mediazione e orientamento, si cerca di sensibilizzare le
famiglie su determinati tipi di problematiche ma soprattutto si tenta di
indirizzarle sul territorio cittadino in modo da poterle rendere autonome.
Lavoro, casa, salute scuola. Sono questi gli ambiti di intervento che Idea
Rom decide di priorizzare. Tasseli di un unico puzzle che devono com-
baciare e complementarsi per poter raggiungere un livello di qualità di
vita degno.
Nell’ideale comune il Rom è visto come quella persona che conduce
uno stile di vita nomade e precario, che non vuole lavorare né stabi-
lizzarsi. Ma molti non sanno che un gran numero di questi “nomadi”
che stanziano nelle zone marginali delle nostre città italiane, sono qui
da anni. Molti non sanno come può essere dura la vita priva di servi-
zi all’interno di un campo non autorizzato sorto spontaneamente e in
continua espansione. Molti non sanno che in questa variegata massa
umana che semplicisticamente si denomanita con la parola Rom c’è chi
invece ha voglia di lavorare, di avere un tetto sulla testa e assicurare
una vita migliore ai propri figli.
36
Idea Rom si oppone fermamente al concetto di
“Campo Nomadi”. La casa e il lavoro devono
essere un diritto di tutti. Si oppone anche ai
progetti di tipo assistenzialistico che hanno
abituato i Rom all’idea che tutti i servizi deb-
bano essere portati nelle aree sosta. Vuole fa-
vorire l’integrazione e contrastare i pregiudizi,
ma per fare questo è necessario agire affinchè
le persone che vivono nei campi nomadi impa-
rino a uscire e a relazionarsi con il resto della
società. I campi Rom sono simili a dei ghetti, a
dei lager, dove le comunità Romanì si abitua a
vivere, o sopravvivere, in attesa che qualcuno
risolva i loro problemi.
Tra Rom e gagè sembra esistere quindi un
muro che purtroppo alcuni hanno interesse a
mantenere ben alto e invalicabile. C’è chi finge
di non vedere e c’è chi riconosce nello stato
di “emergenza Rom” la giustificazione della
propria esistenza.
L’obiettivo dei progetti promossi da Idea Rom è
quindi quello di far uscire le persone dal cam-
po, renderle autonome e protagoniste attive
della costruzione di una vita diversa.
A PARTIRE DALLE GIOVANI GENERAZIONI
I bambini di oggi sono gli adulti di domani e
per questo motivo si cerca di investire sui più
piccoli e sui giovani perchè possano rappre-
sentare un agente di trasformazione in vista
di un futuro migliore. Proprio per questo Idea
Rom lotta per assicurare che i diritti dei più
piccoli siano rispettati, acominciando dal dirit-
to a ricevere un’istruzione.
La scuola non solo è un obbligo, ma è anche
un diritto. Rappresenta il secondo agente di
socializzazione dopo la famiglia e per un bam-
bino Rom il primo passo verso l’integrazione
nella società maggioritaria.
In questo senso, preoccupazione di Idea Rom
è quella di facilitare le iscrizioni scolastiche
per le famiglie Rom e assicurare la frequen-
za regolare dei bambini. Tramite un’attività di
accompagnamento, orientamento e mediazio-
ne, l’organizzazione si propone di avvicinare
scuola e famiglie Rom perché imparino a par-
larsi senza l’intervento di agenti esterni.
Perchè l’ambiente scolastico non si trasformi
in un luogo di discriminazione è attenta anche
alla qualità della frequenza scolastica e inter-
viene per verificare se vi siano problemi nel
percorso di apprendimento.
Il bambino Rom non deve essere isolato, por-
tato avanti come una zavorra che deve essere
al più presto gettata in mare aperto. Al contra-
rio dev’essere seguito e compreso nella sua
specificità, adattando l’insegnamento al suo
vissuto di vita personale. Don Milani diceva:
«Qualche volta viene voglia di levarseli di torno
(i ragazzi più difficili). Ma se si perde loro, la
scuola non è più la scuola. È un ospedale che
cura i sani e respinge i malati».
Grazie a progetti promossi in questo senso, si
sono raggiunti grandi risultati in quanto a fre-
quenza scolastica di bambini Rom. Grazie al
progetto “Diklem Piccoli Rom”, realizzato nelle
zone a ridosso dei più grossi insediamenti di
Torino, nell’anno 2010/11, la frequenza scola-
stica è aumentata del 20%.
L’anno dopo, grazie al progetto “Aerodrom” re-
alizzato nel quartiere di Mirafiori, la frequenza
media dell’intero anno scolastico si è attestata
al 70%, toccando la punta nel 90% nel perio-
do invernale in cui, tra l’altro, si stavano ef-
37
fettuando sgomberi forzati degli insediamenti
spontanei.
Un aumento della frequenza scolastica da par-
te di minori che vivono in strada è un risultato
tangibile di un processo di sensibilizzazione
delle famiglie tramite la costruzione di rela-
zioni di fiducia reciproca. Una fiducia che può
garantire sostenibilità nel tempo.
LAVORO? YES, WE CAN!
Il lavoro rende degna la persona ed è il pri-
mo passo verso l’emancipazione. Per questo
parte del lavoro di Idea Rom si incentra sulla
formazione e l’inserimento lavorativo dei Rom
che vivono in situazione di disagio e carenza
estrema ai margini della città.
Tramite i progetti “We Can” e “Clean” (2011-
2012) si è realizzata un’attività di sostegno
all’orientamento e all’inserimento lavorativo
dei Rom. La finalità delle iniziative è stata la
concreta proposta di opportunità lavorative
per Rom privi di occupazioni regolari, con un
occhio di riguardo alla componente femminile
delle diverse comunità presenti nel territorio. I
progetti, realizzati con il contributo della Fon-
dazione Compagnia di San Paolo, sono riusciti
a realizzare 35 inserimenti lavorativi. Con “We
Can” sono stati svolti 18 tirocini formativi, dei
quali 4 si sono tramutati in vere e proprie as-
sunzioni.
Risultati simili, realizzati nello stesso territorio
e con lo stesso bacino di destinatari, erano stati
raggiunti anche da altri importanti progetti (ci-
tati ripetutamente tra le buone prassi italiane),
che però avevano usufruito di budget di oltre
20 volte superiore. La relativa modestia dei
risultati (in relazione agli investimenti econo-
mici) in qualche caso era stata giustificata con
la scarsa adesione dei Rom ai percorsi d’inte-
grazione. Da sottolineare che nel nostro caso
più del 75% della disponibilità economica dei
progetti sui temi del lavoro è stata destinata ai
Rom beneficiari diretti dell’iniziativa.
ALLE RADICI
Idea Rom ha mosso importanti passi in mate-
ria di integrazione e pari opportunità, arrivando
ad ottenere una Targa Speciale da parte del
Presidente della Repubblica come riconosci-
mento per l’operato svolto.
Ma è possibile ottenebere risultati effettivi an-
che con limitate risorse economiche? Secondo
Idea Rom si.
Basta focalizzare l’attenzione su quelle che
sono le problematiche reali, cercando di an-
dare alla loro radice, anche se questo significa
compiere un lavoro più difficile, puntando sulla
qualità degli interventi, cercando di operare in
modo efficace ed efficiente. Spesso si prepa-
rano progetti di qualsiasi tipo, con l’obiettivo
dei finanziamenti e dimenticando, talvolta,
come gli interventi dovrebbero costituire una
delle risposte ai concreti bisogni dei Rom.
Le risorse disponibili dovrebbero essere utiliz-
zate con attenzione, focalizzandosi sulla riso-
luzione del problema individuato piuttosto che
sulla promozione delle attività.
Poi occorrerebbe considerare la sostenibilità
degli interventi e per fare questo un elemento
fondamentale è la consapevolezza e la parte-
cipazione alle iniziative da parte dei beneficiari
stessi.
un idea rom per uscire dalla logica dei campi rom
38
Un proverbio dice: “Regala un pesce e sfame-
rai un uomo per un giorno; insegnagli a pesca-
re e lo sfamerai per tutta la vita.”
Se si continua a portare i servizi nei campi
nomadi, le persone resteranno dipendenti dai
progetti e prigioniere di un sistema di tipo as-
sistenzialistico che non eliminirà la discrimi-
nazione nei confronti dei Rom. Devono aprirsi
le porte di questi ghetti e occorre varcare la
frontiera tra i margini e la città, impararando
a viverla per diventarne così cittadino. Come
tutti gli altri.
di Vesna Vuletic’ e Laura Caviglia
IDEA ROM Onlus
c/o Centro Studi Sereno Regis
via Garibaldi 13 - 10122 Torino
fax +39.011.82731123
www.idearom.it - [email protected]
MI CHIAMO BLANKA
Mi chiamo Blanka, sono cittadina rom Slo-
vacca, in Italia da otto anni e non ho mai
subito discriminazioni.
Ho visto tanta sofferenza ed ingiustizia contro
la popolazione rom nel mio paese, in Italia e
tutta Europa.
Non riesco a rimanere ferma, senza far nulla,
ed ho cominciato scrivere per far conoscere la
verità, visto che negli ultimi anni la condizione
della popolazione rom è peggiorata.
Gran parte delle famiglie rom in Slovacchia
hanno studiato, vivono nelle case eppure su-
biscono discriminazioni. Dicono che i rom non
vogliono lavorare e le persone rom sono di-
scriminate nella ricerca del lavoro.
Nel mio paese, in Slovacchia, siamo molti i
rom che lavoriamo, che abitiamo nelle case,
i nostri figli sono puliti e educati eppure sen-
tiamo forte la pressione della discriminazione
e segregazione nelle scuole, in ospedale, nel
lavoro, ecc. Questa pressione è il risultato del-
le bugie che si inventano.
Voglio dire al Governo Italiano ed al Governo
Slovacco che le persone rom sono persone
simili a tutte le persone del mondo e che la
politica non può usare i rom per cercare di au-
mentare il consenso elettorale, e lo fate per
farvi dire dai cittadini elettori che siete bravi,
anche se non rispettate le regole democrati-
che.
Non riesco capire perché odiate tanto le per-
sone rom, eppure sono persone, non animali.
Spesso in diretta TV ci sono persone che pian-
gono perché in famiglia qualcuno ha perso il
lavoro, i telespettatori sono tristi (qualcuno
piange).
Quando in diretta TV ci sono persone rom, in
particolare bambini, che piangono per le dif-
ficoltà e la discriminazione, nessuno si preoc-
cupa (qualcuno ride).
Perchè tanto odio?
Prendersela con i rom oggi è diventato una
moda, in particolare nei periodi elettorali come
per le prossime elezioni politiche in Italia ed in
Slovacchia.
Blanka Balazova
39
PER 30 ANNI NON HO MAI LAVORATO
“Per trent’anni non ho mai lavorato.
Niente. Ora che ho avuto la possibi-
lità di farlo, devo ammettere che mi manca.
Molto”. Giovanni (lo chiameremo così perché
ha chiesto di non mettere il suo nome vero)
è un rom napoletano, con alle spalle una vita
in roulotte tra Napoli, Milano, Genova e Torino.
Parla piano, con lunghe e pensierose pause e
l’inconfondibile accento partenopeo. La sua
vita nell’ultimo anno è cambiata radicalmente:
ha trovato un lavoro, una casa e guarda con
velata fiducia al futuro.
Ma andiamo con ordine. Giovanni è arrivato a
Torino con la moglie e le due bambine piccole
da oltre un anno. Vivono in camper e la situa-
zione economica è, usando un eufemismo,
precaria. C’è la crisi e i soldi languono. “Ven-
devamo rose in via Garibaldi ma poca roba.
Oramai si fa attenzione ad ogni singolo euro”.
Un aiuto, nella difficoltà, arriva dall’associa-
zione Idea Rom Onlus. Costituita nel 2009 da
donne Rom delle comunità presenti nel tori-
nese, Idea Rom lavora con le diverse realtà
per promuovere l’integrazione sociale. Tra le
tante iniziative, l’organizzazione ha dato il via
nell’ottobre 2011 a “We Can”, un progetto re-
alizzato per favorire l’inserimento nel mondo
del lavoro per Rom privi di occupazione (fi-
nanziato dalla Fondazione Compagnia di San
Paolo). Diciotto sono state le borse di lavoro
attivate e quattro persone sono state inseri-
te in modo stabile nelle rispettive aziende o
realtà lavorative. Un successo vista anche la
situazione italiana dove il precariato sembra
quasi un privilegio.
“Uno degli scogli da superare – mi spiegano le
attiviste di Idea Rom - è la diffidenza di uomini
e donne verso un mondo che li ha abituati a
non sentirsi all’altezza. Talvolta la segrega-
zione ha portato molte di queste persone a
immedesimarsi nella condizione di subuma-
ni, una condizione imposta dall’esterno, dalla
società”. Questa svalutazione di sé nasce sia
dalla crescente intolleranza (si veda il pogrom
della Continassa del dicembre 2011) sia, pur-
troppo, da un atteggiamento eccessivamente
paternalistico di alcune istituzioni. Per dare
una svolta a una situazione decisamente oltre
il sostenibile, sembrerebbe preferibile adotta-
re un approccio che responsabilizzi i Rom di
fronte ai loro diritti e doveri. Dunque non offrire
40
dei servizi emergenziali ad hoc ma spiegare
alle diverse comunità come usufruire dei ser-
vizi accessibili ad ogni cittadino, senza diffe-
renziazioni.
Prigioniero di una sensazione di inadeguatez-
za, Giovanni in prima battuta rifiuta la proposta
di Idea Rom di lavorare come apprendista per
una cooperativa che lavora nei cimiteri. “Non
avevo mai lavorato e non credevo di essere in
grado di alzarmi tutti i giorni e farmi otto ore
consecutive. In un cimitero poi!”. Non sarebbe
la prima volta che Giovanni rifiuta un lavoro.
“Quando ero ragazzino mi avevano offerto un
lavoro da portinaio a Napoli ma non mi sem-
brava una vita adatta a me”. Vendere penne,
raccogliere ferro, fare l’elemosina e qualche
furtarello sono le occupazioni principali di Gio-
vanni. “Ora mi rendo conto che quella non era
vita. Tanti sacrifici pericolosi, torni a casa con
la paura degli sgomberi. Sei sempre in movi-
mento”. Nelle sue parole si legge il rammarico
per aver perso anni della sua vita, rincorrendo
situazioni che oggi gli sembrano insostenibili.
Non c’è condanna né autocommiserazione,
piuttosto la consapevolezza di aver lasciato
per strada delle possibilità che oggi invece
vuole cogliere. “Per fortuna ho cambiato idea
sul lavoro al cimitero e ho accettato. Mi sono
detto, posso anche fallire ma almeno ci devo
provare”.
Non so quanti di noi non si farebbero remore
nel decidere di lavorare in un cimitero. O come
direbbe il ministro Fornero, sarebbero choosy
nel dover affrontare un’esumazione. “Non vo-
levo toccare i defunti all’inizio e ammetto che
stare al cimitero quando scendeva il buoi mi
faceva paura”, ricorda Giovanni. Poi, gradual-
mente, tutto entra nella routine quotidiana, ci
si abitua e anche un luogo apparentemente
poco ospitale per i vivi, diventa un normale
posto di lavoro. I datori di lavoro apprezzano
la dedizione e l’impegno di Giovanni tanto da
nominarlo capo di una squadra.
Gli affidano le chiavi del cimitero e si fidano
di lui. “La prima busta paga l’ho incorniciata
- racconta sorridente – certo quando ho visto
quanto trattengono di tasse, ho cominciato a
capire perché la gente si lamenta del fisco”.
Non è solo il primo impiego a cambiare la quo-
tidianità di Giovanni. Con l’aiuto dell’associa-
zione Idea Rom, con la moglie e le bambine
riesce a sistemarsi in una casa. Un’altra prima
volta per lui. “I miei parenti hanno delle case
giù a Napoli ma io ho sempre vissuto in rou-
lotte, con tutta la famiglia”. All’inizio le mura
dell’appartamento, lo soffocano. “I primi giorni
non riuscivo a dormire. Mi mancava l’aria. Sa-
pevo però che era la cosa migliore per la mia
famiglia e piano piano mi sono abituato”.
Quando gli chiedo cosa gli manca del suo
passato, risponde la famiglia. “Ero abituato
ad avere attorno a me tutti i parenti e mi pia-
ceva questa sensazione di vivere tutti sempre
a contatto. Comunque non tornerei indietro.
Questo è il futuro che voglio per le mie figlie”.
Il suo contratto è finito a settembre e a di-
cembre dovrebbe rinnovarglielo. Giovanni ha
trovato una sua dimensione. “Sento sempre
i miei colleghi, il mio capo. Siamo rimasti in
contatto e mi chiedono sempre quand’è che
torno a lavorare con loro”. Lui aspetta fiducio-
so con la volontà di andare avanti sulla nuova
strada che si è costruito.
di Daniel Reichel e Giulio TaurisanoIDEA ROM ONLUS
41
U CHAVURÒBAMBINO EMOTIVAMENTE INTELLIGENTE
In risposta ai limiti dei test psicometrici, for-
mulati per valutare l’intelligenza umana, evi-
denziati a partire da Piaget (1947), la nuova
concezione dell’intelligenza emotiva è stata
elaborata come meta-abilità, ossia come una
capacità che consente di servirsi di altre capa-
cità considerate superiori, attraverso la gestio-
ne dell’esperienza emotiva. Le diverse abilità
di cui si compone sostengono la salute men-
tale ed il benessere psicosociale del soggetto.
Nella definizione di Daniel Goleman, l’intelli-
genza emotiva si fonda su due tipi di compe-
tenza, una “personale” – centrata sul sistema
dell’autocontrollo - e l’altra “relazionale” – le-
gata alla gestione dei meccanismi che ciascu-
no mette in atto nel rapportarsi con gli altri.
Queste due competenze sono particolarmen-
te esercitate dal chavurò, il bambino Rom, sia
nell’adozione di un comportamento fortemen-
te imitativo (e quindi controllato) dei ruoli, de-
gli atteggiamenti, delle modalità d’azione dei
genitori (ma anche diversificato tra ambiente
familiare e della comunità, rispetto al mondo
esterno dei gagé), ed allo stesso modo diver-
samente attento ai rapporti prossemici verso
l’adulto di riferimento od alla comunicazione
con il gagiò.
A fronte di una società poco disponibile alla
solidarietà ed alla valorizzazione delle diffe-
renze, fortemente competitiva, violenta e fra-
gile al tempo stesso, le cui radici affondano
negli stereotipi e nei pregiudizi, e che comu-
nica soprattutto utilizzando la ratio per avere il
controllo di ansie e timori, proporre l’alternati-
va di una comunicazione fatta con il cuore, per
aprirsi al cuore dell’altro, significa praticare la
cultura del dialogo, teorizzare l’uguaglianza
nella diversità, aprire la strada al riconosci-
mento della parità dei diritti.
Tradizionalmente e culturalmente quella del
bambino Rom è un’identità forte, benché in
evoluzione. Ciò che comunemente porta a de-
durre l’emozione come un comportamento di
risposta profondamente legato alle motivazio-
ni da esso dipendenti, porta il chavurò a predi-
ligere le manifestazioni motorie dell’emozione
(teoria comportamentistica della motivazione
profonda del comportamento).
Gli atteggiamenti che ne derivano spazia-
no dall’evitamento all’attaccamento fisico,
dall’aggressione alla fuga, dalle posture pro-
vocatorie o di chiusura (tipica quella a riccio),
all’espressione del viso soprattutto degli oc-
chi. La mancanza di elementi di lettura di tali
sintomi nella professionalità dell’insegnante
ha portato spesso a scambiare per irrequie-
42
tezza o aggressività incontrollabili una dispe-
rata richiesta d’aiuto, uno stato di disagio che,
in condizioni normali, notoriamente il bambino
Rom vive nei primi tempi del suo inserimento
nell’ambiente scolastico, a volte così profon-
damente lontano dal modello educativo della
famiglia. Del resto, se è vero che l’emozione
dà colore e sapore alla vita, dall’altra essa è
sintomo di disagio e turbamento, se non di
grande conflitto, rispetto ad un atteggiamen-
to razionale che promette controllo e dominio
dell’uomo su di sé e sulla realtà.
C’è una forte componente emotiva nel lega-
me di simbiosi e di amore tra il bambino Rom
con la conoscenza e la natura. Ma attenzione
a non cadere nell’errore di contrapporre ad un
rapporto di tutto rispetto e di ammirazione le
immagini del degrado ambientale dei cam-
pi d’accoglienza, dove niente è di nessuno e
dove ad essere marcatamente presenti sono
le frontiere di recinzione. I rom invece da sem-
pre vivono il ritmo delle scadenze stagionali
che continuano a determinare il loro orologio
biologico e le loro attività.
L’emozione è vissuta in modo altrettanto per-
sonale nell’esperienza artistica. Molti sono i
bambini rom che imparano a suonare fin da
piccolissimi e continuano a farlo da adulti,
spesso senza conoscere uno spartito o senza
poter studiare la musica. Una volta cresciuti il
lirismo della loro melodia trova origine nelle
esperienze di viaggio e dal contributo di una
tipica sensibilità che viene valorizzata e rivi-
talizzata dalla propria tradizione, per diventare
espressione profonda dell’esistenza, mezzo
di comunicazione di valori etici e culturali e
all’occorrenza “mezzo di deconcentrazione
psicologica”, di liberazione dalle repressioni.
La carica emotiva della musica di tutti va ad
essere oltre e al di là del solo mezzo di espres-
sione profonda di intime sensazioni; nella sto-
ria del Rom è anche un mezzo di difesa, di
sfogo, di liberazione da una realtà che spesso
non si lascia compenetrare, o lo fa incuneando
nei propri sentimenti un innato senso di libertà
che con la musica sprigiona e distende pau-
re, timori, diffidenze, tristezze, gioie e amori.
E l’emozione musicale s’accompagna ad una
grande dicotomia: una produzione con conno-
tazioni di allegria, propria dell’indole gioiosa
romanì ed una musica con connotazioni di
tristezza e di dolore, che non è dello spirito
del Rom, ma appartiene alla storia delle sue
persecuzioni.
L’emozione trova espressione negli stimoli dati
dalla narrazione e dal narrarsi, dalla simula-
zione dei giochi di ruolo o nell’affettività. Sono
modi diffusi tra i bambini, che i piccoli Rom
vivono in un ambiente familiare lontano da di-
vieti e costrizioni e dal timore delle punizioni.
Nulla (che non sia riconducibile ai riti tradizio-
nali) è programmato o preordinato nella vita
dell’adulto come in quella del bambino, ma
ogni giorno è un giorno da organizzare, anche
se l’attività è sempre la stessa. Perché qual-
siasi evento o attività, anche l’apprendere o
l’insegnare, sono sempre ricondotti a mezzo
dinamico dell’essere mobili, non necessaria-
mente fisicamente, comunque frutto dell’in-
stabilità imposta.
Psicologia, antropologia, etnografia sono
scienze che ci insegnano come un comporta-
mento stia in stretto rapporto con le motiva-
zioni, dal quale esse dipendono (studio, perchè
43
devo imparare ed essere promosso). Nel caso
del chavurò è lo stesso comportamento ad es-
sere determinato dall’esistenza di motivazioni
diverse (non posso far dispiacere alla mam-
ma, allora imparo). Il rapporto empatico è una
chiave indispensabile per arrivare al suo cuore
ed è spesso legato al desiderio di compiacere
alla propria maestra o al genitore (motivazio-
ne), pur nutrendo uno scarso o nessun interes-
se per un argomento od un’attività.
Lo stretto legame esistente fra i Rom e la loro
cultura con l’intelligenza emotiva è ulterior-
mente chiarito dall’etimologia di riferimento,
spiegata da Walter Fornasa che ne sottoli-
nea la valenza del “portar fuori” (ex-motus),
dell’insegnare, cioè del “dare segno” o signi-
ficanza. La cultura romanì è tradizionalmente
fondata sull’evoluzione sociale dei miti, cui va
riconosciuto il carattere di emozioni collettive,
e sui riti tramandati in Italia e altrove dai diver-
si sottogruppi Rom. Il kris – che rappresenta
storicamente il tribunale dei saggi – eleva la
più alta delle emozioni, la saggezza, a stru-
mento d’insegnamento e d’educazione mora-
le, ambientale, economica del giovane attra-
verso la riflessione, il buon senso e la gestione
dei conflitti.
Il bambino cresce dunque gioioso, in un am-
biente protetto, fino al suo primo contatto con
l’esterno, con i non Rom.
Il malessere educativo si manifesta con il suo
inserimento a scuola, quando vengono a man-
care la conoscenza reciproca, ovvero la cor-
rispondenza tra i due modelli di educazione:
quello della scuola e quello della famiglia. Di
conseguenza il problema diventa allora capire
che cosa si rompe in quel momento nel rap-
porto tra emozione-conoscenza-interazione
e soprattutto quali tipi di risposte può e deve
dare l’istituzione.
Il primo passo da compiere è “prestare una
maggior attenzione alle competenze sociali
ed emozionali di insegnanti ed alunni”, avendo
cura di investire nella formazione di compe-
tenze affettive relazionali degli stessi inse-
gnanti. L’importanza dell’impatto emotivo nel
contesto educativo consiglia di trasferire le
emozioni nella scuola delle discipline tradizio-
nali e in attività parallele.
Un secondo intervento deve partire dalla
considerazione che la scuola è un luogo di
comunicazione e d’incontro. Una corretta in-
terrelazione è attenta alle modalità tipiche
della cultura romanì. “Lavorare pertanto sugli
stimoli culturali crescenti del bambino e sulle
sue motivazioni” può confermarsi un sistema
valido per trovare gli strumenti dell’intelligen-
za emotiva e poter intervenire in funzione del
suo successo formativo, ed “adottare” subito
dopo il criterio della problematizzazione dei
contenuti (problem solving), sempre attuale e
praticato nella quotidianità della sua esperien-
za di bambino.
Il piacere di ascoltare e di raccontarsi, l’uso
ricorrente dell’immaginazione e del dare spa-
zio e memoria a vecchie storie sono sempre
presenti nel suo essere e vivere da Rom, sot-
tolineano l’efficacia degli stimoli e devono di-
ventare centrali nei metodi di insegnamento /
apprendimento e di stesura del curricolo.
u chavurò
44
Ciò che in questo contesto mi preme sottoline-
are rispetto alla proposta operativa (educazio-
ne alla comunicazione/relazione, intervento
sugli stimoli delle emozioni, problematizzazio-
ne dei contenuti) è ciò che riguarda un sistema
di verifica della comprensione a scuola che sia
estensibile a tutti gli alunni.
L’esecuzione di esercizi analoghi a quel-
li adottati ad esempio durante le lezioni non
offrono alcuna garanzia ed inducono in molti
casi ad una valutazione errata del livello di
conseguimento degli obiettivi. I bambini, so-
prattutto quelli che appartengono ad un am-
biente linguistico culturale diverso o deprivato,
apprendono spesso in modo meccanico; la
memorizzazione è temporanea, quindi non ri-
escono a metabolizzare le conoscenze. Anche
le domande rituali di verifica con la risposta
presente nel testo non garantiscono un ap-
prendimento significativo, riconducibile cioè
alla cultura d’appartenenza. E’ invece un si-
stema che banalizza lo stesso apprendimento
ed assicura di contro risultanti esemplari a chi
risponde all’insegnante secondo il modello del
suo insegnamento.
Il metodo più efficace sembra essere quello
di una forma conversazionale controllata, an-
dando a ragionare insieme sui rapporti cau-
sa-effetto, sui risultati ottenuti, dove l’errore
venga ad acquistare la sua valenza di criterio
apprenditivo per uno studio attivo.
Diversamente l’errore di valutazione dell’inse-
gnante diventa causa, o concausa, dello scar-
so successo scolastico dell’alunno.
Se poi tali attenzioni ci vengono parimenti in
aiuto della valutazione dei risultati dell’intera
classe, anche il più sprovveduto dovrà convin-
cersi che, nella loro ricchissima diversità, tutti
i bambini, autoctoni o stranieri, Rom o diver-
samente abili, alla fine sono prima di tutto dei
bambini.
Giuliana Donzello
Bibliografia di riferimento
GOLEMAN, D., Intelligenza emotiva, Rizzoli,
1997
FORNASA, W., Tu chiamale se vuoi…., Atti
del Seminario Nazionale di Studi “Intelligenza
emotiva e scuola”, Milano 14-15 dicembre
1998, Scholé Futuro
SALOMONE, M., La scuola che emozione, Atti
del Seminario Nazionale di Studi “Intelligenza
emotiva e scuola”, Milano 14-15 dicembre
1998, Scholé Futuro
LE CAPRIOLE
Di fronte a bilanci pubblici difficili, disoccu-
pazione incalzante, partiti che mostrano
tutto il loro fallimento, ecco giungere dal cielo
una questione che accomuna tutti, quella del-
la popolazione romanì, che fa sentire uniti ed
appartenenti ad un unico partito ed una razza
migliore, e soprattutto non fa più litigare per-
ché attenua tutti gli altri dolori.
Fino a quando si sazieranno e si accecheranno
di “motti incantatori”?
Fino a quando “i motti incantatori” faranno
presa sulla gente?
u chavurò
45
Fino a quando saranno capaci di non vedere
loro stessi dall’altra parte?
Non voglio convincere alcuno a guardare con
occhi diversi la diversità ed immaginare che
domani tuo figlio può essere quel bambino
ROM che oggi soffre.
La peculiarità di certe disquisizioni attraenti è
che si realizzano sempre quando ci sarebbe
altro e di più grave entità da analizzare e da
risolvere.
Quando sento dire: “non sono razzista ma…”
allora mi preoccupo al punto da farmi pensare
al Cristo accampato nell’orto del Getsemani,
sgombrato dalle guardie di Pilato e voglio
citarlo visto che dichiarate di adorarlo.
Quando il figlio dell’uomo verrà nella sua glo-
ria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono
della sua gloria. Davanti a lui verranno raduna-
ti tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri,
come il pastore separa le pecore dalle capre,
e porrà le pecore alla sua destra e le capre
alla sinistra.
Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua
destra: “Venite, benedetti del Padre mio, rice-
vete in eredità il regno preparato per voi fin
dalla creazione del mondo, perché ho avuto
fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto
sete e mi avete dato da bere, ero straniero e
mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, ma-
lato e mi avete visitato, ero in carcere e siete
venuti a trovarmi”.
Allora i giusti gli risponderanno: “Signore,
quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo
dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato
da bere? Quando mai ti abbiamo visto stranie-
ro e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo
vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o
in carcere e siamo venuti a visitarti?”.
E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”.
Poi dirà anche a quelli che saranno alla sini-
stra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuo-
co eterno, preparato per il diavolo e per i suoi
angeli, perché ho avuto fame e non mi avete
dato da mangiare, ho avuto sete e non mi ave-
te dato da bere, ero straniero e non mi avete
accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e
in carcere e non mi avete visitato”.
Anch’essi allora risponderanno: “Signore,
quando ti abbiamo visto affamato o assetato o
straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti
abbiamo servito?”
Allora egli risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me”.»
“Tutto ciò che ha valore nella società umana dipende dalle opportunità di progredire che vengono accordate ad ogni individuo.”(Albert Einstein)
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LA POPOLAZIONE ROMANÌ
Rom, sinti, zingari, nomadi, viaggianti, gio-
strai, ecc. tanti termini utilizzati in modo
dispregiativo per puntare il dito verso una po-
polazione poco e mal conosciuta.
Nel corso del 1° Congresso della Romani Union
Internazionale svoltosi a Vienna a partire dal 8
aprile 1971 erano presenti rappresentanti del-
la popolazione Romanì di quasi tutti i paesi del
mondo. In questa occasione si è condiviso la
bandiera della popolazione romanì, l’inno Ge-
lem gelem, ed il nome Rom (romanì, romanò,
romanipè, ecc.)
Il mondo romanó oggi è costituito essenzial-
mente da cinque grandi comunità: Rom, Sin-
ti, Kale, Manouches e Romanichals, un’unica
lingua, il romanès o romanì chib, e sono stati
classificati circa 18 dialetti.
Rom, Sinti, Kalè, Manousches, Romani-
chels sono etnonimi e significano essenzial-
mente uomo e, da un punto di vista generale,
possono essere considerati, fra loro, sinonimi,
ovvero Rom è l’etnonimo originario e tutti gli
altri sono dei derivati.
Gli etnonimi Rom (sostantivo invariabile) e
Roma (plurale di Rom) sono quelli più larga-
mente usati fra le comunità romanès di tutto
il mondo e derivano dal termine Ûom che de-
signava nei territori persiani un gruppo etnico
eterogeneo d’origine indiana.
Gli Sinti, singolare Sinto, deriverebbero il loro
nome da Sindhi ovvero la popolazione che
viveva nella regione del Sind a Nord ovest
dell’India (oggi in Pakisthan). Quindi il termine
Sinto è un toponimo (nome del luogo).
Sinti e Rom parlano il romanès ed è la ragion
per cui i termini Sinto e Rom sono da conside-
rarsi etnonimi che vanno considerati sinonimi,
non vanno separati come se si trattasse di due
popoli differenti.
I Kale o Cale derivano il loro nome dall’agget-
tivo hindi kŠlŠ che significa nero.
Per Kale si intendono le comunità romanès
della Finlandia e del Galles, mentre con Calo
e Calão si designano rispettivamente le comu-
nità romanès della Spagna e del Portogallo. In
Brasile esistono gruppi romanès che si auto-
determinano come Kalãos così come in Iraq e
in Africa del Nord (Algeria) si designano come
Kaulja.
I Manouches derivano il loro nome dal sàn-
scrito manuÒ che significa uomo, essere
umano. I Manouches si trovano soprattutto in
Francia meridionale, il loro dialetto romanès
ha molti imprestiti tedeschi.
I Romanichals o Romanichels sono insediati
soprattutto in Inghilterra (ma anche in Austra-
lia e in Nord America) derivano il loro nome
da due termini romanès: romaní (aggettivo) e
da chals o chels che deriva dal romanès havo/
have che significa figlio, figli, ma anche gio-
vane, giovani. La traduzione letterale sarebbe
dunque i figli/giovani Rom.