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Simona Rillo

TUTTO TORNA

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TUTTO TORNA Copyright © 2011 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2011 Simona Rillo ISBN: 978-88-6307-343-0

In copertina: immagine fornita dall’Autore

Finito di stampare nel mese di Febbraio 2011 da Logo srl

Borgoricco - Padova

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A Franca Ires Corbìa

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Non lasciare che il timore del domani ti derubi di ciò che hai oggi.

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Pare che nei primi tre anni si formi la base di quello che saremo per il resto dei nostri giorni. Che fregatura. Proprio nel periodo in cui siamo più vulnerabili, ogni fatto influenza il carattere. Poi tocca lavorare tutta la vita per smussare i difetti e valorizzare i pregi. E se è vero che il carattere dell’uomo è il suo desti-no, tocca sempre fare i conti con quei miseri due, forse tre anni. Se al secondo compleanno avessi ricevuto il libro di Cenerentola, forse ora aspetterei anch’io trepidante l’anello di fidanzamento. E magari, con un bel pallottoliere di legno sarei devota alla busta paga, liquidazione e pensione comprese. Ho il sospetto di essere stata in qualche terra di nessuno, dove ci si cro-giola nella bellezza dei sogni da realizzare. Un po’ vigliacca, ma con l’impulso dell’impavida. Mica me lo ricordo. E nemmeno posso farmelo raccontare. La percezio-ne che hanno gli altri non è la stessa che abbiamo noi. «Mangiavi, dormivi, non rompevi più di tanto e stavi antipatica a tuo fra-tello.» Ecco, se fossi stata figlia unica non avrei avuto la sindrome del rifiuto. Mi sarei buttata con gli uomini, senza temere di ricevere un calcio nel sedere. Ma sarei stata priva del mio spirito di sopravvivenza che più di una volta quel sedere me l’ha salvato. Con addosso tutine e body meno comodi e più sexy, avrei recepito che chi bella vuole apparire, almeno un po’ deve soffrire e quei tacchi otto centimetri ora li saprei portare. Con le cose che luccicano, le calze a rete e il reggiseno. Ecco perché mi piace guardare le foto, specialmente quelle lontane dalla memoria, quelle su cui si possono fare congetture o si deve punzecchiare la materia grigia perché affiori qualche altra immagine. Una foto in cui s’intraveda il motivo per cui mi si chiude sempre lo stomaco se qualcosa va storto. Una che mostri palesemente che non sono irascibile solo per-ché sono dello scorpione, ascendente toro. Le foto non mentono, se ne stanno lì in eterno a cozzare con ricordi con-taminati. Mica per niente molti ritengono ancora oggi che lo scatto rubi

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l’anima. A volte riesce davvero ad imprigionarla e mostrarla per quella che è. Le prime foto così importanti e di cui non si ha alcun ricordo, quelle che cominci a mettere a fuoco perché riconosci la coperta di lana a quadri, le foto col grembiulino bianco e quelle con la cartella sulle spalle. Le foto con i primi vestiti scelti apposta perché sono alla moda, quelle col taglio di capelli voluto senza i suggerimenti della mamma. Le immagini che mostrano l’adolescenza, un momento preciso, una situazione particolare, un’avventura assolutamente irripetibile. I primi vent’anni, così intensi da sembrarne cento. Vent’anni di tempo per posizionarsi sulla corda tesa e tirare al massimo, con forza e concentrazione. Il resto della vita per essere velocemente lanciato verso un presunto obiettivo, tagliando l’aria senza avere il tempo di godersi il panorama, con l’apprensione degli ostacoli e del mancato centro. Forse è per questo che dopo i venti scattare foto non è più un’occasione, ma un’abitudine. Si cerca di perdere il meno possibile o ci si illude di continuare a provare così tanto di tutto. Album battesimo, comunione, cresima, mare, carnevale, primi amici, scuola, gita, vacanze con amiche e fidanzati, i miei animali, concerti, compleanni, weekend last minute, settimana bianca, città, panorami, al-bum delle foto più belle, album delle foto che non so dove mettere e quello delle foto che mi hanno regalato. E poi l’album dei momenti fondamentali. L’album dalle immagini esclu-sive che mai si tira fuori e si condivide. Scatti particolari che s’imprimono direttamente nel DNA per rimanere codificati fino alla fine. Foto inquadrate da un occhio preciso, esposte da una luce perfetta, pro-dotte da una macchina infallibile. L’album che mi porto sempre dietro e che non manco di sfogliare quan-do mi sembra di perdere la strada.

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1 Eccomi qui. Una manciata di centimetri di lunghezza e poco meno di larghezza tra le braccia dei miei artefici. Una giovane donna in completo rosso giacca e pantaloni, capelli corti, bel sorriso e qualche chilo meno di quanto mi sia impresso nella memoria. Un uomo impettito, finto serio, difficilmente interpretabile. Eccomi ancora, scomodamente accomodata tra le braccia grassottelle di un bimbo in abito di velluto nero che sorride con l’aria di chi vuole ri-manere figlio unico. “È nata Simona. Lo annuncia con gioia il fratellino Edoardo, con mam-ma e papà.” Milano, 5 novembre 1972. Foto di gruppo con nonne e parenti sugli scalini della chiesa di San Basi-lio. Foto festanti di fronte al piatto semivuoto e al bicchiere di vino. An-cora io con la faccia assonnata, in braccio a zia Maria e zio Pio, boss uf-ficiali di battesimo. Decido di venire allo scoperto in una tiepida domenica autunnale, con la nonna che nella sala d’attesa del Bassini attende l’evento in compagnia di una sigaretta ogni tanto. Non la vedo, ma non faccio fatica ad imma-ginarla. Mio padre arriva che sono già lavata e pulita da un pezzo. Conclude la sua solita partita a calcio e mostra poco entusiasmo quando si presenta. Avrebbe voluto un altro maschietto. La mia culla, accanto al lettone dal copriletto verde scuro, è appesa ad un gancio sempre più alto, sempre più lontano dalle grinfie del piccoletto dall’espressione arrogante, solito girare per casa con me sottobraccio no-nostante le mille precauzioni. La camera matrimoniale è in fondo ad un lungo corridoio, o così mi sembra, quando, nel bel mezzo della notte, lo attraverso di corsa in preda al panico, convinta di essere inseguita da qualche vampiro. La sedia a dondolo, l’arazzo che occupa una parete della sala, il tavolo in noce rotondo, il mobile dei liquori con sotto due scatole arancioni piene di giochi. Tutto quello che ricordo bene. Il resto è un dubbio reso veritie-ro dalle fotografie.

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I mobili rossi della cameretta, le mattonelle nere del bagno, il divano di pelle bordeaux, il pavimento marroncino del balcone. Io che piango. E-doardo che ride. La nonna-bis che saluta. Noi coperti dal bagnoschiuma. “Buon Compleanno, Simona!” 5 novembre ’73. Splash! La mano nella torta al cioccolato con le candeline che fumano e seminano cera. I bimbi applaudono e ridono, la mamma mi tiene in braccio con quella sua espressione stralunata che tante volte ha dato enfasi al suo sconsola-to: “Pietà!” I primi anni non si fa che mangiare, stare in braccio a gente sorridente e festeggiare il carnevale con abiti scomodi, mentre i piccioni di Piazza Duomo tendono agguati famelici. E una volta arrivata l’estate, godere delle vacanze. Di giorno in acqua con il canotto, sulla sabbia con secchielli e palline di plastica piene di ciclisti famosi, al bar con la mamma per infilare le mo-netine nel jukebox e sentire che: Se mi lasci non vale… Ma meglio libe-ra, che stupida… E sono sempre tua, quando vuoi, nelle notti più che mai… Di sera una passeggiata lungo il Porto Canale fino alla Lampara, dove si beve e si canta evviva la Romagna, evviva il Sangiovese e dove concedo la prima performance tra brevi suggerimenti e applausi d’incoraggiamento. Accoccolati ad ascoltare il mare, quanto tempo siamo stati senza fiata-re… E tu, fatta di sguardi tu e di sorrisi ingenui tu… Edoardo e io. Allegroni mano nella mano sul bagnasciuga, a spasso ve-stiti uguali, abbracciati mentre ci diamo un bacio, come prevede ogni scatto che si rispetti. Mai una volta come esige il neorealismo, con il braccio di uno tra i denti dell’altro, con un piede piazzato sulla faccia, la faccia affondata nella sabbia, il corpo immerso a forza nell’acqua. Una famiglia felice, dove tutti sorridono dentro abiti alla moda. Poi le foto a quattro spariscono all’improvviso. Natale con papà. Cam-peggio con la mamma. Edoardo a Torrecuso, io al lago. Quando ci rendiamo conto che la lite non si placa, ci sporgiamo dalla va-sca da bagno per controllare la situazione. Tutto quello che riusciamo a vedere è il giubbotto di papà che vola fuori dalla porta, seguito a ruota da lui. Restiamo così, mezzo insaponati e lacrimanti ad osservare la fine della nostra famiglia.

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C’è confusione nella mia testa, confusione dappertutto. Parenti che van-no e vengono per salvare il salvabile. Discussioni a non finire. Conclu-sioni burrascose. Decisioni da prendere. Non si capisce chi può rimanere a casa e chi se ne deve andare. Chi è il buono, chi il cattivo. A me sembra che il colpevole sia qualcuno venuto da fuori, una presenza inquietante che crea scompiglio e si serve di lunghe parole come affida-mento e mantenimento, per seminare il panico. Un essere malvagio che richiede l’intervento perfino degli zii lontani. All’inizio viene ventilata l’ipotesi di un cinquanta e cinquanta, io con la mamma, Edoardo con papà. Dividere a metà la famiglia per confondere il nemico. La mamma non ne vuole sapere. Temeraria come sempre, fa il diavolo a quattro per rimanere almeno in tre. Se ne frega dell’uomo nero, è pronta a sbattere fuori di casa anche lui. Se ne frega delle parole inquietanti, se ne frega delle ipotesi di sciagura. Non è tranquilla e rilassata come nei giorni sereni, ma ci tiene a dimostrare che il pericolo è sotto controllo e destinato a sparire. Papà invece sembra sopraffatto dagli eventi. Dormire in macchina non gli piace per niente. Dice che vuole la casa e dice che vuole almeno un figlio. A sentir lui, il cattivo è la mamma. E papà vuole salvare almeno Edoardo. Andiamo a stare tutti e tre dalla nonna per qualche giorno, aspettando una bacchetta magica in grado di rimettere tutto a posto. Edoardo festeggia i sette anni in giardino, insieme a parenti e amici. Sor-ride all’obiettivo come sempre, senza mostrare alcun tipo di dolore. Da quando è nato, dopo aver rischiato di morire per una congestione polmo-nare aggravata da gastroenterite, sembra aver preso la decisione di so-pravvivere a dispetto di tutto, senza abbassare la guardia e preoccupan-dosi principalmente del suo sostentamento. Nessun capriccio, nessun sentimentalismo, poca confidenza e valanghe di dispetti. La vita riprende a scorrere adattandosi al nuovo ritmo. E il concetto co-mune di famiglia diventa per me qualcosa di sempre più remoto e sbiadi-to.

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2 Quella meno magra e con il caschetto biondo scuro sono io, quella con i capelli poco più lunghi e mori è Federica. Le nostre mamme, amiche dai tempi di In ginocchio da te, ci hanno con-cepito nello stesso periodo e sono arrivate al termine assieme, condivi-dendo esperienza, progetti e la subdola speranza di arrivare prime al tra-guardo. Alla fine siamo nate lo stesso giorno. A dire il vero Federica è uscita qualche ora prima e per anni, nel bel mezzo di una lite, ha tentato di spacciarsi per la più grande. Non riuscendo nell’intento, ha spesso mi-nacciato di rendere pubblico il mio vizio di bere ancora il latte col bibe-ron. Vizio che ho abbandonato a malincuore intorno ai dieci anni, insie-me al sapore del latte caldo. Non ci picchiamo mai per via del legame materno, ma ci arrangiamo spezzando spesso e volentieri la pace con tanto d’indici incrociati. Rial-lacciamo i rapporti con stretta di mignoli un’altrettanta infinità di volte, dal momento che trascorriamo gran parte della vita assieme. L’asilo scelto per noi non è vicino a casa, ma al confine col Parco Lam-bro, quindi ci si va in pullman. Comprende una chiesa nuova, un distri-butore automatico di merendine e un bel numero di suore. Le aule sono belle, grandi e pulite. La nostra ha un poster enorme con dei bimbi-astronauti che saltellano sulla luna, qualche gioco allineato sul pavimen-to e degli oggetti che servono per la lezione d’inglese. Il cubo è yellow, l’animale è dog, I am Simona e tutt’ora faccio pena in english. Suor Paola è la nostra suora, simpatica e paziente, un po’ rotonda, pallida e di un’età tra i venti e i sessanta. Sta tutto il giorno a guardarci e plac-carci quando decidiamo di uscire dal seminato. Ce l’ho in mente sempre in piedi, con le gambe larghe e le ginocchia un po’ piegate da giocatore di basket, pronta a scattare sia a destra che a sinistra in caso di bisogno. Ora mi viene il dubbio che non avesse tutto questo trasporto nei miei confronti. In fin dei conti era spesso costretta a dovermi inseguire, a di-vidermi dall’avversario, a dovermi zittire durante le ore del riposo, a spiegarmi che non è buona cosa fare lo sgambetto nel bel mezzo dei bal-letti e delle recite di fine anno. Nei momenti in cui mi sentivo addosso un certo non so che, organizzavo spedizioni selezionate all’interno delle stanze private. In un cassetto ve-

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nivano conservate delle caramelle che a casa non avrei nemmeno consi-derato. Palline al gusto di crema avvolte in carta trasparente che ogni tanto ci distribuivano come premio. Una meraviglia rispetto allo schifo di pastiglie al fluoro che tiravano fuori da un barattolo bianco e ci rifila-vano spacciandole per caramelle magiche. Quelle stesse che poi c’insegnavano a non accettare mai dagli sconosciuti, nemmeno fossimo così cretini da volerne ancora. Un’unica volta mi ha sculacciato suor Paola, solo quando le ho tirato su la veste per vedere se sotto era fatta come noi. Non ricordo quasi nessuno dei bambini in grembiulino bianco presenti nelle foto, a parte Veronica, compagna di scorribande e grande graffiatri-ce di volti, capacità che all’epoca pensavo dipendesse dalla sua pelle marrone. Non ricordo neppure gli eventi che queste foto mostrano, ma non posso non riconoscermi nell’unica figura che durante i balletti si tro-va sempre nella posizione sbagliata. Con le braccia ancora abbassate, mentre gli altri le sollevano, diretta verso destra, col gruppo che punta a sinistra, in ginocchio tra tutti già in piedi. Se durante i primi tre anni mi avessero insegnato che la musica è anche ritmo, non solo canzoni da can-tare a squarciagola, ora me la saprei cavare col ballo. Durante l’ultimo anno d’asilo, il giorno del mio quinto compleanno, la mamma trova lavoro in una ditta di bigiotteria. Per noi che non veniamo toccati dal problema dell’affitto e delle spese, significa non godere più dei privilegi da figli di casalinga e cominciare con la solfa della babysitter, dei doveri da sbrigare, delle nuove regole da seguire. Lei invece sembra entusiasta. Da operaia scrupolosa, diventa un’efficiente impiegata e, in men che non si dica, riesce anche a fidan-zarsi. A dicembre va al lavoro con un quarantacinque giri tutto infioc-chettato e sulle note di lascia che sia respiro l’amore tra noi, si ritira la zappa sui piedi. Pino è simpatico, m’insegna a nuotare, a sciare, a ballare e gioca un sac-co a scala quaranta. Spesso si ferma per cena. Il fine settimana viene quasi sempre con noi dalla nonna. È gentile e non ci rimprovera mai, an-zi, il più delle volte prende le nostre difese. Papà è incazzato nero. Vuole sapere con chi è venuta a trovarmi la mamma, mentre ero in ospedale. Chiede di continuo se qualcuno rimane a dormire da noi e con chi andiamo al lago il fine settimana. Minaccia di fare una strage. Io non ci credo. Però sono sempre un po’ agitata. Mi tol-gono l’appendice, ma continuo ad avere dolori alla pancia. Una notte mi alzo per bere un bicchiere d’acqua e vedo un uomo seduto in sala con il braccio appoggiato alla testa. Mi fissa, ma rimane immobi-

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le. Sembra un manichino a riposo. È frutto dell’immaginazione, dicono. Forse è il famoso uomo nero che ogni tanto decide di creare scompiglio tra le mura di casa. Come è frutto dell’immaginazione il diavolo che du-rante un sogno, mi osserva da lontano. Mi sveglio all’improvviso in pie-na notte e mi trovo in mezzo alle fiamme dell’inferno, poco distante da un essere rosso e cornuto che si limita a guardarmi con uno strano ghi-gno. Rimango paralizzata dal terrore. Se scappo, ha l’aria di uno che si mette ad inseguirmi, se chiamo la mamma, rischio di metterla in perico-lo. Chiudo gli occhi e m’infilo sotto le coperte fino al mattino. Quando dobbiamo andare da qualche parte, preferisco che Pino venga a prenderci in un posto fuori mano. Non ho idea di come potrebbe reagire papà vedendoci salire in macchina con lui. E non ho voglia di scoprirlo. Un giorno, però, mentre camminiamo verso il luogo dell’appuntamento, incontriamo papà che dalla macchina ci scruta con la solita espressione da santa inquisizione. Mio fratello e io teniamo per mano la mamma e indossiamo lo stesso maglione bianco con i bordi rossi e blu. Abbiamo una scusa pronta e ce la caviamo a dispetto dell’improvviso pallore. Ma poi, nonostante la mancata tragedia, torniamo a casa privati di tutto il no-stro entusiasmo. La mamma borbotta parole poco amichevoli, le stesse che ringhia quando minaccia di andare da un avvocato se lui non si deci-de a dare il mensile che ci spetta. Ma è uno sfogo che dura poco, come il mio mal di pancia e il silenzio di Edoardo. Papà sa farsi temere e ancor di più, sa impietosire. Minaccia spesso di ammazzarsi. A volte va in guerra, a volte preferisce buttarsi sotto la me-tropolitana, altre volte si spara o dice semplicemente: «Qualche giorno m’accido!». A noi dispiace che soffra, però spesso sembra che ci metta un pizzico di mariomerola e tutta questa sofferenza si fa fatica a scovar-la. Io vorrei tifare Milan come la mamma, ma lui tifa Napoli o, se proprio, Juve e la mia scelta diventerebbe subito un’offesa personale. Vuole sen-tirsi dire cose tipo voglio più bene a te, preferisco stare con te, sei più bravo tu. La mamma dice di accontentarlo e di dire quello che al momen-to ci sembra più conveniente. Io però ho sempre un sacco di sensi di col-pa. Perché tradisco la mamma, perché mio padre se ne sta solo e abban-donato in un minuscolo e incasinato appartamento, perché mento, perché a volte provo odio. Papà non mi ha mai dato schiaffi, forse un colpetto alla testa una volta che ho voluto mettere in moto la macchina e ho fatto un balzo in avanti. Però m’intimorisce lo stesso. Prima dell’incontro, mi chiedo se sarà di buon umore; faccio mente locale su cosa potrebbe averlo indispettito. Mi

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domando se ho inevitabilmente mancato come figlia. E subisco il suo rabbioso e punitivo silenzio con tanto di sguardi severi e parole di rim-provero dette tra i denti. Alcune volte è arrabbiato con noi senza un mo-tivo specifico, in questo caso ci rimprovera di non impegnarci minima-mente per far sì che torni a casa. Una volta mi ha anche promesso una meravigliosa mini-moto che vendevano nella piazza di Torrecuso, se a-vessi convinto la mamma a riprenderlo con noi. Ho pensato a me che crossavo per le strade di campagna e a loro che si scannavano in casa. La prima parte di pensiero non è stata niente male. Quando non ha la luna e non gioca a fare il cane bastonato, è un padre simpatico che fa un sacco di scherzi, ci porta ovunque e ci compera qual-siasi cosa (tranne quella bella moto). Allora stare con lui è uno spasso. Anche quando andiamo a casa sua, un locale pieno di cianfrusaglie. Cu-cina quello che ci piace, come i piselli con le cipolle un po’ bruciacchiate e poi ci permette di stare tutti assieme nel lettone a guardare un film dell’orrore fino a tardi. Io sono felice, impazzisco per i film inquietanti e quando mi addormento non ho paura perché sono in mezzo a loro.

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3 Non amo le giostre che oscillano o girano forte, dondolano, centrifugano, a volta mi viene il vomito anche sull’altalena. Quando sono al luna-park, però, a parte la casa degli orrori, non rinuncio agli autoscontri delle Va-resine e addirittura ai gokart dell’Idroscalo. Mi ci fanno andare anche se sono troppo piccola, grazie all’insistenza di papà. Poi sto le ore in sala giochi, i gettoni non mi bastano mai, quando li finisco ne voglio ancora e quando papà dice basta, mi arrabbio e non parlo più. Certe volte mi ac-corgo di essere una viziatella rompipalle. Ma solo con lui. Se lo faccio con la mamma, mi lancia un’occhiata e si spengono di colpo tutti i ca-pricci. La mia grande, vera, insuperabile passione, però, è il cinema. Con papà ci vado anche tre o quattro volte la settimana. Ci vado persino di mattina, quando le scuole sono chiuse per qualche provvidenziale sciopero. Aspetto che arrivi affacciata alla finestra e non mi schiodo fino a quando non lo vedo sbucare dalla strada. Qualche volta si dimentica dell’appuntamento, allora resto nell’attesa per ore e mi crolla il mondo addosso perché niente può sostituire il desiderio di un film. Il cinema rappresenta il legame tra me e mio padre. Il nostro punto d’incontro fisico e spirituale. In quel paio d’ore non c’è spazio per la-mentele e discussioni. Se non capisco qualcosa, domando e lui mi spie-ga. Forse dovrebbe essere sempre così, ma magari, dove funziona in que-sto modo, non si va al cinema più di tanto. Affondo nella poltrona cercando una posizione abbastanza comoda da sembrare che l’universo sia composto dallo schermo, da me, da una vaga presenza di esseri che vibrano emozioni simili alle mie e dall’odore di popcorn e cornetti Algida. Si spengono le luci, sfumano i bisbigli, appare gigantesca la casa di pro-duzione con la sua musica pomposa dietro cui si nascondono sforzi e a-spettative. Scorre il regista, l’attore principale, il titolo, gli attori secon-dari. Ci si posiziona tra le teste della fila avanti, si piega nell’angolo il giubbotto, ultimi colpi di tosse o pulizie di naso. E lentamente si lasciano scivolare via tutti i pensieri, per essere dolcemente sintonizzati su una nuova storia. Scavo nella mente per ricordare la prima visione, ma è come cercare il primo vagito, la prima cosa che gli occhi hanno identificato.

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Le narici di King Kong che si allargano sotto i colpi crudeli degli aerei. Le botte potenti che tira quel pugile mica male e quelle di Bud Spencer e Terence Hill che fanno sempre ridere Edoardo. I film western tutti ugua-li: polverosi, sudati, inespressivi e con musiche bellissime. I grandi dubbi sull’allergia da criptonite e sulla maschera nera che rantola quando respi-ra, lo squalo che nuota fino a riva, un ufo che rapisce un bambino, ET che vuole un telefono. Papà che si addormenta mentre balla Tony Mane-ro e si sveglia di colpo dicendo: «La prossima volta un film western, pe-rò!» «Papà, voglio vedere un film dell’orrore di quelli che ti fanno saltare sul-la poltrona!» «E allora sapete dove si va, stasera?» «Al cinema Argentina a vedere Dracula!» Compriamo un panino wurstel e crauti nel bar vicino, prima di entrare in questo luogo di culto che proietta solo film horror eloquentemente rap-presentati dalle statue di cera della mummia e della donna-vampiro espo-ste in vetrina. I denti di Bela Lugosi affondano nel collo della vittima. Christopher Lee appare di colpo in cima alle scale del suo castello, avvolto in un manto nero. Klaus Kinski stringe tra le braccia il corpo dell’Adjani. Crocifissi, paletti, preghiere, fiumi di sangue… Luce! Questa notte sento che non dormirò e se la mamma lo scopre, mi rimpro-vera di brutto e mi proibisce di vedere altri film. «Edoardo, stai già dormendo?» «Mm…» «Posso dormire lì con te?» «Mm…» «Mi fai stare dalla parte del muro?» «Mmm.»

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Appoggio la mano sulla maniglia di una porta sconosciuta e sinistra, ho paura di sentirmi subito diversa, quella che è arrivata con due giorni e una manciata di minuti di ritardo, quella che non ha ancora un posto e non conosce gli altri. «Io quella la conosco. L’ho già vista in giro!» Salta in piedi un biondino che non è nuovo nemmeno per me. Ecco che torna la mia aria da dura, ecco il mio sguardo duellante che si posa su di lui, su di loro. Vi tengo sotto controllo, sono un osso duro che sa darle anche ad un fratello più grande. Una mossa falsa e… «Ciao Simo! Vieni qua vicino a me!» Federica, inseparabile amica. Insieme ancora una volta per un nuovo e avventuroso ingresso in società. Classe I, sezione F, l’inizio di un’era dalla fine incerta. Mi siedo sulla sedia del banco, il mio primo banco. Da un lato depongo la cartella, la mia prima cartella. Dall’altro l’ascia di guerra, la mia… e chi se lo ricorda più! La scuola tutto sommato mi piace. Forse sono io che non piaccio a lei. Probabilmente non abbiamo ancora raggiunto un’intesa, non ci sentiamo all’altezza l’una dell’altra. E mi becco la prima nota della classe: “Sua figlia a scuola ha un com-portamento molto strano, striscia tra i banchi, ride in continuazione, non le interessa nulla, cammina a quattro zampe, risponde male. Come mai?” «Portami il diario!» dice la maestra guardandomi severamente. Lascio il diario di Braccio di Ferro sulla cattedra e torno al posto per-plessa. La mamma non apprezzerà che un’estranea mi consideri difettosa a tal punto da metterlo per iscritto. Tronfia e indignata, torno a casa e mostro l’insulto alla mia intelligenza. Lei però, rimane sconcertata. Già mi vedeva come prima-della-classe. Teme che abbia una doppia personalità, non capisce dove abbiamo sba-gliato. È subito chiaro che la nota è un male. Prenderla equivale ad essere delu-dente. Poi sarà sinonimo anche di pesanti rimproveri e possibile schiaffo. Una tragedia, insomma. Questo però non mi impedirà di prenderne anco-ra e ancora.

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«Simona, diario!» Attimo di smarrimento. «Guardi, non lo faccio più. Ora sto in silenzio.» «No! Basta! Diario!» Camminata fino alla cattedra con pianto affiorante e soffocato, per evita-re patetiche scenate davanti a tutti. Consegna del diario. Speranza di minaccia senza esecuzione. Esecuzione. Cinque minuti di sconforto totale e poi, casino assoluto. Tanto la nota ormai è presa. Continuo a comportarmi da scema anche se so che non si deve fare, m’impegno per un po’, cerco di frenare l’esuberanza, poi in un attimo getto via tutti i buoni propositi. “Oggi Simona è stata scatenata a scuola, ha risposto male, non ha finito i suoi lavori, se ne è andata in giro per i corridoi senza nemmeno avver-tire che usciva. Ride in continuazione, non ascolta nemmeno quello che le si dice.” La scuola tutto sommato continua a piacermi. Forse lei ha ancora dei dubbi. Cerco di compiere i miei doveri e quando sbaglio mi pento, quasi sempre. Abbasso il capo e ricomincio. Io ci provo davvero a tenere la bocca chiusa, a non viaggiare con la men-te, a stare tranquilla, a studiare seriamente. Ma quell’etichetta, più tenace di me, non mi vuole mollare. Incostante, incostante, incostante… Quando saprò di aver fatto pena. Incostante! Anche quando sentirò di avere dato il massimo. Incostante! Quando nonostante le avversità, non smetterò di mollare. Incostante! Quando, in una vita di dubbi, sarò comunque certa di aver fatto la scelta giusta. Insomma, come la mettiamo giù tragica. Ogni tanto esco prima della campanella. Magari rispondo un po’ male o disobbedisco, ma giusto per difendere le mie ragioni. Non picchio mai per il gusto della violenza, solo per legittima difesa. Due volte le ho an-che prese. Quando poi i vetri vanno in frantumi è perché sbaglio mira, mica di proposito. Ammetto di andare troppe volte in infermeria, ma la dottoressa dice che altrimenti sente la mia mancanza. Ho bloccato

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l’ascensore, ho fatto scherzi più o meno pesanti, ho detto qualche paro-laccia di troppo. Ma questi docenti è possibile che siano nati imparati? Così seri e impettiti con i loro principi e le loro regole, tutti ottusi e squadrati con tanti buoni propositi da portare a termine. Cara signora Scuola, non ho moltissime certezze nella vita, ma mi piace-rebbe affezionarmi a una maestra e vederla rimanere con noi, almeno per un intero anno. Gradirei non sentir dire continuamente che siamo indie-tro col programma, come se avessimo contratto una malattia tropicale. Riterrei appropriato non dover ridere in famiglia quando prendo note scritte in pittoreschi dialetti. Poi vorrei non vedere più adulti che tirano giù calzoni per sculacciate pubbliche. Sa, per voi siamo solo bambini, ma tra noi vige rispetto e un gesto così umiliante rischia di rovinare la reputazione, qualità indispen-sabile da queste parti. E poi che significa essere bambini cattivi? Io li conosco tutti, questi bambini di questa mia classe e non vedo nessun cattivo. Se qualche volta fosse scesa a compromessi, avrebbe scoperto un mondo meraviglioso, fatto di eroi disposti a tutto per un amico. Quanti potenziali hanno sprecato i suoi marchi ipocriti e stupidi? Lui è il più buono, questo è il più cattivo, quello il più scemo, il più sen-sibile, l’intelligente, il menefreghista, l’educato, l’arrogante, il barbone. Ogni classe ha sempre un elemento così! Quanti bambini sono cresciuti con la convinzione di essere quello che ha creduto di vedere lei, signora Scuola? «È intelligente, ma non si applica» è la filastrocca che ripetono alla mag-gior parte dei genitori. Io sono contenta di non essere applicata come un adesivo irrimediabilmente appiccicato. Mi crea un certo disagio dover trattenere nel cervello un mucchio di parole da rigettare contro una per-sona che già le conosce e meglio di me, che non ha alcun interesse ad a-scoltarle, che si annoia e non vede l’ora di tornare a casa. Ma vuoi mettere quanto è più interessante non essere bravi, mentre l’insegnante si arrabbia e rimprovera, ammonisce, cerca di scuotere, mi-naccia, si attiva nella disperata intenzione di redimere? L’insegnante che non accetta la libera interpretazione di un argomento, la modalità di ap-prendimento e riprende a spiegare con più passione, cercando di conqui-stare l’attenzione e l’interesse dello studente, per reclutarlo nel suo modo di vedere le cose. Spesso, durante l’intervallo, alcune maestre si radunano per sfogare fru-strazioni. A volte si lamentano di lavorare proprio nel nostro istituto, do-

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ve non ci sono che popolani semianalfabeti, in grado di andare non oltre la terza media. Forse è per questo motivo che c’insegnano poco o nulla e ci fanno fare al massimo lavoretti per il Natale o per la festa della mam-ma, simili a quelli che insegnano ai detenuti. Forse credono di prepararci per il futuro. Io non mi accorgo di essere ignorante e di non sapere cosa sia un predi-cato verbale. Penso di essere capace di ragionare, penso di conoscere molte cose. E con questa strana convinzione, sento di voler continuare a bazzicare la scuola fino a coprire le vergognose lacune e cancellare l’odiosa etichetta. Perché dopotutto, solo una persona davvero incostante può superare tutto ciò che costantemente si para davanti. Cara scuola, io l’assolvo. I miei compagni di classe, il forte legame che nasce dietro i banchi, men-tre dalla finestra cambiano le stagioni. Potrei correre in un prato, godermi il sole della primavera, calpestare le foglie secche d’autunno. Potrei fare migliaia di cose senza lasciare che la colonna vertebrale stia sempre incurvata. Ma le stagioni tornano, anche senza i primi veri amici. Quelli con cui scopri il mondo. Le piramidi dell’antico Egitto, il nostro stivale circon-dato dal mare (non tutto però…), chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza. Il glorioso rosso di Garibaldi e di un Babbo Natale che non esiste più. Dire, fare, baciare… L’assolvo perché mi è stato dato più di quanto mi sia stato negato. Anche se ora non restano che fotografie. «Fermi, fermi, statefermiotorniamoinclasse!» Noi bassotti davanti, gli spilungoni dietro e il primo che fa le corna si becca un calcio nel sedere. Fa quel piacevole caldo da fine scuola. Siamo vestiti in modo ridicolo, con queste magliette a righe sbiadite, le camicie col colletto appuntito, le gonne da casa nella prateria. Luca sì che è alla moda, con i suoi pantaloni stretti in fondo. Mi prende in giro quando vede i miei scampanati, dice che faccio l’antica. A me basta che alla mamma non venga in mente di darmi la gonna. Nemmeno quella scozzese con la spilla che le piace tan-to. Non riesco a saltare, a correre, non sono me stessa. Sono privata della mia parte maschile, quella che mi rende meno vulnerabile. Una gonna tra i maschi finisce sempre con l’evidenziare la differenza. Ha il potere di rimbambire la spavalderia e limitare i movimenti atletici. Modifica la ge-stualità ingentilendola, rendendola quasi civettuola. E ti ritrovi a giocare con la corda o all’elastico e a fare discorsi superficiali, pissi pissi

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all’orecchio, disegnino di cuori, trecce ad una Barbie longilinea e tettona che non ti somiglierà mai. Mi tengo i pantaloni, i discorsi fantasiosi e infantili, i giochi senza fron-tiera e l’innocente delinquenza. Cerco di salvaguardare la mia identità con capelli lunghi messi in riga dalle mollette. Il primo bacio sulle labbra è per Francesco che ha gli occhi colore azzur-ro mare, i capelli scuri, una statura come la mia e il mio stesso numero di note sul diario. Con lui spesso vado d’accordo, ma a volte litigo e in un’occasione gli rompo il naso, quando sostiene che mia madre si occupi del mestiere più vecchio del mondo. Lo portano via in ambulanza e, per qualche grazia, decidono di non sospendermi. Nonostante il bacio, non ci amiamo e non per via del mio quasi involontario cazzotto. Certi giorni si dimentica di me e fa il lumacone con Federica, forse perché ha intuito che non ho intenzione di scalpitare per nessuno. La mia è una pura curio-sità fisica. Se in bagno si spogliano per fare gli scemi, non scappo di cer-to, sto a guardare fino a quando non sono loro che, imbarazzati, si rive-stono. Quando parlano dei loro gusti o desideri, sto ad ascoltare incurio-sita. In genere sono più teneri e meno idioti delle femmine e non tardano a cambiare discorso per tornare a giocare. Le femmine che parlano di maschi e raccontano tutta la loro passione, mi sembrano stupide, noiose da morire, simili l’una all’altra nelle scelte e in quello che dicono. Im-pazziscono tutte per un certo Massimo della classe affianco. Un vero o-dioso spocchioso che non le degna di uno sguardo, se non per prenderle in giro. E loro, avide di maltrattamenti già a quell’età, in suo onore into-nano pure la canzone nemmeno bella di quel tipo un po’ fatto, vado al massimooo, vado a gonfie vele! Francesco abita in un solo locale, ha il bagno in cortile e dice di avere un padre, ma nessuno l’ha mai visto. Qualche volta facciamo finta di aver trascorso le vacanze insieme sulla Costiera Amalfitana e raccontiamo a-gli altri un sacco di palle, senza nemmeno esserci messi d’accordo. Ci vengono fuori delle storie troppo belle che ad entrambi poi dispiace do-ver abbandonare. Il primo vero bacio però lo do a Luca, il biondino saccente del primo giorno. «Ma lo sai che i veri baci si danno con la lingua?» «Nooo... a chi la racconti?» «Ma sì, non li vedi nei film che aprono la bocca? In che mondo vivi!» Cavolo, che vergogna non averlo saputo. Spero non sia troppo tardi per rimediare.

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Schiudiamo le labbra e le lingue s’incontrano incuriosite, imbarazzate e buffe. Si separano perplesse e tornano al loro posto, poco convinte. Con la mamma, da piccola facevo spesso questo gioco. Univamo la pun-ta delle nostre lingue per vedere quale delle due si sarebbe tirata indietro facendo versi disgustati. Una specie di prova di resistenza per misurare quanto ci volevamo bene. Era solo un lieve contatto, ma ho cominciato a capire presto che l’amore sarebbe stato per me un’eterna prova di resi-stenza. Luca mi chiede anche di fare l’amore. Io so tutto sul sesso, mi è stato spiegato per filo e per segno. Ma non mi pare il caso che il suo cosino entri nella mia cosina, ritrovandomi poi col pancione. Gli propongo, co-me alternativa, un bel giro in bici. Roberto invece è il mio migliore amico. Io rimango estasiata quando lo vedo disegnare. È troppo bravo e non so cosa darei per essere come lui. In un attimo disegna Goldrake partendo dall’attaccatura delle corna, sen-za scordarsi alcun particolare. Per me diventerà un pittore o andrà in Giappone per inventare nuovi cartoni animati. Mi regala un’infinità di Lady Oscar perché sa che è la mia eroina. Io so tutto di lei e mi faccio tagliare la frangia dalla nonna, proprio come la sua. Non è che i ciuffi rimangano uguali, anche perché si appiattiscono subito, però ci proviamo lo stesso. Mi compro anche una camicia di pizzo bianco e un paio di pan-taloni fino sotto il ginocchio, per imitarla. In classe qualche volta mi chiamano Lady Oscar per sfottermi e poi canticchiano: «Tanto alla fine muore! Tanto alla fine muore!». Quando però li rincorro selvaggiamente, smettono di colpo. Roberto invece non si permette mai di prendere in gi-ro e mi sostiene quando dico che non è giusto che muoia sotto le mura della Bastiglia, colpita dalle fucilate dei soldati. Mi consola spiegandomi che doveva andare così perché sarebbe morta lo stesso di malattia e in ogni caso aveva perso André, il grande amore. Mi dice che la cosa più importante non è lei, ma la Rivoluzione. A me della Rivoluzione non frega niente, per quanto mi riguarda se la potevano pure risparmiare. Un venerdì mattina, giorno di piscina, litigo ancora con Francesco e Ro-berto decide di rimanere con lui. Io mi sento profondamente tradita e confusa, torno a casa come se mi avessero bastonato, mentre lui se ne va senza nemmeno salutare, ma spiandomi con la coda dell’occhio. Proprio non capisco come sia possibile. Noi trascorriamo tutto il tempo del do-poscuola assieme, studiando assieme, facendo i lavori assieme, giocando assieme. E all’improvviso m’ignora senza una spiegazione. Dopo qual-che giorno torniamo amici, ma la sensazione di tradimento non va più via.

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Durante gli ultimi giorni di scuola mi dichiara il suo amore in modo un po’ ridicolo: «Ti devo dire una cosa, ma non ho il coraggio. No, non te la dico, indovina: ti ricordi cosa ha detto Zorro alla sua amica prima della fine? Dai che lo sai…» Sì che lo so e sì che ho capito, ma sprofondo nell’imbarazzo più totale e cambio immediatamente discorso. È il mio migliore amico e forse, finite le elementari, non lo rivedo più. Un pensiero già troppo difficile da dige-rire. Che fine hai fatto? Come siete diventati tutti? Che me ne faccio di cinque stupide foto se tanto siamo destinati a divenire un ricordo sempre più sbiadito a prescindere dal fatto che esistiamo o meno?

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5 Queste sono le foto che sopporto appena. Le foto cerimoniose. Edoardo tutto elegante e serio, papà ancora più serio, la mamma che ap-poggia nervosa le mani sulle mie spalle insofferenti. “Comunione Edo-ardo.” Io tristemente vestita con un osceno abito veloso e pizzoso, costoso e i-nutile, mentre poso davanti alla finestra della sala tentando un sorriso sotto sforzo e sperando in un’immediata conclusione. “Comunione Si-mona.” Edoardo e la mamma un po’ più sorridenti della volta precedente, vicino a me e a papà con identiche espressioni, io insofferente, lui serio. “Cre-sima Edoardo.” Niente cresima Simona. Qualcuno ha scattato foto tutto il giorno dimen-ticandosi di mettere il rullino. Poco male. Questa volta avrei potuto appa-rire un po’ più felice senza il mini abito matrimoniale. Ma avrei anche potuto nuovamente costatare la presenza di papà negli album di mio fra-tello e la totale assenza nei miei. Cosa che invece non può accadere per via del mancato rullino. Papà non sembra dare mai grande importanza a quello che faccio, per il fatto che è spesso arrabbiato con me. In fondo lo capisco, io sono come la mamma e mi schiero sempre dalla sua parte. Non mi sembra vero che passi anche la cresima, non sopporto più di do-ver andare a catechismo e in chiesa la domenica mattina, pena l’impossibilità di ricevere i vari sacramenti, con annesso divieto d’accesso in paradiso. E tutto mica perché ho un calo di fede, ma solo perché mi annoio a messa vicino alle amiche che bisbigliano i fatti loro mentre il prete dice sempre le stesse cose, con lo stesso tono e la stessa espressione. Per non parlare della pallosa ora di catechismo, che per fortuna ci tocca seguire all’oratorio, dove almeno ci scappa una giocata prima e dopo. L’insegnante fa leggere pagine noiose, fa colorare disegni ancora più noiosi, ammonisce e non toglie i dubbi. Me ne torno a casa sempre più confusa, con addosso questo peccato ori-ginale e la sensazione che Dio abbia creato due deficienti non si sa come, perché se era tanto perfetto, poteva impegnarsi un po’ di più nella sua creazione. Per non parlare della vergine Maria che rende automaticamen-te da circa duemila anni le nostre mamme delle porche assatanate.

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Nessuno sa spiegare perché i pani e i pesci si moltiplicano solo per pochi eletti e mai per quelli che muoiono di fame e in mezzo al deserto ci stan-no da sempre. Caino e Abele, la pecorella smarrita, l’idiota che vuole sa-crificare il figlio, gli agnelli da sgozzare. E questo essere sempre in una valle di lacrime, questo essere nati per soffrire, questo diventar santi solo dopo torture. E poi via crucis, fioretti, pentimenti, confessioni, genufles-sioni, rinunce. Mai nessuno che ti faccia un complimento in questa reli-gione. Chissà cosa direbbe Gesù, da sempre mio grande amico ed eroe. Lui, co-sì paziente e amorevole coi bambini. Così rivoluzionario, con quei capel-li lunghi e i super poteri nelle mani. Lui che tutto può e nulla stringe. Che mi ascolta, ma non agisce mai di conseguenza. E mi fa arrabbiare, anche se poi facciamo pace, un po’ perché gli voglio bene e un po’ per-ché è il figlio preferito e di dover tenere a bada il malumore di due padri proprio non mi va. Sempre fissato con questa smania di togliersi di mezzo a trentatré anni. Per noi, per i nostri peccati. Creandoci un costante disagio, nemmeno po-tessimo scegliere di toglierci dalla lista dei beneficiari. Io me la cavo da sola, anzi, appena sono in grado di prendere un aereo, faccio un giro dalle sue parti per dare un taglio a ‘sto supplizio. Non voglio insegnare nulla al buon Dio, ma non è che per salvare tutti noi deve necessariamente far morire lui ogni volta. I misteri della fede sono parecchio complicati e le lezioni noiose che c’impongono non fanno che generare confusione. Non c’è passione negli insegnanti. Tanto meno interesse ad appagare curiosità. Perché si vive o perché si muore rimangono argomenti approssimativi. Gli adulti non vogliono discutere di queste cose, sorridono in modo iro-nico per nascondere il fatto di non sapere un accidente. Spesso li osservo e cerco di immaginare come dovevano essere da bambini se dopo anni sono ancora ridotti così. Hanno poca curiosità e ancor meno fantasia, a parte quando devono raccontare quanto è bravo il loro figlio che non dice parolacce, non fuma, non è mai maleducato. Allora sì che danno libero sfogo alla fantasia! Mia madre per fortuna non è così, spiega quando sa, ammette di non sa-pere e non si vanta mai. Tutto sommato se ne frega del parere altrui. L’unica cosa, avrebbe dovuto impuntarsi con la parrocchia e difendere la mia protesta anti vestito veloso da comunione. E non spendere tutti quei soldi per un abito messo un giorno e controvoglia, solo per il capriccio di un prete.

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Foto di gruppo sul sagrato della chiesa, prima di abbandonare ogni con-tegno per correre a pranzo. Foto a tavola felici e ridenti tra le persone che amo di più. Le foto più belle, quelle che conservo per sempre perché in questa Edoardo si è ve-stito da donna e in questa lo zio fa i dispetti alla zia e in quest’altra ci siamo davvero tutti. Un giorno ognuno prenderà la propria strada, i cugi-ni perderanno un po’ della loro importanza, alcuni parenti divorzieranno e altri non ci saranno semplicemente più. Allora ricorderò di aver odiato quello stupido abito, di aver odiato quelle stupide preparazioni ai sacra-menti e di non essere mai stata così felice.

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6 Quasi mille chilometri! La strada che non vediamo l’ora di percorrere d’estate, a Natale, a Pa-squa o per i morti. Il viaggio che ci apprestiamo ad affrontare con tutto l’entusiasmo possibile, guardando ogni singolo chilometro che passa, ri-conoscendo ogni paesaggio che cambia, chiedendo ininterrottamente, ma quanto manca ancora? Mio padre è felice quanto noi, sembra un nostro coetaneo. S’inventa un sacco di giochi, ci sfida a riconoscere ogni tipo di targa: «BA... Bari! PA... Palermo! PE... Perugia! Nooo… Pescara! MI... Milano!» «Ma io manco l’ho letta quella, se no la sapevo!» «E chi se ne frega, il gioco è anche che devi riuscire a leggerla per pri-mo!» Edoardo si siede sempre davanti perché è più grande e, secondo me, per-ché è un maschio. Alla prima vomitata, però, lo rispedisco dietro. L’autostrada fino a Bologna non finisce mai. Lunga, monotona, calda e a tratti puzzolente. Fermata in autogrill. Due panini e una coca. Credo… Devo vomitare ancora… Accosta, accosta! Acc… Finalmente si vede il mare. Se è estate, non possiamo ignorare l’invito e in mutande ci tuffiamo nell’onda, ci asciughiamo al sole e odoranti di salsedine, ripartiamo felici. Poi il profumo della campagna al tramonto. L’arancio che brucia i con-torni delle colline e papà che, emozionato, dice a gran voce: «Ecco lassù Torrecuso mia!» Qualche curva tra le terre contadine, il cimitero con annesso segno della croce, la Fabbricata con i ruscelli d’acqua fredda e infine la piazza dove abitano nonna Petrina e zio Peppino. Apro il piccolo cancello di ferro, salgo i gradini, costeggio il pozzo chiu-so da sempre, il piccolo orto, gli ultimi gradini e abbraccio i miei cari. Questo paese così intimo, dove non si passa mai per caso. Un antico bor-go medievale rievocato dalle mura della piazza centrale, le casette ag-grappate in un saliscendi di stradine, la chiesa “in coppa” e la chiesa “abbascio”, i negozi che ancora profumano di genuino. Non so proprio come si possa vivere in un posto che possiede solo un campo da calcio. E percorrere nei secoli la stessa strada che dalla piazza arriva alla fontana e dalla fontana torna alla piazza. Eppure per me è il

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paradiso. Un paradiso che si apre con la nonna appoggiata alla ringhiera, in attesa del nostro arrivo da chissà quanto. La prima mattina ci si sveglia presto per sbrigare i doveri. Apro la valigia che la mamma prepara con cura abbinando le magliette ai rispettivi pan-taloni e calze, con possibili maglioni in caso di freddo e scarpe per tutti i tipi d’eventi atmosferici. Vorrei indossare due cose che non ci azzecca-no, ma ci rinuncio per non tradire la sua speranza di saperci sempre in ordine anche se lontani dai suoi occhi. Bisogna acciuffare i parenti da una parte all’altra per l’immancabile salu-to. Zio Tonino di solito pedala per le vie alla nostra ricerca, zia Lucia e zia Lalla sono al Palazzo o a Sant’Ermo a cucire e a sbrigare altre fac-cende. Il Palazzo non ha nulla a che vedere con la nobile residenza di famiglia, è semplicemente l’unico edificio del paese con tanti piani e un ascensore che bisogna alimentare con una moneta perché faccia il pro-prio dovere. Sant’Ermo invece si trova nella parte bassa, proprio in fon-do alla strada che attraversa il paese. Mi piace parecchio andarci perché c’è sempre qualcuno che mi prepara una lunga fetta di pane con pomodo-ro, olio, sale e origano. Un sapore che è impossibile separare dal luogo e dal tempo, dalla spensieratezza dei giorni vissuti a divorare i frutti fre-schi della terra, ignorando la presenza di quelli acerbi o troppo maturi. Vicino al portone verde c’è Sant’Antonio chiuso in una veste nera, con in braccio il bambin Gesù, tanto piccolo nelle forme, quanto immenso nella compostezza. Stanno lì immobili e aspettano di essere restituiti alla chiesa in via di ristrutturazione da post terremoto. Quei visi un po’ inqui-sitori mi mettono a disagio. Se d’improvviso mi venissero incontro con fare minaccioso, che faccio? Non sarà mica peccato scappare? «Come se fa ad aver paura ‘e Sant’Antonio, a zì zì?» «Se fa, se fa…» Poi mi tocca il saluto ai parenti secondari. E si sa che in un paesino si è più o meno tutti parenti e tutti tengono parecchio alle formalità. «Simò, la vuò na tazzulella ‘e cafè?» «No, no grazie.» «Nu bicchiere e vino?» «Nooo, davvero, grazie!» «E pigliate nu coso e chisti!» «No, non mi va davvero…» Gomitata di papà con tanto di sguardo trafiggente e obliquo… «Vabbè, allora prenderò uno di questi… grazie.» «Guarda che non sei mica al tuo paese che non accetti niente e offendi la gente, capito? Ora vedi di non fare così anche da…» a quale paese si ri-

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ferisca sempre papà non l’ho mai capito. Io sono di Milano, nota metro-poli lombarda dove in linea di massima i bambini non bevono caffè o vi-no e sono rimproverati se mangiano prima di pranzo. A tavola finisco appunto per non aver più fame e rifaccio la figura della maleducata. Per fortuna i miei compiti sono davvero limitati, salvo il primo giorno, il re-sto del tempo lo trascorro come mi pare e piace. Di solito mi rifugio da mio cugino che non a caso si chiama Edoardo. Giù con i nomi non si sgarra e si finisce col chiamarsi per secoli come i nonni ripiegando ma-gari su diminutivi più moderni che al richiamo fanno girare solo un quar-to della popolazione. Io sono stata un capriccio poco apprezzato della mamma, un Simona per il gusto del Simona. Mio cugino è un genio e dico davvero, non perché ho conosciuto tanti geni, ma perché non ha niente a che vedere con l’incapacità media. Sa fare di tutto. Si siede al piano e suona qualsiasi cosa senza essere mai andato a lezione. Poi, come se niente fosse, inventa aggeggi strani, si cu-ce il costume di Actarus per Carnevale, crea il più bel presepe mai visto, costruisce splendide capanne tra gli ulivi dove ci chiudiamo a mangiare serviti da zia Vera. Crescendo, mi lascia in disparte per andare con mio fratello chissà dove, a fare chissà cosa. Poco importa però. Nello stesso periodo zia Maria torna a vivere a Tor-recuso e così l’inseparabile compagno d’avventura diviene mio cugino Ernesto. Il nostro è un rapporto di tanto amore e un pizzico d’odio, alimentato il più delle volte dalla piccola, dolce e diabolica nonnina. Mia nonna è l’essere più enigmatico del pianeta. Non dice mai i suoi pensieri, non racconta quasi nulla del suo passato, non impartisce lezioni di vita ai ni-poti, non si lamenta mai degli acciacchi di vecchiaia. A volte sembra vo-ler sparire, qualche volta mi pare ci riesca pure. Ma non rinuncia mai ad almeno una risata quotidiana. Non può proprio farne a meno, è più forte di lei, deve divertirsi stuzzicandoci. Col sorriso furbino che si intravede appena, attende paziente il raro momento in cui siamo seduti tranquilli e… zac! Tirata di capelli. «È stata Simona, Ernè, l’aggio vista io!» «No, non vedi che ride, è stata lei…» «Ma che stai a ddì che tengo le mani proprio in coppa alla stufa!» «A Milanè, mo’ abbuschi!» Si alza di scatto e m’insegue come un matto lungo il corridoio che af-fianca la sala, mentre sbraito la mia innocenza.

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Al terzo o quarto giro, davanti alla cucina ci aspetta lei trionfante con in mano una padella. «To’ Simò, pigliate chista!» e nell’altra un cucchiaione di legno. «Ernè, pigliate chist’ato!» Dopo pentolate, cucchiaiate e insulti a non finire, ci acquietiamo sfiniti. Torniamo a volerci bene. Torniamo a giocare insieme. Torniamo inseparabili. «Ernè, Simona ha detto che sì ‘nu strunz’!» Si ricomincia, mentre lei mette la mano davanti alla bocca per soffocare le risate, proprio come Muttley, il cane di Dick Dastardly della corsa più pazza d’America che non può fare a meno di ridere delle situazioni buffe anche se poi gli tocca rinunciare alla medaglia. E io una medaglia a mia nonna la darei lo stesso, ogni volta. Per la strada con gli altri ragazzini, il tempo ci taglia la strada durante le nostre corse sfrenate, si intrufola nei nascondini con l’intento di farci schizzare allo scoperto, si adagia sui gradini delle vie mescolandosi alle innocenti fesserie che ci scambiamo. «Ma secondo voi, Gig Robot d’acciaio è più forte di Daitan III?» «E chi può dire se i vampiri esistono! Certo di notte, vicino al cimitero qualcuno c’è che spaventa i passanti ululando alla luna senza mostrare il volto.» «L’Uomo-tigre come portiere e Flash come attaccante, poi voglio vedere se il Napoli non vince lo scudetto!» «E Superman, dove lo mettiamo?» «Che ne so, mica ci serve uno che vola, magari in difesa ci mettiamo Hulk.» Al tramonto, quando comincia a fare freddo anche per dei cuori scalma-nati come i nostri, ci si avvia verso casa, ognuno con le proprie convin-zioni. La mia? Sono ridicoli! È ovvio che Goldrake è il migliore! Mio padre ci fa sempre un sacco di fotografie, anche se non è molto scrupoloso. Le fa un po’ a caso, con il rullino che gli capita, a volte an-che senza, a volte dimenticandosi di togliere il copri-obiettivo, altre volte dimenticandosi anche la macchina fotografica in qualche posto. Di solito predilige scattare alle feste di paese, alla sagra del vino, tra le bancarelle o a quella del grano, sui carri. Dà il meglio di sé anche alle terme di Te-lese, dove ci porta sempre spacciandole per una comune piscina, nono-stante la temperatura gelida, il fetore e l’altezza sempre moderata dell’acqua. Così Ernesto e io ci mettiamo in posa sempre con lo stesso

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sorriso ebete, col costume e il salvagente, sui carri, sotto il sole di qual-che processione sanguinosa e punitiva, con una bottiglia di vino in mano. Mio cugino e io ci divertiamo un sacco anche solo tra di noi. Sappiamo inventare un’infinità di giochi e riusciamo a riempire ogni minuto della giornata. Mi chiedo spesso cosa faccia tutto l’anno senza di me. Forse anche lui se lo chiede. La cosa che ci riesce meglio è quella di ridere fino a star male. Eccoci seduti sulla panchina in prima fila, vicino a zia Maria. Il Vespro. Silenzio ecclesiastico. Don Nando alza il corpo di Cristo. Il chierichetto suona la campana. «Allo stesso modo prese il vino, lo diede ai suoi discepoli…» don Nando alza il calice. Din, din, din! Fa un passo in dietro e «mannagg...» inciampa! Nessuno fiata, nessuno batte ciglio. Io muovo appena l’occhio verso Er-nesto che a sua volta, in modo quasi impercettibile, cerca il mio. Uno sguardo fugace e intenso mentre cerchiamo di ingannare la nostra vera natura rimanendo dolorosamente seri, poi… ecco che arriva la mastodon-tica risata. Cerchiamo di trattenerci, chiudiamo la bocca, guardiamo in basso, pensiamo alle punizioni più atroci, comprese quelle divine, ci diamo ancora una veloce occhiata e lo sbuffo viene fuori più violento, intenso e prolungato. Siamo circondati da sguardi severi, bassi rimprove-ri, cenni minacciosi. Zia Maria ci fissa con fare assassino allungando pizzicotti rabbiosi, ma il peggio è arrivato. Non riusciamo più a smettere, lacrimiamo, tratteniamo la pipì. Per noi è finita. Il prete interrompe la funzione con severità, ci invita a lasciare la chiesa e noi ubbidienti indoviniamo appena la via, spingiamo il portone e conti-nuiamo a ridere anche fuori. Poi ci fermiamo all’improvviso, consci della gravità della situazione. Ci preoccupiamo, supponiamo la meritata punizione e ricominciamo a ride-re. Ridere all’improvviso, ridere per cose stupide, ridere senza motivo. Ri-dere persino mentre zia Maria ci fa svolazzare sotto il naso un consisten-te mazzo di ortiche. «Voi al bar non ci andate più! E guai a voi se vi vedo consumare i soldi così!» «Manco una partitina? Una sola piccola piccola?» «Voi a rubare le pannocchie non ci dovete andare che i contadini vi spa-rano!» «Noi? Ma quando mai!»

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«E non voglio sentirvi bisticciare più!» «Noi bisticciare?» «E nemmeno con gli altri dovete litigare! Siete due scostumati!» E alla fine, nonostante tutta la pazienza e la bontà di zia Maria, una fuga-ce orticata ci arriva, chi prima, chi poi. Ma chi se ne frega, siamo bambi-ni e siamo grandi pensatori, pazientiamo e perdoniamo, oggi a te, domani a me, chi ha avuto, ha avuto, ha avuto… Il guaio è che a furia di combinarne tante, prima o poi si finisce sotto ac-cusa anche per reati non commessi. E in un bel giorno di sole, accade di fuggire all’improvviso non si sa bene da chi e tanto meno per cosa. Gli amici dicono che l’abbiamo combinata grossa. «Restatevene a casa, è meglio per voi!» Noi, perplessi, li prendiamo in parola, perché a volte la coscienza pulita mica basta. «Manciate di sassi scagliati proprio contro il tetto della famiglia…» «Le tegole tutte rotte, una forse ha colpito un bambino. Forse è ferito. Forse è grave… Forse è crollato tutto il tetto!» «Vi hanno visti… Tutti e due!» In giro non c’è un’anima. A passi svelti ci dirigiamo verso casa preoccu-pati e perplessi. Un rumore rompe il silenzio. È una macchina che si av-vicina lentamente. Probabilmente non ce l’ha con noi, stiamo solo an-dando nella stessa direzione. Dall’interno però occhi adulti e poco ami-chevoli ci scrutano. Uno di loro fa cenno di fermarci. In un attimo, con-cordi, prendiamo la sana decisione di cominciare a correre come matti. I piedi volano sollevati dalla paura che quasi non ci fa sentire l’ultimo ter-rificante tratto in salita. Quando ormai l’auto ci copre con la sua ombra, spalanchiamo il cancello e ci gettiamo in casa esausti. Siamo innocenti. Com’è che nessuno ci crede? Papà arrabbiato, non mi ascolta nemmeno e si limita a ripetere: «Non esci più!» Ernesto cerca di convincere zio Pio e come tutta risposta riceve un ceffo-ne. Non resta che lasciare la faccenda agli adulti che come al solito han-no a cuore di sistemare tutto in modo tale da non dover perdere la stima e la buona opinione di nessuno. Felici di aver risolto il problema, felici di essere stati risarciti, felici di aver chiarito il fatto, felici perché tutti felici e contenti. Tutti tranne noi che per altro non siamo neppure disperati. Ci sentiamo solo un po’ così, vagamente incompresi e beffati, con quel mi-sto di voglia di combinarne altre, tanto c’è sempre qualcuno che rimedia. Io un giorno crescerò e nel cielo della vita volerò… ci viene voglia di cantare cose che difendono la spensieratezza, l’allegria, l’incoscienza e il sacrosanto diritto di essere bambino. Almeno una volta.

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Un bacio a tutti, torno a casa. Salgo in macchina e da dietro il vetro saluto la nonna e gli zii, mentre mi cadono le solite lacrime. Ernesto se ne sta sui gradini e quasi non mi guarda. Ci proviamo sempre a nascondere la commozione nell’indifferenza. Ci fa sentire meno ridicoli.

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7 Amo le fotografie buffe che colgono le vere espressioni, quelle strane che afferrano colori mai visti, le improponibili, belle solo per me e le meritevoli di essere strappate, che mai strapperò. Amo l’attimo fuggente colto davvero solo con uno scatto… clic… attimo… clic… attimo… clic… attimo d’infiniti stati d’animo in infiniti stati atmosferici. Foto in bianco e nero, senza flash, perché amo le sfumature e non sopporto il co-lore che accentua i difetti. Foto a colori, col flash, perché poi sono sem-pre le imperfezioni a suscitare emozioni, a ricordarci la meraviglia dell’universo. Non approfondisco le regole perché soffro d’insofferenza, sono un co-mune mortale che dubita dell’arte. Getto l’occhio nell’obiettivo, regolo qualcosa e scatto, sperando di fermare l’immagine che ho creduto di ve-dere, confidando nella fortuna più che nelle capacità, nell’istinto più di ogni cosa. Felice anche di trovarmi dall’altra parte, sorridente o meno, fiduciosa dello scatto altrui. Guardo le fotografie, le cerco soprattutto nei momenti di malinconia, le incornicio quando raggiungono il mio personale alto gradimento e poi le ignoro perché stanca di vederle. Le richiudo in ampi cassetti, ordinate ma non troppo, sistemate perché possano rimanere così per sempre. Da con-servare, da buttare, apparentemente indispensabili, spesso illusorie e mai abbastanza. Non ricordo più chi ha scattato questa foto eppure è una di quelle a cui tengo profondamente. Siamo seduti sulla collinetta che si trova a pochi passi da Villa Lusardi, con un golfino buttato sulle spalle, l’erba che punge le gambe scoperte, l’aria frizzante del tardo pomeriggio di una domenica di luglio. Io con la mia prima permanente, la mamma vicino alle cugine Sabrina e Stephanie, la nonna con gli scarponcini da monta-gna, Edoardo seduto davanti a tutti, zio Piero e zia Murielle ai lati. Si sentono il profumo dei prati, il rumore degli insetti obesi che volano bas-so, i movimenti che arrivano dalla mensa. «Allora, pope, è tempo di rientrare», dice la nonna. «Guardate giù dopo cena che vi mando il bacio della buonanotte!» In basso, oltre le migliaia di alberi, c’è il lago, ci sono tanti paesi e c’è Menaggio proprio sotto di noi, ma è impossibile individuare la casa o il negozio della nonna. Posso però immaginarla in tutte le sue azioni quoti-

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diane e sentire sempre una certa malinconia nel saperla così vicina, ma invisibile. Posso chiedermi ogni volta perché cavolo decido di tornare a Ponte, quando lì giù sto così bene. Ora non è più come una volta, con le suore che passavano la giornata a sentenziare divieti, ora sono grande e le suore hanno lasciato il posto a giovani muniti di chitarra e buoni principi. Esattamente ora poi, ho dodi-ci anni, tanti impegni e nessuna voglia di iscrivermi in colonia. Posso giusto venire a far visita alle cugine che occuperanno ancora per qualche anno i due stanzoni del primo piano. Posso concedere un saluto agli edu-catori, ai vecchi amici e alla nostalgia che comincia a farsi sentire. Nel frattempo però, è anche possibile che m’imbatta in Carlo, il mio primo tormento amoroso. Così considero la possibilità di andare dal direttore, chiedere di fare uno strappo alla regola per ospitarmi almeno l’ultima settimana, accontentando una povera ragazzina con raggiunti limiti d’età per la colonia. La zia mi lascia la sua felpa fucsia per coprirmi dal fresco della prima sera, il resto dei vestiti mi raggiunge grazie al cugino della mamma che gira sempre da queste parti. Pochi minuti dopo aver preso la decisione di rimanere, ci lasciamo fotografare sorridenti. Ponte è una colonia montana organizzata dal comune di Menaggio, una tradizione di famiglia a cui nessuno di noi è scampato. Per tre generazio-ni abbiamo cantato al mattino con l’alzabandiera, abbiamo passeggiato verso Breglia, scarpinato fino al rifugio bevendo dai ruscelli della Chia-rella. Abbiamo scalato la Grona e ci siamo fermati a riposare, guardando l’indimenticabile panorama del lago di Como con i paesini aggrappati alle sponde e i battelli che fendono l’acqua, in un silenzio irreale da ini-zio dei tempi. Abbiamo infilato nella tasca un frammento di roccia pri-ma di riprendere la via del ritorno. Poi ci siamo precipitati giù e ancora più giù, saltando da un punto all’altro, sfidando la sorte e la natura, su-dando e ridendo fino alle docce calde e al profumo della cena. E di sera ci siamo fatti raccontare le fantomatiche storie riguardanti la famiglia Lusardi, a cui si deve la donazione al Comune della villa e del terreno circostante. Racconti che a nostra volta, durante i temporali, abbiamo narrato ai più piccoli, infarciti di ritocchi pittoreschi improvvisati per l’occasione. Ai tempi di mamma e nonna il soggiorno era caratterizzato oltre che dal-la presenza ecclesiastica, anche dalla permanenza di maschi e femmine in periodi diversi. Noi invece veniamo divisi solo di notte, ma durante il giorno siamo uniti da continue sfide, il cui punteggio viene stabilito e se-gnato alla fine della giornata in base al rendimento negli sport, nei giochi

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o nelle imprese sociali come la raccolta dei rifiuti. Il sociale non mi vede spiccare granché, ma per le altre gare sono super richiesta. Le squadre sono necessariamente miste, così il mio contributo diventa importante. A calcio, dopo anni di tiri con mio fratello, me la cavo bene. Con la corsa, dopo le mille fughe, me la cavo altrettanto bene. A biliardino sono pro-prio un mostro. In difesa gli omini si muovono esattamente come voglio io e, quando quell’unica fessura tra me e la porta viene lasciata libera, do una sferzata di polso e concludo quasi sempre col rumore della palla in-ghiottita dal buco nero. Amo davvero venire a Ponte, nonostante la pressante nostalgia di cui sof-fro sempre. Mi piacciono anche i numerini che ci cuce la mamma sui ve-stiti come segno di riconoscimento. E mi piace la borsetta con spazzoli-no, dentifricio, pettine e sapone. Quando frequentavo questa colonia con Edoardo l’amavo meno. Biso-gnava fare un’iniezione di anti qualcosa e già questo poteva bastare per farmi passare la voglia. Poi c’erano le suore che rompevano parecchio appena superavamo i limiti di qualsiasi confine, c’era il controllo conti-nuo dei pidocchi e un numero esagerato di preghiere da recitare. In com-penso ci si divertiva un sacco con le sfide a tappi che la nonna era co-stretta poi a conservare in una cassa. Si sceglievano i due tappi da far ga-reggiare, quelli rari con quelli rari, quelli belli con quelli belli e quelli della Chiarella tra di loro. Con il pollice e il medio, si cercava di lanciare il proprio tappo contro quello dell’avversario. Il gioco però non compen-sava il resto, così trascorrevamo gran parte della giornata insieme ad altri malcapitati a progettare fughe. Qualche volta, a sorpresa, nei giorni non consentiti, spuntava papà dalla collina con uno zaino pieno di roba. Ca-ramelle, bibite, scatolette di cibo che regolarmente venivano sequestrate alla sua partenza. A nulla serviva ricordargli che mangiavamo abbastan-za e che erano proibite le visite. Quando ho cominciato a frequentare Ponte con le mie cugine invece, tut-to è cambiato. L’ambiente è diventato più accogliente, gli educatori ado-rabili, il tempo trascorso divertente, le vie di fuga dimenticate e le visite improvvise di papà sparite. Io ho sempre mangiato molto meno di Edo-ardo, quindi non necessitavo di scorte di cibo a sorpresa. Negli ultimi due anni poi, mi sono innamorata di Carlo, un bellissimo ragazzino castano chiaro e con gli occhi azzurri. Una grande passione che di sera mi toglieva il sonno. Per anni, nel viaggio in macchina da Mi-lano a Menaggio, ho buttato l’occhio nel tratto di strada del suo paese e una volta sono riuscita a vederlo, per una manciata di secondi.

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L’ultimo anno riesco a farmi mettere in squadra con lui, così gli sto ap-piccicata tutto il tempo. Entrambi sappiamo di piacerci e ci cerchiamo anche solo con gli occhi. Siamo troppo piccoli per dare libero sfogo ai sentimenti, ma la corrente tra noi scorre lo stesso. Siamo uniti da un’innocua attrazione. La mia prima attrazione, la prima passione, il primo sentimento di gelosia. La prima persona che fotografo nascosta dietro il cespuglio sperando in una bella immagine da guardare per tutto l’anno. La prima volta che decido qualcosa per amore e scopro quanto tutto questo possa alterare convinzioni e abitudini. Guardo Carlo con ammirazione mentre cerca di scalare il palo fino alla bandiera. Con quelle belle gambe muscolose e i pantaloncini rossi che gli stanno così bene. Se lui preferisse un’altra a me, sarebbe davvero insop-portabile. Quasi tutte votano per lui nell’elezione del più bello di Ponte. Minaccio di dichiarare guerra alle avversarie. Cugine comprese. Ma te-mo un paio di loro. Sono carine e smorfiose al punto giusto. Non m’interessa sapere a che punto della lista mi trovo, desidero solo che lui voti per me. E appena mi giunge la soffiata sperata, esulto come se fossi seduta sul trono di Salsomaggiore. Ai tempi di nonni e genitori Ponte era l’unico luogo di vacanza, per noi invece non è che una parentesi tra la fine della scuola e la partenza per il mare. Per i nostri figli non sarà che un monotono ricordo raccontato con entusiasmo o un luogo da frequentare per qualche settimana di luglio, seguiti da animatori extraterrestri o, nella peggiore delle ipotesi, da ria-nimatori ecclesiastici. Rancò invece è sempre stata in mano ai preti, ma lì ci stanno a pennello, tanto che per me e mio fratello poterci soggiornare è quasi un sogno. Si dorme dentro le tende, si mangia sotto tettoie di legno seduti intorno ad un lungo tavolone con cassetti che contengono il necessario, ci si cambia dentro un locale in pietra e ci si lava sotto docce sistemate sul prato. Dai servizi parte una lunga scalinata di legno ed erba che arriva fino alla chiesetta, interamente scavata nella roccia, semplicemente arredata e rac-colta intorno all’altare, un piccolo e meraviglioso luogo in cui mi rifugio spesso, immaginando a volte il mio matrimonio seduta sui cuscini. La mamma dice che Rancò è stata interamente costruita dai ragazzi che vi trascorrono a turno l’estate insieme al Don Montagnoli, un loro inse-gnante delle scuole salesiane. Noi bambini possiamo rimanere qualche giorno insieme alle cugine più grandi in via eccezionale, dal momento che questa parte di montagna appartiene alla zia Giovanna. Io non ci ca-pisco granché di salesiani e proprietari di montagne, anche perché riten-go che i monti, come il mare, appartengano a tutti. So però che in mezzo

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a questi giovani adulti ci sto proprio bene. Mi viziano e mi fanno fare un sacco di cose importanti, come lavare vestiti e piatti o accudire un asino in fin di vita, impegno che prendo molto seriamente. Il Don recita la messa all’aperto e tutti rimangono incantati dalle sue pa-role. Ha sempre da raccontare storie che i preti con la voce nasale nem-meno se le sognano. Si circonda di tanti studenti e qualche ragazzo con problemi di droga o altro, come sento dire. Se fosse per me, non riuscirei a distinguerli, visto che vicino a lui mi sembrano tutti felici e senza pro-blemi. Io da grande voglio frequentare la scuola del Don, anche se lui ride e so-stiene che potrebbe non essere il tipo di studi adatto a me. Nella mia testa c’è un tipo di studi in cui apri i libri e studi e quello del tipo che i libri non li apri neppure. Quindi mi sembra di appartenere al tipo di studi che intende lui. Con il Don mi comporterei bene, non direi parolacce, non farei casini e non mi annoierei mai. Frequento la scuola da un anno, so leggere e scrivere, so il fatto mio e credo di avere già abbastanza in pugno la situazione. Una notte, non so perché, faccio pipì nel materassino-letto, così mi alzo col buio, attraverso una parte del campeggio, lavo tutto e torno a dormire avvilita. Se non fosse per questo imbarazzante inconveniente, per i dispetti che mi fanno le cugine grandi e per l’asino, sarebbe tutto fantastico. Il mio asino non reagisce granché alle cure. Ha gli occhi tristi, beve ap-pena, non mangia e sta sdraiato tutto il tempo. Non vorrei mai che le mie attenzioni non fossero abbastanza, che morisse per causa mia. Così prego un po’ e lo accarezzo continuamente. Ogni tanto sembra essere sul punto di riprendersi, immagino che quando guarirà, apparterrà a me. Potrei metterlo nel giardino della nonna o lasciarlo qui in montagna a qualcuno che sappia trattarlo bene. Lo zio Nani, però, mi dice che è suo e che, in caso di guarigione, lo ammazza e lo porta in macelleria. Faccio le scale di corsa fino alla chiesetta e scoppio a piangere. La pena di morte è una cosa che non mi va giù. Chiedo almeno che possa morire di malattia e senza soffrire. Quando sento di potercela fare, torno dal mio asino e gli spiego come stanno le cose. Decide di non combattere più. Il Don e i ra-gazzi scavano una fossa vicino ad un albero e lo seppelliscono con serie-tà, rispettando il cuore infranto di una bambina. Mi ricapiterà ancora di armarmi di coraggio, guardare negli occhi e dire le cose come stanno mentre nessuna chiesa pare disposta ad ascoltar pre-ghiere e nessun destino pare interessato a mutare il suo corso. Mi capite-rà di dover morire dentro e risvegliarmi il giorno dopo un po’ più grande e un po’ più persa. Ma credo non capiterà mai di abituarsi a tutto ciò.

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8 Fotografie e odori hanno per me caratteristiche simili tra loro e diverse dai loro simili. Sono capaci, in una frazione di secondo, di suscitare una svariata gamma d’emozioni e un insieme d’immagini che spesso non so nemmeno di conservare. Il ricordo scavalca velocemente il presente sot-traendo sguardo e pensieri nel tempo di un sospiro, un odore improvviso e famigliare invece coglie quasi con violenza e trascina a forza in un al-tro tempo e in un altro luogo ingenuamente ritenuti persi. Il prato tagliato vicino agli alberi, nella frescura estiva, odore di Ponte. Pomodorini tagliuzzati vicino ad una bottiglia di olio d’oliva lasciata a-perta, odore di Torrecuso. Pavimento appena passato con straccio troppo bagnato e alcool versato, odore di Chuck. Salviettine umidificanti e boro-talco, odore di mia sorella. Mucche al pascolo, odore di gite domenicali alla Boffalora con mangiata di polenta. Lavanda tagliata e chiusa in un fazzoletto, odore di nonno. Menta mista a odore di pulito con qualche goccia di buon profumo, mia nonna. Legno caramellato, la credenza nel sottoscala di Cadenabbia. Mentolo con disinfettante in aria viziata, odore di morte. Ci sono fotografie che sanno raccontare gli odori più delle situazioni stesse. Le feste nel giardino della nonna sanno di ortensie prima ancora che di ricorrenze e le nostre pose sui gradini della chiesa accanto alla sua casa sanno di una particolare vegetazione lacustre e ombreggiante, ricca di rovi che nascondono more e lucciole. La nonna abita a Cadenabbia, tra Menaggio e Tremezzo, sul lago di Co-mo. Dal suo giardino, se corri, arrivi in riva al lago in un minuto, se sei munito di canna da pesca, cagnotti e retino, in due minuti, escluso il tempo per attraversare la provinciale. La casa bianca con le imposte ver-di e il nome dei miei zii scritto con lo stesso verde, sul muro dietro i fio-ri, è stata acquistata dal nonno pochi mesi prima di decidere di non con-dividerla con moglie e figli. La nonna però non è vissuta sempre qui. Ci ha abitato per una decina d’anni e poi si è trasferita a Milano. Forse perché aveva bisogno di mag-giori certezze lavorative o più probabilmente perché le stava stretto il pa-ese. Il divorzio non era visto di buon occhio e una donna sola con tre bambini rischiava di subire torti e umiliazioni mai destinati alle donne

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sposate. Il prete poteva tranquillamente invitarla alla porta durante la messa. Il primo maniaco poteva approfittarne senza subire punizione. La mamma ha circa sei anni quando va a comprare la farina. Il garzone la invita a seguirlo in bagno e, prima di sbottonarsi i pantaloni, chiude la porta con il gancio. Lei fortunatamente riesce a scappare e corre giù da-gli scalini che da Griante portano a Maiolica, senza mai fermarsi. La nonna, con la stessa furia risale in paese, entra in negozio e riempie di botte il maniaco, fino a quando non glielo tolgono dalle mani. Il sindaco, il parroco e la gente perbene le suggeriscono di non sporgere denuncia, perché si sa che, una volta chiamate le autorità, si muove un meccanismo per cui c’è il rischio che da vittime si diventi meritevoli di condanna. Gli assistenti sociali infatti, potrebbero decidere si sottrarre i minori alla ma-dre per chissà quale assurdo motivo. Così, trascorsi tre anni, si organizzano per trasferirsi a Milano, dove non necessariamente bisogna avere a che fare con il sindaco, il parroco e la gente perbene. Solo dopo la mia nascita, la nonna torna ad abitare nella casa bianca con le imposte verdi di Cadenabbia. Nei fine settimana e appena iniziano le vacanze scolastiche, io mi preci-pito qui. Qui ad oscillare sul dondolo in un tranquillo dopocena di ricor-di e gelati al caffè, ad osservare i turisti che scendono i gradini davanti al nostro cancello e sobbalzano all’improvviso abbaiare di Floc, a correre dietro Floc che nonostante la stazza da pastore tedesco, ha la pretesa di nascondersi dietro le ortensie e la palma africana portata dal bis nonno. Qui nella brezza che increspa il lago mentre aspetto la nonna e annuso l’aria per cercare di capire se pioverà, guardando minacciosa le nuvole meno minacciose di me, nuvole abituate a strizzarsi da queste parti, fre-gandosene di chi è già pronto ad andare al lido con costume e merenda. E se sarà da escludere un bel bagno nell’acqua fredda, me ne starò in bottega ad osservare la nonna che come una scultrice abbellisce le teste delle clienti, tra schiuma, pennelli impastati di colori, aria calda, capelli che cadono a terra, cartine per bigodini umide, lacche, monete che cado-no nel portamance, giornali un po’ pettegoli sfogliati da donne in vena di pettegolezzi. Mia nonna sembra provenire da un altro pianeta, così solitaria e sorriden-te, all’opera mentre ascolta ogni confidenza da scordare dopo pochi mi-nuti. Le sue attenzioni preferisce riservarle alla letteratura, all’arte, alla conoscenza di luoghi e culture, alla musica, al ballo e al teatro. Per me che la vedo perfetta dentro e fuori, è inspiegabile il fatto che sia stata lasciata dal nonno e che abbia deciso di rinunciare definitivamente

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alla ricerca di un compagno, anche se, a parte Gianni Agnelli che piace ad entrambe, non me la vedo con nessuno in particolare. Tutti troppo im-pomatati, grezzi, noiosi, incapaci di intendere e di volere, non eleganti, superficiali, per nulla romantici. Dove lo metteremmo un uomo nelle nostre serate cinematografiche a let-to? Se non ride vedendo Amici Miei? Se non sa prendere una posizione nelle discussioni sulle capacità recitative della Duse e della Loren? Se non ama la lirica? Se vuole vedere la tv mentre noi leggiamo, vuole ripo-sare quando noi passeggiamo, vuole andare sulle Dolomiti invece che a Rimini, vuole entrare in chiesa durante la funzione e non quando è deser-ta, vuole la trippa e non polenta e brasato? Non so proprio se, nei lunedì di riposo dedicati alle gite in traghetto, ci sia posto per un terzo incomodo. Noi siamo due anime irrequiete con tante cose da raccontarsi e un grado medio basso di sopportazione. Sia-mo noiose quando apriamo e chiudiamo un libro in contemporanea, si-stemandolo poi allo stesso modo sul comodino e quando camminiamo in silenzio per ore immerse ognuna nei propri pensieri o ci abbuffiamo di vetrine di abiti, scarpe e oggetti vari e decidiamo alla mattina presto tutto quello che faremo fino a sera. Ho amato ogni singolo giorno insieme a mia nonna, non cambierei un solo minuto eppure ora che l’immaturità mi ha quasi abbandonato, vorrei poter rinunciare ai nostri momenti meravigliosi in cambio di un qualsiasi impomatato un po’ rincoglionito, ma vagamente somigliante a qualche personaggio di Amedeo Nazzari. Amo l’idea di assomigliarle tanto, ma vorrei per me un altro destino, il destino che avrebbe voluto che avessi. Poi mi rendo conto che la mamma, così diversa da noi, aperta ed esube-rante, positiva e amante dell’amore, battagliera e fiduciosa, non sembra destinata a sorte migliore. Allora mi assale il dubbio che per qualche ca-so della vita che regola l’universo, siamo condannate a non guardare l’amore negli occhi per generazioni e generazioni di donne strettamente legate tra loro, ma incapaci di altri stretti legami. Rassegnate al destino e alla consapevole fortuna di appartenerci. Così, appena possiamo, ci troviamo assieme. Partenza nostra il sabato pomeriggio o suo arrivo la domenica mattina. Tutte assieme puntuali ad ogni festa, ricorrenza, ponte o vacanza. La nonna e io ad aspettare la mamma i venerdì sera d’estate. Quando conto le ore nell’attesa che arrivi. E felice l’assalgo col resoconto della setti-mana, per poi farmi da parte per lasciarle libere di condividere le loro cronache.

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La mamma scombussola sempre i nostri ritmi. Vuole vedere altre tra-smissioni televisive, non ha voglia di rimanere a casa, scalpita mentre noi ci prepariamo con calma, chiacchiera quando leggiamo e non rispetta il silenzio di prima mattina. Brontola perché si sente esclusa, ma appena comincia a parlare in codice con la nonna, la tagliata fuori divento io e non c’è verso di farmi spiegare perché ridono tanto da scappare in bagno tenendola stretta. Io sono un miscuglio, dentro vestiti unisex che piacciono alla mamma e in quelli eleganti e femminili della nonna. Lei sempre impeccabile in o-gni occasione e per nessuna ragione al mondo, priva di regolare rossetto. La mamma scarsamente pettinata, quasi mai truccata, con i bottoni allac-ciati male e il colletto malmesso. E io tra i film buffi della nonna e quelli strappalacrime materni, tra le arie di Mascagni e le canzoni di Julio Igle-sias. Io elegante ma non troppo, barbona ma non troppo e chissà se ab-bandonata dal marito o separata per scelta, ma non troppo. Così simile a loro eppure diversa. Meno nasona, meno stonata, meno pi-gra negli sport, meno propensa a certe ridicole performance che le vedo-no rovinare all’unisono con accenti e acuti improponibili la canzone di battaglia Dicitincello vuje. Sì, tutto sommato ho qualche speranza di non diventare come loro. Così bizzarre e poco serie. Destinate a stare nella tempesta perché cuori poco avvezzi alla tranquillità. Donne che pensano di poter divorare il mondo e per un niente eccole piangere commosse. Ma commosse di che? Eccole ridere per le solite battute incomprensibili. Donne in bilico tra l’esaurimento e l’inesauribile, cacciate dalla sfera delle mogli comoda-mente sposate, delle mamme noiosamente genitrici. Donne troppo forti, pericolosamente ottimiste, paurosamente sentimentali, orribilmente sen-sibili. Donne che magari non me la raccontano giusta e nascondono qualche settimana infuocata da qui all’eternità o travolgenti mille e una notte, con un lui andato via col vento o col primo volo immerso nella nebbia, dopo aver scelto di non cinguettare tutta la vita, per innalzare il più soave dei canti e poi trafiggersi nei rovi. Le mie meraviglie di donne che forse non riuscirò mai ad eguagliare. In tal caso, io come sarei messa? Destinata ad un banale e vissero felici e contenti?

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9 Arriva all’improvviso, inaspettato e spietato. Lo sfratto. Un pezzo di carta comunicante l’immediato abbandono del luogo natio. La casa che ha assistito la turbolenta adolescenza di mamma e zii, il pa-vimento su cui ho mosso i primi passi, le pareti che hanno protetto la mia famiglia e ne hanno visto la disfatta. Non c’è tempo per i sentimentalismi, bisogna mettersi in cerca alla svel-ta. Tutti gli appartamenti in zona sembrano ormai occupati, nemmeno fossimo in un quartiere residenziale. La mamma dice che non possiamo permetterci di spendere troppo, senza però specificare di che troppo si tratti, così troppo potrebbe essere un castello e non la possibilità di avere finalmente una camera. Ma dopo accurate ricerche, sfuma l’idea della camera e si fa strada l’ipotesi di un posticino all’interno di terrificanti ca-sermoni grigi e malmessi che forse la città ha fatto costruire ai tempi del-la colonizzazione meridionale per abituare gli emigranti ad eventuali ri-formatori o carceri. Io mi ci immagino un pochino qui dentro, magari in-timorita i primi giorni, ma poi pronta a dipingere sui muri enormi piselli, a bruciare i tasti degli ascensori, a pisciare sulle scale e rubare zerbini sentendomi una guerriera della notte. Quando ormai sento di appartenere al Bronx milanese, si apre finalmente una porta in un bel palazzo con giardino a Precotto, vicino al viale Mon-za, non lontano dal vecchio quartiere. Così in un attimo mi sento addirit-tura più ammodo di quando disponevamo solo di un cortile cementato. Il palazzo mi ricorda un albergo di Rimini. Tutto pulito e ordinato. Mi dà l’impressione che alle diciannove si debba scendere nella hall ben vestiti e pettinati. La portinaia elenca subito le regole. Sembra più severa della signora Adriana. Dice che non si corre per le scale, non si gioca con l’ascensore, non si va in giardino per nessuna ragione. Un giardino mes-so lì per bellezza e per suscitare la nostra giovanile perplessità. In Ponte Nuovo non avevamo un filo d’erba, però il cortile era mitico. Alle quattro si scendeva a giocare con la palla, la bici o i pattini. C’era una discesa bella larga che arrivava direttamente nello spiazzo. Ci si po-teva scivolare seduti sullo skateboard o, meglio ancora, sul mio indistrut-tibile carro armato di Big Jim. Un quattro ruote di plastica dura e verde

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che è riuscito a reggere il nostro peso per anni nonostante fosse destinato a contenere il minuscolo amante della Barbie. Il cortile per noi è stato fondamentale. Nel nostro avevamo carta bianca, salvo eccessivi schiamazzi. In trasferta invece, bisognava prestare mag-giore attenzione. Al primo sgarro, espulsione immediata. Il cortile di fronte al nostro era visto con antipatia. Ognuno si sentiva nel territorio migliore. Se la palla volava dall’altra parte non era automatico che tor-nasse indietro. Quello di fianco, dove abitava Manuel, era troppo picco-lo, si poteva fare giusto una chiacchierata sul gradino. Da Federica e Giulia discesa e spiazzo erano perfetti per i pattini, ma per andarci non era sufficiente dire scendo un attimo. Bisognava fare un pezzo di Ponte Nuovo e uno di via Caroli. In alcuni c’era il divieto assoluto per i non residenti. Allora diventava una questione di principio starci almeno qual-che minuto o sbattere fuori dal nostro i loro appartenenti. Specialmente se da noi assumevano toni spavaldi e strafottenti. I cortili di via Treviglio invece erano fuori questione. Specie quello di Francesco, un po’ trasan-dato e con il bagno in mezzo. Si raccontavano un sacco di cose su quello. Di un matto che aveva regolari rapporti sessuali col suo cane, di uno che entrava e usciva dalla galera, di un gruppo di egiziani che chissà da dove arrivavano e che cosa erano venuti a fare fino qui e addirittura di un tran-squalcosa, vestito da donna, ma uomo o viceversa. La nuova portinaia acconsente solo a farci portare da mangiare ai gatti, ma di nascosto e senza sporcare. Se vogliamo giocare all’aperto, lo pos-siamo fare insieme agli altri sul marciapiede che circonda l’edificio. O sul marciapiede che circonda quello di fronte. Per avere spazi più ampi, in fondo alla via Frigia c’è il parchetto. Un bel prato, un campo di basket e uno per i pattini. L’appartamento, al quarto piano, è composto da due locali e cucina non abitabile. Studiamo subito la situazione. Cameretta per noi due, divano letto in sala per la mamma, qualche mobile nuovo per la cucina, un ar-madio grande in corridoio, scarpiera da mettere sul balcone. Anche se è più piccola, la casa mi piace e mi piace anche il quartiere, più tranquillo, più verde e con la metropolitana che in un quarto d’ora arriva in Duomo. L’unico inconveniente è il tragitto per arrivare a scuola. Edoardo segue l’orario delle medie e se ne va come sempre per i fatti suoi. Il lavoro è a dieci minuti da scuola, quindi di mattina faccio il tragitto con la mamma e anche se dobbiamo tenere un ritmo piuttosto spedito, non ci dispiace camminare chiacchierando. Di pomeriggio invece torno quasi sempre in autobus. In teoria dovrei aspettare papà che tra un giro di consegna e l’altro, passi a prendermi. Ma poi, un giorno fa tardi, un gior-

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no ha da fare, un giorno è arrabbiato e mi passa vicino senza fermarsi, così finisco col prendere la comoda e puntuale 44. Ho l’abbonamento, non do confidenza a nessuno, compro le figurine dal giornalaio e la me-renda dal panettiere e volo a casa a vedere Bim Bum Bam. Appoggio la sedia alla porta, così se qualcuno suona, guardo prima dallo spioncino. Mi tengo sempre a portata di mano un coltellino, in caso qualche scippa-tore, ladro, drogato, stupratore decidano di capitare sul mio percorso. Perché, anche se sembro una dura, mi spavento parecchio quando scen-dendo dall’autobus vedo tizi che strappano la borsetta a sconcertate don-ne, quando passo involontariamente affianco a ragazzi seduti sul marcia-piedi che si infilano siringhe nel braccio o quando un bavoso mi si avvi-cina dicendo porcate. Un pomeriggio giro per il quartiere con la mia bici azzurra nuova di pac-ca. Un tale su un camion accosta e mi domanda un’indicazione. Non ca-pisco e mi avvicino. Allora scende con un bigliettino tutto stropicciato in mano e sbiascica qualcosa riguardante una via. All’improvviso mi accor-go che l’altra mano è impegnata a maneggiarselo. Gli scaravento addos-so la bici mentre urla di fermarmi. Corro come una pazza. Lo sento die-tro. Corro più forte. Arrivo al cancello e anziché aprirlo semplicemente, lo scavalco e mi getto dall’altra parte atterrando sulle ginocchia sotto gli occhi perplessi della portinaia. Aspetto terrorizzata che mia madre torni dal lavoro e penso alla bici nuova buttata in strada. Il coltellino intanto se ne sta tranquillo in tasca, come sempre. In bici giro da sola per ore e quando mi stanco della solitudine pedalo fino a casa di Manuel. Con la scusa di andare incontro alla mamma che lavora nella ditta sotto il suo appartamento, sono quasi sempre da lui. Prima abitava in Ponte Nuovo, nel cortile buono solo per le chiacchiera-te. Ora ha un cortile più grande, ma inutile, visto che possiamo tranquil-lamente girare per tutto il quartiere. Qualsiasi tipo di gioco movimentato, è un gioco che fa per noi. Lotta all’ultimo colpo con i bastoni di bambù di suo padre è gioco nostro, sfrecciare per le strade con bici senza freni evitando appena auto e per-sone, anche. Alternare i mezzi di trasporto con skateboard o pattini che sfrecciano delicatamente lungo i marciapiedi, mentre le mani sono occu-pate a suonare tutti i citofoni della via. Arrivare di corsa alla fermata dell’autobus, mentre l’autista ci aspetta e continuare a correre osservando la sua faccia perplessa, ridendo come matti. Creare strani congegni con petardi e simili che scoppiettano vicino ai negozi o dentro i tubi di scap-pamento delle auto, creando un effetto Milano spara Napoli risponde, tipico anni Settanta. O decidere di andare a casa mia a lanciare gavettoni

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dal quarto piano per vedere di nascosto l’effetto apocalittico, mentre le persone saltano e imprecano guardando in alto. Tutti passatempo che fanno per noi. Da Manuel non ci sono divieti. Possiamo saltare sul lettone imitando le mosse di Bruce Lee, rovesciare quello che ci capita, svuotare il frigo, sbattere la palla contro il muro. Amelia ci richiama solo quando esage-riamo con Fulvio, il figlio più piccolo. Se lo teniamo chiuso troppo a lungo nello sgabuzzino, lo spaventiamo eccessivamente con storie dell’orrore o gli facciamo dispetti che lo fanno gridare, allora interviene e ci dà una calmata. Non siamo però sempre scatenati, a volte capita di sederci tranquilli da-vanti all’Atari, un semidio che, a differenza dei videogame da bar, non ha la schermata finale che ordina insert coin. Verso sera facciamo in modo che le nostre mamme si siedano in cucina. Se si salutano dalla finestra, dobbiamo necessariamente andare ognuno a casa propria. Se la mamma decide di salire un attimo, giusto il tempo di un aperitivo e due parole, il gioco è fatto. Vanno avanti a confessarsi e sghignazzare abbastanza da permetterci di vedere uno dei nostri film di paura o da ridere che danno sui canali strani. Tutti gli horror vanno bene, ma se si tratta di uno di Dario Argento, sono obbligate a chiacchierare finché finisce. E se è L’esorcista che trasmettono, non facciamo parola con nessuno, ci chiudiamo in camera, spegniamo la luce e aspettiamo che il terrore ci costringa a darcela a gambe. Il più coraggioso è quello che resiste. Ma di solito, quando vediamo che la testa della protagonista fa il giro completo e il collo s’ingrossa, uno dei due se la dà a gambe se-guito a ruota dall’altro. Il nostro attore di culto è Abatantuono. Basta guardarci negli occhi per cominciare a cantare: «Io, fottuna che ho un cervello eccezziunale, vera-mente eccezziunale, ma la gente mi ritiene un animale, un gran bell’animale…» poi andiamo avanti a parlare in lingua abatantuonia per tutto il giorno. Ci rivolgiamo alla gente dicendo: «So’ i maco di Secra-te!», «O p’bbacco!», «schifezza!», «viuleenza!» esasperando tutti e ti-randoci dietro parecchie madonne. Manuel e io siamo costantemente alla ricerca di forti emozioni, non tanto per spavalderia, ma proprio per il gusto del divertimento. Sicuramente anche lui, come me, i primi tre anni ha rischiato di essere eliminato dal fratello più grande o cose del genere. Di conseguenza, almeno durante l’infanzia, entrambi ci siamo trovati spesso in situazioni scioccamente pericolose per la natura del nostro essere, un po’ leggera e un po’ convin-ta di cavarsela sempre.

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Ci armiamo, ci trucchiamo, ci travestiamo, aspettiamo con ansia il car-nevale prolungandolo vergognosamente per vestirci da Spiderman, da Superman, da Dracula, da Zorro, da cowboy o da Kiss, come in quella memorabile fuga di mezzopomeriggio. È il sabato di carnevale e decidiamo di intrufolarci nel quartiere di Gorla proprio in un periodo poco felice di continue battaglie di zona. Passeg-giamo spruzzando sui muri schiuma da barba appena rubata al supermer-cato, quando improvvisamente si avvicina un gruppo consistente di ra-gazzini poco amichevoli. «Due di Precotto! Addosso!» Corriamo zigzagando tra la gente e le auto che sfrecciano lungo il Viale Monza. Se ci beccano, ci vivisezionano. Bene che vada, ci ripuliscono completamente. Magari ci tirano le uova marce con dentro le lamette o ci spruzzano quella roba che fa cadere i capelli. Corriamo come disperati, mentre gli stronzetti ci corrono dietro urlando insulti con non so quale fiato nascosto. Arriviamo miracolosamente davanti al nostro oratorio e ci gettiamo dentro buttandoci a terra senza respiro. Qui non hanno il corag-gio di entrare, così aspettiamo di recuperare un po’ di forze, sperando che si allontanino. Quando pensiamo di averla fatta franca, usciamo e ce li ritroviamo davanti. Non tutti, solo qualcuno, quanto basta per prender-ne una battuta e sopravvivere esclusivamente perché troppo complicato ammazzarci davanti ad una chiesa, sotto gli occhi di tutti. Penso di anda-re incontro al mio destino difendendomi con dignità, quando una voce chiede se per caso, c’è qualche problema. «Ciao Edo, volevamo menare ‘sti due cretini!» «Mia sorella?» «Tua sorella? Nooo, ci siamo sbagliati, figurati! Anzi, adesso andiamo che è tardi. Ci vediamo nè…» Manuel sghignazza e saltella, nel giro di poco ha ripreso colore e buon umore. Mio fratello ci salva e se ne va come nulla fosse. È il giustiziere che compare sempre al momento buono e che le amiche m’invidiano. Se non fossi la sua incessante valvola di sfogo, sarei davvero una carogna a la-mentarmi. Sì, perché nessuno deve permettersi di toccarmi, ma lui mena sul serio. Mi tira certi ceffoni e calci che mi rimbombano per ore e se scappo, mi tira dietro la prima cosa a portata di mano. Tutto perché è un gran dispettoso e un perfetto stronzo. Credo che mi odi dalla nascita, per via di una di quelle sindromi da primogenito che doveva esistere solo lui. La cosa è evidente dalle fotografie stesse. Non ce n’è una in cui ci ab-bracciamo, ma tutte, proprio tutte nascondono evidenti scintille di guerra.

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Nemmeno quelle in cui sembriamo semplicemente in posa, vestiti bene e quasi sorridenti, coprono la voglia di prenderci a sberle. Anche se ci vo-gliamo bene, ci siamo davvero antipatici, non condividiamo nulla se non una casa e la famiglia. Per lui io sono una rincoglionita e per me lui è un sottosviluppato. Così c’insultiamo spesso e volentieri, ci giriamo intorno in cagnesco, ringhiamo e ci attacchiamo selvaggiamente senza esclusio-ne di colpi. Regolarmente sono io a prenderle essendo più piccola, più mingherlina e più femmina, ma qualche volta mi capita di darle e mai di rinunciare a far valere i miei diritti. Piuttosto morta! Nostra madre si dispera e va su tutte le furie continuamente, usa le ma-niere dolci, quelle forti, le belle maniere e quelle prive di maniera, poi con lui ci rinuncia e ci prova con me, chi ha testa, la usi, mi dice, conta fino a dieci, mi ripete fino allo sfinimento. Ma io che mi ritengo una per-sona saggia e matura, ho però questo terribile difetto di non saper tratte-nere l’impulsività e soprattutto di non sapere incassare. Così tento di i-gnorare i dispetti che mi fa senza sosta, le prepotenze che usa giornal-mente, fingo di non vedere che si mangia anche quello che c’è nel mio piatto, che cambia canale mentre sto guardando un programma, che s’impossessa della camera di entrambi perché deve fare i suoi infiniti tornei di calcio con le monete. Paziento quando sale con me in ascensore e poi, sapendo che ho il terrore del chiuso, schiaccia lo stop e finge che ci siamo bloccati, trattengo le mani quando mi rutta o mi scoreggia in faccia, suonando le note che gli riescono meglio e tirando al massimo i miei nervi, mi tappo le orecchie quando si diletta in offese e insulti, per-do i colpi quando prende la mia roba e regolarmente la perde o la rompe e poi… Mi arrendo e attacco con tutte le forze, tanto comunque prima o poi attaccherà lui che anche quando finisce tutte le munizioni a disposi-zione, trova comunque un pretesto per litigare. Una volta gli inforchetto la guancia, scoprendo il mio lato assassino con immenso stupore. Ma quasi sempre mi tocca scappare in lacrime, non tanto di dolore, quanto di rabbia e frustrazione. E corro regolarmente in ditta, dalla mamma che lavora, attendendo con ansia la mia comparsa a-bituale. Non è che mio fratello sia uno stronzo per esteso, i suoi amici, gli amici di famiglia, i parenti e i conoscenti hanno un’ottima considerazione di lui. Sa farsi ben volere, è educato, gentile, generoso e disponibile. Ma d’altro canto, nemmeno io vengo considerata come un’antipatica faccia da schiaffi. Quindi secondo me soffre di doppia personalità e il suo dop-pio si risveglia solo a contatto con la mia presenza. E forse anche la mia antipatia raggiunge l’apice al suo cospetto. Se un giorno riuscissi a sof-

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focarla, anche lui potrebbe considerami umanamente. Un giorno che non è oggi, che non è ora che sono una ragazzina in pieno sviluppo e con po-ca pazienza, con tanta energia per combattere e poca esperienza per vin-cere. Per alcuni mesi riusciamo anche a non litigare e mi azzardo a sospettare che sentiamo un po’ di nostalgia reciproca. Giorni interi trascorsi senza maltrattarci. Non un’incomprensione, non un urlo, nessuna parolaccia. Stanze e televisione in piena democrazia, porte che sbattono poco, nes-sun avvistamento di oggetti volanti nemici. Edoardo si è trasferito da papà. Ha fatto davvero la valigia dopo averlo a lungo minacciato. E si è stabili-to da chi da una vita reclama la sua appartenenza. Sul divano giace un Edoardo sorridente di qualche anno fa. La mamma dallo sconforto non vuole vedere nemmeno la sua foto. Non sa darsi pace e mi accusa di aver contribuito al suo allontanamento, per via della mia poca pazienza e della mia particolare aggressività nei suoi confronti. Tira fuori la storia del contare fino a dieci, ricordandomi che so arrivare mas-simo al quattro. Faccio mente locale seduta sulla tazza del gabinetto mentre mi scendono le prime lacrime di mortificazione. So già che entrerà in camera e seduta al bordo del letto farà pace con un bacio. Poi tutto torna come prima. O forse non torna mai niente come prima. Ma perché, in fondo prima com’era? E io che sognavo una camera mia e una vita da figlia unica, cerco di ad-dormentarmi senza pensare che per la prima volta affianco al mio letto non c’è nessuno da guardare quando non riesco a prendere sonno o quando mi sveglio all’improvviso a causa di un incubo. FINE ANTEPRIMACONTINUA...

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