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ROBERTA VALTORTA CONCETTUALITÀ DEL VIAGGIO NELLA FOTOGRAFIA ITALIANA CONTEMPORANEA Licenza Creative Commons Università degli Studi di Udine - Anno Accademico 2000-2001 - Storia e Tecnica della Fotografia dott.ssa Roberta Valtorta Pag. 1 di 32

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ROBERTA VALTORTA

CONCETTUALITÀ DEL VIAGGIO NELLA FOTOGRAFIA ITALIANA

CONTEMPORANEA

Licenza Creative Commons

Università degli Studi di Udine - Anno Accademico 2000-2001 - Storia e Tecnica della Fotografiadott.ssa Roberta Valtorta

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CONCETTUALITÀ DEL VIAGGIO NELLA FOTOGRAFIA ITALIANA CONTEMPORANEA

1. Piccola riflessione sui significati del viaggio e sul concetto di luogo

Poiché tratteremo del tema della concettualità del viaggio nella fotografia contemporanea, è necessario analizzare l’idea di viaggio per arrivare a capire come essa si sia incontrata con l’idea di fotografia nella contemporaneità (1).

Il latino via-viae, da cui è derivato il termine viaggio, presenta tre ordini di significati: a) via, strada; b) viaggio, cammino, traversata, tragitto; c) metodo, regola.Questa terza, interessante, accezione indica che il viaggio presuppone, almeno in origine, qualcosa di sistematico, voluto, metodico. All’idea di viaggio si associa quella di conoscenza, concreta conoscenza del mondo attraverso uno spostamento nello spazio, ma essa contiene anche una dimensione immaginaria e mentale.Il viaggio mette alla prova l’individuo separandolo da una condizione originaria a lui nota e obbligandolo a confrontarsi con una realtà nuova che egli non conosce e che potrebbe porgli dei problemi: dunque il viaggio non è solo conoscenza del mondo, ma anche di se stessi, della propria soggettività.La possibilità di questa esperienza di duplice conoscenza esterno/interno si basa su una relazione fra l’io e il mondo come entità fra loro integrabili. In questa chiave, il viaggio è lo strumento di una dinamica relazionale assai mobile e delicata, molto mutevole, che prende significato grazie a condizioni di regolarità e di ripetitività, di metodo appunto (conosco e capisco un luogo se vi torno più volte; se ci vado ricercando qualcosa di preciso; se confronto l’esperienza di un dato luogo con l’esperienza di altri luoghi, etc).L’atto del viaggio può essere diviso nelle fasi della partenza, del transito, dell’arrivo.La partenza risponde al bisogno individuale di staccarsi da una matrice originaria, alla necessità di libertà e di autonomia, di una condizione diversa dalla quotidianità e dal già conosciuto.Però è la fase del transito, che si può dire costituisca il corpo del viaggio, quella più interessante e problematica. Essa costituisce un mutamento continuo di luogo (e di tempo) che permette all’individuo di valutare costanti e variazioni in un confronto continuo nel quale misura il mondo esterno e se stesso, accumulando esperienza e memoria.Ne consegue che il luogo è il principio organizzativo stesso della struttura del viaggio. L’individuo vive una serie di spazi, di scenari, di paesaggi, e di esperienze in una sequenza che lo aiuta a classificare e a capire.Non è possibile parlare di “luogo” in assoluto. Dobbiamo più propriamente parlare di luogo antropologico, cioè di luogo organizzato dalla storia e dalla vita degli uomini secondo percorsi, assi, itinerari che collegano anche gerarchicamente un punto ad un altro, determinato dalle attività umane che vi si sono svolte e che vi si svolgono, segnato dai significati che sia i suoi abitanti che i suoi “visitatori” gli attribuiscono. Infatti nel nostro viaggiare scegliamo di compiere tappe che riteniamo più significative di altre, e queste contribuiscono a determinare l’identità dei luoghi nel nostro immaginario: per esempio privilegeremo le città principali a discapito di luoghi marginali, secondari, minori. Oppure, al contrario e tenendo i luoghi “principali” come riferimento sottinteso, eviteremo

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volutamente i luoghi più noti per “esplorare” quelli meno noti e correntemente ritenuti insignificanti. Oppure ancora tenteremo un viaggio senza tappe definite a priori e senza obiettivo, per trovare qualcosa che non abbiamo deciso di cercare.In questo senso, va annotato, esiste una forte differenza fra il concetto di viaggio così come si è configurato nella cultura europea e quello di viaggio nato in seno alla giovane cultura americana.In questo senso, in molte pagine del bel volume L’America , uscito nel 1986, Jean Baudrillard tocca il problema del lungo viaggio senza meta, negli immensi paesaggi naturali americani, dominati dall’idea di deserto e dall’anonimato degli incontri che avvengono lungo la strada.“In realtà, la concezione di un viaggio senza obiettivo, dunque senza fine, non si sviluppa che progressivamente. Rifiuto delle metamorfosi turistiche e pittoriche, delle curiosità, dei paesaggi stessi (solo la loro astrazione permane, nel prisma della canicola). Niente è più estraneo al travelling puro che il turismo o il “tempo libero”. E’ per questo che si realizza al meglio nella banalità estensiva dei deserti o in quella, altrettanto desertica, delle metropoli - mai prese come luoghi di diporto o di cultura, ma televisivamente come scenery, scenari. Ed è per questo che si realizza al meglio nella calura più intensa, come forma goditiva di deterritorializzazione del corpo. L’accelerazione delle molecole nel calore porta a una dispersione sottile del senso. (...)Correre in macchina è una forma spettacolare di amnesia. Tutto da scoprire, tutto da cancellare. Certo, vi è lo shock primale dei deserti e dell’abbaglio californiano, ma quando tutti questo è passato, allora il viaggio assume un secondo tipo di luminosità, quella della distanza eccessiva, della distanza ineluttabile, dell’infinito dei volti e delle distanze anonime, o di qualche miracolosa formazione geologica, che in fondo non esprimono la volontà di alcuno pur mantenendo intatta l’immagine dello sconvolgimento. Questo travelling non ammette eccezioni: quando si imbatte in un volto noto, in un paesaggio familiare o in una qualunque decifrazione, l’incanto è rotto” (2).

Nella cultura americana, l’immensità del viaggio e l’assenza di confini è tale che, forse, per capirla, occorre riviverla nell’immagine. Baudrillard pone questa riflessione in apertura del suo libro:

“Nostalgia nata dall’immensità delle colline texane e delle sierre del Nuovo Messico: giù a capofitto nell’autostrada fra vampate di calore e canzoni di successo dallo stereo della Chrysler - la fotografia più fedele non basta più - bisognerebbe avere l’intero film del percorso, in tempo reale, compresa la musica e il caldo insopportabile, e riproiettarsi il tutto integralmente a casa propria, in camera oscura - ritrovare la magia dell’autostrada e dello spazio, dell’alcool ghiacciato in mezzo al deserto e della velocità, rivivere tutto questo a casa, sul videoregistratore, in tempo reale - non per il solo piacere del ricordo, ma perché il fascino di una ripetizione insensata è già lì, nell’astrazione del viaggio. Il dispiegarsi del deserto è infinitamente vicino all’eternità della pellicola. (...) (3).

Nella cultura europea invece, il viaggio è qualcosa di più “esatto”, mirato, appunto secondo l’etimologia del termine latino via. E dunque il viaggio aspira a definire il luogo con più precisione.Nella recente riflessione sui significati complessi dei luoghi, in corrispondenza con i grandi mutamenti che l’economia, la società, la cultura e dunque il paesaggio stanno vivendo, e in coincidenza con il mutare del sentimento del tempo, della storia, dell’appartenenza, è sorto un dibattito che ha visto contrapporsi il concetto di “luogo” e il concetto di “nonluogo”. Al centro del dibattito (oggi superato in una crescente complessità di ipotesi) fu il volumetto dell’antropologo francese Marc Augé Nonluoghi, uscito nel 1992. Sulla scorta del concetto di luogo elaborato da Michel de Certeau, e individuate alcune sostanziali differenze fra modernità e surmodernità, cioè l’epoca contemporanea, egli discute che cosa sia invece un nonluogo. Se la

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modernità è presenza del passato nel presente in un processo di conciliazione e integrazione, la surmodernità non integra il passato con il presente, ma semplicemente li affianca:

“La modernità (...) preserva tutte le temporalità del luogo così come queste si fissano nello spazio e nella parola. (...)Se un luogo può definirsi come identitario, relazionale, storico, uno spazio che non può definirsi né identitario né relazionale né storico, definirà un nonluogo. L’ipotesi che qui sosteniamo è che la surmodernità è produttrice di nonluoghi antropologici e che (...) non integra in sé i luoghi antichi: questi, repertoriati, classificati e promossi “luoghi della memoria”, vi occupano un posto circoscritto e specifico. Un mondo in cui si nasce in clinica e si muore in ospedale, in cui si moltiplicano, con modalità lussuose o inumane, i punti di transito e le occupazioni provvisorie (le catene alberghiere e le occupazioni abusive, i club di vacanze, i campi profughi, le bidonville destinate al crollo o ad una perennità putrefatta), in cui si sviluppa una fitta rete di mezzi di trasporto che sono anche spazi abitati, in cui grandi magazzini, distributori automatici e carte di credito riannodano i gesti di un commercio “muto”, un mondo promesso alla individualità solitaria, al passaggio, al provvisorio e all’effimero, propone all’antropologo (ma anche a tutti gli altri) un oggetto nuovo del quale conviene misurare le dimensioni inedite (...). Aggiungiamo che la stessa cosa vale tanto per il nonluogo che il luogo: esso non esiste mai sotto una forma pura: dei luoghi vi si ricompongono; delle relazioni vi si ricostituiscono (...). Il luogo e il nonluogo sono piuttosto delle polarità sfuggenti: il primo non è mai completamente cancellato e il secondo non si compie mai totalmente - palinsesti in cui si reiscrive incessantemente il gioco misto dell’identità e della relazione. Tuttavia, i nonluoghi rappresentano l’epoca; ne danno una misura quantificabile addizionando - con qualche conversione fra superficie, volume e distanza - le vie aeree, ferroviarie, autostradali, e gli abitacoli mobili detti “mezzi di trasporto” (aerei, treni, auto), gli aereoporti, le stazioni ferroviarie e aerospaziali, le grandi catene alberghiere, le strutture per il tempo libero, i grandi spazi commerciali e, infine, la complessa matassa di reti cablate o senza fili che mobilitano lo spazio extraterrestre ai fini di una comunicazione così peculiare che spesso mette l’individuo in contatto solo con un’altra immagine di se stesso” (4).

Il viaggiare nell’epoca contemporanea si misura necessariamente con questi importanti temi che investono oggi i luoghi e che investono di conseguenza l’idea stessa di viaggio.Le questioni a cui Baudrillard e Augè si riferiscono sono segnatamente tipiche della stretta contemporaneità, ma alle origini di questo mutamento oggi divenuto evidente sta tutto il processo di maturazione del capitalismo occidentale che ha organizzato lo “sviluppo” sul pianeta terra e nel fare questo ha modificato il paesaggio: ha infatti affiancato alle millenarie testimonianze monumentali manufatti, oggetti, strutture prodotte dal progresso industriale, in un processo di crescente e globale omogeneizzazione. In questo processo, molto accelerato rispetto al corso complessivo della storia, iniziato negli anni Trenta del Novecento, definitosi negli anni Settanta e giunto fra anni Ottanta e Novanta alla seguente fase definita “postindustriale”, si sono infine prodotti anche quelle nuove situazioni definite nonluoghi.Il profilo del paesaggio si è modificato includendo presenze nuove e diverse: gli insediamenti industriali si moltiplicano, l’urbanizzazione si sviluppa in modo funzionale alle esigenze economiche, nascono le grandi periferie urbane, esplode ed entra in crisi definitiva il modello di forma urbana chiusa che in Europa aveva resistito per secoli, nascono le metropoli, e poi centri commerciali, capannoni, strutture di vario tipo articolano il paesaggio nel viaggio da una città a quella successiva, ferrovie e autostrade tagliano le campagne. Accanto a questo complesso insieme di situazioni,

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l’urbanizzazione di regioni ecologicamente fragili, fenomeni di desertificazione, deforestazione, erosione dei terreni, urbanizzazione selvaggia delle grandi megalopoli.Viaggiare significa confrontarsi con questa grande quantità e varietà di fenomeni che toccano il paesaggio e la nostra esistenza stessa.

2. Concetto di viaggio e concetto di fotografia

Il regista Wim Wenders, il cinema del quale si basa spesso sull’idea stessa di viaggio, in una intervista pubblicata in Una volta, volume di fotografie e scritti pubblicato nel 1993, afferma:

“Penso che il viaggio e la fotografia siano molto legati fra loro. La fotografia, voglio dire, è stata inventata prima di tutto per mostrare luoghi distanti, impossibili da raggiungere. E così i primi fotografi portavano in viaggio i loro strumenti. Io amo viaggiare più di qualsiasi altra cosa, e non ho mai fatto foto se non in viaggio. Perciò quando preparo una valigia o una borsa penso prima alla mia macchina fotografica poi al mio passaporto, mentre quando resto a casa le mie macchine fotografiche diventano del tutto inutili. Ho una collezione immensa di apparecchi fotografici, ma quando sono fermo, quando per esempio sto lavorando al montaggio, diventano completamente obsoleti, non so cosa farci. Fotografare, per me, è un atto profondamente legato al desiderio e al piacere del viaggio” (5).

Con chiarezza Wim Wenders esprime qualcosa che è molto condivisibile, qualcosa che molti di noi potrebbero dire. La fotografia, come il viaggio, è conoscenza. La fotografia è poi, profondamente, testimonianza. Proprio in quanto descrive, “documenta”, la fotografia accerta che le cose viste esistono veramente (come scrive Roland Barthes, il noema della fotografia è “è stato”, cioè la fotografia afferma che la cosa che io vedo nell’immagine è realmente esistita davanti all’obiettivo della macchina (6). La fotografia ci dà questa certezza in virtù della verosimiglianza che la caratterizza e che, fin dalle sue origini, ha impressionato e convinto gli uomini (si pensi sempre al clima positivistico in cui la fotografia si afferma nell’Ottocento e non si dimentichi mai che la verosimiglianza si basa sulla costruzione prospettica che essa impone allo spazio, derivata dalla prospettiva rinascimentale).Spesso si è sottolineato il valore di memoria della fotografia, e la fotografia è stata definita “prolungamento della realtà”, “pezzo di realtà”, “miniatura della realtà”, secondo le parole di Susan Sontag (7).

La fotografia permette non solo di confermare a se stessi l’avvenuto viaggio, ma di mostrare anche agli altri, mostrando le immagini, l’avvenuta esperienza sia nei suoi aspetti di novità, originalità, difficoltà, che in quelli economici (sono stato in un posto straordinario, ce l'ho fatta ad affrontare la novità, ho potuto permettermelo). Il sociologo Pierre Bourdieu, autore dell’importante volume La fotografia. Usi e funzioni di un'arte media, mette in evidenza come vi sia un notevole incremento nell’uso della fotografia nei momenti forti della vita familiare o del gruppo (matrimonio, battesimo, compleanno, feste) e nei viaggi (8).La fotografia dunque comprova il viaggio, agisce da strumento di controllo del viaggio mentre esso avviene e ne arricchisce il significato, attribuisce, in un certo senso, maggiore importanza al viaggio, ne evoca il ricordo a viaggio avvenuto.Crea, durante e dopo il viaggio, una importante dimensione rituale.

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Nell’incontro con l’esotico, il diverso, l’eccezionale, l’Altrove (un incontro che può far nascere in noi incertezze, paure, interrogativi) rafforza la certezza che l’esperienza in corso stia proprio avvenendo, durante il viaggio, e che il viaggio sia davvero avvenuto, dopo.La fotografia permette di archiviare il mondo, collezionarlo, dunque un poco possederlo.Questo archiviare e cercare di possedere è anche una componente del viaggio.Va poi sottolineato che la fotografia dialoga molto bene non solo con la dimensione reale, fisica, del viaggio, ma anche con la sua componente immaginaria. Ed è ciò che in particolare cercheremo di vedere. Infatti viaggiare significa anche compiere viaggi mentali. Significa immaginare come il viaggio sarà, quale sarà la prossima tappa, significa ricordare.Sui soggetti che scegliamo di fotografare noi carichiamo spesso molti significati personali, legati alla nostra esistenza. Spesso non fotografiamo per “documentare”, ma perchè siamo colpiti da cose che vediamo in quanto esse si collegano profondamente a esperienze già vissute, cose già viste, o a desideri. Non si spiegherebbe altrimenti perchè ognuno di noi sceglie di fotografare certe cose e non altre. La fotografia colma così la distanza fra vita reale e immaginaria. L’uomo vive creando continuamente immagini, tentando di andare oltre la vita reale, e la fotografia funziona da ottimo meccanismo in questo senso. Vedremo come sia possibile compiere viaggi fotografici che prescindono dal viaggio fisico e possono invece essere solo viaggi mentali.

3. La nuova identità del viaggio nella fotografia americana contemporanea: Robert Frank, Lee Friedlander, i New Topographics

Nell’America che sta costruendo il suo “benessere”, si forma a partire dagli anni Cinquanta una cultura critica che indaga sulla possibile identità degli States, sulla solitudine dell’uomo nell’era del capitalismo maturo, sui grandi spazi che gli uomini americani occupano, sulle città, su un territorio che l’industrializzazione va mutando profondamente.Cresce in America una fotografia sincera, onesta, coraggiosa, che cerca di non mentire. E’ una fotografia “nuova”, non formale, non più attenta a “comporre” le forme del mondo, ma a cercare di capirne i significati. Il problema non è più scegliere parti del mondo più belle per realizzare belle fotografie. La questione diventa guardare in faccia il mondo, con tutta la sua complessità e tentare di comprendere il senso. A preparare questa fotografia attenta al mondo, riflessiva e critica è il grande fotografo Walker Evans, noto per aver collaborato dal 1935 al 1938 al progetto di documentazione dello stato delle campagne e delle periferie, delle condizioni abitative e lavorative dei contadini voluto dallo stato americano all’indomani della Grande Crisi del 1929, nell’ambito degli interventi della Farm Security Administration.Tema del suo lavoro è la strada, percorrendo la quale raccoglie le tracce del nuovo paesaggio. Mostra la provincia americana con la sua tranquillità puritana, ma racconta anche i lavoratori, i contadini, i minatori, gli operai, parla del rapporto uomo-natura, civiltà e wilderness (il mito americano della natura grandiosa e selvaggia), ma anche di come questo si stia definitivamente rovinando con l’industrializzazione. Include nelle sue fotografie tutti i simboli e le strutture del “progresso”: pali della luce, automobili, distributori di benzina, pubblicità, segnaletica stradale, tutto.

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Fa piazza pulita delle nozioni di bello e di brutto, capendo che esse non sono più applicabili al mondo contemporaneo.Come artista, indica che la “ricerca della bellezza” è un tema superato e inadeguato alla complessità del mondo contemporaneo. Ciò che conta, per Walker Evans, non è creare belle immagini, ma immagini che servano a osservare e forse a capire, secondo uno stile documentario rispettoso del soggetto, per ogni soggetto. Tutto avviene senza alcun abbellimento, a dimostrare che il senso del lavoro del fotografo sta nel guardare il mondo così com’è.L’idea del viaggio come mito crolla. Viaggiare diventa il normale procedere dell’uomo che incontra il paesaggio e il mondo. Uno svizzero trapiantato in America, Robert Frank, raccoglie negli anni Cinquanta l’eredità culturale di Walker Evans, unendo ad una osservazione carica di impegno etico dei luoghi dell’America il racconto critico della situazione esistenziale dei suoi abitanti. Frank compie il “viaggio fotografico” per eccellenza: il paesaggio si scompone, diventa provvisorio, natura e storia non trovano più alcuna armonia; l’inquadratura non sa più contenere gli spazi, appare insufficiente a descrivere una realtà troppo carica di contraddizioni. Nelle sue foto troviamo funerali, immigrati, magnati del capitalismo americano, neri, juke box, stanze vuote dei motel, automobili, strade vuote, bandiere americane, cartelloni pubblicitari, spazi vuoti, televisori. Tutti i simboli della nascente civiltà del benessere e della solitudine. E ironia, tristezza, malinconia, silenzio, in una fotografia “ruvida”, non finita, talvolta piena di toni grigiastri, “trasandata”, sfuocata, in termini formali molto “provvisoria”.Il viaggio diventa per lui una dimensione mentale di riflessione sul mondo e su se stessi, è coscienza critica.Frank coglie il difetto, l’imperfezione, coglie l’angoscia, il vuoto. E’ un europeo che vede l’America come luogo del vuoto. Cosa che gli americani, tesi al benessere e alla felicità, in quel momento non possono fare (il libro Les americains che raccoglie queste fotografie non piacerà e non troverà editore negli USA, ma verrà pubblicato in Europa, a Parigi dall’editore Delpire, nel 1958).Quella che Robert Frank comunica nelle sue fotografie è una dimensione di provvisorietà e di sradicamento che è quella stessa che troviamo nei poeti e nei romanzieri della beat generation, Jack Kerouac, Allen Ginsberg, William Borroughs, Gregory Corso, Lawrence Ferlinghetti, Le Roi Jones, che lanciano il loro urlo sgangherato e senza forma contro il potere, l’establishment, il conformismo e a sensibile espressione della contraddittorietà della stridente società americana in corsa verso il benessere.“Per Frank - scrive lo storico della fotografia Jean Claude Lemagny - la fotografia è un viaggio solitario. (...) In un mondo ove l’individuo è solo di fronte a una realtà discontinua e priva di senso, Frank coglie le commedie insincere che il viaggiatore trova sul suo cammino, ma anche istanti di poesia imprevedibile, idiota e intensa: un riflesso sulla strada, lo schermo d’un televisore che balugina nella solitudine di un bar, lo spuntare dei volti dalla folla. (...) Frank riconosce come propri l’incompiuto, lo sfumato, l’unto e il bisunto, l’indistinto di cui consta il tessuto reale del nostro modo di guardare. Non si erge a maestro di bel vedere, di ben giudicare del bello che è nelle cose. E’ dalla nostra parte, come tutti noi solo tra la folla, condivide e ci costringe a confessare quello che c’è di più vero, e anche di più comune, nell’ordinario quotidiano visuale. (...) Basta con la pretesa di cogliere il bell’ordine del mondo in uno di quei fuggevoli istanti in cui sembra cristallizzarsi. Non più “momenti decisivi” ma momenti “in between” fra quelli che appaiono pieni di significato e d’armonia. (...) Dopo Frank, il fotografo sa che i momenti significativi non esistono, che i significati ce li mettiamo noi, e che sorte della fotografia non è saper sorprendere un mondo in flagrante reato di concordare con le nostre idee, ma vederlo così com’è in sé, assurdo. Un mondo che preesiste al pensiero e al significato. (...) (9)”.

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Così scrive Robert Frank a proposito del suo lavoro:

“(...) Con queste fotografie ho cercato di mostrare una sezione trasversale della popolazione americana. Il mio sforzo era di esprimerla semplicemente, senza confusione. Il punto di vista è personale e quindi molti aspetti della vita e della società americane sono stati ignorati. Le fotografie sono state scattate fra il 1955 e il 1956, per la maggior parte in grandi città, come Detroit, Chicago, Los Angeles, New York, ed in molti altri posti durante il mio viaggio attraverso il paese. (...)Le mie fotografie non sono pianificate o composte in anticipo ed io non mi aspetto che lo spettatore partecipi del mio punto di vista. Comunque credo che, se la mia fotografia lascia un’immagine nella sua mente, qualcosa è stato compiuto. (...)” (10).

L’introduzione del volume Les americains si deve allo scrittore Jack Kerouac, appunto uno dei grandi e più amati scrittori della beat generation. Egli scrive, fra l’altro:

“Questa folle sensazione d’America nelle strade torride quando la musica esce dal juke box o da un funerale, è che Robert Frank ha catturato in queste immagini straordinarie prese percorrendo i 48 stati, praticamente, al volante di una vecchia macchina d’occasione (grazie a un Guggenheim); ha fotografato con agilità, senso del mistero, genio, e con la tristezza e la strana discrezione di un’ombra, delle scene che non avevamo mai visto sulla pellicola. Di quale grande arte ci dà prova, lo dobbiamo riconoscere una volta per tutte. (...)Il gusto, la tristezza, la sensazione che una cosa valga l’altra, l’americanità di queste immagini! (...) Robert raccoglie due autostoppisti e gli passa il volante, la notte, e la gente guarda i due volti, la loro aria sinistra tesa nella notte (questo mi ricorda Allen Ginsberg: “Angeli visionari indiani che erano angeli indiani visionari”), e la gente dice: “Che brutta faccia”, ma, loro, tutto ciò che vogliono è infilare la strada e tornare a letto - Robert è là per dirci - (...). Strade insensate che vi portano dritti - strade di follia, strade di solitudine che vi buttano dopo una curva nello spazio aperto fino all’orizzonte delle nevi di Wasacht promesse nella visione del West, altezze spinose delle origini del mondo, notti stellate, nel Pacifico blu - lune banane disossate dipinte sul groviglio del cielo notturno, tormenti di grandi formazioni di nebbie, e l’insetto invisibile rannicchiato nella macchina che va a tutto gas - il fiume in piena, le strie, la collina, la stella, il burrone, il girasole nell’erba - deserti orientali d’Arcadia dalle grandi crepe aranciate, sabbie perdute della terra lontana, cose esposte alla rugiada in questo infinito di spazio nero (...) - livello del mondo, basso e piatto (...)” (11).

Jack Kerouac è noto per il suo romanzo Sulla strada, del 1957, vero mito della letteratura della beat generation. Un romanzo completamente costruito sul viaggiare come ansia di vita e di esperienza, una storia che si svolge sulle interminabili highways dell’America e del Messico. Romanzo dell’amicizia, dell’amore e della ricerca del sé, del desiderio di rivolta. Romanzo dell’andare senza fine e dell’impossibilità della comunicazione.Così leggiamo nelle prime pagine:

“(...) dopo aver ripiegato per l’ultima volta le mie comode lenzuola casalinghe, me ne andai una mattina con la mia valigia di tela nella quale erano riposte poche cose essenziali e partii per l’Oceano Pacifico con i cinquanta dollari in tasca.

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A Paterson avevo studiato per mesi le carte geografiche degli Stati Uniti e m’ero letto persino i libri che parlavano dei pionieri (...). Pieno di sogni su quel che avrei fatto a Chicago, a Denver, e finalmente a San Francisco, presi la sotterranea della Settima Avenue fino al capolinea della 242ma strada, e là salii su un filobus che andava a Yonkers; nel centro di Yonkers mi trasferii su un autobus che andava fuori e arrivai alla periferia della città sulla riva orientale del fiume Hudson. Se lasciate cadere una rosa nell’Hudson alla sua misteriosa sorgente negli Adirondack, pensate a tutti i posti che essa percorre nel suo cammino mentre va verso il mare per sempre...pensate a quella meravigliosa valle dell’Hudson. Cominciai a fare l’autostop. (...) (12)”.

Il filo che lega Robert Frank a Walker Evans porta pochi anni dopo a un altro autore fondamentale della fotografia americana e internazionale contemporanea: Lee Friedlander. Egli continua a lavorare sul concetto di viaggio, inteso come racconto interrogativo e intimo, come diario quotidiano e indagine sul mondo e contemporaneamente su se stesso.Friedlander opera a partire dalla metà degli anni Cinquanta ma diviene noto verso la metà degli anni Sessanta. Fotografa il paesaggio sociale americano e le sue condizioni: collega dunque il concetto statico di paesaggio alla mutevole nozione di società. Le sue fotografie degli anni Sessanta comunicano un senso dell’esistenza indefinibile e sradicato. Il critico Rod Slemmons scrive che esse “contenevano scetticismo sulla società americana e sulla capacità dell’individuo di capirla a pieno, se non di cambiarla. Temperate da un senso di distacco e di ironia, le immagini adottavano la contingenza come prima condizione del paesaggio sociale (13)”.

Nei venti anni successivi, Settanta e Ottanta, Friedlander continua a lavorare su tutto ciò che scopre nelle strade, cercando metafore visive elusive che all’inizio possono confondere ma che invece ci aiutano a chiarire la nostra posizione nel paesaggio sociale. Lavora sulle metropoli, la varietà dei luoghi e dei segni che vi si ritrovano.Ricordiamo che negli anni Sessanta esplode la Pop Art che pone al centro dell’attenzione i materiali e gli oggetti più comuni, banali, quotidiani, le merci di cui il mondo occidentale si va popolando.Friedlander osserva tutto, e mette in relazione tutto con tutto.Perché anche per il suo lavoro parliamo di viaggio?Perché egli indaga la posizione di se stesso nel mondo attraverso ciò che lo circonda. E fa questo viaggiando ovunque, senza più distinguere mete del viaggio e mancanza di mete. Il suo è un viaggio dentro il mondo e dentro se stesso: nel suo procedere, il mondo appare come un enigma, un accumulo di segni di fronte ai quali l’uomo si interroga. Non vi è più interno né esterno e tutto si interseca in un dialogo fitto e complesso nel quale ogni elemento della scena è contemporaneamente se stesso e qualcosa che rimanda ad altro.Un’importante mostra tenutasi al Museum of Modern Art di New York nel 1967, New Documents, presentò insieme fotografie di Lee Friedlander, Garry Winogrand e Diane Arbus. In quella occasione fu coniata un’espressione, paesaggio sociale, a indicare un tipo di fotografia che tendeva a contenere tutto, al di là dei tradizionali generi (ritratto, paesaggio, reportage, oggetti...) ormai superati dalla complessità stessa del mondo.Qualche anno più tardi, nel 1975, un’altra importante mostra dal titolo New Topographics riporta l’attenzione sul paesaggio e i segni che gli uomini hanno lasciato e lasciano in esso.I fotografi inclusi nella mostra (Robert Adams, Lewis Baltz, Bernd e Hilla Becher (gli unici europei), Joe Deal, Frank Gohlke, Nicholas Nixon, John Scott, Stephen Shore, Henry Wessel jr.) si muovono nel paesaggio e lo osservano: il loro viaggio è un tentativo di riconciliazione, di comprensione e di rivalutazione del paesaggio quotidiano, in un rifiuto del Sublime, del mito della

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bellezza selvaggia, di ogni formalismo (quello, per esempio, che aveva caratterizzato la fotografia di paesaggio di Edward Weston e Ansel Adams).Si tratta di un tipo di fotografia che rifugge qualsiasi idealistica narrazione del dato naturale, per la quale conta invece una nuova disposizione verso le cose, un tentativo di penetrare con la forza di uno sguardo rigenerato la superficie del mondo per cercare di capirlo.Il rapporto uomo-natura, tanto caro alla cultura statunitense, è perso, ogni armonia sembra persa. La mostra ha come sottotitolo Photographs of a Man-altered Landscape - fotografie di un paesaggio alterato dall’uomo. E proprio questo è ciò che i Nuovi Topografi indagano, attraverso il loro documentarismo scarno, semplice, attraverso la loro aspirazione a una “anonimità di stile” che indica la fragile coerenza esistente fra il soggetto e la sua rappresentazione fotografica (14).La loro è una dolorosa accettazione della verità di un paesaggio che ha perso forza e identità. La fotografia diventa allora un vero e proprio viaggio dello sguardo e del pensiero, un interrogarsi.Vi è spaesamento, vuoto, inquietudine, in queste fotografie. Il nostro sguardo non incontra più lo stereotipo del viaggio, il bello, il misterioso, il sublime, il mito, la leggenda. Ma solo il quotidiano e a volte il mediocre: i margini, le periferie, il deserto, le zone in costruzione.

4. Anni Settanta: la revisione concettuale della fotografia italiana

Gli anni Settanta segnano un momento di grande trasformazione della fotografia italiana, che giunge a una nuova coscienza e a una nuova maturità.Dagli anni Trenta fino a tutti gli anni Sessanta i fotografi più impegnati e desiderosi di riflettere sulle funzioni e sui significati del mezzo che utilizzavano, avevano concentrato le loro energie sul reportage, sulla narrazione degli eventi che riguardano la vita degli uomini, la realtà sociale e i suoi problemi. Il fiorire di molti importanti periodici illustrati (“Omnibus”, “Il Mondo”, “Tempo”, “Epoca”, “L’Espresso”) aveva creato le condizioni perché il reportage potesse esprimersi.Al di là del versante professionale, il dibattito sull’identità della fotografia era, fra anni Quaranta e anni Sessanta, rimasto pressocchè chiuso nell’ambito dei circoli fotoamatoriali in una contrapposizione sterile (seppur significativa per la cultura italiana molto a lungo influenzata dal pensiero crociano) fra fotografia-documento e fotografia-arte.Ma con la fine degli anni Sessanta alcuni fattori importanti cominciano a mutare la scena. Essi sono: l’imporsi a livello diffuso della televisione come mezzo di informazione e di svago e la conseguente crisi del fotogiornalismo, lo strutturarsi del sistema dei mass media, una maggiore alfabetizzazione, l’affermarsi di movimenti artistici quali la Pop Art, la Land Art, la Body Art, l’Arte Concettuale.Tutto questo rinnovamento sul piano della comunicazione dell’arte ha le sue radici in una situazione sociale che vede i grandi movimenti dei lavoratori e degli studenti sviluppatisi alla fine degli anni Sessanta e poi negli anni Settanta mettere in discussione tutto il sistema economico e culturale nell’aspirazione utopica e radicale a un nuovo tipo di società basata su valori sociali inediti.In questa situazione dinamica e ricca di spinte si sviluppa una cultura critica anche nel nostro paese che consente anche alla fotografia, arte “minore” fino a quel momento chiusa dentro una sorta di ghetto staccato dal resto della cultura, di iniziare un processo di maturazione come arte e forma importante della comunicazione che sarebbe giunto a completamento ai giorni nostri, momento in cui la fotografia sembra occupare una posizione centrale e assai interessante nel sistema delle arti.Inizia dunque un processo di critica a quel tipo di fotografia che cerca la sua forza nel racconto del sensazionale dell’esotico e anche a quel tipo di fotografia che cerca di essere forzatamente “arte” ancora guardando alla pittura, così come avveniva nei circoli fotoamatoriali.

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Inizia invece una indagine della fotografia come linguaggio agganciato ai grandi temi dell’arte contemporanea e a quelli della grande comunicazione massmediale.Nel 1961 viene pubblicato il saggio Il messaggio fotografico di Roland Barthes, subito tradotto anche in Italia (15), nel quale l’importante studioso francese si interroga sull’esistenza e sulle caratteristiche di un linguaggio fotografico dotato di codici alla stregua degli altri linguaggi.Nel 1962 esce Opera aperta di Umberto Eco, un libro nel quale viene fornita una nuova visione dell’opera d’arte come situazione in fieri determinata nel suo significato non solo dall’operare dell’autore, non solo dalle caratteristiche dell’opera, ma anche dall’intervento e dalla lettura del fruitore (16).In generale, la Pop Art spinge la cultura a guardare gli oggetti della quotidianità e a scoprirne nuovi significati. La Land Art favorisce il sorgere di una nuova attenzione verso il paesaggio e i suoi codici. La Body Art sposta l’attenzione dall’oggetto artistico al corpo stesso dell’artista. L’Arte Concettuale mette l’accento non sulle caratteristiche dell’opera e sull’abilità dell’artista, ma sull’intenzione e il processo mentale e linguistico che presiede all’operare dell’artista.Sia nella Pop Art che nell’Arte Concettuale viene largamente impiegata la fotografia, come importante momento di realtà dentro l’opera. Body Art e Land Art (così come le performance e gli happening) vengono assiduamente documentate attraverso l’opera di fotografi: è così che la fotografia diventa fondamentale per la sopravvivenza nel tempo di opere basate su azioni e interventi destinati a non durare.Si verifica così un contatto profondo della fotografia con la società e l’arte contemporanea che le permette di divenire linguaggio più cosciente, autonomo, contemporaneo.Gli anni Settanta vedono una fioritura di ricerche fotografiche che mirano a discutere il concetto stesso di fotografia e a cambiare l’identità culturale di questa. Il rinnovamento della fotografia italiana che ha inizio con i primi anni Settanta è un processo assai vasto e complesso che giungerà a completamento nell’arco di trent’anni. All’interno di questo sviluppo scegliamo in questo momento alcuni autori che hanno lavorato sulla coincidenza fra il concetto di viaggio e il concetto di fotografia.

5. Franco Vaccari: il viaggio come smontaggio dell’operazione fotografica

Franco Vaccari (Modena 1936) inizia con una ricerca dal titolo Le Tracce, 1966, a scegliere una fotografia che non racconta eventi particolari, non ricerca soggetti speciali, ma rileva l’esistenza di segni. La fotografia è solo un modo per osservare l’esistenza di segni. Sono scritte sui muri, nei gabinetti pubblici o nelle stazioni etc, segni del passaggio delle persone. E’ lontano sia dal racconto che dal prelievo formale.In un momento di costipazione della comunicazione (il sistema dei mass media si sta strutturando), egli opera un rifiuto del racconto e della descrizione di particolari narrativi, a favore di una “semplificazione” che metta a nudo concetti e questioni fondamentali del comportamento e della comunicazione: semplificazione nei riguardi della scelta del soggetto, della quantità di lavoro immessa nell’opera d’arte (sulla scorta di quel processo di “occultamento” del lavoro messo in atto da Marcel Duchamp con i suoi ready made), dell’assillo di poter governare e piegare la tecnologia.Vaccari ha vigorosamente contribuito al crollo dell’illusione di poter compiutamente raccontare le vicende umane che tanto a lungo aveva sorretto il reportage, anche in Italia (forte, anche da noi, l’influenza di Cartier Bresson e molto specifica quella del cinema neorealista), e a un processo di concettualizzazione della fotografia, intesa non più come prodotto finale fondato sull’”efficacia”

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dell’immagine, né sulla sua bellezza, ma come meccanismo in sé, come operazione importante in sé nel suo riferirsi alla realtà e al tempo stesso all’operare dell’artista.Vaccari sviluppa una critica agli strumenti del fare arte e del fare fotografia, rifiutando un concetto di arte come contemplazione lavorando invece a quello di arte come azione, come intervento, come congegno che scatena comportamenti.Discute la tradizionale triade autore-opera-pubblico congegnando operazioni che la mettono in crisi. L’opera dunque si fa con il contributo congiunto dell’autore, del pubblico e del suo stesso farsi lungo la strada, lungo il percorso di lavoro: l’opera, dunque, non è più oggetto, ma azione, evento, accadimento.Vaccari è autore del fondamentale saggio uscito nel 1979 Fotografia e inconscio tecnologico (17) nel quale sviluppa l’importante concetto di inconscio tecnologico dichiarando l’elemento macchina/tecnologia determinante nel significato dell’opera fotografica. Cade il mito dell’artista-autore, cade il mito della bellezza dell’opera, nasce la piena consapevolezza del peso delle macchine e degli strumenti tecnologici nella nostra cultura.Fondamentale in questo senso la sua Esposizione in tempo reale realizzata alla Biennale d’Arte di Venezia nel 1972, dal titolo Esposizione in tempo reale n. 4. Lascia su queste pareti una traccia fotografica del tuo passaggio. Un’opera che si fa nel tempo, nella quale l’artista è solo responsabile del progetto: l’opera si compone delle molte fototessere prodotte meccanicamente da una cabina Photomatic nella quale le persone entrano, si fanno un ritratto automatico che poi attaccano, appunto, alla parete. Vaccari usa spesso lo schema concettuale del viaggio inteso come operazione che si svolge e che nel suo svolgersi, produce l’opera. Nei suoi viaggi Vaccari non racconta nulla se non il meccanismo stesso del viaggiare, al di là della referenzialità dell’immagine fotografica e, anzi, in forza di essa.Vediamo alcuni dei suoi viaggi.

Esposizione in tempo reale n. 2.Viaggio + rito, 1971, galleria 2000, Bologna

“Sono andato alla stazione FF.SS., seguito da due fotografi che con macchine Polaroid testimoniavano istante per istante del mio viaggio. . Mi hanno fotografato mentre prendevo il biglietto, comperavo il giornale, mi facevo lucidare le scarpe, salivo sul treno, scendevo, prendevo un taxi. Arrivato alla galleria 2000 ho attaccato le fotografie a una parete e il biglietto l’ho messo in una apposita scatola appesa alla parete di fronte. I due fotografi hanno continuato a scattare e le nuove fotografie venivano aggiunte alle altre; la mostra in questo modo si autocostruiva, si autoalimentava. Chi era venuto per assistere veniva immediatamente incorporato , moltiplicato, registrato, bloccato in istanti irripetibili e questo distruggeva lo spazio della contemplazione per aprire quello dell’azione. A un certo momento ho ripreso il biglietto e me ne sono andato (18)”.

Vaccari rifiuta la contemplazione della fotografia e la pone invece all’interno di una azione. La fotografia entra nei meccanismi di comunicazione, si affianca all’azione. Si rompe lo scarto fra costruzione dell’opera e mostra. L’autore entra nel farsi dell’opera.

700 km. Di esposizione, 1972

“Ero stato invitato a Graz alle “settimane di pittura”, cioè a trascorrere un mese in una località isolata dove avrei dovuto produrre oggetti artistici; mi sarebbe stato passato alloggio e vitto gratis, e,

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alla fine, anche un compenso in denaro. Erano stati invitati altri tre italiani, alcuni jugoslavi e austriaci.Per distrarci, avremmo avuto a disposizione anche un tavolo da ping-pong.Il mio lavoro l’ho fatto durante il viaggio di andata; ho scelto di applicare sistematicamente l’attenzione ai mezzi di trasporto merci che si muovevano nella mia stessa direzione.Voglio usare la fotografia non come mezzo di contemplazione, ma per scardinare i miei condizionamenti visivi, come strumento che mi costringa a vedere quello che non so.Adesso siamo coscienti che vediamo solo quello che sappiamo, ma quello che sappiamo è sospetto. L’attenzione orientata mi serviva così per cortocircuitare gli automatismi psichici.Una volta arrivato a destinazione il mio lavoro era già fatto; mi sono fermato due giorni, ho giocato a ping-pong e ho scoperto che gli jugoslavi in questo sport erano tutti a un livello notevolissimo. Questo è dovuto sicuramente al loro sistema politico che offre un’infinità di occasioni di giocare a ping-pong.Alla fine del mese sono ritornato a Graz e ho avuto la sorpresa di trovare che gli altri artisti erano tutti ingrassati (19)”.

L’opera finale è una scacchiera-catalogo di fotografie a colori di molti camion di tipo diverso ripresi da dietro.In ogni nostro viaggio, lo sappiamo, l’immagine del camion che ci precede si stampa nella nostra visione ma soprattutto nell’esperienza del viaggiare: questa immancabile figura di camion viaggiante è, nella nostra esperienza visiva, il viaggio stesso, entra nella nostra vita.Vaccari riflette su se stesso artista, su se stesso uomo mentre viaggia negli schemi del viaggio di massa e pensa al moderno viaggiare di tutti. Il farsi dell’opera coincide con l’opera stessa ed “avviene” durante il viaggio stesso. Il viaggio non è il “soggetto” del lavoro, ma è il lavoro stesso, è la sede del lavoro e del suo senso.

Esposizione in tempo reale n. 8. Omaggio all’Ariosto, 22 maggio 1974

“Ero stato invitato alla mostra “Omaggio all’Ariosto” che doveva essere allestita al Palazzo dei Diamanti di Ferrara. Come “omaggio” ho percorso lo stesso cammino che il poeta aveva fatto distrattamente a piedi.; raccontano infatti le cronache che “l’Ariosto, partendosi da Carpi, venne un giorno a Ferrara in pianelle, perché non aveva pensato di far cammino”.Durante il viaggio ho fatto delle fotografie con la Polaroid; le ho incollate alle cartoline dei paesi che attraversavo e le ho spedite per posta alla Galleria (20”.

L’azione di Vaccari contiene tutti i significati del viaggio. Innanzitutto l’omaggio è in se steso un viaggio in quanto implica un percorso di ritorno, di riflessione e di riconoscimento. Vaccari lo prende alla lettera, dando il via a un pezzo di vita vissuta e compie davvero il viaggio che l’Ariosto compì da Carpi a Ferrara. Associa al viaggio la fotografia, compagna inseparabile del viaggio contemporaneo. Sceglie la Polaroid, che nella sua radicale istantaneità è fotografia-azione. Poi introduce un altro classico elemento del viaggio: la cartolina, acquisto e invio. Sovrappone alla visione assoluta e retorica della cartolina cristiallizzatasi nel tempo e nella consuetudine, visioni frammentate parziali, provvisorie: questo nuovo oggetto visivo crea una doppia personalità al viaggio: una assoluta e una banale, quotidiana. Poi le cartoline vengono regolarmente imbucate, timbrate, recapitate. Viaggiano.Viaggia l’artista, viaggia l’opera che si fa nelle sue parti.

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Per Franco Vaccari, la fotografia è un grimaldello per liberare comportamenti, significati, prove di scrittura, e per discutere il rapporto fra agire artistico e vita (un retaggio dada, un legame con Duchamp).Vaccari cambia le funzioni della fotografia, la spoglia, la scuote. Abbatte ogni mira di tipo formale ed estetico, mette a nudo il meccanismo della fotografia. Ed è significativo che spesso compia questo grazie alla formula del viaggio.

6. Luigi Ghirri: il viaggio come percezione di una geografia del quotidiano

Luigi Ghirri (Scandiano - RE, 1943, Roncecesi - RE, 1991) è una figura determinante negli sviluppi della fotografia italiana contemporanea. Maestro di molti, forse maestro di tutti. La sua influenza si sente ancora oggi enormemente.Fotografo, scrittore, organizzatore di eventi per la fotografia, studioso dei rapporti fra fotografia e cinema, fotografia e scrittura, osservatore del quotidiano, ha lavorato dai primi anni Settanta fino alla sua prematura morte avvenuta nel 1991.Anche la sua opera, enigmatica, interrogativa, è costantemente attraversata dall’idea di viaggio, e per molti aspetti sta sotto il segno dello stupore e dell’incanto. Ma il suo non è mai stupore per l’eccezionale, l’esotico, il diverso, ma per il quotidiano, per ciò che sta accanto a noi, vicino a noi e dentro di dentro. La sua opera è piena di strade, di percorsi, di spostamenti concettuali da un luogo all’altro, siano essi anche fisici oppure soltanto mentali. Sulla necessità di viaggiare nel quotidiano e nel vicino scrive:

“Nei viaggi non mi sono mai spinto troppo lontano. Ho viaggiato in Svizzera, in Francia, in Austria, in Germani, in Olanda e poi anche in Italia centrale e meridionale. E sempre durante le vacanze estive o i fine settimana.Quando viaggio, faccio due tipi di fotografie, quelle solite, che fanno tutti, e che in fin dei conti mi interessano poco o niente, e poi le altre, quelle a cui veramente tengo, le sole che considero “mie” davvero.Nelle “mie” foto i soggetti sono quelli di tutti i giorni, appartengono al nostro campo visivo abituale: sono immagini insomma di cui siamo abituati a fruire passivamente; isolate dal contesto abituale della realtà circostante, riproposte fotograficamente in un discorso diverso, queste immagini si rivelano cariche di un significato nuovo.Ne possiamo allora fruire attivamente, cioè ne possiamo iniziare una lettura critica.Per questo mi interessa soprattutto il paesaggio urbano, la periferia, perché è la realtà che devo vivere quotidianamente, che conosco meglio e che quindi meglio posso riproporre come “nuovo paesaggio” per un’analisi critica continua e sistematica.Per questo mi piacciono molto i viaggi sull’atlante, per questo mi piacciono ancora di più i viaggi domenicali minimi, nel raggio di tre chilometri da casa mia (21)”.

Il viaggio può essere così minimo e vicino da svolgersi anche solo sulle pagine dell’atlante: può dunque essere un viaggio senza spostamenti nello spazio, ma solo mentale.La ricerca fotografica del 1973 alla quale dà appunto titolo Atlante può essere considerata la sua ricerca più emblematica e totale sul viaggio e insieme sul senso della fotografia.Conscio che in quella che in quegli anni veniva chiamata “civiltà dell’immagine”, a causa del dilagare delle immagini nei mass media era divenuto impossibile scoprire luoghi nuovi e arduo darne nuove

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descrizioni (“tutti i luoghi possibili sono già descritti e gli itinerari sono già tracciati”), Ghirri studia il luogo che racchiude tutti i luoghi del mondo: l’atlante - e ne fotografa le pagine. Si tratta di un viaggio concettuale, poetico, mentale. Uno slittamento dalla realtà fenomenica alla sua schematizzazione grafica che lascia libera la lettura e l’illusione e ci riporta, infine, all’infanzia, tema molto caro a Ghirri e presente in tutta la sua opera.Scrive:

“L’atlante è il libro, il luogo in cui tutti i segni della terra, da quelli naturali a quelli culturali, sono convenzionalmente rappresentati: monti, laghi, piramidi, oceani, città, villaggi, stelle, isole.In questa totalità di scrittura e descrizione, noi troviamo il posto dove abitiamo, dove vorremmo andare, il percorso da seguire.Il viaggio sulla carta geografica, peraltro caro a molti scrittori, penso sia uno dei gesti mentali più naturale in tutti noi, fin dall’infanzia. L’inevitabile associazione di idee, sovrapposizioni di immagini, pensa poi automaticamente al resto.In questo lavoro ho voluto compiere un viaggio nel luogo che invece cancella il viaggio stesso, proprio perché tutti i viaggi possibili sono già descritti e gli itinerari sono già tracciati.Le isole felici care alla letteratura e alle nostre speranze, sono ormai tutte descritte, e la sola scoperta o viaggio possibile, sembra quello di scoprire l’avvenuta scoperta.Così analogamente il solo viaggio possibile sembra essere oramai all’interno dei segni, delle immagini: nella distruzione dell’esperienza diretta. Se Oceano immediatamente ci rimanda a infinite possibili immagini che noi possediamo mentalmente, mano a mano che la scrittura sparisce, spariscono meridiani e paralleli, numeri, il paesaggio diventa “naturale”, non viene più evocato, ma si dispiega davanti a noi, come se sotto i nostri occhi una mano avesse sostituito il libro con un paesaggio reale.E’ la fotografia in questo caso che con il suo potere di variare i rapporti con il reale, sempre, sposta i termini del problema evocando una naturalità “illusoria”.Il reale, la sua rappresentazione convenzionale in questo caso sembrano coincidere, la formulazione del problema si sposta, da quello della significazione a quello della immaginazione.Il viaggio è così dentro all’immagine, dentro al libro.I due analoghi immagine nell’immagine, libro nel libro, ci riportano alle infinite possibili letture che ci sono sempre possibili anche all’interno del mondo più codificato, la già avvenuta esperienza apparentemente totalizzante si dispiega come nella frase di W. Blake chiarificatrice: se le porte della percezione fossero ripulite tutte le cose sembrerebbero infinite (22)”.

La possibilità/impossibilità di rappresentare il mondo e di rappresentarlo in modo “totale” si conferma ancora centrale, nel pensiero di Ghirri, quando nel 1979, nella prefazione del suo volume di fotografie Kodachrome, scrive:

“Nel 1969 viene pubblicata da tutti i giornali la fotografia scattata dalla navicella spaziale in viaggio per la Luna; questa era la prima fotografia del Mondo. L’immagine rincorsa per secoli dall’uomo si presentava al nostro sguardo contenendo contemporaneamente tutte le immagini precedenti, incomplete, tutti i libri scritti, tutti i segni decifrati e non. Non era soltanto l’immagine del mondo, ma l’immagine che conteneva tutte le immagini del mondo: graffiti, affreschi, dipinti, scritture, fotografie, libri, films. Contemporaneamente la rappresentazione del mondo in una volta sola (23)”.

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Ghirri ragiona sul fatto che per poter vedere tutta la Terra bisogna lasciarla e viaggiare non su di essa, ma allontanandosene andare verso altri mondi. Come dire, per capire un problema bisogna prendere le distanze, spostarsi in un “altrove”.Ghirri indaga poi a fondo la questione della relatività della visione e della rappresentazione. Non vi è una sola rappresentazione del mondo, ma molte possibili. Nuovamente è nel viaggio che questo tema si rivela: sul treno. E’ la ricerca Italia ailati, 1971-1979 (la seconda parola è il rovesciamento della prima, a indicare due Italie opposte).

“Viaggiando in treno, ho sempre avvertito con divertimento la distanza che separa il paesaggio visibile dal finestrino e le fotografie che all’interno dello scompartimento rappresentano invariabili torri di Pisa, cattedrali romaniche, città rinascimentali, montagne, laghi e pini sul mare.Il viaggio era così duplice, quello visto dal finestrino e quello all’interno dello scompartimento.Forse da questa osservazione ho chiamato questo mio viaggio in Italia Italia ailati. Ho cercato infatti non solo di dare l’immagine del viaggio fatto dal finestrino, ma di evidenziare anche la sovrapposizione del viaggio nello scompartimento; sandwich di immagini, un’Italia ufficiale statica, sempre presente; e l’altra più nascosta da vedere in fretta, come spezzone non importante, tra un viaggio e l’altro. La compenetrazione delle due visioni trova poi nella realtà la sua effettiva realizzazione.Se le merlature delle torri citano un glorioso passato, e le rondini volano ancora, pur tuttavia non possono celare le staccionate di cemento sullo sfondo di un cielo azzurro.Il mio non vuole essere testimonianza del banale quotidiano, sottolineatura kitsch, ma desiderio di conoscere, decifrare, relazionando questi due paesaggi per scoprirne le affinità, e le dissociazioni. (...) Sui resti del passato, più che mai testimoni teatrali, si innestano realtà storicamente escluse, che sembrano comparire in maniera allucinante o simbolicamente aberrante, pur tuttavia in questa scena luogo di coincidenza di sconnessioni, noi possiamo leggere della nostra identità.(...) non mi interessa testimoniare ed estrapolare qualche oggetto dallo sterminato catalogo del kitsch, in cui sono stati relegati semplicisticamente una serie di oggetti solamente colpevoli di essere frutto di meccanismi di esclusione.(...) La stesura attuale è anche progetto per una “identità territoriale” (...). Rivedendo nel passato, nelle strutture delle città, nelle immagini che abbiamo visto, nel nostro paesaggio, e relazionandoli con un presente possiamo distinguere: verificare, smascherare, per poi progettare un “paesaggio” (24)”.

Una riflessione sul passato e il presente, la storia e il banale. Sui molti segni presenti nel mondo visibile (come gli americani Evans, Frank e Friedlander, autori cari a Ghirri, avevano indicato): segni della storia e segni del presente che convivono nella realtà. Ghirri si dedica alla analisi dei segni, e talvolta li fotografa secondo il metodo del catalogo: sistema molto coerente con la fotografia, che è arte seriale. Arte dell’osservare più volte e con cura le stesse cose. E’ ciò che Ghirri fa, per esempio, nella serie Catalogo, sviluppata dal 1970 al 1979.

“Catalogo è per antonomasia l’insieme di immagini dello stesso tipo di oggetti. Ho usato maggiormente la sequenza perché un catalogo è anche sequenza, insieme organico di oggetti.Contemporaneamente, siccome l’attenzione è rivolta alle superfici, ho cercato di evitare una ripetibilità che sarebbe inevitabilmente risultata contraddittoria allo scopo e alle mie intenzioni. Una eccessiva ripetizione dello sguardo avrebbe provocato una seconda meccanicità di lettura

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dell’osservatore, analoga a quella della realtà e che io ho cercato di evidenziare come aspetto negativo proprio nel consumo dello sguardo, che porta alla dissuasione a vedere. (...) Le fotografie di questa serie prestano attenzione ai materiali che compongono i muri delle periferie, delle città, delle case. Oggetti, superfici che da sempre hanno compiti anche di comunicazione diretta perché data dall’osservazione quotidiana.In questo sguardo pubblico sulle modalità decorative, non possiamo non tacere di un ritratto interno; e le superfici diventano così codici di comunicazione, momento di identità.Le analogie rigorosamente geometriche di queste fotografie combaciano con quelle architettoniche, con la mia formazione culturale (Ghirri era geometra, n.d.r.), non dimenticano tuttavia come sempre che all’interno dello schema tracciato le combinazioni espressive delle tessere sono infinite.Se questi abiti delle case sembrano bloccati in un gelido rigore, e le assenze cromatiche ci dicono di paesaggi grigi e uniformi, è pur vero che su una serranda chiusa la scritta “colori” lascia intravedere combinazioni infinite.Non ho voluto attenermi rigorosamente a quanto potrebbe suggerire il titolo scelto, ma ho piuttosto cercato di suggerire che, al di là delle schematiche e facili accumulazioni, il significato è di depositare i dati per operare distinzioni, collegamenti, sottolineare rapporti, smontare meccanismi.Le sequenze qui presentate hanno proprio questa intenzione, smascherare, attraverso un raffronto tra il presunto identico e il presunto differente, la meccanicità di uno sguardo, la deliberata scelta della dissuasione a vedere perché momento di conoscenza.Proprio per questo sguardo vuoto, ho voluto, più che dispiegare esempi, suggerire in un inizio di attivazione dello sguardo, un inizio di conoscenza. (...)” (25).

Il problema della conoscenza del mondo attraverso la fotografia, di una possibile conoscenza, è un altro tema importante nell’opera di Ghirri, artista sempre cosciente della necessità, nella civiltà delle immagini sempre presenti e moltiplicate, di capire, di distinguere, di non lasciarsi confondere. Alla presenza dell’immagine pubblicitaria nel nostro paesaggio e nel nostro muoverci nello spazio egli dedica, nel 1973, una ricerca dal titolo Km 0,250. Si tratta ancora di un viaggio, breve come sempre, anzi minimo, in quanto si svolge lungo un muro di una strada sul quale sono incollati, uno dopo l’altro, molti manifesti pubblicitari fino a coprirlo. Ghirri paragona questo insieme di manifesti che tappezzano il muro all’antico affresco, e riflette sulle profonde differenze fra questi due tipi di comunicazione.

“In questo lavoro, eseguito per la prima volta nel 1972, ho voluto sottolineare sia nella dimensione, sia nella ripetitività il carattere storicamente nuovo di immagini che si pongono alla contemplazione-fruizione-assimilazione pubblica. Oltre che ad un’ovvia, ma non prioritaria sottolineatura dell’invadenza della pubblicità nell’ambiente urbano, e nella nostra vita, ho voluto sottolineare in una sequenza, interna alla sequenza delle immagini, il carattere di serialità delle immagini odierne anche quando devono comunicare immagini diverse, perché concepite e strutturate nello stesso identico modo.Il risultato è un affresco dei nostri tempi, apparentemente analogo all’affresco delle chiese e degli edifici pubblici che ben conosciamo. Non dissimilmente nelle immagini seriali esposte sul muro, e quindi alla contemplazione pubblica, noi possiamo leggere della nostra vita; ma il rovesciamento avviene in quanto, anziché agire su di una realtà comune preesistente e in cui riconoscersi (affreschi delle chiese, palazzi medievali), il messaggio avviene in modo da essere rappresentazione della nostra vita aprioristica e progettata.

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(...) Se l’affresco era momento di identità personale e collettiva, pure questi trittici ripetuti ci danno una immagine personale e collettiva; ma se per l’affresco il momento di fruizione era momento di attivazione di coscienza, ri-conoscenza, il muro di immagini, letto e assimilato nella maggioranza dei casi dall’automobile, diventa come uno spezzone cinematografico a velocità accelerata, ed i fotogrammi, immagini indistinte e di fruizione totalmente passiva, disattivazione critica per pseudo-riconoscimenti. (...) (26)”.

Ancora sulla relatività della visione e della rappresentazione sempre complessa e irta di inganni ottici Ghirri realizza nel 1977-78 la serie di fotografie dal titolo In scala, sorridente viaggio di gulliveriana memoria fra i plastici architettonici dell’ ”Italia in miniatura” di Rimini (tema ripreso a metà anni Ottanta con la ricerca Italia in miniatura). Ghirri turista-fotografo ripercorre i luoghi più famosi del paesaggio italiano ricostruiti uno vicino all’altro in scala ridotta in questo parco dei divertimenti destinato al nostro tempo libero, da San Pietro al Monte Bianco, dal Palazzo Vecchio di Firenze al Duomo di Milano, da piazza San Marco al Cervino alla piazza del Palio di Siena.La serie In scala stabilisce un importante parallelo fra vedere e viaggiare. Il viaggio è inteso come riflessione sull’immagine e la retorica dei luoghi. La fotografia, strumento di rappresentazione che sempre ripropone le cose ridotte in scala, in questo caso si trova anche a rappresentare luoghi già ridotti in scala. Ogni riferimento alla realtà è perso, tutto diventa discutibile e relativo, paradossale. Le figure delle persone entrano, enormi come Gulliver nella famosa storia, in questi paesaggi-cartoline.Scrive:

“Ho chiamato così questo lavoro per suggerire immediatamente una lettura, la scala è una convenzione usata abitualmente per riportare, riconoscere le dimensioni di un oggetto nelle sue dimensioni spaziali. Metro per passare dal disegno alla costruzione, metro per riportare il mondo fisico ad un grafico interpretabile. La scala ci segnala cioè una differenza.In questo atlante-sussidiario tridimensionale è in scala l’Italia: monumenti, montagne, ruderi, piazze, chiese, laghi.(...) La celebrazione dei miti, dei luoghi delegati ad una “identità territoriale”, induce ad una immediata ironia sulla follia di questo viaggio, di questo vedere tutto contemporaneamente, distruggendo con lo sguardo i tempi storici, le distanze chilometriche contemporaneamente. Se le analogie con un colossale fotomontaggio sono evidenti, Piazza del Palio di Siena col Monte Bianco sullo sfondo, se il tramonto deposita le luci sulle guglie del Cervino e rende rosa le Dolomiti (...) piano piano non si riesce a nascondere un dubbio.E’ proprio in questo spazio di totale finzione che forse si cela il vero; è qui e solo qui che vedendo San Pietro non sommiamo le immagini mentali, ma riandiamo alla percezione avvenuta nella realtà. (...) Camminando riconosciamo gli stili, evochiamo viaggi compiuti realmente, riandiamo al reale e al suo doppio e non viceversa.In questa colossale olografia dell’oleografia, possiamo misurare lo spessore dei nostri miraggi, e se le ombre si proiettano su Palazzo Vecchio, così il reale si proietta sul suo doppi smascherandolo.(...) Vedere diventa lettura trasversale, attraversare con un solo sguardo la storia, l’arte, la natura, e vedere l’altra immagine censurata.L’ombra delle persone copre interamente una piazza, in questa dimensione inusitata, in questo grande teatro una volta tanto gli attori sono molto più alti dei fondali (27)”.

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E’ interessare concludere questa serie di riflessioni su alcuni aspetti dell’opera di Ghirri legati tema del viaggio con la ricerca del 1974 che porta il titolo di Infinito. Con questo viaggio estremo e fortemente simbolico nel cielo (simile per assolutezza all’Atlante, e infatti Ghirri parla di “atlante cromatico del cielo”), Ghirri fotografa il cielo ogni giorno per 365 giorni, un intero anno, cioè fotografa un soggetto-non soggetto, un soggetto aleatorio, non definito (infinito è anche la distanza massima e simbolica sulla quale si imposta la macchina fotografica quando si fotografa qualcosa di lontano) e dichiara dunque che la fotografia compie soprattutto operazioni mentali, viaggi mentali, che il paesaggio non ha limiti, che i percorsi non hanno limiti, e che la natura in realtà è molto difficile, forse impossibile, da descrivere.Scrive:

“Non ho mai amato le fotografie della “natura”.Da quelle in cui la natura appare nei suoi aspetti misteriosi o metafisici, alle forzature astratte dei segni e delle campiture di colore. Ho sempre trovato in queste immagini , e nel tentativo disperato di bloccare il “momento naturale”, una contraddizione insanabile con il linguaggio fotografico.(...) Pur se nella storia della fotografia i casi eclatanti sembrano contraddire questa mia convinzione, è pur vero che questi episodi sono riconducibili sempre e comunque ad esempi di una parzialità disarmante; e i “momenti fermati”, che vengono letti come illuminazioni e folgorazioni, rimandano inevitabilmente a una fenomenologia estetica pertinente ad altri linguaggi visivi (pitture, incisioni, etc).Quando ho deciso di fotografare il cielo per un anno intero, una volta al giorno, ho voluto anche sottolineare questa impossibilità di tradurre i segni naturali.In Infinito la sequenza temporale di un anno per un totale di 365 fotografie è così anch’essa insufficiente per poter dare un’immagine del cielo. Neanche un linguaggio fotografico, iterazione, ripetizione progettata, sequenza temporale, è sufficiente a fissare l’immagine di un aspetto naturale.Infinito diventa così un possibile atlante cromatico del cielo; 365 possibili cieli. Anche seguendo una schedatura ulteriormente precisa come in un calendario, l’anno solare 1974 in cui ho eseguito il lavoro, sarebbe diventato come è in effetti, un anno, non catalogabile, non riconoscibile a posteriori. Così formulato il lavoro può suggerire una impossibilità a fotografare, è invece in questa non possibile delimitazione del mondo fisico, della natura, dell’uomo, che la fotografia trova validità e senso. In questo suo non essere linguaggio assoluto, e nel farci riconoscere la non delimitabilità del reale, trova la sua naturalità e la sua autonomia (28)”.

7. Anni Ottanta e Novanta: viaggi nel paesaggio ed esperienze di committenza pubblica

Dopo queste importanti ricerche degli anni Settanta, negli anni Ottanta Ghirri sviluppa un intenso interesse verso una nuova rappresentazione del paesaggio. A cavallo fra anni Settanta e anni Ottanta anche altri fotografi della sua generazione (Gabriele Basilico, Mimmo Jodice, Mario Cresci, Guido Guidi, Roberto Salbitani, Giovanni Chiaramonte, Fulvio Ventura) e i più giovani Vittore Fossati, Vincenzo Castella, Olivo Barbieri, non volgono più la loro attenzione al reportage, come i fotografi della generazione prima avevano fatto, e invece nutrono a loro volta un crescente interesse per il paesaggio e le sue modificazioni, e avviano progetti di lettura dei territori nei quali vivono.A cavallo fra anni Settanta e anni Ottanta Ghirri li coinvolge in un vasto progetto dedicato all’intero paesaggio italiano: un progetto che ha l’ambizione di tracciare una mappa poetica del paesaggio

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italiano contemporaneo, fuori dagli stereotipi e fuori dagli schemi della fotografia di consumo, e al tempo stesso di disegnare l’ipotesi di una “nuova fotografia italiana”.Il progetto, oggi diventato modello di riferimento, si intitola Viaggio in Italia, e si realizza nel 1984 con una mostra alla Pinacoteca Provinciale di Bari e un libro, che, a conferma dell’amore di Ghiri per le carte geografiche e gli atlanti, porta in copertina la carta geografica dell’Italia, quella stessa che stava appesa nelle nostre aule delle scuole elementari.Così leggiamo sul risvolto di copertina del libro:

“Viaggio in Italia nasce dalla necessità di compiere un viaggio nel nuovo della fotografia italiana, e in particolare per vedere come una generazione di fotografi, lasciato da parte il mito dei viaggi esotici, del reportage sensazionale, dell’analisi formalistica, e della creatività presunta e forzata, ha invece rivolto lo sguardo sulla realtà e sul paesaggio che ci sta intorno.Le opere degli autori spostano l’attenzione della fotografia alla cultura quotidiana dell’Italia d’oggi e impongono il confronto con il vuoto di impegno conoscitivo che paralizza altre attività espressive e altri sistemi di comunicazione. La televisione, il cinema, le arti visive appaiono sempre più lontani dal volere conoscere o almeno osservare il volto concreto dell’Italia. Eppure manca in queste fotografie quanto si trova sulle pagine dei quotidiani e su quelle patinate dei rotocalchi: né cronaca nera o rosa, né languide Venezie, né tristi bassi napoletani, e gli uomini parlano meno con il loro volto e più con gli oggetti che li circondano, con l’ambiente in cui vivono.L’insieme, volutamente a-ideologico, si colloca in una posizione equidistante dalle facili critiche come dalle apologie.L’intenzione è ricomporre l’immagine di un luogo, e antropologico e geografico, il viaggio è così ricerca e possibilità di attivare una conoscenza che non è una fredda categoria di una scienza, ma avventura del pensiero e dello sguardo (29)”.

Il libro, comprendente fotografie di Olivo Barbieri, Gabriele Basilico, Gianantonio Battistella, Vincenzo Castella, Ermanno Cavazzuti, Giovanni Chiaramonte, Mario Cresci, Vittore Fossati, Carlo Garzia, Guido Guidi, Luigi Ghirri, Shelley Hill, Mimmo Jodice, Gianni Leone, Claude Nori, Umberto Sartorello, Mario Tinelli, Ernesto Tuliozi, Fulvio Ventura, Cuchi White, si divide nei seguenti capitoli:

A perdita d’occhioLungomareMarginiDel LuogoCapolineaCentrocittàSulla sogliaNessuno in particolareSi chiude al tramontoL’O di Giotto

Sono tutti titoli poetici che indicano non dei luoghi precisi e ben identificati, ma dei luoghi mentali, dei concetti di luogo. Luoghi comunque riferiti ai margini, alla periferia del paesaggio, a qualcosa di indefinito che sta nel paesaggio, a qualcosa di semplice, quotidiano, e al tempo stesso poetico ed enigmatico, inafferrabile.

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Nel volume, accanto a un saggio di Arturo Carlo Quintavalle, vi è un testo dello scrittore Gianni Celati, il quale con la stessa semplicità e lo stesso stupore descrive alcuni paesaggi di pianura e di provincia. Il titolo del testo è Verso la foce (reportage, per un amico fotografo).Vediamone una parte:

“Al mattino presto in queste pianure la luce è tutta assorbita dai colori del suolo. C’è un vapore azzurrino che fa svanire le distanze, e oltre un certo raggio si capisce solo che le cose sono là, disperse nello spazio. E’ col sole alto e la luce netta che cominciano a vedersi grandi separazioni. I tagli di luce e ombra fanno apparire forme desolate in tutti i muri, pezzi d’asfalto, siepi o cartelli ai margini d’un movimento generale. Le cose che indicano traffici o direzioni di marcia sono tutte in abbandono. Dove non c'è traffico, le ombre hanno sempre l'aria di aspetti inutili, troppo immobili per questo mondo. Se un camion passa sollevando un pezzo di giornale sull’asfalto, subito ci si accorge che ogni forma di indugio è fuori posto. Sulla Padana Inferiore abbiamo vista la prospettiva alberata d’una villa antica, lungo la strada, interamente coperta da un emporio di lampadari. Il manifesto di un circo, vecchio di otto anni, penzolava dalle imposte chiuse d’un cascinale. Per strade secondarie certe volte anche il silenzio sembra inutile; finchè non si arriva davanti a quelle nuove villette su terrapieni a giardino, intorno alle quali c’è un silenzio diffuso che non è quello degli spazi aperti. E’ un silenzio residenziale, che ti fa sentire così estraneo da metterti in fuga. (...)Le cose disperse nello spazio vengono avanti con i loro nomi, sfiorandoci mentre passiamo. (...)Abbiamo infilato una strada asfaltata che finiva contro un campo di granoturco. In mezzo al campo una cisterna del gasolio e una casa in cemento, nuova, con infissi di legno nuovi, finestre e porte chiuse. (...) Tranne nei vecchi borghi con piazzetta e campanile, in questi giorni di viaggio per le campagne abbiamo visto dappertutto il vuoto. Aggregati di case in cemento con l’aria di essere appena sorte e subito abbandonate, fattorie in cui non si riconoscono forme di vita, cave di sabbia anch’esse deserte, recinti di roulottes in mezzo ai prati, cabine telefoniche accanto a campi di granoturco, tralicci dell’alta tensione con fili che pendono su lunghe distanze. Il vuoto è riempito da nomi di località inesistenti, comunque non luoghi ma solo nomi messi sui cartelli stradali da qualche amministrazione dello spazio esterno. (...)Il paesaggio è seminato di pali della luce che portano l’occhio all’infinito su questa striscia d’asfalto. Più indietro c’erano ancora vecchi pali della luce in legno, adesso invece solo pali in cemento. L’orizzonte basso e lontano, velato da un alone che probabilmente è pioggia, è attraversato da cipressi e salici bianchi. (...) Sparse tra i campi case abbandonate, alcune col tetto sfondato. Invece più vicino alla strada e lungo la strada case moderne in cui non è difficile riconoscere la graduatoria salariale degli abitanti. (...)A Isola Ca’ Venier c’è un pioppeto, vicino al pioppeto un bar che è solo un vecchio cascinale, con sopra la porta la pubblicità della FAEMA. (...)Dal un lato c’è il mare e la massicciata, su cui sono stese dovunque reti da pesca e fasci di cannella palustre. Dall’altro lato la pianura uniforme, per coltivazioni e colori, a perdita d’occhio, con sparse fattorie tra i campi. Lungo la strada e sullo sfondo le costruzioni sono quasi tutte recenti, case quadrate a due piani, insediamenti che risalgono a venti o trent’anni fa. (...)Chiama le cose perché restino o con te fino all’ultimo (30)”.

Successivamente, nel 1989 Celati pubblica da Feltrinelli Verso la foce, nel quale raccoglie quattro “diari di viaggio”, uno dei quali riprende il testo già pubblicato in Viaggio in Italia. Nella premessa Scrive:

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“Questi quattro diari di viaggio sono nati mettendomi a lavorare con un gruppo di fotografi, che si dedicavano ad una descrizione del nuovo paesaggio italiano, tra cui il mio amico Luigi Ghirri. Per come sono adesso, dopo essere stati riscritti e resi leggibili, li chiamerei racconti d’osservazione” (31).

Il che evidenzia l’intenzione di Celati di utilizzare una scrittura di tipo fotografico-descrittivo, e ci fa capire i legami profondi fra la sua scrittura “semplice”, stupita e attenta al quotidiano, e quel tipo di fotografia che Ghirri privilegiava e considerava adatta alla comprensione del paesaggio contemporaneo italiano.Ghirri realizza in seguito diverse operazioni di confronto fra fotografia e scrittura, sempre usando come contenitore ideale dei suoi progetti l’idea di viaggio.E’ il caso, per esempio di Esplorazioni sulla Via Emilia. Vedute nel paesaggio, del 1986, progetto nel quale alcuni fotografi italiani ed europei, alcuni scrittori e cineasti vengono invitati, in una operazione di committenza pubblica, a percorrere la Via Emilia, antica via di comunicazione, forte asse economico, sociale, culturale, spina dorsale di una complessa area agricola, industriale, turistica di stampo quasi metropolitano, e a produrre il loro lavoro I fotografi sono Olivo Barbieri, Gabriele Basilico, Vincenzo Castella, Giovanni Chiaramonte, Vittore Fossati, Luigi Ghirri, Guido Guidi, Mimmo Jodice, Klaus Kinold, Claude Nori, Cuchi White, Manfred Willmann. Gli scrittori Ermanno Cavazzoni, Gianni Celati, Corrado Costa, Daniele Del Giudice, Antonio Faeti, Tonino Guerra, Giorgio Messori, Giulia Niccolai, Beppe Sebaste, Antonio Tabucchi. Nel volume pubblicato vi è anche una prefazione di Italo Calvino (32).L’insieme del progetto si intitola Dal fiume al mare. Lo spunto geografico diventa ancora una volta molla per esplorazioni culturali complesse, certamente ancorate al luogo ma anche libere. Si tratta nuovamente di viaggi che sono fisici, sì, ma soprattutto mentali.Inizia anche, in questi anni, un viaggio nelle istituzioni pubbliche, che diventano committenti per il lavoro dei fotografi. Gli incarichi pubblici ai fotografi in operazioni dedicate al territorio e al paesaggio contemporaneo si moltiplicano fra anni Ottanta e anni Novanta. Questo metodo di lavoro, matrimonio produttivo fra le singolarità degli artisti e la collettività simbolicamente rappresentata dagli enti pubblici (Regioni, Province, Comuni, Comprensori) si rivela assai costruttiva e utile per lo sviluppo della fotografia italiana contemporanea. Costituisce per i fotografi un terzo polo di lavoro e di impegno culturale insieme, accanto a quello della professione volta a produrre fotografia commerciale e a quello del mercato dell’arte, duro ancora da penetrare. Fa del fotografo un operatore culturale, lo lega al territorio, contribuisce alla nascita di collezioni pubbliche di fotografie legate ai territori nei quali esse vengono realizzate e “abitua” gli enti pubblici alla fotografia contemporanea, favorisce il dibattito teorico.Nel suo procedere organizzato e dinamico anche il rapporto con la committenza pubblica è, per i fotografi di quegli anni, a suo modo un viaggio.Da Napoli a Milano, da Trieste a San Casciano, ai territori piemontesi, a Roma, a Venezia Marghera, Carpi, Modena, Reggio Emilia, Napoli, Bolzano, a molti, moltissimi luoghi, la committenza pubblica affidata ai fotografi paesaggisti diventa una realtà che costruisce piano piano un metodo di lavoro e una profonda riflessione sulle trasformazioni del nostro territorio (33).I fotografi viaggiano, osservano l’aspetto del mondo in cui viviamo, e insieme elaborano nuovi codici per la fotografia italiana che, intanto, matura e diviene contemporanea.Alcuni di questi fotografi sono i protagonisti assoluti della nostra cultura fotografica più avanzata. Ed è interessante notare come ognuno di essi abbia inteso il viaggio nel paesaggio secondo concetti diversi.

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Cerchiamo di vedere questa diversità, per capire quanti concetti di fotografia e insieme di viaggio siano possibili.

8. Mario Cresci: viaggio nel sud e misurazione del territorio

Mario Cresci (Chiavari 1942), prima di dedicarsi, negli anni Ottanta, all’osservazione del paesaggio e come gli altri suoi compagni di strada alle campagne di committenza pubblica sul territorio, sviluppa negli anni Settanta ricerche molto importanti in Basilicata, operando su più livelli: l’analisi del paesaggio, l’analisi degli oggetti prodotti dagli abitanti del territorio, l’analisi del linguaggio della fotografia e dei suoi codici. Pubblica parte del suo complesso lavoro in un volume del 1979 dal titolo Misurazioni. Fotografia e territorio. Nella presentazione scrive un testo dal titolo Fotografia e memoria.

“Le immagini della prima parte del libro rappresentano un aspetto del lavoro fotografico svolto in Basilicata dal 1967 ad oggi (cioè al 1979, n.d.r.).Con il gruppo d’urbanistica “Il Politecnico”, la fotografia si poneva sin d’allora come mezzo di lettura critica della realtà contadina in una analisi globale che partiva dal territorio circostante per arrivare alla sistematica ripresa del paese, delle case, degli spazi interni ed esterni e dei momenti della vita quotidiana in un continuo rapporto tra la fotografia e il tempo reale delle situazioni.A distanza di anni si può definire il lavoro di Tricarico come uno dei primi interventi in Italia sulla cultura materiale nel Mezzogiorno.Da questa esperienza, durata dal ’67 al ’72, nasce il mio rapporto con la Basilicata e i problemi delle aree meridionali; la ricerca fotografica continua saltuariamente sino al ’74 e in questi ultimi due anni si identifica nelle “misurazioni”.“Misurazioni” è il senso, il modo di condurre e vivere un lavoro sul campo in un ambito ben preciso e ricco d’implicazioni ed è nello stesso momento l’occasione per l’analisi di un comportamento riferito esplicitamente sia al mezzo fotografico che alla realtà sociale.Negli oggetti ripresi inizialmente nel loro ambiente e poi nello studio ho trovato un riscontro con la memoria e la “creatività” degli anziani che li hanno realizzati al di fuori di qualsiasi uso commerciale; nel caso degli oggetti intagliati nel legno da ex contadini e pastori, ancora maggiore è il recupero della memoria e del tempo vissuto nei campi.Ho fotografato, volta per volta, gli attrezzi, la casa, gli oggetti e i gesti come elementi indicativi di una cultura autonoma e non certo subalterna a nessun’altra sul piano del rapporto materiale con il mondo delle cose e del linguaggio.Attraverso accostamenti di fotografie ho cercato una serie di analogie che a livello visivo individuano segni, forme e significati traslati su materiali diversi a testimonianza che il rapporto uomo-ambiente, nel suo isolamento, ha creato nel tempo la propria identità raffigurata e costruita in valori d’uso e credenze (architettura scavata, insediamenti mimetizzati o emergenti, artigianato, masserie, recinzioni per le greggi, attrezzi da lavoro, marchi del pane, ceramiche, ex-voto, feste, riti, ecc.). La seconda parte del libro è la diretta conseguenza della prima, vissuta come esperienza di lavoro in una cooperativa di giovani artigiani di Matera (34)”.

Cresci unisce cioè paesaggio, abitazioni, oggetti contadini, attrezzi da lavoro, in un concetto molto complesso di “territorio”. Il suo viaggio è una misurazione vera e propria di tutto ciò che compone la cultura e la vita delle persone che vivono nelle zone del Meridione nelle quali egli stesso sceglie di

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vivere per un lungo periodo. Si tratta, in sostanza, di un ri-conoscimento di quella cultura e al tempo stesso di se stesso, uomo e artista che in essa cerca un inserimento.La fotografia di Cresci, tagliata in senso “sperimentale”, utilizza codici molto vari e opera in senso non solo e non tanto documentaristico, ma metalinguistico, cioè rivolto all’analisi del linguaggio stesso della fotografia, analizzando contemporaneamente gli oggetti, i luoghi, la loro storia - e la natura della fotografia.

9. Roberto Salbitani: il viaggio come interrogazione esistenziale

Molto diversa è l’esperienza che Roberto Salbitani (Padova 1945) compie negli anni Settanta. Proveniente dal reportage, ma sensibile alla fotografia critica ed enigmatica di Frank e Friedlander, Salbitani osserva pensosamente la realtà che lo circonda, i mutamenti nei luoghi e nelle persone. Tutta la sua fotografia può essere definita un vero e proprio viaggioIn particolare, in una specifica ricerca che porta proprio il titolo Viaggio (1974-1982), Salbitani utilizza il treno come luogo per riflettere sulla condizione umana, sulla conoscenza degli altri, sulla relatività dell’esperienza di vita e della conoscenza.Scrive:

“In questa serie di fotografie - in tutto circa ottanta - c’è l’andare avanti e indietro per treni che è continuato per tutta la mia vita. Sono affezionato ai treni, nonostante questo loro tirarmi a corpo morto facendomi essere parallelo a tutto, sempre orizzontale senza mai poter vedere dove la loro testa mi sta conducendo. Si alloggia per un po’ in un corpo di ferro e di finta pelle diviso in tanti scomparti dove uno sceglie un posto (non è scelta da poco, sono in gioco sensazioni di rilassatezza o di imbarazzo o addirittura di fastidio, e lo rivela quell’attimo di esitazione che prende il viaggiatore sulla soglia di uno scompartimento).Il treno mi fa sfiorare i corpi ed i gesti di persone di cui potrei in fondo disinteressarmi perché nulla mi lega a loro tranne quel casuale trovarsi vicini in un punto dello spazio, in una frazione di tempo fra infinite. Questa coincidenza di vite, destini e direzioni, che già non è più la stessa uno scomparto più in là, che è spazzata via dal treno successivo, mi spinge ad aggrapparmi a qualcosa. In tanti foglietti sparsi ho fissato per anni le mie sensazioni di “viaggiatore parallelo”, per così dire. Con le fotografie ho cercato di allargare il raggio delle impressioni immediate, tentando un improbabile e sfaccettato ritratto del viaggiatore. Persone e vedute, spazi e tempi diversi, che si compenetrano e si riflettono l’uno nell’altro. Prospettive in sovrapposizione nella ricerca di un collegamento unificante ed ideale delle situazioni, degli accidenti di viaggio.Chi erano effettivamente quelle persone, mi chiedo, quali luoghi reali scorrevano fuori dalle cornici di quelle finestre prima che io assegnassi loro un posto nel mio treno, nel mio viaggio? Guardandolo oggi, ho l’impressione di averlo sognato, quel viaggio (35)”.

Salbitani utilizza la fotografia in senso esistenziale, sentimentale si potrebbe dire, non senza una vena di malinconia. Pensa al destino, agli incontri che facciamo, all’imprevedibilità della nostra vita, che un incontro può del tutto mutare. La fotografia diventa strumento di registrazione di situazioni che valgono in se stesse ma, al di là del racconto, assumono valore simbolico. Il treno diventa, in questo senso, simbolo stesso della vita, che altro non è che un transitare.

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10. Guido Guidi: viaggio come pensiero che si fa

Guido Guidi (Cesena 1941), fondamentale protagonista della stagione della fotografia di paesaggio italiana, compagno di strada di Ghirri, attivo ormai da trent’anni, fotografo presso la Facoltà di Architettura dell’Università di Venezia, elabora un concetto di viaggio ancora diverso e assai aperto e problematico: in questo senso molto contemporaneo.Egli ha passato letteralmente la sua vita sommando viaggio a viaggio, da Cesena, dove vive, a Venezia, dove lavora, oppure lungo la Via Emilia, o su molte strade italiane sulle quali ha lavorato in incarichi pubblici, o su molte strade d’Europa, sulle quali ha svolto progetti. Da molti anni passa molto del suo tempo in automobile, scendendo da essa per fotografare.Esplora e torna ad esplorare litorali marini, tenere campagne, boschi, periferie, strade e autostrade, montagne, case contadine, vecchi impianti industriali: si interroga sulle modificazioni che avvengono nell’aspetto del mondo mentre la sua stessa esistenza si modifica all’insegna del viaggio.La sua fotografia, la cui tessitura è comprensibile solo nel tempo, è lavoro in fieri, un lavoro programmaticamente non finito, silenzioso, non facile in quanto frammentario e indefinito come i veri viaggi. Tutti i suoi progetti sono aperti, pronti a prendere direzioni altre da quelle dalle quali sono partiti. Quando scrive, Guidi usa la scrittura allo steso modo, per brani, per tracce anche lasciate da altri. Cita spesso scritti di altri più che scrivere parole sue. Alcuni esempi:

“Non guardarti in giro, cammina!madre al bambino uscendo dalla porta di casa, Venezia, ore otto della mattina

Camminare lungo un percorso mettendosi, di volta in volta, nelle scarpe di un bambino, di un elettricista, di un intellettuale, di un fotografo,...di un cane, ammesso che i cani portino le scarpe...e in fine di tutti in un solo colpo.suggerimento di Italo Zannier agli studenti del corso di laurea in Urbanistica a Preganziol

...non facciamo altro che restituire al nostro suolo silenzioso e illusoriamente immobile, le sue rotture, la sua instabilità, le sue imperfezioni; e, sotto i nostri passi, di nuovo si turba.Michel Foucault, Les mots et les choses, Editions Gallimard, Paris 1966, ed. it. Le parole e le cose , Rizzoli, Milano 1978. (36)”

E ancora:

“La tua vita dipende un po’ dalle tue scarpe; curale come si deve, e non perderai che un quarto d’ora al giorno”. R. Daumal.In un recente seminario Bernardo Secchi affermava, in modo provocatorio, che “l’urbanistica si fa coi piedi”. La fase iniziale del lavoro dell’urbanistica è “camminare attraverso”, “mettersi in ascolto”.Durante un viaggio recente attraverso la Polonia, Marco Venturi mi ricordava che le ultime composizioni di Luigi Nono hanno per titolo un testo scritto da un anonimo sul muro della cattedrale di Toledo: “No hay caminos, hay que caminar”, all’incirca: non hai strade, hai solo da camminare.Il tema del camminare rinvia a quello delle tracce, vi sono tracce che noi troviamo a che talvolta tentiamo di leggere, riguardo cioè la preoccupazione che altri potrebbero leggere le nostre tracce, Pontiggia, in una conversazione citava da “Il Monte analogo”: “Quando vai alla ventura, lascia

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qualche traccia del tuo passaggio, che ti guiderà al ritorno: una pietra messa su un’altra, dell’erba piegata da un colpo di bastone. Ma se arrivi a un punto insuperabile o pericoloso, pensa che la traccia che hai lasciato potrebbe confondere quelli che ti seguissero. Torna dunque sui tuoi passi e cancella la traccia del tuo passaggio. Questo si rivolge a chiunque voglia lasciare in questo mondo tracce del proprio passaggio. E anche senza volerlo, si lasciano sempre delle tracce. Rispondi delle tue tracce davanti ai tuoi simili”. E’ poi ancora Pontiggia a ricordare che il Tao dice: “un buon camminatore non lascia tracce”. Queste modalità mi sono molto care e le ritrovo allo stato nascente nel lavoro di Gloria E Francesco, lavoro che mi appare come registrazione non di un pensiero fatto ma di un pensiero che si fa (citazione taciuta di una frase di Antonioni, n.d.r.), un percorso legato piuttosto alla verità che alla logica (37)”.

Un altro esempio:

“Prima ragazza: io fotograferei tutto...tutti.Seconda ragazza: Tutti quelli che incontro.(conversazione raccolta per strada, Milano, febbraio 1999)

Fu per me uno shock. Mi trovavo in distese sconfinate della terra e di tanto in tanto, quando camminavo all’aperto o sfrecciavo in macchina lungo una strada, la luce sferzava un particolare e per pochi minuti gli scenari si trasformavano.(Stephen Shore, Uncommon Places, traduzione di Paolo Costantini) (38)”

Le sue fotografie sono tracce come le parole che raccoglie o sommessamente, raramente scrive. Per Guidi, il mondo non può essere organizzato in racconto. Tutto ciò che il fotografo può fare è raccogliere dei frammenti, dei pezzi sparsi. La fotografia è, sostanzialmente, esperienza di vita, percorso aperto, non definito, viaggio che “accade” e che si fa man mano, lungo la strada, sia nell’esperienza fisica che nel pensiero.

11. Gabriele Basilico: fotografia come contemplazione

Gabriele Basilico (Milano 1944), uno dei paesaggisti italiani più noti in Europa, ha costruito una ipotesi di fotografia, in quel pieno stile documentario indicato da Walker Evans, come lentezza dello sguardo, secondo le sue parole, e come forma di contemplazione del reale.Basilico ha lavorato in moltissime committenze pubbliche sia in Italia che all’estero, costruendo ogni volta progetti saldamente legati ai territori sui quali si trovava a lavorare. La sua opera, in questo senso, costituisce un potente archivio della contemporaneità, una vastissima documentazione del paesaggio industriale e post-industriale europeo nelle sue trasformazioni, dalla fine degli anni Settanta in poi.Il fotografo milanese matura la sua ipotesi di fotografia come “contemplazione” proprio nell’ambito di un viaggio in Francia, a metà anni Ottanta, quando viene incaricato dal governo francese di sviluppare una lettura del paesaggio del nord della Francia all’interno della importante Mission Photographique de la DATAR, operazione voluta dallo stato francese (1984-1989) al fine di ottenere una efficace e libera documentazione dei molti aspetti e dei problemi del territorio di tutto il paese attraverso la lettura di quasi trenta importanti fotografi europei e statunitensi.

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Proprio operando in un territorio per lui in quel momento nuovo capisce di dover abbandonare un’idea di fotografia come veloce ripresa di una situazione nel suo svolgersi (metodo caro al reportage) e decide di adottare tempi lunghi di osservazione che consentano una comprensione del paesaggio, una sorta di abbraccio e di riflessione. Sceglie una fotografia pura, semplice, tutta fondata sulla luce e la chiarezza dell’inquadratura: una fotografia tutta “dedicata” al luogo che ha davanti.In un testo del 1992 dal titolo Per una lentezza dello sguardo scrive:

“(...) Prima del 1984 i miei approcci con la fotografia di ricerca (o meglio con quella che definirei fotografia di libera interpretazione di fatti, luoghi, persone) erano stati sporadici e caratterizzati da brevi incarichi o libere e autonome ricerche, conquistati e sottratti con determinazione ad altre attività di natura professionale. Il fascino di ognuna di queste singole avventure verso temi e luoghi d’elezione era in me anche esaltato dalla possibilità di staccarmi dal lavoro quotidiano e il tempo disponibile, come per un regalo prezioso, doveva essere sfruttato al massimo per consentirmi comunque un rapporto armonico fra metodo di lavoro e tempo concessomi. Ne conseguiva una sorta di rapidità nel vedere e nel fermare le cose, dove la predilezione per i “soggetti fissi” non sapeva rinunciare a uno sguardo veloce, non dissimile dalle tecniche di ripresa del reportage. Dopo aver osservato e captato le situazioni, nasceva in me il bisogno di fissarle rapidamente per garantirmi comunque un certo ritmo operativo. Altro aspetto caratteristico del mio modo di procedere nel periodo che definirei “pre-DATAR”, era l’attitudine a selezionare alcuni frammenti della realtà anche nei soggetti preferiti e ricorrenti nella mia ricerca, soggetti quali l’architettura, il paesaggio urbano, l’archeologia industriale, che affrontavo da una parte come separati dal mondo e dall’altra attraverso un esercizio personalizzato di linguaggio alla ricerca di un metodo di rappresentazione che fosse rigorosamente unitario: utilizzo della luce chiara e netta, gioco ricompositivo delle ombre, ridisegno prospettico dello spazio, sequenza dei piani focali, distanza, ecc. Scelte tematiche molto precise, quindi, tipologicamente assimilabili e predilezione per frammenti specifici, estratti dal contesto, quasi a caricarne sintatticamente l’aspetto simbolico: un’attenzione per il frammento come campione del “tutto” e per lo sguardo originale, come messaggio di una propria autonoma identità.Negli anni 1984-85 il lavoro condotto lungo le coste del nord ella Francia mi ha consentito una lenta e progressiva modificazione del modo di osservare, un arricchimento nel rapporto tra lo sguardo e la rappresentazione del mondo. Rivedendo le immagini che risalgono ai primi mesi della campagna, realizzate in piccolo formato, con la volontà manifesta di raccontare tutto il visibile e tutto quanto mi sembrava interessante raccontare, senza tralasciare occasioni, mi sembra di rilevare che, oltre alla necessità di costruirmi un taccuino da viaggio, persistesse l’intenzionalità evidente di utilizzare tecniche fidate, lo sguardo più complessivo ed esteso quale strumento per una lettura sicura e per continuare, anche in questa occasione d’eccezione, un gioco per me mai interrottosi.Ma nel prolungarsi della campagna, nel vedere e rivedere i luoghi che maggiormente mi avevano interessato e soprattutto nell’abbracciare temi per me assolutamente inediti, come il paesaggio naturale e le grandi vedute, con l’uso lento e riflessivo della camera 10x12, ho scoperto nuovi orizzonti, ho improvvisamente allargato, e in certo senso semplificato, l’osservatorio sul mondo, dilatando nello stesso tempo le mie capacità percettive: uno sguardo lontano e un tempo “rallentato” mi avevano consentito di scoprire le cose osservate quasi al di là della loro apparenza. Le grandi visioni d’insieme, i punti di fuga che avvicinano l’orizzonte, il gioco dialettico dei vari piani e l’armonia che unisce le diverse parti, erano diventati per me nuovi terreni di conquista. L’osservazione insistente e il ritorno in alcuni luoghi avevano generato un rapporto di maggiore confidenza, quasi di affetto, come se le città, i villaggi, i cieli, le campagne, i paesaggi, guardati con il

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giusto approccio, avessero potuto restituire e irraggiare una loro armonia che aveva come riscontro un mio armonico “benessere” di comprensione.Al “momento decisivo”, al quale mi aveva abituato la lezione del reportage, avevo preferito sostituire, attraverso progressioni successive, la “lentezza dello sguardo”, quasi a voler cogliere tutti i particolari fino alla complessità delle cose che, a una minuziosa osservazione, il paesaggio sapeva restituire.In queste condizioni mi piace pensare di essere quasi scomparso, in quanto fotografo, di essermi saputo mettere da parte, rinunciando la narcisismo e a una rappresentazione troppo soggettiva e spesso artificiosa in favore di una riproduzione apparentemente oggettiva fino all’assenza, ma caratterizzata dal rispetto verso le cose.In fondo penso che le immagini più “forti”, quelle più rappresentative di questo nuovo approccio, consentano di leggere una realtà più complessa e articolata, carica di valori reali che lega in un rapporto esistenziale, come in un magico rito, uomini e cose. Grande formato, cavalletto, ritmo rallentato, atteggiamento più meditativo, raggiungimento di grande dettaglio, non concorrono alla celebrazione di un virtuosismo tecnico e di un appagamento formale, ma hanno creato in me i presupposti per un modo nuovo di capire e di trattenere la realtà con un atteggiamento segnatamente contemplativo.“Contemplazione”: parola che per anni ha significato solo sentimentalismo e disimpegno, per me oggi significa visione diretta e cosciente, pura, senza acrobazie di interpretazione. Non serve più costruire la fotografia in maniera artificiosa poiché, dato un punto di vista “eccezionale”, è sufficiente guardare in modo “normale”, rinunciando alle perversioni delle ottiche: la fotografia diventa meno carica di segno interpretativo, lasciando alla natura e alla luce il compito di esprimersi e autorappresentarsi (39)”.

12. Mimmo Jodice: viaggio come ritorno alle origini

Mimmo Jodice (Napoli 1934), grande protagonista della fotografia italiana contemporanea attenta al paesaggio, grande fotografo di opere d’arte e sperimentatore di linguaggi della fotografia, maestro della fotografia meridionale (ha insegnato anche per più di 25 anni all’Accademia di Belle Arti di Napoli), è approdato a cavallo fra anni Ottanta e Novanta, dunque nella sua piena maturità di artista, a una vasta ricerca dal titolo Mediterraneo nella quale è possibile osservare un altro modo di intendere il viaggio e di utilizzare la fotografia come strumento per compierlo.Mediterraneo è il punto di arrivo della lunga e complessa riflessione che ormai da anni Jodice, napoletano, sviluppa sulle origini e l’antica cultura del Mediterraneo, sulla persistenza del passato nel presente - e su se stesso -. Sono vibranti immagini di frammenti di archeologie, volti e corpi, occhi, bocche, arti che vivono della concretezza del marmo o del mosaico e al tempo stesso appaiono come perse nel tempo, sono paesaggi infuocati, cieli pieni di misteriosi bagliori, architetture, spazi e cavità. Il Mediterraneo, ventre antico, fucina di storia e di cultura, è per Jodice un laboratorio sentimentale e mentale che gli consente di recuperare, nella sua piena maturità, un’espressività emozionata vicina a quella dei suoi esordi di irrequieto indagatore dei codici della fotografia. Il viraggio leggero e il mosso scaldano e muovono queste immagini cariche e un poco disperate nelle quali Jodice pensa alla gente antica del sud, non più ripresa dal vero come aveva fatto negli anni Settanta, ma divenuta scultura, dipinto, icona, trasformata per sempre in traccia della storia dell’arte. La dimensione del presente appare, in questo lavoro, del tutto mediata dall’azione congiunta della memoria e dell’arte.Scrive:

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“(...) vivo in questi luoghi come se fossi uno di duemila anni fa. Col passato ho un bel rapporto perchè evidentemente è ripulito da tutte le cose negative che vi saranno forse state , mi trovo a mio agio perchè non mi trovo a contatto con questa civiltà. (...) la nostra società corre, sta su un piano inclinato e non se ne rende conto. Io provo paura, mi pare che ci sia una follia collettiva alla quale non mi sento di partecipare” (40). “La memoria serve ad isolarmi dal presente. (...) Il passato mi rassicura con le sue certezze mentre il futuro mi inquieta. Con l’immaginazione, i templi, le strade, e le stesse statue rivivono, il tempo non esiste più, passato e presente diventano una cosa sola” (41).

Nel libro Mediterraneo, pubblicato nel 1996, lo storico dell’arte George Hersey e lo scrittore Predrag Matvejevic scrivono parole importanti e partecipi sul lavoro di Jodice. Hersey definisce Jodice “il fotografo di una desolazione bella, di scene le cui vestigia umane parlano di coloro che sono morti da molto tempo, di luoghi e di manufatti abbandonati alla profondità del tempo. Nella serie Mediterraneo si riconoscono principalmente due tipologie. La prima rappresenta una scena, un teatro, spesso rovinoso e inselvatichito; qui troviamo città perdute e paesaggi distrutti, spiagge con scogli semi-umani, cieli violenti. Nel secondo tipo di immagini, come attori che si muovono in questi teatri, Jodice fornisce visioni di corpi e volti antichi, antichi animali e mostri scomposti, spesso visti dall’occhio della macchina fotografica come colti da un repentino, argenteo volo”. Matvejevic porge una riflessione sul Mediterraneo, passa attraverso un interessante collegamento con l’album di famiglia (“Gli album di famiglia sono stati per molti di noi il primo vero atlante: l’immagine del mare prima del nostro incontro con il mare”), si spinge a immaginare le foto di famiglia di Mimmo Jodice per poi giungere a parlare della sua ricerca: “Il lavoro di Mimmo Jodice è definito in primo luogo dai suoi rifiuti e dalla sua ascesi. Rifiuta ogni confessione e qualsiasi eloquenza, coltiva la reticenza e la discrezione (...) I luoghi da lui scelti o eletti portano impronte di sacralità” (42).

E’ chiaro che questa ricerca di Jodice è un vero e proprio viaggio all’indietro, alle origini di una civiltà e alle proprie origini di uomo fortemente legato alla cultura del Mediterraneo. La fotografia, ben lontana dall’essere strumento di documentazione, diventa espressione di visionarietà e di invenzione di figure immaginarie, di proiezioni di fantasmi.

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Note

(1) = Alcune delle riflesioni che seguono provengono in particolare da due miei scritti: Dilatazioni del paesaggio dilatazioni della fotografia, in : M. Galbiati, P. Pozzi, R. Signorini (a cura), Fotografia e territorio, Guerini e associati, Milano 1995; Viaggi organizzati, in: W. Guerrieri (a cura), Via Emilia Luoghi e non luoghi, Linea di Confine per la Fotografia Contemporanea, Rubiera 2000.(2) = Jean Baudrillard, Amerique, Editions Grasset & Fasquelle, Paris 1986; ed. it. L’America, Feltrinelli, Milano 1987, pag. 13-14.(3) = Idem, ibidem, pag. 7.(4) = Cfr. Marc Augè, Non lieux, Editions du Seuil, Paris 1992; ed. it. Non luoghi, Elèuthera, Milano 1993, pag. 71-74.(5) = Wim Wenders, Una volta, con una intervista di Leonetta Bentivoglio, prefazione di Daniele Del Giudice, Edizioni Socratres, Roma 1993, pag. 392 (ed. or. 1993 Frankfurt am Main).(6) = Roland Barthes, La chambre claire, Editions du Seuil, Paris 1980; ed it. La camera chiara, Einaudi, Torino, 1980.(7) = Susan Sontag, On Photography, New York, Farrar Strauss and Giroux, 1973; trad. it. Sulla fotografia, Einaudi, Torino 1978.(8) =Pierre Bourdieu, Une art moyen.Essais sur les usages sociaux de la photographie, Les Editions de Minuit, Paris 1965; trad. it. La fotografia. Usi e funzioni di un’arte media, Guaraldi, Rimini, 1972.(9) = Jean Claude Lemagny, Histoire de la Photographie, Bordas, Paris 1983; ed. it. Storia della fotografia, Sansoni, Firenze 1987.(10) = dichiarazione in U.S. Camera Annual, New York, pag. 115, pubblicato in italiano nel volume: Nathan Lyons (a cura), Fotografi sulla fotografia, Agorà, Torino 1985.(11) = Jack Kerouac, Introduction, in: Robert Frank, Les americains, Delpire Editeur, Paris 1958.(12) = Jack Kerouac, On the Road, New York 1957, ed it. Sulla strada, Mondadori 1959, e molte edizioni successive. La citazione è a pag. 12 dell’edizione Oscar Mondadori, Milano 2000).(13) = Rod Slemmons, A Precise Search for the Elusive, in: Lee Friedlander, Like a One-Eyed Cat. Photographs 1956-1987, Harry N. Abrams Inc, New York 1989.(14) = R. Jenkins (a cura), New Topographics: Photographs of a Man-altered Landscape, International Museum of Photography at George Eastman House, Rochester 1975. (15) = Roland Barthes, Le message photographique, in “Communications”, 1961; trad. it. Il messaggio fotografico, Almanacco Bompiani, Milano 1961, poi in: Roland Barthes, L’ovvio e l’ottuso, Einaudi, Torino 1981).(16) = Umberto Eco, Opera aperta, Bompiani, Milano 1962.(17) = Franco Vaccari, Fotografia e inconscio tecnologico, Punto e Virgola, Modena 1979; poi Agorà, Torino 1994, con prefazione di Roberta Valtorta.(18) = Franco Vaccari. Opere: 1966-1986, con saggio critico di Renato Barilli e antologia critica, Edizioni Cooptip, Modena 1987, catalogo della mostra alla Palazzina dei Giardini, Modena 1987.(19) = Idem, ibidem.(20) = Idem, ibidem.(21) = Luigi Ghirri, Paesaggi di cartone, in “Il Diaframma/Fotografia Italiana”, n. 188, dicembre 1973, pag. 28; poi in: Paolo Costantini e Giovanni Chiaramonte (a cura), Luigi Ghirri. Niente di antico sotto il sole. Scritti e immagini per un’autobiografia, SEI, Torino 1997, pag. 17.

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(22) = Luigi Ghirri, introduzione di Arturo Carlo Quintavalle, testi di autori vari e di Luigi Ghirri, CSAC, Parma/Feltrinelli, Milano 1979; poi in: Paolo Costantini e Giovanni Chiaramonte, op. cit., pag. 30.(23) = Luigi Ghirri, Kodachrome, Punto e Virgola, Modena 1979; poi in: Paolo Costantini e Giovanni Chiramonte, op. cit., pag. 18.(24) = Luigi Ghirri, op. cit. poi in: Paolo Costantini e Giovanni Chiaramonte, op. cit. pag. 31.(25) = Idem, ibidem, pag. 24.(26) = Idem, ibidem, pag. 26.(27) = Idem, ibidem, pag. 37.(28) = Idem, ibidem, pag. 36.(29) = Luigi Ghirri, Gianni Leone, Enzo Velati (a cura), Viaggio in Italia, Il Quadrante, Alessandria 1984, catalogo della mostra alla Pinacoteca Provinciale di Bari, con scritti di Arturo Carlo Quintavalle e Gianni Celati.(30) = Idem, ibidem, pag. 20-35.(31) = Gianni Celati, Verso la foce, Feltrinelli, Milano 1989, pag. 9.(32) = AA.VV., Esplorazioni sulla Via Emilia. Vedute nel paesaggio, Feltrinelli, Milano 1986; AA.VV., Esplorazioni sulla Via Emilia. Scritture nel paesaggio, Feltrinelli, Milano 1986.(33) = Per approfondimenti su questo tema si veda: Roberta Valtorta, La fotografia di paesaggio come fotografia, in: Achille Sacconi e Roberta Valtorta (a cura), 1987-1997 Archivio dello spazio. Dieci anni di fotografia italiana sul territorio della provincia di Milano, Art&, Udine 1997.(34) = Mario Cresci, Misurazioni. Fotografia e territorio. Oggetti, segni e analogie fotografiche in Basilicata, Edizioni Meta, Matera 1979).(35) = Roberto Salbitani, Il viaggio. Fotografie 1971-1994, con un testo di Italo Zannier e scritti di Roberto Salbitani, CRAF, Spilimbergo 1994.(36) = Guido Guidi, SS9, Linea di Confine per la Fotografia Contemporanea, Rubiera, 2001.(37) = Guido Guidi, presentazione del lavoro di Gloria Salvatori e Francesco Raffaelli in: Paolo Costantini e William Guerrieri (a cura), Venti fotografi italiani, Comune di Carpi 1995.(38) = Roberta Valtorta (a cura), Milano senza confini, Silvana Editoriale, Milano 2000.(39) = Gabriele Basilico, Bord de mer, con un testo di Bernard Latarjet, Art&, Udine 1992.(40) = Arturo Carlo Quintavalle, Muri di carta. Fotografia e paesaggio dopo le avanguardie, Electa, Milano 1993.(41) = Alessandra Mauro, Lo sguardo da sud. Conversazioni su sud e fotografia, L’ancora, roma 1999.(42) = George Hersey e Predrag Matvejevic in: Mimmo Jodice, Mediterraneo, Art&, Udine 1995.

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