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Economia e abitudini alimentari a Lilibeo Maria Grazia Griffo Pagina 1 di 20 Corso di formazione “L’alimentazione nel mondo antico” Museo Archeologico Regionale “Lilibeo” di Marsala Economia e abitudini alimentari a Lilibeo Maria Grazia Griffo Per conoscere come si cucinava e cosa si mangiava nella città punico romana di Lilibeo, sembra utile anzitutto evidenziare il legame stretto e indissolubile tra economia, produzione-importazione di risorse e abitudini alimentari. Un settore di studi vasto e molto interessante, non abbastanza indagato a motivo probabilmente della persistente difficoltà di affrontare le tematiche storico-archeologiche in modo multidisciplinare. Lo studio della paleo-vegetazione, dei resti faunistici e paleobotanici, della paleoantropologia e delle patologie delle antiche popolazioni forniscono informazioni primarie sull’economia e l’alimentazione nel mondo antico, altrettanto, se non più importanti, rispetto alle fonti storico-letterarie o archeologiche, rivolte allo studio della cultura materiale e della vasta documentazione iconografica. L’azienda del Dominus Julius ( fine V- inizi VI sec.d.C.), pavimento a mosaico da Cartagine Il paesaggio agrario sarà il nostro punto di partenza per conoscere l’economia della città punico-romana di Lilibeo. Plinio il Vecchio, in un passo famoso della Naturalis Historia, descrive il tipico paesaggio agricolo nord- africano con un quadro che si può senz’altro estendere al territorio lilibetano: All’ombra della palma superba cresce l’olivo,sotto l’olivo il fico; sotto il fico il melograno, sotto questo la vite;sotto la vite il frumento, poi i legumi, infine la verdura: tutto nello stesso anno e tutte le piante vengono nutrite ciascuna dall’ombra dell’altra.

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Economia e abitudini alimentari a Lilibeo Maria Grazia Griffo

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Corso di formazione “L’alimentazione nel mondo antico” Museo Archeologico Regionale “Lilibeo” di Marsala

Economia e abitudini alimentari a Lilibeo

Maria Grazia Griffo

Per conoscere come si cucinava e cosa si mangiava nella città punico romana di Lilibeo, sembra utile anzitutto evidenziare il legame stretto e indissolubile tra economia, produzione-importazione di risorse e abitudini alimentari. Un settore di studi vasto e molto interessante, non abbastanza indagato a motivo probabilmente della persistente difficoltà di affrontare le tematiche storico-archeologiche in modo multidisciplinare. Lo studio della paleo-vegetazione, dei resti faunistici e paleobotanici, della paleoantropologia e delle patologie delle antiche popolazioni forniscono informazioni primarie sull’economia e l’alimentazione nel mondo antico, altrettanto, se non più importanti, rispetto alle fonti storico-letterarie o archeologiche, rivolte allo studio della cultura materiale e della vasta documentazione iconografica.

L’azienda del Dominus Julius ( fine V- inizi VI sec.d.C.), pavimento a mosaico da Cartagine

Il paesaggio agrario sarà il nostro punto di partenza per conoscere l’economia della città punico-romana di Lilibeo. Plinio il Vecchio, in un passo famoso della Naturalis Historia, descrive il tipico paesaggio agricolo nord-africano con un quadro che si può senz’altro estendere al territorio lilibetano: All’ombra della palma superba cresce l’olivo,sotto l’olivo il fico; sotto il fico il melograno, sotto questo la vite;sotto la vite il frumento, poi i legumi, infine la verdura: tutto nello stesso anno e tutte le piante vengono nutrite ciascuna dall’ombra dell’altra.

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La descrizione pliniana dà un’idea delle risorse agricole della terra abitata dai Punici: vengono citate le colture mediterranee più comuni, l’una all’ombra dell’altra, secondo un’abitudine tipica del tempo di unire in un unico fondo diverse coltivazioni: le viti abbarbicate agli ulivi, i fichi accanto i melograni, mentre svetta alta e superba su tutte la palma, simbolo nazionale di queste genti tanto da essere utilizzata come emblema monetale.

L’entroterra agricolo di Lilibeo-Marsala (foto Giuseppe Leone)

Pensiamo al paesaggio della nostra Lilibeo: la città antica si sviluppò su un terreno pianeggiante, costituito da roccia calcarenitica compatta, con lievi ondulazioni collinari nell’entroterra, in direzione del territorio abitato dagli alleati Elimi (Erice, Segesta, Entella). La vegetazione, allora come oggi, rientrava nell’orizzonte della macchia mediterranea, definito “oleo-ceratonion”, caratterizzato dalla presenza di oleastro e carrubbo. Infatti dall’esame dei resti vegetali carbonizzati rinvenuti in alcune tombe a cremazione della necropoli sappiamo che vi crescevano la quercia sempreverde, l’ulivo, il corbezzolo, la palma nana, il pino domestico, l’albero di noce, i noccioli. L’esame dei carboni della legna utilizzata per i roghi, dei semi combusti (come i pinoli delle pigne), dei resti di noci e nocciole ancora intatti o dei loro gusci, fornisce informazioni preziose sulla paleo vegetazione di Lilibeo. Anche se la legna veniva selezionata per esigenze particolari, ad es. il profumo che emanava nel rito funebre o la sua qualità combustibile, la presenza di queste essenze e semi nei roghi ci fa capire quale fosse la vegetazione appena al di fuori della cinta muraria. Possiamo immaginare dunque boschi di querce e pinete lungo la fascia costiera e la coltivazione di specie arboree produttive quali noci, noccioli, olivi. Nell’ambito delle tombe a cremazione prese in esame, è stato rinvenuto un solo nocciolo di oliva, forse attaccato alle frasche del rogo, che, a giudicare dalle dimensioni, doveva appartenere alla specie coltivata piuttosto che all’oleastro. Del resto sappiamo che l’olivo rientra nella costituzione della vegetazione spontanea della costa siciliana come macchia ad oleastro. La macchia, almeno a partire dal VI secolo, come dice Plinio, viene trasformata in oliveto produttivo mediante dissodamento e messa a coltura. E’ infatti assai verosimile che sia stata importata dall’Oriente non la pianta ma la tecnica di coltivazione e produzione, come sostiene George Vallet.

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Macina di frantoio in pietra arenaria, VI sec. a. C., Selinunte

A proposito della produzione di olio a Lilibeo sembra utile ricordare che sono state trovate tracce residue di olio all’interno di un tipo di anfora punica molto tarda (II sec. a.C.) che, per le caratteristiche dell’impasto, sembra di produzione locale (scavi Isolato Egadi, tipo Bartoloni E 1). Si può quindi ipotizzare che l’olio venisse prodotto a Lilibeo e addirittura commercializzato in contenitori prodotti in loco.

Anfora punica di produzione locale

Noccioli di olive, insiemi a gusci di noccioline, oltre che nelle tombe a cremazione di Lilibeo sono stati trovati anche in mezzo alle frasche che proteggevano lo scafo della Nave punica dalla zavorra, e sono stati interpretati come resti del frettoloso pasto dei carpentieri intenti al lavoro. Resti di nocciole e olive provenivano anche dalla zona della nave interpretata come “cucina”.

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Noccioli di olive e ramoscello di ulivo dal relitto della Nave punica

Un’altra attestazione viene dal mare: durante le prospezioni subacquee condotte da M. Bound e G. Falsone (1982-83) nel bacino portuale NO di Lilibeo è stata rinvenuta un’anfora punica contenente noci e nocciole.

Anfora punica Maña C da Capo Boeo

La frutta secca, per il suo elevato contenuto energetico, verosimilmente faceva parte della razione giornaliera delle truppe e degli equipaggi in epoca romana, come documentano anche i rinvenimenti di gusci di frutta secca in un forte romano presso il Muro di Antonino in Scozia (Bar Hill). Un’altra interessante testimonianza sul consumo della frutta secca ma anche di stagione, proviene dal corredo di una tomba lilibetana rinvenuto o acquisito da G. Whitaker ed esposto nel Museo di Mozia. Accompagnavano il defunto nel suo viaggio ultraterreno fichi, melagrane, uva, riprodotti fedelmente in terracotta, insieme a gusci di noci, mandorle e nocciole combuste.

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Corredo di una tomba femminile da Lilibeo, Museo “G. Whitaker”

Si tratta di offerte votive che accompagnavano il rito funebre poiché rivestivano un significato simbolico e beneaugurante per il passaggio nell’aldilà. Del resto, in ragione della sua forte connotazione simbolica, il frutto viene spesso rappresentato nelle scene di banchetto o di culto sulle edicole lilibetane.

Edicole funerarie dalla Necropoli di Lilibeo, sec. I a. C. - I d.C., Museo “Lilibeo”

Straordinario il naturalismo nella rappresentazioni dei fichi, frutto quasi spontaneo nella macchia mediterranea, il cui consumo in tutto il mondo antico è ben documentato a partire dai testi biblici per finire alle fonti classiche. I fichi venivano consumati freschi o secchi, ridotti in schiacciate facilmente trasportabili.

Fichi fittili dal corredo funerario al Museo “G. Whitaker”

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Quelli cartaginesi erano molto rinomati, tanto che proprio un fico raccolto a Cartagine e portato dopo tre giorni nella Curia di Roma servì a Catone per dimostrare quanto fosse vicino e pericoloso il nemico punico.

Tetradrammi punici, serie con cavallo e palma da datteri

Per quanto manchino attestazioni in tal senso, possiamo tuttavia immaginare che anche i datteri, ricavati dalle palme, fossero un frutto comune sulla tavola dei lilibetani che integrava una dieta povera di zuccheri e di vitamine. Molte serie monetali puniche, del resto, recano impresso il simbolo della palma, phoinix, che non a caso per i Greci coincide con l’etnico che designa i Fenici.

Raccoglitore di datteri, stele da Cartagine

Un’altra fonte molto importante per la conoscenza della dieta dei lilibetani è lo studio paleo antropologico dei resti umani rinvenuti nella necropoli punico-romana.

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Carie dentaria

L’indagine è stata eseguita su un campione di 316 individui e fornisce dati interessanti per la conoscenza della qualità della vita, del regime alimentare e in generale delle condizioni igienico-ambientali a Lilibeo. Sappiamo anzitutto che erano elevate sia la mortalità infantile, sia quella degli adulti compresi tra i 30 e i 40 anni.

Usura dentaria di origine alimentare

Dallo studio della dentatura si può risalire al tipo di alimentazione, infatti le notevoli tracce di usura dentaria o addirittura la mancanza di parte della dentatura in molti individui, inducono a ritenere che i lilibetani mangiassero cibi non cotti bene o cereali non ben macinati, probabilmente a causa della lavorazione mediante macine e pestelli in pietra che non consentivano una perfetta macinazione dei chicchi.

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Pestelli lapidei da Lilibeo, Museo “G. Whitaker”

La bassa percentuale di carie fa pensare ad un modesto consumo di sostanze zuccherine, mentre le numerose infezioni dentarie e l’alterazione diffusa nella formazione dello smalto si imputano alla carenza della vitamina D o anche a malattie infettive contratte in età infantile. Inoltre, una notevole presenza di anemia, dovuta verosimilmente ad una dieta povera di carni, è documentata dalla presenza di piccoli fori sul cranio e nelle cavità orbitali (cribra). Nei casi più gravi l’anemia risulta riconducibile alla talassemia. Interessante il dato sociologico che emerge dal confronto tra la composizione dei corredi funerari e i caratteri patologici: ai corredi più ricchi corrispondono individui sani a causa di buone condizioni igienico-alimentari, ai corredi poveri, invece, individui con malformazioni e malattie dovute ad alimentazione molto carente.

Vaso plastico a forma di porcellino con beccuccio versatoio, III sec. a.C.

A proposito del modesto consumo delle carni, si ritiene probabile che bovini e ovo caprini venissero allevati più per la produzione e il consumo di latte e formaggi che per essere macellati e che, come in altri siti punici (Panormo) a Lilibeo si consumasse prevalentemente il pesce. Numerose le attestazioni nei corredi infantili di vasi biberon che documentano, seppure indirettamente, il consumo dell’alimento naturale e basilare per la crescita.

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askos, con probabile funzione di biberon, IV sec. a.C.

Nei vasi cinerari della necropoli di Lilibeo insieme ai reperti umani sono stati rinvenuti anche resti faunistici prevalentemente di ovo caprini, volatili, pesci, molluschi terrestri e marini, da ricollegare al rituale funerario ma che venivano consumati abitualmente.

Resti di ovo caprini e volatili entro anfora cineraria

La consuetudine al consumo del pesce sulla mensa di poveri e ricchi è testimoniata dall’alta percentuale, tra le forme di ceramica comune in contesto punico, di piatti da pesce, a vernice nera oppure a figure rosse, caratterizzati da una cavità centrale per le salse e da ampie pareti sulle quali poggiare il cibo.

Piatti da pesce a v.n., fine IV- inizi III sec. a. C.

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Inoltre i corredi funerari restituiscono valve di conchiglia afferenti a diversi tipi: dal cardium alla patella, dal pecten jacobeus all’ostrica, che se nelle tombe rivestivano un significato magico come gioielli e talismani, documentano la presenza di prelibati molluschi sulla tavola dei lilibetani. Da un ricchissimo ipogeo della necropoli Corso Gramsci proviene un grosso pecten utilizzato come porta cosmetici, come documenta la presenza di fori praticati su ciascuna delle valve e di un piccolo anello di bronzo per la chiusura.

Pecten Jacobeus, ip. 38 Necropoli di Corso Gramsci, IV sec. a.C. (color porpora moderno aggiunto per l’esposizione)

A proposito del consumo del pesce a Lilibeo, città raffinata e “splendidissima”, connotata da un melting-pot etnico e culturale, sulla mensa non poteva mancare il prelibato “garum”, una salsa rinomatissima e nota attraverso le fonti classiche e i primi ricettari, da Archestrato ad Apicio (vedi contributo V. D’Amico-A. Pisciottta).

Anfora punica con resti di garum

Il garum si otteneva lasciando macerare in salamoia dentro vasche rivestite di coccio pesto interiora e polpa di pesci di diversa qualità con erbe aromatiche, e raccogliendone poi il liquido che colava (liquamen). La macerazione del pesce veniva accelerata mediante ebollizione dentro pignatte oppure attraverso il calore convogliato da pilastrini di terracotta (suspensurae) o condutture simili a quelle utilizzate negli stabilimenti termali.

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Vasche per il garum, Levanzo

Vasche quadrate per la preparazione del garum sono state rinvenute a Cala Minnola (Levanzo) e a San Vito Lo Capo, mentre cavità circolari ricavate nella scogliera di fronte a questo Museo sono state ipoteticamente ricondotte alla stessa industria.

Vasche per il garum, San Vito Lo Capo

Per contro, la dieta a bordo della Nave punica era prevalentemente basata sulle proteine animali. Infatti nella cavità della chiglia e nella zona cucina sono state trovate ossa di bovini, ovini, daino e maiale tagliate a pezzi e quindi già a porzioni per l’equipaggio.

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Mandibola di bovino trovata nel relitto accanto ad una coppa a v.n.

Data la mancanza di grandi pentole adatte alla cottura, si pensa che le carni venissero arrostite alla brace, oppure precotte con il metodo della salagione. A suffragio di questa ipotesi sulla “precottura” delle carni si può ricordare la fonte storica: Livio racconta che nel 218 a.C. le navi romane allertate nel porto di Lilibeo e pronte a salpare alla volta di Cartagine fu ordinato di portare a bordo “razioni cotte sufficienti per dieci giorni”.

Braciere portatile in terracotta, II sec. a.C.

Un braciere portatile in terracotta, rinvenuto al largo del litorale sud di Marsala, documenta l’uso di questi straordinari “scaldavivande” a bordo, come una sorta di cucina da campo. Immaginiamo sopra il braciere, tra i sostegni configurati a protomi taurine, una bella pentola simili a quelle che facevano parte dei corredi lilibetani come utilizzate.

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Pentola utilizzata come cinerario, III sec. a.C.

Le olle e le pentole a fondo convesso venivano utilizzate per la cottura prolungata e a fuoco lento di pappe e cereali, mentre tegami e teglie a fondo piano servivano alla cottura più veloce di pesce e carni.

Tegame con coperchio, fine IV-III sec. a.C.

Per quanto manchi la documentazione paleobotanica di resti di vinaccioli, è molto probabile che le fertili pianure dolcemente ondulate bagnate dal fiume Birgi o dal Sossio fossero coltivate a vigneti, allora come oggi.

Anfore per il trasporto e la conservazione

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E’ certo ad ogni modo un abbondante e diversificato consumo di vino, a partire dalla documentazione archeologica delle numerosissime anfore vinarie, che afferiscono alle più disparate tipologie, rinvenute negli scavi terrestri e subacquei: Greco-italiche (di produzione magno-greca e siceliota) afferenti a tutti i tipi, soprattutto al IV, Dressel 1 prodotte nell’Italia centrale tirrenica per il commercio del vino estrusco-laziale, come il famoso Falerno, Maltesi, Puniche sia di importazione dalla vicina Cartagine (le classi Mana

C1 o Cintas 295),sia di probabile produzione locale (variante Mana B). Per il periodo imperiale non

mancano le anfore nordafricane, tripolitane e tunisine provenienti dalla stessa area geografica.

Ansa di anfora rodia con bollo, II sec. a. C

Dalle isole greche abbiamo un’ampia attestazione, sia di anfore, sia di bolli impressi sulle anse come marchio di fabbrica che certificava la qualità del prodotto indicando il nome del produttore (e talvolta anche il magistrato).

Ansa bollata da Rodi, III sec. a.C.

Mostriamo, a titolo di esempio, un bollo da Rodi, caratterizzato dalla testa radiata di Helios, e uno da Naxos in cui figura l’etnico al maschile singolare “naxios” che potrebbe sottintendere la parola oinos, vino. Evidentemente il bollo, insieme alla particolare forma del contenitore, serviva a rendere inconfondibile il prodotto esportato.

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Ansa bollata da Naxos

Anfore vinarie dalla Nave punica

Tappi in sughero per anfore dalla Nave punica

Come sappiamo dalle fonti, il vino veniva aromatizzato con diverse sostanze; così la resina rivestiva alcune anfore della Nave punica, mentre un’anfora punica piena di calce è stata trovata nel bacino portuale di Capo Boeo. Quest’ultima scoperta può avvalorare il giudizio di Plinio che critica la qualità del vino cartaginese a causa dell’uso di calce per addolcirne il gusto.

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Anfora punica Maña C dal bacino portuale di Capo Boeo, II-I sec. a. C.

Lo stesso Plinio loda però il passum, antenato del nostro passito, di cui Columella nel III sec. d.C. dà la ricetta tramandata dall’agronomo punico Magone: Cogliere i primi grappoli molto maturi, piantare a terra, a 4 piedi di distanza, delle forche o dei pali collegati a pertiche che sostengano delle canne; quindi sistemare al di sopra le canne, sulle quali si esporrà al sole l’uva..quando sarà secca staccare i chicchi, gettarli in una giara o in una brocca, versarvi del mosto, fino a che i chicchi siano ricoperti. Il 6° giorno mettetela in un tino, fatela passare sotto un torchio e raccogliete il liquido; poi pigiare la vinaccia aggiungendovi il mosto fresco fatto con altre uve, che si saranno lasciate al sole per 3 giorni; mescolate bene e passate sotto il torchio. Chiudete subito in vasi sigillati con la creta il liquido prodotto da questa seconda spremitura, affinché non divenga aspro; poi, dopo 20 o 30 giorni, quando la fermentazione sarà cessata, tirarlo fuori in altri vasi; intonacare subito con gesso i coperchi e ricoprirli con una pelle.

Cratere a f. r., ca. 450 a.C.

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Sicuramente la pratica del simposio, il bere insieme (syn pinein) dopo il banchetto è ben documentata nella nostra città attraverso i vasi utilizzati a questo scopo. Anzitutto il cratere, il recipiente per mescolare il vino con l’acqua, conosciuto in un unico esemplare decorato a figure rosse che Giuseppe Whitaker registra nell’Inventario del Museo moziese come proveniente da Lilibeo (anche se antecedente di almeno 50 anni dalla fondazione della città); e poi numerose coppe e skyphoi ber bere, brocche (oinochoai e olpai) per attingere la bevanda dal cratere e versarla nelle coppe, oltre alle anfore per l’acqua (hydria) e per il vino di cui abbiamo già parlato.

Vasi per bere, IV-III sec. a.C.

Vasi per versare, IV-III sec. a.C.

Anche sulle modalità del convivio non manca la documentazione archeologica e iconografica. L’evoluzione della società e la diffusione della koinè ellenistica introducono a Lilibeo stili di vita e costumi tipicamente greci anche a tavola. Mentre nel mondo punico era diffuso l’uso di mangiare accovacciati, come accade ancora oggi nei villaggi nord-africani, nella città di Lilibeo, in cui convivevano genti puniche, greche e romane, è ben documentato sin dal II-I sec. a. C. l’uso di letti per mangiare sdraiati (klinai) e la presenza nelle “case ad atrio” di una stanza dedicata al convivio.

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Domus del Capo Boeo (Insula I), le sale triclinari

Nell’ambito della documentazione archeologica la domus del Capo Boeo è sicuramente l’esempio più monumentale di casa patrizia romana, munita di due stanze triclinari, separate da uno stretto corridoio. L’arredo del triclinio era costituito da tre letti disposti lungo le pareti e una tavola al centro (trapeza), molto piccola dato che le vivande erano servite dagli schiavi. Le edicole funerarie dalla necropoli monumentale di Lilibeo costituiscono una fonte di fondamentale importanza per conoscere mobili e suppellettili del triclinio nonché abitudini e gestualità del convivio, anche se le scene ivi raffigurate afferiscono alla sfera simbolico-religiosa del banchetto funebre.

Edicola funeraria dalla Necropoli di Lilibeo, I sec. a. C. -I sec. d.C.

Conosciamo un altro modo di stare a tavola attraverso la decorazione pittorica dell’Ipogeo di Crispia Salvia dove la scena di convivio funebre rappresenta cinque personaggi maschili con calici ricolmi di vino rosso intorno allo stibadium, un divano da banchetto di forma semicircolare.

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Scena di convivio, T.2, Ipogeo di Crispia Salvia

Lo stibadium sostituì il tradizionale triclinio nelle abitudini dei Romani in età tardo-antica, introdotto, come tramandano le fonti, dall’imperatore Elagabalo (Historia Augusta). Esso consisteva in un divano in muratura per il banchetto, di forma grosso modo semicircolare collocato in posizione dominante nel tablinum, talvolta con lo spazio centrale occupato da una piccola vasca, come nella villa recentemente rinvenuta a Faragola (Ausculum, Foggia).

Stibadium di Faragola, scavo e ricostruzione, V sec. d.C.

La sua raffigurazione diventa comune nei mosaici paleocristiani nelle scene di banchetto eucaristico e nella rappresentazione dell’Ultima Cena.

L’Ultima Cena, Basilica di Sant’Apollinare Nuovo, Ravenna VI sec. d. C.

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BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

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