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Edgar Allan Poe Le avventure di Gordon Pym Edgar Allan Poe Le avventure di Gordon Pym «Sentivo le ginocchia tremare forte, le dita indebolirsi poco a poco sull’appiglio. Qualcosa ronzava nelle mie orecchie e io pensavo: «Ecco il gelo della morte!».» Arthur Gordon Pym si imbarca clandestinamente a bordo della baleniera “Grampus” e si ritrova a vivere una serie di disavventure in mare. Scampato a un naufragio, viene salvato dall’equipaggio della nave “Jane Guy”, insieme alla quale farà rotta verso il Polo Sud alla ricerca di terre inesplorate. Edgar Allan Poe (1809-1849) è considerato uno dei più grandi e influenti scrittori statunitensi della storia. Scrittore di grande inventiva, ha anticipato generi letterari quali il racconto poliziesco (i suoi personaggi Auguste Dupin e William Legrand si possono considerare gli antenati più diretti dello Sherlock Holmes di Arthur Conan Doyle), e la fantascienza. Negli anni, la figura dello scrittore è stata omaggiata numerose volte nella cultura popolare, attraverso la letteratura, la musica, le pro- duzioni cinematografiche e quelle televisive. RRD Roberto Ricci Designs is a trademark licensed to: Montecristo SRL r o b e r t o r i c c i d e s i g n s . c o m

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Edgar Allan Poe Le avventure di Gordon Pym

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«Sentivo le ginocchia tremare forte, le dita indebolirsi poco a poco sull’appiglio. Qualcosa ronzava nelle mie orecchie e io pensavo: «Ecco il gelo della morte!».»

Arthur Gordon Pym si imbarca clandestinamente a bordo della baleniera “Grampus” e si ritrova a vivere una serie di disavventure in mare. Scampato a un naufragio, viene salvato dall’equipaggio della nave “Jane Guy”, insieme alla quale farà rotta verso il Polo Sud alla ricerca di terre inesplorate.

Edgar Allan Poe (1809-1849) è considerato uno dei più grandi e influenti scrittori statunitensi della storia. Scrittore di grande inventiva, ha anticipato generi letterari quali il racconto poliziesco (i suoi personaggi Auguste Dupin e William Legrand si possono considerare gli antenati più diretti dello Sherlock Holmes di Arthur Conan Doyle), e la fantascienza. Negli anni, la figura dello scrittore è stata omaggiata numerose volte nella cultura popolare, attraverso la letteratura, la musica, le pro-duzioni cinematografiche e quelle televisive.

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Edgar Allan Poe

Le avventuredi Gordon Pym

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INTRODUZIONE

Dopo una serie di avventure vissute nei mari del sud,tornato negli Stati Uniti, feci la conoscenza di alcuni ri-spettabili cittadini di Richmond, in Virginia, che mo-strarono grande interesse per le regioni da me visitate ecercarono di convin cermi a rendere pubblico il raccontodelle mie peripezie.Io avevo i miei motivi per rifiutare, alcuni del tutto pri-vati, altri no: dal momento che non avevo quasi mai te-nuto un diario nel mio viaggio, avevo paura di nonriuscire a scrivere, con il solo aiuto della memoria, unresoconto che avesse una parvenza di verità; esclu-dendo, naturalmente, certe inevitabili esagerazioni allequali è facile indulgere quando si descrivono eventi chetanto eccitano l’immaginazione; un altro motivo consi-steva nel fatto che gli avvenimenti da narrare erano dif-ficili da credere (suffragati soltanto da un unicotestimone, un mezzosangue indiano) e quindi non po-tevo sperare che nella fiducia della mia famiglia e degliamici che nel corso della loro vita avevano prestato fedeal mio amore per la verità.Temevo insomma che il pubblico avrebbe considerato imiei resoconti come favole ingegnose, oltre al fatto cheanche la mia poca capacità di scrittore mi sconsigliavadi accettare i suggerimenti dei miei consiglieri.

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Tra i gentiluomini della Virginia che mostrarono atten-zione per le mie osservazioni, in particolare per le partidel racconto che riguardavano l’oceano Antartico, vi erail signor Poe, già direttore del «Southern Literary Mes-senger», mensile pubblicato a Richmond dal signor Tho-mas W. White. Il signor Poe mi consigliò amichevolmentedi scrivere un resoconto completo di quanto avevo vistoe vissuto, confidando sull’intelligenza e il buon senso deilettori: se anche il racconto fosse risultato rozzo, proprioper questo avrebbe avuto maggiori probabilità di esserepreso per vero. Nonostante questo parere, esitavo a seguire il suo consi-glio. Vedendomi irremovibile, mi chiese così il permessodi raccontare con parole sue la prima parte delle mie av-venture, per pubblicarla sul «Southern Messenger»,come fosse un romanzo. Non avendo nulla da obiettare,gli diedi il mio assenso, chiedendo solo che venisseomesso il mio nome. Le prime due puntate comparverosui fascicoli di gennaio e febbraio (1837) del «Messen-ger»; per far sì che sembrasse davvero un romanzo, nelsommario della rivista accanto al titolo dei brani figuravail nome del signor Poe.La buona accoglienza riservata a queste avventure mi con-vinse ad affrontarne la stesura completa; infatti, nono-stante il tono inverosimile di quella parte del mio raccontoapparsa sul «Messenger» (senza comunque che i fatti ve-nissero distorti), il pubblico non lo prese affatto come unromanzo, e infatti al signor Poe giunsero diverse letterenelle quali era chiara una convinzione del tutto opposta.Ne dedussi che, proprio per la loro natura, i fatti da menarrati sarebbero risultati veritieri e dunque non dovevotemere l’incredulità dei lettori.

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Ciò premesso, sarà facile capire quali brani, tra quelliche seguono, possano rivendicare la mia paternità; e sivedrà anche che nelle prime pagine, scritte dal signorPoe, niente è stato travisato. Segnalare dove termina lasua parte e dove inizia la mia sarebbe inutile, anche perquei lettori che non hanno letto il «Messenger»: le dif-ferenze di stile sono evidenti.

A.G. PymNew York, luglio 1838

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Capitolo 1

Mi chiamo Arthur Gordon Pym, mio padre era un ono-rato commerciante di forniture navali a Nantucket, dovesono nato. Mio nonno materno era un avvocato e avevauna buona clientela. La fortuna l’aveva sempre favoritoe aveva speculato con profitto sui titoli della banca cheallora si chiamava Edgarton New Bank. Con questimezzi e con altri era riuscito ad ammassare una piccolafortuna. Era affezionato a me, credo, più che a ogni altra personaal mondo e avevo ragione di sperare che, dopo la suamorte, avrei ereditato la maggior parte dei suoi beni.Quando ebbi raggiunto l’età di sei anni, egli m’inviò allascuola del vecchio signor Ricketts, un brav’uomo cheaveva un solo braccio, camminava con un’andatura unpo’ eccentrica ed era conosciuto da tutti quelli che ave-vano visitato New Bedford.Frequentai dunque la sua scuola fino all’età di sedicianni, quando dovetti abbandonarla per entrare nell’ac-cademia del signor E. Ronald. Lì divenni molto amicodel figlio del signor Barnard, un capitano di lungo corsoche navigava regolarmente per conto della compagniaLloyd & Vredenburg, ed era molto conosciuto anche aNew Bedford. Suo figlio si chiamava Augustus ed eradi circa due anni più grande di me. Era andato a cacciadi balene con suo padre, sulla John Donaldson, e non

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si stancava di narrarmi le prodezze che aveva compiutonel sud dell’oceano Pacifico. Mi recavo spesso da lui e passavamo insieme tutta lagiornata e, a volte, anche la notte. Occupavamo allorail medesimo letto e, quando voleva tenermi sveglio finoall’alba, non aveva che da raccontarmi le strane storieche conosceva intorno agli indigeni dell’isola di Timano delle altre contrade che aveva avuto occasione di visi-tare nei suoi viaggi. A lungo andare, avevo finito per in-teressarmi molto ai suoi racconti e sentivo un fortedesiderio di prendere il largo e navigare.Possedevo già una barca a vela chiamata Ariel, del valoreforse di settantacinque dollari, con una cabina al centrodel ponte e simile a uno sloop. Non ricordo più qualefosse il suo tonnellaggio, ma credo che dieci persone vipotessero stare comodamente. Su quell’imbarcazione fa-cemmo dei viaggi così audaci che, quando ci penso, misembra di essere vivo solo per miracolo.Voglio ora raccontare ai miei lettori una di queste scap-patelle che servirà d’introduzione a un racconto più im-portante e ben più lungo.Un giorno dunque il signor Barnard aveva dato un granpranzo e, poco prima che finisse la serata, Augustus e ioeravamo ambedue brilli. Come succedeva quasi semprein simili casi, invece di tornare a casa, divisi il letto delmio amico. Era circa l’una di notte quando gli invitati la-sciarono la casa di Barnard, e io, convinto che il mioamico si fosse addormentato senza uno dei suoi soliti rac-conti, già mi preparavo a gustare il sonno ristoratore.Eravamo dunque coricati forse da una mezz’ora, ed eroquasi sul punto d’assopirmi quando, svegliatosi di so-prassalto, egli lanciò un’imprecazione giurando che per

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tutti gli Arthur Pym della cristianità non si sarebbe mairassegnato a dormire con una così bella brezza di sud-ovest. Mai nella mia vita provai una simile sorpresa e nonpotevo comprendere ciò che intendeva con tali parole enon sapevo spiegarmi la sua eccitazione se non come uneffetto dei vini e dei liquori che aveva abbondantementetracannato durante la serata. Ma la mia sorpresa si feceancora più grande, quando lo vidi discorrere molto tran-quillamente assicurandomi che sbagliavo di molto cre-dendolo brillo, perché in realtà mai si era sentito, comein quell’ora, padrone di se stesso. Era solo stanco – ag-giungeva – di dover stare a letto come un cane in unanotte così bella, per cui era deciso ad alzarsi e vestirsi perandare a fare una piccola uscita in barca.Non saprei dire cosa pensassi esattamente allora diquella proposta; sta di fatto che, appena sentite quelleparole, venni travolto anch’io dall’entusiasmo, conside-rando quel progetto insensato come la cosa la più deli-ziosa e sensata da fare. Benché la brezza cui avevaaccennato il mio amico somigliasse molto a una tempe-sta e la temperatura fosse glaciale (si era allora moltoavanti, in ottobre), cionondimeno saltai dal letto comein un accesso di delirio, dichiarando al mio compagnoche non mi sentivo meno coraggioso di lui nel dover-mene rimanere a letto come un cane e che ero prontoall’azione non meno di un Augustus Barnard di Nan-tucket. Ci vestimmo dunque senza perdere un istante ecorremmo ansiosi alla barca.Ariel era ancorata vicino alla vecchia banchina in rovina,presso il cantiere di costruzioni di Pankey & Co. e la fian-cata strisciava quasi contro le vecchie mura del cantiere.Augustus saltò dentro, spazzando via con energia l’acqua

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che ingombrava il ponte; issammo poi il fiocco e la randae ci lanciammo arditamente e avidamente al largo.Come già detto, il vento soffiava gelido da sud-ovest ela notte era molto chiara e fredda.Augustus aveva impugnato il timone e io stavo in piedisul ponte vicino all’albero e alla cabina. Favoriti dalvento, filavamo a grande velocita, senza sentire il biso-gno di rivolgere all’altro una parola da quando avevamostaccato il battello dalla banchina.A un certo punto, mi sentii in dovere d’interrogare ilmio compagno intorno alla rotta da tenere; ed egli fi-schiettò per alcuni minuti, senza rispondermi, poi a untratto mi disse, con aria sdegnosa:«Per quanto mi riguarda, me ne vado in mare; e tu seilibero di tornare a casa, se il cuore ti consiglia così.»Stupito da quella risposta, lo guardai e subito, al primosguardo, mi resi conto che, malgrado l’aria disinvolta,era eccitatissimo.Potevo vederlo distintamente al chiaro di luna che l’illu-minava in pieno; il viso era più pallido del marmo, lamano era agitata da un tale tremito che solo a fatica po-teva ancora reggere la barra. Compresi allora quanto lasituazione fosse grave e mi allarmai tanto più perché, aquell’epoca, avendo scarsissime cognizioni circa la ma-novra di una barca, ero costretto ad affidarmi interamentealle cognizioni nautiche del mio amico.Il vento intanto si era rinforzato così da trascinarci lon-tano dalla costa ed io, vergognandomi della mia paura,cercai di mantenere, intrepidamente e per quanto pos-sibile, il silenzio. Ma alla fine, non potendo più tratte-nermi, feci notare ad Augustus come fosse necessariopensare al ritorno, ma senza risultato migliore, perché

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egli, dopo essere rimasto muto per alcuni istanti, comenon avesse prestato attenzione alcuna alle mie parole,disse finalmente:«Abbiamo tempo... per tornare a casa... è ancora moltopresto...».Avevo previsto, lo confesso, una risposta simile; eppure,nel tono con cui furono pronunciate queste parole vi eraqualcosa che mi riempì di un indescrivibile terrore. Loguardai dunque con attenzione per la seconda volta; le suelabbra erano spaventosamente livide, le ginocchia batte-vano l’una contro l’altra con tale violenza che solo a faticapoteva mantenersi in equilibrio.«Per l’amor di Dio, Augustus» gridai questa volta, for-temente spaventato «che hai dunque? che è successo?che vuoi fare?»«Che succede?» balbettò con aria di profonda sorpresa,e pronunciando queste parole abbandonò la barra eandò a sbattere con forza, col naso, sul fondo del ca-notto. «Che succede?... che succede?... nulla? che voleteche succeda?... siamo qui vicini... andiamo dove vo-gliamo... che diamine!... non lo vedi dunque?»Allora tutta la verità m’apparve come in un lampo e milanciai verso di lui, rialzandolo. Era ubriaco, completa-mente ubriaco, così da non potersi tenere ad alcun soste-gno, né parlare, né vedere. I suoi occhi eranoasso lu tamente vitrei e quando, al colmo della dispera-zione e incapace di sorreggerlo, lo lasciai andare, caddecosì pesantemente, come una botte, nell’acqua che riem-piva il fondo dell’imbarcazione. Evidentemente nel corsodella serata aveva bevuto più di quanto mi fossi accortoe il contegno che aveva mostrato nel coricarsi non era chela conseguenza di un’ubriachezza giunta al suo più alto

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grado, una di quelle sbronze che, simili alla follia, lascianospesso, a colui che ne è preda, la capacità d’imitare i modie le parole di una persona in possesso di tutte le sue fa-coltà. Nondimeno, il freddo della notte non aveva tardatoa produrre i suoi effetti e sotto la sua influenza l’energiamentale di Augustus era ben presto svanita e la confusapercezione che doveva avere senza dubbio della nostrapericolosa situazione aveva contribuito, naturalmente, adaffrettare la catastrofe. In quel momento giaceva comple-tamente inerte nel fondo dell’imbarcazione e nulla potevafar prevedere che il suo stato dovesse subire qualche mo-difica prima che fossero trascorse molte ore.Nessuno può lontanamente immaginare il terrore chem’invase in quell’istante. I fumi dell’alcool si erano com-pletamente dissipati lasciandomi infinitamente timido eincerto. Mi sapevo perfettamente incapace di condurrela barca e ciò che accresceva ancor più il mio terrore erasentire che il furore del vento e la violenza dei marosiavrebbero concorso, fra breve, alla nostra rovina. Senzadubbio un uragano andava addensandosi bruscamentealle nostre spalle e poiché non avevamo né bussola néprovviste, era chiaro che, proseguendo in quella dire-zione, avremmo certamente perso di vista la costa primadel sorgere dell’alba.Questi pensieri, uniti a un’infinità di altre considerazioni,l’una più spaventosa dell’altra, turbinavano nella miatesta con una rapidità travolgente, paralizzando per al-cuni minuti ogni mio movimento. Spinta dal vento, labarca fendeva l’acqua con una velocità terrificante, senzaun terzarolo né al fiocco né alla randa e la prua era inte-ramente avvolta dalla schiuma. Solo per un miracolol’Ariel non si ribaltò quando Augustus abbandonò il ti-

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mone ed io ero troppo sconvolto per prendere il suoposto. Fortunatamente la barca non perse l’allineamentoe, a poco a poco, io riacquistai un briciolo di coraggio.Il vento continuava a rinforzare e ogni volta che ci risol-levavamo dopo aver poggiato in avanti, le ondate ci as-salivano e investivano da poppa. Ero talmente intirizzitoda perdere coscienza di ciò che mi circondava, ma allafine, facendomi forza con la dispe razione, mi lanciai adammainare la randa. Come era da attendersi, essa si ab-batté sul davanti, riempiendosi d’acqua, e strappandol’albero che trasportò sotto bordo. L’incidente fu la miasalvezza e quella del mio compagno, perché col solofiocco ero in grado di reggere il vento, imbarcando ditanto in tanto delle ondate, ma evitando il rischio di unamorte imminente.Allora afferrai la barra, respirando più sollevato all’ideache ci fosse ancora qualche speranza di salvezza. PoichéAugustus giaceva sempre in fondo alla barca e rischiavadi annegare perché l’acqua raggiungeva quasi l’altezza diun piede nell’angolo in cui era caduto, mi sentii in doveredi rialzarlo un po’, mantenendolo nella posizione permezzo di una corda che passai intorno alla cintura, attac-candolo poi a un anello, sul ponte della cabina. Dopo avercosì preso ogni possibile precauzione e sentendomi tuttogelato e sconvolto, raccomandai la mia anima a Dio, pro-ponendomi di sopportare ciò che mi fosse stato decretatodal destino, col coraggio di cui potevo essere capace.Mi ero dunque appena fermato su questa decisionequando, a un tratto, un grido lungo e stridente, o piut-tosto un urlo che sembrava uscire dalla gola di mille de-moni, lacerò l’aria intorno e sotto il battello. Nondimenticherò mai più, per tutta la vita, l’intensa agonia

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che il terrore mi fece provare in quella notte di desola-zione. Sentii i capelli drizzarmisi sulla testa, il sanguecoagularsi nelle vene, il cuore cessare completamente isuoi battiti e, non sentendo più in me neppure la forzadi levare gli occhi per capire cosa mi provocasse tantoterrore, mi abbattei, svenuto con la testa in avanti, sulcorpo del mio amico.Quando ripresi i sensi e volsi lo sguardo intorno, mi vidinella cabina di una grande nave baleniera, il Penguin, inrotta per Nantucket. Molte persone erano chine su di mee Augustus, più pallido della morte, si dava da fare a fri-zionarmi le mani. Vedendomi finalmente aprire gli occhi,uscì in esclamazioni di riconoscenza e di gioia che strap-parono lagrime e sorrisi alle persone dall’aria seria che cicircondavano e ben presto mi vidi spiegato il mistero delnostro ritorno alla vita.Eravamo stati travolti da quella veloce nave baleniera chedirigeva verso Nantucket con tutte le vele spiegate alvento e che procedeva con rotta quasi perpendicolarealla nostra. A prua c’erano molti uomini, che videro lanostra barca solo quando non vi era più modo di evitarlae le grida d’allarme che avevano lanciato, vedendoci,erano appunto quelle che mi avevano tanto spaventato.La grossa nave – mi si disse poi – era passata sopra dinoi con la stessa facilità con cui la nostra piccola imbar-cazione sarebbe passata sopra una piuma, senza subirealcun freno alla sua corsa; al momento dell’impatto conla chiglia della nave, dal ponte della piccola barca non siera levato un grido, ma appena un debole scricchiolioconfuso ai rumori prodotti dal vento e dall’acqua – e ciòera stato tutto. Pensando che la nostra barca, priva del-l’albero come il lettore ricorderà, potesse essere la car-

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cassa di un relitto abbandonato alla deriva, il coman-dante, il capitano E.T.V. Block di New London, già si di-sponeva a proseguire la navigazione senza preoccuparsidell’incidente quando, per fortuna, due degli uomini chestavano sul ponte giurarono sul loro Dio che erano certid’aver visto qualcuno alla barra e convinsero il capitanoche si poteva salvare il naufrago.Ne seguì una breve discussione in cui Block, rosso inviso per il dispetto, dichiarò che non poteva perdere ilsuo tempo a vegliare su dei gusci di noce, che la sua navenon avrebbe certamente mai virato di bordo per una si-mile sciocchezza, che se vi era qualcuno nel battello,quel qualcuno avrebbe dovuto pensare alla propria sal-vezza senza lasciarne la cura a lui, Block, e che insomma,se non gli stava bene dovevano ugualmente tacere o an-darsene al diavolo.Ma Henderson, il secondo ufficiale, tornò alla carica congiusta indignazione, condivisa dall’intero equipaggio, elamentò aspramente quelle parole che dimostravanoun’assoluta mancanza di pietà e di cuore. Parlò con sin-cerità, incoraggiato dall’approvazione di tutto l’equipag-gio, e dichiarò al capitano che era deciso a non tenere inalcun conto i suoi ordini perché se così non avesse fatto,avrebbe meritato di essere impiccato appena posatopiede a terra; poi – dopo aver respinto il capitano Block,divenuto pallidissimo pur non osando pronunziare parola– corse all’indietro e, afferrata la barra, comandò convoce decisa: «Sottovento!»I marinai corsero tutti ai loro posti e la nave virò dibordo con preci sione. Tutto ciò era durato forse cinqueminuti e il salva taggio si presentava quindi quasi impos-sibile, ammesso che vi fosse qualcuno a bordo dell’im-

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barcazione naufragata. Pertanto il lettore si può rendereconto che Augustus ed io eravamo stati strappati permiracolo alla morte e la nostra salvezza era dovuta soloa circostanze straordinariamente fortunate, che le per-sone sagge e pie spiegherebbero con uno speciale inter-vento dalla Provvidenza.Quando la nave si arrestò, il secondo fece calare una scia-luppa e vi saltò dentro con tre uomini, fra cui quelli cheaffermavano di avermi visto al timone. Si erano appenastaccati dalla fiancata e la luna splendeva tutta bianca sulmare quando, a un tratto, la nave ebbe un pesante rolliodalla parte del vento. Henderson si rizzò subito sulbanco, gridando ai suoi uomini: «Presto, arretrare!» enon si muoveva di là, continuando a ripetere con impa-zienza il comando. Gli uomini facevano del loro meglioma, nel frattempo, la nave aveva fatto mezzo giro e si eraspinta in avanti, nonostante a bordo tutte le braccia di-sponibili fossero occupate ad ammainare le vele.Con una manovra pericolosa, appena gli fu possibile, ilsecondo si aggrappò alle sartie. Un nuovo colpo di ventofece rollare la nave ed emergere la fiancata a tribordo finquasi alla chiglia e si poté vedere ciò che agitava l’ufficiale:il corpo di un uomo ancorato in modo strano al fondo li-scio e lucente del Penguin rivestito di rame; e a ogni mo-vimento della nave quel corpo urtava con violenza loscafo. Dopo molti tentativi infruttuosi, approfittandodelle oscillazioni della nave, riuscirono finalmente a libe-rarmi dalla mia pe ricolosa situazione e a issarmi a bordo,perché quel corpo sperduto nel l’oscurità del mare era perl’appunto il mio. Una delle caviglie di legno dell’arma-tura della nave, a quanto pare, fuoriusciva dal rivesti-mento in rame dello scafo ed era stata appunto quella

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sporgenza che mi aveva agganciato in modo così insolitodu rante la mia escursione sotto la chiglia. La punta avevafatto un buco nel col letto della mia giacca di stoffa grezzae, perforando la parte posteriore della mia nuca, si eraconficcata tra due muscoli, proprio sotto l’orecchio de-stro. Seppure apparentemente privo di vita, mi avevanosubito disteso su un letto e, non essendoci un medico abordo, il capitano mi prodigò le cure più premurose,forse per far dimenticare, agli occhi dei suoi uomini, lasua cat tiva disposizione all’inizio della vicenda.Nel frattempo Henderson aveva di nuovo abbandonatola nave, nonostante il vento soffiasse con la violenza diun uragano. Dopo poco s’imbatté in alcune travi dellanostra barca e uno dei suoi uomini disse che, nel rumoredella tempesta, gli pa reva di udire di tanto in tanto unlamento. Quei coraggiosi marinai continuarono le lororicerche per circa mezz’ora, nonostante i reiterati ordinidel capitano Block di tornare alla nave e nonostante il ri-schio nell’affrontare la tempesta con la fragile scialuppa.Difficile immaginare come quella piccola imbarcazionepotesse sfuggire alla distruzione. È vero che era stata co-struita per la caccia alle balene ed era provvista, comepotei constatare più tardi, di una camera d’aria, come icanotti di salvataggio che si usano sulle coste del Galles.Dopo lunghe e vane ricerche gli uomini avevano appenadeciso di riguadagnare la nave, quando un debole gridoprovenne da una macchia scura che le onde trascinavanorapidamente verso di loro. Si lanciarono per raggiungerloe in breve videro che si trattava di un pezzo del ponte del-l’Ariel e, aggrappato a quella fragile zattera, scorsero Au-gustus che si dibatteva, apparentemente in fin di vita.Ripe scandolo, notarono che era legato con una cima alle

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travi in legno. Questa corda, il lettore lo ricorderà, l’avevolegata io intorno alla sua cintura e fissata a un anello permantenere Augustus in posizione eretta ed era a questaprecauzione che egli doveva la sua salvezza.L’Ariel aveva una struttura leggera e le ondate avevanofatto a pezzi il fasciame: il ponte, come si può immagi-nare, era stato sollevato dalla forza dell’acqua e galleg-giava sulla superficie con altri relitti, ed es sendoAugustus ancorato a esso, aveva potuto sfuggire a unamorte terribile.Fu portato svenuto a bordo del Penguin e trascorse unalunga ora prima che desse segni di vita e capisse la na-tura dell’incidente occorso alla nostra imbarcazione.Quando finalmente si svegliò descrisse dettagliatamenteciò che aveva provato nell’acqua.Appena resosi conto del pericolo, si era subito trovatosott’acqua, roteando su se stesso a velo cità incredibile,stretto da una cima avvolta tre o quattro volte intorno alcollo. Un momento dopo, si era sentito tirato rapida-mente verso la superfice, ma quasi subito aveva battutocon violenza contro un oggetto duro e il colpo gli avevanuovamente fatto perdere i sensi. Tornato poi in sé, avevain parte recuperato la ragione, per quanto ancora moltodebole e confuso. Si era allora reso conto che era statovittima di qualche incidente e che si trovava nell’acqua,anche se poteva respirare li beramente. In quel momentoil relitto filava veloce sotto la spinta del vento, trascinandoil corpo di Augustus che galleggiava sul dorso e che per-tanto, finché fosse rimasto in quella posizione, non sa-rebbe affogato. Un’ondata improvvisa lo aveva riportatonuovamente sul relitto, e lui aveva fatto di tutto per re-starvi attaccato, chiamando di tanto in tanto aiuto.

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Poco prima che Henderson lo scorgesse, l’estrema de-bolezza l’aveva costretto a lasciare l’appiglio a cui si te-neva disperatamente avvinghiato e, cadendo di nuovoin mare, pensava di essere perduto. Per tutto il tempoin cui si era dibattuto fra le onde, non aveva avuto il mi-nimo ricordo dell’Ariel, né la minima idea circa le causedel nostro naufragio; solo una vaga sensazione di terroree di prostrazione si era impadronita della sua mente.Quando lo ripescammo, aveva completamente perso co-gnizione della realtà e, come già detto prima, fu sola-mente un’ora dopo essere stato trasportato a bordo delPenguin che cominciò a prendere lentamente coscienzadella sua situazione.Per quanto riguarda me, invece, ci vollero più di tre oree si dovettero mettere in opera tutti i mezzi e i procedi-menti usati in casi simili; potei essere strappato dal miostato di coma solo con l’aiuto di numerose frizioni conpanni di lana impregnati di olio caldo, un rimedio sug-gerito da Augustus.Il Penguin fece il suo ingresso in porto verso le nove delmattino, dopo aver sfidato una delle più terribili tempe-ste mai viste al largo di Nantucket. Augustus ed io fa-cemmo in modo da trovarci dal signor Barnard all’oradel pranzo che, per fortuna, era stato ritardato a causadella festa della sera prima. Credo che tutti quelli cheerano a tavola dovessero essere troppo stanchi per farcaso al nostro viso stravolto, perché non ci voleva moltoper accorgersene. Del resto, gli studenti sono capaci dimiracoli quando si tratta di simulare e, quando i marinaidel Penguin si vantarono nelle bettole della città di averincrociato un’imbarcazione alla deriva e di aver tratto insalvo trenta o quaranta poveri diavoli, non credo in verità

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che alcuno dei nostri amici abbia sospettato che quellaterribile storia potesse riguardare l’Ariel, il mio com pa -gno e me.Da allora abbiamo spesso parlato di questa avventura,ma mai senza provarne un certo fremito e una volta Au-gustus mi confessò francamente che in tutta la sua vitanon era mai stato tanto angosciato come quando, sullanostra piccola imbarcazione, si era accorto di essere ve-ramente ubriaco, non riuscendo, nonostante gli sforzi,a vincere la forza dell’alcool.

Capitolo 2

Quando si tratta di valutare il futuro, in favore o contro,non lo si fa con assoluta certezza, anche se ci si basa susemplici dati di fatto. Così, ad esempio, si potrebbe pen-sare che una sventura come quella appena descritta po-tesse avere l’effetto di una doccia fredda sulla mianascente vocazione marittima. Orbene, fu proprio la set-timana che seguì al nostro miracoloso sal vataggio che iosentii, con maggiore forza, il desiderio di approfondirela conoscenza delle strane peripezie che sempre accom-pagnano la vita di un marinaio. Non ci volle molto perdimenticare gli aspetti scabrosi della mia avventura eperché tutti i dettagli più eccitanti o, per meglio dire,tutto il lato pittoresco della nostra recente e pericolosavicenda in alto mare si illuminassero di una luce viva.Le mie conversazioni con Augustus si moltiplicavano digiorno in giorno e ci appassionavamo sempre più aquella che definivo la mia vocazione.Adesso posso supporre che quelle velleità marinare de-

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rivassero in gran parte da varie sensazioni; ma una ven’era che non poteva mancare d’influire fortemente sulmio temperamento entusiasta e sulla mia immagina-zione sempre fervida, anche se un po’ tenebrosa. Ed èstrano il fatto che ciò che mi seduceva più nel profondoe che mi spingeva ad abbracciare la professione di ma-rinaio fossero appunto quelle ore terribili di soffe renzae disperazione. Provavo invece una modesta attrazioneper gli aspetti positivi e mi pascevo solo di visioni dinaufragi, di fame, di morte e di prigionia in terre sel-vagge. Fantasticavo insomma una vita di torture e la-grime, in qualche scoglio arido e deso lato, in mezzo aun oceano inaccessibile e sconosciuto; queste fantasie,questi desideri – poiché si trattava semplicemente di de-sideri – non sono rari, co me mi spiegarono più tardi, intutti quelli che appartengono alla nume rosa categoriadei malinconici. Ma, allora io li consideravo nientemeno che segni profetici di un destino che mi sentivoin qualche modo obbligato a seguire. Quanto ad Augu-stus, condivideva perfettamente il mio stato d’animo,perché probabilmente la nostra intimità ci aveva portatoa cambiare certi tratti del nostro rispettivo carattere.Otto mesi circa dopo il naufragio dell’Ariel, la compa-gnia Lloyd & Vredenburg, che credo fosse una conso-ciata della banca di Enderby di Liverpool, si impegnònella riparazione e nell’equipaggiamento del brigantinoGrampus per la caccia alla balena. Si trattava di una vec-chia carretta che poteva a malapena affrontare il mareanche dopo tutte le riparazioni possibili. Perché la sceltafosse caduta su quella nave, fra tante altre certamentemigliori appartenenti agli stessi armatori, non mi è datosapere. Il comando fu affidato al signor Barnard, che

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avrebbe condotto con sé il figlio e, mentre si provvedevaall’equipaggiamento del brigantino, quest’ultimo mi in-vitava ad approfittare dell’occasione per soddisfare almio desiderio di viaggiare. Naturalmente la cosa era perme molto attraente, ma non mancavano le difficoltà.Mio padre non era ostile all’idea; mia madre inveceaveva crisi di nervi ogni volta che se ne accennava. Ilpeggio fu che mio nonno, da cui mi attendevo molto,giurò che non mi avrebbe lasciato uno scellino se avessiosato ancora parlargliene. Ma le difficoltà, lungi dal-l’estinguere il mio desiderio, ebbero solo l’effetto di rav-vivare sem pre più la fiamma che mi ardeva in cuore.Decisi quindi di partire a qualunque costo e, comuni-catolo ad Augustus, ci preoccupammo solo di creare lecondizioni per mettere il piano in esecuzione. Nel frat-tempo non tornai sull’argomento con i miei e, fingendodi dedicarmi interamente ai miei studi, nessuno poté du-bitare che non avessi rinunciato al mio disegno. Ripen-sando a come mi ero comportato in quell’occasione, hospesso provato un grande rimorso. L’ipocrisia di cuidetti prova, nelle parole e nei fatti, per raggiungere ilmio scopo era giustificata solo dall’ardente speranza direalizzare i miei sogni di viaggio, così lungamente acca-rezzati. Per tenere nascosto il mio piano dovevo neces-saria mente lasciare i preparativi ad Augustus, chepassava gran parte della giornata a bordo del Grampus,incaricato dal padre della sistemazione della cabina edella stiva; ma, giunta la notte, non mancavamo di ritro-varci per progettare insieme il futuro.Avevamo passato quasi un intero mese in questi discorsisenza trovare una valida soluzione, quando un belgiorno Augustus mi disse finalmente che aveva un piano

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a prova di bomba. Io avevo un parente a New Bedford,un certo signor Ross, presso il quale trascorrevo, ditanto in tanto, due o tre settimane. Il brigantino dovevaprendere il mare verso la metà di giugno (del l’anno1827) e concordammo che, due o tre giorni prima dellapartenza, mio padre, come spesso accadeva, avrebbe ri-cevuto un biglietto dal signor Ross, in cui questi lo pre-gava di mandarmi a passare da lui quindici giorni incompagnia dei suoi due figli, Robert ed Emmet. Augu-stus s’incaricò di preparare questo messaggio e di farlopervenire a mio padre. Col pretesto di recarmi a NewBedford, dovevo quindi raggiun gere il mio amico che,nel frattempo, avrebbe preparato un alloggiamento perme a bordo del Grampus. Mi promise di preparare unnascondiglio abbastanza comodo perché potessi pas-sarci quei pochi giorni, durante i quali non dovevo ri-velare la mia presenza a bordo della baleniera. Quandoil brigantino avesse percorso abbastanza miglia perchénon ci fosse il rischio di essere ricondotto in porto, al-lora – mi disse Augustus – avrei potuto usufruire di unacamera spaziosa e comoda. Quanto a suo padre,avrebbe certamente riso della mia fuga e, del resto,avremmo sicuramente incrociato qualche nave cui affi-dare una lettera di spiegazioni per i miei parenti.Si giunse finalmente alla fine della prima quindicina digiugno e tutto era pronto. Il biglietto venne redatto, spe-dito; e un lunedì, di buon mattino, potei finalmenteuscire, fingendo di andare a prendere il battello per NewBedford. In realtà, di lì a poco, trovai Augustus che miaspettava all’angolo di una strada. Il nostro piano preve-deva che sarei ri masto nascosto fino al calar della notte,quando sarei salito di soppiatto a bordo del Grampus.

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Ma poiché c’era una fitta nebbia decidemmo di comuneaccordo che non avrei perso tempo a nascondermi. Au-gustus quindi si avviò verso la banchina e io lo seguii abreve distanza, avvolto in un pesante mantello da mari-naio che mi aveva portato per non essere riconosciuto.Ma alla seconda svolta, appena oltrepassato il pozzo delsignor Edmund, qualcuno si piantò dritto davanti a me,come volesse squa drarmi da capo a piedi, e questo qual-cuno non era che il vecchio signor Peterson, mio nonno.«Ah... ma, questo!... bontà divina!... Gordon!...» dissedopo un lungo silenzio «Ah, ma questo!... Di chi è dun-que il vecchio mantello che portate sulle spalle?»«Signore» replicai, affettando all’uopo un’aria sorpresae un tono di voce il più possibile deciso «Certamente visbagliate. Per prima cosa il mio nome non è Gordon evi auguro di vederci meglio quando incontrate qual-cuno, per evitare di scambiare per vecchio un man telloassolutamente nuovo.»Vi assicuro che non so come riuscii a contenermi, pernon scoppiare con una risata in faccia al vecchio uomo,vedendo il modo curioso con cui ricevette quel rimpro-vero. Fece due o tre salti all’indietro, divenne pallidis-simo, poi rosso, si tolse gli occhiali, se li rimise sul nasoe si slanciò su di me, brandendo il suo ombrello. Poi im-provvisamente si fermò nella sua rincorsa, come si fossericordato di qualcosa, e con un rapido dietrofront ri-prese la sua strada, fre mente di collera e borbottandotra i denti:«Non è possibile, con degli occhiali nuovi... avrei bencre duto che fosse proprio Gordon... quel buono anulla... quel marinaio d’acqua dolce!... che il diavolo selo porti!...».

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L’avevo dunque scampata bella! Continuammo il nostrocam mino facendo più attenzione e giungemmo in brevea destinazione, senza altri inconvenienti.A bordo c’erano solo tre o quattro uomini, occupati nonso in quali faccende. Sapevamo che il capitano Barnardera impegnato da Lloyd & Vredenburg, cosicché nonsarebbe tornato che a sera molto tarda. Non c’era dun-que molto da temere; Augustus salì per primo ed io loseguii da vicino senza peraltro essere notato dagli uo-mini che lavoravano sul ponte. Entrammo negli allog-giamenti che trovammo vuoti. Erano sistemati con tuttele comodità, cosa molto rara su una baleniera. Vi eranoquattro belle cabine per gli ufficiali, provviste di cuc-cette spaziose e comode. Notai pure un grande tap petomolto spesso che copriva il pavimento del quadrato edelle cabine. Il soffitto era a un’altezza di circa settepiedi e il tutto aveva un aspetto più lussuoso e piacevoledi quanto non avessi immaginato.Ma Augustus non mi concesse a lungo il piacere di sod-disfare la mia cu riosità, insistendo sulla necessità di na-scondermi al più presto. Mi con dusse dunque nella suacabina che era situata a tribordo. Appena entrati, chiusela porta e tirò il catenaccio e a me parve che in tutta lamia vita non avessi visto una cameretta più graziosa diquella. Misurava forse dieci piedi di lunghezza e c’erasolo una spaziosa cuccetta e un quadrato di circa quat-tro piedi con un tavolino, una sedia e piccoli scaffali ca-richi di libri che trattavano per lo più di viaggi enavigazione. Vi erano anche molte altre comodità inquella piccola e graziosa cabina, fra cui una credenzinadove Augustus aveva prudentemente stivato una riservadi ghiottonerie.

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Appoggiò poi le dita su un punto del tappeto, in un an-golo del quadrato, e mi fece notare che una parte del pa-vimento, sei piedi quadrati all’incirca, era stataaccuratamente segata e poi riposizionata. Facendo pres-sione, quella parte si sollevava quanto bastava per passareun dito al di sotto. Questa manovra gli permise di aprirela botola, cui alcuni chiodini tenevano fissato il tappeto,e constatai che era abbastanza grande per poterci passare.Con un fiammifero Augustus accese una piccola candelache introdusse in una lanterna e s’introdusse nell’aper-tura, invitandomi a seguirlo. Una volta scesi, riportò il co-perchio sulla botola e lo fissò con un chiodo, piantatonella parte superiore. Il tappeto naturalmente riprese ilsuo aspetto normale, cosicché l’apertura rimaneva celata.La candela faceva una luce così debole che solo conmolta fatica riuscivo a farmi strada fra gli oggetti che cicircondavano. Ma poco a poco i miei occhi si abi -tuarono all’oscurità e potei muovermi più facilmente,rimanendo aggrappato alla giacca del mio compagno.Attraverso un dedalo di passaggi stretti, giungemmo fi-nalmente a un grande baule listato di ferro, simile intutto a quelli utilizzati per spedire merce di pregio. Eraalto circa quattro piedi e lungo più di sei, ma ma -ledettamente stretto. Vi erano appoggiati sopra duegrandi barili di olio, per il momento vuoti e coperti dauna fila enorme di scatole che saliva fino al soffitto. In-torno a me, in qualunque direzione volgessi lo sguardo,vedevo provviste di ogni genere, ammassate e confuse,in un vero ed enorme caos, e una grande quantità dicasse, panieri, scatole, botti, tanto che mi sembrava unmiracolo riuscire a passarci attraverso. Appresi poicome Augustus avesse organizzato in tutta fretta la si-

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stemazione della stiva in modo da assicurarmi un postodove rimanere nascosto, aiutato in ciò solo da un uomoche poi non si sarebbe imbarcato sul Grampus.Il mio amico mi fece allora notare che una delle paretidella cassa poteva essere tolta facilmente e, dopo averlafatta scivolare, mi mostrò la disposizione dell’interno chem’impressionò molto. Un materasso, preso da uno deiletti della cabina ne ricopriva interamente il fondo ec’erano pure tutte le comodità che potevano stare in unospazio così angusto. Non mi restava altro da fare che sten-dermi nel mio giaciglio provvisorio e starmene lì sedutoo coricato, come preferivo. Fra le altre cose, trovai alcunilibri, poi penne, inchiostro, carta, coperte, una grandebrocca d’acqua, una scatola di gallette, tre o quattro sa-lami bolognesi enormi, uno splendido prosciutto, una co-scia fredda di montone arrosto e una mezza dozzina dibottiglie di cordiali e liquori. Senza indugiare, presi dun-que possesso della mia nuova casa, con più soddisfazionedi quella di un re che s’insedia nella sua nuova reggia.Augustus m’indicò il congegno che permetteva di bloc-care la parete mobile della cassa e, avvicinando la can-dela al soffitto, mi mostrò una cordicella nera che vi erafissata. Partendo dalla mia cuccetta, mi disse, la cordi-cella aggirava tutti i mate riali ammassati nella stiva, rag-giungendo un chiodo fissato sul ponte, subito sotto ilportello che dava accesso alla sua cabina. La corda do-veva servirmi a ritrovare con facilità la strada senza la suaguida, nel caso che un qualche accidente imprevisto miobbligasse a raggiungerlo. Prese dunque congedo da me,lasciandomi, con la lanterna, una copiosa provvista dicandele e fiammiferi e promettendo di venirmi a trovaretutte le volte che poteva, senza tradire il nostro segreto.

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Era il giorno 17 giugno. Trascorsi dunque nel mio an-gusto rifugio tre giorni e tre notti – almeno così mi sem-brò – e solo due volte mi azzardai a uscire perdistendere le membra intorpidite, restando nascosto inpiedi fra due casse davanti all’apertura. Per tutto questotempo Augustus non si fece vivo; ma io non mi preoc-cupai, sapendo che il brigantino doveva salpare da unmomento all’altro e che nei preparativi della partenzanon doveva essergli facile trovare l’occasione per venirea trovarmi. Poi finalmente sentii il coperchio della bo-tola aprirsi e rinchiudersi e Augustus chiamarmi a bassavoce, chiedendomi se andava tutto bene e se avevo bi-sogno di qualcosa.«Non ho bisogno di nulla» gli risposi «Va tutto bene.Quando si parte?»«Non leveremo l’ancora prima di mezz’ora» mi disse«Ero venuto apposta per dirtelo e avevo paura che ti al-larmassi per non avermi più visto. Dovrà trascorrereforse molto tempo prima che possa tornare, forse tre oquattro giorni. A bordo va tutto bene. Appena sarò risa-lito e la botola si sarà rinchiusa dietro di me, lasciati gui-dare dalla corda fino al chiodo. Troverai laggiù il mioorologio, che ti servirà di sicuro, poiché non puoi contaresulla luce del giorno per misurare il tempo. Mi sa chenon immagini da quanto tempo sei qui: da tre giorni so-lamente. Oggi è il 21 giugno. Verrei volentieri a portartil’orologio, ma ho paura che di sopra abbiano bisogno dime.» Detto questo, scomparve.Era forse trascorsa un’ora dalla sua partenza quandosentii distinta mente il brigantino muoversi e mi rallegraidi poter finalmente iniziare un vero viaggio. Ero cosìcontento che promisi a me stesso di non agitarmi e di

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attendere con pazienza finché avessi potuto lasciare lamia cassa stretta per una cabina, certo più spaziosa, manon necessariamente molto più comoda.La prima preoccupazione fu di andare a cercare l’oro-logio di cui mi aveva parlato Augustus. Lasciando lacandela accesa, mi avviai tastoni nel buio, seguendo lacorda in tutti i suoi giri; ma il percorso era così compli-cato che dopo molti passi e molte retromarce finivosempre per ritrovarmi al punto di partenza. Finalmentepotei raggiungere il famoso chiodo e, preso l’oggetto percui mi ero mosso con grande fatica, rientrai senza diffi-coltà nel mio angusto ricovero.Passai allora in rassegna i libri che Augustus aveva avutola gentilezza di lasciarmi e la mia scelta cadde sulla Spe-dizione di Lewis e Clarke alla foce del Columbia. Lo lessiper un po’ e poi, stanco, sentii le palpebre chiudersi e,dopo aver spento con cura la candela, mi addormentaiin un sonno profondo.Al risveglio avevo la testa molto confusa e ci volle deltempo prima di ricordarmi per quali strane circostanzemi trovavo lì. Pian piano potei ricostruire l’accaduto.Accesi una candela e guardai l’orologio; era fermo e nonavevo quindi modo di capire per quanto tempo avevodormito. Sentivo dei crampi a gambe e braccia e perfarli passare dovetti stare in piedi fra le due casse; avevomolta fame e subito pensai al montone freddo di cuiavevo mangiato un pezzo prima di dormire e che mi eraparso eccellente; con mia grande sor presa però vidi chela carne era in stato di avanzata putrefazione. La sco-perta mi agitò molto, perché, unita alla confusione cheavevo provato risvegliandomi, mi faceva supporre cheavessi dormito per un periodo di tempo straordinaria-

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mente lungo. L’aria stagnante della stiva poteva, allalunga, avere prodotto gli effetti più spiacevoli. Avevo ungran mal di testa, mi sembrava di respirare male ed erooppresso da idee inquietanti. Tuttavia, non potevo an-cora avventurarmi ad aprire la botola, né fare altro chepotesse destare l’attenzione dell’equipaggio, e mi rasse-gnai ad aspettare con pazienza.Nell’angoscia mortale delle ventiquattro ore che segui-rono nessuno mi venne in aiuto e non potei fare a menodi accusare Augustus d’indifferenza nei miei riguardi;mi preoccupavo soprattutto perché l’acqua della broccaera quasi finita; ero terribilmente assetato, avendo man-giato molto del salame bolognese, dopo aver perso ilmontone. In preda alla più viva inquietudine, non pro-vavo più alcun interesse per la lettura; avevo una stranavoglia di dormire, ma tre mavo all’idea di cedere alsonno, per timore che l’aria viziata della stiva facessequalche brutto scherzo, come quella del carbone incombustione.Il rollio del brigantino indicava che eravamo in mareaperto e un rumore sordo e cupo che sembrava ve nire damolto lontano mi faceva pensare che ci fosse una tempestain arrivo. Non capivo perché Augustus non si facesse vivo.Avevamo fatto certamente abbastanza miglia perché po-tessi, senza problemi, fare la mia comparsa sul ponte. Do-veva essere successo qualcosa... ma non potevo pensare anulla che spiegasse perché egli continuava a prolungarecosì la mia prigionia, a meno che non fosse morto improv-visamente o fosse volato fuori bordo. Potevamo ancheavere avuto venti contrari che avevano rallentato la navee forse eravamo ancora vicini a Nantucket; ma dovetti benpresto abbandonare quell’ipotesi perché, se così fosse

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stato, il brigantino avrebbe più di una volta virato dibordo, mentre la sua inclinazione costante indicava chenon aveva cessato di far vela a un vento di tribordo. Delresto, ammettendo anche che fossimo ancora in prossimitàdell’isola, come si spiegava che Augustus non fosse venutoa informarmi di quanto avveniva in coperta?Meditando tristemente su quella mia sgradevole situa -zione, mi rassegnai ad attendere ancora per altre venti-quattro ore, dopo di che, se nessuno fosse venuto in mioaiuto, sarei andato alla botola per avere spiegazioni da Au-gustus, o per lo meno per respirare un po’ d’aria fresca at-traverso l’apertura e trovare una nuova provvista d’acqua.Preso da questi pensieri, malgrado i miei sforzi per re-sistere, caddi in una specie di sonno pesante o, per me-glio dire, di torpore. Avevo una terribile nausea, misentivo assediato dalle peggiori cata strofi e orrori. Nellamia mente angosciata passavano strane immagini, esseridemoniaci dall’aspetto patibolare e feroce. A volte mivedevo avvolto da enormi serpenti che mi affascinavanocon le loro pupille luminose. Poi deserti senza luce, con-trade desolate e spaventose si susseguivano senza posada vanti ai miei occhi; tronchi d’albero di altezza smisu-rata, grigi e spogli, si susseguivano nell’ombra all’infi-nito, così lon tano che il mio sguardo poteva appenagiungervi; le radici penetra vano nel fondo di stagni, lecui acque, scure e opache, si disten devano spaventose eimmobili. E quegli strani alberi sembravano vivere, vi-vere di una vita umana, gesticolando con le loro bracciaspoglie, implorando le acque silenziose, gridando mise-ricordia con l’accento della dispe razione e dell’agonia.Poi la scena mutava: mi trovavo solo e nudo sulle sabbieinfuocate del Sahara; ai miei piedi era accucciato un fe-

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roce leone dei tropici. D’improvviso i suoi occhi furiosisi aprivano, il suo sguardo si fissava su di me: con unoscatto convulso si rizzava e scopriva la spaventosa filadi denti, la gola rossa lanciava un ruggito simile al tuonoe io mi abbat tevo pesantemente al suolo. Soffocatodall’angoscia, mi risvegliai. Ma quel sogno?... non eradunque un sogno? Almeno adesso ero tornato in me.Eppure, là davanti, enorme, stava un mostro con lezampe poggiate sul mio petto, sentivo il suo fiato caldonelle orecchie... i denti di una bianchezza sinistra bril-lavano nelle tenebre. Anche se fosse bastato un solo movimento per salvarmi,una sola sillaba, ebbene, non avrei potuto muovermi nédire una parola. La bestia, chiunque essa fosse, mante-neva la stessa posizione, rinviando l’attacco, ed io re-stavo disteso sotto di lui, assolutamente impotente,come vicino alla morte. Ogni energia fisica e morale miabbandonava e mi sentii morire, veramente morire dipaura. La mia mente vaneggiava, avevo delle nauseemortali. La mia vista si confondeva, tutto si oscurava aimiei occhi, anche le pupille di fuoco che stavano fissesu di me.Feci allora un ultimo sforzo sovrumano per rivolgere aDio una debole preghiera e mi rassegnai alla morte. Lamia voce parve risvegliare la rabbia sopita del mostro,che si distese su di me in tutta la sua lunghezza. Ma, conmio grande stupore, emettendo un grugnito sordo eprolungato si mise a leccare il mio viso e le mie mani,con grande esuberanza e con folli manifestazioni di gioiae amicizia! Ero trasecolato, smarrito per la sorpresa: manon potevo aver dimenticato il guaito così par ticolaredel mio terranova, Tigre, e le sue stravaganti carezze mi

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erano ben conosciute. Era lui. Mi parve che il sanguemi rifluisse di colpo alle tempie e fu una sensazione divertigine, come di risurrezione. Mi rizzai sul materassoe gettandomi al collo del fedele compagno e amico, sfo-gai la mia lunga angoscia con un pianto dirotto.Come già mi era già accaduto in precedenza, alzandomiero tormentato dal dubbio e dal caos più completo.Passò del tempo prima di poter concatenare un’ideaall’altra, ma a poco a poco ricuperai le mie facoltà e ri-costruii la catena degli avve nimenti in seguito ai qualimi trovavo laggiù. Quanto a Tigre, non riuscivo a spie-gare la sua presenza e, dopo mille congetture, mi ralle-grai semplicemente del fatto che fosse venuto adalleviare la mia solitu dine e a portarmi il conforto delsuo affetto.Molte persone si affezionano ai loro cani; eppure io hoamato Tigre di un amore non comune e mai – ne sonosicuro – alcuna creatura ne fu più degna. Già da setteanni era il mio compagno inseparabile e aveva dimo-strato in più occasioni tutte le nobili qualità che ren-dono prezioso un animale. Quando era ancora uncucciolo l’avevo strappato dalle grinfie di un piccolomascalzone di Nantucket che lo trascinava in acqua conuna corda al collo; e il terranova, tre anni dopo, avevapagato il suo debito di riconoscenza difendendomidall’aggressione di un ladro per strada. Presi allora il mio orologio e, portandomelo all’orecchio,constatai che le lancette erano ancora immobili, e ciònon mi stupì perché ero convinto, da come mi sentivo,di aver dormito come la prima volta molto a lungo.Quanto tempo? Non avrei potuto dirlo. Bruciavo dallafebbre e la sete era ormai intollerabile; tastai il mio na-

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scondiglio per trovarvi quel poco che restava della prov-vista d’acqua; non potevo più contare sulla luce perchéla candela si era consumata e non trovavo nemmeno lascatola dei fiammiferi. Finii per trovare la brocca, cheperò era vuota. Certamente Tigre aveva bevuto l’acquarimasta, come pure doveva aver mangiato il montone, ilcui osso giaceva accuratamente spolpato accanto allacuccetta. Questo accrebbe ancor di più la mia angoscia,gettandomi in uno stato di profondo sconforto.Ero di una debolezza estrema, tanto che il minimo mo-vimento, il più leggero sforzo mi faceva tremare in tuttele membra come per un accesso di febbre. I movimentie il rollio del brigantino si erano fatti più violenti e i ba-rili d’olio sopra la mia cassa rischiavano in ogni mo-mento di cadere, bloccando così il solo pas saggio chemi permettesse di uscire o rientrare. Inoltre, soffrivospaven tosamente di mal di mare e per tutte queste ra-gioni mi decisi ad avviarmi, come potevo, verso la bo-tola, per chiedere aiuto, mentre me ne restavano ancorale forze. Avendo preso quella decisione, mi misi a cer-care fiammiferi e candele; trovai a fatica i primi, ma nontrovai le can dele così presto come speravo, poiché eroquasi sicuro di ricordarmi il luogo preciso in cui le avevomesse. Quindi, per il momento, rinunciai e, dopo averraccomandato a Tigre di non muoversi, mi avvia senzaesitazione verso la botola.Nel percorso si rivelò improvvisamente tutta la mia debo-lezza; facevo una grande fatica a trascinare il peso del miocorpo e più volte le gambe cedettero; caddi col viso inavanti e rimasi steso alcuni minuti in uno stato quasi d’in-coscienza. Mi sforzavo comunque di avanzare, tremandoper la paura di svenire in quel dedalo stretto e caotico della

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stiva, che avrebbe significato morire. Alla fine, mentre mitrascinavo con tutte le mie forze, urtai con la fronte control’angolo aguzzo di una cassa armata di ferro. Rimasi sololeggermente stordito, ma mi accorsi con angoscia che laviolenza del rollio aveva fatto scivolare que l cassone pro-prio a ostruirmi il pas saggio. Tutti gli sforzi più disperatinon riuscirono a smuoverlo neppure di un pollice, perchéera chiuso dalle altre casse vicine e dal materiale di bordo.Debole com’ero, non mi restava che abbandonare la cor-dicella che mi serviva da guida e cer care un nuovo pas-saggio, oppure scavalcare l’ostacolo e continuare dall’altraparte. La prima soluzione offriva tante difficoltà e pericoliche ne tremavo al solo pensiero. Nello stato di debolezzain cui mi trovavo non potevo che esaurirmi in un similetentativo e pe rire miseramente nel labirinto sinistro e ri-pugnante della stiva. Senza esitare, pensai di fare appelloa quanto mi restava di forza e di coraggio per tentare, sepossibile, di scavalcare la cassa.Pur essendomi preparato a quello sforzo, mi accorsi chele difficoltà che mi attendevano erano molto più grandidi quanto avessi pensato. Ai due lati dello stretto passag-gio c’era una vera muraglia, formata da una moltitudinedi pesanti materiali, che il più piccolo movimento potevafarmi cadere in testa e che, cadendo dietro di me, pote-vano opporre un insormontabile ostacolo a una mia pro-babile ritirata. Quanto alla cassa, era alta e pesante, e nonoffriva alcuna sporgenza su cui potessi posare il pie de.Tentai invano, con tutti i mezzi possibili, di raggiungerela parte su periore, sperando d’issarmici a forza di brac-cia. Se anche avessi potuto sollevarmi abbastanza, eraevidente che sarei stato sempre troppo debole e forse, infondo, era meglio che non vi fossi riuscito.

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Finalmente, in uno sforzo disperato per smuovere lacassa, sentii come una vibrazione nella parte frontale e,passando la mano negli interstizi, mi accorsi che un’asse,molto larga, si era smossa. Per fortuna avevo con me ilcoltello e col suo aiuto riuscii, non senza fatica, a stac-carla completamente; m’introdussi quindi nell’aperturae con gioia scoprii che non c’era un altro lato! in altreparole, non aveva co perchio e ne avevo attraversato ilfondo. Proseguii quindi senza grandi difficoltà, lungo lacordicella per raggiungere il chiodo, e fu con un sob-balzo al cuore, abbastanza giustificato, che mi alzai,spingendo dolcemente il coperchio della botola. Non sisollevò così presto come speravo e spinsi più forte, sem -pre col timore che nella cabina non ci fosse Augustus,ma un altro. Ma il coperchio faceva resistenza e rimasiperplesso e inquieto, perché sapevo che prima si solle-vava con facilità; ancora una forte spinta, ma niente; cer-cai di smuo verlo con tutte le mie forze, ma non si mosse.Lo premetti con rabbia, con furore, con disperazione,ma resistette a tutti i miei sforzi e pensai allora che ciònon poteva dipendere che da due ragioni: o la botolaera stata scoperta e il pavimento inchiodato di nuovo,oppure c’era stato piazzato sopra un peso enorme, co-sicché ogni mio tentativo per sollevarlo risultava vano.Provai allora un senso di terrore estremo e di coster -nazione. Cercai invano di ragionare su quel mio esserecosì mu rato in quella tomba e, non potendo dare ordinealle mie idee, mi lasciai andare sul pavimento, senza re -sistere ai miei lugubri pensieri e prospettando di moriredi sete per sete o di fame, oppure per asfissia.Alla fine tornai un po’ in me e, alzandomi, cercai con ledita le fessure intorno alla botola. Quando le trovai, le

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esaminai con attenzione per vedere se un qualche chia-rore proveniente dalla cabina filtrasse attraverso le assi,ma non vidi niente. Vi feci penetrare allora la sottilelama del coltello finché essa non ebbe trovato un og-getto resistente. Grattando un po’, capii che si trattavadi una pesante massa di ferro e la particolare sensazioneondulata che mi trasmise la lama scivolando sulla lun-ghezza dell’apertura, mi fece pensare che si trattassedella catena dell’ancora.Non mi rimaneva che tornarmene alla mia cassa e rasse -gnarmi alla terribile sorte, oppure provare a tranquilliz-zarmi per trovare un altro modo di salvarmi. Mi rimisidunque in marcia senza esitazione e riuscii, a prezzo dienormi difficoltà, a riguadagnare la mia cuccetta. Mentremi la sciavo cadere sul materasso, distrutto dalla fatica,Tigre si allungò vicino a me, come se avesse voluto con lesue carezze consolarmi ed esortarmi a sopportare con co-raggio. A lungo andare, il suo strano comportamento finìper attirare la mia attenzione. Dopo avermi leccato il visoe le mani per alcuni minuti, s’inter ruppe improvvisa-mente, lasciando sfuggire dalla gola un sordo guaito;quando tesi la mano verso di lui, lo trovai disteso immo-bile sul dorso, con le zampe in aria. Quella posizione miparve abbastanza singolare e, per quanto mi sforzassi, nonriuscivo a spiegarmela; l’aria triste del povero terranovami fece pensare che avesse ricevuto qualche colpo. Presidunque le zampe tra le mani e le esaminai una dopo l’altra,senza trovare qualcosa di strano. Pensai allora che potevaaver fame e gli detti una fetta di prosciutto che divorò avi-damente.Ma appena terminato il breve pasto, ricominciò il suostrano lamento. Pensai allora che poteva essere assetato

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come me, ma poi mi resi conto che avevo controllatosolo le zampe dell’animale, che poteva invece essere fe-rito alla testa o da qualche altra parte. Tastai con curaminuziosa la testa e non vi trovai alcuna ferita, ma scor-rendo le mani sulla schiena sentii che il pelo era legger-mente sollevato lungo una linea per tutta la larghezza.Sfogliando il pelo col dito, scopersi una piccola cordaavvolta al suo corpo. A un esame più attento, trovai unastrisciolina che, al tocco, mi parve come di carta da let-tere che, attraversata dalla corda, era assicurata sotto laspalla sinistra del cane.

Capitolo 3

Immaginai subito che quel pezzo di carta fosse un bi-glietto inviatomi da Augustus che, non potendo venire aliberarmi per un qualche imprevisto che non conoscevo,usava quel mezzo per tenermi informato sulla situazione.Tremando d’impazienza, mi misi di nuovo alla cacciadei fiammiferi e delle candele; ricordavo vagamente diaverli messi con cura in un certo posto poco prima diaddormentarmi e certamente, prima del mio ultimoviaggio verso la botola, sarei stato ancora capace di ri-cordare dove esattamente li avevo messi; ma adesso mispremevo inutilmente le meningi e trascorsi un’ora nellavana ricerca. Mai prima, né sono certo, mi ero tro vatopiù angosciato e insicuro.Finalmente, tastoni, con la fronte china fin quasi a toc-care il pavimento vicino all’apertura della casa e piùavanti, credetti di scorgere una de bole luce, nella dire-zione degli alloggiamenti dei marinai. Molto sor preso,

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cercai di andare verso quella luce che sembrava a pochipassi da me. Avevo appena fatto un movimento in quelladirezione, che già l’avevo completamente persa di vistae, prima di poter scorgerla di nuovo, fui costretto a tor-nare tentoni lungo la cassa per riprendere la posizioneprimitiva. Allora, muovendo la testa di qua e di là, conprecauzione, vidi che, procedendo piano piano con lamassima attenzione nella direzione opposta a quella cheavevo preso la prima volta, avrei potuto avvicinarmi allaluce senza perderla di vista.Dopo ripetuti tentativi avanti e indietro finii per caderesfinito e mi accorsi che la luce proveniva da alcuni resi-dui di fosforo dei fiammiferi sparsi in fondo a un barilevuoto rovesciato. Mi stupii di trovarli lì e la mia manos’imbatté in due o tre mozziconi di candele, evidente-mente masticate dal cane; compresi allora come Tigreavesse distrutto tutta la mia provvista di candele e persiogni speranza di poter leggere il biglietto di Augustus.I piccoli resti di cera erano così triturati e mescolati coidetriti del barile, che già disperavo di poter approfit-tarne ed ero quasi propenso a la sciarli dov’erano.Quanto al fosforo, di cui restavano al massimo due o treframmenti, li raccolsi con la maggior cura possibile eraggiunsi con molta fatica il mio rifugio, dove Tigre erarimasto per tutto quel tempo. Non sapevo a cosa appi-gliarmi. Il buio era così fitto nella stiva che non potevovedere la mia mano, anche tenendola davanti al viso.Quanto alla striscia di carta bianca, solo a fatica poteidistinguerla, non guardandola direttamente, ma vol-gendo verso di essa la parte esterna della retina o, permeglio spiegarmi, guardan dola in obliquo, per renderlaappena percettibile.

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Da questi dettagli si può facilmente capire quale oscuritàregnasse nella mia prigione e il biglietto del mio amico,se pur si trattava di un biglietto suo, sembrava non averealtro effetto che di accrescere la mia angoscia e di tortu-rare ancor più la mia disgraziata mente, già così scossa edepressa. Invano passai in rassegna mille espedienti as-surdi per procurarmi della luce, in tutto simili a quelli cheinventerebbe un uo mo immerso nel sonno agitato del-l’oppio, che ciascuno di essi appare di volta in volta aldormiente come la trovata più ragionevole o più inutile,a seconda se sia trascinato dai bagliori della ragione edell’immaginazione.Finalmente mi venne un’idea, che mi sembrò così logicache mi stupii, a ragione, di non averla avuta prima. Stesiquindi la striscia di carta sulla coperta di un libro e, rac-colti i frammenti di fosforo dal barile, ve li deposi sopra.Poi con il palmo della mano sfre gai velocemente e conforza. Ben presto, una luce chiara si sparse su tutta lasuperficie, e se qualcosa vi fosse stato scritto, l’avrei cer-tamente letto senza difficoltà. Ma su quel foglio nonc’era altro che un bianco desolante; la luce si spense inpochi secondi e mi parve che il mio cuore si spegnessecon lei.Ho avuto occasione di dire che, per un certo tempo, erocome instupidito; avevo certamente degli intervalli mo-mentanei di lucidità e anche dei risve gli d’energia, masi trattava di rari momenti. Occorre certamente ricordare che già da più giorni respi-ravo l’aria pestilenziale di una scatola sepolta nella stivadi una baleniera e che già da qualche tempo la mia ra-zione d’acqua era insufficiente. Oltretutto non dormivada quattordici o quindici ore e avevo mangiato solo cose

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salate da quando avevo perso il mio montone, a parte legallette che erano troppo secche e stantie; del resto, lamia gola, gonfia e arida com’era, non riusciva a mandarlegiù. Avevo la febbre alta ed ero in grave difficoltà, da ognipunto di vista. Potete capire come passai quelle lungheore di angoscia, dopo la vana ricerca del fosforo, primache mi rendessi conto che avevo esami nato solo una partedel foglio, e che quindi non erano esaurite tutte le possi-bilità di salvarmi. Non proverò ora a descrivere la rabbiache mi prese quando improvvisamente capii la mia stu-pidaggine. In se stessa la cosa non sarebbe stata così gravese la fol lia e la mia debolezza non l’avessero accentuata.Infatti, arrab biato per non aver letto in quel pezzo di cartaneanche una parola, avevo fatto la sciocchezza di strac-ciarlo, spargendo i pezzi in ogni direzione.Ma in quell’occasione fui aiutato dall’istinto di Tigre.Avendo trovato, dopo faticosa ricerca, un frammento delbiglietto, lo misi sotto il naso del cane per fargli capire chetoccava a lui scovare gli altri. Non l’avevo mai addestratoa svolgere i compiti di solito assegnati alla sua razza e ri-masi quindi sorpreso vedendolo svolgere compiutamenteil mio piano. Vagò per alcuni mi nuti e presto trovò un se-condo frammento abbastanza grande, che mi portò, edopo una breve pausa stropicciò il naso contro la miamano co me aspettasse la mia approvazione. Gli accarezzaila testa e lui si rimise subito in caccia. Passarono alcuniminuti senza che tor nasse, ma quando s’avvicinò a me,portava una grande striscia di carta, il resto del bigliettoperduto che, come ricor davo, avevo rotto solo in tre pezzi.Per fortuna, non penai molto a prendere ciò che restavadel fosforo, guidato dalla tenue luce emanata da un paiodi frammenti.

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I precedenti insuccessi mi avevano insegnato a esserepru dente e questa volta presi tutte le mie precauzioni eriflettei bene su ciò che dovevo fare. Era probabile –così pensavo – che vi fosse uno scritto nella parte del fo-glio che non avevo esaminato; il difficile era sapere qualefosse quella parte. A questo riguardo, riunire i pezzi nonaiutava in alcun modo, avevo solo la certezza che le pa -role – se poi di parole si trattava – si trovavano tutte suquella stessa parte del fo glio nell’ordine logico in cuierano state scritte. Era dunque assolutamente necessarioessere ben sicuro su quel punto, perché ciò che restavadel fosforo era insufficiente per un terzo tentativo, nelcaso avessi fallito anche il secondo.Disposi dunque la carta su un libro, come la primavolta, e mi fermai ancora, pensie roso, per alcuni minuti,esaminando attentamente il problema sotto tutti i suoiaspetti. In fin dei conti – pensavo – era possibile che lasuperfice della parte scritta fosse diversa al tatto rispettoall’altra. Decisi dunque di provare e passai accurata-mente il dito sulla parte che mi si presentò per prima,senza percepire niente di particolare. Poi, girando lacarta, la posai di nuovo sul libro e ripassai l’indice concura su tutta la superfice e distinsi un debolissimo chia-rore, appena percettibile, che seguiva quasi il mio ditonel suo cammino. Capii che quella luce proveniva dallepiccolissime particelle di fo sforo che erano rimaste at-taccate alla carta durante il mio primo vano tentativo;l’altra parte, il rovescio, doveva quindi essere il lato sucui era lo scritto, ammesso che ci fosse uno scritto. Girainuovamente il biglietto e mi misi all’opera, come avevogià fatto: stro picciai il fosforo e ben presto si produsseuna debole luce, ma questa volta mi apparvero distinta-

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mente più righe di una scrittura che dovevano esserestate tracciate con inchiostro rosso.Il flebile lampo era durato pochissimo e tuttavia, non fossestato per l’emozione, avrei avuto il tempo di leggere perintero le tre frasi che avevo sotto gli occhi – perché si trat-tava di tre frasi. Così, impaziente di leggere subito tutto,riuscii a decifrare solo otto ultime parole «...sangue, restatenascosto, ne va della vostra vita...».Anche se avessi potuto leggere il biglietto per intero ecapire esattamente il messaggio che il mio amico avevacercato di farmi giungere, mettendomi al corrente dellapiù grave catastrofe, sono certo che ciò non mi avrebbesollevato, tanto grande fu l’orrore che provai per quelframmentario avvertimento, ricevuto in simili con -dizioni. E quella parola “sangue”, che è sempre così ca-rica di mistero, di sofferenza e di terrore, mi apparve intutta la sua potenza minacciosa. Quella parola, isolatadalle altre che la precedevano per qualificarla e renderlacomprensibile, come cadde, fredda, gelida e pesante,nel profondo del mio spirito, nella densa oscurità dellamia prigione!Certamente Augustus aveva le sue buone ragioni per vo-lere che restassi nascosto e io formulai mille ipotesi suquali fossero quelle ragioni senza trovare una soluzionesoddisfacente. Quando ero tornato dalla mia incursioneverso la botola e prima che mi accorgessi dello stranocomportamento di Tigre, avevo deciso di farmi sentireda gli uomini dell’equipaggio, o – se non vi fossi riuscito– di cercare un passaggio sottocoperta. La certezza chenutrivo di potere alla fine riuscire in una delle due im-prese mi aveva fino a quel momento dato il coraggio persoppor tare la mia triste situazione. Le poche parole che

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avevo potuto leg gere mi precludevano ora queste ultimedue possibilità e presi coscienza dell’atrocità del mio de-stino. Nella più profonda disperazione mi lasciai andaresul materasso e vi rimasi per tutto il giorno e forse lanotte, immerso in una specie di torpore interrotto dabrevi in tervalli in cui riprendevo coscienza del mio stato.Finalmente cercai di ragionare ancora una volta ed esa-minai la situazione. Era improbabile che potessi resistereancora ventiquattr’ore senz’acqua; era veramente impos-sibile. All’inizio della pri gionia avevo fatto largamenteuso dei cordiali che mi aveva lasciato Augustus, che nonavevano fatto altro che accrescere la mia eccitazione,senza spegnere in alcun modo la sete che mi divorava.Adesso non mi restava più che un quarto di pinta di li-quore, una bevanda molto alcolica che ripugnava al miostomaco. Il salame era ormai finito e del prosciutto nonrestava che un piccolo avanzo di pelle; in quanto alle gal-lette, le aveva mangiate tutte Tigre, tranne una sola. Perdi più, sentivo crescere il mal di testa e con esso quellaspecie di delirio che mi aveva preso quando ero assopito.Già da molte ore facevo un’enorme fatica a respirare egli sforzi erano accompagnati da un movimento spasmo-dico del petto. Ma un’altra inquietudine, di tipo diverso,mi sollevò dal torpore e mi fece rizzare tremante sul ma-terasso. Nasceva dagli strani movimenti del mio cane.Avevo già notato il suo comportamento mentre stropic-ciavo il fosforo sulla carta, durante il mio ultimo tenta-tivo; in quel preciso momento aveva poggiato il nasocontro la mia mano, con un debole guaito, ma io erotroppo impegnato per riflettere su quel dettaglio. Pocodopo, come già detto, mi ero lasciato cadere sul mate-rasso e vi ero rimasto a lungo, immerso in una specie di

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letargo. Fu allora che notai uno strano fi schio vicinissimoal mio orecchio e, voltandomi, m’accorsi che prove nivada Tigre che ansimava e soffiava, visibilmente, in predaa una grande agitazione, con gli occhi che brillavanonelle tenebre d’una luce feroce. Ripiombai nel torpore efui di nuovo svegliato allo stesso modo. La cosa si ripetétre o quattro volte, fino a che non mi svegliai completa-mente. Il cane era accanto all’apertura della cassa, bron-tolava rabbioso ma sommesso e digrignava i denti comein preda a violente convulsioni. Certamente la sete el’aria della stiva l’avevano esasperato e non sapevo cosafare. L’idea di ucciderlo mi riusciva insopportabile, perquanto inevitabile al fine di salvarmi. Vedevo distinta-mente il suo sguardo feroce fisso nei miei occhi e atten-devo l’istante in cui si sarebbe scagliato su di me.Finalmente, non potendo resistere più a lungo in quellaterribile si tuazione, decisi di uscire dalla cassa a qualun-que costo e di sba razzarmi di lui, se il suo comporta-mento mi avesse costretto a farlo. Ma per uscire dovevopassargli sopra e lui sem brava avesse capito, perché giàsi era rizzato sulle zampe anteriori, come potei percepiredalla diversa posi zione degli occhi, e scopriva tutta la filadi denti bianchi, visibili nell’oscurità.Raccolsi dunque quanto restava della pelle di prosciuttoe la bottiglia di liquore, che strinsi contro il petto, afferraianche un grande coltello che Augustus mi aveva lasciato,poi, avvolgendomi addosso il mantello il più stretto pos-sibile, mi avanzai verso l’apertura della cassa.Ma appena mi mossi il cane mi saltò alla gola con un la-trato rabbioso; il peso del suo corpo si abbatté sulla miaspalla destra e caddi violentemente sulla sinistra, mentrel’animale mi passava sopra il corpo. Ero accucciato sulle

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ginocchia, la testa nascosta sotto le coperte e ciò misalvò da un secondo attacco della bestia inferocita, dicui sentii i denti aguzzi piantarsi nella lana che mi av-volgeva il collo, senza che fortunatamente riu scissero adattraversarne le pieghe. Ero sotto il cane, che mi avevaquasi sopraffatto quando, nella disperazione, mi rizzaicoraggiosamente e, spingendo l’animale con violenza etirando a me le coperte del materasso, le gettai su di lui;prima che potesse liberarsene, avevo raggiunto l’aper-tura della cassa e l’avevo chiusa alle mie spalle, impe-dendo al cane di seguirmi. Ma nella lotta avevo persociò che restava del pro sciutto e avevo come unica prov-vista la sola bottiglia di liquore. Quell’idea e la dispera-zione mi spinsero a fare un gesto che avrebbe potutofare un giovane vizioso: portai dunque la bottiglia allelabbra e, dopo averla vuotata tutta, fino all’ultima goc-cia, la scaglia a infrangersi contro il pavimento.L’eco prodotta dal vetro rotto si era appena dissoltaquando sentii il mio nome pronunciato da una voce in-quieta, ma soffocata, proveniente dalla stiva. La cosa eracosì impre vista e tale fu l’emozione che produsse in me,che non riuscii a rispondere. Mi era impossibile dire unasola parola e, spaventato all’idea che il mio amico po-tesse credermi morto e tornare via senza raggiungermi,rimasi inizialmente nascosto tra le casse vicino al mio ri-fugio, scosso da un tremito convulso, con la bocca tre-mante, sforzandomi invano di articolare parola. Unasola sil laba da parte mia, fosse anche sufficiente a salvareun migliaio di mondi, eb bene, quella sillaba non avreisaputo pronunciarla.Sentii allora come un debole movimento nella stiva, inqualche parte di fronte a me, ed ecco che il rumore si

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fece meno distinto, più debole, come andasse man manoaffievolendosi. Non potrei mai dimenticare quel ru-more. Eccolo che s’allontanava, lui, il mio amico, il miocompagno, il solo da cui potessi aspettarmi un aiuto!...si al lontanava... mi abbandonava... se n’era andato!...Voleva dunque la sciarmi morire in quel modo misera-bile, soccombere nel più spaventoso, nel più odioso car-cere... e una parola, una sillaba sola sarebbe bastata asalvarmi, e quella piccola sillaba non riuscii ad artico-larla!In quel momento, ne sono sicuro, sentii lo spaventosotormento dell’agonia; poi, preso dalle vertigini, caddicontro l’angolo della cassa in preda a una mortale de-bolezza. Cadendo, il coltello scivolò dalla cintura ecadde sul pavimento con un rumore metallico. Mai lemie orecchie furono accarez zate con tanta soavità dauna nota musicale più deliziosa. Con profonda angosciastavo in ascolto per capire se il rumore fosse stato per-cepito da Augustus, perché ero certo che la persona cheaveva pronunciato il mio nome fosse lui. Dopo qualcheattimo di silenzio, finalmente sentii di nuovo la parola«Arthur», ripe tuta più volte a voce bassa ed esitante. Al-lora la speranza risuscitata mi sciolse finalmente la lin-gua, in catenata in fondo alla gola, e gridai disperato:«Augustus! oh, Augustus!»«Zitto, per l’amor di Dio!... taci!...» disse con voce tre-mante per l’emozione. «Tornerò da te fra un istante, ap-pena mi sarò aperto un pas saggio attraverso la stiva.»Lo udii muoversi a lungo nella stiva e ogni istante mi sem-brava un’eternità. Finalmente sentii la sua mano posarsisulla mia spalla, mentre con l’altra mi avvicinava una bot-tiglia d’acqua alle labbra. Solo chi è stato strappato im-

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provvisamente alla morte o chi ha conosciuto l’insoppor-tabile tormento della sete, aggravato da quanto patitonella mia orribile prigione, può immaginare l’indicibilesollievo che produsse in me quel lungo sorso di piacere,del più potente piacere fisico. Quando ebbi calmato lasete, Augustus trasse di tasca tre o quattro patate cotte efredde che divorai con avidità; aveva por tato con sé unalanterna, la cui luce deliziosa mi dava una grande gioia,quasi simile direi a quella procuratami dal cibo e dall’ac-qua. Ma ardevo dal desiderio di conoscere la causa dellasua lunga assenza e lui cominciò subito a raccontarmi ciòche era accaduto a bordo durante la mia prigionia.

Capitolo 4

Come avevo supposto, il brigantino era salpato un’ora circadopo che Augustus mi aveva lasciato il suo orologio. Era il20 giugno. Se il lettore ricorda, io ero già da tre giorni nellacassa e a bordo, durante tutto quel tempo, c’era stato unmovimento incessante, un tale va e vieni, in particolarenelle cabine degli ufficiali, che il mio amico non aveva po-tuto farmi visita senza correre il rischio di svelare il segretodella botola. Quando finalmente poté scendere da me, iostavo bene nel mio nascondiglio e, nei due giorni che se-guirono non si preoccupò più di tanto, pur spiando ognibuona occasione per scendere in stiva. Ma passarono quat-tro giorni senza che potesse trovare l’occasione propizia.Più volte aveva pensato di dire tutto a suo padre e farmisalire in coperta, ma non eravamo an cora abbastanza lon-tani da Nantucket e poteva temere, da alcune pa role sfug-gite al signor Barnard, che virasse immediatamente di

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bordo se avesse scoperto la mia presenza sulla nave. D’altraparte, tutto con siderato, Augustus – come mi disse poi –non poteva immaginare che avessi bisogno di aiuto e pen-sava che, in caso di necessità, non avrei esitato ad affac-ciarmi alla botola. Si era quindi rassegnato a lasciarmilaggiù finché non gli si offrisse l’occasione per scendere instiva senza esserne visto e quell’occasione, ripeto, non sipresentò che quattro giorni dopo che mi aveva lasciato ilsuo orologio o, per meglio dire, sette giorni dopo la mia si-stemazione in fondo alla stiva. Era dunque sceso, senzaportare con sé né acqua né prov viste, ma semplicementeper dirmi di lasciare il mio nascondiglio per venire io stessoalla botola, mentre lui sarebbe rientrato nella cabina perpassarmi dei viveri. Ma, una volta sceso, si era accorto chemi ero addormen tato e gli parve che russassi sonoramente;da quanto potei cal colare, ciò accadde precisamentequando mi ero assopito dopo aver cercato l’orologio vicinoalla botola e avevo quindi dormito tre giorni e tre notti con-secu tive, se non di più. Avevo già verificato – per espe-rienza diretta e per assicurazioni di altre persone – le virtùsoporifere dell’aria impregnata dall’odore di olio e di pescein un ambiente chiuso e, quando penso alle condizionidella stiva in cui ero imprigionato e al fatto che il brigantinoera stato per un lungo periodo una baleniera, non mi sem-brava strano aver dormito così a lungo, quanto piuttostol’essermi risvegliato.Augustus mi chiamò una prima volta, a voce bassa esenza chiudere la bo tola, ma io non gli risposi. Allora,chiuse la botola e mi chiamò un più forte, ma io conti-nuavo a russare. Restò allora perplesso; che doveva fare?Raggiungere la mia cassa attraverso quel caos gliavrebbe richiesto molto tempo e la sua assenza poteva

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essere notata dal capitano Barnard che aveva sempre bi-sogno di lui per mettere ordine e copiare le carte di na-vigazione. Dopo averci pensato, decise di risalire erimandare la visita a un’altra occasione, tanto più che ilmio sonno gli sembrava tranquillo e nulla faceva sup-porre che potessi star male. Stava giusto riflettendo aciò quando la sua attenzione fu richiamata da uno stranomovimento e dai rumori che sembravano proveniredalla cabina accanto. Saltò fuori dalla botola più rapi-damente possibile e aprì la porta della cabina, ma nonaveva ancora posato il piede sulla soglia che fu raggiuntoda un colpo di pistola al viso e stramazzò a terra.Una mano forte lo teneva inchiodato al pavimento dellacabina, serrandogli la gola; poteva tuttavia vedere ciò cheaccadeva intorno: suo padre, i piedi e le mani legate, gia-ceva sui gradini di una scala, con la testa in giù; sulla fronteaveva un profondo taglio da cui il sangue colava a fiotti.Non parlava e sembrava moribondo. Il secondo ufficialeera chino su di lui e lo fissava con un’espressione diabolicamentre gli vuotava tranquillamente le tasche, prendendogliil portafoglio e il cronometro; sette marinai, fra cui il cuocodi bordo – un negro – cercavano le armi nella cabina dibabordo e ben presto si armarono di fucili e munizioni.Senza contare Augustus e il capitano Barnard, in tuttonella cabina c’erano nove uomini, fra i più brutti ceffidell’equipaggio. I banditi uscirono sul ponte trascinandoil mio amico, dopo avergli legato le mani dietro il dorso.Raggiunsero subito il castello di prua col portello chiusa;due dei ribelli erano ai lati armati di scure, altri due vi -cino al boccaporto. Il secondo ordinò ad alta voce:«Voi laggiù, ascoltatemi bene, fatevi avanti, uno allavolta, e senza fiatare!»

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Passarono alcuni minuti prima che qualcuno si facessevivo. Finalmente, un ragazzo inglese che si era imbar-cato come mozzo si fece avanti piagnucolando penosa-mente e scongiurando il secondo di risparmiargli la vita.Un colpo d’ascia sulla fronte fu la sola risposta che ri-cevette: il disgraziato cadde sul ponte senza emet tere ungemito e il cuoco negro, prendendolo in braccio comefosse un bambino lo gettò in mare senza batter ciglio.Udendo il colpo prodotto dall’ascia e il tonfo del corpoin acqua, gli uomini sottocoperta si guardarono benedall’avventurarsi sul ponte; a nulla valsero né le pro-messe, né le minacce, né i consigli, fino a che uno dei ri-voltosi propose di soffocarli col fumo nel loro buco.Davanti a quella terribile minaccia tentarono una sortitain massa e per un attimo sembrava che stessero per ri-prendere possesso del brigantino. Ma alla fine gli am-mutinati riuscirono a sbarrare il castello di prua: sei solidei loro avversari avevano avuto il tempo di passare equesti sei uomini, privi di armi e in inferiorità numerica,dovettero arrendersi dopo una breve lotta.Il secondo si rivolse a loro in modo conciliante, nell’in-tento di convincere quelli rimasti sotto e indurli allaresa, perché essi potevano udire bene ciò che si dicevasul ponte. La sua sagacia e scelleratezza furono pre-miate, perché subito quelli rimasti nel castello di pruamanifestarono l’intenzione di arrendersi e, saliti sulponte uno a uno, furono legati e gettati a far compagniaagli altri sei sventurati; questa era la parte dell’equipag-gio che non aveva partecipato all’ammutinamento, intutto ventisette uomini.Ci fu quindi una scena atroce. I marinai prigionieri ven-nero trascinati sul ponte, dove il cuoco, con l’ascia in

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mano, abbatteva le vittime con un solo colpo alla testaman mano che gli altri ammutinati li spingevano a forzadavanti a lui. Ventidue uomini furono uccisi così; Au-gustus si vedeva perduto anche lui e aspettava che daun momento all’altro giungesse il suo turno; ma, forseperché i banditi cominciavano a essere stanchi o perchénauseati essi stessi dal loro orribile crimine, di fatto cin-que prigionieri vennero per il momento risparmiati, fracui il mio amico che era stato gettato nel mucchio.Il secondo mandò qualcuno a cercare del rhum sotto-coperta e la banda d’assas sini si abbandonò a una di-sgustosa orgia che si prolungò fino al tramonto del sole,quando nacque una disputa su ciò che si dovesse faredei superstiti, che erano stesi sul ponte a pochi passi equindi sentivano tutto.L’alcool doveva aver avuto un benefico influsso su alcunidegli ammutinati, perché alcuni proposero di liberare iprigionieri, a condizione che si unissero a loro, dividendoil bottino. Ma il cuoco – che era un vero demonio e chesembrava esercitare un’influenza anche maggiore del se-condo, non voleva saperne e accennava a voler riprendereil suo orribile lavoro. Fortunatamente era così indebolitodall’alcool che poté facil mente essere tenuto a banda daglialtri componenti di quella banda sanguinaria, fra i qualiera un individuo conosciuto sotto il nome di Dirk Peters.Quell’uomo era il figlio di un’indiana della tribù Upsaroka,che abitano nelle Black Hills, vicino alla sorgente del Mis-souri. Il padre era un cacciatore di pellicce, almeno credo,o comunque era in contatto con gli uffici commerciali in-diani del fiume Lewis. Peters aveva l’aspetto più feroce chemai io abbia avuto occasione di osservare in un uomo. Erabasso di statura poiché non superava i quattro piedi e otto

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pollici di altezza, ma era forte come un Ercole. Le manierano così smisurate che si faticava a crederle umane. Lebraccia, come le gambe, erano stranamente arcuate e ri-gide. Anche la testa era mostruosa, enorme e completa-mente calva ad eccezione di un ciuffo solitario sullasommità, come spesso nelle acconciature indiane. Per dis-simulare la precoce calvizie, usava portare una specie diparrucca fatta di pelliccia di vari animali. In quel momentoaveva in testa una pelle d’orso, che accresceva la naturaleespressione feroce tipica degli Upsaroka. La bocca andavaquasi da un orecchio all’altro: le labbra erano sottili e, perconformazione naturale, apparivano rigide, accentuandol’espressione autoritaria che non lasciava trasparire alcunaemozione, qualunque fosse; questa espres sione il lettore sela può figurare immaginando dei denti di una lunghezzainsolita, nascosti solo in parte dalle labbra. A prima vista sisarebbe potuto credere che fosse in preda a un riso con-vulso, ma guardandolo meglio e con più attenzione si ve-deva, non senza un brivido, che quella fisonomiaesprimeva l’allegria di un demonio. Della forza prodigiosadi quell’essere bizzarro parlavano molti aneddoti narratidai marinai di Nantucket; di quella forza egli dava provaquando per qualche motivo si esaltava e molti pensavanoche fosse uno squilibrato.Ma a bordo del Grampus, all’epoca in cui avvenne l’am-mutinamento, quell’uomo sembrava più che altro un og-getto di scherno e, se mi sono dilungato a proposito diDirk Peters, è perché, malgrado la sua apparenza feroce,fu in realtà il suo intervento che salvò la vita ad Augu-stus e anche perché avrò più volte occasione di parlaredi lui nel corso della mia storia. Dopo lunga incertezza e accese discussioni fu deciso

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che, a eccezione di Augustus – che Peters pretese inmodo curioso che gli fosse assegnato come assistente –gli altri prigionieri sarebbero stati abbandonati alla de-riva in una delle scialuppe.Il secondo scese poi in cabina per vedere se il capitanoBarnard era ancora in vita e dopo poco riapparvero tuttie due, il capitano pallido come un morto, ma ripresosidella ferita ricevuta. Parlò ai marinai con voce insicura,facendo appello al loro senso del dovere, supplicandolidi non abbandonarlo così alla deriva, promettendo disbarcarli dove volevano e di non consegnarli nelle manidella giustizia. Ma le sue parole volarono col vento; duerivoltosi lo afferrarono per le braccia e lo lanciarono fuoribordo nella scialuppa che era stata calata in mare, mentreil secondo si recava nelle cabine degli ufficiali. Poi i quat-tro uomini che giacevano sul ponte vennero sciolti dai le-gacci e fu loro ordinato di raggiungere il capitano, cosache fecero senza opporre resistenza. Augustus invece ri-mase nella sua penosa posizione, pur dibattendosi e im-plorando di poter dire addio al padre. Ai disgraziativenne data una manciata di gallette e una fiasca d’acqua,ma nessun albero, nessuna vela, nessun remo e nessunabussola. La barca fu rimorchiata per alcuni minuti, men-tre gli ammutinati prendevano altre decisioni, e final-mente venne abbandonata in balia dei flutti.Nel frattempo era scesa la notte. Non c’era luna e nonbrillava una stella: nonostante un debole vento, il marein torno non era rassicurante. In capo a poco la barcascomparve alla vista, e non si potevano certo nutrire spe-ranze sulla sorte di quegli infelici.Siccome tutto questo avveniva a 35° 30’ di latitudinenord, e a 61° 20’ di lon gitudine ovest, o – per meglio

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spiegare ai nostri lettori – a poca distanza dalle isole Ber-mude, Augustus tentò di consolarsi dicendosi che forsela scialuppa avrebbe avuto la fortuna di approdare o diavvicinarsi abbastanza alla riva da incontrare qualcheimbarcazione costiera.Furono quindi issate tutte le vele e il brigantino proseguìla sua rotta verso sud-ovest; gli ammutinati avevano disicuro in mente un’azione di pirateria che consisteva –per quanto aveva capito Augustus – nell’abbordare unanave in rotta dalle Isole di Capo Verde a Porto-Rico.Nessuno si curava di Augustus, che era stato liberato epoteva andare dove voleva. Dirk Peters dimostrava asuo riguardo una certa benevolenza e una volta lo sot-trasse alla violenza brutale del cuoco. La sua situazionerestava tuttavia molto precaria, perché non c’era moltoda fidarsi dell’indifferenza e della benevolenza che gliavevano fino ad allora dimostrato quei marinai ubria-coni. Mi assicurò poi che, malgrado la paura per sestesso, la sua maggior preoccupazione riguardava me, ecertamente non avevo ragioni per dubitare della since-rità della sua amicizia. Più volte era stato sul punto difar rivelare ai rivoltosi la mia presenza a bordo, ma sem-pre aveva rinunciato, ricordando le atrocità commessesotto i suoi occhi e nella speranza di poter trovare prestoun modo per venire in mio aiuto. A questo scopo spiavatutte le occa sioni propizie, ma per quanto attiva fosse lasua vigilanza, fu solamente tre giorni dopo l’abbandonodella scialuppa che poté trovare il momento oppor tuno.La sera del terzo giorno un forte vento si alzò da est etutti si dovettero affrettare a ridurre le vele. Approfit-tando della confusione Augustus poté spingersi inosser-vato fino alla sua ca bina, ma fu preso dall’angoscia

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constatando che era diventata una specie di ripostiglioper ogni sorta di provviste e materiali di bordo e che,per far posto a una cassa, molte bracciate di vecchie ca-tene erano state spostate da sotto la scala e poggiate sulpavimento della cabina, proprio sopra la botola. Nonera neanche immaginabile spostarle, per cui tornò sulponte in tutta fretta: ma proprio mentre risaliva, il se-condo di bordo lo prese per la gola, chiedendogli per-ché fosse andato nella cabina e stava per gettarlo in maresollevandolo sopra il pavese di babordo, quando per laseconda volta l’intervento di Peters gli salvò la vita.Fu ammanettato – a bordo c’erano molte paia di ma-nette – gli vennero legati i piedi e fu trasportato neglialloggi sottocoperta, dove fu gettato in una cuccettasotto il castello di prua, con l’assoluto divieto di rimet-tere piede sul ponte «finché il brigantino non fosse piùun brigantino». Queste furono le ultime parole delcuoco di bordo mentre lo gettava sulla cuccetta e ciòche provava in quel momento è difficile da dire perchéci sono stati d’animo che nessuna parola può esprimere.Tuttavia, come il lettore vedrà presto, fu proprio quel-l’incidente che mi salvò la vita.

Capitolo 5

Quando il cuoco lasciò il castello di prua, per alcuni mi-nuti Augustus si lasciò andare alla disperazione, con-vinto che non sarebbe uscito vivo da quel luogo. Presequindi la decisione di rivelare la mia presenza al primomarinaio che scendesse nella cabina, pensando che fossemeglio espormi a dividere la sorte dei ribelli che non la-

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sciarmi morire di sete in fondo alla stiva; la mia reclu-sione infatti durava da dieci giorni, mentre la mia prov-vista d’acqua era appena sufficiente per quattro. Mentrepensava a questo, gli venne in mente che forse avrebbepotuto comunicare con me attraverso la stiva: in altraoccasione, la difficoltà e i rischi dell’impresa l’avrebberocertamente dissuaso; ma in quel momento non avevagranché da perdere, per cui destinò ogni sforzo a quel-l’idea.Le manette costituivano il primo problema e, poiché nonsapeva come sbarazzarsene, temette di trovarsi paraliz-zato in partenza. Poteva però farle scivolare, senza grandisforzi e senza dolore, contraendo semplicemente le mani;quel tipo di manette infatti non erano adatte a un gio-vane con le ossa più tenere, che potevano comprimersipiù facilmente. Con la mano libera poté sciogliere i laccidei piedi, disponendo la corda in modo da poterla rimet-tere a posto nel caso fosse giunto qualcuno. Studiò poiil tramezzo, nella parte vicina al fondo della cuccetta. Inquel punto era formato da un’asse di abete dello spessoredi un pollice e Augustus pensò che non avrebbe fattogrande fatica ad aprirvi un passaggio. Non aveva ancoraliberato la mano sinistra quando udì una voce sulla scaladel castello di prua ed ebbe appena il tempo di ricacciarela mano destra nella manetta e di serrare la corda intornoalle caviglie fermandole con un nodo posticcio che DirkPeters scese giù, seguito da Tigre che si accucciò subitonel quadrato. Il cane era stato portato a bordo da Augu-stus che, sapendo quanto ero affezionato all’animale,aveva pensato che avrei avuto piacere di averlo con mein navigazione; era dunque andato a prenderlo a casa dimio padre, dopo che ero stato chiuso in fondo alla stiva,

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ma non aveva pensato a parlarmene il giorno in cui miaveva portato l’orologio.Dopo l’ammutinamento Augustus non l’aveva più rivi-sto e aveva immaginato che fosse stato gettato in mareda qualche delinquente della banda. Si seppe in seguitoche si era nascosto in un buco sotto una scialuppa, dacui non era più riuscito a districarsi. L’aveva trovato eliberato Peters che, in un impulso di generosità che ilmio amico seppe apprezzare, glielo portò perché gli te-nesse compagnia; gli lasciò anche un pezzo di carne sa-lata e delle patate con una brocca d’acqua, dopodichétornò sul ponte promettendo di tornare l’indomani conaltre provviste.Una volta partito Peters, Augustus si sfilò le manette esi sciolse i piedi. Sollevò poi il materasso e con l’aiutodel coltello – dato che i rivoltosi non avevano pensato aperquisirlo – cominciò a intagliare energicamente unadelle assi del tramezzo, il più vicino possibile al puntoin cui era la cuccetta. Aveva scelto quel punto perché,se fosse venuto qualcuno, avrebbe potuto facilmente na-scondere il lavoro iniziato, lasciando semplicemente ri-cadere la parte supe riore del materasso.Ma per tutto il giorno nessuno venne a interromperlo,di modo che, giunta la sera, aveva quasi completamentetagliato l’asse.È opportuno spiegare ai lettori che la gente dell’equipag-gio non dormiva più nel castello di prua, essendosi tutti,dopo l’ammutinamento, insediati negli alloggiamenti apoppa dove gozzovigliavano col vino e le provviste delcapitano Barnard, occupandosi delle manovre del bri-gantino solo lo stretto necessario. Tutto ciò giocava a fa-vore di Augustus e me, altrimenti non avrebbe potuto

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venirmi in soccorso; quindi, nonostante il pericolo chegiungesse qualcuno, si rimise con fiducia all’esecuzionedel suo piano.Il giorno stava per spuntare quando terminò la secondaparte del suo lavoro che consisteva nel praticare nell’assedel tramezzo un secondo taglio a un piede circa di di-stanza dal primo, per aprirsi un passaggio sufficienteverso il corridoio sottocoperta. Una volta passato, s’in-camminò senza troppe difficoltà verso il boccaporto, sca-valcando dei barili d’olio accatastati fino al pontesuperiore, che lasciavano lo spazio appena sufficiente perpassare. Arrivato al boccaporto, si accorse che Tigrel’aveva seguito e procedeva tra due file di barili. Ma ormaiera troppo tardi per raggiun germi prima del giorno, datigli ostacoli da superare nella stiva. Decise quindi di tor-nare indietro e aspettare la notte se guente e, a questoscopo, cominciò a liberare il boccaporto per guadagnaretempo quando sarebbe tornato. Ma appena liberato,Tigre si lancio improvvisamente nel varco, soffiò per unistante e lasciò sfug gire un lungo guaito grattando con lezampe come se avesse voluto strappare l’assicella. Il com-portamento del cane non lasciava dubbi sul fatto che sen-tisse la mia presenza, per cui Augustus pensò che sarebbestato possibile all’animale raggiungermi, se lo avesse la-sciato andare. La cosa gli suggerì l’idea di spe dirmi un bi-glietto, ma era necessario innanzitutto che io non tentassidi uscire dal mio nascondiglio, almeno in quel momento,perché era ben certo di potermi raggiungere l’indomani,come aveva progettato. Gli avvenimenti che seguironodimostrarono come quell’idea era stata felice, perché senon avessi ricevuto quel biglietto, avrei cercato dispera-tamente di segnalare la mia presenza all’equipaggio e il

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risultato del tentativo sarebbe stato certamente la mortedi am bedue.Decise dunque di scrivermi, ma il difficile era procu-rarsi gli strumenti per farlo. Da un vecchio stuzzicadentiricavò una penna, pur dovendosi affidare solo a tattoperché nel luogo in cui si trovava era buio pesto. Comecarta adoperò una copia della lettera contraffatta del si-gnor Ross; l’imitazione della scrittura non era venutabene e Augustus ne aveva rifatta un’altra, dimentican-dosi la prima in tasca, dove ora l’aveva ritrovata. Man-cava solo l’inchiostro, ma il mio amico rimediòfacendosi un leggero taglio col coltello alla punta deldito, proprio di sotto l’unghia; il sangue che uscì fu suf-ficiente e il biglietto venne così scritto come permessodal buio e dalle circostanze. In esso m’informava breve-mente che a bordo l’equipaggio si era ammutinato, cheil capitano Barnard era stato abbandonato alla deriva,che contava di portarmi a breve delle provviste, ma chenon dovevo assolutamente farmi scoprire. Lo stranomessaggio finiva con queste parole:«Traccio queste righe col sangue, stai nascosto, ne vadella tua vita...».Attaccò il foglio di carta alla schiena del cane, lo spinseverso il boccaporto e tornò sui suoi passi al castello diprua, dove sembrava non fosse arrivato nessuno durantela sua assenza. Per nascondere l’apertura praticata neltramezzo piantò il coltello proprio sopra e vi appese unacamicia che era nella cuccetta; si rimise le manette e ar-rotolò di nuovo la corda intorno alle caviglie.Aveva appena finito che Dirk Peters discese, ubriacofradicio ma di buon umore, portando al mio amico lasua razione quotidiana, che consisteva in una dozzina

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di patate d’Irlanda cotte al forno e in una brocca d’ac-qua. Si sedette per un momento su un baule vicino allacuccetta e cominciò a parlare liberamente del secondoe di ciò che accadeva a bordo. Il suo comportamentoera molto strano, tanto che Augustus a un certo puntosi sentì inquieto. Poi finalmente Peters se ne tornò sulponte, borbottando tra i denti che l’indomani avrebbeportato al prigioniero un pranzo di primo ordine.Nel corso della giornata scesero anche due marinai fio-cinieri e il cuoco, anch’essi completamente ubriachi eanch’essi parlarono a ruota libera. Sembravano avereopinioni molto diverse su come finire il viaggio e con-cordavano su un solo punto, l’abbordaggio della naveche doveva arrivare da un momento all’altro da CapoVerde.Per quanto Augustus poté capire, a spingere all’ammuti-namento l’equipaggio era stata l’idea di un ricco bottino,ma soprattutto la rabbia che il secondo nutriva nei con-fronti del capitano Barnard. Adesso l’equipaggio era di-viso in due fazioni, una faceva capo al secondo e l’altra alcuoco. La prima aveva stabilito di abbordare la nave piùadatta al loro piano e di riparare in una qualunque isoladelle Antille per approntarla per una scorreria piratesca.La seconda e più grande, di cui Peters faceva parte, volevainvece continuare nell’originaria rotta del brigantino versoil Pacifico meridionale, a caccia di balene e per fare ognitraffico che potesse capitare. Le ragioni di Peters, cheaveva più volte battuto quei mari, sem bravano riscuotereconsenso fra i ribelli, che oscillavano tra molte idee con-fuse che puntavano sempre al denaro e al divertimento.Raccontava loro di mondi meravigliosi e sconosciuti nellemigliaia di isole del Pacifico; parlava dell’assoluta libertà

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di cui avrebbero goduto e soprattutto del clima deliziosoe delle risorse di quelle terre dove la natura è incredibil-mente generosa e le donne straordinariamente belle. Nonera stata presa ancora alcuna decisione definitiva, ma i rac-conti del mezzosangue avevano colpito l’imma ginazionedei marinai e tutto faceva pensare che alla fine avrebbevinto il suo piano.I tre uomini se ne andarono dopo un’ora e per tutta lagiornata nessuno scese più dov’era il mio amico. Questinon si mosse fino a notte, quando si liberò dai ferri edalla corda e si preparò per il secondo tentativo. Trovatauna bottiglia in una delle cuccette, la riempì con l’acquadella brocca lasciatagli da Peters e si riempì le tasche dipatate. Fu contento nello scoprire anche una lanternacon un mozzicone di candela, che poteva accendere almomento giusto perché aveva con sé una scatola di fiam-miferi. Quando fu buio del tutto, s’introdusse nel bucodel tramezzo, dopo aver sistemato la coperta nella cuc-cetta per simulare una persona addormentata. Appenapassato, appese come la prima volta la camicia al col tellosulla parete per nascondere il buco e infine rimise al suoposto l’asse che aveva tagliato. Penetrò così nel corridoiosottocoperta e si avviò di nuovo tra il ponte superiore ela barriera di barili d’olio fino al grande boccaporto. Unavolta giunto là, accese il mozzicone di candela e scese, afatica e tastoni, attraverso i materiali accatastati nellastiva. Il sudicio e l’odore insopportabile non tardaronoa preoccuparlo, perché gli sembrava impossibile chefossi potuto sopravvivere così a lungo in quel posto sof-focante. Mi chiamò per nome più volte, ma senza rispo-sta e i suoi timori si confermarono. Il rollio del brigantinoproduceva un rumore forte e non poteva certo sentire il

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mio respiro o il mio russare; aprì dunque la lanterna e,continuando ad avanzare, la tenne il più possibile in alto,per quanto gli permetteva lo spazio della stiva, di modoche la vista della luce, nel caso fossi stato ancora vivo, mifacesse capire che arrivavano soccorsi.Trovato però il passaggio bloccato da ostacoli insormon-tabili, alla fine aveva rinunciato a raggiungermi e con l’an-goscia nel cuore era risalito nel castello di prua.Prima però di condannarlo senza appello, bisogna esa-minare con serenità le gravi difficoltà con cui si era con-frontato. La notte avanzava rapidamente e nel castellodi prua la sua assenza avrebbe potuto essere scoperta,cosa che sarebbe sicuramente avvenuta se non avesse ri-guadagnato il suo posto prima del sorgere del giorno. Lacandela stava ormai per spegnersi nella lanterna eavrebbe avuto problemi a rifare al buio il percorso di ri-torno. Bisogna inoltre considerare che pensava fossimorto e che sarebbe stato del tutto inutile arrivare finoalla mia cassa correndo mille pericoli. Mi aveva chiamatoa più riprese senza ricevere alcuna risposta; sapeva cheero già da undici giorni e da undici notti senza altra prov-vista d’acqua se non quella della brocca che mi aveva la-sciato all’inizio; era inoltre molto probabile che io, nonpotendo immaginare che la prigionia sarebbe durata cosìa lungo, non avessi razionato le provviste fin dall’inizio.A tutte queste riflessioni va aggiunto che, per lui che ve-niva dal castello di prua dove l’aria era purissima, quelladella stiva doveva sembrargli pestifera, ben peggiore diquando mi ero installato laggiù, perché allora i bocca-porti erano rimasti aperti per mesi. Se a tutte queste con -siderazioni si aggiunge ancora la terribile e sanguinosascena a cui il mio amico aveva da poco assistito, la sua

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reclusione, le privazioni, la morte sfiorata, il caso equi-voco a cui doveva la vita, tutte considerazioni che nonaiutavano certo il suo morale e la sua energia, allora illettore potrà capire perché io stesso guardassi l’appa-rente debolezza della sua amicizia e della sua fedeltà conpiù tristezza che indignazione.Augustus aveva udito distintamente il rumore della bot-tiglia che s’infran geva contro il pavimento, ma non eraben sicuro che quel rumore prove nisse dalla cassa; ildubbio però lo convinse a perseverare nel suo tentativo.Si arrampicò dunque fin quasi all’altezza del secondoponte e, aspettato che la nave fosse un po’ meno cori-cata sul fianco, mi chiamò a voce più alta possibile,senza preoc cuparsi del rischio che qualcuno dell’equi-paggio lo sentisse. Il lettore ricorderà che quella voltaavevo sentito la voce ma, stravolto com’ero, non ero riu-scito a rispondere. Convinto allora che le sue paure pur-troppo erano fondate, aveva ripreso il percorso indietroverso il castello di prua, senza perdere più tempo invane ricerche. Nella fretta aveva rovesciato alcune pic-cole casse e anche quel rumore – ricorderete – eragiunto alle mie orecchie; ed era appena tornato indietrodi pochi passi quando la caduta del mio coltello lo fecenuovamente esitare; fece un altro dietrofront, scavalcòdi nuovo la stiva e gridò i1 mio nome ancora più forte,approfittando di una tregua del vento. Questa volta tro-vai il fiato per rispon dergli e lui, sconvolto dalla gioia alpensiero di ritrovarmi ancora vivo, decise di fare qua-lunque cosa pur di giungere fino a me. Districandosi nellabirinto della stiva, ebbe la fortuna di trovare un pas-saggio più praticabile e, dopo molti sforzi, raggiunse lamia cassa completamente sfinito.

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Capitolo 6

Mentre eravamo insieme vicino alla cassa, Augustus miraccontò questa storia per sommi capi e solo più tardipoté entrare nei dettagli. Temeva che la sua assenza po-tesse venire notata ed io, da parte mia, fremevo per la-sciare l’odioso luogo della mia prigionia. Decidemmoquindi muoverci, senza esitazione, verso il varco praticatanel tramezzo, poiché era là che dovevo installarmi prov-visoriamente, mentre Augustus sarebbe andato in rico-gnizione. Tigre era sempre chiuso nella cassa e nonpotevamo sopportare l’idea di abbandonarlo così; d’altraparte, che avremmo dovuto fare? Non sentivamo alcunrumore e nemmeno appoggiando l’orecchio contro lacassa percepivamo il suo respiro. Convinto ormai chefosse morto, mi decisi ad aprire la porta e lo trovammolà, disteso, in preda ad un profondo torpore, ma ancoravivo. Dovevamo sbrigarci, ma non potevo abbandonarlolaggiù senza tentare di salvare un animale che per bendue volte mi aveva salvato, per cui cercammo in sieme ditrascinarlo come potevamo, con grande fatica. Augustusera costretto a superare gli ostacoli portando in bracciol’enorme cane, perché io ero talmente sfinito che non cel’avrei mai fatta. Finalmente arrivammo al varco e Augu-stus passò per primo, poi fu la volta di Tigre. Era andatotutto bene e ringraziammo Dio dal profondo del cuoreper averci salvato dal pericolo. Decidemmo che per il mo-mento sarei rimasto vicino al varco, attraverso il quale ilmio amico mi avrebbe potuto facilmente passare unaparte delle sue razioni quotidiane, respirando oltretuttoun’aria decisamente migliore.Perché il lettore possa meglio comprendere alcuni pas-

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saggi di questo racconto in cui si parla della sistema-zione della stiva e che potrebbero risultare poco chiaria lettori che non hanno avuto occasione di vedere unastiva ben sistemata, bisogna riconoscere che il modo incui questa importante operazione era stata compiuta abordo del Grampus atte stava la più imperdonabile ne-gligenza da parte del capitano Barnard, che non era ilmarinaio vigile ed esperto che ci si poteva aspettare dalsuo ruolo.Uno stivaggio ben fatto deve essere effettuato con moltacura e, per parlare solo della mia esperienza, ho consta-tato che molti disastrosi incidenti derivano dalla negli-genza e dall’ignoranza da parte dei marinai delle normeche regolano questa parte del loro me stiere. Le navi co-stiere, stante la fretta e il disordine che accompagnanosempre il carico o lo scarico, soffrono più delle altre peril cattivo stivaggio. L’essenziale è impedire al carico e allazavorra di muoversi col rollio della nave. A questo scopo,occorre prestare molta attenzione non solo al carico, maanche alla sua natura e se si tratti di un pieno carico o diun carico parziale. In un carico di tabacco o di farina, peresempio, i fusti o i barili sono così compressi nella stivadella nave da deformarsi e, quando escono, ci mettonomolti giorni a riprendere l’aspetto primitivo. Si adotta lostivaggio per compressione soprattutto per occuparemeno spazio nella stiva e un carico di sole derrate, comefarina o tabacco, non patirà alcun inconveniente. Certo,ci sono stati casi in cui questo sistema ha avuto conse-guenze incresciose, ma le cause erano in realtà da attri-buire ad altro. Accade ad esempio che un carico dicotone fortemente compresso si dilati in certe condizioni,facendo letteralmente esplodere una nave in mare e qual-

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cosa di simile può avvenire anche col tabacco in fermen-tazione. Ma è soprattutto il carico parziale quello più pe-ricoloso, per cui occorre prendere tutte le precauzioniper prevenire una catastrofe. Solo chi ha affrontato unagrande tempesta o, ancora di più, chi ha provato il rolliodi una nave provocato da un’improvvisa raffica di vento,può farsi un’idea della formidabile potenza delle onde edella terribile spinta che rice vono, per contraccolpo, i ca-richi che non si è avuto cura di assicurare bene. E in casodi carico parziale diventa assolutamente necessario unocorretto e meticoloso stivaggio; quando una nave è ap-pruata (in particolare con poca vela avanti) e la prua nonè costruita a regola d’arte, può capitare che si verifichiuno sbandamento, che si può ripetere anche ogni quin-dici o venti minuti senza gravi inconvenienti, a condi zioneche lo stivaggio sia ben fatto. Se così non è, alla prima pe-sante ondata tutta la massa del carico scivola verso laparte coricata sull’acqua e la nave, incapace di ri prendereil suo equilibrio, è esposta fatalmente a imbarcare acquae ad affon dare in pochi secondi. Non è esagerato affer-mare che la metà dei naufragi durante una tempesta sianodovuti al movimento del carico o della zavorra.Quando s’imbarca un carico parziale, dopo essere statodisposto il più strettamente possibile, il tutto deve esserecoperto da un piano di assi facilmente removibili, che oc-cupino tutta la larghezza della nave e queste assi sarannointercalate da puntelli che raggiungano in alto l’armaturadel ponte, rendendo il carico stabile.Per le granaglie invece vanno prese precauzioni supple-mentari. Una stiva piena di grano quando si abbandonail porto, all’arrivo a destinazione risulterà piena solo pertre quarti, e ciò nonostante il carico, misurato staio a staio

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dal consegnatario, sorpassi di molto, in seguito al rigon-fiamento del grano, la quantità assegnata. Questo feno-meno deriva dalla compressione del carico durante latraversata, che varia in ragione delle condizioni del mareincontrate. Quando si stiva il grano senza prestare atten-zione a che sia ben compresso, anche se sistemato conassi e puntelli, durante una lunga traversata sarà sempreesposto a forti scosse che possono provocare terribili in-cidenti. Esistono molti sistemi per comprimere il grano,fra cui la pratica che consiste nell’immergervi dei cunei.Ma anche dopo aver preso tutte queste precauzioni edopo aver faticato per assicurare le assi mobili, un mari-naio che conosca bene il suo mestiere non sarà tranquillose deve affrontare una seria burrasca con un carico digrano, o peggio ancora, con un carico parziale. E tuttaviasi vedono quotidianamente nei nostri porti – e in quellieuropei ancora di più – centinaia d’imbarcazioni chefanno cabo taggio con carichi parziali, spesso della speciepiù pericolosa, senza aver preso tutte precauzioni indi-spensabili, e solo per miracolo giungono a destinazione.Uno degli esempi più deplorevoli che conosca di similiimprudenze è quello del capitano Joël Rice, al comandodella goletta Firefly, che nel 1825 fece rotta da Richmand(Virginia) a Madeira con un carico di grano. Aveva effet-tuato diversi viaggi senza gravi incidenti, nonostante nonprestasse grande attenzione allo stivaggio e non usassealcun sistema di compressione del carico. Era la primavolta che trasportava grano e il frumento occupava solometà della stiva. Nella prima parte della traversata incon-trò solo leggere brezze, ma giunto a circa una giornata daMadeira si alzò un forte vento da nord-nord ovest, che locostrinse a ridurre la velatura. Mise quindi la go letta al

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vento lasciando una mezzana con due terzaroli e la navesi comportò secondo le aspettative, non imbarcando nep-pure una goccia d’acqua. Al calare della notte l’uraganosi era un po’ calmato e già la goletta cominciava a ripren-dere il suo assetto quando, improvvisamente, un’enormeondata scaricò a tribordo. Si udì tutto il carico di granorotolare con una tale violenza da sfondare il grande boc-caporto e in pochi secondi l’imbarcazione colò a piccocome una palla di piombo. Tutto ciò accadeva quasi aportata di voce di un piccolo sloop di Madeira, che rac-colse uno degli uomini dell’equipaggio, il solo che sisalvò; al contrario, lo sloop superò la tempesta in perfettasicurezza, diretto da una mano esperta.Lo stivaggio a bordo del Grampus lasciava molto a de-siderare, se pure si può definire stivaggio un insiemecaotico di barili d’olio e di materiali di bordo.Ho già parlato del modo con cui gli oggetti erano di-sposti nella stiva: sul ponte inferiore, come ho avutomodo di dire, c’era uno spazio sufficiente per il miocorpo tra i barili d’olio e il ponte superiore; ancora spa-zio era vicino al boccaporto superiore e non erano que-sti i soli vuoti esistenti. Vicino al buco praticato daAugustus nel tramezzo del castello di prua vi era postoper un intero barile, ed era precisamente in questoluogo che mi trovavo, per il momento, sistemato abba-stanza comodamente.Mentre il mio amico riguadagnava il suo posto e risiste-mava le manette ai polsi e la corda alle caviglie si era fattogiorno. A dire il vero, l’avevamo scampata bella perché,appena prese tutte queste precauzioni, sentimmo il se-condo scendere nel castello di prua, seguito da Dirk Peterse dal cuoco. Vi si trattennero per alcuni minuti parlando

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della nave che doveva arrivare da Capo Verde e sembra-vano aspettarla con grande impazienza. Alla fine il cuocosi avvi cinò al luogo dov’era Augustus e si sedette. Potevoudire e vedere tutto dalla mia improvvisata cuccetta, per-ché il pezzo di asse tagliato non era stato ricollocato e te-metti che il negro spostasse il camiciotto appeso pernascondere l’aper tura, nel qual caso avrebbe scoperto tuttonon avremmo avuto scampo. Ma la nostra buona stella ciaiutò e, pur sfiorando più volte il camiciotto col rollio dellanave, non si appoggiò tanto da scoprire l’inganno. Fortu-natamente avevamo fissato la parte inferiore del camiciottoal tramezzo in modo che non potesse oscillare e scoprirel’apertura. Per tutto il tempo Tigre era rimasto ai piedi delletto e sembrava aver recuperato in parte le forze, perchea intervalli lo vedevo aprire gli occhi e respirare profonda-mente.Dopo qualche minuto il secondo e il cuoco si ritirarono,la sciando nel castello di prua Peters che, subito dopo laloro partenza, venne a sedersi nel posto poco prima occu-pato dal secondo. Parlò amichevolmente con Augustus eci accorgemmo che aveva fatto finta di essere ubriacoquando c’erano gli altri due. Rispose tranquillamente atutte le domande rivoltegli dal mio amico, gli disse di staretranquillo, che suo padre si era certamente salvato, perchéprima del tra monto del sole, il giorno che la scialuppa erastata abbandonata alla deriva, non vi erano meno di cinquevele in vista. Insomma, dalle sue parole si capiva che cer-cava di consolarlo e questo che mi sorprese e mi fece pia-cere. A dire il vero, cominciavo a nutrire la speranza cheforse, con l’aiuto di Peters, saremmo riusciti a riprenderepossesso del brigantino e comunicai questa mia idea adAugustus appena se ne presentò l’occasione. Egli convenne

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con me che la cosa era possibile, ma insistette sulla neces-sità di fare un simile tentativo solo con la massima atten-zione, perché l’atteggiamento del mezzosangue glisembrava ispirato solo da un capriccio e continuava a chie-dersi se non fosse un po’ fuori di testa. Di lì a un’ora circaPeters risalì sul ponte e tornò solo a mezzogiorno, por-tando ad Augustus un bel pezzo di montone salato e delpudding. Appena se ne andò, io presi con piacere la miaparte di cibo senza neppure tornare nel mio buco.Il giorno trascorse senza che nessun altro dell’equipaggioscendesse nel castello di prua e, calata la notte, andai nellacuccetta di Augustus e dormii di un sonno profondo quasifino all’alba, quando il mio amico mi svegliò perché avevasentito dei rumori sul ponte, e tornai di corsa nel mio na-scondiglio. Quando venne il giorno, constatammo cheTigre si era quasi completamente ripreso e non presentavaalcun sintomo d’idrofobia; beveva infatti con grande avi-dità l’acqua che gli davamo, e, nel corso della giornata,riacquistò tutte le forze e il suo appetito. Il suo strano com-portamento era sicuramente dovuto all’aria malsana dellastiva e non aveva nulla a che fare con l’idrofobia; io nonpotevo che gioire al pensiero di averlo tirato fuori dallacassa per tenerlo ancora con me. Era il 30 giu gno ed eranoormai trascorsi tredici giorni dalla nostra partenza da Nan-tucket.Il 2 luglio scese il secondo, ubriaco come sempre, ma dibuon umore. Si avvicinò alla cuccetta di Augustus, e dan-dogli una pacca sulla schiena, gli chiese se si sarebbecomportato bene se lo avesse messo in libertà, a pattoche non avesse più rimesso piede nella camera. Natural-mente il mio amico rispose di sì e allora il manigoldo glisciolse i lacci dopo avergli fatto trangugiare un sorso di

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rhum da una bottiglia che aveva tirato fuori dalla tasca.Poi tutti e due salirono sul ponte e passarono tre oresenza che rivedessi Augustus; quando scese mi portòbuone notizie: gli era per messo di andare e venire a pro-prio piacimento sul brigantino, sempre però nella parteprodiera, e doveva continuare a dormire nel castello diprua. Inoltre, portò con sé del buon cibo e una bellaprovvista d’acqua.Il brigantino era sempre in attesa della nave che dovevaarrivare da Capo Verde e poiché ce n’era una in vista, sipresumeva che fosse lei.I fatti che si produssero durante la settimana seguentesono di poca importanza e non si legano in modo direttoalla trama di questo racconto, ma siccome non possopassarli completamente sotto silenzio, li ri porterò sem-plicemente qui, sotto forma di giornale.3 luglio. Augustus mi ha portato tre coperte che mi sonoservite a orga nizzarmi nella mia cuccetta un letto abba-stanza comodo. Per tutto il giorno nessuno è venuto nelcastello di prua, salvo il mio compagno. Tigre si è piazzatoproprio davanti al buco e ha dormito profondamente,come non si fosse ancora rimesso completamente del suomalessere. Verso sera un improvviso colpo di vento ha in-vestito il brigantino prima che avesse tempo di ridurre lavela e per poco non l’ha fatto capovolgere, ma la rafficanon è durata a lungo e non abbiamo riportato danni, senon alla vela di trinchetto che si è strappata. Dirk Peters siè mostrato molto gentile con Augustus per tutto il giorno,si è tratte nuto con lui a lungo a parlare del Pacifico e delleisole che ha visitato. Gli ha chiesto se non sarebbe statocon tento di fare un viaggio laggiù, ma ha anche aggiuntoche l’equipaggio sembrava propenso a seguire piuttosto la

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volontà del secondo. Augustus gli ha subito detto che sa-rebbe stato felice di vedere quei posti, che gli sembrava lacosa migliore e che comunque tutto sarebbe stato megliodella vita da pirata.4 luglio. La nave segnalata non era che un piccolo brigan-tino proveniente da Liverpool, che è lasciato proseguiresenza problemi. Augustus ha passato la maggior parte deltempo sul ponte per capire cosa volevano fare gli ammu-tinati; ci sono state violente discussioni e in seguito a unadi queste un fiociniere, Jimm Bonner, è stato gettato inmare. Il partito del secondo ha guadagnato terreno, per-ché Bonner stava col cuoco e con Peters.5 luglio. All’alba si è alzato da ovest un vento che a mez-zogiorno è diventato tempesta e il brigantino ha tenutosolo le vele di senale e trinchetto. Cazzando la vela di gab-bia, Simms, uno dei seguaci del cuoco, completamentesbronzo, è caduto in mare ed è an negato senza nessunoabbia mosso un dito per salvarlo. A bordo sono rimastiin tredici: da una parte Dirk Peters, Seymour, il cuoco,Jones, Greely, Hartmann Rogers e William Allen; dall’al-tra il secondo, di cui non ho mai saputo il nome, AbsalomHicks, Wilson, John Hunty e Richard Parker; infine, io eAugustus.6 luglio. La tempesta è durata per l’intera giornata, sof-fiando rabbiosamente, accompagnata da pioggia. Il bri-gantino ha imbarcato una buona quantità d’acqua e unadelle pompe di sentina ha dovuto lavorare tutto il tempoe, giunto il suo turno, Augustus ha pompato come glialtri. Nella nebbia una grande nave ci è passata vicina,ma quando l’abbiamo avvistata non più a por tata divoce. Si suppone che fosse la nave che gli ammutinatistavano aspettando; il secondo ha chiamato da lontano,

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ma il frastuono della tempesta ha impedito di udire larisposta. Alle undici, un’ondata ha colpito violente-mente la murata a babordo danneggiandola. Verso mat-tina il vento sembrava essersi finalmente calmato.7 luglio. Per tutto il giorno siamo stati in balia di gigan-tesche ondate e il brigantino, essendo quasi vuoto, rol-lava in modo pazzesco: dalla mia cuccetta sentivodistintamente i movimenti del carico in stiva e io stessoho sofferto il mal di mare. Peters si è trattenuto a lungocon Augustus, informandolo che due uomini della suaparte, Greely e Allen, erano passati dall’altra, col se-condo, e avevano scelto di diventare pirati. Ha fatto adAugustus delle proposte che lui non ha capito bene.Verso sera la nave ha cominciato a imbarcare acqua daalcune e l’acqua filtrava anche attraverso il fasciame diprua. Le cose sono migliorate quando abbiamo issatouna vela a prua.8 luglio. Al sorgere del sole una leggera brezza si è alzatada est e il secondo ha fatto mettere la prua a sud-ovestcon l’intenzione di raggiungere una delle isole delle An-tille, per iniziare il suo piano piratesco. Per quanto nesapeva Augustus, Peters e il cuoco non si sono opposti.L’idea di abbordare la nave di Capo Verde è definitiva-mente tramontata. Nel corso della giornata sono stateavvistate due piccole golette.9 luglio. Bel tempo; tutti sono occupati a riparare la mu-rata a babordo. Peters ha fatto di nuovo una lungachiacchierata con Augustus ed è stato più esplicito dellealtre volte: ha detto che per niente al mondo avrebbemai condiviso le idee del secondo e ha pure lasciato ca-pire che meditava di strappargli il comando del brigan-tino, anzi ha chiesto al mio amico se in quel caso poteva

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contare su di lui. Senza esitare Augustus ha risposto disì e Peters, dopo avergli detto che ne avrebbe parlatocoi suoi uomini, se n’è andato e non si è più visto pertutto il giorno.

Capitolo 7

10 luglio. Avvistato un brigantino proveniente da Rio,con destinazione Nor folk. Tempo coperto con una leg-gera brezza da est. Oggi è morto Hartmann Rogers; alleotto è stato preso da convulsioni dopo aver bevuto ungrog. Era uno degli uomini dalla parte del cuoco, unodi quelli su cui Peters contava di più; quest’ultimo hadetto ad Augustus che sospettava che il secondo l’avesseavvelenato, e che temeva di fare la stessa fine se nonstava in guardia. Nel suo gruppo erano rimasti solo lui,Jones e il cuoco, mentre nel partito opposto erano sette.Aveva parlato a Jones della sua idea di strappare al se-condo il comando del brigantino, ma la sua propostaera stata accolta con freddezza e si era guardato benedall’insistere o di farne parola col cuoco. Non se ne do-vette pentire, perché nel pomeriggio il cuoco parve de-terminato a unirsi al partito del secondo, come di fattoavvenne.Per parte sua, Jones non mancò di rimproverare Peters,lascian dogli anzi comprendere che avrebbe potuto rive-lare al secondo il suo piano. Occorreva quindi agire alpiù presto, e avendo Peters detto ad Augustus che eradeciso a riprendere il controllo della nave a qualunquecosto purché qualcuno lo avesse aiutato, il mio amico lorassicurò che lo avrebbe appoggiato in tutto e, rite-

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nendo fosse il momento giusto, lo informò della miapresenza a bordo.Il mezzosangue si mostrò sorpreso e al tempo stessocontento, perché non po teva più fare assegnamento suJones, che riteneva già gua dagnato alla causa avversa.Scesero subito nel castello di prua, dove Augustus michiamò per nome. In breve tempo Peters e io dive-nimmo buoni amici. Fu deciso che avremmo tentato diriprendere la nave alla prima occasione, escludendoJones dai nostri piani. In caso di successo, avremmocondotto il brigantino nel primo porto e consegnato alleautorità; la sconfitta del suo partito aveva costretto Pe-ters a rinunciare ai suoi progetti sulle isole del Pacifico,per ché la spedizione avrebbe richiesto un equipaggio, eora Peters sperava di farsi riconoscere incapace di in-tendere e di volere – e di fatto confessò la sua demenzaper aver appoggiato gli ammutinati – oppure, nel casoin cui fosse riconosciuto colpevole, sperava di ottenereclemenza con l’intercessione di Augustus e me.Improvvisamente fummo interrotti dal grido: «Tuttol’equipaggio alle vele!» Peters e Augustus si lanciaronosul ponte. Come al solito, quasi tutti gli uomini eranoubriachi e, prima che le vele fossero convenientementeserrate, una violenta raffica aveva già fatto sbandare ilbrigantino su un fianco. Si raddrizzò presto, ma avevagià imbarcato molta acqua. Appena raddrizzato, una se-conda e poi una terza raffica si abbatterono sulla navesenza causare danni. Sembrava l’inizio di una tempesta,che infatti non tardò ad arrivare e ben presto si alzò unviolento vento da nord-ovest. Tutto fu serrato come me-glio fu possibile.Al cader della notte il vento rinforzò e il mare s’ingrossò;

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Peters tornò con Augustus al castello di prua e ripren-demmo la conversazione interrotta; concordammo chesenza dubbio quello era il momento per mettere in attoil nostro progetto, per ché i nostri nemici non potevanocerto aspettarsi un tale tentativo in quelle condizioni.Le vele erano tutte ammainate e non c’era necessità dimanovrare finche non tornava il bel tempo e, nel casoin cui il nostro tentativo avesse avuto successo, avremmosempre potuto liberare uno o due degli uomini del-l’equipaggio per aiutarci a condurre la nave in un porto.Ma il problema era la grande sproporzione di forze, poi-ché eravamo solo in tre, mentre nella cabina c’eranonove uomini; inoltre, tutte le armi a bordo erano nelleloro mani, fatta eccezione per un paio di piccole pistoleche Peters portava nascoste in tasca e un lungo coltelloda marinaio che teneva sempre alla cintura dei panta-loni. Alcuni indizi – come, ad esempio, il fatto che qua-lunque cosa assomigliasse a un’arma o a un’ascia nonfosse al solito posto – facevano supporre che il secondoavesse dei sospetti, almeno riguardo a Peters, e che apet-tava l’occa sione propizia per liberarsi di lui. Era chiaroche avremmo dovuto agire al più presto possibile. Leforze pero erano troppo squilibrate perché potessimotrascurare la minima precauzione.Il piano di Peters era il seguente: sarebbe salito sulponte e avrebbe attaccato discorso con l’uomo di guar-dia, William Allen, finché gli si fosse presen tata l’occa-sione per farlo volare fuoribordo senza difficoltà e senzaru more, dopo di che saremmo saliti anche noi e cisarem mo impadroniti di tutte le armi e infine saremmocorsi a sbarrare la porta della cabina prima che oppo-nessero resistenza.

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Io non ero d’accordo, perché non potevo credere che ilse condo – che, aldilà dei suoi superstiziosi pregiudizi,era uomo molto astuto – si mostrasse in quell’occasionecosì ingenuo da farsi incastrare facilmente. Il fatto stessoche vi fosse un uomo di guardia sul ponte, secondo me,provava che il secondo era in allerta, perché – a ecce-zioni delle navi con una disciplina ferrea – non si usamettere un uomo di guardia sul ponte quando la nave èalla cappa durante una tempesta.Dovevamo comunque fare qualcosa e nel più brevetempo possibile, perché non v’era dubbio che, una voltadivenuto sospetto, Peters sarebbe stato soppresso allaprima occasione, che si sarebbe presentata facilmenteper l’equipaggio quando la tempesta si fosse calmata.Allora Augustus suggerì che Peters, con un pretestoqualunque, togliesse le catene ammassate sulla botoladella cabina; questo ci avrebbe permesso di sorprenderlipassando dalla stiva; ma, dopo averci riflettuto, conve-nimmo che il rollio e il movimento della nave eranotroppo violenti per riuscire nell’impresa.Fortunatamente mi venne l’idea di giocare sulla super-stizione e la cattiva coscienza del secondo. Il lettore ri-corderà che uno dei marinai, Hartman Rogers, eramorto quel mattino stesso in preda alle convulsioni,dopo aver bevuto alcool misto ad acqua. Peters ci avevadetto che per lui quella morte era dovuta all’avvelena-mento da parte del secondo, anzi affermava che le suededuzioni erano fondate su degli indizi certi che nonriuscimmo a strappargli di bocca; il categorico silenzioin cui si chiuse in quell’occasione dà, in qualche modo,l’idea del personaggio. Ma noi, senza sapere se i suoi so-spetti fossero più o meno fondati, ci lasciammo facil-

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mente convincere e ci muovemmo di conseguenza.Rogers era morto verso le undici del mattino dopo vio-lente con vulsioni e, pochi minuti dopo la morte, il corpoaveva l’aspetto più spaventoso e disgustoso che mi ri-cordi. La pancia si era gonfiata oltre misura, come quelladi un annegato che fosse ri masto in acqua per più setti-mane. Le mani erano ugualmente gonfie mentre la pelledel viso era tutta cosparsa di una sottile peluria, segnatada rughe e con uno strano colore biancastro, con qua elà larghe chiazze di un colore rosso vivo, simili a quelleche produce la psoriasi. Una di queste chiazze gli attra-versava la faccia in diagonale e co priva per intero unodegli occhi, come una striscia di velluto rosato, ed erain questo stato ripugnante che il corpo era stato depostonella cabina, prima di essere gettato in mare. Quando ilsecondo vide il cadavere fu certamente assalito da ri-morsi o rimase spaventato davanti a quell’orribile spet-tacolo, perché ordinò subito ai suoi uomini di cucire ilmorto in un sacco e di fargli un funerale come si usa inmare. Impartiti questi ordini, tornò giù in cabina, comese non sopportasse la vista della sua vittima. Mentre gliuomini si preparavano a ubbidirgli, la tempesta avevaraddoppiato d’intensità e il funerale dovette essere ri-mandato. Il corpo, abbandonato a se stesso, fu sballot-tato qua e là sul ponte, dov’è ancora adesso mentre stoscrivendo, scosso dai violenti movimenti del brigantino.Avendo elaborato il nostro piano di battaglia, ci sen-timmo in dovere di eseguirlo al più presto. Peters salìdunque sul ponte e, come si aspettava, fu immediata-mente accostato da Allen che sembrava essere statomesso lì per spiare i suoi movimenti. Il bandito venneliquidato in silenzio e nel modo più spiccio. Peters gli si

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avvicinò con aria disinvolta, come per fare una chiac-chierata, poi all’improvviso, affer ratolo per la gola, loscaraventò fuori bordo prima che avesse il tempo di lan-ciare un grido. Noi lo raggiun gemmo subito. Nostraprima preoccupazione fu cercare delle armi; ma dove-vamo muoverci con molta prudenza per evitare di urtaregli oggetti sul ponte, mentre furiose ondate si abbatte-vano sul brigantino che beccheggiava paurosamente. Ciaspettavamo inoltre, a ogni istante, di vedere il secondosalire per mettere in moto le pompe, perché era chiaroche il brigantino stava imbarcando molta acqua. Dopoqual che tempo trascorso alla ricerca di armi, avevamotrovato solo due barre delle pompe. Augustus ne preseuna e io l’altra, poi dopo avergli tolto la camicia get-tammo in mare il cadavere di Rogers.Peters e io scendemmo giù, mentre Augustus restò diguardia sul ponte, bello stesso punto occupato prima daAllen, ma volgendo le spalle all’accesso della cabina, inmodo che, se uno dei banditi fosse sa lito, potesse cre-dere che vi era sempre laggiù il loro uomo di guardia.Appena giunto in basso, m’affrettai a travestirmi inmodo da rassomigliare, in tutto e per tutto, al cadaveredi Rogers. La camicia che gli avevamo tolto ci fu moltoutile, perché di taglio particolare e facilmente riconosci-bile; somigliava, per spiegarmi meglio, a una specie dicamiciotto che si usava portare sulle altre vesti; era, intricot blu, a grandi righe bianche. L’indossai quindidopo essermi sistemato una pancia posticcia, in mododa imitare la mostruosa deformazione del cadavere ri-gonfio; per questo utilizzai delle coperte, mentre condei mezzi guanti bianchi, pieni di pezzi di stoffa, dettialle mie mani l’aspetto gonfio di quelle del morto. Fatto

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ciò, Peters mi truccò, fregandomi il viso con del gesso emacchiandolo con del sangue ricavato facendosi un ta-glio sulla punta del dito. Non dimenticammo la grandechiazza rossa che attraversava l’occhio, cosicché il mioviso era veramente terrificante.

Capitolo 8

Quando mi potei vedere a uno specchio appeso in ca-bina, alla debole luce di una torcia nautica, la mia fìsio-nomia e il ricordo della terribile realtà che incarnavo mifecero una tale im pressione che mi prese un violento tre-mito e fece una gran fatica a riacquistare il sanguefreddo indispensabile per svolgere la parte che mi eroassunto. Non c’era tempo da perdere, così io e Peterssalimmo sul ponte. Lì era tutto tranquillo e, scivolandolungo il bordo, raggiungemmo tutti e tre il portello dellacabina. Era solo socchiuso e si era fatto in modo chenon potesse essere spinto improvvisamente da fuori,mettendo sul gradino superiore dei ceppi che blocca-vano la chiusura. Ci fu facile quindi vedere all’internoattraverso le fessure dei cardini. Per fortuna non ave-vamo provato a prenderli di sorpresa, perché erano benattenti. Solo uno era addor mentato proprio in fondo allascala con accanto un fucile, mentre gli altri erano sedutisu alcuni materassi che erano stati tolti dalle cuccette egettati sul pavimento. Erano assorti in una seria conver-sazione e, pur avendo fatto bisboccia, come testimonia-vano le brocche vuote e i boccali di stagno sparsi qua elà, non erano del tutto ubriachi come al solito. Avevanotutti i loro coltelli, alcuni avevano pure delle pistole e

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numerosi fucili erano su una cuccetta a portata di mano.Per un po’ ascoltammo la conversazione prima di muo-verci, perché non avevamo ancora ben deciso se farcomparire lo pseudo Rogers al momento dell’attacco,per bloccare la loro reazione. I discorsi vertevano suiloro piani di pirateria, ma non riuscimmo a capiremolto, se non che volevano fare combutta con i marinaidella goletta Hornet e, se possibile, impadronirsi anchedi quella nave per fare progetti ancora più grandi. A uncerto punto uno ha fatto il nome di Peters e il secondogli ha risposto a voce bassa, così non abbiamo potutocapire. Aggiunse poi, a voce più alta, che non capivacosa complottasse nel castello di prua con quel moc-cioso del figlio del comandante e che, per lui, quei dueprima volavano in mare e meglio era. Nessuno rispose,ma era facile capire che le sue parole avevano il con-senso di tutta la banda e in particolare di Jones.In quel momento io ero in preda a un tremito violentis-simo, tanto più che né Augustus ne Peters – come poteirendermi conto – non sapevano che pesci prendere. De-cisi comunque di vendere cara la mia pelle e di non la-sciarmi vincere dalla paura. Il frastuono spaventosoprodotto dal vento e dalle on date che investivano ilponte ci impediva di capire quel che dicevano; in unodei rari momenti di calma, tuttavia, udimmo distinta-mente il secondo dare ordine a uno dei marinai di an-dare nel castello di prua a controllare cosa facevano queidue, perché non tollerava congiure a bordo del brigan-tino. Per fortuna il rollio della nave in quel momentoera così forte che l’ordine non poté essere eseguito im-mediata mente. A un certo punto il cuoco si era alzatodal suo pagliericcio per venirci a cercare, ma era arrivata

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un’ondata così spaventosa che avevo paura che tron-casse gli alberi, e lo mandò a sbattere la testa contro laporta di una delle cabine a babordo, con tanta forza dasfondarla.Per fortuna nessuno di noi era stato travolto dall’ondata,cosicché avemmo il tempo di ripiegare precipitosamentesul castello di prua e accordarci in tutta fretta, primache arrivasse il cuoco, o piuttosto prima che la sua testaemergesse dalla scaletta, perché non salì sul ponte. Dadove si trovava non poteva vedere che Allen non era piùal suo posto, per cui, credendolo sempre lì, si mise a ri-petere a squarcia gola ciò che il secondo gli aveva ordi-nato. E Peters gli rispose: «Sì!... sì!...» camuffando lavoce, e il cuoco ridiscese quasi subito senza sospettarenulla.I miei compagni allora arretrarono con cautela ed en-trarono nella cabina. Peters chiuse la porta alle suespalle, come l’aveva trovata. Il secondo li accolse confinta cordialità e disse ad Augustus che, in ragione dellasua buona condotta negli ultimi tempi, gli avrebbe po-tuto, d’allora in avanti, installarsi nella cabina e consi-derarsi come uno dei loro. Gli porse un bicchiere dirhum e glielo fece bere.Io vedevo e sentivo tutto, perché avevo seguito i mieiamici verso la cabina appena la porta era stata chiusa edero tornato al mio posto d’osser vazione. Avevo le duebarre delle pompe e ne avevo nascosta una vicino allascaletta per averla sotto mano nel caso ne avessi avutobisogno.Facevo appello a tutto il mio sangue freddo per non per-dere nulla di ciò che accadeva nella camera e cercavo diconcentrarmi per poter compiere bene la mia parte che

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consisteva nell’apparire ai ribelli appena Peters me neavesse dato il segnale, come era stato fin da prin cipioconvenuto. In quel momento lui stava portando la con-versazione sui particolari più raccapriccianti dell’ammu-tinamento e sulle mille super stizioni che corrono nelmondo dei marinai. Non riuscivo ad afferrare tutte le sueparole ma, dalle facce di chi ascoltava, potevo facilmenterendermi conto dell’effetto prodotto da quella conver-sazione. Il secondo era visibilmente agitato e quando, unmomento dopo, uno degli uomini fece allusione al-l’aspetto spaventoso del cadavere di Rogers, mi chiesi senon stesse per svenire.Peters gli chiese allora se non gli sembrava giunto il mo-mento di gettarlo in mare, aggiungendo che era unospettacolo orribile vederlo dimenarsi così, seguendo imovimenti della nave. A queste parole, il delinquenterespirò in modo convulso e volse lenta mente la testaverso i suoi compagni come per supplicare qualcuno disalire su per compiere quel lugubre servizio. Ma nes-suno si mosse, ed era evi dente che tutta la banda era ter-rorizzata. In quel preciso momento Peters mi diede ilsegnale ed io aprii subito la porta della scaletta e, scen-dendo senza dire una parola, piombai improvvisamentein mezzo ai banditi.L’effetto prodotto da quell’apparizione non deve mera-vigliare se si pensa alle circostanze in cui avveniva. Ge-neralmente, in casi simili, lo spettatore conserva unfondo di dubbio sulla realtà della visione che si pre sentaai suoi occhi; coltiva un po’ la speranza, per quanto de-bole, di essere vittima di un trucco e che l’apparizionenon sia in realtà una visita dall’oltretomba. Questi feno-meni si accompagnano quasi sempre a un misto di dub-

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bio e di terrore, a una paura improvvisa che le appari-zioni possano essere reali.Ma in questo caso si può immaginare come nella testadi quei miserabili non potesse sussistere alcun dubbioche l’apparizione di Rogers fosse realmente il suo cada-vere risuscitato o, per lo meno, il suo fantasma.L’isolamento del brigantino dopo l’ammutinamento, ac-centuato dal mare in burrasca, rendevano inverosimilel’ipotesi di un qualche trucco, che comunque avevanoescluso fin dall’inizio. Eravamo in mare da venti quattrogiorni e non avevamo comu nicato con una sola nave, aparte qualche richiamo da lontano. Del resto la totalitàdell’equipaggio – o per lo meno ciò che essi considera-vano la totalità dell’equipaggio, non avendo alcuna ra-gione di sospettare la presenza di un clandestino a bordo– era riunita nella cabina, a eccezione di Allen, l’uomodi guardia, e per ciò che concerneva quest’ultimo, la suataglia gigantesca – misurava sei piedi e sei pollici – eratroppo famigliare perché venisse loro l’idea di identifi-carlo con l’apparizione. Se si aggiunge a queste conside-razioni la tempesta spaventosa, la conversazionecondotta da Peters, la profonda impressione prodotta ilmattino stesso su quegli uomini dall’aspetto ripugnantedel vero cadavere, la perfezione del mio travestimento,la luce tremula della lanterna che oscillando violente-mente di qua e di là proiettava su di me ombre strane efan tastiche, si capirà insomma come l’effetto prodottodalla nostra trovata fosse oltre le nostre aspettative.Il secondo si rizzò sul pagliericcio e, senza dire una pa-rola, cadde all’indietro stecchito sul pavimento della ca-bina e una forte ondata lo fece rotolare come un cioccodi legno. Dei sette che restavano, tre soli conservarono

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all’inizio un po’ di pre senza di spirito: gli altri quattrorestarono come inchiodati al pavimento dove erano se-duti e mai vidi nella mia vita persone più terrorizzate eangosciate. I soli a resistere furono il cuoco, John Hunte Richard Parker, anche se la loro difesa fu debole e tar-diva. I primi due furono fatti fuori con un colpo di pi-stola da Peters; io invece colpii Parker alla testa con labarra che avevo portato con me. Nel frattempo Augu-stus aveva afferrato uno dei fucili sul pavimento el’aveva scaricato su uno dei rivol tosi, Wilson. Ne resta-vano quindi solo tre, che però avevano avuto il tempodi riprendersi dalla sorpresa e cominciavano sicura-mente a capire che si era trattato di un trucco, perché sidifesero con molta più rabbia e decisione e, non fossestato per la forza erculea di Peters, avrebbero finito peravere il sopravvento. I tre erano Jones, Greehly e Abso-lom Hicks. Il primo aveva atter rato Augustus, immobi-lizzandogli il braccio, e certamente avrebbe avutoragione di lui, giacché né Peters né io potevamo liberarcisubito dei nostri rispettivi avversari, quando molto op-portunamente un amico intervenne, un amico che nonci aspetta vamo di veder giungere così alla riscossa.Quell’amico non era altri che Tigre.Con un ringhio sordo, si lanciò nella cabina nel mo-mento stesso in cui Augustus stava per soccombere e,gettatosi su Jones, lo inchiodò al pavi mento. Il mio amicoera troppo provato per poterci aiutare e io stesso ero cosìimpacciato del travestimento da non potermi difenderebene. Fortunatamente il cane non abbandonò la gola diJones e Peters, per parte sua, era capace di resistere aidue uomini rimasti ed è molto probabile che li avrebbefiniti prima se non fosse stato impedito dallo spazio ri-

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stretto e dai violenti movimenti della nave. Alla fine af-ferrò uno dei pesanti sgabelli rovesciati al suolo e spaccòil cranio di Greehly, che stava per scaricare il suo fucilesu di me; poi, quando il rollio lo fece cadere su Hicks, loafferrò alla gola e in un attimo lo strangolò. Così, inmeno tempo di quanto ne abbia impiegato io a raccon-tare la scena, eravamo diventati padroni del brigantino.L’unico dei nostri avversari ancora in vita era RichardParker, che, se il lettore ricorda, era stato abbattuto dame con un colpo di barra all’inizio del combattimentoe ora giaceva immobile vicino alla porta della cabinasfondata; ma, quando Peters lo scosse col piede, ci sup-plicò di risparmiarlo. Aveva una leggera ferita alla testae nessun altro danno, perché il colpo che gli avevo datol’aveva solo stordito. Si alzò in piedi e, per il momento,non trovammo di meglio che legargli le mani dietro laschiena. Il cane continuava a ringhiare senza allontanarsida Jones, che dopo un rapido esame risultò morto e ilsangue colava a fiotti da una profonda fe rita alla gola,prodotta, senza dubbio, dai denti aguzzi dell’animale.Era circa l’una del mattino e il vento soffiava semprecon spaventosa violenza. Il brigantino faticava più delsolito a reggere il mare ed era necessario alleggerirlo.Quasi a ogni rollio sottovento imbarcava molta acquache aveva inondato anche la cabina durante la nostrabattaglia, perché io non avevo potuto chiudere il boc-caporto quando ero sceso. Il parapetto a babordo erastato spazzato via e anche la cambusa. L’albero di mae-stra, duramente provato, scricchiolava ed era evidenteche non avrebbe tardato molto a crollare. Per lasciarepiù spazio nella stiva il piede era stato fissato nel corri-doio sotto il ponte – pratica assolutamente deplorevole,

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cui pur troppo ricorrono i costruttori inesperti – ri-schiando di essere strappato dalla base.Per colmo di sfortuna, scandagliando la sentina tro-vammo non meno di sette piedi d’acqua. Lasciando i ca-daveri dei ribelli sul pavimento della cabina, corremmoalle pompe, dopo avere naturalmente liberato Parkerperché partecipasse anche lui al lavoro. Il braccio di Au-gustus fu bendato alla meglio, dopo di che ci aiutò comepoteva. Avevamo capito che, manovrando una dellepompe ininterrottamente, avremmo potuto impedire allivello dell’acqua di crescere ulteriormente. Poiché era-vamo solo in quattro, il lavoro era molto faticoso, ma,senza lasciarci scoraggiare, attendemmo l’alba con ansia,sperando di riuscire allora ad alleggerire il brigantinoabbattendo l’albero di maestra. Passammo così unanotte d’angoscia e di fatica immensa e, quando il giornoriapparve finalmente, la tempesta non si era ancora cal-mata, anzi sembrava rinforzare. Trascinammo allora icorpi dei ribelli sul ponte per gettarli in mare, poi nostraprima cura fu di liberarci dell’albero di maestra. Pren-demmo tutte le precauzioni e Peters, che aveva trovatole asce nella cabina, attaccò l’albero mentre noi, da partenostra, sorvegliavamo i puntelli e gli appoggi. Nel mo-mento in cui il brigantino prendeva una grande ondatasottovento, fu dato il segnale di tagliare gli appoggi e su-bito, tutta questa la massa di legno e di attrezzaturecadde, scuotendo tutta l’imbarcazione, ma senza tutta-via causare nessun danno serio.Costatammo allora che, se il bastimento reggeva meglioil mare, la situazione restava comunque precaria, perchénonostante gli sforzi non riuscivamo a bloccare l’acquasenza ricorrere alle pompe.

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Potevamo rallegrarci per non aver perso ancora la scia-luppa, rimasta intatta nonostante le ondate. Ma do-vemmo darci da fare perché, una volta partito l’alberodi maestra, oltre al trinchetto che assi curava al brigantinouna relativa stabilità, ogni colpo di mare si scaricava sudi noi e in pochi minuti il ponte fu battuto da un capoall’altro, la scialuppa spazzata via, il parapetto di tribordodistrutto e l’argano ridotto a pezzi ed era difficile imma-ginare una situazione peggiore.A mezzogiorno parve che la tempesta si calmasse un po’,ma la speranza fu crudelmente delusa perché la calmanon durò che qualche minuto e l’uragano tornò ancorapiù violento. Verso le quattro del pomeriggio era lette-ralmente impossibile reggerci in piedi, tanto la tempestainfuriava con rabbia.La sera non speravamo più che la nave reggesse fino almattino e a mezzanotte eravamo im mersi nell’acqua cheera salita fino al ponte inferiore. Poco dopo si spezzò iltimone e l’ondata che lo sradicò sollevò la poppa delbrigantino letteralmente fuori dell’acqua cosicché, rica-dendo, ondeggiò con una scossa simile a quella di unanave che s’incaglia. Avevamo sempre spe rato che il ti-mone reggesse, perché era di una solidità eccezionale ecostruito come non ne avevo mai visti e come non ebbipiù occasione di vedere. Lungo l’asse principale era di-sposta una serie di robusti ganci di ferro e altri, identici,lungo la ruota di poppa. Una grossa asta di ferro attra-versava questi arpioni di modo che il timone era assicu-rato alla ruota di poppa, ma si muoveva liberamente sulfusto. Si può avere un’idea della potenza spaventosa del-l’ondata che lo portò considerando che i ganci dellaruota di poppa che erano disposti su tutta la sua lun-

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ghezza e sul lato interiore furono completamente strap-pati, senza alcuna eccezione, dalla massa di legno. Ave -vamo appena avuto il tempo di respirare dopo questoterribile urto, che una delle più spaventose ondate chemi sia capitato di vedere si abbatté perpendicolarmentesul ponte, spazzando via la cabina, sfondando i boc -caporti e non lasciando niente della nostra imbarcazioneche non fosse sommerso.

Capitolo 9

Per fortuna, prima che facesse notte, ci eravamo assicu-rati con delle cime a ciò che restava dell’argano ed erastata proprio questa manovra a salvarci. Ce ne stavamodistesi tutti e quattro, aderendo il più possibile alle assidel ponte, più o meno storditi dalla spaventosa massad’acqua che si abbatteva su di noi; e quando l’acqua siritirò eravamo quasi soffocati. Appena ebbi ripreso a re-spirare normalmente, chiamai ad alta voce i miei com-pagni. Uno solo, Augustus, poté rispondermi:«Siamo perduti!... Che Dio abbia pietà delle nostreanime!»Poi, poco a poco, anche gli altri recupera rono la parola eci esortarono a riprendere coraggio, dicendo che non bi-sognava perdere la speranza, che, data la natura del ca-rico, la nave non poteva affondare e che c’erano speranzeche l’uragano si calmasse al mattino. E queste parolem’infusero una nuova vita perché era evidente che conun carico di barili vuoti una nave non può colare a picco;e tuttavia, per quanto la cosa possa sembrare strana, erotalmente sconvolto che quel fatto mi era completamente

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sfuggito e, fino a quel momento, era proprio il pericolodi affondare che mi aveva più spaventato. Rinascevaquindi in me la speranza e cercai di consolidare le cimeche mi legavano all’argano distrutto. La notte era buiapiù di quanto non si possa immaginare e nessuna pennapuò descrivere il frastuono assordante e il caos che ci cir-condavano. Il ponte era al livello del mare o, per megliodire, eravamo accerchiati da una cresta di spuma altacome una muraglia, di cui una parte si rovesciava conti-nuamente su di noi. Le teste – e non sto esagerando – nonriuscivano a emergere dall’acqua che un secondo su tre,e, quantunque fos simo stretti gli uni agli altri, nessuno dinoi poteva vedere il suo vicino né alcuna parte del bri-gantino sul quale eravamo così violentemente sbattuti. Ditanto in tanto ci chiamavamo l’un l’altro, sforzandoci diravvivare la speranza in quello di noi che ne aveva più bi-sogno e di dargli un po’ di conforto. Ci preoccupava ladebolezza di Augustus; le ferite del braccio destro dove-vano impedirgli di reggersi abbastanza forte agli appiglie temevamo che da un momento all’altro cadesse in mareperché ci sarebbe stato impossibile aiutarlo. Per fortunaera nel posto più sicuro della nave e aveva la parte supe-riore del corpo protetta dall’argano, che attenuava la vio-lenza delle ondate che si abbattevano su di lui. Era finitolì solo per caso, dopo aver cercato di raggiungere unpunto che certamente sarebbe stato molto pericoloso perlui e dove sicuramente sarebbe morto prima dell’alba. Losbandamento del brigantino a babordo faceva sì che fos-simo meno esposti alla furia del mare. Ho già detto comela nave e la metà del ponte fossero costantemente som-merse e le ondate che ci arrivavano da tribordo erano, inlarga misura, attenuate dal fianco della nave; stando di-

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stesi, il viso contro il ponte, ci bagnavano soltanto, mentrele onde che venivano da ba bordo erano semplici rigurgitie, data la posizione, non potevano esercitare su di noi unaforza tale da farci mollare gli appigli. Restammo dunquecoricati in quelle spaventose condizioni fino all’ap pariredel giorno che ci rivelò, ancora più manifesto, l’orroreche ci cir condava. La tempesta infatti continuava a cre-scere, divenendo un vero e proprio uragano e ci sembravaimpossibile sopravvivere.Passammo molte ore così, in silenzio, temendo a ogniistante di perdere i nostri appigli e di vedere i resti del-l’argano volare in mare e una delle enormi ondate cheprovenivano da tutte le direzioni spingere il ponte cosìprofondamente sott’acqua da farci annegare prima di ri-salire alla superficie. Con l’aiuto di Dio riuscimmo asfuggire tutti questi pericoli e a mezzogiorno avemmo lagioia di vedere la luce benedetta del sole. Poco dopo ilvento calò sensibilmente e, per la prima volta dalla seraprecedente, Augustus prese la parola per chiedere a Pe-ters, che era disteso vicino a lui, se pensava che ci restasseancora qualche possibilità di salvezza. Inizialmente ilmezzosangue non rispose e pensammo che fosse anne-gato; poi finalmente, con nostra grande gioia, riuscì aparlare, pur con voce debolissima, e ci disse che stavamalissimo, che le cime strette intorno alla pancia gli ta-gliavano la carne e che doveva assolutamente scioglierle,a costo di morire, perché non poteva più sopportare ildolore. Questo ci addolorò perché non potevamo aiu-tarlo in alcun modo, finché il mare non si fosse calmato.L’incoraggiammo dunque a stringere i denti, prometten-dogli di aiutarlo appena fosse stato pos sibile e lui risposeche ogni momento poteva essergli fatale, che tutto sa-

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rebbe finito prima che avessimo il tempo di soccorrerloe, detto ciò, si lamento per alcuni istanti ancora e poi tac-que, cosicché pensammo che fosse morto.Con l’avvicinarsi della sera il mare si era calmato alpunto che soltanto ogni tanto una striscia d’acqua ve-niva a urtare contro lo scafo dalla parte del vento, che asua volta aveva ridotto l’intensità. Erano già trascorsemolte ore senza che udissi la voce dei miei compagni:preoccupato, provai a chiamare Augustus, che mi ri-spose con una voce così debole che non potei compren-dere cosa diceva. Mi rivolsi poi a Peters e a Parker, manessuno dei due rispose alla mia domanda.Poco dopo caddi in uno stato di semincoscienza durantela quale mi si presentarono le più soavi visioni: alberiverdi, pianure ondeggianti di grano maturo, cortei dibal lerine, schiere di cavalieri e altre simili fantasmagorie.Ora mi rendo conto che tutto ciò che si presentava allamia mente era dominato dal movimento: i soggetti deimiei sogni non erano mai cose immobili come una casa,una mon tagna; erano, al contrario, mulini a vento, va-scelli, grandi uccellacci, persone a cavallo, carrozze lan-ciate a folle velocità e altri oggetti mobili che si offrivanoalla mia vista in una sequenza interminabile.Quando mi svegliai il sole si era già levato da un’ora efu con grande difficoltà che potei rendermi conto dellamia situazione; per un po’ credevo di essere sempre infondo alla stiva, nella mia cassa, e che il corpo di Parkerfosse quello di Tigre. Quando tornai pienamente in me,mi accorsi che il vento non era più che una brezza moltomoderata e che il mare era rela tivamente calmo, cosic-ché il brigantino imbarcava acqua solo da una parte. Ilmio braccio sinistro non era più legato ed era molto

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scor ticato all’altezza del gomito; quello destro era an-cora intorpi dito, mentre la mano e il pugno erano moltogonfi per la stretta della cima. Anche la corda che avevostretto alla vita mi dava molta noia e non riuscivo a sop-portarla.Cercai con lo sguardo i miei compagni e vidi che Petersera ancora vivo, pur avendo le reni così spaventosa menteserrate da una cima da sembrare tagliato in due; appenapotei fare un movimento, mi fece un debole gesto con lamano, per mostrarmi la sua corda. Augustus non dava piùsegno di vita: era ripiegato su se stesso intorno a un pezzodell’argano. Vedendo che mi movevo, Parker mi chiese sece la facevo a liberarlo perché – di ceva – se avessi potutostringere i denti e liberarlo, avremmo avuto ancora qual-che spe ranza di salvezza; in caso contrario, saremmo statitutti inevitabilmente condannati. Lo invitai a farsi corag-gio, assicuran dolo che avrei fatto di tutto per liberarlo; di-fatti, esplorando la tasca dei pantaloni trovai un temperinoe, dopo molti ten tativi infruttuosi, riuscii ad aprirlo. Conla mano sinistra riuscii a liberarmi il braccio e questo mipermise di tagliare tutti gli altri lacci; ma, quando vollicambiare posizione, sentii che le gambe mi manca vano eche non avrei potuto più rialzarmi o muovere il braccioin nessun modo. Lo feci allora notare a Parker, che miconsigliò di starmene fermo per alcuni istanti, aggrappan-domi con la mano sinistra all’argano per permettere al san-gue di riprendere la sua circolazione. Così feci e lo stranointorpidimento pian piano scomparve e potei muovereuna gamba, poi l’altra e fi nalmente, recuperare in unacerta misura l’uso del braccio destro. Mi trascinai alloraverso Parker con la più grande prudenza, senza drizzarmisulle gambe, tagliai tutte le cime che l’avvolgevano e presto

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poté recuperare l’uso degli arti. Senza perdere un istante,tagliammo poi la corda di Peters, che si era conficcata pro-fondamente nella carne attraverso la cin tura dei pantalonidi lana e la camicia che, quando la togliemmo, il sanguesgorgò in abbondanza. Ma appena liberato, Peters potéparlare, mostrandosi molto sollevato, e fu ben presto incondizioni di muoversi con molta più facilità di Parker eme, cosa da attribuire senza dubbio al copioso salasso cheaveva appena subito.Avevamo poca speranza di vedere Augustus tornare insé, perché non dava alcun segno di vita. Ma, avvicinan-doci a lui, capimmo che era solo svenuto per un’emor-ragia, dato che le bende con cui avevamo fasciato ilbraccio ferito erano state strappate con violenza dall’ac-qua. Dopo averlo sciolto e sbarazzato dai resti dell’ar-gano, lo mettemmo al sicuro dalla parte del vento, in unluogo asciutto, con la testa china sul corpo e ci demmoda fare tutti e tre a frizionargli gli arti. Dopo circa unamezz’ora di questi sforzi, riprese i sensi, ma fu solamenteall’indomani mattina che sembrò riconoscerci e che ri-cuperò la parola.Nel frattempo, mentre eravamo intenti a liberarci, erascesa la notte; il cielo cominciava a coprirsi di nuovo eavevamo una terribile paura che il vento aumentasse,perché in quel caso nulla più avrebbe potuto strapparcialla morte, deboli come eravamo. Fortunatamente ilvento restò moderato per tutta la notte e il mare si calmò,e questo che ci fece nutrire la speranza di cavarcela.Una piacevole brezza soffiava sempre da nord-ovest enon faceva affatto freddo. Augustus fu assicurato all’ar-gano con la massima attenzione, per evitare che cadessein mare per il rollio della nave; era ancora troppo debole

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per reggersi da solo. Quanto a noi, non era affatto ne-cessario: ci stringemmo gli uni contro gli altri, legandocicon le corde recuperate dall’argano e ci consultammosul modo per uscire da quella deplorevole situazione.C’eravamo tolti i vestiti e li avevamo strizzati, traendonegrande vantaggio, perché così divennero più caldi e co-modi, contribuendo pian piano a rimetterci completa-mente in forze; aiutammo Augustus a fare altrettanto,strizzammo i suoi vestiti e anch’egli ne ebbe lo stessobeneficio.Adesso soffrivamo molto la fame e la sete e, quandopensavamo a cosa fare per rimediarvi, ci mancava il co-raggio e rimpiangevamo quasi di essere sfuggiti alleonde, al confronto molto meno pericolose. Cercammoconforto nella speranza di essere strappati dalla nostrasituazione da qualche nave di passaggio ed esortandocia sopportare con forza le calamità che ancora ci aspet-tavano.Giunse finalmente il mattino del 14 luglio e il tempo siconservava bello e gradevole, con una brezza che si sof-fiava da nord-ovest, ma molto dolce. Il mare si era com-pletamente calmato e il brigantino, qualunque fosse lacausa, che non potevamo conoscere, non era più sbandatoe il ponte era un po’ più asciutto, così potevamo andare evenire liberamente. Erano ormai trascorsi tre giorni e trenotti senza bere e mangiare e volevamo ispezionare la neveper trovare qualcosa. Ma era completamente allagata e cimettemmo al lavoro senza grandi speranze: costruimmouna specie di draga con due assi ove avevamo piantato deichiodi strappati ai resti di un portello; le assi erano dispo-ste perpendicolari e, dopo averle assicurate all’estremitàdi una cima, le gettammo nella cabina, tirandole da una

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parte all’altra nella speranza di raccogliere qualcosa damangiare, o almeno che ci aiutassero a trovarne. Pas-sammo gran parte della mattinata in questa pesca, masenza successo, non avendo trovato che alcune coperteche i chiodi avevano agganciato, e convenimmo che la no-stra invenzione era troppo rudimentale per essere utile aqualcosa.Facemmo la stessa prova nel castello di prua, senza mi-gliori risultati e già cominciavamo a disperarci, quandoPeters propose di legarsi a una cima per entrare nellacabina e provare a pescare qualcosa e la proposta fu ac-colta con l’entusiasmo che può ispirare una nuova spe-ranza. Cominciò quindi a spogliarsi, restando con i solipantaloni, e gli venne passata intorno alla cintura unacorda solida e assicurata sopra le spalle perché non sci-volasse. L’operazione non era facile perché non pote-vamo sperare di trovare molte provviste in cabina,ammesso che ve ne fossero; bisognava dunque chel’esploratore, per così dire, dopo esser sceso, girasse adestra e facesse sott’acqua un tragitto di dieci o dodicipiedi attraverso uno stretto corridoio, per raggiungerela cambusa e tornare indietro, sempre senza respirare.Quando tutto fu pronto, Peters scese nella cabina attra-verso la scaletta e, quando l’acqua gli arrivò al mentos’immerse del tutto e girò a destra, cercando di raggiun-gere la cambusa; ma il primo tentativo andò a vuoto.Mezzo minuto dopo la sua sparizione, sentimmo unascossa alla corda che lo tratteneva; era quello il segnaleperché lo tirassimo su. Lo issammo dunque in tuttafretta, tanto che si procurò delle contusioni lungo lascala, e tornò a mani vuote perché aveva potuto muo-vere solo qualche passo nel corridoio per gli sforzi che

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doveva fare per evitare di risalire e andare a battere con-tro il ponte; riemerso dall’acqua, era allo stremo delleforze e dovette fare una pausa di un buon quarto d’ora,prima di arrischiarsi a ridiscendere.Il secondo tentativo fu anche più sfortunato. Restò alungo sott’acqua senza dare il segnale e noi, temendoper la sua sorte, lo tirammo su di nostra iniziativa; seavessimo tardato ancora un po’, sarebbe rimasto asfis-siato. A quanto pare, aveva dato più strattoni alla cordasenza che ce ne fossimo accorti, probabilmente perchéuna parte della corda si era attorcigliata al passamano,all’estremità della scaletta. Quel passamano ci ostaco-lava a tal punto che decidemmo di strapparlo prima diricominciare le operazioni e, poiché per far quello po-tevamo contare solo sulle nostre braccia, dovemmoscendere tutti insieme in acqua, spingendoci più avantipossibile, tirando con tutte le forze per demolirlo.Anche il terzo tentativo non ebbe più successo dei pre-cedenti e fu chiaro che non saremmo arrivati a nulla sechi s’immergeva non si fosse munito di un peso che glipermettesse in basso sul pavimento della cabina. Cer-cammo invano e a lungo qualche oggetto utile a questoscopo e finalmente trovammo una delle catene di mez-zana e, poiché dondolava già, ci fu facile strapparla perintero.Peters quindi la legò solidamente a una delle caviglie edeffettuò la sua quarta esplorazione nella cabina: stavoltariuscì a raggiungere la cambusa, ma con disappunto latrovò chiusa e fu costretto a tornare indietro perché, no-nostante gli sforzi, non avrebbe potuto restare sott’ac-qua un minuto di più. La nostra situazione si facevasempre più tragica e Augustus ed io non riuscivamo a

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trattenere le lacrime all’idea delle difficoltà e delle pocheprobabilità di salvezza che ci restavano. Ci inginoc-chiammo quindi per pregare Dio e implorare il suo soc-corso e, rialzandoci dopo quella breve preghiera, cisentimmo rinvigoriti e pronti a cercare nuovi modi persopravvivere.

Capitolo 10

Poco dopo successe qualcosa che, anche ora, a distanzadi tempo, provoca in me un’emozione perché, se all’iniziofu una grande gioia, poi si rivelò fonte di grande paura.Eravamo sul ponte, vicino al portello della cabina, di-scutendo su come raggiungere la cambusa, quando, al-zando gli occhi su Augustus, di fronte a me, vidi che eraimprovvisamente impallidito e che le labbra tremavanoin modo strano. Gli rivolsi la parola fortemente preoc-cupato, ma non rispose e già cominciavo a immaginarequalche nuova disgrazia, quando mi accorsi della stranaluce dei suoi occhi, che fissavano un oggetto alle miespalle. Guardai da quella parte e non dimenticherò mail’euforia che mi prese quando scorsi un grande brigan-tino che si dirigeva verso di noi e che non era a più didue miglia! Mi alzai e, tendendo le braccia verso la nave,rimasi immobile in quella posizione senza articolare pa-rola. Anche Peters e Parker avevano avuto una reazioneanaloga, anche se la manifestavano in modo diverso:ilprimo danzava sul ponte come un pazzo, proferendo lepiù stravaganti sciocchezze, intercalate via via a urla eimprecazioni; l’altro invece scoppiò in lacrime e per unpezzo continuo a singhiozzare come un bambino.

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La nave avvistata era in un grande brigantino-goletta, dicostruzione olandese, dipinto di nero e con una polenadorata. Aveva evidentemente affrontato una tempesta eimmaginammo che si trattasse dello stesso l’uragano cheavevamo incontrato noi, perché il piccolo albero di coffaera stato strappato, come pure una parte della muratadi tribordo. Quando l’avvistammo era a circa due migliasopravvento, diretto verso di noi, e poiché la brezza eramolto leggera, ci meravigliammo che avesse spiegatosolo la piccola vela prodiera e la randa; era molto lentoe la nostra impazienza si trasformò in vera e propria fre-nesia. Nonostante l’emozione, non potemmo fare ameno di notare il modo maldestro in cui era condotto:i suoi movimenti facevano pensare che non ci avessevisto, oppure che, non scorgendo persone a bordo, fossesul punto di virare in tutt’altra direzione. Quando noi,presi dalla paura, ci mettevamo a urlare a squarciagolala strana nave sembrava per un momento cambiare ideae dirigere di nuovo verso di noi. Questa manovra si ri-peté due o tre volte e alla fine avevamo concluso che iltimoniere doveva essere pazzo.Fino a che la nave non fu a un quarto di miglio da noi,non potemmo scorgere nessuno sul ponte e solo alloravedemmo tre marinai che, a giudicare dal loro costume,dovevano essere olandesi: due erano distesi su vecchievele vicino il castello di prua; il terzo invece era chino atribordo, vicino al bompresso, e sembrava studiarci conmolta curiosità. Era un uomo alto e ben proporzionato,dalla pelle molto scura; sembrava volerci incoraggiare,facendo cenni con la testa in modo gioviale anche sestrano, senza cessare per un istante di sorridere, comeper mostrare in tutto il loro splendore la fila di denti

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bianchi. Mentre la nave si avvicinava, vedemmo il suoberretto rosso cadere in mare, ma lui non parve preoc-cuparsene più di tanto e continuò coi sorrisi e la stranamimica. Il lettore mi perdoni questi dettagli, ma sononecessari perché si comprendano bene i fatti.Adesso il brigantino procedeva lento, ma con una dire-zione più sicura. Ancora oggi non riesco a rievocarequesto episodio senza una forte emozione: sentivamo icuori sobbalzare freneticamente ed emettevamo gridadi gioia e ringraziamenti a Dio per l’insperata salvezzache si prospettava ai nostri occhi. Ma d’un tratto, por-tato dal vento, ci giunse dalla misteriosa imbarcazioneormai vicina un odore, un fetore tale che non so trovareparole per definirlo: infernale, soffocante, intollerabile,per dare l’idea. Per respirare mi voltai verso i miei com-pagni e vidi che erano bianchi come il marmo, ma nonavevamo tempo da perdere in discussioni o congetture:il brigantino era solo a una cinquantina di piedi da noie sembrava volersi accostare per farci salire a bordosenza mettere in acqua una scialuppa. Ci slanciammo apoppa, ma una forte ondata lo deviò di cinque o seigradi dalla rotta e, quando fu a circa venti piedi di di-stanza, potemmo gettare un occhio sul ponte. Non di-menticherò mai l’orrore di quello spettacolo!Venticinque o trenta cadaveri, fra cui alcune donne, gia-cevano sull’assito nel più ripugnante stato di putrefa-zione. Nessuno – lo vedemmo con certezza – nessunoera vivo in quella maledetta nave e tuttavia non po-temmo fare a meno di chiedere aiuto a quei cadaveri.Sì, per lungo tempo e con intensità, nell’agonia della no-stra condizione, abbiamo supplicato quegli spettri taci-turni e ripugnanti di arrestarsi per prenderci a bordo,

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di non lasciarci diventare come loro, di accordarci laloro generosa ospitalità. L’orrore, la disperazione ci fa-cevano delirare, l’angoscia della nostra spaventosa de-lusione ci rendeva completamente pazzi.Al nostro primo urlo di terrore rispose qualcosa che sem-brava partire dal bompresso del brigantino, qualcosa diperfettamente simile a un grido umano, che anche l’orec-chio più esercitato si sarebbe ingannato. Una nuova eimprovvisa ondata riportò per alcuni minuti sotto i nostriocchi il castello di prua e avemmo la spiegazione di quelgrido. Ci apparve di nuovo la figura alta e robusta, chesi sporgeva dal parapetto oscillando sempre la testa, macol viso adesso rivolto verso di noi in modo che pote-vamo vederlo bene. Le braccia erano allungate, i palmipenzolavano rivolti all’indietro; la camicia era strappatasulla schiena e si vedeva la carne; accanto, sulla schiena,era posato un enorme gabbiano, impegnato a cibarsi del-l’orribile cibo, il becco e le zampe affondate quasi perintero nel corpo del cadavere, mentre le penne biancheerano macchiate di sangue.Il brigantino continuava a bordeggiare intorno a noicome se avesse voluto vederci più da vicino: allora l’uc-cello, dopo aver distolto con uno sforzo la testa rossadall’orrido banchetto e averci guardato un momentocon aria stupida, si alzò in volo lentamente dal cadaveree prese a volteggiare sopra il nostro ponte, tenendo nelbecco un lembo di carne sanguinolenta che alla finecadde e si spiaccicò con un rumore flaccido e sinistroproprio ai piedi di Parker. Dio mi perdoni! In un primomomento ebbi allora un pensiero che non oso formularee mi sorpresi a muovere un passo verso quella macchiasanguinolenta.

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Alzando gli occhi, vidi lo sguardo di Augustus carico diun rimprovero così intenso e così perentorio che presiimmediatamente coscienza di ciò che stavo facendo; feciun balzo in avanti e, tremando, lanciai la cosa spaventosain mare. Il corpo da cui proveniva quel lembo di carne,in equilibrio sul parapetto, si muoveva in qua e là sottole beccate del gabbiano e per quello in un primo mo-mento l’avevamo creduto vivo. Liberato dal peso del gab-biano, girò in parte su se stesso, permettendoci di vederloin viso. Mai, mai, ebbi occasione di vedere uno spettacolopiù terrificante! Gli occhi erano scomparsi e la carne in-torno alla bocca era stata divorata lasciando i denti com-pletamente scoperti. Era dunque questo il sorriso che ciaveva fatto rinascere alla speranza! era dunque questo...Ma qui mi fermo. Il brigantino, come già detto, passò apoppavia e proseguì il suo cammino lento e regolare sottoil vento, e con esso e con il suo equipaggio terrificantescomparvero le nostre visioni salvifiche. Data la sua rottaesitante, avremmo potuto anche abbordarlo in un modoo nell’altro, ma la delusione e l’orrore di quanto avevamointravisto ci avevano completamente paralizzato. Ave-vamo visto e sentito, ma non fummo, ahimè, in grado diagire e pensare, se non quando era troppo tardi. Il lettorecapirà quanto la nostra testa fosse indebolita da questosemplice particolare: la nave era già molto lontana e re-stava visibile solo metà dello scafo, quando ci venne l’ideadi gettarci a nuoto per raggiungerla e per poco non lamettemmo in pratica.Da allora ho cercato di sciogliere il terrificante misterodi quel brigantino sconosciuto. Le sue dimensioni e ilprofilo ci fecero supporre, come ho già detto, che fosseun mercantile olandese e il costume degli uomini del-

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l’equipaggio accreditava questa nostra ipotesi. Ci sa-rebbe stato facile di leggere il suo nome a poppa e dicogliere altri dettagli che ci avrebbero permesso di iden-tificarlo, ma la forte emozione ci fece perdere di vistatutto quanto avrebbe potuto illuminarci. Il colore gial-lastro di alcuni dei cadaveri che non erano ancora com-pletamente putrefatti ci fece pensare che tutti a bordofossero morti per la febbre gialla o qualche altra analogaepidemia. Se così era stato – e non vedo possibile altraipotesi – la morte era avvenuta con una fulminante ra-pidità, a giudicare dalla posizione dei corpi, senza alcunanalogo precedente nella storia delle pestilenze di cuil’umanità abbia conservato il ricordo.È anche possibile che un veleno introdotto accidental-mente nelle provviste di bordo sia all’origine della tra-gedia; può darsi infine che quegli infelici avesseromangiato qualche pesce di una specie sconosciuta e ve-lenosa, un animale o un uccello marino. Ma non haalcun senso imbastire delle ipotesi su un fatto che è e ri-marrà per sempre ignoto, un terrificante e insondabilemistero.

Capitolo 11

Passammo il resto della giornata in una specie di letargoinstupidito, scrutando il mare alla ricerca di possibili navifinché l’oscurità, nascondendolo ai nostri occhi, ci ri-portò alla realtà. I morsi della fame e della sete ci assali-rono ancora più forti, passando in secondo piano le altrepreoccupazione. Non potendo fare nulla fino al mattino,ci sistemammo alla meglio, cercando di riposarci un po’.

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Aldilà di quanto potessi sperare, io dormii fino all’alba,quando i miei compagni – che non erano altrettanto co-modi – mi svegliarono per fare altri tentativi di raggiun-gere i viveri nella cambusa.Il tempo era bellissimo; non avevo mai visto un marecosì calmo; la temperatura era gradevole e il brigantinoolandese ormai fuori di vista. La prima preoccupazionefu di scardinare due delle catene a prua, che venneroagganciate ai piedi di Peters; fatto ciò, lui cercò ancorauna volta di raggiungere nel minor tempo possibile ilportello della cambusa, tentando di sfondarlo, e contavadi riuscirci, perché il brigantino era molto più stabile diprima. Raggiunse così abbastanza rapidamente il por-tello e, strappando dalla sua caviglia una delle catene,se ne servì per forzarlo, ma inutilmente, perché il legnoera molto più solido di quanto si potesse immaginare.Risalì dunque completamente sfinito per la lunga im-mersione e si presentò la necessità di sostituirlo in quellapericolosa missione. Parker si propose subito, ma dopotre discese dovette tornare indietro senza aver potutoraggiungere il portello. Data la ferita al braccio, Augu-stus era impossibilitato a tentare una discesa poiché,quand’anche fosse riuscito a raggiungere il portello, nonsarebbe mai riuscito a sfondarlo. Toccava dunque a meimpegnarmi per la salvezza comune.Peters aveva lasciato una delle catene nel corridoio e ap-pena mi fui immerso, mi resi conto di non essere abba-stanza zavorrato per procedere nell’acqua. Decisidunque, come primo tentativo, di cercare la seconda ca-tena. Procedendo tastoni in lungo e in largo sul pavi-mento del corridoio, sentii un oggetto duro che afferraisubito, non avendo il tempo di verificare cosa fosse, do-

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podiché mi girai e tornai in superficie. Avevo trovato unabottiglia e il lettore può immaginare con quale gioia co-statammo che era piena di vino di Porto! Dopo aver resograzie a Dio per quell’aiuto opportuno e prezioso, laaprimmo subito servendoci del mio temperino e un pic-colo sorso bastò a darci un conforto indicibile confortoe calore. La bottiglia fu poi richiusa con cura e appesain modo che non si rompesse.Riposatomi in attimo, scesi di nuovo e incappai nella se-conda catena, risalii subito e l’attaccai alla caviglia per ef-fettuare una terza discesa, ma questa volta convinto chenon sarei mai giunto alla porta della cambusa. Tornai suscoraggiato; dovevamo ormai abbandonare ogni spe-ranza, e potei leggere sul viso dei miei compagni l’ombradella morte. Il sorso di vino aveva prodotto in loro unaspecie di delirio da cui io ero rimasto indenne grazie al-l’immersione. Facevano discorsi sconclusionati, su argo-menti che non avevano nulla a che vedere con la nostrasituazione. Peters, ad esempio, mi fece una serie di do-mande su Nantucket; anche Augustus – ricordo – si av-vicinò a me con la massima serietà chiedendomi unpettinino perché aveva i capelli pieni di scaglie di pesce evoleva sbarazzarsene prima di sbarcare. Parker sembravaun po’ meno sconvolto e m’incoraggiava a immergermiancora una volta per riportare tutto ciò che c’era in ca-bina. Acconsentii e al primo colpo, dopo un’apnea dioltre un minuto, recuperai una valigetta di cuoio che ap-parteneva al capitano Barnard; l’aprimmo subito con ladebole speranza di trovarvi qualcosa da bere o da man-giare, ma purtroppo conteneva solo un completo per ra-dersi e due camicie di tela. Scesi ancora una volta di, matornai a mani vuote e, appena misi la testa fuori dall’ac-

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qua, sentii un rumore come se qualcosa si fosse rotto sulponte e una volta risalito, costatai che i miei compagnierano stati così ingrati da approfittare della mia assenzaper bere il vino rimasto nella bottiglia, che avevano poifatto cadere e cercato di rimettere al suo posto prima cheriemergessi. Feci loro rilevare l’egoismo di tale condottae Augustus scoppiò a piangere: quanto agli altri, si sfor-zarono di prendere la cosa a ridere, ma a Dio non piacciache io possa rivedere nella mia vita una tale risata; le lorosmorfie erano assolutamente terrificanti; nelle loro pancevuote il vino aveva prodotto un effetto violento e istanta-neo. Feci una gran fatica a convincerli a distendersi e, ap-pena lo fecero, caddero in un sonno pesante.Mi trovai dunque solo sul brigantino e si potrà facil-mente immaginare di quale natura fossero i miei pensieri.Non vedevo altra prospettiva che morire lentamente difame o, nell’ipotesi migliore, di essere inghiottito dallaprima tempesta che fosse sopraggiunta, perché, nellostato di sfinimento in cui ci trovavamo, non potevamosperare di resistere a un nuovo assalto. La fame era in-tollerabile e avrei fatto qualsiasi cosa per placarla. Conl’aiuto del coltello, tagliai un pezzetto della valigia dicuoio e provai a masticarlo, ma non potei inghiottireneppure la minima parte.Al calar della notte i miei compagni si svegliarono, unodopo l’altro, in uno stato di depressione indescrivibileprodotto dal vino, i cui fumi erano svaniti. Erano scossicome da una febbre violenta e chiedevano dell’acquacon grida snervanti. Mi ispiravano la più profonda pietà,ma al contempo mi rallegravo per non aver bevuto comegli altri, risparmiandomi le sinistre e desolanti sensa-zioni.

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Il loro atteggiamento mi preoccupava perché era evidenteche, se non fosse mutato, non avrei potuto contare su diloro per tentare di salvarci. Non avevo ancora abbando-nato ogni speranza di recuperare qualcosa, ma non po-tevo ripetere il tentativo se uno di loro non fosse stato ingrado di aiutarmi reggendo la corda mentre scendevo.Parker mi sembrava meno debole degli altri e cercaiquindi di rianimarlo in qualche modo. Pensando cheun’immersione nell’acqua di mare avrebbe potuto essereutile allo scopo, gli legai una corda intorno al corpo, locondussi fino alla scala – lui mi lasciò fare sino alla fine –e da lì lo spinsi nell’acqua ripescandolo subito. L’esperi-mento mi dette ragione, perché sembrò riprendere vitae, quando lo distesi sul ponte, mi chiese con aria più ra-gionevole perché avessi fatto ciò. Quando glie lo spiegaimi ringraziò, mi disse che si sentiva molto meglio ed esa-minò la nostra situazione con lucidità. Decidemmo alloradi fare ad Augustus e Peters lo stesso trattamento; lo fa-cemmo senza indugi e con risultati sensibili. L’idea mi erastata suggerita da una lontana reminiscenza di non so piùquale opera di medicina, che parlava dell’efficacia di unadoccia nei casi di depressione da alcolismo.Vedendo che potevo di nuovo contare sui miei compa-gni per reggere la corda, feci tre o quattro immersioniin cabina, anche se era già notte e un leggero vento danord-ovest faceva muovere il nostro relitto. Questenuove esplorazioni fruttarono due coltelli da tavola, unabrocca da tre galloni vuota e una coperta, ma nulla damangiare. Raccolti questi oggetti, continuai finché misentii allo stremo delle forze, ma senza miglior risultato.Nella notte anche Parker e Peters si spinsero sott’acqua,uno dopo l’altro, ma anche loro senza successo. Sta-

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vamo chiaramente sprecando energie inutilmente e ri-nunciammo, passando il resto della nottata nella depres-sione più profonda.Finalmente giunse l’alba 16 luglio e scrutammo avida-mente l’orizzonte in ogni direzione, ma invano. Il mareera sempre molto calmo, nonostante la solita brezza danord. Per sei giorni non avevamo né mangiato né bevuto,ad eccezione della bottiglia di Porto, ed era chiaro chenon avremmo potuto reggere più a lungo, a meno di qual-che fortunata scoperta. Non ho mai visto – e spero di nonaver più occasione di vedere – esseri umani ridotti comePeters e Augustus, talmente magri che, se li avessi incon-trati a terra, non li avrei mai riconosciuti. La loro fisiono-mia era cambiata a tal punto che non mi capacitavo chefossero gli stessi di qualche giorno prima. Anche Parkerera molto dimagrito e debole da non riuscire a tenere rittala testa, ma non era ancora nelle condizioni drammatichedegli altri; non si lamentava e cercava di incoraggiarci inogni modo. Quanto a me, pur avendo molto sofferto findall’inizio di questo mio pericoloso viaggio e nonostanteil mio fisico delicato, ero quello che soffriva di meno, per-ché ero meno dimagrito di loro e restavo padrone di tuttele mie facoltà, mentre gli altri sembravano tornati bam-bini, ridendo alle mie domande con espressione idiota edicendo le più assurde sciocchezze.Ogni tanto comunque sembravano riprendere vita,come avessero di nuovo coscienza della situazione, e al-lora si alzavano d’improvviso, in un sussulto di energia,e riprendevano a parlare in modo ragionevole, seppurecon aria depressa. Del resto, è possibile che io facessiloro la stessa impressione e che facessi le stesse cose stra-vaganti e stupide, non saprei dirlo.

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Verso mezzogiorno, Parker disse che vedeva terra a ba-bordo e io durai non poca fatica a dissuaderlo dal get-tarsi in mare per raggiungere a nuoto la riva. Peters eAugustus non si curavano di lui, sembravano sprofon-dati entrambi in una cupa contemplazione. Guardaiverso la direzione indicatami e non vidi niente; d’al-tronde, sapevo fin troppo bene quanto fossimo ancoralontani da qualsiasi terra per farmi illusioni e ci vollemolto tempo per convincere Parker. E lui scoppiò in la-grime come un bambino, gridando e singhiozzando perdue o tre ore; dopodiché, stanco e sfinito, si addor-mentò.Peters e Augustus fecero alcuni vani tentativi di masti-care dei pezzi di cuoio: li consigliai di ammollarli prima,ma erano troppo sfiniti e indeboliti per seguire i mieiconsigli. Quanto a me, cercai di masticare anch’io ditanto in tanto per calmare i morsi della fame, ma ciò chepiù mi angosciava era la mancanza d’acqua e la sola cosache mi trattenne dal bere l’acqua di mare fu il ricordodelle terribili conseguenze patite da altri nelle mie stessecondizioni.Eravamo quasi al tramonto quando improvvisamentescorsi una vela a est, davanti a noi, dalla parte di ba-bordo, e mi parve che fosse una grande nave che avan-zava proprio verso di noi, a una probabile distanza didodici o quindici miglia. Nessuno dei miei compagnil’aveva ancora vista e mi astenni dal segnalarlo subitonel timore di una nuova delusione. Ma quando vidi di-stintamente che si avvicinava sempre di più e che pun-tava dritta su di noi, non potei contenermi più a lungoe la indicai ai miei compagni di sventura, che si alzaronoin piedi e si abbandonarono, ancora una volta, a mani-

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festazione di gioia, piangendo, ridendo come idioti, sal-tando, trascinandosi sul ponte, strappandosi i capelli,pregando e bestemmiando a un tempo. Il loro entusia-smo era così contagioso e la salvezza sembrava così vi-cina, che non potei impedirmi di partecipare alla lorofollia e di dare libero sfogo a tutta l’esuberanza della miagratitudine e della mia felicità. Facevo le capriole, mitrascinavo sul ponte, battevo le mani, gridavo, facevotutte le sciocchezze possibili, finché improvvisamentefui richiamato alla realtà e rigettato nella più cupa di-sperazione quando vidi la nave virare bruscamente efare rotta in direzione quasi opposta.Mi occorse non poco tempo per convincere del nuovocrollo delle nostre speranze i miei poveri compagni, chea ogni mia affermazione replicavano con sguardi e sorri-sini increduli. Ma fu la condotta di Augustus che più mistupì; avevo un bel dire e un bel fare per persuaderlo;s’incaponiva a sostenere che la nave veniva verso di noi avele spiegate e già si preparava per salire a bordo. Pre-tendeva che delle alghe che fluttuavano intorno al brigan-tino fossero la scialuppa del vascello e voleva lanciarvisisopra, e urlava, si sgolava da straziarmi il cuore; dovettiusare la forza per impedirgli di gettarsi in mare.Quando l’emozione si fu un poco placata, continuammoa seguire con lo sguardo la nave finché non scomparvenella nebbia che nel frattempo era sopraggiunta. AlloraParker si volse verso di me con un’espressione che mifece rabbrividire. Sembrava avere una lucidità che nonavevo mai notato in lui e, prima ancora che aprisse labocca, avevo già immaginato cosa avrebbe detto. Inpoche parole, proponeva che uno di noi si sacrificasseper permettere agli altri di salvarsi.

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Capitolo 12

Già da tempo avevo idea che forse saremmo giunti aquel punto estremo, il più orribile fra tutti, e in cuor mioavevo giurato di volere morire, in qualunque modofosse, piuttosto che ricorrere, per sopravvivere, a quellasoluzione. E la mia determinazione non era stata scalfitadalle torture della fame. La proposta di Parker non eraarrivata alle orecchie di Peters e Augustus, così lo presida parte e, pregando con tutte le mie forze Dio perchémi desse la forza necessaria per distoglierlo dal suoodioso piano, lo scongiurai in nome di ciò che aveva dipiù sacro e con tutta l’eloquenza che mi ispirava l’orroredella situazione, di rinunciare alla sua idea e di non co-municarla agli altri.Lui mi ascoltò senza fare la minima obiezione ai miei ar-gomenti e già cominciavo a sperare di averlo convinto,quando, terminato il mio discorso, prese a sua volta laparola dicendo che riconosceva che avevo ragione, cheil pensare a quella cosa era certamente l’idea più terri-bile che potesse partorire la mente di un uomo, ma cheaveva sofferto tutto ciò che si può umanamente soffriree che non era necessario che tutti morissero quando erapossibile, anzi probabile, che la morte di uno assicurassela salvezza degli altri; aggiunse inoltre che sarebbe statafatica sprecata tentare di dissuaderlo, perché era giuntoa quella conclusione prima che avvistassero la nave e chesolo per quello aveva aspettato ad avanzare la sua pro-posta. Io allora lo supplicai, se anche non riuscivo a farlodesistere dalla sua idea, che almeno la rimandasse di ungiorno, perché era possibile che un’altra nave venisse insoccorso e ripetei le considerazioni che mi parevano più

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adatte al caso, che potessero far presa su un uomo dallanatura selvaggia. E lui mi rispose che aveva atteso finoall’ultimo, che non poteva più vivere senza mangiarequalcosa e che, se si rinviava l’esecuzione del suo piano,sarebbe stato troppo tardi, almeno per quanto riguar-dava lui.Compresi allora che non avrei potuto ottenere nulla conla persuasione e gli parlai con un altro tono. Gli dissiche avevo sofferto meno di loro per le comuni sventure,che in quel momento ero molto più forte, non solo dilui, ma anche di Peters e Augustus; in breve, che eroperfettamente in grado di ricorrere alla forza e che, seavesse fatto il minimo tentativo di comunicare agli altriil suo selvaggio progetto di cannibalismo, non avrei esi-tato a gettarlo in mare. A queste parole, mi prese per lagola ed estraendo un coltello cercò a più riprese di col-pirmi allo stomaco e solo la sua debolezza gli impedì diriuscire nell’impresa. Da parte mia, preso dalla dispera-zione, lo spinsi contro la murata, deciso a gettarlo inmare, e sfuggì alla morte solo per l’intervento di Peters,che si avvicinò a noi e ci separò, chiedendoci quale fosseil motivo del nostro diverbio, cosicché Parker ebbe iltempo di informarlo di tutto, prima che potessi impe-dirglielo.L’effetto delle sue parole fu ancora più terribile. Certa-mente Augustus e Peters, senza dir nulla, nutrivano giàda tempo lo stesso spaventoso pensiero di Parker e co-stui l’aveva solo formulato per primo; condivisero dun-que completamente la sua idea e manifestarono lavolontà di metterla in pratica senza più indugi. Fino aquel momento avevo sperato che almeno uno di loroavesse il coraggio da stare dalla mia parte e opporsi al-

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l’ignobile progetto; con l’appoggio di uno dei miei com-pagni mi sarei sentito capace di impedirne la realizza-zione, ma, abbandonata quella speranza, non mi restavache vegliare sulla mia stessa sicurezza, perché conti-nuare a oppormi voleva dire offrire a quegli uomini,nella loro spaventosa situazione, un pretesto sufficienteper negarmi la possibilità di giocare le mie carte nellatragedia che si sarebbe svolta fra breve.Dissi dunque che acconsentivo alla loro proposta e chechiedevo solamente una dilazione di un’ora per lasciareche la nebbia si diradasse e controllare se la nave cheavevamo avvistato si ripresentasse. Con grande difficoltàottenni alla fine la promessa che avrebbero aspettato e,grazie al vento che si era alzato, la nebbia si dissolseprima che un’ora fosse trascorsa; ma non si vedeva nes-suna nave e ci apprestammo a tirare a sorte.È con estrema riluttanza che darò qui il resoconto dellaspaventosa scena che seguì e di cui nessun avvenimentosuccessivo poté cancellare dalla mia memoria anche il piùinsignificante dettaglio; il ricordo avvelenerà inesorabil-mente tutti gli istanti che mi restano ancora a vivere. Pas-serò su questa parte della mia storia il più rapidamentepossibile, in considerazione degli avvenimenti di cui tratta.Il solo modo che avessimo a disposizione per quella ter-ribile lotteria, in cui giocavamo tutti il nostro turno mor-tale, era quello delle paglie. Piccoli bastoncini di legnopiù o meno lunghi potevano svolgerne la funzione e fustabilito che sarei stato io a reggerli in mano. Fra tutte letragedie in cui un uomo può incappare, rare sono quellein cui non faccia ricorso all’istinto di sopravvivenza, unistinto che cresce tanto più è fragile il filo che lo lega allavita. Ma la faccenda che mi era toccata, così diversa dal

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tumulto e i pericoli della tempesta o dalla tortura cre-scente della fame, quella faccenda – ripeto – m’indussea pensare alle poche probabilità che mi si risparmiassela più terribile delle morti, terribile per lo scopo stessocui doveva servire; e ogni particella della forza che miaveva sostenuto per così lungo tempo si involava rapida-mente come piuma in balìa del vento, lasciandomi il mi-serabile trastullo del più abbietto e miserabile terrore.All’inizio non avevo la forza per spezzare e raccogliere in-sieme i pezzetti di legno, perché le mie dita rifiutavano quelcompito e le ginocchia tremavano convulsamente. Passaivelocemente in rassegna i modi più assurdi per evitare diessere complice di quell’odiosa speculazione. Pensai di get-tarmi ai piedi dei miei compagni e scongiurarli di rispar-miarmi questo triste compito, di scagliarmi su di loroall’improvviso e ucciderne uno perché fosse inutile tirarea sorte; in una parola, pensai a tutto fuorché a compiereciò che dovevo fare. Finalmente, dopo aver perso non pocotempo in quelle folli considerazioni, fui richiamato a mestesso dalla voce di Peters che mi invitava a toglierli al piùpresto dalla terribile ansia; ma anche allora non potevo ri-solvermi a estrarre i pezzetti di legno e indugiai immagi-nando ogni astuzia per far estrarre quello più corto a unodei miei compagni di miseria, perché era convenuto chequello cui fosse toccato sarebbe morto per salvare gli altri.Prima però di condannarmi per questa malvagia idea, illettore provi a mettersi al mio posto.Alla fine, non potendo più differire la cosa e col cuoreche mi batteva in petto fino a scoppiare, avanzai versoil castello di prua dove mi aspettavano i miei compagni,tesi una mano e Peters estrasse subito il suo. Il baston-cino non era il più corto, era salvo, e dunque una spe-

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ranza in meno per me, una probabilità di salvarmi chesvaniva. Cercando di raccogliere il coraggio, porsi i ba-stoncini ad Augustus, che estrasse immediatamente ilsuo. Anch’egli era salvo! E poiché ora le probabilità divita o di morte si bilanciavano perfettamente, sentii cre-scere in me la ferocia della tigre, l’odio peggiore, più de-moniaco contro il mio povero compagno Parker.Ma questo sentimento non durò a lungo e, con un tre-mito convulso e gli occhi chiusi, gli tesi i due bastoncinirimanenti. Trascorsero forse cinque minuti prima che sirisolvesse a scegliere e in quei momenti di angoscia chesembrava spezzarmi il cuore, non aprii mai gli occhi. Fi-nalmente estrasse uno dei bastoncini, ma ignoravo an-cora quale fosse; nessuno parlava e io restavo immobile,smarrito, senza osare di scoprire il mio destino alzandogli occhi sul legnetto rimasto. Quando Peters mi toccòla mano, alzai lo sguardo su Parker e mi accorsi subitodalla sua espressione che ero salvo e che egli era il con-dannato. Rimasi senza fiato e caddi svenuto sul ponte.Ripresi conoscenza in tempo per assistere all’epilogo deldramma, cioè alla morte di colui che ne era stato il pro-tagonista, poiché aveva suggerito l’idea. Non oppose laminima resistenza e, colpito alla schiena da Peters,cadde subito morto. Non descriverò qui l’orrendo ban-chetto che seguì, né ciò che avvenne nei giorni seguentiperché simili cose si possono soltanto immaginare e leparole non avrebbero mai la forza sufficiente a impri-mere nella mente l’orrore della realtà. Dirò soltanto che,avendo calmato la spaventosa sete bevendo il suo san-gue e, sbarazzatisi di comune accordo di mani, gambe etesta gettandoli in acqua, facemmo a pezzi e divorammoil resto nei quattro giorni che seguirono.

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Il 19 luglio venne una pioggia che durò quindici o ventiminuti e ci permise di raccogliere un po’ d’acqua conl’aiuto degli stracci che avevamo recuperato con la ru-dimentale draga dopo la tempesta. Era appena mezzogallone, ma quella provvista, per quanto modesta, bastòa infonderci energie e speranza, anche se in capo a duegiorni eravamo di nuovo allo stremo: il tempo era caldoe gradevole, con nebbie passeggere e delle leggerebrezze provenienti da nord o da ovest.Il 22 luglio, mentre eravamo seduti uno di fronte all’al-tro meditando sulla nostra sorte, improvvisamenteun’idea balenò nella mia mente e accese un barlume disperanza. Mi ricordai che, quando avevamo tagliato l’al-bero di trinchetto, Peters mi aveva passato un’ascia di-cendomi di metterla in un luogo sicuro e ricordavoanche che alcuni istanti prima che le ondate scuotesseroe sommergessero il brigantino, io l’avevo deposta nel ca-stello di prua, su uno dei quadrati di babordo. Ora pen-savo che, se l’avessimo trovata, avremmo potuto praticareun’apertura nel ponte sopra la cambusa e recuperaredelle provviste.Quando comunicai il piano ai miei compagni, emiseroun debole grido di gioia e, rianimati da quella speranza,ci lanciammo tutti e tre verso il castello di prua. Lì la di-scesa era più difficile che nella cabina, perché il portelloera molto più stretto e il lettore ricorderà che il passa-mano della scaletta della cabina era stato scardinato,mentre il passaggio al castello di prua era ancora intatto.Quel passaggio non era che un semplice boccaporto diforse tre piedi quadrati, per cui io non esitai a tentare ladiscesa e, legata una cima intorno alla vita come la primavolta, m’immersi subito. Andai dritto al quadrato e, al

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primo colpo, riuscii ad afferrare l’ascia, accolta congrida di giubilo dai miei compagni, che vedevano inquel rapido ritrovamento un buon auspicio. Iniziammoquindi a sfondare il ponte con tutta l’energia infusa dallanuova speranza, alternandoci, Peters e io, perché il brac-cio ferito impediva ad Augustus di dare mano. Eravamoancora troppo deboli per lavorare senza prendere fiatoe apparve evidente che sarebbero occorse molte ore peraprire un passaggio che permettesse di scendere fino allacambusa; ma non ci scoraggiammo e, dopo aver lavo-rato tutta la notte alla luce della luna, il 23 di luglio, al-l’alba, i nostri sforzi furono finalmente coronati dasuccesso.Peters si offrì di andare per primo e, prese tutte le pre-cauzioni, scese e tornò quasi subito con un vasetto che,con nostra grande gioia, trovammo pieno di olive che fu-rono subito divise tra noi e divorate con avidità. Poi Pe-ters effettuò una nuova immersione che superò di moltole nostre speranze, perché tornò un istante dopo por-tando un grosso prosciutto e una bottiglia di vino di Ma-deira. Facemmo attenzione a non berne che un sorso atesta, avendo imparato a nostre spese quali potessero es-sere gli effetti dell’alcool; il prosciutto era guastato dal-l’acqua e non si poteva mangiare, tranne una parte dicirca due libbre vicina all’osso, che fu suddivisa in treparti. Peters e Augustus non seppero resistere e ingoia-rono in un solo boccone la loro porzione; io invece fuipiù saggio e, pensando che mi avrebbe aumentato la sete,ne mangiai solo un pezzettino; dopodiché ci riposammoda quella sfibrante fatica.A mezzogiorno ci sentivamo un poco più riposati e inforze e riprendemmo la pesca alle provviste, alternandoci,

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Peters e io, con più o meno successo, fino al tramonto delsole. In quel lasso di tempo avemmo la fortuna di trovarequattro altri vasetti di olive, un secondo prosciutto, unadamigiana con quasi tre galloni di vino di Madeira e, cosaparticolarmente gradita, una piccola tartaruga delle Ga-lapagos; alla partenza del Grampus infatti, il capitanoBarnard ne aveva portate alcune a bordo, prese dalla go-letta Mary Pitts che tornava allora da una caccia alle fochenel Pacifico. Avrò spesso, in seguito, occasione di parlaredi questa specie di tartaruga; come il lettore saprà, si trovasoprattutto nel gruppo delle omonime isole del Pacifico– così chiamate certamente dal nome locale dell’animale,Gallipago, che significa appunto tartaruga d’acqua dolce.La carne di questo rettile è un alimento eccellente e moltonutritivo e spesso ha garantito la sopravvivenza a migliaiadi marinai occupati nella caccia alla balena e in altre spe-dizioni nel Pacifico.Quella che avevamo avuto la buona fortuna di pescarenella cambusa non era di grandi dimensioni e pesavaforse dalle sessantacinque alle settanta libbre. Era unafemmina in buone condizioni, abbastanza in carne e lasua sacca conteneva più di due pinte d’acqua limpida emolto dolce. Era per noi un vero tesoro e, inginocchiaticicontemporaneamente, ringraziammo ardentemente Dioper questo regalo giunto così a proposito. Durammomolta fatica a far passare l’animale dall’apertura, perchéopponeva una strenua e sorprendente resistenza; cimancò poco che sfuggisse dalle mani di Peters e rica-desse in acqua. Augustus gli passò intorno al collo unacima munita di un nodo scorsoio, riuscendo così a te-nerla ferma mentre io saltavo nel buco per aiutare Petersa issare la bestia sul ponte.

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L’acqua contenuta nella tasca dell’animale fu vuotatacon ogni cura nella brocca che, come il lettore ricorda,era stata portata sul ponte in seguito a una scoperta pre-cedente. Fatto ciò, rompemmo il collo di una bottiglia,lasciandovi il tappo, per ricavarne una specie di bic-chiere di un po’ meno di un quarto di pinta. Ognuno dinoi ne bevve un sorso e fu deciso che quella sarebbestata la nostra razione quotidiana.Nei tre giorni precedenti il tempo era stato bello e secco,così le coperte che avevamo ripescato nella cabina eranocompletamente asciutte, come pure i nostri vestiti, equesto ci permise di passare la notte del 23 luglio abba-stanza comodi e di dormire tranquillamente, dopo avercenato con olive, prosciutto e un sorso di vino. Perpaura che una parte delle provviste cadesse in marenella notte, le assicurammo alla meglio intorno a ciò cherestava dell’argano. Quanto alla nostra tartaruga, cheavevamo cura di conservare viva più a lungo possibile,venne rovesciata sul dorso e assicurata in qualche modo.

Capitolo 13

24 luglio. Al mattino ci sentivamo forti e rinfrancati. Lasituazione rimaneva sempre molto precaria, perché nonsapevamo dove ci trovassimo – certamente molto lon-tani da terra – non avevamo viveri che per una quindi-cina di giorni, anche razionandoli drasticamente, el’acqua ci mancava completamente. Ma le sventure cheavevamo passato erano talmente orribili che quelle at-tuali ci sembravano ben piccola cosa.All’alba ci preparammo a riprendere le nostre esplora-

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zioni nella cambusa quando iniziò a piovere forte conqualche fulmine e nostra prima preoccupazione fu diraccogliere quell’acqua. Usando il solito straccio la fa-cemmo colare nella brocca e quella era già quasi pienaquando un forte vento da nord ci costrinse a smettere.Ci portammo allora a prua e li, legati ai resti dell’alberodi trinchetto, attendemmo gli eventi con sangue freddo.A mezzogiorno il vento si era calmato, ma a sera rin-forzò e la nave riprese a rollare con violenza. L’espe-rienza ci aveva però insegnato cosa fare in quellasituazione, per cui notte passò relativamente tranquilla,pur essendo investiti da ondate furiose.25 luglio. Al mattino la tempesta si era molto calmata etrasformata in una leggera brezza, ma avemmo la bruttasorpresa che due vasetti di olive e il nostro prosciuttoerano stati spazzati via dalle onde. Decidemmo però dinon uccidere ancora la tartaruga e, per pranzo, ci accon-tentammo di alcune ulive e acqua mescolata a un po’ divino, trovando così ristoro ed energie, senza intossicarsicon l’alcool, come avvenuto in precedenza. A mezzo-giorno il sole ci apparve allo zenith e avemmo la certezzache i venti che avevano spirato a lungo da nord e da nord-ovest ci avevano spinto verso l’equatore. Verso sera avvi-stammo molti pescecani, uno dei quali enorme; a un certopunto, quando un’ondata sommerse il relitto, ce lo tro-vammo quasi in faccia e addirittura Peters fu colpito dallasua coda. Alla fine un’ondata lo allontanò, con nostrogrande sollievo; col mare più tranquillo l’avremmo potutocatturare facilmente.26 luglio. Essendosi calmato il vento calmato, abbiamodeciso di ricominciare le nostre ricerche nella cambusa,ma dopo tutta quella fatica e con grande disperazione,

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capimmo che da lì non c’era molto d’aspettarsi, perchéil portello della cambusa era sfondato e tutto era filatogiù in stiva.27 luglio. Mare quasi piatto, con un po’ di vento, sempreda nord-ovest. Il sole è divenuto molto caldo dopo mez-zogiorno e abbiamo provato un vivo sollievo tuffandociin mare. Ma occorre fare molta attenzione, perché i pe-scecani sono sempre nei paraggi.28 luglio. Sempre bel tempo. Il brigantino continua aessere sbandato in modo inquietante e temiamo che aun certo punto si capovolga completamente. Prendiamotutte le precauzioni possibili e mettiamo al sicuro la tar-taruga, la brocca e le poche olive rimaste. Mare moltopiatto per tutto il giorno.29 luglio. Sempre lo stesso tempo. Il braccio di Augu-stus comincia a presentare sintomi di cancrena; il malatoè preso da sonnolenza e la sua sete è eccessiva. Non pos-siamo che sfregare il suo viso con un po’ d’aceto toltodalle olive, e sembra provare molto sollievo. Non po-tendo far nulla di meglio, triplichiamo la sua razioned’acqua.30 luglio. Giornata eccessivamente calda, non un alito divento. Un gigantesco pescecane ha montato la guardiatutta la notte vicino allo scafo. Abbiamo cercato invanodi catturarlo con un nodo scorsoio. Augustus è moltopeggiorato, tanto per le ferite quanto per la mancanza dicibo appropriato. Ci supplica continuamente di liberarloda quel supplizio, vuole solo morire. A sera abbiamo ce-nato con ciò che rimaneva delle olive, ma l’acqua dallabrocca era talmente putrida che abbiamo potuto berlasenza mischiandola col vino, dopodiché abbiamo decisodi uccidere la tartaruga l’indomani.

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31 luglio. Dopo una notte d’ansia e di stress, causatedallo sbandamento della nave, siamo costretti a uccideree fare a pezzi la tartaruga, che ci sembra più piccola diquanto immaginato, anche se in buone condizioni. Neabbiamo ricavato non più di dieci libbre di carne e, per-ché durasse il più a lungo possibile, l’abbiamo tagliata astrisce sottilissime che abbiamo messo nei vasetti e nellabottiglia che avevamo conservato e vi abbiamo versatosopra l’aceto delle olive. Facendo un calcolo approssi-mativo, abbiamo da parte tre libbre di carne di tartarugae siamo ben decisi a non toccare questa provvista primad’aver consumato il resto; poiché la nostra razione gior-naliera è quattro once circa di carne, dovremmo avereda mangiare per almeno dodici giorni.Verso sera è venuta una forte pioggia accompagnata dalampi e da violenti colpi di tuono; ma è durata poco eabbiamo potuto raccogliere solo mezza pinta d’acquache abbiamo lasciato, di comune accordo, ad Augustus,che sembra ormai giunto agli estremi. Man mano cheraccoglievamo l’acqua lui la beveva attraverso il telo cheavevamo disteso su di lui in modo che l’acqua gli colassein bocca; infatti non avevamo più un recipiente dispo-nibile, a meno di vuotare il vino della damigiana, o l’ac-qua marcia della brocca, cosa che avremmo fatto secontinuava a piovere.Il malato non sembra aver provato grande sollievo: ilbraccio è diventato tutto nero, dal pugno fino alla spalla,i piedi sono ghiacci e temiamo di vederlo esalare l’ultimorespiro da un momento all’altro. È dimagrito in modo in-credibile; lui che pesava centoventisette libbre alla par-tenza da Nantucket, ora non ne pesa più di quaranta ocinquanta al massimo. Gli occhi sono profondamente in-

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cavati nelle orbite e appena visibili, la pelle delle gote ètalmente tesa che non può masticare niente e nemmenobuttar giù un liquido se non con grande difficoltà.1 agosto. Il tempo si mantiene molto calmo, il sole è sof-focante e soffriamo atrocemente per la sete, perché l’ac-qua della brocca è ormai imbevibile, tutta mangiata daivermi: tuttavia, con grande ripugnanza, siamo riusciti aingoiarne un po’ mischiandola al vino, ma non per questola sete si è calmata. Proviamo solo un po’ di sollievo tuf-fandoci in mare, ma non possiamo abusare di questoespediente per la costante presenza di pescecani. Augu-stus è chiaramente agonizzante; non possiamo far nullaper salvarlo e non sappiamo cosa fare per rendere menoatroci i suoi tormenti. A mezzogiorno spira fra violenteconvulsioni, dopo essere rimasto muto e immobile perparecchie ore; la sua morte ci ha portato i più cupi pre-sentimenti e prodotto su di noi un’impressione così forteche siamo rimasti tutto il giorno vicino al cadavere senzafare un movimento, senza scambiarci una parola, se nona voce molto bassa. Solo al calar della notte ci siamo decisifinalmente ad alzarci e a gettare il cadavere fuoribordo.Il suo aspetto era così ripugnante e la decomposizione giàcosì avanzata che quando Peters lo sollevò una gamba delmorto gli restò in mano. Quando tutta quella carne pu-trefatta fu gettata in mare, il chiarore fosforescente checircondava la nave illuminò sette o otto enormi pescecanie, quando s’impadronirono della miserabile preda, loscricchiolio di quei denti formidabili si sarebbe potutoudire alla distanza di un miglio. A quel rumore ci sen-timmo stringere il cuore da un orrore indicibile.2 agosto. La stessa calma spaventosa, lo stesso caldo;l’alba ci trova in uno stato di grande depressione e de-

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bolezza fisica, perché l’acqua della brocca è inutilizza-bile; non è che una spessa massa di gelatina, un miscuglioributtante di vermi e melma, che abbiamo gettato inmare, e, dopo averla risciacquata ben bene nell’acquamarina, vi abbiamo versato un po’ d’aceto prelevato dainostri vasetti con la carne di tartaruga.La sete è diventata quasi intollerabile: abbiamo cercatodi spegnerla col vino, ma era come gettare olio sul fuocoe ci siamo pesantemente ubriacati; abbiamo pure tentatodi alleviare la sofferenza mescolando al vino dell’acquadi mare, ma quel miscuglio ci ha provocato nausee cosìspaventose che non abbiamo più provato. La giornata ètrascorsa a spiare con ansia il momento in cui potevamobagnarci, ma invano, perché il relitto del brigantino eracircondato da ogni lato da una schiera di pescecani, glistessi senza dubbio che la sera precedente avevano divo-rato il nostro povero amico, e che attendevano, da unmomento all’altro, venisse offerto loro un nuovo ban-chetto. Questa constatazione ci ripiombò nel peggioresconforto, perché non potevamo rinunciare a quell’unicoconforto in quelle condizioni così spaventose. Del resto,anche sul ponte non eravamo più sicuri, poiché il piùpiccolo passo falso, il più imprudente movimento pote-vano abbandonarci in balìa di questi mostri voraci, chesi avvicinavano sotto vento e che le nostre grida e i nostrigesti non sembravano spaventare. Peters aveva assestatoun colpo d’ascia a uno dei più grossi, ferendolo seria-mente, ma questo continuava la sua caccia. Al tramontoil cielo si è annuvolato, ma con nostra disperazione le nu-vole sono passate senza scaricare pioggia e il tormentodella sete e la paura dei pescecani ci hanno portato unalunga notte d’insonnia.

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3 agosto. Nessuna speranza di sollievo. Il brigantino èsempre più sbandato e non possiamo più stare in piedi.Abbiamo sistemato in un unico punto il vino e i vasetticon la tartaruga, in modo da non perderli nel caso lanave facesse altri bruschi movimenti, e a questo scopoabbiamo recuperato due grossi chiodi e li abbiamo pian-tati con l’ascia nella chiglia sotto vento, appendendocile provviste. La sete continua a tormentarci e non tro-viamo sollievo, tanto più che non possiamo bagnarci pervia dei pescecani che non ci hanno lasciato mai in pace.4 agosto. Poco prima dell’alba ci siamo accorti che il bri-gantino cominciava a volgere la chiglia in alto e abbiamocercato di evitare di essere travolti. La rotazione si èsvolta prima lentamente e gradualmente, permettendocidi risalire dalla parte del vento, perché ci eravamo pre-murati di assicurare delle cime ai chiodi cui erano ap-pese le nostre provviste. Ma non avevamo previstol’accelerazione del movimento, che in breve ci scara-ventò in mare, lasciandoci a dibatterci sotto l’enormechiglia, rovesciata su di noi.Cadendo ero stato costretto ad abbandonare la cima e,vedendomi immerso sotto il brigantino, completamentesfinito, persi ogni speranza e mi rassegnai a morire. Mala nave continuava e oscillare muovendo l’acqua, che miriportò in superficie e mi trascinò a circa venti yard. Pe-ters era scomparso. Ad alcuni passi da me galleggiavaun barile d’olio e vicino altri oggetti, provenienti dal bri-gantino.Temevo soprattutto i pescecani, perché sapevo che do-vevano essere vicini e, per allontanarli da me, battevol’acqua coi piedi e le mani, producendo molta schiuma,cercando al contempo di raggiungere il relitto. Ed è a

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quest’espediente, così semplice e naturale, che certa-mente devo la mia salvezza, perché il mare intorno al bri-gantino era talmente infestato da questi mostri prima checadessimo in acqua, che avrei dovuto essere attaccato.Ebbi invece la fortuna di arrivare incolume, ma, privo diforze, non avrei mai potuto scalare la chiglia senza ilprovvidenziale intervento di Peters che, aggrappato dallaparte opposta, mi lanciò una di quelle cime che avevamoassicurato ai chiodi.Appena sfuggiti agli squali, un altro pericolo ci si pro-spettò, non meno imminente e spaventoso, quello di mo-rire di fame, perché le provviste erano state strappate dallafuria dell’acqua, malgrado i nostri sforzi per assicurarle.Di fronte a quell’ennesima sventura, demmo libero sfogoalla nostra disperazione, piangendo come bambini, senzatrovare la forza di consolarci l’un l’altro. Una tale debo-lezza parrà forse inverosimile a quelli fra i nostri lettori chenon si sono mai trovati in simili circostanze, ma bisognapensare alle tante disgrazie che avevamo dovuto soppor-tare e che ci avevano fatto perdere il lume della ragione.Io ho affrontato in seguito pericoli altrettanto gravi, e hosempre resistito con coraggio alle avversità; quanto a Pe-ters, il lettore dovrà facilmente convenire che aveva datoprova di uno stoicismo incredibile, che compensava e giu-stificava la depressione e la debolezza presente.Il capovolgimento del brigantino e la perdita del vino edella tartaruga – ripeto ancora una volta – ci avevanosprofondato in una tremenda angoscia, tanto più che conessi era scomparso il telo che ci serviva a raccogliere lapioggia, come pure la brocca in cui la conservavamo. Tro-vammo però lo scafo e la chiglia della nave rivestiti dauno spesso strato di conchiglie, che si rivelarono un ali-

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mento saporito e di grandi qualità nutritive. Così la sven-tura che ci aveva tanto angosciato si traduceva per noi inun bene, perché ci forniva cibo a sufficienza per un mese,a condizione che ne facessimo uso moderato; adesso,inoltre, stavamo in una posizione più comoda e meno pe-ricolosa rispetto a prima.L’impossibilità di bagnarci però ci faceva dimenticare ivantaggi dalla nostra nuova situazione; volendo sfruttarela prima pioggia che fosse caduta, ci togliemmo le ca-micie per usarle come avevamo fatto col telo, sperandodi raccoglierne almeno una mezza brocca per volta. Mala giornata trascorse senza che una nuvola facesse la suacomparsa e la tortura della sete divenne presto intolle-rabile. Nel giro di un’ora Peters riuscì ad addormen-tarsi, seppure di un sonno agitato, ma per melasofferenza era tale che non potei mai chiudere occhio.5 agosto. Quel giorno si alzò una leggera brezza che cispinse verso un grande banco di alghe, dove avemmo lafortuna di pescare undici piccoli granchi che ci procu-rarono pasti davvero deliziosi. La loro testa era teneris-sima, cosicché potevamo mangiarli tutti interi; inoltre,stimolavano la sete molto meno delle conchiglie che ave-vamo trovato nella chiglia. Fra quelle alghe non si vede-vano squali, così potemmo fare un bagno rinfrescanteche portò sollievo alla sete. La sera eravamo più tran-quilli e potemmo dormire un po’.6 agosto. Il cielo fu veramente benevolo con noi quelgiorno, con una pioggia che durò senza interruzione damezzogiorno fino a notte e, davanti a quell’insperata for-tuna, rimpiangemmo amaramente la perdita della broccae della damigiana, perché avremmo potuto riempire unoo anche due recipienti. Ma almeno potemmo finalmente

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soddisfare la sete che ci tormentava e, rianimati e con-tenti, lasciammo che le nostre camicie s’impregnasserod’acqua, per poi torcerle in modo da far scivolare inbocca quel benedetto liquido. Tutta la giornata trascorsein quest’occupazione.7 agosto. Appena spuntata l’alba avvistammo, tutti e duecontemporaneamente, una vela che avanzava verso dinoi da est e salutammo la prodigiosa apparizione conun lungo, ma debole grido di gioia; poi cercammo difare tutti i segnali possibili, agitando le camicie, saltandoper quanto ci permettesse lo sfinimento, gridando anchecon tutta la forza dei nostri polmoni, sebbene la navefosse a non meno di quindici miglia. Continuava ad av-vicinarsi e presto ci rendemmo conto che se avesse te-nuto la stessa rotta, sarebbe passata abbastanza vicinoda poterci vedere e venire a salvarci. Infatti, un’ora dopola grandiosa scoperta, potemmo scorgere distintamentegli uomini dritti sul ponte; si trattava di una lunga ebassa goletta che sembrava tuttavia contare un equipag-gio molto numeroso. Eravamo molto agitati perché te-mevamo che non ci vedessero, o che avessero decisolasciarci morire sul nostro relitto. Sarebbe stato certa-mente un diabolico crimine; ma per quanto possa sem-brare inverosimile e inumano, una tale scelleratezza èstata compiuta tante volte in mare, da esseri apparte-nenti a pieno titolo alla razza umana; io stesso potrei ci-tare numerosi esempi, se non temessi di allontanarmitroppo dal soggetto del mio racconto.Grazie a Dio, in quell’occasione i nostri timori furonosmentiti e presto vedemmo gli uomini agitarsi sul pontedella nave, che subito issò la bandiera britannica e, strin-gendo il vento, virò dritta verso di noi. Mezz’ora dopo

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eravamo nella cabina della goletta Jane Guy, di Liver-pool, comandata dal capitano Guy e partita per la cacciaalla foca e per ragione di commercio verso i mari del sude le isole del Pacifico.

Capitolo 14

La Jane Guy era una piccola goletta di forse centottantatonnellate di stazza. Con la prua particolarmente filante,mi sembrò il veliero più veloce che avessi mai visto, avele spiegate e con vento moderato. Le sue caratteristi-che, in particolare il modesto pescaggio, non eranomolto adatte all’uso cui era stata destinata. Per quel tipodi spedizione sarebbe stata più adatta un’imbarcazionepiù grande, con un tonnellaggio dalle trecento alle cin-quecento tonnellate. Avrebbe dovuto avere la strutturadi un brigantino, diversa da quella delle navi dei maridel sud. Avrebbe dovuto contare su un altro arma-mento, ancore e cavi molto più robusti e, soprattutto,cinquanta o sessanta marinai robusti ed esperti. L’equi-paggio della Jane Guy, al contrario, si componeva ditrenta-trentacinque uomini, più il capitano e il secondo,tutti senza dubbio bravi marinai, ma non era – ripeto –né bene armata né bene equipaggiata come avrebbe do-vuto esigere un comandante esperto dei rischi di quelmestiere.Il capitano Guy era uomo molto gentile e affabile, congrande esperienza di navigazione nei mari del sud, doveaveva passato gran parte della sua vita. Gli mancavanoperò l’energia e l’intraprendenza necessarie in quel ge-nere di viaggi. Era comproprietario della nave e aveva

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poteri discrezionali per caricare tutte le merci che rite-nesse opportuno. Aveva a bordo specchietti, fiammiferi,asce, martelli, forbici, lime, rasoi, chiodi e una congeriedi altri strumenti e gingilli che si usava portare, comemerce di scambio in quelle spedizioni.La goletta era partita da Liverpool il 10 luglio, aveva at-traversato il tropico del Cancro il 25, a 20° di longitu-dine ovest e il 29 luglio era approdata all’isola di Sal(una delle isole di Capo Verde), dove aveva imbarcatosale e altre provviste necessarie alla spedizione. Il 3 ago-sto era ripartita, facendo rotta a sud-ovest in direzionedel Brasile, passando l’equatore tra i 28 e i 30° di longi-tudine ovest. Questa è la rotta normalmente seguitadalle navi che dall’Europa vanno verso il Capo di BuonaSperanza, o da quelle che si dirigono, per questa via, alleIndie Orientali, perché ciò permette di evitare le cor-renti contrarie molto forti lungo la costa della Guinea.È la rotta migliore perché si trovano sempre venti daovest col favore dei quali si raggiunge velocemente ilcapo. L’intenzione del capitano Guy era di fare il primoscalo alla terra di Kerguelen, ignoro per quale ragione.Il giorno in cui la goletta ci raccolse era al traverso diCapo San Rocco, a 31° di longitudine ovest, e di conse-guenza noi avevamo probabilmente percorso, da norda sud, non meno di venti gradi.A bordo della Jane Guy venimmo accolti con tuttal’umanità che necessitava la nostra drammatica situa-zione e in capo a una quindicina di giorni, durante iquali tenemmo rotta costante verso sud-est, con unbuon vento e bel tempo, io e Peters ci riprendemmocompletamente dalle sventure e dalle orribili sofferenzepatite, cosicché il loro ricordo ci apparve presto come

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un brutto incubo da cui ci eravamo finalmente svegliati,piuttosto che fatti realmente accaduti.Il viaggio continuò per più settimane senza fatti di ri-lievo, se non per l’incontro di qualche baleniera, o, piùspesso, di balene o capodogli. Il 16 settembre, vicino alCapo di Buona Speranza, la goletta incontrò le primeserie difficoltà dalla partenza da Liverpool. In queltratto di mare, ma ancora di più a sud e a est del capo –noi invece ci trovavamo ancora a ovest – i naviganti sonospesso travolti da tempeste da nord, di una violenza spa-ventosa, tempeste che generano ondate enormi e carat-terizzate da colpi di vento improvvisi e di una violenzaincredibile.Erano quasi le sei del mattino quando giunse il vento danord, come di consueto, annunciando una forte burra-sca; alle otto si alzò il mare peggiore che avessi mai visto;fu necessario ridurre quanto più possibile le vele, ma lagoletta avanzava a fatica, rivelandosi poco adatta a reg-gere quelle condizioni. Prima del tramonto, il nero chespiavamo con inquietudine si allargò a sud-ovest eun’ora dopo vedemmo il fiocco a prua abbattersi e pen-zolare a ridosso dell’albero di maestra. Non erano pas-sati neanche due minuti che, nonostante tutte leprecauzioni, ci trovammo improvvisamente sbandati suun fianco e un finimondo di acqua e schiuma si rovesciòsu di noi. La raffica da sud-ovest durò poco e per for-tuna ci raddrizzammo senza gravi danni. Il capitanoGuy disse, a ragione, che avevamo evitato un disastrosolo per un miracolo.Il 13 ottobre avvistammo l’isola del Principe Edoardo, a46° 53’ di latitudine sud e a 37° 46’ di longitudine est; duegiorni dopo giungemmo nei pressi dell’isola della Posses-

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sione e doppiammo le isole Crozet, a 42° 59’ di latitudinesud e a 48° di longitudine est; il 18 ottobre raggiungemmol’isola di Kerguelen o della Desolazione, nell’Oceano In-diano meridionale e gettammo l’ancora nel porto di Chri-stmas, in quattro braccia d’acqua.Quest’isola, o piuttosto quest’arcipelago, a ottocentoleghe circa dal Capo di Buona Speranza, fu scoperta nel1772 dal barone di Kerguelen, un francese che s’imma-ginò che quella terra facesse parte di un vasto continenteaustrale e pubblicò nel suo paese un memoriale che sol-levò all’epoca grande curiosità. L’anno dopo il governofrancese, interessato a quella scoperta, incaricò il baronedi tornare da quelle parti per approfondire le sue ricer-che e fu allora che l’errore venne accertato. Nel 1777 ilcapitano Cook raggiunse lo stesso arcipelago e battezzòl’isola più grande col nome di isola della Desolazione,nome perfettamente azzeccato. Appena sbarcato, il viag-giatore è quasi tentato di supporre il contrario perché,da settembre a marzo, le colline dell’isola sono coperteda una lussureggiante vegetazione dovuta in gran partea una piccola pianta simile alla sassifraga che si propagacon facilità a queste latitudini. A parte questa pianta, nonsi trovano altre specie vegetali in tutta l’isola e solo vicinoal porto si può vedere un po’ d’erba rinsecchita, mista alicheni, che danno al paesaggio il desolante aspetto di unluogo montagnoso, sebbene i rilievi siano solo colline.Le cime sono coperte di neve, dal principio alla finedell’anno, e la costa presenta parecchi porti, di cui il mi-gliore è quello di Christmas. È questo il primo porto ches’incontra nella parte nord orientale dell’isola, dopo averpassato il Capo François, la cui profilo caratteristico con-trassegna il porto.

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Procedendo verso est si trova Wasp Bay, una piccolabaia circondata da ogni parte. In fondo a Wasp-Bay sitrova un piccolo ruscello, in cui è facile fare provvistadi un’acqua buonissima.Nell’isola di Kerguelen si trovano alcune specie di fochea pelo lungo e abbondano anche gli elefanti marini; anchei pinguini sono numerosi, specialmente il pinguino reale,così chiamato in ragione delle sue dimensioni e del suobel piumaggio. I pinguini reali che avemmo occasione divedere a Kerguelen erano un po’ più grossi delle oche.Le altre specie sono il pinguino macaoni, il jackass, e ilrookerg. Oltre al pinguino, si trovano anche molti altriuccelli, fra cui la procellaria azzurra, l’alzavola, la gallinadi Port Egmont, la rondine di mare, la procellaria dellatempesta, la grande procellaria, l’albatros, e così via.Il mattino stesso del nostro arrivo al porto di Christmas,il signor Patterson fece calare in mare le barche e, seb-bene non fosse ancora la stagione giusta, partimmo perla caccia alle foche, lasciando il comandante e un suogiovane parente in un punto della costa occidentale, dadove dovevano partire per una missione all’interno del-l’isola, di cui non conoscevo la natura. Il capitano Guyaveva con sé una bottiglia con una lettera sigillata e s’in-camminò dalla spiaggia verso una delle alture. Appenalo perdemmo di vista, Peters e io, nella barca con il se-condo, ci mettemmo alla ricerca delle foche, e restammoin quella zona per circa tre settimane, durante le qualiesplorammo tutta la costa, non solo dell’isola di Kergue-len, ma anche delle altre piccole isole vicine.I nostri sforzi, tuttavia, non dettero grandi risultati: in-contrammo, è vero, molte foche, ma con grande faticariuscimmo a mettere insieme solo trecentocinquanta

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pelli. Gli elefanti di mare erano molto numerosi, parti-colarmente sulla costa occidentale dell’isola principale,ma non si riuscimmo a ucciderne più di una ventina. Il21 ottobre tornammo a bordo della goletta, dove tro-vammo il capitano Guy e suo nipote che ci fecero unquadro ben poco seducente dell’interno dell’isola, chedescrissero come una delle più cupe e sterili regioni dellaterra. Avevano trascorso due notti nell’isola per un ma-linteso col secondo, che non aveva inviato in tempo unascialuppa per riportarli a bordo.

Capitolo 15

Il 12 novembre noi salpammo da Christmas e tor-nammo verso ovest, lasciando a babordo l’isola Marion,una delle isole dell’arcipelago di Crozet. Dopo aver dop-piato l’isola del Principe Edoardo, mettemmo la prua anord e giungemmo, quindici giorni dopo, all’arcipelagodi Tristan d’Acunha. La più grande delle isole, che portaquesto nome, ha una circonferenza di quindici migliaed è così alta che può essere avvistata da una distanzadi ottanta-novanta miglia. Un grande altipiano siestende fin verso il centro dell’isola, su cui si erge un al-tissimo cono vulcanico, simile al picco di Tenerife. Labase di questo cono è coperta dalla vegetazione, ma laparte superiore è costituita da roccia brulla e coperta dineve per gran parte dell’anno. Sulla costa nord-occiden-tale si trova una baia, con una spiaggia di sabbia neradove le navi possono facilmente approdare. Qui è facileprocurarsi dell’acqua e pescare merluzzi e altri pesci.L’altra isola più grande, e la più occidentale dell’arcipe-

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lago, si chiama Inaccessibile; le coordinate sono 37° 17’di latitudine sud e 12° 24’ di longitudine ovest; conta setteo otto miglia di circonferenza e la costa è arida e brullada ogni lato. L’isola di Nightingale, la più piccola e la piùmeridionale, si trova a 37° 26’ di latitudine sud e a 12°12’ di longitudine ovest; il territorio è accidentato e ste-rile, attraversato da una profonda vallata. Le coste di que-st’isola, durante la stagione, abbondano di leoni edelefanti marini e di foche, oltre a una grande varietà diuccelli oceanici. Nelle sue acque incrociano molte balene.Il 20 novembre, con tempo variabile, riprendemmoquindi la nostra rotta in direzione sud-ovest, dove si do-veva trovare la più meridionale delle isole dell’arcipelago;non scorgendo intorno a noi alcuna terra, continuammoverso ovest, seguendo il parallelo a 53° sud fino a 50° dilongitudine, ovest. Mettemmo poi la prua a nord fino al52° di latitudine sud, poi verso est fino alla costa di Ge-orgia, seguendo questo meridiano fino alla latitudine dacui eravamo partiti. Facemmo allora più diagonali attra-verso l’area di mare che avevamo circoscritto, effet-tuando minuziosi rilevamenti per la durata di tresettimane con un tempo sereno e piacevole. Ci convin-cemmo così che, se in epoche precedenti erano esistiteterre da quelle parti, adesso non ne restava più traccia

Capitolo 16

In origine il capitano Guy, dopo aver soddisfatto la suacuriosità sulle isole Auroras, intendeva doppiare lostretto di Magellano e risalire lungo la costa occidentaledella Patagonia, ma certe informazioni ottenute a Tristan

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d’Acunha lo convinsero a fare rotta verso sud, nella spe-ranza di imbattersi in alcuni isolotti che dovevano tro-varsi a 60° di latitudine sud, 41° 20’ di longitudine ovest.Se non avessimo scoperto quelle terre e se il tempo fossestato favorevole, si riprometteva di puntare verso il Polosud. Così il 12 dicembre salpammo in quella direzione.Il diciotto raggiungemmo il punto indicato da Glass eincrociammo per tre giorni nella zona, senza scorgertraccia delle isole di cui aveva parlato. Ripartiti il 21, vistoil tempo eccezionalmente sereno, riprendemmo il viag-gio verso sud, decisi a spingerci il più possibile lungoquella rotta. Prima di inoltrarmi in questa parte del rac-conto ritengo opportuno, per quei lettori che hanno pre-stato scarsa attenzione al susseguirsi delle scoperte inquelle regioni, dare un breve resoconto dei rarissimi ten-tativi finora compiuti per raggiungere il Polo sud.Quello del capitano Cook è il primo del quale si abbiauna relazione dettagliata. Nel 1772 salpò sul Resolutionverso sud, accompagnato dall’Adventure, sotto il co-mando del tenente Furneaux. In dicembre era giunto a55° di latitudine sud e 26° 57’ di longitudine est. Da lìin poi cominciò a incontrare banchi di ghiaccio di pic-cole dimensioni, spessi da otto a dieci pollici, che simuovevano da nord-ovest verso sud-est. Il ghiaccio sipresentava anche in grandi blocchi, attraverso i quali lenavi faticavano ad aprirsi un varco. Dati i moltissimi uc-celli che vennero avvistati e grazie anche ad altri indizi,il capitano Cook credette di essere nelle immediate vi-cinanze della terraferma. Con un freddo intenso conti-nuò verso sud, fino a raggiungere il 64mo parallelo, a38° 14’ di longitudine est. I venti erano ora moderati eil clima si mantenne mite per cinque giorni, con il ter-

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mometro fermo sui 2°F. Nel gennaio 1773 le navi supe-rarono il Circolo polare antartico, ma non poteronospingersi più a sud; infatti, una volta raggiunta la latitu-dine di 67° 15’, la strada era sbarrata senza rimedio daun’enorme distesa di ghiaccio, che si estendeva su tuttol’orizzonte meridionale, a perdita d’occhio. Il ghiaccioera ovunque. Enormi banchi, che si estendevano per mi-glia e miglia, formavano una massa compatta che s’in-nalzava di diciotto o venti piedi sul livello del mare. Lastagione inoltrata e l’assoluta impossibilità di aggirarequesti ostacoli costrinsero il capitano Cook, sia purecontrovoglia, a riprendere la rotta verso nord. Nel novembre successivo riprese comunque l’esplora-zione dell’Antartico. A 59° 40’ di latitudine s’imbatté inuna forte corrente che portava a sud. A dicembre,quando le navi avevano raggiunto 67° 31’ di latitudinee 142° 54’ di longitudine ovest, il freddo si fece più in-tenso, accompagnato da nebbia e da temporali. Anchequi c’erano tantissimi uccelli: albatros, pinguini e so-prattutto procellarie. A 70° 23’ di latitudine le navi in-contrarono alcuni enormi isole di ghiaccio e poco dopo,verso sud, furono avvistate nuvole bianche come laneve, segno che la banchisa era vicina. A 71° 10’ di lati-tudine, 106° 54’ di longitudine ovest, gli esploratori tro-varono il cammino sbarrato da un immenso mare dighiaccio, che si estendeva per tutto l’orizzonte meridio-nale. A sud, quella distesa continuava per un migliocirca; a nord era tutta frastagliata, ma talmente compattada risultare invalicabile. Oltre questa fascia, la superficieghiacciata continuava a essere relativamente liscia an-cora per un buon tratto, innalzandosi poi all’orizzonteestremo in gigantesche catene di montagne di ghiaccio,

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che s’innalzavano una sull’altra. Secondo il capitanoCook questa distesa così vasta raggiungeva il Polo sud,o forse si trovava collegata a un continente. J.N. Rey-nolds, che con grandi sforzi e perseveranza riuscì a or-ganizzare una spedizione nazionale per esplorare anchequelle regioni, parlando del tentativo del Resolutiondisse: «Non ci sorprende che il capitano Cook non siariuscito a oltrepassare i 71° 10’, mentre siamo stupiti cheabbia raggiunto quel punto a 106° 54’ di longitudineovest. La penisola di Palmer, che si trova a sud delleShetland, a 64° di latitudine, a sud e a ovest si estendeben oltre i limiti raggiunti da qualunque navigatore.Cook puntava su questa terra, quando la sua avanzatavenne fermata dal ghiaccio; riteniamo ciò inevitabile, aquella latitudine, anche al 6 di gennaio, e dunquequando la stagione è all’inizio; né ci sorprenderebbe cheuna parte delle montagne ghiacciate descritte fosse unitaalla parte continentale della penisola di Palmer, o a qual-che altro territorio situato più avanti a sud-ovest». Nel 1803 i comandanti Kreutzenstern e Lisiausky rice-vettero l’incarico dallo zar Alessandro di Russia di cir-cumnavigare il globo. Nei loro tentativi di spingersi asud arrivarono fino ai 59° 58’, 70° 15’ di longitudineovest, dove trovarono delle forti correnti che li spinge-vano a est. Di balene ce n’erano in quantità, ma di ghiac-cio non ne videro affatto. Reynolds, a proposito diquesto viaggio, fa notare che se Kreutzenstern fosse ar-rivato in quella zona a stagione meno tarda, avrebbesenza dubbio trovato del ghiaccio, ma quando toccò lalatitudine sopra citata era marzo. I venti più forti, chesoffiano in quel periodo da sud-ovest, con l’aiuto dellecorrenti avevano spinto i lastroni di ghiaccio nella re-

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gione glaciale delimitata a nord dalla Georgia, a est dallaTerra di Sandwich e dalle Orcadi australi, e a ovest dalleShetland australi. Con due piccole navi, nel 1822 il capitano James Wed-dell della Marina Britannica riuscì ad andare più a suddi qualsiasi altro navigatore in precedenza, senza incon-trare particolari difficoltà. Riferisce che, pur trovandosiin più occasioni prigioniero del ghiaccio prima del 72moparallelo, una volta raggiuntolo non ne vide più nem-meno un cristallo; arrivato a 74° 15’ di latitudine erasparita anche la banchisa e restavano soltanto tre isoledi ghiaccio. Per quanto comparissero numerosi stormidi uccelli e altri segni, che di norma indicano la presenzadi terraferma, e per quanto l’uomo di guardia in coffaavesse avvistato coste sconosciute a sud delle Shetland,Weddell stranamente si mostrò scettico sull’esistenza diterre nelle regioni antartiche. L’11 gennaio 1823 il capitano Benjamin Morrell, al co-mando della goletta americana Wasp, salpò dalla Terra diKerguelen con l’intenzione di spingersi a sud quanto piùpossibile. Il primo febbraio raggiungeva i 64° 52’ di latitu-dine sud e i 118° 27’ di longitudine est. Il brano che segueè tratto dal suo diario, in quella data: «Poiché ben prestola brezza rinfrescò in un vento da undici nodi, sfruttammoquesta possibilità per dirigerci verso ovest; convinti peròche, avanzando verso sud oltre i 64° di latitudine, avremmotrovato quantità di ghiaccio sempre minore, puntammo inquella direzione, superando così il Circolo Antartico a 69°15’ est. A questa latitudine non c’era banchisa, e di isole dighiaccio se ne vedevano pochissime». In data 14 marzo si legge poi: «Il mare era ormai com-pletamente libero dalla banchisa e si vedevano non più

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di una dozzina di isole di ghiaccio. La temperatura del-l’aria e dell’acqua intanto era di almeno tredici gradi su-periore alla massima (dunque più mite) che avessimomai registrato tra il 60mo e il 62mo parallelo sud. Ci tro-vavamo allora a 70° 14’ di latitudine sud; la temperaturadell’aria era di otto gradi, quella dell’acqua di sei. Inquel punto calcolai una variazione di 14° 27’ verso estper azimut. Ho superato il Circolo Antartico diversevolte, all’altezza di vari meridiani, verificando nelle variemisurazioni che sia la temperatura dell’aria sia quelladell’acqua aumentavano gradualmente man mano cheprocedevo oltre il 65° di latitudine sud, e che la varia-zione diminuiva nella medesima proporzione. A norddi questa latitudine invece, più o meno tra il 60° e il 65°sud, eravamo spesso in gran difficoltà a trovare un varcoper la nave tra le immense e numerosissime isole dighiaccio, alcune delle quali misuravano uno e forse duemiglia di circonferenza, e più di cinquecento piedi di al-tezza sul livello del mare». A bordo, il capitano Morrell aveva quasi terminato l’acquae il combustibile; trovandosi anche senza gli strumentiadatti, e in una stagione avanzata, nell’impossibilità dispingersi ancora verso ovest fu costretto a tornare indietro,anche se davanti a lui il mare si stendeva aperto. A suo pa-rere, se quelle cause di forza maggiore non l’avessero co-stretto al rientro, avrebbe potuto arrivare, se non propriofino al Polo, almeno sino all’85mo parallelo. Ho riportatole sue opinioni in merito, dando loro un certo spazio, inmodo che il lettore possa giudicare fino a che punto sa-ranno confermate dalle mie esperienze future. Il capitano Briscoe, al servizio degli Enderby, armatorilondinesi di baleniere, nel 1831 salpò con il brigantino

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Lively alla volta dei mari del sud, avendo come scorta ilcutter Tula. Il 28 febbraio, a 66° 30’ di latitudine sud e47° 13’ di longitudine est, avvistò terra, «distinguendo inmodo chiaro tra le nevi le vette nere di una catena dimontagne che andava in direzione est-sud-est». Rimasein quei paraggi per l’intero mese seguente, ma il mal-tempo gli impedì di avvicinarsi a meno di dieci leghe dallacosta. Data la stagione, non potendo fare altre scoperte,tornò a nord, per svernare nella Terra di Van Diemen.All’inizio del 1832 si spinse ancora a sud, avvistando terraa sud-est il 4 febbraio, a 67° 15’ di latitudine e 69° 29’ dilongitudine ovest. Si accorse presto che si trattava diun’isola vicina al corpo principale della terra da lui stessoscoperta e, riuscito a sbarcare il ventuno del mese, neprese possesso in nome di Guglielmo IV, chiamandolaisola Adelaide in onore della regina d’Inghilterra. LaRoyal Geographical Society di Londra, non appena otte-nute le informazioni sui particolari della scoperta, giunsealla conclusione che «un tratto ininterrotto di terra siestende da 47° 30’ di longitudine est fino a 69° 29’ di lon-gitudine ovest, tra il 66mo e il 67mo parallelo di latitudinesud». Intorno a queste conclusioni, Reynolds osserva:«Non concordiamo sulla loro esattezza, né le scoperte diBriscoe consentono di arrivare a simili conclusioni. Fuproprio entro tali limiti che Weddell avanzò verso sud,lungo un meridiano a est della Georgia, della Terra diSandwich, delle Orcadi australi e delle isole Shetland».La mia esperienza diretta darà ulteriori prove dell’infon-datezza delle conclusioni raggiunte dalla Society. A partire da questo resoconto, nel quale sono stati citatii principali tentativi di giungere fino alle più estreme la-titudini meridionali, si capirà che prima del viaggio della

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Jane Guy rimanevano quasi trecento gradi di longitudinelungo i quali il Circolo Antartico non era mai stato per-corso. Un ampio territorio attendeva dunque che noi loesplorassimo e ascoltai quindi con profondo interesse ilcapitano Guy dichiarare le sue intenzioni di puntare, co-raggiosamente, verso sud.

Capitolo 17

Dopo aver dunque rinunciato alla scoperta delle isole,per la durata di quattro giorni ci spingemmo verso sud,senza incontrare ghiacci: il 26 dicembre a mezzogiorno,a 63° 23’ di latitudine sud e a 41° 25’ di longitudine ovest,scorgemmo alcune grandi isole e una distesa di ghiacciodi media estensione; il vento soffiava da sud-ovest o danord-est, ma molto debole; i venti da ovest erano rari esempre accompagnati da pioggia; avevamo tutti i giornila neve e il 27 dicembre il termometro segnava 35°F.1° gennaio 1828. Oggi siamo completamente circondatidai ghiacci e le prospettive non sono per niente rassicu-ranti: una violenta tempesta ha soffiato dal nord-est pertutta la mattina, spingendo grossi blocchi di ghiacciocontro il timone e la poppa con tanta violenza, da farcitemere conseguenze fatali. Verso sera la tempesta infu-riava ancora, ma a un certo punto l’enorme massa dighiaccio che ostruiva il paesaggio si è aperta in due; spie-gando tutte le vele, siamo riusciti ad aprirci un varco at-traverso iceberg di dimensioni minori, fino al marelibero; man mano che ci avvicinavamo, riducevamo levele e, una volta oltrepassato l’ostacolo, siamo rimasticon la vela di trinchetto e una sola mano di terzaroli.

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2 gennaio. Tempo accettabile. A mezzogiorno eravamoa 60° 10’ di latitudine sud e a 42° 20’ longitudine ovest,avendo attraversato il Circolo polare antartico. Pochis-simo ghiaccio in vista nella costa del sud, benché vi fos-sero grandi banchi alle nostre spalle. Abbiamofabbricato una specie di scandaglio usando un vaso diferro della capacità di venti galloni circa. Abbiamo tro-vato una corrente da nord di una velocità di un quartodi miglia all’ora. Temperatura 33°F.5 gennaio. Avanziamo sempre verso sud senza ostacoliseri. Al mattino tuttavia ci siamo trovati di nuovo davantia una distesa di ghiaccio; al di là un tratto di mare liberoche disperavamo di raggiungere. Abbiamo virato a est,costeggiando la banchisa e abbiamo finito per scoprireun varco di quasi un miglio di larghezza ove ci siamo ad-dentrati al calar del sole. Il mare in cui ci troviamo è dis-seminato di iceberg, ma non è più banchisa compatta,per cui osiamo spingerci avanti.7 gennaio. Il mare si mantiene abbastanza libero e pro-seguiamo la navigazione senza ostacoli; abbiamo scortoa ovest alcuni enormi iceberg e a mezzogiorno siamopassati molto vicini a uno di essi; nel punto più alto do-veva misurare almeno cento braccia sopra il livello delmare, aveva forse tre quarti di lega di circonferenza, e ifianchi erano disseminati di cascate. Siamo rimasti a ri-dosso di quell’isola di ghiaccio per due giorni, dopo diche è sparita in una densa nebbia.10 gennaio. Al mattino, molto presto, abbiamo avuto lasventura di perdere un uomo che è caduto in mare. Eraun americano, Peters Vredenburgh, di New York, ed eraconsiderato come uno dei migliori marinai di bordo. Eraa prua, quando un piede gli è scivolato ed è caduto fra

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due blocchi di ghiaccio senza più riemergere. Fa moltofreddo e siamo continuamente investiti da raffiche divento e ghiaccio provenienti dal nord e da est. Incon-triamo enormi iceberg, l’orizzonte sembra un muro dighiaccio. La sera abbiamo incrociato delle assi di legnoportate dalla corrente e in alto volava una grande quantitàd’uccelli, fra i cui procellarie, albatros e un grosso uccellodalle penne azzurre e lucide.12 gennaio. Avanzare verso sud-est è ancora molto dif-ficile, perché da qualunque parte volgiamo lo sguardovediamo una distesa infinita di ghiaccio, sormontata davere montagne dai picchi disposti degradanti uno sul-l’altro. Facciamo rotta a ovest nella speranza di scoprireun passaggio.14 gennaio. Stamani abbiamo raggiunto la punta delladistesa di ghiaccio che impediva il passaggio e, dopoaverla doppiata, ci siamo trovati in mare aperto, senzapiù ostacoli. Abbiamo calato uno scandaglio di due-cento braccia e misurato una corrente in direzione suddi mezzo miglio all’ora. La deviazione per azimut èscesa, la temperatura atmosferica è più dolce, nessunatraccia di ghiaccio intorno a noi. A bordo tutti sono con-vinti che siamo vicini al polo.17 gennaio. Giornata piena d’incidenti. Stormi di uccellivolavano sopra di noi; ad alcuni abbiamo sparato dalponte della nave, fra cui una specie di pellicano, le cuicarni si sono rivelate commestibili. Poiché il tempo erabuono, il capitano Guy ha fatto calare due imbarcazioniper esplorare un blocco di ghiaccio che sembrava occu-pato da un enorme animale. Dirk Peters e io accompa-gnavamo il secondo in una delle due scialuppe e,avvicinandoci all’isolotto di ghiaccio, vedemmo che

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l’animale era un orso bianco di dimensione superiorialla norma. Poiché eravamo bene armati, non abbiamoesitato ad attaccarlo e gli abbiamo scaricato addosso inostri fucili. Ma l’orso apparentemente non ne ha risen-tito e, abbandonando il blocco di ghiaccio, si è lanciatoa nuoto con la bocca spalancata in direzione della barcadove eravamo io e Peters. Restammo sorpresi da quellareazione e, prima che avessimo il tempo di difenderci,l’orso era già riuscito a montare per metà col suo corpomassiccio nell’imbarcazione e ad afferrare uno dei nostriuomini alla schiena senza che avessimo trovato il mododi respingerlo. Fu la forza e l’agilità di Peters a salvarci,altrimenti non saremmo scampati alla morte. Appog-giandosi sul dorso dell’enorme bestia, gli conficcò il col-tello nella nuca, fino al cervello. L’orso sprofondònell’acqua, fulminato, senza neppure dibattersi, trasci-nando nella caduta Peters, che però riemerse subito e,con una cima che gli avevamo lanciato, legò il corpo del-l’animale. Tornammo a bordo trionfanti, rimorchiandoil nostro trofeo. Lo misurammo e contava più di quin-dici piedi di lunghezza; la sua pelliccia era perfettamentebianca, con un pelo molto ruvido e crespo; gli occhierano colore rosso sangue, più grossi di quelli dell’orsoartico, e il muso più rotondo. La carne era tenera, mamolto rancida e sapeva di pesce, il che non impedì agliuomini dell’equipaggio di divorarla con grande appetitoe di dire che era buona.Ci stavano godendo il nostro successo, quando udimmole grida di gioia dell’uomo di vedetta. Terra a tribordo!Tutto l’equipaggio si mise in movimento... e, col favoredi un vento a favore da nord-est, in breve ci avvici-nammo alla costa. Era un isolotto basso e roccioso, di

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circa una lega di larghezza, e del tutto privo di vegeta-zione, fatta eccezione di una specie di fico selvatico. Av-vicinandoci da nord, scorgemmo una roccia di formabizzarra che si protendeva sul mare e che somigliava, inmodo strano, a una balla di cotone cardato. All’estre-mità meridionale raccogliemmo vicino alla riva, sepoltaper metà sotto un mucchio di pietre, un pezzo di legnoche sembrava una polena.A parte quel frammento di prua, ammesso che fosse ve-ramente una polena, nessun altro indizio faceva sup-porre che degli esseri umani avessero mai vissuto inquell’isola; intorno, lontani, galleggiavano alcuni piccoliblocchi di ghiaccio; l’isolotto, che il capitano Guy bat-tezzò col nome di Bennet, in onore del suo socio, com-proprietario della goletta, è situato a 82° 50’ di latitudinesud e 42° 20’ di longitudine ovest.Nella nostra rotta verso sud avevamo quindi superato diotto gradi i punti raggiunti da tutti i navigatori che ci ave-vano preceduto e il mare davanti a noi si presentava com-pletamente libero; costatammo, al contempo, che ladeviazione decresceva uniformemente, a misura che cispingevamo avanti, cosa più sorprendente ancora, tantopiù che, oltre alla temperatura atmosferica, anche quelladell’acqua andava crescendo. Il tempo, infatti, era moltogradevole e usufruivamo di un vento costante, ma debole.Avevamo solo due problemi: il carburante che stava peresaurirsi e dei sintomi di scorbuto manifestatisi tra gli uo-mini dell’equipaggio. Queste cose iniziavano a preoccu-pare il capitano Guy, che riteneva opportuno tornareindietro e ne parlava continuamente. Quanto a me, eroconvinto che proseguendo su quella rotta non avremmotardato a incontrare una terra qualunque, e avevo ragione

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di credere che non vi avremmo trovato la desolazionedelle latitudini artiche. Lo consigliai vivamente di prose-guire, almeno per alcuni giorni, nella rotta che avevamoseguito fino ad allora, perché mai più avremmo avuto mi-gliore occasione per risolvere il grande problema dell’esi-stenza di un continente antartico e confesso che ero moltoindignato di fronte alle obiezioni timide e intempestivedel nostro comandante. Non dubitavo che, alla fine, irimproveri che gli rivolgevo in continuazione l’avrebberoincoraggiato a proseguire oltre. Così, pur deplorando idrammatici e sanguinosi episodi, successi a seguito diquei miei consigli, credo di potere essere a buon dirittoorgoglioso di aver contribuito, in una certa misura, a sve-lare agli occhi della scienza uno dei segreti più meravi-gliosi che mai abbiano attirato la sua attenzione.

Capitolo 18

18 gennaio. La mattina abbiamo proseguito la nostra rottaverso sud, con un tempo molto bello e il mare completa-mente piatto. La temperatura dell’acqua era 53°F. Ab-biamo calato in acqua il nostro scandaglio e abbiamoverificato una corrente nella direzione del polo di un mi-glio l’ora. Questo costante concorso del vento e della cor-rente a spingere verso sud preoccupava non poco ilcapitano Guy. Durante la giornata abbiamo avvistato di-verse balene e molti stormi di albatros in volo sopra lanave. Abbiamo anche ripescato un arbusto con delle bac-che simili a quelle del biancospino, come pure la carcassadi uno strano animale terrestre; misurava circa tre piedidi lunghezza e sei soli pollici di altezza, con quattro

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gambe molto corte e piedi muniti di lunghi unghioli rossie brillanti, di una sostanza simile al corallo. Il corpo eraricoperto di un pelo morbido e bianchissimo, la coda eralunga quasi un piede e mezzo e fine come quella di untopo. La testa somigliava a quella di un gatto, fatta ecce-zione per le orecchie, pendenti come quelle di un cane. Identi erano dello stesso colore scarlatto delle unghie.19 gennaio. Oggi, a 83° 20’ di latitudine sud e 43° 5’ dilongitudine ovest, con un mare molto cupo, l’uomo divedetta ha avvistato terra e, avvicinandoci, abbiamo co-statato che si trattava di tre grandi isole. La costa era astrapiombo e l’interno appariva molto boscoso e ce nerallegrammo. Quattro ore circa dopo la scoperta, get-tammo l’ancora a una profondità di dieci braccia su unfondo sabbioso a una lega dalla riva, perché gli alti fran-genti rendevano pericoloso avvicinarsi troppo. Ca-lammo in acqua le due imbarcazioni più grosse e unplotone bene armato – di cui facevamo parte io e Peters– si mise alla ricerca di un passaggio nella cintura di roc-cia che circondava le isole. Dopo lunghe esplorazioni,scoprimmo finalmente un canale e stavamo per adden-trandoci, quando vedemmo staccarsi dalla riva quattropiroghe piene di uomini che sembravano armati fino aidenti. Lasciammo che si avvicinassero e, poiché proce-devano abbastanza veloci, si trovarono presto a portatadi voce. Il capitano Guy issò allora un fazzoletto biancoall’estremità di un ramo e, vedendolo, gli indigeni si ar-restarono subito, pronunciando frasi incomprensibili,miste a grida fra cui si potevano distinguere le paroleAnamoo-moo e Lama-lama. Questa sceneggiata durò peruna buona mezz’ora, durante la quale avemmo tutto iltempo di studiare la loro fisionomia.

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Le quattro piroghe, che potevano misurare cinquantapiedi di lunghezza e cinque piedi di larghezza, contene-vano in tutto centodieci indigeni. La loro statura era si-mile a quella degli europei, i muscoli erano però piùvigorosi e sodi. La pelle era nera come la pece, i capellispessi, lunghi e crespi. Le vesti consistevano semplice-mente in una pelle di un animale sconosciuto, nero, dalpelo liscio e morbido, modellata intorno al corpo conuna certa cura. Le loro armi erano principalmente dellemazze dì legno nero, in apparenza molto pesanti; po-temmo però notare molte lance e anche delle frecce. Ilfondo delle piroghe era tutto disseminato di pietre neredella dimensione di un grosso uovo.Quando ebbero finito la loro arringa – perché si trattavacertamente di un’arringa ufficiale nel loro linguaggio –uno di essi, che aveva tutta l’aria di essere il capo, si alzosulla prua della piroga facendoci segno di avvicinare leimbarcazioni alle loro. Fingemmo di non capire l’invito,ritenendo più prudente mantenere per quanto possibileuna certa distanza, perché era ben quattro volte più dinoi. Il capo indovinò senza dubbio ciò che passava perla nostra testa, per cui ordinò alle altre tre piroghe di ar-restarsi mentre lui proseguiva verso di noi. Appena ac-costato, saltò a bordo della più grande delle nostrescialuppe e, sedendosi a fianco del capitano Guy, indicòcol dito la goletta, ripetendo: Anamoo-moo e Lama-lama. Tornammo allora verso la Jane Guy, seguiti da vi-cino dalle quattro piroghe. Avvicinandoci a bordo, ilcapo manifestò uno stupore e una gioia estrema: battevale mani, si percuoteva le cosce e il petto, saltellava. Glialtri condividevano la sua ilarità e in capo a pochi mi-nuti, fu un baccano davvero assordante.

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Una volta tornata la quiete, il capitano Guy, fece issarele scialuppe per precauzione, dopo di che cercò di spie-gare al capo – il cui nome, come apprendemmo dopo,era Too-Wit – che non poteva ammettere a bordo più diventi uomini alla volta. Il capo parve capire subito la pro-posta e diede istruzioni ai suoi uomini, facendo avvici-nare una sola piroga, mentre le altre restavano a distanza.Venti selvaggi salirono così a bordo e si mi misero a per-lustrare il ponte, arrampicandosi da ogni parte, compor-tandosi assolutamente come fossero in casa propria, edesaminando tutto con la più viva curiosità.Era chiaro che vedevano gli uomini bianchi per la primavolta e il colore della nostra pelle sembrava provocar loroun profondo disgusto. Pensavano che la Jane Guy fosseuna creatura vivente, sembrava anzi che temessero di fe-rirla con la punta delle loro lance, che poggiavano condelicatezza. A un certo punto, il nostro equipaggio si di-vertì molto per i modi strani di Too-Wit. Il cuoco dibordo era intento a spaccare la legna vicino alla cucina,e, senza pensarci, piantò l’ascia sul legno del ponte inci-dendolo a fondo; subito il capo si precipitò sul cuoco,scuotendolo brutalmente, poi emise una specie di la-mento, simile quasi a un grido di dolore, per mostrareche compativa la sofferenza della goletta e si mise a spia-nare con la mano, ad accarezzare la ferita, a ripulirla conl’acqua di mare contenuta in un secchio che si trovava lìvicina. Era un’ingenuità a cui non eravamo preparati, ma– per quanto mi riguarda – pensai che la scena fosse unpo’ simulata.Quando i nostri ospiti esaurirono – nel bene e nel male –la loro curiosità per la struttura della nave, vennero con-dotti sottocoperta e il loro stupore non ebbe più limiti:

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sembravano talmente sorpresi da non articolare parola;andavano da una parte all’altra in un silenzio rotto soloogni tanto da sorde esclamazioni. Le armi, che permet-temmo loro di maneggiare liberamente, furono per lorooggetto delle più svariate supposizioni. Credo che nonavessero la minima idea a cosa servissero, e che le giudi-cassero piuttosto per degli idoli, nel vedere la cura cheavevamo nel maneggiarle e il modo con cui sorvegliavamoogni loro movimento quando le toccavano. Alla vista deigrossi cannoni, il loro stupore, raddoppiò; si avvicinaronocon i segni del più profondo rispetto e del più profondotimore, ma si rifiutarono di esaminarne i minimi dettagli.Nella cabina c’erano due grandi specchi e vedendoli re-starono di stucco. Too-Wit si avvicinò per primo, cam-minando di fronte all’uno e volgendo la schiena all’altroprima di essersene accorto. Ma quando, alzando gli occhi,il selvaggio vide la sua immagine riflessa nello specchio,sembrò impazzire. Fece bruscamente dietrofront perscappare, ma quando si vide di nuovo sull’altro specchio,credetti veramente che stramazzasse al suolo. Non riu-scimmo in alcun modo a indurlo a guardarsi un’altra voltanello specchio e, inginocchiatosi sul pavimento col visotra le mani, non si mosse più, cosicché dovemmo trasci-narlo a forza sul ponte.L’intera tribù indigena fu ricevuta a bordo in questo modo,a gruppi di venti. A Too-Wit fu concesso di restare pertutto il tempo in cui durò la processione e a noi non parveche avessero intenzione di portare via niente; dopo la loropartenza infatti costatammo che non mancava nulla. Du-rante la visita mantennero un atteggiamento amichevole;nelle loro maniere vi erano tuttavia alcuni dettagli che re-stavano per noi inspiegabili; ad esempio, non c’era modo

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di farli avvicinare a cose assolutamente inoffensive, comele vele della goletta, un uovo, un libro aperto, una scodelladi farina. Cercammo di sapere da loro se avevano qualcosada barattare, ma durammo un’enorme fatica a farci capire.Scoprimmo poi con nostra grande sorpresa che in quelleisole c’erano molte tartarughe giganti e una l’avevamo vistanella piroga di Too-Wit. Vedemmo anche delle oloturie inmano agli indigeni, che le mangiavano crude.Queste stranezze, o per meglio dire ciò che noi consi-deravamo come stranezze, spinsero il capitano Guy aintraprendere un’esplorazione, nella speranza di trarrequalche vantaggio dalla scoperta. Quanto a me, ero cu-rioso certamente di conoscere queste isole più a fondo,ma ero ancora più desideroso di proseguire, senza in-dugio, il nostro viaggio. Il tempo era bello, ma non sa-pevamo quanto sarebbe durato e, avendo già raggiuntol’84° parallelo, col mare aperto davanti a noi e una cor-rente che trascinava veloce verso sud, mi spazientivosentendo parlare di una sosta in quelle isole più lungadi quanto sarebbe stato necessario per la salute del-l’equipaggio e per approvvigionarsi a sufficienza di com-bustibili e viveri. Dimostrai dunque al capitano Guy chesarebbe stato assai ragionevole far sosta in quelle isoleal ritorno, per svernarvi nel caso che il passaggio fossebloccato dai ghiacci, ed egli finì per arrendersi alla miadecisione, perché avevo acquistato, non so io stessocome, un singolare ascendente su di lui, e fu deciso chesaremmo rimasti una settimana per ristabilirsi e poiavremmo proseguito la navigazione verso sud, quandoera ancora possibile.Facemmo quindi tutti i preparativi e, con la guida diToo-Wit, la Jane Guy manovrò senza difficoltà attra-

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verso gli scogli per gettare finalmente l’ancora a forse aun miglio dal litorale, in una bella baia circondata daogni parte dalla terra, sulla costa sud-est dell’isola prin-cipale, su un fondo di sabbia nera.Ci fecero capire che in fondo a quella baia sfociavanoquattro limpidi ruscelli d’acqua fresca e che la vegeta-zione all’interno era lussureggiante. Le quattro pirogheci scortavano sempre, seppure a rispettosa distanza, eToo-Wit, che era a bordo con noi, dopo l’operazione diancoraggio, ci invitò ad accompagnarlo a terra per visi-tare il villaggio. Il capitano Guy accettò l’invito; dieciindigeni vennero custoditi a bordo come ostaggi, e unpiccolo gruppo, composto di dodici dei nostri, si af-frettò a seguire il capo.Avemmo cura di armarci bene, ma in modo da noncreare diffidenza, non conoscendo ancora a fondo l’in-dole di questi selvaggi e non volendo, d’altra parte, de-stare sospetti che avrebbero potuto provocarci serieconseguenze. Oltre a mettere in posizione i cannoni esollevare le reti sulle murate, prendemmo altre precau-zioni per evitare sorprese alla goletta. Al secondo fudato ordine di non lasciar salire a bordo nessuno du-rante la nostra assenza e di mandare una barca armatadi spingarda a cercarci lungo l’isola se entro dodici orenon fossimo tornati. Man mano che ci addentravamo all’interno, ci convince-vamo sempre più di trovarci in un paese molto diversoda quelli finora esplorati da uomini civili. Nulla di quantovedevamo ci era familiare. Le piante non somigliavanoalla vegetazione che cresce nelle zone torride, in quelletemperate o in quelle gelide del nord, e diverse anche daquelle delle basse latitudini da noi appena attraversate.

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Anche le rocce erano strane, nella forma, nel colore enella struttura; i ruscelli, per quanto incredibile, avevanocosì poco in comune con quelli che scorrono altrove cheesitammo a berne l’acqua, perché ci sembrava impossibileche avesse qualità naturali. Arrivati a un ruscello che ciattraversava il cammino (il primo che incontravamo),Too-Wit e il seguito si fermarono a bere. L’aspetto diquell’acqua ci lasciava sospettosi, per paura che fosse con-taminata e passò un po’ di tempo prima che ci rendes-simo conto che, in quell’arcipelago, tutti i corsi d’acquaerano così. Non sono in grado di descrivere precisamentela natura di quel liquido, né posso farlo in due parole.Anche se scorreva rapida lungo i declivi come una qual-siasi acqua, non possedeva – se non quando precipitavaa cascata – la normale trasparenza, anche se era del tuttolimpida, come ogni altra acqua calcarea. A prima vista, esoprattutto dove la pendenza era meno pronunciata, sem-brava avere la consistenza di una densa soluzione digomma arabica disciolta in acqua. Ma di tutte le sue stra-ordinarie caratteristiche, questa era quella che sorpren-deva meno. Non era incolore, né possedeva un coloreuniforme; scorrendo, presentava ogni possibile sfumaturapurpurea, come le tinte di una seta cangiante. Il modo incui si creavano queste variazioni di tono causò in noi unostupore profondo simile a quello che lo specchio avevasuscitato in Too-Wit. Riempito un secchio e lasciata de-positare bene l’acqua, scoprimmo che il liquido aveva di-verse venature distinte, ognuna di un colore diverso, equeste venature non si mescolavano tra loro; la perfettacoesione tra le singole particelle di ognuna era altrettantoimperfetta tra una venatura e l’altra. Facendo passare lalama di un coltello attraverso le venature, l’acqua vi si ri-

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chiudeva subito sopra, e una volta ritirato il coltello nonrestava traccia del suo passaggio. Se invece la lama venivafatta passare attentamente tra una vena e l’altra, la sepa-razione era perfetta, e la forza di coesione non riuscivasubito ad annullare l’effetto. I curiosi fenomeni relativi aquell’acqua costituirono il primo anello di una lunga ca-tena di scoperte, apparentemente miracolose, che mi ri-servava il destino.

Capitolo 19

Ci vollero circa tre ore di cammino in un sentiero moltoimpervio per raggiungere il villaggio, che si trovava anon meno di nove miglia all’interno. Come ci avvici-nammo con Too-Wit e il suo seguito, una moltitudined’indigeni si lanciò verso di noi, con grida fra cui distin-guemmo il solito ritornello Anamoo-moo! e Lama-lama!,e la nostra sorpresa fu molto grande quando vedemmoche, fatta qualche eccezione, erano completamente nudie che le vesti di pelliccia erano privilegio esclusivo degliuomini che componevano l’equipaggio delle piroghe.Pareva che questi ultimi si fossero accaparrati tutte learmi del paese, perché non vedemmo un’arma tra lemani degli abitanti del villaggio; c’erano molti bambinie donne non prive di bellezza, alte, slanciate, snelle, conuna certa grazia nel passo e nell’andamento come è rarovedere nella nostra società civilizzata. Disgraziatamentele labbra, come anche quelle degli uomini, erano grossee sgraziate, cosicché, anche quando ridevano, non sco-privano mai i denti; la capigliatura era invece molto piùfine di quella degli uomini.

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Fra questi indigeni nudi, si potevano vedere dieci o forsedodici uomini, vestiti di pelli nere, come quelli che accom-pagnavano Too-Wit, armati di lance e di mazze pesanti, esembravano possedere un grande ascendente sul restodella popolazione che, quando si rivolgeva a loro, usavasempre il titolo di Wampoo. Erano loro i custodi di unacapanna dal tetto in pelle nera. Quella di Too-Wit era si-tuata al centro del villaggio ed era molto più spazioso e dicostruzione molto più accurata degli altri. L’albero cui eraappoggiato era stato tagliato all’altezza di dodici piedicirca dalla radice ed erano stati lasciati numerosi ramisotto il punto tagliato, in modo da mantenere la coperturadel tetto ben stesa e impedirle di battere contro il tronco;questa copertura, formata da quattro pelli molto grandiattaccate le une alle altre con dei rinforzi di legno, era as-sicurata alle estremità per mezzo di tiranti fissati a terra; ilsuolo era coperto di grandi foglie a guisa di tappeto.Venimmo dunque condotti con gran pompa a quella re-sidenza, mentre dietro di noi si accalcava una folla di sel-vaggi, quanti la capanna poteva contenerne. Too-Wit sisedette sulle foglie facendoci segno di seguire il suoesempio e ci trovammo così in una posizione molto sco-moda e pericolosa. Eravamo dodici, seduti a terra, cir-condati da circa quaranta indigeni seduti sui calcagni ecosì strettamente addossati a noi che, nel caso fosse suc-cesso qualcosa, ci saremmo trovati nell’impossibilità nonsolo di servirci delle nostre armi, ma anche di estrarledalle tasche. Il resto della tribù – presumibilmente tuttigli abitanti dell’isola – non poteva naturalmente esserecontenuta sotto la tenda, per cui si stipava fuori, e se nonfummo schiacciati lo dovemmo solo ai gesti e alle gridaripetute di Too-Wit. Era soprattutto la sua presenza in

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mezzo a noi che garantiva la nostra sicurezza, per cui de-cidemmo di stringerci ancor più intorno a lui, pensandoche fosse quello il mezzo migliore per trarci da quell’im-barazzante situazione e decisi a ucciderlo subito al primosegno di ostilità. Dopo qualche protesta, il capo riuscì aottenere il silenzio e ci rivolse un discorso abbastanzalungo, simile a quello con cui ci aveva omaggiato dall’altodella sua piroga, con la differenza che gli Anamoo-moo!erano questa volta pronunciati con più enfasi rispetto aiLama-lama! Noi ascoltammo la nuova arringa con pro-fondo rispetto e il capitano Guy rispose con dichiara-zioni d’amicizia e simpatia nei confronti di Too-Wit, cuifece dono, terminando il breve discorso, di alcune col-lane di vetro azzurro e di un coltello.Con nostra grande sorpresa e storcendo il naso, il re mo-strò di non gradire molto le collane, mentre accettò congrande soddisfazione il coltello, dopodiché Too-Wit or-dinò immediatamente il pranzo, che venne servito sottola tenda e dove i piatti venivano fatti passare sopra latesta degli indigeni che assistevano. Unico cibo erano ivisceri ancora palpitanti di uno di quei maialini dallegambe gracili che avevamo visto giungendo al villaggioe, vedendo che non sapevamo come servircene, il capoce ne diede l’esempio inghiottendo alcuni bocconi diquel cibo disgustoso; davanti a tale insopportabile spet-tacolo, il nostro stomaco non tardò a dare dei segni ma-nifesti di rivolta, ciò che provocò presso il sovrano unostupore analogo – per intenderci – a quello che gli avevafatto provare la vista dei nostri specchi. Ma non riuscìin alcun modo a convincerci a prendere la nostra partedi quelle delicate leccornie, perché declinammo di cuorequell’onore, facendogli capire che ci eravamo appena

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alzati da un pranzo molto abbondante e che questo ciimpediva di fare onore alla sua tavola.Alla fine del pranzo sottoponemmo al re una serie di do-mande, usando i mezzi più ingegnosi che il lettore puòimmaginare, per conoscere quali fossero i prodotti diquella terra della contrada e se ce ne fosse qualcuno dacui potessimo trarre profitto. Finalmente parve capire,in qualche modo, dove volevamo arrivare e si offrì dicondurci a un certo punto del litorale dove, così ci assi-curò, pullulavano le oloturie. Questa per noi era un’ec-cellente occasione per sfuggire alla folla che ci pressava,per cui manifestammo il nostro impaziente desiderio ditogliere la seduta; uscimmo infatti dalla tenda e, scortatida tutta la popolazione del villaggio, seguimmo il capofino alla punta sud-est dell’isola, non molto lontano dadove la nostra nave aveva gettato l’ancora.Per circa un’ora restammo in quel luogo aspettando lequattro piroghe, su cui prendemmo posto e fummo ve-locemente portati attraverso gli scogli a uno più grandee più al largo, dove scoprimmo una quantità di oloturie,quante non ne aveva mai viste neanche il più vecchio deinostri marinai, negli arcipelaghi delle basse latitudini. Marestammo laggiù solo il tempo necessario per capire chelaggiù ce n’era da caricare almeno dodici navi, dopo diche risalimmo a bordo della goletta e ci separammo daToo-Wit non senza aver ottenuto la promessa che ci sa-rebbero state portate tante tartarughe e anitre quanto lesue piroghe avessero potuto contenerne. Durante tuttaquest’avventura, non notammo nel comportamento degliindigeni alcun indizio che potesse destare sospetto, senon il fatto che il loro numero si era considerevolmenteaccresciuto durante il tragitto dalla goletta al villaggio.

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Capitolo 20

Il capo mantenne la sua parola e fummo ben presto for-niti di provviste fresche in abbondanza: le tartarugheerano particolarmente squisite, e le anitre molto supe-riori alle nostre migliori specie di volatili selvatici, estre-mamente tenere, succulente e di un sapore delizioso.Quando gli facemmo capire cosa avremmo desiderato,gli indigeni ci portarono inoltre una gran quantità di se-dano e un’erba efficace contro lo scorbuto, insieme a uncarico di pesce fresco o seccato. Il sedano era per noiun regalo molto gradito: quanto all’erba contro lo scor-buto, fu una risorsa veramente insperata, perché guarìtutti gli uomini dell’equipaggio coi sintomi di quella ma-lattia; in breve non avemmo più un solo malato a bordo.In cambio di quei doni e del pesce di cui ci avevano for-nito in abbondanza, regalammo agli indigeni collane divetro azzurro, oggetti di rame, chiodi, coltelli, pezze distoffa rossa, ed essi si mostravano molto soddisfatti delloscambio. Stabilimmo quindi sulla costa un mercato,protetto dai cannoni della goletta, e il commercio si svol-geva in modo leale e regolare quale non avremmo maiosato sperare da parte di quei selvaggi, dato il modo concui si erano comportati nel villaggio di Klock-Klock.Per più giorni tutto si svolse così nel modo più amiche-vole; gli indigeni venivano spesso a gruppi a bordo dellagoletta e spesso alcuni dei nostri si recavano a terra,spingendosi in lunghe incursioni all’interno, senza es-sere disturbati in alcun modo dagli abitanti. Conside-rando la facilità con cui si poteva caricare la nave dioloturie grazie alla buona disposizione degli indigeni, ilcapitano Guy decise di trattare con Too-Wit perché con

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la sua gente si occupasse della raccolta del prodotto ecostruisse apposite capanne per immagazzinarne il piùpossibile, mentre noi avremmo approfittato del tempofavorevole per continuare la nostra esplorazione versosud.Quando comunicò la proposta al capo, questi si mostròben disposto a concludere l’accordo, per cui fu conve-nuto che, dopo aver fatto i preparativi necessari, dopoaver scelto la zona, iniziato la costruzione dei magazzinied effettuato altri lavori per cui era richiesto l’interoequipaggio, la goletta avrebbe proseguito la sua naviga-zione, lasciando tre dei suoi uomini nell’isola per sorve-gliare l’esecuzione dell’opera e insegnare agli indigeni iprocedimenti per essiccare le oloturie. Per quei lettori che lo ignorano, l’oloturia – o cetriolodi mare – è un mollusco oblungo, di taglia che varia da3 a 18 pollici, ma alcune misurano fino a due piedi dilunghezza; il corpo è di forma quasi rotonda, con unaleggera incavatura nella parte che posa sul fondo delmare. Questo mollusco si raccoglie a una profondità ditre o quattro piedi e, con un coltello, gli viene praticataun’incisione di un pollice o più, secondo le dimensioni,e per questa incisione vengono estratte le interiora chesomigliano a quelle di altri abitanti del mare; poi vienelavato, bollito a una certa temperatura che non deve es-sere né troppo elevata né troppo bassa, dopo di cheviene sotterrato nel suolo, per la durata di quattro ore,poi fatto bollire nuovamente per un certo tempo e infinefatto seccare tanto al sole che al fuoco. I cinesi conside-rano l’oloturia un cibo prelibatissimo e anche come ri-costituente per un organismo malato o indebolito daglieccessi, così questo mollusco raggiunge presso di loro

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un prezzo molto elevato che può variare da 4 dollari finoa 90 dollari al picul [circa 60 kg], secondo la qualità.Conclusi dunque gli accordi a questo riguardo, furono datetutte le disposizioni necessarie per preparare il terreno ecostruire lo stabilimento. Venne scelta un vasta area pia-neggiante vicino alla costa orientale della baia, dove c’eranoin abbondanza acqua e il legname necessario per la costru-zione; tutti si misero all’opera con entusiasmo, con grandestupore degli indigeni; dopo aver abbattuto un numero dialberi sufficiente, li lavorammo per costruire la struttura.In due o tre giorni il lavoro era abbastanza avanti per po-terlo affidare, in tutta sicurezza, ai tre uomini dell’equipag-gio che avevamo deciso di lasciare lì. Si trattava di JohnCarson, Alfred Harris e Patterson, tutti e tre non sbaglio,originari di Londra, che si erano offerti volontari.Alla fine del mese eravamo pronti per partire, ma ave-vamo promesso di andare al villaggio per una solennevisita di commiato e Too-Wit aveva tanto insistito per-ché tenessimo fede all’impegno che non potemmo rifiu-tarci. Credo che, fino a quel momento, nessuno di noinutrisse il minimo dubbio sulle buone intenzioni di queiselvaggi, che avevano sempre dimostrato una grandecordialità, che ci aiutavano col massimo impegno nelnostro lavoro, che ci offrivano spesso le loro provviste,senza mai derubarci del più piccolo oggetto, pur ap-prezzando moltissimo tutto ciò che ci apparteneva, agiudicare dalle loro manifestazioni di gioia a ogni donoche facevamo loro. In particolare le donne si mostra-vano riconoscenti in ogni modo e, insomma, bisognavaessere ben scontrosi e sospettosi di carattere per nutrireil minimo dubbio sulle intenzioni di un popolo che siera dimostrato così amichevole.

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Ma non trascorse molto tempo che dovemmo accorgerciche quella buona disposizione apparente faceva partedi un piano preordinato e che quei selvaggi che ci ave-vano riservato un’accoglienza così benevola erano, in re-altà, fra i più barbari, ipocriti e sanguinari mostri cheabbiano disonorato la superficie del globo.Il primo febbraio quindi scendemmo a terra per fare vi-sita al villaggio e, pur non nutrendo – lo ripeto ancora –il minimo sospetto, avevamo preso le debite precau-zioni. Sei uomini restavano a bordo della goletta conl’ordine di non fare avvicinare alcun indigeno durantela nostra assenza, per nessuna ragione, e di restare co-stantemente di guardia sul ponte. Furono issate le difesealle murate, e i cannoni pronti con una doppia carica.La goletta era ancorata a un miglio circa dalla costa enessuna piroga poteva abbordarla senza essere scorta ecadere subito sotto il tiro dei nostri cannoni.Considerati i sei uomini rimasti a bordo, a terra eravamoscesi in trentadue, tutti armati fino ai denti, muniti difucili, coltelli, pistole, senza contare il lungo coltello cheogni marinaio porta sempre con sé, analogo al bownie-knife che è ora in uso nelle nostre regioni dell’ovest edel sud.Appena scesi a terra un centinaio di guerrieri coperti dipelli nere si unì a noi per farci da scorta e con sorpresacostatammo che non avevano armi. Interrogato in pro-posito, Too-Wit, ci rispose semplicemente «Mette non wepa pa si», che voleva dire «Non servono armi quandosiamo tutti fratelli». Prendemmo per buone quelle parolee proseguimmo il nostro cammino. Avevamo già oltre-passato la sorgente e il ruscello di cui ho parlato ed en-travamo in una stretta gola incassata tra le colline in cui

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si trovava il villaggio; quella gola era rocciosa e così acci-dentata che avevamo durato grande fatica a superarlanella prima visita a Klock-Klock. Era lunga circa un mi-glio e mezzo, forse anche due, e si snodava attraverso lecolline, mutando spesso direzione con gomiti e curve im-provvise. Tutto il percorso era fiancheggiato da pareti diroccia a picco che raggiungevano i 70-80 piedi, e in certipunti ancora di più. La larghezza era di circa 40 piedi pergran parte del tragitto, ma in alcuni punti si restringevatanto da permettere il passaggio di cinque o sei uomini almassimo. Insomma, non c’era luogo più adatto perun’imboscata ed era naturale che tenessimo pronte le no-stre armi entrando nella gola scortati da quei selvaggi. Quando penso alla nostra folle imprudenza, ciò che mistupisce di più è come abbiamo potuto affidarci, qua-lunque siano state le circostanze, in balia di quei sel-vaggi, al punto da permetter loro di camminare davantie dietro di noi, durante il percorso in quella gola peri-colosa. Confidavamo ciecamente nella forza dei nostriuomini, nell’efficacia delle nostre armi da fuoco, la cuipotenza era ancora sconosciuta agli indigeni, e sopra-tutto nell’amicizia che quegli infami scellerati ci avevanofino ad allora dimostrato. Cinque o sei di loro ci prece-devano come per aprirci il cammino, affrettandosi, conevidente ostentazione, a spostare le grosse pietre che in-gombravano la strada, e dietro di loro avanzava il nostrogruppo; camminavamo a ranghi serrati, senza altra pre-occupazione che restare uniti, e dietro veniva gli altri in-digeni, con un ordine e una compostezza mai notataprima.Dirk Peters, un marinaio chiamato Wilson Allen ed io,camminavamo alla destra dei nostri compagni, osser-

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vando le strane stratificazioni della parete che cadeva astrapiombo sopra di noi. A un certo punto una fessuranella roccia attirò la nostra attenzione; era abbastanzalarga per far passare un uomo senza difficoltà e pene-trava nella collina per una lunghezza da 8 a 10 piedi inlinea retta, per poi curvare a sinistra. La fessura e la gola,per quanto potevamo giudicare, erano alte da sessantaa settanta piedi; nelle crepe della parete crescevano al-cuni arbusti stentati ed ebbi la curiosità di esaminarli davicino per cui penetrai nella fessura e ne staccai alcunenocciole, ma subito mi ritrassi in tutta fretta. Giran-domi, mi accorsi che Peters e Allen mi avevano seguitoe li pregai di tornare indietro, facendogli osservare chequel buco era troppo stretto per passare in due, promet-tendo di dar loro alcune delle mie nocciole. Stavamodunque tornando sui nostri passi verso l’uscita e Allenera quasi arrivato, quando sentii improvvisamente unascossa che non somigliava a niente di quanto avessi maiprovato prima e che mi fece pensare – se anche ero ingrado di pensare in quella circostanza – che la terrastesse per dissolversi e che fosse arrivato il giorno delladistruzione universale.

Capitolo 21

Appena ripresi i sensi, mi sentii come soffocato, mi di-battevo in mezzo alle tenebre, in una massa di terra fria-bile che gravava pesante su di me da ogni parte,minacciando di seppellirmi interamente.Spaventato, feci ogni sforzo per tirarmi su e vi riuscii fi-nalmente; rimasi allora per alcuni istanti immobile, cer-

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cando di spiegarmi cosa fosse successo e dove mi tro-vassi. In quel momento sentii come un lamento vicinoal mio orecchio e quasi subito distinsi la voce di Petersche, in nome di Dio, chiedeva aiuto. Avanzai di due otre passi, aiutandomi con mani e piedi, inciampai ecaddi addosso al mio compagno, che era sepolto permetà sotto un mucchio di terra e lottava disperatamenteper liberarsi. Scavai a mani nude la terra che lo immo-bilizzava con l’energia di cui disponevo e riuscii, dopomolti sforzi, a liberarlo dalla sua scomoda prigione.Ripresici dalla fatica e dalla sorpresa, ci scambiammo al-cune considerazioni e giungemmo alla conclusione che lepareti del crepaccio in cui ci eravamo addentrati dove-vano essere crollati a seguito di qualche fenomeno natu-rale, o più verosimilmente in ragione del proprio peso, eche di conseguenza eravamo sepolti vivi e irrimediabil-mente perduti. Per un momento fummo presi dalla di-sperazione, ma alla fine Peters disse che avremmo dovutocercare di capire le dimensioni del crollo, esplorando lanostra prigione per trovare una possibile via di fuga.Mi aggrappai avidamente a quella speranza e, facendoappello a tutte le mie forze, cercai di aprirmi un varcoattraverso la terra friabile e avevo appena mosso qualchepasso, quando mi apparve un raggio di luce, appenapercettibile ma sufficiente per convincerci che almenonon saremmo morti asfissiati. Ci aggrappammo dunquea un masso che ostruiva il passaggio dalla parte da cuiveniva la luce, e potemmo avanzare più facilmente e re-spirando meglio. Eravamo ora in grado di distinguereciò che ci circondava e costatammo che eravamo quasiin fondo al crepaccio, vicino al punto in cui svoltava asinistra. Ancora uno sforzo e raggiungemmo la svolta,

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da cui, con nostra grande gioia, scorgemmo una largaspaccatura che saliva molto in l’alto formando un angolodi circa quarantacinque gradi; non potevamo valutarequanto fosse lunga quella breccia, ma, poiché la luce vifiltrava abbastanza liberamente, non disperavamo diraggiungere la sommità e quindi la via di uscita.Solo allora mi ricordai che eravamo tre ad avere deviatoper addentrarci in quella spaccatura e che non avevamopiù rivisto il nostro compagno Allen, per cui deci-demmo di tornare indietro per cercarlo. Dopo lunghericerche, rese pericolose dalla terra friabile a strapiombosu di noi, Peters mi gridò finalmente che aveva trovatoil piede del nostro compagno, ma che il resto del corpoera sepolto così in profondità che sarebbe stato impos-sibile liberarlo; era purtroppo vero, come potei costa-tare, e il povero Allen era morto. Col cuore strettodall’angoscia, abbandonammo il corpo al suo destino,dirigendoci verso l’imbocco della galleria.La larghezza dell’apertura era appena sufficiente perpassare e, dopo uno o due infruttuosi tentativi di scalata,fummo presi di nuovo dalla disperazione. Ho già dettoche le colline in cui era incavata la gola erano compostedi una roccia friabile molto simile al talco. Le pareti delcrepaccio che cercavamo di scalare avevano la stessacomposizione ed erano molto sdrucciolevoli e i nostripiedi potevano a malapena far presa nei punti meno ri-pidi mentre, quando il pendio si faceva più verticale,non c’era assolutamente modo di procedere. Ma la di-sperazione raddoppiò il nostro coraggio e coi nostribowie-knives scavammo dei gradini nella terra friabile,poi, a rischio di romperci il collo, ci aggrappammo aipiccoli appigli di una specie di ardesia un po’ più resi-

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stente che, qua e là, formava come una prominenza nellamassa di terra e così raggiungemmo finalmente una piat-taforma naturale, da cui si poteva distinguere un lembodi cielo azzurro al limitare di una gola coperta dal verde.Volgendo indietro lo sguardo per vedere il crepaccio dadove eravamo emersi e l’aspetto delle sue pareti, ci ac-corgemmo che si era formato di recente; il cataclismache ci aveva presi alla sprovvista, qualunque fosse la suanatura, ci aveva quindi aperto la via di salvezza. Era-vamo così sfiniti dalle fatiche sopportate, così deboli,che potevamo appena stare in piedi e articolare qualcheparola, e Peters si sforzava inutilmente di farmi capireche dovevamo chiamare i nostri compagni in aiuto, spa-rando dei colpi con le pistole che portavamo ancora allacintura; quanto ai fucili e ai coltelli, li avevamo perdutisotto il crollo ed erano rimasti certamente laggiù; il se-guito della vicenda ce ne avrebbe fatto pentire amara-mente. Per fortuna avevo come un vago sospettodell’abominevole tranello che ci era stato teso e fu que-sta la ragione per cui evitammo di far conoscere ai sel-vaggi dove ci trovavamo.Dopo un riposo di circa un’ora ci stavamo incamminandolentamente verso la parte superiore della gola, quandoudimmo un frastuono confuso di grida spaventose; giun-gemmo affannati fino a quella che si poteva pensare fossela sommità, perché da quando avevamo lasciato la piatta-forma, eravamo sprofondati sotto alte rocce e arbusti ri-cadente strapiombo, a una grande altezza sopra le nostreteste. Con infinite precauzioni, scivolammo verso unastretta apertura da cui potevamo spingere lo sguardo in-torno e, in un attimo, lo spaventoso mistero del terremotosi svelò ai nostri occhi.

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Il nostro posto d’osservazione era quasi in cima alla piùalta di quelle colline di steatite e la gola in cui il nostrogruppo di trentadue uomini era penetrato si snodavasulla sinistra a circa cinquanta piedi da noi. Ma su unalunghezza di almeno cento yards, il passaggio era inte-ramente ostruito dai detriti di più di un milione di ton-nellate di terra e rocce, il cui crollo era stato provocatoin modo artificiale. Il modo usato per far crollare quellamassa enorme era tanto semplice quanto evidente, per-ché c’erano ancora tracce visibili dell’opera criminale;in vari punti, sul lato est della gola – noi invece ci trova-vamo in quello a ovest – erano piantati dei pioli nelsuolo; in quei punti il terreno non si era mosso, ma pertutta la lunghezza del precipizio dove era sprofondatala massa di roccia, era evidente – a giudicare dalle traccelasciate sul terreno, che somigliavano a quelle lasciateda una zappa – che erano stati piantati dei pioli del tuttosimili a quelli davanti ai nostri occhi, piantati con un in-tervallo di una yard, su una linea di trecento piedi circa,ad alcune decine di passi dall’abisso. I pioli rimasti inpiedi erano uniti da solidi legacci ed era evidente cheanche gli altri dovevano essere uniti allo stesso modo.Ho già segnalato la particolare conformazione di questecolline di steatite e la descrizione che ho fatto dellastretta e profonda fessura, che ci aveva permesso disfuggire a un mortale seppellimento, servirà a farne piùnettamente conoscere la natura. La formazione del ter-reno era tale che la minima scossa naturale doveva fen-dere il suolo in strati verticali, in linee parallele, e cheuna modesta spinta artificiale poteva avere un effettocatastrofico. Non c’era quindi alcun dubbio che, usandoquella fila di pioli, fosse stata operata una frattura nel

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suolo, alla profondità di uno o due piedi, con le cordeagganciate ai pali e tese lungo il bordo della collina; unosolo di quei selvaggi, tirando con tutte le sue forze cia-scuna di quelle corde, disponeva così di una forza dileva enorme, che bastava a far precipitare, a un segnaledato, l’intera parete della collina sul fondo del precipi-zio. La sorte dei nostri poveri compagni non potevadunque lasciare alcun dubbio: noi eravamo i soli sfuggitial disastro, i soli che non erano rimasti sotto le macerie.Eravamo quindi i soli bianchi rimasti vivi in quell’isola.

Capitolo 22

La nostra situazione, quale ci appariva allora, non eracerto più rassicurante di quando eravamo sepolti sottole macerie; ora non avevamo altre alternative che di es-sere messi a morte dai selvaggi o trascinare in mezzo aloro una vita miserabile di schiavitù. Potevamo certo na-sconderci in qualche posto sui fianchi delle colline, o,in mancanza di meglio, nel crepaccio da cui eravamoappena usciti; così facendo, però, saremmo stati in baliadel freddo e della fame durante il lungo inverno polare;e, quando fossimo stati costretti a cercare da mangiare,avremmo certamente tradito la nostra presenza. Tuttal’area intorno brulicava di quei selvaggi e ne scorgemmonuovi gruppi arrivare dall’isola meridionale su delle zat-tere piatte, certamente per aiutare nella conquista e nelsaccheggio della Jane Guy.La goletta se ne stava sempre tranquillamente ancoratanella baia e gli uomini rimasti a bordo dovevano esseredel tutto ignari del pericolo che li minacciava. Come rim-

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piangemmo allora di non essere rimasti al loro fianco,per aiutarli a fuggire o per morire con essi cercando didifenderci. Non vedevamo alcuna possibilità di infor-marli del pericolo senza attirare, immediatamente, la ro-vina sulle nostre teste; del resto – se anche ci fossimoriusciti – non potevamo pensare di esser loro utili inqualche modo. Un colpo di pistola poteva forse bastarea far capire loro che era successo qualcosa, ma non po-teva comunicare che l’unica loro speranza di salvezza eradi abbandonare immediatamente la baia e filare lontano,e che nessun senso del dovere o dell’onore li obbligavapiù a rimanere lì, dal momento che i loro compagnierano ridotti ai due ancora vivi e dato che il colpo di pi-stola non li avrebbe messi in guardia più di quanto nonfossero già contro l’attacco che il nemico preparava.Dare l’allarme con un colpo di pistola non avrebbe por-tato vantaggi, ma solo danno, per cui, dopo un’attentavalutazione, decidemmo di non farne di nulla.Pensammo anche di precipitarci verso la costa, impa-dronirci di una delle piroghe ferme in fondo alla baia ecercare di tornare a bordo, ma riconoscemmo subitoche quel piano disperato era assolutamente irrealizza-bile. Tutta l’area intorno – ripeto – brulicava di selvaggiche scivolavano guardinghi dietro i cespugli e i fianchidelle colline per non essere scorti dalla goletta. Moltovicini a noi, il gruppo dei guerrieri vestiti con le pellinere, con Too-Wit alla testa, bloccavano l’unico passag-gio da cui potevamo sperare di riguadagnare la costa,evidentemente in attesa dei rinforzi per procedere al-l’attacco della Jane Guy. Infine, nelle piroghe in fondoalla baia c’erano indigeni in apparenza disarmati, mache certamente avevano armi a portata di mano, per cui

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dovemmo con grande amarezza restarcene nel nostronascondiglio, come semplici spettatori del terribiledramma che si sarebbe svolto a breve.In capo a circa mezz’ora circa, vedemmo infatti cin-quanta o sessanta imbarcazioni col fondo piatto, piened’indigeni spuntare dalla punta a sud della baia; i sel-vaggi sembravano non avere altre armi che delle cortemazze e delle pietre ammassate in fondo alle imbarca-zioni. Subito dopo, un altro gruppo, ancor più nume-roso, giunse dalla parte opposta, armato allo stessomodo; anche le quattro piroghe si riempirono d’indigeniche sbucavano dei cespugli in cima alla baia per unirsiagli altri due gruppi. Così, in men che non si dica, laJane Guy si vide circondata da una gran moltitudine diselvaggi inferociti, visibilmente pronti a dare l’assalto.Non c’era alcun dubbio sul fatto che sarebbero riuscitinel loro tentativo: i sei uomini rimasti sulla nave, seppurdecisi a vender cara la loro pelle, non erano certo in nu-mero sufficiente per manovrare i cannoni né per soste-nere una lotta così impari. Facevo fatica a immaginareche si sarebbero difesi, e invece mi sbagliavo, perché lividi accorrere a poppa per fronteggiare l’assalto dellepiroghe, che erano a portata di tiro, mentre le zattere sitrovavano ancora a un quarto di miglio. Pe ragioni cheignoro – o forse per la sorpresa e lo spavento dei nostripoveri compagni nel vedersi in quella situazione dispe-rata – i colpi andarono tutti a vuoto. Non una pirogavenne colpita, non un selvaggio ucciso; il tiro era troppocorto e la scarica aveva appena sfiorato le loro teste. Ilsolo effetto che produsse su di loro la detonazione e ilfumo fu un grande stupore, così forte che per un istantemi domandai se non stessero per rinunciare completa-

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mente all’impresa e riguadagnare la riva, cosa che avreb-bero certamente fatto se i nostri avessero fatto seguireai colpi di cannone una scarica di moschetto; le pirogheinfatti erano molto vicine e la scarica avrebbe certa-mente avuto qualche effetto, se non altro avrebbe arre-stato l’assalto, guadagnando il tempo necessario perinviare un’altra bordata col cannone. Disgraziatamente,i marinai non pensarono a questa tattica e corsero a ba-bordo per far fronte alle zattere e questo permise a duedelle piroghe di riprendersi dalla paura, di guardarsi in-torno e costatare che non avevano subito danni.La scarica di babordo invece produsse gli effetti più de-vastanti: i colpi di cannone fecero a pezzi sette o otto zat-tere, uccisero trenta o quaranta selvaggi e molti furonoscaraventati in mare, in gran parte feriti gravemente. Glialtri, completamente terrorizzato, batterono ina una pre-cipitosa ritirata, senza neppure ripescare i compagni chesi vedevano galleggiare qua e là, implorando soccorsocon urla disperate. Ma il successo giungeva troppo tardiper salvare i nostri valorosi compagni: il gruppo delle pi-roghe, più di centocinquanta uomini, si era già arrampi-cato a bordo della goletta, attaccandosi alle sartie escavalcando il parapetto; nessun ostacolo poteva più ar-restare l’avanzata di quelle bestie inferocite; i nostri ma-rinai furono colpiti e fatti a pezzi in un batter d’occhio;a questa vista, i selvaggi delle zattere si ripresero dallapaura e si precipitarono in massa per saccheggiare lanave. In cinque minuti la Jane Guy subì il più feroce as-salto e la più spaventosa devastazione che si fosse maivista; il ponte venne distrutto, demolito; le cime, le vele,tutto ciò che poteva essere tolto dal ponte, ridotto inbrandelli; nel frattempo, trainandola con le piroghe e

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spingendola a poppa e ai lati, le migliaia di indigeni spin-sero la nave, riuscendo a portarla a riva dove fu conse-gnata a Too-Wit che, nella posizione di capo assoluto,per tutta la durata dell’attacco non si era mai mosso dalsuo posto d’osservazione sulla collina, ma che, ottenutala vittoria, si degnava di scendere coi suoi guerrieri conla pelle nera e prendere la sua parte di bottino.La partenza di Too-Wit ci permise di uscire dal nostrorifugio e di andare a esplorare la collina; vicino al tor-rente e a cinquanta yards circa dall’entrata, scorgemmouna piccola fonte e questo ci permise di calmare unpoco la sete. Non lontano erano parecchi cespugli similia quelli di cui avevo parlato: le nocciole ci parveromolto buone, il loro gusto ricordava quello della nostracomune nocciola. Ne riempimmo subito i cappelli, ledepositammo nel crepaccio e tornammo a cercarnealtre. Mentre cercavamo di raccoglierne il più possibile,un movimento nei cespugli ci allarmò e stavamo persgusciare nuovamente nel nostro nascondiglio quandoun grosso uccello nero, un tarabuso, emerse faticosa-mente da un cespuglio di nocciolo. Ero così sorpresoche non sapevo cosa fare, ma Peters ebbe abbastanzapresenza di spirito da lanciarsi sull’uccello e afferrarloper il collo prima che potesse volar via. Gli sforzi chefaceva per sottrarsi alla cattura e le grida che lanciavaerano così terribili che fummo quasi sul punto di la-sciarlo andare, temendo che il rumore allertasse qual-cuno di quei selvaggi, che potevano ancora trovarsinelle vicinanze. Alla fine, un colpo di bowie-knife ebberagione di lui e lo trascinammo nel crepaccio, soddi-sfatti di avere, comunque andasse, una provvista di ciboper una settimana.

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Uscimmo poi nuovamente per esplorare i dintorni e cispingemmo abbastanza lontano sul fianco meridionaledella collina, ma senza trovare altro in fatto di viveri. Ciaccontentammo quindi di raccogliere una provvista dilegna secca e ripartimmo, dopo aver scorto due o tregruppi d’indigeni che s’incamminavano verso il loro vil-laggio, carichi del bottino preso sulla nave, e che – diquesto avevamo grande paura – potevano vederci pas-sando vicino alla collina.Nostra prima preoccupazione fu dunque quella di ren-dere il più sicuro possibile il nostro nascondiglio e, aquesto scopo, disponemmo alcuni arbusti sopra la brec-cia attraverso cui avevamo visto lo squarcio di cielo az-zurro quando eravamo usciti dal crepaccio, e vipraticammo una stretta apertura, larga abbastanza dapermetterci di poter osservare tutta la baia, senzaesporci al pericolo di essere visti dal basso. Fatto ciò, cirallegrammo della sicurezza del nostro rifugio, perchélì eravamo assolutamente invisibili finché non ci fossimoavventurati sulla collina. Nulla poteva lasciarci supporreche i selvaggi un giorno avrebbero provato a entrareanche in quel buco.Quando però pensammo che quell’apertura che ci avevapermesso di fuggire era stata originata con ogni proba-bilità dal crollo recente del versante opposto e che erala sola via per raggiungerlo, la gioia che ci dava l’idea diavere un posto sicuro lasciò il posto al pensiero chescendere di lì era assolutamente impossibile. Deci-demmo quindi di esplorare attentamente la cima dellacollina, appena possibile, e, nell’attesa, sorvegliavamotutte le gesta e i movimenti dei selvaggi attraverso il no-stro osservatorio. Quelli avevano interamente saccheg-

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giato la goletta e si preparavano ad appiccarle fuoco; in-fatti, poco dopo, vedemmo le fiamme levarsi dal grandeboccaporto con un fumo denso, e altre fiamme dal ca-stello di prua. Le attrezzature, gli alberi, i brandelli divela sfuggiti al saccheggio e alla distruzione, s’infiam-marono quasi subito e il fuoco aggredì ben presto ilponte. A bordo c’erano ancora molti indigeni intenti astaccare a colpi pietra, d’ascia e con le palle di cannonele serrature e tutte le altre finiture in ferro e rame. Aterra, nelle piroghe e nelle zattere, c’erano non meno didiecimila indigeni, nelle immediate vicinanze della go-letta, senza contare quelli che, carichi di bottino, ripren-devano a gruppi il cammino dell’interno o delle isolevicine.Presentimmo allora il disastro, che infatti si verificò pro-prio come speravamo. Dapprima, fu come una grandescossa, di cui sentimmo distintamente il contraccolpo,ma senza il rumore dell’esplosione, come quello di unaleggera scarica elettrica; i selvaggi ne parvero stupiti einterruppero, per un istante, il loro lavoro e le loro urla;ma, mentre stavano per rimettersi all’opera, un’enormenube di fumo si alzò improvvisamente, carica di elettri-cità; poi, come sprigionata dalle viscere stesse della nave,sgorgò un’enorme fiammata, che ci parve innalzarsi al-l’altezza di un quarto di miglio, e immediatamente lefiamme si estesero tutt’intorno e, in una confusione in-descrivibile, ci fu come una violenta mitragliata di pezzidi legno, di metallo, di membra umane; infine l’esplo-sione si produsse in tutta la sua violenza, arrivando finoa noi, mentre le colline intorno rimbombavano, molti-plicando l’eco della detonazione, e i detriti polverizzatisi abbattevano ovunque.

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La strage prodotta fra gli isolani oltrepassò le nostre piùvive speranze ed essi raccolsero, perfettamente maturo,il frutto del loro tradimento; l’esplosione ne uccise unmigliaio e un altro migliaio rimase spaventosamente mu-tilato. Tutta la baia era disseminata di quei miserabiliche si dibattevano cercando di stare a galla e sulla rivalo spettacolo era ancora più spaventoso. Sembravanocompletamente paralizzati da questa inaspettata disfattae non facevano niente per soccorrersi l’un l’altro. Final-mente, il loro atteggiamento mutò poco a poco e dallostupore passarono, per reazione, al delirio dell’eccita-zione, correndo da tutte le parti, lanciandosi verso unpunto della baia per scappare quasi subito, con volti incui si poteva leggere, di volta in volta, le più allucinantiespressioni di orrore, rabbia e d’intensa curiosità, e gri-dando a squarciagola: «Tekeli-li! Tekeli-li!»Più tardi vedemmo un gruppo numeroso spingersi versol’interno delle colline, per uscirne poco dopo con un ca-rico di pioli di legno che portarono nel punto in cui laressa era più fitta e quasi subito la folla si fece da parte,come per rivelare ai nostri occhi l’oggetto di quella agi-tazione. Scorgemmo allora qualche cosa di bianco stesoper terra, ma non potevamo distinguere di che si trat-tasse; finalmente, riconoscemmo in quella cosa informeil corpo del bizzarro animale dai denti e dagli artigliscarlatti che la goletta aveva pescato in mare il 18 gen-naio. Il capitano Guy l’aveva fatto conservare per impa-gliarlo e portarlo in Inghilterra e mi ricordavo che avevadato delle istruzioni al riguardo prima d’arrivare all’isolae che l’aveva fatto trasportare in cabina, chiuso in unadelle casse. Quello strano animale era stato senza dub-bio scagliato sulla riva dall’esplosione, ma quello che

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non potevamo comprendere era perché avesse generatouna tale eccitazione fra i selvaggi. Gli indigeni si affol-lavano a breve distanza dal corpo, ma nessuno sembravavolersi avvicinare di più; quelli che avevano portato deipioli si affrettavano a piantarli in cerchio intorno allabestia, ma questo lavoro non era ancora finito che tuttal’orda si precipitò verso l’interno dell’isola, senza smet-tere di gridare: «Tekeli-li! Tekeli-li!»

Capitolo 23

Nei sei o sette giorni seguenti, restammo nel nostro na-scondiglio, non facendo che rare sortite e sempre conla massima prudenza, per andare in cerca di acqua enocciole. Avevamo costruito una specie di capanna sullapiattaforma e vi avevamo piazzato un letto di foglie sec-che e tre grosse pietre piatte che ci servivano contem-poraneamente da camino e da tavola. Potevamofacilmente accendere un fuoco, sfregando uno control’altro due pezzi di legno secco, l’uno di legno tenero,l’altro di legno duro. L’uccello così opportunamente cat-turato ci offrì un nutrimento eccellente, anche se unpoco coriaceo; non era un uccello oceanico ma una spe-cie di tarabuso, dalle piume di un nero lucido, picchiet-tate di grigio, con ali molto piccole in rapporto allataglia. In seguito ne vedemmo tre uguali vicino al cre-paccio, che sembravano cercare quello che avevamo cat-turato, ma non si posarono a terra neppure una volta enon riuscimmo a prenderli.Così, per tutto il tempo che durò la carne di quell’uc-cello, la situazione era sopportabile; ma quando finì fu

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necessario procurarci altri viveri; le nocciole da solenon bastavano al nostro sostentamento, anche perché,quando ne abusavamo troppo, ci procuravano violentecoliche e forti emicranie. Avevamo visto molte tartaru-ghe vicino alla costa, a est della collina, e pensavamoche avremmo potuto catturarle facilmente se avessimopotuto scendere senza venir visti dagli indigeni del-l’isola.Decidemmo quindi di tentare una sortita e cercammoprima di scendere lungo il versante meridionale che sem-brava offrire meno difficoltà, ma non avevamo ancorapercorso cento yards che trovammo il sentiero interrottoimprovvisamente da una propaggine della frana in cui inostri compagni avevano trovato la morte. Percorremmola cresta di questa gola per un quarto di miglio, finchénon fummo di nuovo bloccati da un profondo precipi-zio, la cui parete non offriva alcuna possibilità di discesa,e fummo obbligati a tornare sui nostri passi, per il canaleprincipale.Una nuova ricognizione dalla parte est ebbe il mede-simo risultato e, dopo un’ora di fatica, in cui corremmomille volte il rischio di romperci il collo, scoprimmo chenon avevamo fatto che scendere in una grande fossa digranito nero, il cui fondo era coperto da una polverefine e la cui sola uscita era lo stesso sentiero accidentatoche avevamo preso per giungere fin là.Fu dunque necessario rifare il penoso tragitto per rag-giungere la parte nord della collina, e là dovemmo farela massima attenzione, perché alla minima imprudenzarischiavamo di essere facilmente visti dal villaggio. Citrascinammo dunque a quattro zampe lungo il pendioe talvolta eravamo costretti a strisciare al suolo e nascon-

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derci così, aggrappandoci agli arbusti. Con tutte questeprecauzioni non eravamo ancora molto lontani dal no-stro punto di partenza, quando sbucammo su un preci-pizio ancora più profondo dei precedenti, che davadirettamente sulla gola principale. Le nostre paureerano dunque confermate: non c’era alcuna possibilitàdi scendere da quella collina. Estenuati, tornammo allameglio alla piattaforma e, gettatici sul nostro letto di fo-glie, ci riposammo per alcune ore.Dopo quella spedizione infruttuosa, passammo moltigiorni a esplorare attentamente la collina per renderciconto di quali alternative disponessimo. Ci fu impossi-bile trovare del cibo, a eccezione delle solite nocciole edi una specie di coclearia che cresceva in abbondanzain un piccolo spiazzo di quattro piedi di lato e che cicredemmo in diritto di spogliare. Il 15 febbraio – se hobuona memoria – non ne restava più e, quanto alle noc-ciole, erano sempre più rare, cosicché la nostra situa-zione divenne alquanto precaria. Il 16 febbraiofacemmo di nuovo il giro della nostra prigione, spe-rando di scoprire qualche via d’uscita, ma anche questavolta la speranza fu vana. Esplorammo pure il crepaccioin cui eravamo rimasti sepolti, con la debole illusione ditrovare un passaggio per raggiungere la gola principale.Anche questa volta fummo completamente delusi, matrovammo un fucile che portammo con noi. Il 17 feb-braio una nuova sortita per esplorare più da vicino lafossa di granito nero che avevamo raggiunto nelle primeesplorazioni; ricordavamo di aver trascurato uno deglispiragli che si aprivano nella parete della fossa e lo vo-levamo esplorare più a fondo, anche se non speravamopiù di trovare una via d’uscita.

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Ci fu abbastanza facile raggiungere il fondo della fossa,come già avevamo fatto, e questa volta avemmo la pa-zienza di controllare con attenzione. In verità era unodei luoghi più straordinari che avessi mai visto e a stentosi poteva credere che fosse esclusivamente opera dellanatura. La fossa misurava dall’estremità est fino a quellaovest cinquanta yards di lunghezza, tenendo conto ditutte le curve: la distanza dall’est all’ovest in linea rettanon superava quaranta o cinquanta yards, da quanto iopotei supporre, perché non avevo alcun mezzo per mi-surarla in modo preciso.Al principio della nostra discesa in quell’abisso, cioè suun tragitto di un centinaio di piedi a contare dalla som-mità della collina, le due pareti presentavano ben pocasomiglianza fra loro e non sembravano essere state maicoerenti, essendo una composta di steatite e l’altra dimarmo con venature di un materiale metallico. A trattil’intervallo compreso fra le due pareti occupava una lar-ghezza minima di sessanta piedi circa e non aveva unastruttura regolare. Ma, al di sotto del limite indicato,l’intervallo si restringeva subito e le pareti presentavanodi nuovo per un pezzo differenze di composizione geo-logica, di colore e d’aspetto superficiale. Solo a partireda una cinquantina di piedi prima del fondo, comin-ciava la simmetria perfetta; le pareti erano allora intera-mente uniformi dal punto di vista della struttura, delcolore e della direzione, il materiale era un granito moltonero e molto brillante e la distanza fra le due facce op-poste era regolarmente di venti yards. La configurazioneprecisa dell’abisso sarà resa più intelligibile dal disegnoche qui è riprodotto, perché portavo fortunatamentecon me un taccuino e una matita che ho sempre conser-

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vato con la più grande cura durante tutte le mie avven-ture, cosicché ho potuto ricostruire una specie di pro-memoria per tutta una filza di piccoli dettagli di cui nonavrei saputo, certamente, conservare il ricordo.

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Figure che rappresentano il contorno generale delle gole e delle fosse.

Questa figura riproduce il profilo generale della fossa,senza le cavità più piccole a lato – e ve ne erano parec-chie – ciascuna con una corrispondente protuberanzadal lato opposto. Il fondo della fossa era ricoperto peruno spessore di tre o quattro pollici da uno strato di pol-vere quasi impalpabile, al di sotto della quale riprendevail granito nero.Sulla destra, all’estremità inferiore, si nota il segno diuna stretta apertura ed è la fessura di cui ho parlato,quella che la nostra seconda visita aveva per scopo diesplorare con più attenzione. Vi penetrammo con deci-sione, recidendo un ammasso di rovi che impedivano ilpassaggio e rimuovendo della silice aguzza che somi-gliava a punte di freccia. Una debole luce provenientedall’estremità opposta ci incoraggiò a perseverare nelnostro tentativo; stretti come in una morsa avanzammoancora di trenta piedi e vedemmo che l’apertura da cuiproveniva la luce era una volta bassa, di forma regolare,

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coperta della stessa polvere impalpabile della fossa prin-cipale. Una pioggia di luce si rovesciò su di noi e, vol-tandoci bruscamente, sbucammo in una nuova cameraalta, assolutamente identica alla prima, non fosse statoper la sua forma allungata.La larghezza totale di questo secondo fossa, a partiredall’apertura A, girando la curva B, fino all’estremità D,era di centocinquanta yards. Al punto C scoprimmo unapiccola apertura simile a quella che ci aveva permessodi uscire dal primo abisso, anch’essa ingombra di rovi esilici dalla punta acuminata. L’attraversammo e costa-tammo che, dopo un tragitto di quaranta piedi, il corri-doio dava accesso a una terza fossa, anche questaidentica alla prima. La lunghezza totale di questa terzafossa era di 320 yards. Al punto superiore, si apriva unafenditura larga circa 6 piedi, che penetrava fino a unaprofondità di 15 piedi nella roccia, dopo di che finivacon uno strato di marmo.

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Eravamo sul punto di uscire da quell’abisso ove la lucepenetrava appena, quando Peter richiamò la mia atten-zione su una serie di strani segni impressi nella muragliamarnosa, che qui formava il fondo dell’imbuto. Con unleggero sforzo d’immaginazione si poteva vedere laprima incisione sulla sinistra – o per meglio dire, versonord – come il profilo grossolano di un uomo col brac-cio teso. Gli altri segni sembravano caratteri alfabetici

Strani segni impressi nella muraglia marnosa.

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e Peters ne sembrava persuaso. Riuscii tuttavia a con-vincerlo che si sbagliava richiamando la sua attenzionesul terreno, dove, frammisti alla polvere, individuammodei grossi frammenti di marna, che erano stati indub-biamente proiettati laggiù da qualche evento naturale,provenienti della superficie dove avevamo scoperto gliintagli; notammo infine che alcuni dei frammenti com-baciavano perfettamente coi buchi sulla parete; questodimostrava che tutto quello era opera della natura.Una volta accertato che le strane incisioni non aiutavanoa sfuggire dalla nostra prigione, ci rimettemmo in cam-mino, abbattuti e disperati, verso la sommità della col-lina. Nulla di notevole avvenne nelle ventiquattr’ore cheseguirono, se si eccettua, durante un’esplorazione a estdel terzo abisso, la scoperta di altre due fosse triangolaridi grande profondità, con pareti di granito nero comele altre. Non ci parve opportuno scendere in quegliabissi, che sembravano dei semplici pozzi naturali, senzaalcuna uscita, e che misuravano ciascuno forse ventiyards di circonferenza.

Capitolo 24

Il 20 di febbraio, vedendo che ci sarebbe stato comple-tamente impossibile sostentarci più a lungo con le noc-ciole, che ci provocavano crudeli sofferenze,prendemmo la decisione di tentare uno sforzo disperatoper scendere il fianco meridionale della collina. In quelpunto la parete del precipizio era composta di steatitemolto tenera ed era quasi verticale in tutta la sua esten-sione (una profondità di centocinquanta piedi almeno)

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e in certi punti strapiombante. Dopo lunghe ricerchescoprimmo una stretta sporgenza, venti piedi circa al disotto dell’orlo dell’abisso; Peters riuscì a saltarvi, mentreio lo reggevo con l’aiuto dei nostri fazzoletti giuntati in-sieme. Anch’io riuscii a saltare con maggior fatica e ciparve possibile scendere tutta la parete nello stessomodo in cui eravamo usciti dalla gola in cui eravamo ri-masti sepolti dal violento terremoto. Il tentativo era piùtemerario di quanto l’immaginazione possa concepire,ma non avevamo altra scelta ci dovemmo decidere.Sulla piattaforma in cui ci trovavamo crescevano alcuniarbusti di nocciolo e a uno di questi legai un capo dellacorda formata coi nostri fazzoletti. Assicurai l’altraestremità alla vita di Peters e lo calai nel precipizio fin-ché i fazzoletti non rimasero tesi; lui allora praticò unforo profondo da otto a dieci pollici nella steatite, sca-vando obliquamente la roccia al di sotto di lui a un’al-tezza di un piede circa e piantò un piolo col calcio dellapistola, creandosi così un solido appiglio. Poi io lo issaidi quattro piedi circa, e lì scavò un secondo buco iden-tico al primo, assicurandosi così un punto d’appoggioper piedi e mani. Slegai allora la corda di fazzoletti dal-l’arbusto e gliene gettai l’estremità che lui legò al piolosuperiore, dopo di che si lasciò cadere dolcemente a trepiedi circa della sua prima stazione, cioè su tutta la lun-ghezza della corda. Arrivato lì, praticò un altro forodove piantò un altro piolo, poi si sollevò con tutte le sueforze in modo da poter posare i piedi nel terzo buco, af-ferrando al contempo con le mani il piolo superiore.Malgrado tutto, dopo uno o due tentativi a vuoto, chenon per questo erano meno pericolosi – perché, mentretentava con la mano destra di sciogliere la corda, doveva

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contemporaneamente tenersi con la sinistra — si rasse-gnò a tagliare la corda lasciando pendere dal piolo unpezzo di sei pollici; poté così attaccare i fazzoletti al se-condo piolo e scendere di un gradino al di sotto delterzo, badando bene questa volta di non cadere troppoin basso. Con questo procedimento, che io non avreimai saputo immaginare per mio conto, e di cui tuttol’onore deve essere attribuito alla sicurezza e all’audaciadi Peters, il mio compagno, aggrappandosi qua e là alleasperità della parete, giunse finalmente in fondo senzaincidenti.Rimasi immobile per un istante, non sentendomi sicurodi poterlo seguire, poi finalmente mi decisi anch’io.Prima di scendere Peters si era tolto la camicia, che ora,unita alla mia, mi forniva la corda necessaria all’impresa.Gettai dunque nel precipizio il fucile che avevamo tro-vato, legai la corda al cespuglio di nocciolo e mi lasciaisubito scivolare, cercando di dimenticare, con i movi-menti stessi, la paura che altrimenti non avrei saputo do-minare. Il trucco funzionò abbastanza bene all’inizio,ma presto mi sentii sconvolto all’idea del precipizio chedovevo ancora scendere, col solo aiuto dei gradini moltoprecari e dei fori nella steatite. Mi sforzavo invano di al-lontanare da me quel pensiero e di non staccare losguardo dalla parete liscia che avevo davanti; più lottavodisperatamente per non pensarci, più la mia testa si fis-sava su quell’idea. Alla fine la mia mente entrò in crisi,quella crisi spaventosa in cui si cominciano ad anticiparele sensazioni più adatte a provocare la caduta, in cui siprova la nausea, le vertigini, l’ultimo sforzo e l’orrore fi-nale di una caduta a capofitto. Vivevo quelle allucina-zioni come una realtà, sentivo tutte quelle cose orribili

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piombarmi addosso, divenire reali, sentivo le ginocchiatremare forte, le dita indebolirsi poco a poco sull’appi-glio. Qualcosa ronzava nelle mie orecchie e pensavo:«Ecco il gelo della morte!». E allora mi prese un desi-derio irrefrenabile, quello di guardare in basso. Non po-tevo più, non volevo più tenere lo sguardo fisso sullaroccia e, con una selvaggia, inesprimibile sensazione incui l’orrore si mescolava al sollievo, spinsi il mio sguardofino in fondo all’abisso. Per un attimo ancora le mie ditas’aggrapparono convulsamente al loro appiglio e quellosforzo accompagnava in me l’idea indebolita della sal-vezza finale – qualche cosa come un’ombra fluttuanteattraverso la mia mente – e quasi subito sentii la miatesta presa dall’impulso di cadere, un desiderio, un fa-scino, una passione assolutamente invincibile. Mollai lapresa e, piegato su me stesso lungo la parete, oscillai,per un secondo ancora, contro quella nuda superficie.Ma ecco che uno schianto si produsse improvvisamentenel mio cervello: una voce acutissima, la voce di un fan-tasma, mi gridava nelle orecchie; un viso nero, satanico,avvolto dall’ombra, si levò immediatamente sotto di me;mi lasciai sfuggire un sospiro e, come se il cuore mi sispezzasse, caddi tra le braccia del fantasma.Avevo perduti i sensi e Peters mi aveva afferrato intempo nel momento in cui stavo per cadere. Dal fondodella parete aveva seguito i miei movimenti e, intuendoil pericolo che mi minacciava, aveva cercato d’incorag-giarmi con tutti i mezzi che aveva potuto immaginare;ma la mia mente era così stravolta che non avevo sentitonulla di ciò che mi diceva e non mi ero neanche accortoche parlasse. Alla fine, vedendomi vacillare, si era affret-tato ad arrampicarsi per soccorrermi ed era arrivato ap-

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pena in tempo. Se fossi caduto con tutto il mio peso, ladebole corda si sarebbe spezzata e sarei inevitabilmentesprofondato nell’abisso; ma il mio compagno arrestò lamia caduta e potei restare sospeso nel vuoto finché nonebbi ripreso coscienza, cosa che richiese un buon quartod’ora. Una volta tornato in me, la vertigine era sparita;ero come rinato e, sempre con l’aiuto di Peters, rag-giunsi sano e salvo la base del precipizio.Non eravamo molto lontani dalla gola in cui i nostriamici avevano perso la vita, a sud del punto in cui la col-lina era crollata. L’aspetto del luogo era stranamente de-solato, simile alle descrizioni che i viaggiatori fanno delletristi contrade della vecchia Babilonia; per non parlaredelle rovine delle colline sprofondate che sbarravanol’orizzonte a nord. Il terreno era disseminato di enormitumuli che sembravano i resti di gigantesche architetture,ma a guardare più da vicino non vi si riconosceva lamano dell’uomo. C’erano solo detriti e grossi blocchi digranito, informi e neri, si alternavano qua e là a blocchidi marna, e i due materiali avevano ricche incrostazionimetalliche; scorgemmo anche enormi scorpioni e rettiliche normalmente non si trovano a quelle latitudini.Nostra prima preoccupazioni era di procurarci qualcosada mangiare, per cui decidemmo di dirigersi verso il li-torale, distante non più di mezzo miglio, per catturaredelle tartarughe che avevamo visto dall’alto del nostronascondiglio sulle colline. Avevamo fatto appena centoyards, scivolando con prudenza dietro i grossi blocchi ei tumuli, e stavamo per girare un angolo, quando cinqueindigeni balzarono fuori da una piccola caverna e ab-batterono Peters con un colpo di mazza; lui cadde e gliassalitori si lanciarono nuovamente su di lui per finirlo

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e io ebbi il tempo di riavermi dalla sorpresa. Avevo an-cora con me il fucile, ma il grilletto era stato danneggiatoper la caduta dall’alto del precipizio e pensai che fosseinutilizzabile; così lo gettai, preferendo affidarmi alle pi-stole, che invece avevo conservato con grande cura.Avanzai verso gli aggressori e feci fuoco; due selvaggicaddero e un altro che stava per trafiggere Peters con lalancia, fece un balzo indietro senza mettere in opera ilsuo triste disegno. Liberato il mio amico, il peggio erapassato. Anche Peters aveva le sue pistole di cui perònon fece uso, preferendo contare sulla sua forza, vera-mente superiore a qualunque altro uomo. Impugnòquindi la mazza di uno dei selvaggi stesi a terra e spap-polo la testa ai tre che restavano, spedendoli istantanea-mente all’altro mondo, con un colpo solo. In breverestammo padroni del terreno.Tutto questo si era svolto in un batter d’occhio e, noncredendo ai nostri occhi, ce ne stavamo attoniti, accantoa quei cadaveri, immersi in una sorta di ebete contem-plazione, quando dei clamori lontani ci richiamaronoalla realtà. Evidentemente le esplosioni avevano messoin allarme gli indigeni e ci avrebbero sicuramente sco-perti. Per tornare alla collina saremmo dovuti andarenella direzione da cui provenivano le grida e, ammessoche fossimo riusciti a raggiungerla, era impossibile chenon ci vedessero. La situazione era delle peggiori e nonsapevamo dove andare, quando uno dei selvaggi cheavevo colpito e che credevo morto si alzò improvvisa-mente, cercando di scappare. Lo bloccammo subitoprima che potesse fare un passo e stavamo per ucci-derlo, quando Peters suggerì che sarebbe stato meglioportarlo con noi. Lo trascinammo dunque, facendogli

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capire che se avesse resistito lo avremmo ucciso; bastòpoco per renderlo docile e ci seguì nella nostra corsaprecipitosa attraverso le rocce in direzione della costa.Il terreno era così accidentato che vedevamo il maresolo a tratti e quando ci apparve per intero eravamo alladistanza di sole duecento yards. Sbucando allo scopertosulla sabbia, vedemmo, con nostra grande costerna-zione, che una moltitudine di isolani si riversava dal vil-laggio e da resto dell’isola correndo verso di noi congesti furiosi e con urla bestiali. Stavamo per fare dietro-front per nasconderci negli anfratti del terreno quandoscorgemmo la prua di due piroghe dietro una grossaroccia. Corremmo alla massima velocità consentita dallenostre gambe e, raggiungendole scoprimmo che nonc’era nessuno, ma solo tre grosse tartarughe e remi suf-ficienti per un equipaggio di sessanta persone; spin-gemmo il prigioniero a bordo e mettemmo la piroga inacqua con tutta l’energia che ci rimaneva.Eravamo appena a cinquanta yards della spiaggia quandoci rendemmo conto che avevamo commesso una grandesciocchezza lasciando la seconda piroga in mano ai sel-vaggi, che erano giunti a cento yards dalla riva e accele-ravano la corsa. Non c’era tempo da perdere, avevamoun’unica speranza, a costo di enormi sforzi dovevamotornare indietro e raggiungere l’altra piroga prima chese ne impadronissero gli indigeni. Era l’unico modo persalvarci, altrimenti eravamo condannati.La piroga era costruita con prua e poppa identiche, co-sicché non occorreva fare una virata, ma bastò cambiareposizione ai remi per invertire la rotta. Appena i selvaggisi accorsero dei nostri movimenti, raddoppiarono le lorogrida come la foga e si avvicinavano a gande velocità.

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Dal canto nostro, remavamo con la forza della dispera-zione e, quando giungemmo alla piroga, uno solo degliindigeni ci aveva raggiunto e pagò cara la sua velocità,perché Peters gli bruciò le cervella nel momento stessoin cui toccava il bordo. Il gruppo degli isolani era all’in-circa a venti o trenta passi da noi saltammo nella piroga:prima tentammo di trascinarla al largo, fuori di portatadei selvaggi, ma vedendo che era troppo pesante e chenon c’era tempo, con uno o due colpi col calcio del fu-cile Peters la sfondò a prua e ai lati. Fatto ciò, riguada-gnammo il largo; due indigeni avevano fatto in tempoad aggrapparsi alla nostra imbarcazione e non volevanomollare, cosicché ci vedemmo costretti a liberarcene acolpi di coltello.Questa volta ce l’avevamo fatta... filavamo veloci inmare e il grosso dei selvaggi, raggiunta la piroga demo-lita, lanciò urla di rabbia e di vendetta. In verità, quantoho potuto conoscere sul conto di quegli scellerati, me liha rivelati come la razza la più perversa, più astuta, piùvendicativa, più sanguinaria e, sotto tutti i punti di vista,più diabolica che si sia vista sulla faccia della terra. Ciavrebbero certamente massacrati se fossimo caduti nelleloro mani. Cercavano ancora con sforzi disperati dispingere la piroga squarciata, ma presto dovettero con-vincersi che non era utilizzabile e, dopo avere di nuovolanciato grida spaventose, si lanciarono verso le colline.Non c’erano pericoli immediati, ma la situazione nonera comunque rosea: pensavamo che i selvaggi avesseroaltre quattro piroghe simili alla nostra, perché non era-vamo ancora stati informati – il nostro prigioniero ce lodisse più tardi – che due di esse erano state distrutte dal-l’esplosione della Jane Guy. Calcolammo quindi che sa-

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remmo stati inseguiti dai nostri nemici appena avesseropotuto raggiungere l’altro lato della baia, distante circatre miglia, dove di solito stavano le piroghe, e con queltimore cercavamo di allontanarci il più possibile dal-l’isola, scivolando velocissimi sull’acqua, dopo aver co-stretto il prigioniero a prendere anche lui il remo. Circamezz’ora dopo, percorse almeno cinque o sei migliaverso sud, ci apparve una moltitudine d’imbarcazioni afondo piatto e di zattere, provenienti dal fondo dellabaia, con l’evidente intenzione d’inseguirci, ma ben pre-sto li vedemmo tornare indietro, forse giudicando di-sperato e vano il tentativo.

Capitolo 25

Eccoci dunque in mezzo all’immenso e lugubre OceanoAntartico, sotto una latitudine che superava gli 84°, inuna fragile piroga, senza altri viveri che tre tartarughe.Doveva inoltre essere ormai vicino il lungo inverno po-lare, per cui dovevamo decidere con urgenza il da farsi.C’erano sei o sette isole in vista, appartenenti al mede-simo arcipelago e distanti cinque o sei leghe le une dallealtre, ma non avevamo nessuna voglia di avventurarcisu alcuna di esse. La Jane Guy era arrivata nord e si eralasciata alle spalle zone glaciali spaventose, anche se ciònon concorda con le comuni nozioni sull’Oceano An-tartico, ma che la nostra esperienza personale non met-teva in dubbio. Di conseguenza, cercare di tornare daquella parte sarebbe stata una vera follia, soprattuttocon la stagione così avanzata. Sola una strada ci sem-brava offrire speranze, e fu dunque deciso di spingersi

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coraggiosamente verso sud, dove almeno avremmo po-tuto scoprire altre terre e dove il clima forse era più cle-mente.Fino ad allora avevamo osservato che nell’Oceano An-tartico, come in quello Artico, non si scatenavano maitempeste violente né ondate esagerate; la nostra pirogaera grande ma fragilissima e pensammo di renderla piùsolida, per quanto ci consentivano le nostre limitatissimerisorse. L’imbarcazione era costituita dalla corteccia diun albero sconosciuto e misurava circa cinquanta piedida poppa a prua, da quattro a cinque piedi in larghezzae quattro e mezzo di profondità; era quindi sostanzial-mente diversa dalle imbarcazioni di altri indigeni del-l’Oceano del sud coi quali le nazioni civilizzate sonoentrate in contatto. Noi non avevamo mai pensato chequelle piroghe potessero essere opera di quei selvaggiprimitivi che le possedevano; più tardi infatti, interro-gando il nostro prigioniero, venimmo a sapere che eranostate costruite dagli indigeni di un arcipelago situato asud-ovest delle isole in cui le avevano trovate e che, pernostra fortuna, erano cadute nelle mani dei nostri ne-mici. Coi numerosi remi che non ci servivano co-struimmo una specie di armatura a prua per rinforzarlacontro le ondate e piantammo inoltre due remi in guisadi alberi, fissandoli ai due bordi, uno di fronte all’altro,e agganciammo a questi alberi improvvisati una vela for-mata dalle nostre due camicie; e questo lavoro ci richiesenon poco tempo perché non ottenemmo aiuto dal pri-gioniero. L’aspetto della vela sembrava spaventarlo enon c’era modo di convincerlo a toccarla; quando ten-tavamo di forzarlo o di avvicinarlo a essa, si metteva atremare, gridando: «Tekeli! Tekeli!».

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Dopo aver sistemato in quel modo la piroga, dop-piammo l’ultima isola dell’arcipelago e puntammo de-cisamente verso sud. La temperatura era gradevole,soffiava una dolce brezza da sud, il mare era calmo e legiornate erano lunghissime. Non c’era ghiaccio in vistae non avevamo neppure scorto un iceberg, passato il tra-verso dell’Isola di Bennet. Evidentemente la tempera-tura dell’acqua era molto elevata. Uccidemmo la piùgrossa delle nostre tartarughe, che ci fornì contempora-neamente carne e acqua in abbondanza, poi prose-guimmo la navigazione senza incidenti per sette o ottogiorni, col vento costantemente favorevole e la correnteche ci spingeva nella direzione scelta; così potemmo fareun tragitto considerevole verso sud.1° marzo.1 Molti fenomeni insoliti ci fecero pensare chestavamo entrando in una regione di grandi scoperte edi meraviglie. L’orizzonte a sud era costantemente velatoda una vasta cortina di vapore grigio e impalpabile, in-cendiata a tratti da banderuole di fuoco ondeggianti daovest a est o viceversa e uniforme in basso e in alto: inpoche parole un fenomeno con tutte le violente varia-zioni di un’aurora boreale. L’altezza media di quella cor-tina, come ci appariva dal punto in cui ci trovavamo, eradi circa 25°; la temperatura del mare sembrava momen-taneamente salita e se ne percepiva il calore.3 marzo. Quel giorno, tempestando di domande il no-stro prigioniero, ottenemmo alcune spiegazioni sull’isoladel massacro, sui suoi abitanti e sui suoi costumi; il let-

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1 Per motivi che il lettore comprenderà facilmente, non posso ga-rantire l’esattezza dei dati che seguono. Li riporto solo per dare piùchiarezza al mio racconto, nel modo in cui li ho annotati sul tac-cuino per mezzo della mia matita.

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tore potrebbe ancora interessarsi a questi dettagli. Diròsolamente che l’arcipelago era composto di otto isole,con un unico re, chiamato Tsalamon o Tsalamoun cherisiedeva in una delle più piccole; dirò anche che le pelliche costituivano l’uniforme dei guerrieri provenivanoda un animale di taglia enorme, che viveva esclusiva-mente in una vallata vicina alla residenza reale; che gliisolani non costruivano altre imbarcazioni che delle zat-tere a fondo piatto, e che le quattro piroghe, le unicheche avessero di quel tipo, erano venute loro per caso dauna grande isola sud-ovest; che il nome del nostro pri-gioniero era Nu-mu, che non conosceva affatto l’IsolaBennet; e infine, che l’isola da cui eravamo fuggiti sichiamava Tsalal. La sillaba iniziale della parola Tsalamano Tsal, si pronunziava con un fischio prolungato che cifu impossibile riprodurre, anche dopo ripetuti sforzi, eche era esattamente identico a quello del tarabuso neroche avevamo mangiato in cima alla collina.3 marzo. Il colore dell’acqua era veramente strano: la co-lorazione si era rapidamente alterata; aveva perdutotutta la trasparenza per prendere la tinta e la consistenzadel latte. Nelle nostre immediate vicinanze il mare nor-malmente era calmo e la nostra imbarcazione non cor-reva alcun pericolo. Spesso però vedevamo alla nostradestra o a sinistra, più o meno lontane, delle improvviseincrespature della superficie e notammo che erano sem-pre precedute da strane ondulazioni del mare nella re-gione a sud.4 marzo. Quel giorno, visto che il vento da nord calavasensibilmente, tolsi dalla tasca un fazzoletto bianco peraumentare la superficie esposta al vento. Nu-mu era se-duto al mio fianco e, come il fazzoletto gli sfiorò il viso,

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ebbe delle convulsioni violente. A queste crisi seguironouna profonda depressione e torpore, e sempre il gridosoffocato: «Tekeli! Tekeli! ».5 marzo. Il vento è cessato del tutto, ma siamo sempretrascinati verso il sud da una forte corrente. A dire ilvero, avevamo tutte le ragioni per essere allarmati dallapiega degli avvenimenti, eppure niente ci turbava; il visodi Peters non tradiva alcun timore e solamente in certimomenti assumeva un’espressione che non saprei defi-nire. L’inverno polare si avvicinava, ma non sembravacosì terribile, e io mi sentivo come intorpidito nel corpoe nella mente, in una sensibilità di sogno, e ciò era tutto!6 marzo. Il vapore grigio si era alzato di più gradi al disopra dell’orizzonte e la colorazione grigiastra spariva apoco a poco. L’acqua era molto calda, quasi bruciava atoccarla e il colore era lattiginoso. Quel giorno, improv-visamente, l’acqua si agitò vicino alla piroga e, comesempre, il fenomeno coincise con una particolare fiam-mata alla sommità della cortina di vapore e con unostrappo leggero alla sua base; quando il vapore si arrestòe il mare si calmò una fine polvere bianca cadde sullapiroga e su un esteso braccio di mare. Nu-mu crollò al-lora sul fondo dell’imbarcazione, nascondendo il visotra le mani e niente poté deciderlo ad alzarsi.7 marzo. Abbiamo interrogato Nu-mu sul motivo cheaveva spinto la sua tribù a massacrare i nostri compagni,ma era troppo terrorizzato per risponderci in modo ra-gionevole; rimaneva steso in fondo all’imbarcazione e difronte alle nostre insistenze nel porgli la domanda, facevagesti strani, come sollevare il labbro superiore coll’indiceper scoprire i denti. Erano neri ed era la prima volta cheosservavamo i denti di un indigeno di Tsalal.

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8 marzo. Uno di quegli animali bianchi che, al suo ap-parire nella baia di Tsalal, aveva causato un’emozionecosì forte fra i selvaggi, nuotava a fianco della nostra pi-roga. Ho pensato per un momento di catturarlo ma poi,preso da un improvviso timore, ho lasciato perdere. Ilcalore dell’acqua andava sempre crescendo, non si po-teva resistere a lungo immergendo la mano. Peters nonapriva bocca e non sapevo spiegarmi la sua apatia.Guardai Nu-mu: respirava appena.9 marzo. Intorno a noi è caduta continuamente unapioggia di cenere in grande quantità; il nastro di vaporeal sud si è alzato in cielo in modo prodigioso e cominciaad assumere una forma ben definita. Non saprei trovaredefinizione migliore che paragonandola a un’infinita ca-taratta, che rotola silenziosa in mare da un lontanissimobastione. La gigantesca copriva in tutta la sua estensionel’orizzonte a sud21 marzo. Le tenebre incombevano su di noi, ma dal-l’oceano color latte si alzava un raggio di luce che sem-brava sfiorare i bordi dell’imbarcazione. Eravamo quasisepolti da quella valanga di cenere bianca che si ammon-ticchiava sempre più sulla piroga, ma che fondeva alcontatto dell’acqua. Il fondo della cateratta era inghiot-tito dalle tenebre in lontananza, tuttavia ci avvicinavamoa essa con una spaventosa velocità. A momenti vi si po-tevano distinguere come degli enormi strappi momen-tanei, e attraverso questi strappi si vedevano agitarsiimmagini fuggevoli e nebulose; vi convergevano, ventipossenti, ma silenziosi, il cui volo fendeva l’oceano in-cendiato.22 marzo. Le tenebre si erano fatte ancora più opache,attenuate solamente dalla luce delle acque che si riflet-

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tevano nella cortina bianca che si spiegava davanti a noi.Intanto, delle vere orde di uccelli giganteschi, di unbianco livido, volavano continuamente dietro la nostrastrana vela e il grido che lanciavano, sfuggendo ai nostriocchi, era l’eterno ritornello: «Tekeli-li!». Nu-mu hafatto uno strano movimento in fondo all’imbarcazionee, toccandolo, abbiamo capito che non era più nelmondo dei vivi. E allora siamo accorsi nell’abbracciodella cataratta, in cui si era aperto una fenditura, quasiper inghiottirci. Ma nel nostro cammino si levò a untratto una figura umana, ricoperta da un velo e moltopiù grande del comune. E il colore della pelle dellostrano fantasma era il bianco perfetto della neve.

FINE

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NOTA

La stampa quotidiana ha già dato notizia al pubblicodelle circostanze collegate alla recente, dolorosa e im-provvisa scomparsa del signor Pym. I pochi capitoli fi-nali che, mentre gli altri erano già in corso di stampa,furono trattenuti per una revisione, temiamo che sianoandati irrimediabilmente perduti nell’incidente che havisto la morte del loro autore. In caso contrario, se maiverranno ritrovate, anche queste pagine saranno resenote al pubblico. Niente è stato lasciato d’intentato per rimediare alla la-cuna. La persona che viene citata nell’introduzione, cheda quanto dice potrebbe ritenersi in grado di colmarequesto vuoto, ha declinato il compito con valide obie-zioni, sia per i pochi precisi particolari di cui dispone,sia per avere dubbi sull’autenticità dell’ultima parte delracconto. Da Peters, che è vivo e abita in Illinois, qualcheinformazione potrebbe forse essere possibile ottenerla,ma fino a oggi è stato impossibile rintracciarlo. Se in fu-turo lo si potrà incontrare, saprà sicuramente fornire glielementi utili a completare la storia del signor Pym. La perdita degli ultimi due o tre capitoli (infatti eranosoltanto due o tre) è tanto più irrimediabile in quantocontenevano con sicurezza materiale relativo al Polo, operlomeno alle zone più vicine a esso, e anche perché lerivelazioni che l’autore ha fatto su quelle regioni potreb-bero venire confermate oppure smentite, in tempi nonlontani, dalla spedizione governativa in corso di allesti-mento nei mari dell’Antartico.

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Stampato nel dicembre 2015da Tipografia ABC - Sesto Fiorentino (Fi)