elogio della poesia

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Elogio della poesia di Valeria Rossella Inizierei questo discorso argomentando sulla traduzione, con sufficiente temerarietà e da non addetta ufficialmente ai lavori: tradurre è “far passare attraverso”. Ma in questa traslazione la cosa traslata muta solo di posto o anche di sostanza, come vorrebbe la fisica moderna, o quella di Eraclito, se si preferisce? Insomma vige la legge dell'impenetrabilità dei corpi, oppure no? La parola che passa da una lingua a un’altra resta la stessa? Ma il solo fatto di leggere non significa comunque tradurre? Pensiamo soltanto a come esista un unico originale, e tante traduzioni; il testo è uno e immutabile, le sue traduzioni invecchiano. Se la poesia è passaggio dal lato diurno al lato notturno della parola, intorno al cui suono fondamentale è possibile percepire gli armonici, così la traduzione poetica è dunque un sosia, ma non una copia: un gemello, che vive di vita propria. Faccio queste riflessioni da poeta che ama leggere, e talvolta tradurre, i poeti polacchi; molto appagata, e tutt’altro che isolata, in questa mia predilezione. Il premio Nobel per la letteratura 1987, Josif Brodskij, nel discorso tenuto a Torino per l’inaugurazione del primo Salone del Libro nel maggio del 1988, affermava senza mezzi termini che «la più straordinaria poesia di questo secolo è scritta in polacco», segnalando i nomi di Leopold Staff, Czesław Miłosz, Zbigniew Herbert e Wisława Szymborska. Certo, a questi numi tutelari aggiungerei, nel mio Pantheon personale, la Musa folgorante e tragica di uno Esenin polacco come Józef Czechowicz e la fioritura misteriosamente sapienziale e allegorica dell’ultima Kazimiera Iłłakowicz; l’originalissimo mélange d’ironia e lirismo di Konstanty Ildefons Gałczyński e il poco conosciuto, ma assai interessante Jan Zahradnik (1904- 1929), originario della regione carpatica oggi in Ucraina, autore di un unico libro di versi, Ludziom smutnym (A chi è triste). La sua poesia dall’atmosfera fantastica e a volte macabra, da cui traspare la problematica percezione di un Dio debole, tutta novecentesca, lo accomuna (per quanto in minore) al più geniale fra i poeti polacchi della prima metà del secolo appena trascorso, Bolesław Leśmian. Di Zahradnik vorrei fornire in traduzione due testi che illustrano questo singolare rapporto col divino, e un terzo, esemplare nella sua trasognata atmosfera d’incubo: Umierający Bóg Stary już jestem...i sił nie mam, dzieci, By kulę świata w drżącej zdzierżyć dłoni; W piersi Mej zegar olbrzymi stuleci Wolniej już idzie i już ciszej dzwoni... Lecz, gdy zacięży sbytnio ciężar globu, Przyjdzie stworzenia ostateczna kolej: W otchłań wieczności, jak trumna w dół grobu, Świat się zesunie głucho i powoli. Umiłowani! czas zaiste pilny, By Bóg wasz zyskał od was przebaczenie - Jak o zachodzie blask słońca bezsilny, Umierające ślę ku wam spjrzenie. Ta pierś odwieczna coraz mniej już tchu ma, Słabiej krew płynie w tętnicy wiekowej - A tylko Moja bolesna zaduma, Jak mgła wieczorna opływa wam głowy. Lecz, zanim słowem znów się stanie ciało, 1

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Elogio della poesia

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Page 1: Elogio Della Poesia

Elogio della poesia di Valeria Rossella

Inizierei questo discorso argomentando sulla traduzione, con sufficiente temerarietà e da non addetta ufficialmente ai lavori: tradurre è “far passare attraverso”. Ma in questa traslazione la cosa traslata muta solo di posto o anche di sostanza, come vorrebbe la fisica moderna, o quella di Eraclito, se si preferisce? Insomma vige la legge dell'impenetrabilità dei corpi, oppure no? La parola che passa da una lingua a un’altra resta la stessa? Ma il solo fatto di leggere non significa comunque tradurre? Pensiamo soltanto a come esista un unico originale, e tante traduzioni; il testo è uno e immutabile, le sue traduzioni invecchiano. Se la poesia è passaggio dal lato diurno al lato notturno della parola, intorno al cui suono fondamentale è possibile percepire gli armonici, così la traduzione poetica è dunque un sosia, ma non una copia: un gemello, che vive di vita propria. Faccio queste riflessioni da poeta che ama leggere, e talvolta tradurre, i poeti polacchi; molto appagata, e tutt’altro che isolata, in questa mia predilezione. Il premio Nobel per la letteratura 1987, Josif Brodskij, nel discorso tenuto a Torino per l’inaugurazione del primo Salone del Libro nel maggio del 1988, affermava senza mezzi termini che «la più straordinaria poesia di questo secolo è scritta in polacco», segnalando i nomi di Leopold Staff, Czesław Miłosz, Zbigniew Herbert e Wisława Szymborska. Certo, a questi numi tutelari aggiungerei, nel mio Pantheon personale, la Musa folgorante e tragica di uno Esenin polacco come Józef Czechowicz e la fioritura misteriosamente sapienziale e allegorica dell’ultima Kazimiera Iłłakowicz; l’originalissimo mélange d’ironia e lirismo di Konstanty Ildefons Gałczyński e il poco conosciuto, ma assai interessante Jan Zahradnik (1904-1929), originario della regione carpatica oggi in Ucraina, autore di un unico libro di versi, Ludziom smutnym (A chi è triste). La sua poesia dall’atmosfera fantastica e a volte macabra, da cui traspare la problematica percezione di un Dio debole, tutta novecentesca, lo accomuna (per quanto in minore) al più geniale fra i poeti polacchi della prima metà del secolo appena trascorso, Bolesław Leśmian. Di Zahradnik vorrei fornire in traduzione due testi che illustrano questo singolare rapporto col divino, e un terzo, esemplare nella sua trasognata atmosfera d’incubo: Umierający Bóg Stary już jestem...i sił nie mam, dzieci, By kulę świata w drżącej zdzierżyć dłoni; W piersi Mej zegar olbrzymi stuleci Wolniej już idzie i już ciszej dzwoni... Lecz, gdy zacięży sbytnio ciężar globu, Przyjdzie stworzenia ostateczna kolej: W otchłań wieczności, jak trumna w dół grobu, Świat się zesunie głucho i powoli. Umiłowani! czas zaiste pilny, By Bóg wasz zyskał od was przebaczenie - Jak o zachodzie blask słońca bezsilny, Umierające ślę ku wam spjrzenie. Ta pierś odwieczna coraz mniej już tchu ma, Słabiej krew płynie w tętnicy wiekowej - A tylko Moja bolesna zaduma, Jak mgła wieczorna opływa wam głowy. Lecz, zanim słowem znów się stanie ciało,

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Nim spoczną znojne ducha Mego kości, Daję wam jeszcze tę niemoc zgrzybiałą Mojej głębokiej nad wami litości.1 Il dio morente Sono ormai vecchio... e non ho forze, figli, per sostenere il mondo sul palmo che trema: l’immane orologio dei secoli rintocca sempre più lento e fioco dentro il petto... Ma quando diverrà troppo pesante il globo sarà la volta dell’ultima vicenda: nel tempo senza fine, come bara nella fossa, calerà cupo il mondo. O miei amati! È dunque giunto il tempo che ottenga il vostro Dio da voi perdono - come al tramonto lo spossato raggio del sole, vi lancerò uno sguardo che muore.

Il petto antico ha sempre meno fiato, più debole scorre il sangue nelle arterie - e solo il mio pensiero doloroso, nebbia serale, vi fluttua intorno al capo.

Ma prima che la carne torni verbo, e prima che riposino le ossa affaticate del mio Spirito, vi dono ancora l’impotenza incanutita di questa compassione che ho per voi. Blask z ócz, sen z powiek Blask z ócz, sen z powiek, uśmiech z ust mi spędzasz... Wzrok ci i oddech wydałem na łup. Z wszystkich na świecie najśmieszniejszy nędzarz, Czekam twych spojrzeń u twych jasnych stóp. Żyć jeno życiem, co umie się nie dziać! Blask z ócz, sen z powiek... Czyż wiem, czyliż śmiem Chociaż to jedno raz napewno wiedzieć: Sen jest istnieniem, istnienie jest snem. Ale te wargi palić nie przestaną, Wszędzie obecne i żywe, jak świat, - Wiecznie się jątrzysz,ty zapiekła rano! Blask z ócz, sen z powiek... twój płomień, twój ślad. Nienasycona serdeczna pożoga! Sen jest istnieniem, istnienie to mus, - Ty najpiękniejsza, straszna masko Boga, Co tak boleśnie w duszę moją wrósł!2 Il bagliore dagli occhi, il sonno dalle palpebre

1 J. Zahradnik, Ludziom smutnym, Towarzystwo Wydawnicze Ateneum, Lwów 1925. 2 Ibidem.

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Il bagliore dagli occhi, il sonno dalle palpebre, il sorriso dalle labbra mi scacci... T’ho ceduto il bottino della mia vista, del respiro. Io, il più risibile povero al mondo, ai tuoi piedi chiari i tuoi sguardi attendo. Eppure la vita vivere, capace di non essere! Il bagliore dagli occhi, il sonno dalle palpebre... E so, oso forse sapere per una volta sola, una sicuramente: il sogno è esistenza, e l’esistenza sogno. Ma non smettono queste labbra di bruciare, ovunque presenti e vive, come il mondo - Tu che suppuri in eterno, o ardente ferita! Il bagliore dagli occhi, il sonno dalle palpebre... la fiamma tua, la tua traccia. Incendio insaziabile del cuore! Il sogno è esistenza, l’esistenza necessità - O tu bellissima, tremenda maschera di Dio, che con tanto dolore nell’anima mi crebbe! Na trzecim brzegu To było bardzo dawno... Wybladła ulica Milczała wciąż niezłomnie do gwiazd, do księżyca. Ktoś cichy szedł, a woczach niósł świty zdumienia, Lęku nie miał przed sobą - ni za sobą cienia. Szedł cichy płynnym krokiem w gwieździste migoty, A niósł serce i usta omdlałe z tęsknoty. I chciał upleść drabinę z gwiazd, co tak się jarzą, Chciał uderzyć o niebo groźną, twardą twarzą. (To było bardzo dawno - gdzieś na trzecim brzegu Ulicy, co leżała w miesiącu, jak w śniegu)... Wbiegł w ciszę i zaszlochał boleśnie, bezradnie, Że dna nigdzie nie widać,a wszystko jest na dnie.3 Sulla terza riva Ed era molto tempo fa... La strada sbiadita ostinata taceva alle stelle e alla luna. C’era chi andava muto, negli occhi albe stupite, senza timori avanti a sé, e dietro nessun’ombra. Andava muto, fluiva nel luccichio stellare, il cuore e le labbra fievoli per la nostalgia. Scale voleva intrecciare di stelle lucenti, colpire il cielo col volto minaccioso e duro. (Ed era molto tempo fa - là sulla terza riva della via che giaceva nella luna, come nella neve)...

3 Ibidem.

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Ma corse via nel silenzio, con vano e amaro pianto, ché mai si vede il fondo e tutto sta sul fondo.

Per tornare a Leśmian, autore quanto mai impervio da tradurre, il motivo più interessante è quello della natura che è concepita come un universo animistico, in cui nulla mai nasce o muore veramente, senza l’orizzonte della trascendenza, ma visitato da un Dio morente e sfuggente come le sue creature, autore di una creazione incompleta, anzi imperfetta, metamorfica, priva di pace. C’è in Leśmian una fondamentale idea di latenza. Nelle sue poesie compare uno strano popolo a metà tra l’incubo, l’apparizione, l’antropomorfismo e l’oggetto animato: una folla bruegheliana di storpi (il Gobbo, il Soldato zoppo), boschana di mostriciattoli come il povero Dusiołek (Incubo scalcinato col muso di rana e il sedere di gallina), Znikomek, con un occhio azzurro e uno castano, il fuocherello fatuo Śnigrobek, e poi fantasmi (veri révenants o fenomeni naturali vivificati), demoni del folclore popolare. Nel libro Łąka (Il prato, 1920) troviamo ad esempio la sezione intitolata Pieśni kalekujące (Canzoni claudicanti), tra i cui protagonisti figurano appunto il Ciabattino, un Sisifo diseredato che a questo Dio povero vuole cucire le scarpe, e il Soldato zoppo, che incontra Cristo ridisceso sulla terra, un Cristo da scultura popolare, con due mani sinistre e due gambe destre; e nella bellissima raccolta Napój cienisty (Filtro d’ombre, 1936), ultima pubblicata in vita dall’autore, oltre l’Angelo dalle ginocchia nere, il Gorilla e il Pupazzo di neve cui un demiurgo distratto e beffardo ha concesso un’effimera vita, quello sciame di api che, in uno dei vertici della poesia leśmianiana, smarrita la strada finisce nelle squallide case dei morti, abbacinandoli prima di volarsene via. Straordinaria è la lingua di cui si serve Leśmian: reinventa il polacco, approfittando della sua estrema duttilità, lumeggiando le radici con giochi di prefissi, usando voci dialettali o dimenticate, spesso formando neologismi, ricreando così nel tessuto stesso della parola quell’universo inquieto e metamorfico della sua poesia. Forniamo alcuni esempi: la natura, spinozianamente soggetto e oggetto di se stessa, il suo primordiale erotismo un po’ cannibalesco, cespuglio di lamponi - e la sera in campagna, dove «finisce Dio - incomincia l’erba»: W malinowym chruśniaku, przed ciekawych wzrokiem Zapodziani po głowy, przez długie godziny Zrywaliśmy przybyłe tej nocy maliny. Palce miałaś na oślep skrwawione ich sokiem. Bąk złośnik huczał basem, jakby straszył kwiaty, Rdzawe guzy na słońcu wygrzewał liść chory, Złachmaniałych pajęczyn skrzyły się wisiory, I szedł tyłem na grzbiecie jakiś żuk kosmaty. Duszno było od malin, któreś, szepcząc, rwała, A szept nasz tylko wówczas nacichał w ich woni, Gdym wargami wygarniał z podanej mi dłoni Owoce, przepojone wonią twego ciała. I stały się maliny narzędziem pieszczoty Tej pierwszej, tej zdziwionej, która w całym niebie Nie zna innych upojeń, oprócz samej siebie, I chce się wciąż powtarzać dla własnej dziwoty. I nie wiem, jak się stało, w którym okamgnieniu, Żeś dotknęła mi wargą spoconego czoła, Porwałem twoje dłonie – oddałaś w skupieniu, A chruśniak malinowy trwał wciąż dookoła.4

4 B. Leśmian, Łąka, J. Mortkowicz, Warszawa 1920.

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Nel cespuglio di lamponi, immersi fino al capo e persi allo sguardo dei curiosi, lungamente coglievamo i lamponi cresciuti quella notte. T’insanguinava tutte le dita il loro succo. Il tafano collerico spaventava i fiori, la foglia egra scaldava i grumi fulvi, pendagli luminosi di ragne stracciate sfavillavano, camminava all’indietro uno scarabeo peloso. Ci soffocavano i lamponi che, bisbigliando, spiccavi, e il nostro bisbiglio tacque nell’aroma solo quando con le labbra colsi dal tuo palmo i frutti che il profumo del tuo corpo intrideva. Divennero i lamponi strumento di carezze le prime, le più stupite, che nel cielo intero altre ebbrezze non sanno, che non siano esse stesse, e nella propria stranezza vogliono ripetersi. Poi non so, com’è stato, né in che palpebrare, hai sfiorato col labbro la mia fronte sudata, io ti ho preso le mani - me le hai date, raccolta, in quel persistere intorno, denso, dei lamponi. (da Łąka, Il prato) Wieczór Drobne okno otwórz niespodzianie, Niech zobaczę twe łóżko przy ścianie! Taka cisza, że nie poznać świata – Jeden tylko na dębie liść lata. Koral zorzy po podpłociu biega I sam siebie na sękach postrzega. Motyl w zmierzchu biało nam się ziścił, Gdy się skrzydłem do malwy przyliścił. Ciche grabie z najcichszą łopatą Tkwią we dwoje i do snu pod chatą, Kto w nie spojrzy – zrachuje dwie cisze. Dal się w oczach umyślnie kołysze. Wieczór różnie niszczeje po krzakach, Cień do rowu włazi na czworakach. Za miedziami, za ustroniem młyna Bóg się kończy – trawa się zaczyna. Kurz, świetlejąc, dogasa nad drogą, I jest wszystko, choć nie ma nikogo! Tylko brzoza, kwitnąc w światów mnóstwo, Całe swoje w snach odmilkłe brzóstwo Z nagłym szeptem wcudnia do strumienia, Gdzie raz jeszcze w brzozę się zamienia.5 Sera

5 Id., Napój cienisty, (s.n.), Warszawa 1936.

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Spalanca la finestra all’improvviso, che veda il letto contro la parete! Tutto è silenzio, irriconoscibile - solo una foglia trema sulla quercia. S’inseguono i coralli del crepuscolo ai piedi della siepe, sopra i rami nodosi delle piante si rispecchiano. Un bianco di farfalla esce dal buio se l’ala accosta alle foglie di malva. Quieti i rastrelli e il placido badile stanno assopiti sotto il casolare: doppia sarà la pace rivelata a chi li osserva. Negli occhi si culla la lontananza cosciente. La sera in vari modi si disfa nei cespugli e l’ombra striscia carponi nel fosso. Oltre l’eremo del mulino, i campi: finisce Dio - incomincia l’erba. Tutta luminescente sulla strada la polvere svanisce poco a poco e tutto è, pur se non c’è nessuno. Soltanto la betulla, in fioritura nella folla dei mondi, mormorando tutto il suo quieto essere betulla immeraviglia nel ruscello, e ancora ridiventa betulla, s’imbetulla. (da Napój cienisty, Filtro d’ombre) E ora due testi in cui compaiono le bislacche e dolenti “creature” di Leśmian: Szewczyk W mgłach daleczeje sierp księżyca, Zatkwiony ostrzem w czub komina, Latarnia się na palcach wspina W mrok, gdzie już kończy się ulica. Obłędny szewczyk - kuternoga Szyje, wpatrzony w zmór odmęty, Buty na miarę stopy Boga, Co mu na imię - Nieobjęty! Błogosławiony trud, Z którego twórczej mocy Powstaje taki but Wśród takiej srebnej nocy! Boże obłoków, Boże rosy, Naści z mej dłoni dar obfity, Abyś nie chadzał w niebie bosy I stóp nie ranił o błękity! Niech duchy, paląc gwiazd pochodnie, Powiedzą kiedyś w chmur powodzi, Że tam, gzie na świat szewc przychodzi, Bóg przyobuty bywa godnie! Błogosławiony trud, Z którego twórczej mocy Powstaje taki but Wśród takiej srebrnej nocy!

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Dałeś mi, Boże, kęs istnienia, Co mi na całą starczy drogę - Przebacz, że wpośród nędzy cienia Nic ci, prócz butów, dać nie mogę. W szyciu nic nie ma, opróc szycia, Więc szyjmy, póki starczy siły! W życiu nic nie ma, oprócz życia, Więc żyjmy aż po kres mogiły! Błogosławiony trud, Z którego twórczej mocy Powstaje taki but Wśród takiej srebrnej nocy!6 Il ciabattino Più lontana si spinge nella nebbia la falce della luna, con la punta infissa sulla cima d’un comignolo. Il lampione s’arrampica nel buio, là dove sbuca e termina la via. Un ciabattino folle e gambacorta, nel turbinìo degli incubi fissato, cuce le scarpe pei piedi di Dio, un Dio che ha per nome: Inafferrato! Fatica benedetta, con quale forza crei e formi tali scarpe nella notte argentata! Dio delle nubi, Dio della rugiada, to’, prendi dalle mie mani un ricco dono, perché scalzo nel cielo non cammini, non ti ferisca i piedi nell’azzurro. Che gli spiriti, torce d’astri accese, in un diluvio di nuvole dicano che Dio è sempre degnamente calzato là dove viene al mondo un ciabattino. Fatica benedetta, con quale forza crei e formi tali scarpe nella notte argentata! M’hai dato, Dio, un boccone di vita, mi basterà per l’intero cammino - perdona se, della miseria all’ombra, null’altro, oltre le scarpe, posso offrirti. Nel cucito c’è soltanto il cucito, dunque cuciamo, finché abbiamo forza! Nella vita c’è soltanto la vita, dunque viviamo, finché appar la fossa! Fatica benedetta, con quale forza crei e formi tali scarpe

6 B. Leśmian, Łąka, op. cit.

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nella notte argentata! Dwoje ludzieńków Często w duszy mi dzwoni pieśń, wyłkana w żałobie, O tych dwojgu ludzieńkach, co kochali się w sobie. Lecz w ogrodzie szept pierwszy miłosnego wyznania Stał się dla nich przymusem do nagłego rozstania. Nie widzieli się długo z czyjejś woli i winy, A czas ciągle upływał - bezpowrotny, jedyny. A gdy zeszli się, dłonie wyciągając po kwiecie, Zachorzeli tak bardzo, jak nikt dotąd na świecie! Pod jaworem - dwa łóżka, pod jaworem - dwa cienie, Pod jaworem ostatnie, beznadziejne spojrzenie. I pomarli oboje bez pieszczoty, bez grzechu, Bez łzy szczęścia na oczach, bez jednego uśmiechu. Ust ich czerwień zagasła w zimnym śmierci fiolecie, I pobledli tak bardzo, jak nikt dotąd na świecie! Chcieli jeszcze się kochać poza własną mogiłą, Ale miłość umarła, już miłości nie było. I poklękli spóźnieni u niedoli swej proga, By się modlić o wszystko, lecz nie było już Boga. Więc sił resztą dotrwali aż do wiosny, do lata, By powrócić na ziemię - lecz nie było już świata.7 I due miserelli Spesso nell’anima risuona luttuoso il canto per quei due miserelli, che si amavano tanto. Un bisbiglio nell’orto, giuramento d’amore, li costrinse al distacco, repentino dolore. A lungo non si videro per altrui volere ma il tempo non si revoca, non si può trattenere. E quando si riunirono, nel raccogliere fiori, si ammalarono tanto, come nessuno ancora! Due letti sotto un acero e nei letti due ombre, sotto l’acero l’ultimo sguardo senza speranza. E morirono entrambi senza abbracci o peccato, senza pianti di gioia, né un sorriso che danza. Le labbra rosse si spensero in un viola di morte, un tal pallore a nessuno fu mai dato in sorte!

7 Ibidem.

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Vollero amarsi i miseri oltre la fossa nera ma l’amore era morto, più l’amore non c’era. Tardi s’inginocchiarono al proprio fato rio per pregare per tutto, ma non c’era più Dio. E a stento ancora giunsero a fine primavera per tornar sulla terra - ma più il mondo non c’era. (entrambe le liriche da Łąka, Il prato) Certo questa è una poesia assolutamente astorica, mitopoietica, ma del tutto spersonalizzata, priva cioè di narcisismo autorale. A questo proposito è molto interessante ricordare una prolusione tenuta da Miłosz per l’inaugurazione del 626° anno accademico dell’Università Jagiellonica di Cracovia, in cui egli parla, a proposito di quella che ritiene essere una caratteristica fondamentale della poesia polacca, di un «costante connubio con la storia», di una poesia che è incisiva, «incline alla filosofia e capace di esprimere non soltanto stati d’animo» e si dichiara avverso a un modello più occidentale e nichilista della poesia, caratterizzato dalla «decomposizione del tessuto stesso del verso nelle descrizioni di stati puramente soggettivi, delle particelle dell’atomo frantumato della persona umana», dalla «radicale soggettivazione che rammollisce la frase». Nella poesia polacca contemporanea, aggiunge Miłosz, «l’individuo non combatte direttamente con la difficoltà di esistere nell’universo, rimane immerso nella collettività». [Cito dalla traduzione che Mauro Martini ha fatto per «Leggere», 1990, n. 18]. C’è quindi una ribellione profonda al nichilismo, all’estetica del dolore. Questa radice etica, compartecipe e oggettivizzante della poesia polacca, è comune certamente ai suoi più rappresentativi autori contemporanei: senza dubbio allo stesso Miłosz, con i suoi temi fondamentali dell’esilio e dell’occultamento di Dio, la vocazione del letterato a essere voce corale e guida, il modello dantesco del poeta come testimone e della poesia come indagine soteriologica, come trama angelicata di un mondo segreto di verità e bellezza, lettura del “retro dell’arazzo”, della “fodera del mondo”. E il Poeta, come Adamo, come Linneo, dà i nomi. Nella variegatissima opera di Miłosz trascorriamo dall’onirica annunciazione del Dies Irae, dal surrealismo apocalittico del suo esordio poetico con la raccolta Trzy zimy (Tre inverni, 1936), all’oggettivazione dell’apocalissi sul piano storico, documentata in Ocalenie (Salvezza,1945), alla resa dei conti etica fra il poeta e il suo tempo in Światło dzienne (Luce del giorno,1953): e poi ancora, durante il suo volontario esilio in Occidente, dall’intreccio visionario tra un medioevo barbaro e i misfatti dell’età nostra in Król Popiel i inne wiersze (Re Popiel e altri versi,1962), all’annunciarsi dei fondamentali temi dell’esilio e dell’epifania mancata in Gucio zaczarowany (Gustavuccio incantato,1965), causati dall’infrazione della legge etica che rende armonioso l’universo, temi che diverranno centrali nei due libri successivi, Miasto bez imienia (La città senza nome,1969) e Gdzie wschodzi słońce i kędy zapada (Dal sorgere del sole al suo tramonto,1974). Se da una parte l’autore si pone il problema etico del fare poetico, sull’altro versante, più squisitamente formale, inizia a formulare la teoria della «forma più capiente», che non «sia troppo poesia né troppo prosa», e che il poeta tenderà a realizzare nei libri successivi, a partire da Hymn o Perle (Inno alla Perla,1982); un’idea “spuria” di poesia, libri che saranno mobilissimi zibaldoni costituiti da testi poetici propri, brani di prosa, traduzioni in e dal polacco, stralci di epistolario e così via. Da Nieobjęta ziemia (Terra inafferrata,1984) al più recente Druga przestrzeń (L’altro spazio, 2002) si dispiega la rievocazione, a un tempo lirica e filosofica, di fatti ed esistenze dei primi anni del secolo: il vecchio poeta torna, anche fisicamente, nella sua Lituania, così come questa Lituania è tornata a lui, nel precipitato della poesia. Per un breve, e forzatamente incompleto, excursus nell’universo miłoszano, proponiamo Obłoki (Nuvole), un testo del periodo “catastrofista”, Veni Creator, epifania mancata e occultamento di Dio, Pan Anusewicz (Il signor Anusewicz), ovvero la circolarità del tempo nella forma-poesia:

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Obłoki Obłoki, straszne moje obłoki, jak bije serce, jaki żal i smutek ziemi, chmury, obłoki białe i milczące, patrzę na was o świcie oczami łez pełnemi i wiem, że we mnie pycha, pożądanie i okrucieństwo, i ziarno pogardy dla snu martwego splatają posłanie, a kłamstwa mego najpiękniejsze farby zakryły prawdę. Wtedy spuszczam oczy i czuję wicher, co przeze mnie wieje, palący, suchy. O, jakże wy straszne jesteście, stróże świata, obłoki! Niech zasnę, niech litościwa ogarnie mnie noc.8 Nuvole Nuvole, mie nuvole tremende, come batte il cuore, rimpianto e mestizia della terra nubi, nuvole bianche e silenziose, vi guardo all’alba con occhi pieni di lacrime e so che in me l’orgoglio e il desiderio, la crudeltà e il seme del disprezzo intrecciano il giaciglio per un sogno morto, e i colori più belli della mia menzogna occultarono il vero. Allora abbasso gli occhi e sento in me il soffio secco e ardente della bufera. Oh come siete tremende, custodi del mondo, nuvole! Oh possa io dormire, e mi abbracci la notte pietosa. (da Trzy zimy, Tre inverni) Veni Creator Przyjdź, Duchu Święty, zginając (albo nie zginając) trawy, ukazując się (albo nie) nad głową językiem płomienia, kiedy sianokosy, albo kiedy na podorywkę wychodzi traktor w dolinie orzechowych gajów, albo kiedy śniegi przywalają jodły kalekie w Sierra Nevada. Jestem człowiek tylko, więc potrzebuję widzialnych znaków, nużę się prędko budowaniem schodów abstrakcji. Prosiłem nieraz, wiesz sam, żeby figura w kościele podniosła dla mnie rękę, raz jeden, jedyny. Ale rozumiem, że znaki mogą być tylko ludzkie. Zbudź więc jednego człowieka, gziekolwiek na ziemi (nie mnie, bo jednak znam co przyzwoitość) i pozwól abym patrząc na niego podziwiać mógł Ciebie.9 Veni Creator Vieni, Spirito Santo, curvando (oppure non curvando) l’erba,

8 C. Miłosz, Trzy zimy, Związek Zawodowy Literató w Polskick, Wilno-Warszawa 1936. 9 Id., Miasto bez imienia, Instytut Literacki, Paryż 1969.

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apparendo (oppure no) sul capo come lingua di fiamma, al tempo delle fienagioni, o quando va il trattore per solchi nella valle dei boschi di noci, o quando la neve rovescia abeti mutilati nella Sierra Nevada. Sono soltanto un uomo - ho dunque bisogno di visibili segni, mi stanco presto costruendo scale di astrazioni. Pregavo talvolta (Tu lo sai) che in chiesa una statua sollevasse per me la mano - una, un’unica volta. Ma lo capisco, i segni possono essere solamente umani. Desta allora un uomo, in un posto qualunque della terra, (non me: almeno so cos’è il decoro) e permetti che - guardandolo - io Ti possa ammirare. (da Miasto bez imienia, La città senza nome) Pan Anusewicz (1922) Anusewicz chce Niny. Dlaczego? Dlaczego? Ryki wyprawia, beczy kiedy popije. Nina śmieje się. Bo czyż nie komiczny? Tłusty a cały w nerwach, ma duże uszy I rusza nimi, zupełny słoń. Granatowa chmura stoi nad San Francisco Kiedy jadęwieczorem wzdłuż Niedźwiedziego Szczytu I za Złotą Bramą, daleko, błysnął ocean. Aj,moi dawno umarli! Aj, Anusewicz! Aj, Nina! Nikt was nie pamięta, nikt o was nie wie. Anusewicz gdzieś w Mińszczyźnie miał swój majątek, Który potem został w Bolszewii, więc teraz chodzi po Wilnie. Kiedy był młody, mama pozwalała mu się wyszumieć, Hulał z szansonistkami, udawał wielkiego pana, Depesze wysyłał: "Prijezdżaju s damami Wstreczat’ muzykoj trojkami i szampanskom" I podpis: "Graf Bobrinskij". Szansonistki. Jakbym widział ich satynowe halki I czarne majtki z koronką.Piersi, za małe, za duże, Zmartwienia dotykań się w lustrze, spóźnego periodu. Potem z nich były siestrice w oknach szpitalnych pociągów (Na czołach opiętych zawojem znak czerwonego krzyża). Nie dla Anusewicza Nina. Patrzcie jak chodzi. Kołysze się z boku na bok niby marynarz. Cały rok w siodle, w ułańskim mundurze. Taka toi z niej panna na wydaniu.Co w niej znalazłeś, panie Anusewicz, Że taki romansowy? Udawałeś grafa, Pewnie i ją ubrałeś w swoje fantazje. I rzeczywiście twoje śmieszne uszy, Prawie przezroczyste, z czerwonymi żyłkami, Ruszają się, a w oczach jakby przerażenie. Żył był raz Anusewicz. Żyła była raz Nina. Jeden raz od początku aż do końca świata. Ja teraz łączę ich, późno, w ceremoniale zaślubin. A naokoło mnie pręgowane, szmaragdookie zwierzęta, Damy z żurnalów mody, szamani zgubionych plemion,

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To znów poważna, z uśmiechem sekretnym, siestrica, Jawią się pośród obłoków, asystują.10 Il signor Anusewicz (1922) Anusewicz vuole Nina. Ma perché - perché? Emette muggiti, piagnucola quando alza il gomito. Nina ride. Non è forse comico? Grasso ma tutto nervi, ha grandi orecchie che muove proprio come gli elefanti. Una nuvola blu sta su San Francisco quando la sera passo per la Vetta dell’Orso e oltre la Porta d’Oro, lontano, l’oceano brilla. Oh miei da tempo morti! Oh Anusewicz! Oh Nina! Nessuno vi ricorda, nessuno sa di voi. Anusewicz aveva le sue tenute presso Minsk, poi passarono ai Bolscevichi, quindi eccolo a Vilna. Da giovane la madre gli permetteva di sfogarsi, faceva baldoria con le canzonettiste, faceva il gran signore, mandava telegrammi: “Arrivo con le dame preparate musica carrozze e champagne” e la firma: “Conte Bobrinskij”. Canzonettiste. Come se vedessi le loro sottovesti di raso, le mutandine nere, il pizzo. Il seno, troppo, troppo poco, l’ansia di toccarsi allo specchio, il periodo in ritardo. Poi, molte divennero sorelle alle finestre dei treni-ospedale (le fronti strette da una fascia con la croce rossa). Non è per Anusewicz, Nina. Guardate come cammina. Si dondola in qua e in là, che sembra un marinaio. Sempre in sella in divisa da ulano. E lei è una signorina da marito. Che cos’hai visto in Nina, signor Anusewicz, che sei così sentimentale? Fingevi d’esser conte, e certo, nelle tue fantasie, l’hai abbellita. E veramente le tue orecchie buffe, quasi trasparenti, con venuzze rosse si muovono, e negli occhi passa uno spavento. Una volta visse Anusewicz. E visse Nina. Quell’unica volta dall’inizio del mondo alla sua fine. Ed ora, tardi, con questa cerimonia nuziale io li unisco. E intorno a me striati animali dagli occhi smeraldini, signore da giornali di moda, sciamani di tribù perdute, e ancora, seria, una sorella col suo sorriso segreto appaiono tra le nuvole, e assistono. (da Kroniki, Cronache) E ancora vorrei presentare l’antinichilismo, la fede nella vita che «è felicità», e la consapevolezza stoica della no man’s land, della morte come «terra senza grammatica» in due brevi e bellissime liriche, Godzina (L’ora) e Oset, pokrzywa (Il cardo, l’ortica): 10 C. Miłosz, Kroniki, Instytut Literacki, Paryż 1988.

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Godzina Jarzące słońce na liściach, gorliwe buczenie trzmieli, Gdzieś z daleka, zza rzeki, senne gaworzenie I nieśpieszne stukanie młotka nie mnie jednego cieszyły. Zanim otwarto pięć zmysłów, i wcześniej niżeli początek Czekały, gotowe, na wszystkich którzy siebie nazwą: śmiertelni, Żeby jak ja wysławiali życie to jest szczęście.11

L’ora Il sole che avvampa sulle foglie, lo zelante ronzio del calabrone, e lontano, oltre il fiume, un assonnato cinguettare e un lento picchiettare di martello non me soltanto rallegravano. Prima che i cinque sensi si schiudessero, e ancora prima dell’inizio aspettavano, pronti, tutti coloro che si dicono: mortali, perché come me glorificassero la vita che è felicità. (da Gdzie wschodzi słońce i kędy zapada, Dal sorgere del sole al suo tramonto) Oset, pokrzywa (...) "le chardon et la haute Ortie et l’ennemie d’enfance belladonna" O. Milosz Oset, pokrzywa, łopuch, belladonna Mają przyszłość. Ich są pustkowia I zardzewiałe tory, niebo, cisza. Kim będę dla ludzi wiele pokoleń po mnie Kiedy po zgiełku języków weźmie nagrodę cisza? Miał mnie okupić dar układania słów Ale muszę być gotów na ziemię bez-gramatyczną. Z ostem, pokrzywą, łopuchem, belladonną, Nad którymi wietrzyk, senny obłok, cisza.12 Il cardo, l’ortica (...) “le chardon et la haute Ortie et l’ennemie d’enfance belladonna” O. Milosz

Cardo, ortica, bardana, belladonna, hanno un futuro. A loro appartengono i deserti e le rotaie arrugginite, il cielo ed il silenzio. Chi sarò per gli uomini delle generazioni future quando, passato lo strepito delle lingue, il silenzio trionferà? Doveva riscattarmi il dono di comporre parole ma devo essere pronto ad una terra senza grammatica. Con cardo, ortica, bardana, belladonna, e sopra la brezza, la nube del sonno, il silenzio.

11 C. Miłosz, Gdzie wschodzi słońce i kędy zapada, Instytut Literacki, Paryż 1974. 12 Id., Dalsze okolice, Znak, Kraków 1991.

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(da Dalsze okolice, Le regioni ulteriori) La radice etica e compartecipe della poesia polacca, come sopra dicevamo, è individuabile anche nei poco più giovani Tadeusz Różewicz, Zbigniew Herbert e Wisława Szymborska, che iniziano a pubblicare negli anni Cinquanta. Mentre Różewicz, autore caratterizzato all’inizio da un tono non metafisico e sapienziale ma ideologizzante e figurativo, è alfine approdato a un teso e terso esistenzialismo, Herbert, nato in quella Leopoli teatro di tragiche incongruità della storia, innamorato dei filosofi stoici, divide con Miłosz la concezione del poeta come testimone, il rifiuto di una poesia soggettivistica, la vocazione metafisica che si esprime con un discorso scabro e petroso, e spesso si serve di exempla, di una certa figuratività allegorica. Leggiamo: la prima lirica è un’allegoria storica, la seconda, una severa elegia dedicata ai partigiani dell’Armja Krajowa: Domysły na temat Barabasza Co stało się z Barabaszem? Pytałem nikt nie wie Spuszczony z łańcucha wyszedł na białą ulicę mógł skręcić w prawo iść naprzód skręcić w lewo zakręcić się w kółko zapiać radośnie jak kogut On Imperator własnych rąk i głowy On Wielkorządca własnego oddechu Pytam bo w pewien sposób brałem udział w sprawie Zbawiony tłumem przed pałacem Pilata krzyczałem tak jak inni uwolnij Barabasza Barabasza Wolali wszyscy gdybym ja jeden milczał stałoby się dokładnie tak jak się stać miało A Barabasz być może wrócił do swej bandy W górach zabija szybko rabuje rzetelnie Albo założył warsztat garncarski I ręce skalane zbrodnią czyści w glinie stworzenia Jest nosiwodą poganiaczem mułów lichwiarzem właścicielem statków - na jednym z nich żeglował Paweł do Koryntian lub - czego nie można wykluczyć - stał się cenionym szpiclem na żołdzie Rzymian Patrzcie i podziwiajcie zawrotną grę losu o możliwości potencje o uśmiechy fortuny A Nazareńczyk został sam bez alternatywy ze stromą ścieżką krwi13 Ipotesi su Barabba Cosa ne è stato di Barabba. Ho chiesto nessuno lo sa Libero da catene uscì sulla bianca via poteva svoltare a destra proseguire dritto svoltare a sinistra girare in cerchio erompere in un canto di festa come un gallo Egli Imperatore delle proprie mani della propria testa

13 Z. Herbert, Elegia na odejście, Instytut Literacki, Paryż 1990.

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Egli Governatore del proprio respiro Lo chiedo perché in certo modo ho preso parte all’affare Attratto dalla folla davanti al palazzo di Pilato gridavo così come gli altri libera Barabba Barabba Acclamavano tutti se io solo avessi taciuto sarebbe accaduto esattamente quello che doveva accadere E forse Barabba è tornato alla sua banda Sulle montagne uccide rapido saccheggia per bene Oppure ha messo su un negozio, fa ceramiche e monda nell’argilla della creazione le mani macchiate dal delitto È portatore d’acqua mulattiere usuraio proprietario di navi – su di una Paolo faceva vela per Corinto oppure – cosa non da escludersi è diventato una spia preziosa al soldo dei Romani Guardate e ammirate il gioco da vertigine del destino su possibilità potenze sorriso della fortuna E il Nazareno è rimasto solo senza alternativa con uno scosceso sentiero di sangue (da Elegia na odejście, Elegia per l’addio) Wilki Marii Oberc Ponieważ żyli prawem wilka historia o nich głucho milczy pozostał po nich w kopnym śniegu żółtawy mocz i ten ślad wilczy szybciej niż w plecy strzał zdradziecki trafiła serce mściwa rozpacz pili samogon jedli nędzę tak się starali losom sprostać już nie zostanie agronomem "Ciemny" a "Świt" - księgowym "Marusia" - matką "Grom" - poetą posiwia śnieg ich młode głowy nie opłakała ich Elektra nie pogrzebała Antygona i będą tak przez całą wieczność w głębokim śniegu wiecznie konać przegrali dom swój w białym borze kędy zawiewa sypki śnieg nie nam żałować - gryzipiórkom - i gładzić ich zmierzwioną sierść ponieważ żyli prawem wilka historia o nich głucho milczy został na zawsze w dobrym śniegu

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żółtawy mocz i ten trop wilczy14 Lupi a Maria Oberc Poiché vissero con legge di lupo la storia li copre d’un cupo silenzio di loro restò nella neve fitta urina giallastra e una traccia di lupo più rapida dello sparo in schiena traditore colpì il cuore la disperazione vendicativa bevvero vodka scadente mangiarono miseria così cercarono di tener testa al destino ormai non diventerà agronomo “lo Scuro” - né ragioniere “il Chiaro” non diventerà madre “Marusia” né “il Fulmine” poeta – incanutisce la neve le loro giovani teste Elettra non li pianse non li seppellì Antigone così per sempre nella neve fonda durerà eterna la loro agonia persero la loro casa in una bianca selva donde turbinando viene la friabile neve non sta a noi – scribacchini - compiangerli e accarezzarne il pelame scompigliato poiché vissero con legge di lupo la storia li copre d’un cupo silenzio restò per sempre nella neve mite urina giallastra e una pesta di lupo

(da Rovigo)

La stessa inquietudine metafisica, lo stesso esprit de géometrie nell’espressione, l’asciuttezza ironica, si possono ritrovare nei versi di Szymborska con meno, probabilmente, scabra profondità tragica, ma con in più una peculiare vena “minimalista”, sensibile al prodigioso che è nel quotidiano, oggetto di attenzione minuziosa: è il dato concreto che accende la fantasia lirica della poetessa, che odia la generalizzazione astratta. Nella sua opera i grandi temi tralucono nelle piccole cose; il fuoco della lente è sempre sui particolari; ogni esistenza è singolare, precaria e irripetibile. Pure questa scrittrice agnostica, spaventata per sua stessa ammissione dal caos, non a caso si attiene al particulare, e spesso nelle sue poesie sfrutta l’immagine del quadro o della cornice in cui si entra o da cui si parla, come, ad esempio, nelle liriche Pejzaż (Paesaggio), Kobiety Rubensa (Le donne di Rubens), Pamięć nareszcie (La memoria infine) - non è mai disperata. Anche perché la sua poesia partecipa ampiamente di quella caratteristica di appartenenza a una collettività senziente e compaziente, secondo il senso latino, di quel passaggio dall’io al noi tipico, come ha rilevato Miłosz, della poesia polacca; in questo, com’egli dice, arditamente antinovecentesca. Vorrei proporre, della Szymborska, il testo Chmury (Nuvole), da paragonare magari all’omonima lirica di Miłosz. Anche qui le nuvole hanno un loro passo disumano, inquietante, ma il linguaggio è quello dell’amusement, del gioco: 14 Z. Herbert, Rovigo, Wyd. Dolnośląskie, Wrocław 1992.

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Chmury Z opisywaniem chmur musiałabym się bardzo śpieszyć - już po ułamku chwili przestają być te, zaczynają być inne. Ich właściwością jest nie powtarzać się nigdy w kszałtach, odcieniach, pozach i układzie. Nie obciążone pamięcią o niczym, unoszą się bez trudu nad faktami. Jacy tam z nich świadkowie czegokolwiek - natychmiast rozwiewają się na wszystkie strony. W porównaniu z chmurami życie wydaje się ugruntowane, omal że trwałe i prawie że wieczne. Przy chmurach nawet kamień wygląda jak brat, na którym można polegać, a one, cóż, dalekie i płoche kuzynki. Niech sobie ludzie będą, jeśli chcą, a potem po kolei każde z nich umiera, im, chmurom nic do tego wszystkiego bardzo dziwnego. Nad całym Twoim życiem i moim, jeszcze nie całym, paradują w przepychu jak paradowały. Nie mają obowiązku razem z nami ginąć. Nie muszą być widziane, żeby płynąć15. Nuvole Per descrivere le nuvole dovrei proprio sbrigarmi – già dopo una frazione di secondo non sono più quelle, iniziano ad essere altre. È nella loro natura non ripetere mai le loro forme, le sfumature, le disposizioni. Non gravate dalla memoria delle cose, si levano sopra i fatti senza difficoltà. Di cosa mai potrebbero essere testimoni – immediatamente ovunque si disperdono.

15 W. Szymborska, Widok z ziarnkiem piasku. 102 wiersze, “a5”, Poznań 1996.

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Paragonata con le nuvole la vita sembra avere buone fondamenta, a dir poco durevoli, quasi eterne. Accanto alle nuvole persino la pietra sembra una sorella sulla quale si può contare e loro, be’, lontane e volubili cugine. Vivano pure gli uomini, se vogliono, e muoiano poi tutti ad uno ad uno, loro, le nuvole, a queste stranezze sono indifferenti. Sull’intera tua vita e sulla mia, ancora non compiuta, si pavoneggiano fastose, come un tempo. Non hanno l’obbligo di morire con noi. E per scorrere, non devono esser viste. (da Widok z ziarnkiem piasku. 102 wiersze, Veduta con un granello di sabbia. 102 poesie) Altri poeti della mia costellazione polacca li posso ritrovare, infine, in Krzysztof Karasek e Adam Zagajewski, non tanto o non solo per quello che hanno saputo dire all’interno di Nowa Fala, quanto per gli interessanti e personalissimi raggiungimenti della loro opera ulteriore e più recente. Bibliografia Antologie G. Origlia, "Nowa Fala", Nuovi poeti polacchi, Guanda, Milano1981. J. Pomianowski, Guida alla moderna letteratura polacca, Bulzoni, Roma 1973. C. Verdiani, Poeti polacchi contemporanei, Silva, Genova 1961. Józef Czechowicz J. Czechowicz, Kamień, Bibljoteca Reflektora, Lublin 1927. Id., Dzień jak codzień, F. Hoesik, Warszawa 1930. Id., Ballada z tamtej strong, Droga, Warszawa 1932. Id., Stare kamienie, [s.n.], Lublin 1934; Id., W błyskawicy, [s.n.], Warszawa 1934) Id., Nic więcej, [s.n.], Warszawa 1936 Id., Arkusz poetycki, [s.n.], Warszawa 1938. Id., Nuta człowiecza, [s.n.], Warszawa 1939. Konstanty Ildefons Gałczyński K.I. Gałczyński, Wiersze, Oficyna Księgarska, Warszawa 1946.

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